Il cittadino
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ECCO IL VERO PROBLEMA
Dal primo istante in cui
l’umanità ha iniziato a parlare
liberamente dell’idea di nazione
è subito emersa una questione
etico-politica
fondamentale:devono essere
considerati “cittadini”, soggetti
di diritti, tutti gli individui che
vivono e lavorano all’interno del
territorio nazionale
indipendentemente dalla loro
specifica appartenenza a un
gruppo naturale, etico o sociale;
oppure occorre stabilire
differenze tra gli individui, non
una gerarchia di “cittadini”, non
una scala di valori tra gruppi
diversi, ma semplicemente una
differenziazione di diritti e doveri
senza limitare o ledere la libertà
sociale e politica di alcun
soggetto? E’ giusto, eticamente
e politicamente, riconoscere
diritti diversi, ad esempio,
all’uomo e alla donna?
CONTINUA A PAGINA 2
Volume 1, Numero 1
Gennaio 2010
DOSSIER DEL MENSILE:
Abbiamo chiesto a 141
studenti (età compresa
tra i 17 e i 25 anni) e a
109 adulti se oggi le
norme che disciplinano i
diritti tengono conto
delle differenze naturali
fra uomini e donne. Ecco
le risposte al nostro
sondaggio.
CONTINUA A PAGINA 11
OGGI IN ITALIA:
CITTADINANZA “CIECA” O DIFFERENZIATA?
L’asilo dei papà: ma le mamme lo accettano?
Edizione scuole
LE STATISTICHE DI GENERE
Cittadinanza differenziata
Pag.2
Cittadinanza “cieca” Pag.3
Statistiche di genere Pag. 4
Costituzione Pag. 10
Sondaggio cittadino Pag. 11
SOMMARIO
SECONDO VOI...
I sistemi sociali che si sono affermati, fuori e dentro l’Europa,
nel corso della storia hanno quasi sempre attribuito alla
donna un ruolo subalterno rispetto a quello esercitato
Anche se i primi cambiamenti per quanto riguarda
l’emancipazione femminile si verificarono, in Occidente, verso
la fine del Settecento, tuttavia molto resta ancora da fare per
realizzare pari opportunità tra uomini e donne.
CONTINUA A PAGINA 4
COSA DICE LA
COSTITUZIONE?
La nostra costituzione garantisce: pari dignità e libertà sociale di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali. Inoltre riconosce uguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti della legge a garanzia dell’unità familiare; e prevede stessi diritti e stesse retribuzioni per lavoratore e lavoratrice. Infine stabilisce diritti specifici e agevolazioni per l’uno e l’altro sesso ma questi forse non
bastano.
CONTINUA A PAGINA 10
CITTADINANZA DIFFERENZIATA
Con il termine “cittadinanza differenziata”
si indica un particolare tipo di
cittadinanza, il cui aspetto fondamentale è
il riconoscimento dei gruppi etico – sociali
e l‟attribuzione di diversi diritti, e in alcuni
casi anche di diversi doveri, a ciascun
gruppo. Si ha quindi una cittadinanza
differenziata quando lo Stato, che è
l‟organo politico in cui generalmente si
riconosce la nazione, ammette che
all‟interno del proprio territorio sono
presenti altri gruppi etico – sociali oltre a
quello che ha creato la stessa nazione.
Un esempio di cittadinanza differenziata
può essere quello dell‟Italia moderna;
infatti, nel periodo che va dalla fine della
Prima Guerra Mondiale (1919) al XXI
secolo, nel nostro Paese sono state
approvate numerose riforme che si
rispecchiano idealmente nel concetto di
cittadinanza differenziata.
Sono state istituite alcune regioni a statuto
speciale (come il Trentino – Alto Adige; la
Valle d‟Aosta; il Friuli – Venezia Giulia;
la Sicilia e la Sardegna) che si
differenziano da altre regioni per alcune
caratteristiche territoriali, in quanto sono o
isole o territori di confine; per lingua,
infatti, nelle regioni di confine è
ufficialmente riconosciuta la doppia
lingua; e per tradizione, ad esempio il
Trentino – Alto Adige è entrato a far parte
del Regno D‟Italia solo dal 1919, quindi
da un punto di vista culturale è molto più
vicino a una nazione tedesca rispetto
all‟Italia. Nelle regioni a statuto speciale si
possono trovare le caratteristiche tipiche
della cittadinanza differenziata, i tre tipi di
diritti che possono essere assegnati a una
minoranza in un territorio nazionale: 1)
diritti multiculturali (il diritto a
un‟istruzione statale in una lingua diversa
da quella italiana ma comunque parlata
dalla maggioranza della popolazione di
quella particolare regione); 2) diritti di
rappresentanza speciale (nel Parlamento
Italiano sono presenti alcuni seggi che
spettano di diritto ai rappresentanti delle
minoranze del Paese, come gli abitanti
delle Province Autonome e gli Italiani
all‟estero); 3) diritti di autogoverno (nelle
regioni a statuto speciale il potere
esecutivo spetta, infatti, al governo
regionale e non a quello centrale; il potere
legislativo è del consiglio regionale, non
del Parlamento).
Inoltre nel 1948, alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, con la stesura della
Costituzione Italiana, è stato concesso il
suffragio universale all‟intera cittadinanza
italiana, così tutte le donne sono entrate a
far parte della politica attiva della propria
nazione dopo lunghi secoli in cui ogni
aspetto della politica era in mano, fino al
„900, agli uomini dei ceti dominanti a cui
si sono successivamente aggiunti la totalità
dei cittadini italiani di sesso maschile
(1911). Questo era il primo passo verso
una cittadinanza differenziata anche per
quanto riguarda il rapporto uomo – donna.
Infatti, nel 1970, in Italia venne approvata
la legge che consentiva al popolo di
rendersi ancora più attivamente partecipi
alla vita politica: il popolo poteva
rappresentanti delle minoranze in
parlamento o nelle varie istituzioni: diritti
riconosciuti a gruppi particolari, diritti,
appunto, di cittadinanza differenziata.
La cittadinanza differenziata è
una scelta politica che garantisce il
riconoscimento a diversi gruppi etico –
sociali di diversi diritti, quindi si può
definire come una politica individualista,
in quanto ogni individuo di ogni gruppo
sociale, sia esso composto da milioni di
persone o da poche centinaia d‟individui,
gode di diritti che, anche se non si possono
definire ad personam, sono comunque
stati creati per favorire il gruppo sociale al
quale appartiene e, per riflesso,
favoriscono lui stesso. Questo però è
possibile solamente in uno stato di diritto. Se infatti lo stato non si assume
il compito di garante dei diritti individuali,
ma si limita ad amministrare
economicamente e giuridicamente la
nazione non è possibile avere una
cittadinanza differenziata. In uno stato non
di diritto la cittadinanza differenziata
verrebbe ad assumere le sembianze di una
cittadinanza discriminatoria: si pensi per
esempio alla Germania del Terzo Reich
(1940); agli Stati Uniti di metà Novecento
(1963: morte di J.F.Kennedy; 1968: morte
di Martin Luther King); al Cile di Pinochet
(1973). Tutti questi stati, anche se
governati da forme di politica diverse
(repubblica in Germania; repubblica
federale negli Stati Uniti; dittatura in Cile)
non garantivano e non riconoscevano
legislativamente l‟uguaglianza e l‟equità
tra gli individui: è stato così possibile che
un gruppo abbia preso il controllo dello
stato e delle istituzioni (con la forza in
Germania e in Cile, a causa
dell‟amministrazione federale negli Stati
Uniti) e abbia varato numerose leggi a
tutela esclusiva del proprio gruppo e
danno dei gruppi etico – sociali in
minoranza: si è così creata non una
cittadinanza differenziata garante di diritti
ma bensì discriminatoria. Sono state varate
leggi che garantivano solamente la
supremazia del più forte; da un punto di
vista filosofico si può dire che lo stato di
diritto si era così trasformato in uno stato
di natura dove il più forte aveva la totale
supremazia sul gruppo etico – sociale in
minoranza. Questo ha portato a genocidi,
tensioni e conflitti sociali, colpi di stato e
persino a una Guerra Mondiale. Questo rappresenta la
degenerazione della cittadinanza
differenziata che può essere considerata la
forma di politica migliore da un punto di
vista sociale, ma rimane comunque
abbastanza difficile da attuare, in quanto in
ogni stato, tranne che in uno stato di
diritto, è possibile usare la cittadinanza
differenziata in modo da favorire il gruppo
sociale dominante: questo crea tensioni
sociali che finiscono per ledere l‟armonia
all‟interno dello stato. Per questo si è
sviluppato nel corso degli anni un nuovo
tipo di cittadinanza che favorisca
“l'integrazione delle diverse culture
all'interno di una democrazia liberale e
pluralista, nella quale cioè tutti i cittadini
rispettino le stesse regole e attribuiscano
valore alla diversità e al dissenso” (G.
Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e
estranei. Saggio sulla società multietnica;
Milano, Rizzoli 2000).
Continua pag. seguente
P A G I N A 2
promuovere una legge o modificarla con
un referendum. Questo consentì, sempre
nel 1970, l‟approvazione della legge che
consente alle donne di chiedere e ottenere
il divorzio, fino ad allora diritto solamente
maschile. L‟allargamento dei diritti delle
donne può, a prima vista, sembrare un
aspetto caratteristico della cittadinanza
cieca, in quanto si concedono alle donne
gli stessi diritti caratteristici della parte di
cittadinanza di sesso maschile, ma in realtà
è il primo passo verso una cittadinanza
differenziata. Infatti il riconoscimento di
un nuovo gruppo etico – sociale, quello
della cittadinanza di sesso femminile, apre
la strada a una differenziazione di diritti:
una volta riconosciuta la differenza tra
cittadini e cittadine, si è iniziato a
modificare alcune leggi e a crearne di
nuove per consentire alla donna prima la
parità di diritti e successivamente di
averne di nuovi (per es. maternità e
pensione anticipata).
Da un punto di vista storico –
filosofico la cittadinanza differenziata è
l‟inevitabile conseguenza della nascita
delle nazioni e degli stati multinazionali e/
o multietnici. Infatti è facile capire come,
in questi stati, le decisioni politiche ed
economiche della nazione o etnia
dominante (numericamente e/o
militarmente) possano ledere le culture
minoritarie o addirittura pregiudicarne le
possibilità di sopravvivenza. Lingua
nazionale, festività ufficiali, istruzione,
accesso alle cariche pubbliche: tutto può
essere controllato dalla nazione o etnia
dominante. Se avviene questo, l‟equità
(che rimane una delle caratteristiche
principali dello stato di diritto) non viene
rispettata: lo stato di diritto deve quindi
intervenire per compensare tale svantaggio
e per garantire la sopravvivenza dei
contesti sociali e culturali in assenza dei
quali i membri delle culture minoritarie
non potrebbero esercitare quei diritti e
quelle libertà che i membri della cultura
maggioritaria danno per scontati. A questo
scopo lo stato deve fornire alle culture
minoritarie strumenti per proteggersi dalle
decisioni della maggioranza (e per
sopravvivere separate, se così scelgono di
essere), come poteri di veto alla
legislazione su linguaggio e cultura, limiti
ai poteri del governo nazionale
sull'amministrazione delle loro terre,
Didascalia dell'immagine o della fotografia
I L C I T T A D I N O
“Per attirare l'attenzione del lettore,
inserire qui una citazione o una frase
tratta dal testo.”
DIFFERENZIATA O “CIECA”?
La cittadinanza da ieri a oggi …. sviluppo ed evoluzione
P A G I N A 3
I L C I T T A D I N O
CITTADINANZA “CIECA”
Con il termine “cittadinanza
cieca” si indica un particolare tipo di
cittadinanza il cui aspetto fondamentale è
il completo abbattimento di ogni
differenziazione etica – sociale e il
mancato riconoscimento di diversi gruppi
etico – sociali all‟interno di una stessa
nazione. Lo Stato, inteso come organo
politico in cui si riconosce una nazione,
non tutela in alcun modo le minoranze
etniche presenti all‟interno del territorio
nazionale ma considera ogni individuo
uguale a tutti gli altri che abitano lo stesso
territorio; ci sono quindi diritti e doveri
uguali per tutti, diritti e doveri che si
rispecchiano nell‟ideale di nazione proprio
del gruppo sociale dominante, il gruppo
sociale in cui si riconosce la nazione (per
es. Italia e italiani; Francia e francesi;
ecc.).
Un esempio di cittadinanza cieca può
essere l‟organizzazione sociale (non
politica) del Cristianesimo dei primi 100-
200 anni d.C. e l’organizzazione politica e
sociale del successivo Stato Pontificio. La
morale cristiana che costituiva la base
della società cristiana dei primi secoli dopo
Cristo si può considerare l‟antenata della
moderna cittadinanza cieca: infatti, nel
Cristianesimo presero molta importanza
valori morali come l‟uguaglianza tra gli
uomini, l‟amore per il prossimo el‟uguale
considerazione che Dio aveva per tutti.
All‟interno di questa società primordiale
non vi era un vero e proprio capo che non
fosse Dio stesso o colui che veniva
considerato come il portavoce delle idee
diffuse da Cristo (San Pietro e
in ambito cristiano prima e
pontificio poi, era molto simile all‟idea che
noi abbiamo di cittadinanza cieca.
Molto simile, ma non uguale in
quanto non esiste un‟organizzazione
politica e sociale del passato che equipari
senza alcuna distinzione l‟uomo alla donna.
Infatti, secondo il concetto di cittadinanza
cieca la donna e l‟uomo non dovrebbero
essere distinti in quanto individui di sesso
diverso, ma dovrebbero essere considerati
esattamente degni degli stessi diritti e
doveri in quanto membri di una stessa
nazione.
doveri. I diritti e i doveri presi a modello
per la nascita della nuova popolazione
nazionale furono quelli piemontesi:
ancora oggi, la nostra Costituzione si
fonda sullo Statuto Albertino del regno
sabaudo.
Questo processo di “italianizzazione”
funzionò relativamente bene e, anche
grazie all‟avvento della televisione nella
seconda metà del Novecento, oggi l‟Italia
è un Paese unito dal punto di vista sociale;
certo, rimangono alcuni pregiudizi e
perplessità riguardo agli abitanti di altre
regioni, ma in generale la popolazione
italiana appare omogenea, esiste
un‟identità nazionale; questo è un merito
della politica della cittadinanza cieca.
Tuttavia in altri Paesi europei
non andò ugualmente bene. E‟ il caso
della Spagna. Unificata già nel 1479, con
il famoso matrimonio tra Ferdinando
d‟Aragona e Isabella di Castiglia, la
Spagna, ancora oggi a regime
monarchico,ha intrapreso sin
dall‟unificazione una politica di
cittadinanza cieca. Sono stati messi a
tacere, spesso con interventi militari e
sanguinose repressioni, tutte i tentativi di
indipendenza attuati dalle regioni basche
e catalane controllate economicamente e
politicamente dal governo centrale di
Madrid. Sia i baschi sia i catalani si
considerano un popolo diverso dal popolo
spagnolo: entrambi parlano una loro
lingua, considerata alla stregua di un
dialetto da parte dell‟amministrazione
centrale; riconoscono una propria
bandiera; s‟identificano in un altro ceppo
etnico rispetto al gruppo sociale spagnolo
(i baschi riconoscono le proprie origini
dal ceppo celtico e non da quello
indoeuropeo, similmente ai bretoni in
Francia e agli irlandesi in Gran Bretagna);
inoltre non considerano l‟inno nazionale
spagnolo come proprio inno nazionale.
Insomma sia i baschi sia i catalani
vogliono la nascita di un altro stato
nazionale diverso e opposto a quello
spagnolo: inseguono la creazione di uno
stato nazionale basco e di uno stato
nazionale catalano. Ma per motivi
economici, più che politici o sociali, il
governo centrale spagnolo ha sempre
negato l‟indipendenza a queste due
regioni: si sono venuti così a creare
numerosi conflitti sociali, esplosi poi in
organizzazioni terroristiche (come l‟ETA)
che compiono atti di guerriglia con il solo
scopo di indebolire il governo centrale e
conquistare l‟indipendenza. La
cittadinanza cieca ha portato, in questo
caso, a una serie di convivenze forzate
all‟interno di quello che dovrebbe essere
uno stato nazionale ma che, in realtà, non
è.
La cittadinanza cieca è garante
di diritti fondamentali quali l‟equità e il
rispetto reciproco ma deve
necessariamente essere limitata a un
territorio in cui effettivamente vive un
solo popolo, un solo gruppo sociale; solo
in questo modo, infatti, sarà possibile
applicare la cittadinanza cieca senza
attuare alcun tipo di discriminazioni che
avranno come inevitabile conseguenza il
lento ma inesorabile indebolimento
dell‟armonia interna e del potere dello
Stato.
“Per attirare l'attenzione del lettore,
inserire qui una citazione o una frase
tratta dal testo.”
Questo tipo di visione della società si ha
per esempio nell‟Italia post-guerra
mondiale, quando alla donna viene
concesso il diritto di voto oltre ad altri
diritti di minore importanza, ma si trattava
solo di una fase di transizione tra il potere
oligarchico tipico del regno monarchico e
quello democratico della repubblica; infatti,
una volta riconosciuti uguali diritti alla
donna, in pochi anni si è passati alla
differenziazione di diritti tra uomo e donna
e quindi a una cittadinanza differenziata.
Da un punto di vista storico –
filosofico la cittadinanza cieca è la forma di
cittadinanza che deriva direttamente
dall‟ideologia nazionalista che è stata
predominante dalla metà dell‟800 sino alla
fine del XX secolo. L‟ideologia
nazionalista, che fra le tante conseguenze
ha portato allo sviluppo delle nazioni, era a
forte impronta etnica: infatti, veniva visto
come necessaria la creazione di alcuni stati
nazionali, per rendere indipendenti tutti i
membri di un particolare gruppo sociale che
era la maggioranza in un determinato
territorio; per questo motivo andava
riconosciuta l‟indipendenza di questo
gruppo in termini politici ed economici: ciò
era possibile solo con la creazione di un
nuovo stato nazionale. All‟interno di questo
nuovo stato, in teoria, doveva vivere solo il
particolare gruppo sociale che aveva lottato
per la sua creazione (in Italia, italiani; in
Francia, francesi; e così via); era tuttavia
difficile identificare esattamente un
territorio in cui viveva un solo gruppo
sociale, infatti, nel periodo tipico del
feudalesimo, le popolazioni europee e
mondiali si erano mischiate.
Così si è arrivati alla creazione di
stati nazionali senza una vera e propria
nazione: per esempio, quando nacque il
Regno d‟Italia, nel 1861, nacque uno stato
nazionale, lo Stato degli italiani, ma non
c‟era una popolazione omogenea nella
penisola. Ogni regione aveva le proprie
caratteristiche sociali profondamente
diverse dalle altre: per rendere l‟Italia uno
stato nazionale vero e proprio era
necessario ricondurre ogni gruppo sociale
(che possiamo identificare all’incirca con
ogni regione) a caratteristiche sociali ed
economiche il più simile possibile a quelle
di ciascun altro gruppo sociale: in poche
parole era necessario omogeneizzare la
popolazione della penisola (“Abbiamo fatto
l‟Italia, ora dobbiamo fare gli italiani” M.
D‟Azeglio). Ciò era possibile solo con una
cittadinanza cieca: andavano garantiti
uguali diritti e uguali doveri a ciascun
gruppo sociale presente nella nazione:
questi dovevano essere i nuovi diritti e i
nuovi doveri degli italiani a cui ciascun
gruppo sociale doveva adeguarsi
tralasciando i vecchi diritti e i vecchi
Didascalia dell'immagine o della fotografia
successivamente i papi). Ogni
individuo aveva esattamente gli stessi
diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri
membri della comunità, allo stesso modo
nella moderna cittadinanza cieca ogni
persona ha esattamente gli uguali diritti e
gli uguali doveri propri di ogni altro
cittadino di quella determinata nazione.
Questo concetto
dell‟uguaglianza tra gli uomini si è anche
sviluppato all‟interno dell‟istituzione più
simile a uno stato nazionale che la Chiesa
abbia mai sviluppato negli anni: lo Stato
Pontificio. Non esiste un governo e sia il
potere esecutivo che quello legislativo,
oltre a quello giudiziario, è proprio solo
del capo supremo dello stato: il Papa; ma il
Papa stesso si dichiara come portavoce,
rappresentante della volontà di Dio in
terra, quindi, da un punto di vista
puramente ideale, si può considerare il
Papa uguale a ogni altro membro dello
Stato Pontificio, inferiore solo a Dio e
superiore a nessun altro. Naturalmente non
fu realmente così, dato che il Papa aveva
praticamente potere di vita e di morte su
chiunque all‟interno del territorio statale e
godeva di una ricchezza che la
maggioranza della popolazione pontificia
riusciva a malapena a immaginare, ma
concettualmente la concezione del potere
L‟Italia è uno dei paesi più longevi
d‟Europa e del mondo. È il
secondo in Europa se si considera
la speranza di vita degli uomini e il
terzo, dopo Spagna e Francia, se si
considera quella delle donne.
L‟aumento della speranza di vita si
deve soprattutto alla diminuzione
della mortalità nelle età anziane,
riconducibile a molteplici fattori di
ordine medico-scientifico e sociale.
In generale le donne vivono più a
lungo degli uomini, anche se il loro
vantaggio nei paesi dell‟Europa
occidentale è andato
assottigliandosi, in conseguenza di
una omogeneizzazione dei
comportamenti e degli stili di vita.
Resta invece notevole nei paesi
Longevità
Famiglia e lavoro
La conciliazione del ruolo di lavoratrice e di madre
rappresenta per le donne di oggi una delle sfide
più complesse. La più intensa partecipazione al
mercato del lavoro fa sì che spesso la donna si
trovi sulle spalle le stesse responsabilità dell‟uomo
fuori casa e un carico ben più gravoso nella vita
familiare. Carico che dipende dalla cura dei figli e
della casa, ma anche, sempre più
spesso,dall‟accudimento di familiari anziani, malati
e o disabili. Sempre più spesso le donne italiane,
in mancanza di adeguati servizi, si rivolgono ad
altre donne, a volte parenti, a volte immigrate
(specie per la cura degli anziani),per il disbrigo delle faccende domestiche e il lavoro di cura. In tutti i paesi dell‟Unione europea
il tempo di lavoro totale delle donne è maggiore di quello degli uomini. Ciò è dovuto soprattutto al numero di ore che le donne
dedicano al lavoro domestico. Le donne italiane dedicano al lavoro più tempo rispetto a quelle residenti negli altri paesi
dell‟Europa occidentale con valori che si avvicinano a quelli dei paesi dell‟Europa dell‟Est. Vale la pena di sottolineare che
proprio all‟Italia appartiene il primato del tempo dedicato dalle donne al lavoro familiare. Contemporaneamente nel nostro paese
si registra il più elevato differenziale tra il tempo dedicato alla famiglia dalle donne e quello che allo stesso tipo di lavoro
dedicano gli uomini.
Per quanto riguarda la diffusione del part-time, le donne italiane sono ancora al di sotto della media Ue e vicino ai livelli di Francia
e Spagna. Sono invece molto lontane dai comportamenti delle olandesi che nel 75% dei casi lavorano a part-time. Per questo è
opinione diffusa che questo segmento di occupazione femminile possa ulteriormente svilupparsi in futuro. Per quanto riguarda
invece la diffusione del lavoro a tempo determinato, le italiane si collocano poco al di sopra della media Ue e vicino a Paesi Bassi
e Germania, che hanno però un tasso di occupazione femminile molto più elevato di quello del nostro Paese.
Continua pagina seguente.
P A G I N A 4 I L C I T T A D I N O
STATISTICHE DI GENERE Ecco come emerge il rapporto uomo—donna secondo alcuni importanti centri di ricerca europei
Istruzione
Le donne italiane, nonostante la forte crescita dell‟istruzione registrata, non hanno ancora
recuperato il divario esistente rispetto a altri paesi europei in tema di quota di popolazione
con alti livelli di istruzione. Nel 2005 lo svantaggio della popolazione italiana è
rappresentato nella figura relativa alla popolazione 25-34 anni con almeno un titolo di
scuola secondaria superiore per genere nei paesi Ue. Il nostro Paese si trova infatti
ancora molto nella agli ultimi posti della graduatoria riguardante la percentuale di donne
tra 25 e 34 anni con almeno un titolo di istruzione secondaria superiore, superato solo
dagli altri paesi mediterranei. In 18 paesi europei su 27 la quota di donne con livello di
istruzione superiore tra i 25-34enni è più elevata di quella degli uomini. I vantaggi più
rilevanti per le donne si registrano proprio nei paesi mediterranei.
In Italia Gli ultimi decenni della storia italiana sono caratterizzati dalla crescita del livello di istruzione delle donne. Nella fascia di
popolazione tra 25 e 44 anni le donne con un titolo superiore sono oggi relativamente più numerose degli uomini. Tra gli anni
scolastici 1970/71 e 2005/06 il tasso di conseguimento del diploma per le donne è più che triplicato e oggi le diciannovenni che
raggiungono il diploma sono quasi l‟80% e sono diventate più numerose dei ragazzi. Anche per quanto riguarda la laurea si sono
invertiti i rapporti di forza tra uomini e donne e oggi oltre il 28,1% delle 25enni raggiunge la laurea, contro il 19% tra i ragazzi.
Continua pagina seguente.
P A G I N A 5 I L C I T T A D I N O
Per quanto riguarda il
conseguimento della laurea,
nell‟anno scolastico 2004/05
i livelli più alti di
conseguimento per entrambi
i sessi e il vantaggio
maggiore per le donne
(+13,4%) si registrano nel
Centro. Inoltre, la figura
relativa ai laureati per genere
e regione di residenza
nell‟anno accademico
2004/05 mostra che sono
piccole regioni del Centro e
del Sud, come il Molise,
l‟Umbria e la Basilicata
quelle dove si osserva la
proporzione più elevata di
laureate ogni cento 25enni,
con proporzioni che
superano il 35% e arrivano a
Occupazione
L‟occupazione della popolazione in età lavorativa rappresenta uno degli
indicatori chiave per misurare le differenze di genere. Nel 2005 risultano
occupate il 45,3% delle donne tra i 15-64 anni contro il 69,7% degli uomini.
Anche per la classe di età in cui si raggiungono i livelli massimi di occupazione,
ovvero perle persone 35-44 anni, le differenze sono notevoli: 61,3% per le
donne e 91,2% per gli uomini. I differenziali di genere si riducono però al
crescere del livello di istruzione della popolazione: i tassi femminili variano
dal17,5% delle donne con licenza elementare al 73,3% di quelle con una laurea
o un dottorato, mentre per gli uomini variano dal 51,4% all‟84,2%. Nonostante
la crescita dell‟occupazione femminile degli ultimi decenni, la differenza in
termini di tassi di occupazione femminili tra l‟Italia e gli altri paesi europei è
ancora rilevante. I nostri tassi di occupazione femminile risultano inferiori a
quelli medi dell‟Unione europea per ogni classe d‟età. La figura relativa al
tasso di occupazione delle persone 15-64 anni per genere nei paesi Ue mostra
chiaramente l‟esistenza di un gap non soltanto rispetto ai paesi di Ue15, ma
anche a quelli di più recente adesione. L‟Italia, infatti, è oggi, dopo Malta, il
paese con i più bassi livelli di occupazione femminili di tutta l‟Unione. Inoltre,
considerando le classi di età, per le giovani il tasso tende ad aumentare con
l‟età più lentamente che nella media Ue e tende a decrescere già a partire dai
40 anni, in anticipo rispetto a quanto avviene negli altri paesi.
Continua pagina seguente.
I L C I T T A D I N O P A G I N A 6
In Italia I livelli più elevati di
occupazione femminile e i più
bassi differenziali tra uomini e
donne si osservano nel Nord del
paese. In particolare in Emilia-
Romagna, dove il tasso di
occupazione femminile è pari al
60%, e ha quindi raggiunto il
tasso obiettivo posto dalla
strategia di Lisbona, i tassi
femminili sono inferiori a quelli
maschili solo del 27%. Nel
Mezzogiorno, invece, i livelli
sono molto inferiori e i
differenziali di genere molto
elevati: in Puglia il tasso di
occupazio- ne femminile è,
infatti, meno della metà di quello
dell‟EmiliaRomagna ed è 2,3
volte più basso di quello
maschile. In questa ripartizione,
soltanto le laureate riescono in
qualche misura a superare le
difficoltà di trovare
un‟occupazione: i loro tassi,
infatti, sono più vicini a quelli
delle donne delle altre
ripartizioni.
Le differenze ancora esistenti dimostrano comunque che il grande investimento in istruzione fatto nei passati decenni dalle donne
italiane non ha ancora avuto il suo riconoscimento in termini di sbocchi professionali nel mercato del lavoro.
Nei livelli di disoccupazione di uomini e donne permangono differenze sensibili.
Nel 2005 il tasso riferito alle donne è pari al 10,1%, mentre quello degli uomini è
del 6,2%. Se raffrontata alla situazione del 1995, però, la disoccupazione
femminile è diminuita di oltre un terzo, mentre la diminuzione per gli uomini è stata
meno intensa. Differenze tra uomini e donne si osservano anche per i tassi di
disoccupazione giovanile (15-24 anni): le ragazze presentano un tasso del 27,4%,
contro il 21,5% dei ragazzi. Un differenziale a svantaggio delle donne si registra
anche considerando la disoccupazione per livello di istruzione: le disoccupate con
livello di istruzione universitario sono il 7,7%, contro il 4,4% degli uomini.
Disoccupazione
Continua pagina seguente.
I L C I T T A D I N O P A G I N A 7
In 21 paesi europei su 27 la disoccupazione femminile supera quella maschile. I tassi di disoccupazione femminile collocano i l
nostro Paese nel gruppo d coda della graduatoria europea, insieme a Germania e Francia, ma a qualche distanza da Polonia,
Slovacchia, Grecia, paesi in cui i tassi femminili superano largamente il 15%. L‟alta disoccupazione delle donne nei paesi
mediterranei è legata a un modello di offerta di lavoro , in cui si tende a privilegiare l‟occupazione dei capi famiglia maschi in età
adulta a svantaggio dell‟occupazione delle donne e dei giovani. In altri paesi, in cui l‟occupazione femminile raggiunge livelli
elevati, come nel Regno Unito, non solo la disoccupazione delle donne è ai livelli minimi europei, ma la disoccupazione maschile
è più rilevante di quella femminile.
In Italia Grandi differenze territoriali
riguardo ai tassi di
disoccupazione si osservano nel
Paese, sia nei livelli, sia nei
differenziali tra uomini e donne.
Sicilia, Puglia e Calabria sono le
regioni in cui la disoccupazione
femminile (come del resto quella
maschile) risulta più elevata. In
queste regioni i tassi femminili
superano ancora il 20%, anche
se dieci anni prima arrivavano a
superare il 30%. Dal 1995 al
2005, Friuli-Venezia Giulia,
Piemonte e Marche sono le
regioni che hanno visto diminuire
maggiormente la
disoccupazione femminile,
mentre in Calabria e Basilicata
l‟indicatore è peggiorato o
rimasto stazionario.
Le differenze tra i tassi maschili e femminili sono maggiori nel Mezzogiorno e mentre per gli uomini tendono a diminuire al
crescere del livello di istruzione, per le donne sono maggiori tra coloro che hanno ottenuto la licenza media. Le differenze
maggiori si osservano in Abruzzo e nella provincia di Trento, dove i tassi femminili sono quasi tre volte superiori a quelli maschili.
Il Lazio e la Calabria presentano i differenziali di genere più bassi, anche se: i tassi femminili sono comunque di un terzo superiori
a quelli maschili.
Rappresentanza parlamentare
La percentuale di donne elette nelle assemblee parlamentari a suffragio diretto costituisce uno degli indicatori adottati in sede
nazionale e internazionale per la valutazione della partecipazione femminile all‟attività politica. Le quote di parlamentari italiane
elette nelle assemblee nazionali sono pari a circa il 14% degli eletti al Senato della Repubblica e al 17% alla Camera dei deputati.
Nel confronto con i paesi Ue la rappresentanza parlamentare delle donne italiane risulta modesta. Se rapportata alle equivalenti
rappresentanze nazionali comunitarie la quota di deputate elette in Italia alla Camera dei deputati si colloca ampiamente al di
sotto delle percentuali dei paesi nordici e della Spagna (tutte superiori al 36%). Va segnalato che mentre in Danimarca, Norvegia,
Finlandia e Svezia il confronto non è completamente applicabile per la presenza di una sola Camera, nei Paesi Bassi e in Spagna
la sussistenza di due rami parlamentari rende congruente la comparazione con il caso nazionale. Rispetto alle Camere di quest i
due paesi le quote di deputate italiane risultano in entrambi i casi inferiori di oltre 18 punti percentuali, mentre la rappresentanza
femminile al Senato della repubblica è nettamente inferiore a quella del Senato spagnolo (-9,3 punti percentuali) e della Camera
alta olandese (-15,1 punti percentuali). Tra i sistemi politici bicamerali anche in Germania e nel Regno Unito si rilevano quote di
rappresentanza femminile superiori a quelle italiane in entrambe le assemblee, pur con differenze percentuali meno accentuate;
in Francia solo alla Camera bassa la quota femminile (12,2%) è inferiore a quella italiana, mentre al Senato l‟indicatore supera di
3 punti percentuali quello nazionale. Considerando la quota di deputate elette dall‟Italia al Parlamento europeo, pur essendo la
percentuale superiore a quella delle elette nelle Camere nazionali (19,2%), il divario rispetto agli altri paesi non muta (media Ue
30,3%). Solo Cipro e Malta (entrambe senza rappresentanza femminile) e la Polonia registrano “quote rosa” inferiori a quelle
delle elette italiane. All‟opposto in Svezia la percentuale di donne elette (57,9%) supera quella degli uomini di quasi 16 punti
percentuali, mentre in nei Paesi Bassi, in Slovenia, in Francia e nel Lussemburgo si rilevano valori superiori di oltre 10 punti
rispetto al valore medio comunitario.
I L C I T T A D I N O P A G I N A 8
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In Italia La rappresentanza femminile nel parlamento
italiano, pur decisamente minoritaria, si è
rafforzata nell‟ultima legislatura: alla Camera dei
deputati le donne sono pari al 17,1 degli eletti,
mentre al Senato della repubblica le senatrici
rappresentano il 14% dell‟assemblea. Le quote
risultano in assoluto le più elevate della storia
parlamentare, in entrambe le camere, e
invertono la tendenza negativa della decrescita
della rappresentanza femminile in Parlamento
prodottasi nel corso degli anni Novanta, dopo il
picco registrato nella XII legislatura.
Il dato acquista ulteriore valenza positiva considerando la distribuzione delle elette per classe di età. Infatti, i rapporti tra le
rappresentanze di genere risultano meno sbilanciati a favore degli uomini nell‟ambito delle classi più giovani (25-29 e 29-39 alla
Camera e 40-49 al Senato); tale dato, considerato anche il forte tasso di rielezione in successive legislature che caratterizza il
nostro Paese, lascerebbe supporre un ulteriore consolidamento delle quote delle elette anche nelle classi più anziane, nel corso
delle future legislature.
Dati aggiornati l’11 gennaio 2010: 82% uomini e 18% donne.
Partecipazione sociale
L‟appartenenza a organizzazioni di volontariato e il
prestare attività gratuite per sindacati, associazioni
ecologiche o altre associazioni rappresentano
un‟importante dimensione della partecipazione sociale: in
Italia quasi 4 milioni e mezzo di persone si impegnano
gratuitamente prestando la loro attività in associazioni di
volontariato e poco meno di 2 milioni in altre associazioni;
più di 9 milioni hanno versato soldi a un‟associazione e
circa 700 mila svolgono attività gratuita per un sindacato.
Rispetto agli uomini, le donne italiane presentano tassi
meno elevati di partecipazione alle forme di
associazionismo, ma dall‟analisi dei dati riferita a profili
più specifici risulta che, soprattutto nelle classi di età più
giovani e tra le persone occupate, i tassi di partecipazione
femminile superano quelli maschili.
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Nella società italiana vengono applicate,
secondo lei, discriminazioni basate sul sesso?
Se sì, in quale
ambito?(scolastico,familiare,legislativo,lavorativo,
sociale)
Secondo la sua esperienza personale,ritiene che
i suoi diritti di cittadino/a vengano garantiti?
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A suo parere, è giusto che uomini e donne
godano di diritti diversi?
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9 domande per 250 persone … ecco le risposte
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E’ giusto consentire alle donne le stesse
attività lavorative che un tempo erano
prerogativa di soli uomini e viceversa?
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I diritti specifici della donna sono già previsti
dalla normativa italiana,pensa che siano
sufficienti?
Pensa che anche all’uomo spetti un
periodo di “paternità” simile a quello che
la legge riconosce alla donna?
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Alla donna in quanto madre e moglie viene
preclusa la possibilità di avere una carriera
lavorativa uguale a quella dell’uomo?
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Se lei fosse ministro delle pari
opportunità:
a) Negherebbe alle donne l’accesso
ad alcune attività lavorative
b) Negherebbe agli uomini l’accesso
ad alcune attività lavorative
c) Riconoscerebbe anche all’uomo il
diritto di intervenire in decisioni
per ora puramente femminili
(aborto, pillola del giorno dopo,
ecc…)
d) Promulgherebbe una legge per
rendere obbligatoria una
percentuale rilevante (50%) di
donne in Parlamento
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Dalla teoria alla pratica … Proposte dei nostri intervistati per rendere la normativa migliore
Più severità nelle leggi contro gli abusi e le violenze sulle donne
Leggi migliori che proteggono il salario e il posto di lavoro durante il periodo di maternità
Maggiore tutela nei confronti dell’immagine femminile
Quote di genere per occupazioni di lavoro di alta responsabilità ( per esempio in ambito politico) e equità di stipendio a
parità di mansione
Potenziamento dei servizi a sostegno della famiglia
Maggiori incentivi alle aziende per favorire il lavoro a casa
Campagna di sensibilizzazione culturale riguardo l’argomento rivolto soprattutto alle nuove generazioni ( per esempio
ribadire che il compito di gestione della famiglia non è specifico della donna)
Maggiori strutture di assistenza (asili sul posto di lavoro, mense …) per permettere o agevolare la carriera della donna.
Garanzia in caso in cui l’uomo abbia un ruolo attivo e importante nella vita della donna del suo diritto di paternità
(anche se la donna è contraria)
Miglior organizzazione periodo di maternità per poter usufruire meglio delle risorse statali anche per altri ambiti
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Articolo finale ultima parte