Il Miracolo Di Riva

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IN VIAGGIO CON MENO SOLDI E PIÙ CUORE OGGI lo scudetto possono vincerlo in pochi, e quei pochi diventeranno sempre meno: Juve e Milan soprattutto, ogni tanto la Roma, magari prima o poi l'Inter, forse la Lazio. Eppure c'è stata un'epoca, non remota, in cui si diventava campioni d'Italia anche in provincia. In tempi per niente globali ma forse più attenti, con scarsa comunicazione diffusa ma più curiosità, era possibile scovare e acquistare il diciottenne Luigi Riva da Leggiuno, Varese, alla cifra di trentasette milioni e mezzo di lire: lo fece il Cagliari, e fu il primo mattone dello scudetto '70. In tempi meno dominati dallo sponsor, in cui il presidente del Verona era un semplice importatore di macchine fotografiche, era possibile chiamare un allenatore schivo come Osvaldo Bagnoli, e mettergli in mano una squadra composta da seconde scelte di grandi club, gente chiusa e desiderosa di nuovi spazi: così fu vinto allo stadio Bentegodi, non all’Olimpico o a San Siro, lo scudetto 1985. In tempi già accerchiati da un modernismo distruttivo, la Samp di Paolo Mantovani e Vujadin Boskov riuscì a trattenere i campioni che Juve e Milan e Inter avrebbero voluto ad ogni costo: il petroliere gentiluomo riceveva tutti, ascoltava ogni offerta e poi declinava con un sorriso. Riusciva a farlo persino con l'avvocato Agnelli, che un giorno decise di acquistargli in blocco Vialli, Mancini, Vierchowod. Il padrone della Fiat (allora, la Fiat era ancora tutta intera) si tenne il desiderio, e Mantovani si tenne i suoi campioni e lo scudetto '91. A distanza di quasi 34 anni dal Cagliari tricolore, diciotto dal Verona e tredici dalla Samp, abbiamo incontrato tre testimoni di epoche in cui vincevano anche le persone, non solo le metropoli, le grandi multinazionali. E si parlava meno di business. Il viaggio comincia da Cagliari con Gigi Riva, protagonista dello scudetto dell’orgoglio sardo. Continuerà con Osvaldo bagnoli, pensionato sulla collina di Verona senza rimpianti, e si concluderà con i ricordi di Boskov al tiepido sole di Nervi. Abbiamo passeggiato con loro nei luoghi delle loro vecchie storie, che non hanno mai abbandonato. Nessun tuffo nella nostalgia, solo il ritratto di tempi molto lontani ma non perduti, non vissuti invano, quando il calcio poteva ancora permettersi di usare le persone come misura delle cose. IL MIRACOLO DI RIVA Con Gigi per le vie di Cagliari: “Arrivai a 18 anni, ne ho quasi 60: sono il calciatore che ha avuto più di tutti” “Ci chiamavano pecorai siamo diventati un mito” CAGLIARI - «Perché comunque, alla fine, c’è sempre questo mare, questo mare in mezzo». Il signor Luigi Riva abita in una casetta appena fuori Cagliari, verso Pirri, dove questo mare è un abbaglio e un odore. È la zona delle tramvie, parola che nel continente non si usa quasi più. Quando esce di casa, lui e la sua faccia azteca o forse da antico guerriero omerico, una faccia immaginata prima sui libri di epica e poi sull’album delle figurine, c'è un bambino che s'avvicina e gli fa: «Ciao Gigi». Lui risponde con una strizzata d'occhi. «Nessuno mi dà del lei, neppure i giovanissimi. Mi chiamano per nome, mi salutano e qualche volta mi dicono grazie. E io penso, grazie di cosa? Poi considero che forse i loro padri gli avranno raccontato». Tra un anno ne compirà sessanta. E quasi trentaquattro ne sono passati dai giorni dello scudetto. «C'è questo mare in mezzo. La nostra avventura, all'inizio e per molto tempo, fu soprattutto una faccenda aeroportuale. Esistevano solo gli aerei a elica, i Viscount che non salivano oltre i quattromila metri, così tutti i temporali erano nostri. Martiradonna soffriva tremendamente. Si dava di stomaco, si arrivava sul continente sfasati. Tre scali per raggiungere Milano: Alghero, Genova e Linate, ci voleva mezza giornata, ma con la nave si perdeva un giorno intero. Infine inventarono i Caravelle ei Dc8, e andò meglio». Gigi Riva vide per la prima volta la Sardegna da un oblò, nell'azzurro che lo teneva lontano e forse protetto dal futuro. «Stavamo andando a Siviglia con la nazionale juniores, io giocavo nel Legnano e avevo diciotto anni. Il pilota disse che si stava sorvolando la Sardegna, guardai sotto e pensai: questi poveracci stanno peggio di me, che pure arrivo da un paesino. Dopo la partita di ritorno, al Flaminio, il Cagliari mi comprò per trentasette milioni e mezzo. E io decisi: laggiù non ci vado assolutamente!» A quell’epoca, nello sport come per i militari di leva, la Sardegna era una punizione. «Ai giocatori indisciplinati si diceva “ti sbatto in Sardegna!”. La Fiorentina lo fece con Albertosi e Brugnera. Andai a vedere com’era Cagliari solo per non dare un dispiacere al presidente del Legnano, il signor Caccia che

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IN VIAGGIO CON MENO SOLDI E PIÙ CUOREOGGI lo scudetto possono vincerlo in pochi, e quei pochi diventeranno sempre meno: Juve e Milan soprattutto, ogni tanto la Roma, magari prima o poi l'Inter, forse la Lazio. Eppure c'è stata un'epoca, non remota, in cui si diventava campioni d'Italia anche in provincia. In tempi per niente globali ma forse più attenti, con scarsa comunicazione diffusa ma più curiosità, era possibile scovare e acquistare il diciottenne Luigi Riva da Leggiuno, Varese, alla cifra di trentasette milioni e mezzo di lire: lo fece il Cagliari, e fu il primo mattone dello scudetto '70. In tempi meno dominati dallo sponsor, in cui il presidente del Verona era un semplice importatore di macchine fotografiche, era possibile chiamare un allenatore schivo come Osvaldo Bagnoli, e mettergli in mano una squadra composta da seconde scelte di grandi club, gente chiusa e desiderosa di nuovi spazi: così fu vinto allo stadio Bentegodi, non all’Olimpico o a San Siro, lo scudetto 1985.In tempi già accerchiati da un modernismo distruttivo, la Samp di Paolo Mantovani e Vujadin Boskov riuscì a trattenere i campioni che Juve e Milan e Inter avrebbero voluto ad ogni costo: il petroliere gentiluomo riceveva tutti, ascoltava ogni offerta e poi declinava con un sorriso. Riusciva a farlo persino con l'avvocato Agnelli, che un giorno decise di acquistargli in blocco Vialli, Mancini, Vierchowod. Il padrone della Fiat (allora, la Fiat era ancora tutta intera) si tenne il desiderio, e Mantovani si tenne i suoi campioni e lo scudetto '91.A distanza di quasi 34 anni dal Cagliari tricolore, diciotto dal Verona e tredici dalla Samp, abbiamo incontrato tre testimoni di epoche in cui vincevano anche le persone, non solo le metropoli, le grandi multinazionali. E si parlava meno di business. Il viaggio comincia da Cagliari con Gigi Riva, protagonista dello scudetto dell’orgoglio sardo. Continuerà con Osvaldo bagnoli, pensionato sulla collina di Verona senza rimpianti, e si concluderà con i ricordi di Boskov al tiepido sole di Nervi. Abbiamo passeggiato con loro nei luoghi delle loro vecchie storie, che non hanno mai abbandonato.Nessun tuffo nella nostalgia, solo il ritratto di tempi molto lontani ma non perduti, non vissuti invano, quando il calcio poteva ancora permettersi di usare le persone come misura delle cose.

IL MIRACOLO DI RIVACon Gigi per le vie di Cagliari: “Arrivai a 18 anni, ne ho quasi 60: sono il calciatore che ha avuto più di tutti”

“Ci chiamavano pecorai siamo diventati un mito”CAGLIARI - «Perché comunque, alla fine, c’è sempre questo mare, questo mare in mezzo». Il signor Luigi Riva abita in una casetta appena fuori Cagliari, verso Pirri, dove questo mare è un abbaglio e un odore. È la zona delle tramvie, parola che nel continente non si usa quasi più. Quando esce di casa, lui e la sua faccia azteca o forse da antico guerriero omerico, una faccia immaginata prima sui libri di epica e poi sull’album delle figurine, c'è un bambino che s'avvicina e gli fa: «Ciao Gigi». Lui risponde con una strizzata d'occhi. «Nessuno mi dà del lei, neppure i giovanissimi. Mi chiamano per nome, mi salutano e qualche volta mi dicono grazie. E io penso, grazie di cosa? Poi considero che forse i loro padri gli avranno raccontato».Tra un anno ne compirà sessanta. E quasi trentaquattro ne sono passati dai giorni dello scudetto. «C'è questo mare in mezzo. La nostra avventura, all'inizio e per molto tempo, fu soprattutto una faccenda aeroportuale. Esistevano solo gli aerei a elica, i Viscount che non salivano oltre i quattromila metri, così tutti i temporali erano nostri. Martiradonna soffriva tremendamente. Si dava di stomaco, si arrivava sul continente sfasati. Tre scali per raggiungere Milano: Alghero, Genova e Linate, ci voleva mezza giornata, ma con la nave si perdeva un giorno intero. Infine inventarono i Caravelle ei Dc8, e andò meglio».Gigi Riva vide per la prima volta la Sardegna da un oblò, nell'azzurro che lo teneva lontano e forse protetto dal futuro. «Stavamo andando a Siviglia con la nazionale juniores, io giocavo nel Legnano e avevo diciotto anni. Il pilota disse che si stava sorvolando la Sardegna, guardai sotto e pensai: questi poveracci stanno peggio di me, che pure arrivo da un paesino. Dopo la partita di ritorno, al Flaminio, il Cagliari mi comprò per trentasette milioni e mezzo. E io decisi: laggiù non ci vado assolutamente!»A quell’epoca, nello sport come per i militari di leva, la Sardegna era una punizione. «Ai giocatori indisciplinati si diceva “ti sbatto in Sardegna!”. La Fiorentina lo fece con Albertosi e Brugnera. Andai a vedere com’era Cagliari solo per non dare un dispiacere al presidente del Legnano, il signor Caccia che per me era quasi un padre. Mi accompagnarono lui e mia sorella, arrivammo di notte. Ma se avessi rifiutato, in tempi di vincolo contrattuale, sarebbe stato l'addio al calcio. Qualche mese più tardi mi fecero alloggiare in foresteria con gli altri ragazzi del Cagliari, era come stare in collegio, ricordo il primo Natale da solo a mille chilometri da casa. Pensavo: gioco un campionato qui, il ‘63 – ‘64, poi mi trasferisco al nord. Però quel campionato di B lo vincemmo, e il Cagliari rifiutò le offerte dell'Inter e dei Bologna».Sotto la statua di Carlo Felice, Gigi Riva lo indicano col dito. «Capii che non me ne sarei andato quando arrivammo secondi, quando ci tolsero lo scudetto con decisioni arbitrali molto discutibili. I compagni venivano da me con discrezione e mi dicevano: Gigi, è stato bello, ma se te ne vai finisce tutto. Capii che sarei rimasto quando si andava in trasferta a Milano, a Torino, e ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord. Non esisteva la Costa Smeralda, non c’era mica l’Aga Khan, questa bellissima terra non l’avevano ancora massacrata. Noi, che pure eravamo solo calciatori, le demmo un nome. Eravamo una questione d’orgoglio, di rivincita per tanta gente. Ed eravamo una squadra completa, giusta sul campo in ogni ruolo. A Milano, una volta, un arbitro si rivolse a Suarez chiamandolo “signor Suarez”, e a un mio compagno invece urlò “se non stai zitto ti sbatto fuori”. Non ci sentivamo soltanto la squadra di Cagliari, ma il simbolo di tutta la Sardegna. Io rispondevo alle ingiustizie a muso duro, e spesso mi perdonavano perché ero importante per la nazionale e non potevano squalificarmi: allora, gli squalificati non venivano convocati». E il Cagliari si stava allargando in azzurro: «C’eravamo io, Domenghini, Cera, Albertosi e Niccolai. E di scudetti potevamo vincerne due: nel ’70 – ’71 eravamo in testa alla quinta giornata, avevamo vinto 3 – 1 a San Siro con l’Inter e 4 – 1 all’Olimpico contro la Lazio. Ma poi mi ruppi la gamba».C’è quest’aria tiepida, profumata. Bisogna socchiudere gli occhi per non farsi imbambolare dalla luce. «Angelo Moratti diede un sacco di soldi al Cagliari per congelarmi, perché non fossi venduto a nessuno. Boniperti ci scherza e mi aggredisce ancore, quando mi incontra: in tasca ha sempre il foglio a quadretti dove il nostro presidente scrisse cosa voleva per vendermi: Bettega, Capello, uno tra Marchetti, Gentile e Cuccureddu, più Boni della Sampdoria,

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Casarsa del Bari, Brignani del Cesena, e inoltre che gli piazzassero Albertosi per avere un altro portiere. Rifiutai la Juve, rifiutai l’Inter e il Milan di Buticchi. Ma a San Siro, verso il settantesimo minuto, quando avevamo già segnato tre gol il pubblico smetteva di gridare pecorai e qualche volta applaudiva».La maglia bianca con i laccetti, la pubblicità della birra Ichnusa allo stadio. C’era in panchina un allenatore che chiamavano filosofo, Manlio Scopigno, un nome come un groviglio da pronunciare e anche lui era cosi, complesso. I continentali all’inizio sbagliavano l’accento dello stadio Amsicora, lo chiamavano Amsicòra. «Alle undici di mattina era già pieno. Il pallone calciato forte aveva lì dentro un suono cupo, e i tifosi battevano i piedi sulle pedane di legno: come un temporale, qui che non piove mai. E non c’era latitante in Supramonte che non tenesse con sé una radiolina, non c’era pastore nel capanno che non ascoltasse “Tutto il calcio minuto per minuto”. Una squadra forte, compatta, orgogliosa. Un ottimo allenatore. Il mio sinistro. Il carattere di una terra. Tutto questo, credo, ci portò allo scudetto».Dentro il bar, la gente si avvicina a Riva e lo chiama Gigi. Sempre, anche qui. Come un tesoro a portata di mano, una bandiera nel vento. «Bisogna immaginare una cosa enorme: questo accadde, nel ‘70. La Sardegna non aveva niente di niente, non c’erano discoteche, bowling, non si facevano gite, il turismo non esisteva. C’era la domenica e c’era la partita. Oggi viene la gente del Varesotto, si sposta a Porto Cervo e poi racconta di avere visto la Cucinotta e Berlusconi. Di fronte alla volgarità dello sviluppo si è sempre impotenti. Qui hanno costruito fabbriche con gli scarichi sul lungomare, hanno rovinato il golfo di Cagliari. Io, nel giorno di riposo andavo all’interno, volevo vedere, volevo provare a capire. Mi spingevo fino a Orgosolo, erano i tempi di Mesina latitante. Seppi che il suo primo delitto avvenne perché gli avevano ammazzato una pecora. E io non parlo per giustificare, mi interessa conoscere: questa gente abbandonata da Dio, fuori da un mondo che si chiamava e che si chiama Italia, senza scuole, senza lavoro, senza regole, senza futuro. Da una parte la pecora ammazzata, dall’altra gli yacht: e allora può nascere un certo risentimento».Adesso Gigi Riva fa un piccolo, lunghissimo silenzio. Si direbbe che stia pensando a qualcuno. «Anche Fabrizio De Andrè provò a capire, e s’innamorò di questa terra. Io non ho mai avuto paura dei rapimenti. Un giorno andai in un paesino che si chiama Seui, entrai con un amico in una casa piccolissima dove una vecchia ci offrì da bere. Sulla credenza teneva le foto dei figli e dei nipoti, e lì accanto una mia immagine. Mi strinse la mano e mi disse grazie, con un filo di voce, grazie Gigi Riva per quello che fai per noi».Una casa a Cagliari, una nel paradiso di Chia («Ma è sempre occupata da figli e nipoti»),poi un monolocale a Is Molas, dentro il parco del golf. «Guardavo i giocatori dal balcone e non li capivo, mi sembravano gente strana, una cosa da vecchietti o da snob. E poi la fatica di spingere quei carrellini assurdi. A pranzo li sbirciavo, e avevo la curiosità di provare. Però non ci sono ferri per i mancini, è più difficile. Finché un giorno mi arrivò da Roma uno strano regalo, cioè un set di ferri adatti a me. Li lasciai per un po’in magazzino, e un giorno dissi: vado anch’io. La prima pallina la centrai, però andò dove voleva lei. Allora comprai dodici secchielli per un totale di 480 palline, e le presi a mazzate per tutto il pomeriggio. La sera, nel letto, continuavo a pensarci e non riuscii a dormire. La mattina dopo ricominciai, da autodidatta. Gli amici mi correggevano, io leggevo il regolamento del golf su un libricino e ormai gioco da dieci anni, forse perché questo sport mi assomiglia: si fa da soli. Anche in campo ero così, individualista».Resterebbe da capire come si vive insieme a Gigi Riva essendo Gigi Riva. Quanto sia ingombrante la leggenda, perché di questo si tratta. «lo non lo so. Da un lato c’è gioia, enorme, per quello che mi è successo: penso di avere avuto molto di più di qualunque altro giocatore di calcio. Perché era diverso il tempo, era diverso il contesto, c’era la Sardegna di mezzo e quell'epoca irripetibile. Non ho mai desiderato viverne un’altra. Dall’altro lato, mi dico che in fondo sono stato solo un bravo atleta, un bravo professionista, uno che ha preso a calci un pallone. Ma sarei uno sciocco se non sapessi che quello che facemmo andò molto oltre lo sport, e in quella strana dimensione l’impresa è rimasta, intoccabile, direi ferma per sempre».Al tramonto sul mare c’è ancora una luce spaventosa. «Sono restato qui dai diciotto ai sessant'anni: tutta una vita. Se avessi vinto tre Coppe dei Campioni con la Juve, oggi nessuno mi manderebbe una cartolina da Cagliari, a me che ci vivo, scrivendo solo grazie. E quando penso che ho fatto contenta tanta gente, sono contento anch’io».