Gli studi di economia agraria e le conoscenze necessarie...

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GAETANO MARENCO, ANDREA BORLIZZI, CARLO CAFIERO, FABIAN CAPITANIO, FRANCESCO CARACCIOLO, LUIGI CEMBALO, TERESA DEL GIUDICE, MARIA TERESA GORGITANO, TERESA PANICO, STEFANO PASCUCCI 1 Gli studi di economia agraria e le conoscenze necessarie per le politiche agrarie del futuro 2 1. ALCUNE PREMESSE Va detto innanzitutto che la relazione è il frutto di un lavoro collettivo svolto presso il Dipartimento di Economia e Politica Agraria di Portici. L’idea generale ad esso sottesa è che, per rispondere al meglio ai propri compiti nella vita sociale, gli studiosi di economia e di politica agraria (come, del resto gli studiosi di altre discipline) devono anzitutto impegnarsi a fornire conoscenze ed informazioni corrette e rilevanti a chi deve prendere decisioni ed operare e, in primo luogo, ai rappresentanti del pubblico interesse. Se si concentra l’attenzione su questo compito e, quindi, sull’oggetto e la natura delle informazioni richieste, il ruolo della “conoscenza della realtà” viene naturalmente posto in primo piano e diventa il punto di partenza delle valutazioni circa le esigenze di sviluppo della ricerca. In questa ottica particolare vengono a perdere importanza le tradizionali distinzioni accademiche fra studi di economia e studi di 1 Gaetano Marenco e Maria Teresa Gorgitano sono professori presso il Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale (Portici – NA). Carlo Cafiero, Fabian Capitanio, Luigi Cembalo, Teresa Del Giudice e Teresa Panico sono ricercatori presso lo stesso Dipartimento e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro di Portici. Andrea Borlizzi, Francesco Caracciolo e Stefano Pascucci sono dottori di ricerca in Economia e Politica Agraria. Il lavoro è frutto di un lavoro comune da parte degli autori. Tuttavia, Gaetano Marenco ha redatto i parr. 1 e 8; Andrea Borlizzi e Maria Teresa Gorgitano il par. 7; Carlo Cafiero e Fabian Capitanio il par. 3, Luigi Cembalo e Francesco Caracciolo il par. 5; Teresa Del Giudice il par. 2; Teresa Panico il par. 6; Stefano Pascucci il par. 4. Si desidera ringraziare i proff. Antonio Cioffi, Francesco de Stefano, Pasquale Lombardi e Eugenio Pomarici per gli utili suggerimenti che hanno permesso di migliorare la stesura del lavoro. Ogni responsabilità di quanto scritto rimane comunque dei soli autori. 2 Questo lavoro costituisce una versione ridotta della relazione su “Conoscenza della realtà e politica agraria: questioni aperte per la ricerca” predisposta dagli stessi Autori.

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GAETANO MARENCO, ANDREA BORLIZZI, CARLO CAFIERO, FABIAN CAPITANIO, FRANCESCO CARACCIOLO, LUIGI CEMBALO, TERESA DEL GIUDICE, MARIA TERESA GORGITANO, TERESA PANICO, STEFANO PASCUCCI

1

Gli studi di economia agraria e le conoscenze necessarie per le politiche

agrarie del futuro2

1. ALCUNE PREMESSE

Va detto innanzitutto che la relazione è il frutto di un lavoro collettivo svolto

presso il Dipartimento di Economia e Politica Agraria di Portici. L’idea generale ad

esso sottesa è che, per rispondere al meglio ai propri compiti nella vita sociale, gli

studiosi di economia e di politica agraria (come, del resto gli studiosi di altre discipline)

devono anzitutto impegnarsi a fornire conoscenze ed informazioni corrette e rilevanti a

chi deve prendere decisioni ed operare e, in primo luogo, ai rappresentanti del pubblico

interesse. Se si concentra l’attenzione su questo compito e, quindi, sull’oggetto e la

natura delle informazioni richieste, il ruolo della “conoscenza della realtà” viene

naturalmente posto in primo piano e diventa il punto di partenza delle valutazioni circa

le esigenze di sviluppo della ricerca. In questa ottica particolare vengono a perdere

importanza le tradizionali distinzioni accademiche fra studi di economia e studi di

1 Gaetano Marenco e Maria Teresa Gorgitano sono professori presso il Dipartimento di Economia e

Politica Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale (Portici – NA). Carlo Cafiero, Fabian Capitanio, Luigi Cembalo, Teresa Del Giudice e Teresa Panico sono ricercatori presso lo stesso Dipartimento e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro di Portici. Andrea Borlizzi, Francesco Caracciolo e Stefano Pascucci sono dottori di ricerca in Economia e Politica Agraria. Il lavoro è frutto di un lavoro comune da parte degli autori. Tuttavia, Gaetano Marenco ha redatto i parr. 1 e 8; Andrea Borlizzi e Maria Teresa Gorgitano il par. 7; Carlo Cafiero e Fabian Capitanio il par. 3, Luigi Cembalo e Francesco Caracciolo il par. 5; Teresa Del Giudice il par. 2; Teresa Panico il par. 6; Stefano Pascucci il par. 4. Si desidera ringraziare i proff. Antonio Cioffi, Francesco de Stefano, Pasquale Lombardi e Eugenio Pomarici per gli utili suggerimenti che hanno permesso di migliorare la stesura del lavoro. Ogni responsabilità di quanto scritto rimane comunque dei soli autori.

2 Questo lavoro costituisce una versione ridotta della relazione su “Conoscenza della realtà e politica agraria: questioni aperte per la ricerca” predisposta dagli stessi Autori.

politica agraria, anzi, in un certo senso, la rilevanza “politica” dei primi viene rivalutata.

Viceversa, nella stessa ottica passa in secondo piano un certo tipo di studi e di

conoscenze, di natura più intuitivamente politica, riguardanti il modo in cui e le ragioni

per le quali le decisioni sono prese, studi che pure fanno parte della tradizione

disciplinare, ma che evidentemente acquistano rilevanza con riferimento ad esigenze

conoscitive di diverso tipo.

1.1. - La politica agraria e le conoscenze necessarie.

Riserveremo in questa sede il termine “Politica Agraria” ad indicare l’attività reale

politico-legislativa ed amministrativa in cui si concretizza “l’intervento dello Stato nel

campo dell’economia agricola” (definizione di M. Bandini) ovvero “la parte o il settore

della politica economica che si occupa dell’agricoltura” (definizione di G. Orlando, O.

Ferro e F. de Stefano).

Viceversa, il termine “conoscenza della realtà” come qui lo si intende, pur avendo

molto in comune con gli studi di politica agraria, non include l’intera gamma dei tipi di

indagine che sono abitualmente inclusi in tale disciplina ma, di converso, include un

certo tipo di esigenze conoscitive della cui soddisfazione gli studiosi (o, almeno, gli

accademici) non si sentono, di norma, direttamente responsabili.

Per chiarire quali sono i tipi di indagine di politica agraria che, almeno in questa

sede, lasciamo al margine dei nostri discorsi, torna comodo fare riferimento alla chiave

di classificazione proposta da Rausser e Goodhue (2002) e basata sulla “dimensione (o

impostazione) analitica” che caratterizza ciascun tipo. Le diverse dimensioni sono

sinteticamente descrivibili come:

- dimensione dell’incidenza-efficacia, secondo la quale l’analisi “mette a fuoco gli

effetti delle politiche in atto e/o la scelta tra diversi strumenti di intervento,

assumendo una perfetta esecuzione di ciascuno di essi, l’assenza di reazioni

(“feedback effects”) da parte dei gruppi di interesse coinvolti ed una data

struttura costituzionale di governo”;

- dimensione di analisi del funzionamento (“mechanism design”) di un particolare

strumento, nella quale si rilascia l’ipotesi di perfetta esecuzione e realizzazione e

si considerano esplicitamente le possibili strategie di comportamento dei singoli

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operatori di fronte al sistema di incentivi che lo strumento di intervento mette in

atto;

- la dimensione di economia politica, che mira ad analizzare il processo politico di

scelta degli strumenti di intervento, considerando tale scelta come risultato

dell’azione esplicita di gruppi di interesse e/o di forze politiche contrapposte; ciò

implica evidentemente il rilascio dell’ipotesi dell’assenza di reazioni da parte

degli “stakeholders”;

- la dimensione costituzionale, nella quale si fa cadere anche l’ipotesi di un dato

assetto costituzionale politico-economico di base, riconoscendo che in definitiva

da esso dipendono, oltre che il livello generale di civiltà e libertà di un sistema

sociale, anche le regole che vincolano le possibili azioni e poteri delle diverse

forze politiche e gruppi di interesse e quindi, in definitiva, la scelta degli

strumenti dell’intervento pubblico.

Rausser e Goodhue affermano che “al fine di comprendere a fondo, spiegare o riformare

le politiche esistenti, tutte le quattro dimensioni debbono essere considerate in modo

integrato” (R. e G. 2002, p. 2092) e, in termini di logica astratta, non si può non

concordare. In questa sede, tuttavia, se ci domandiamo quali siano le esigenze

conoscitive di un decisore pubblico interessato anzitutto a compiere le proprie scelte di

politica agraria con cognizione dei loro effetti, ci sembra che esse includano

prioritariamente gli studi caratterizzati dalle prime due impostazioni. Riteniamo, per il

momento, possibile trascurare gli studi che aderiscono alle impostazioni analitiche della

“economia politica” e, soprattutto, dell’”assetto costituzionale” i quali assumono

evidente rilievo quando si voglia giudicare la fattibilità politica di certe scelte o

interpretare,dall’esterno, il perché delle scelte fatte.

Ma le esigenze conoscitive, vale a dire “le conoscenze” richiamate nel titolo,

includono tuttavia qualcos’altro rispetto ai risultati delle specifiche ricerche di politica

agraria.

In primo luogo chi assume la responsabilità delle politiche dovrebbe essere

consapevole delle ragioni e delle circostanze per le quali si determinano le dinamiche ed

i fenomeni osservabili (e per lui rilevanti, almeno in potenza) anche quando non siano in

atto nei loro confronti interventi diretti. La ragione più ovvia di questa esigenza è

rappresentata dal fatto che solo conoscendo il perché dei “fatti” è possibile decidere se,

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come e quando eventualmente intervenire. Non occorre dire che, in considerazione di

ciò, tutta la ricerca economico-agraria (teorica ed applicata), assume potenziale rilievo

ai fini delle conoscenze richieste dalla politica agraria3.

In secondo luogo egli dovrebbe essere, per ovvi motivi, tempestivamente

informato dei “fatti”, ossia dello “stato delle cose” e delle dinamiche in atto, riguardanti

gli aspetti della realtà che per lui assumono rilievo in quanto direttamente collegati agli

obiettivi generali o specifici che intende o deve perseguire ed ai quali l’intervento è

specificamente rivolto.

A questo proposito può essere opportuno spendere qualche parola per evidenziare

il contributo che gli esperti di economia e politica agraria possono e debbono fornire al

riguardo, contributo che, in sintesi, può essere individuato nell’indicazione dei dati e

fenomeni specifici più rilevanti e dei requisiti di “qualità”, in senso lato, che il flusso di

informazioni deve soddisfare per essere utilizzabile ai fini di progettazione o di

esecuzione e gestione degli interventi. Tali requisiti hanno evidentemente a che fare non

solo con la veridicità dei dati, ma riguardano altresì la forma e modalità di espressione,

la tempestività ed il grado di frequenza per i fenomeni variabili nel tempo ed il grado di

aggregazione o di dettaglio per i fatti o fenomeni variabili nello spazio. È facile capire

come questi requisiti possano essere diversi a seconda sia del tipo di problema o di

politica in cui i “fatti” o fenomeni sono chiamati in causa, sia del livello decisionale od

operativo per il quale sono necessari. Non è quindi pensabile alcun tentativo di

affrontare questo discorso in termini generali. Riteniamo tuttavia necessario segnalare

l’importanza di una questione specifica che rientra nel novero delle esigenze

informative e per la quale la competenza degli economisti e politici agrari è

particolarmente importante. La questione è facile da presentare e le ragioni della sua

importanza evidenti: se le politiche/gli interventi devono risolvere determinati problemi,

i loro obiettivi debbono essere formulati in modo appropriato e, soprattutto, in termini

suscettibili di misurazione e controllo; inoltre, il flusso di informazioni disponibili e la

loro qualità debbono essere tali da rendere possibile questa misurazione. Questa

esigenza dovrebbe essere soddisfatta sia in fase di progettazione o di valutazione ex-

ante (tuttavia, per problemi nuovi, le informazioni disponibili al momento possono

3 Non sarà inopportuno ricordare che l’integrazione delle “teorie” economico-agrarie nel corpo dei

Principi di Politica agraria costituì uno degli elementi innovativi del trattato di Francesco de Stefano, comparso oltre 20 anni or sono (de Stefano, 1985)

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essere carenti) sia, soprattutto, in fase di monitoraggio e/o di valutazione ex-post

(quando cioè si avrebbe avuto modo, volendo, di provvedere alla loro raccolta).

Malgrado la sua importanza, non si ha la sensazione che, soprattutto nel nostro

paese, a tale questione sia stata prestata dagli esperti e dai loro interlocutori politici la

dovuta attenzione.

Per completare questa prima premessa ci sembra opportuno, se non necessario, il

richiamo di una questione di sapore, per così dire, epistemologico, nei cui confronti la

tradizione degli studi di politica agraria mostra una diversità di posizioni.

Tale questione riguarda la competenza ed il diritto degli economisti agrari (o,

meglio, di tutti gli economisti, in quanto tali) a discutere e valutare nel merito gli

obiettivi generali dell’intervento pubblico. Questo diritto e questa competenza sono dati

evidentemente per scontati da parte, ad esempio, dagli Autori di quel (nutrito) gruppo di

studi di politica agraria che valutano gli esiti di ogni intervento pubblico alla luce dei

teoremi dell’economia del benessere e, in particolare, delle condizioni di ottimo

paretiano. Tra essi spiccano, come è noto, per attivismo e convinzione, gli economisti

agrari che si sono occupati delle politiche di regolazione del commercio internazionale

(Anderson, 2005; Sumner e Tangermann, 2002) e comunque di interventi sul mercato

dei prodotti agricoli (Alston e James, 2002). Oggigiorno le opinioni sulla validità e sui

possibili ambiti di applicazione di tali criteri di valutazione delle politiche sono molto

discordi (Gardner e Johnson, 2002, pp 2245 e segg.) ed è ancora meno diffuso, a mio

giudizio, il consenso circa il grado di priorità degli obiettivi di tipo strettamente

efficientistico nei confronti di altri obiettivi, quali, ad esempio, quello dell’equità

distributiva o della sostenibilità, che un corpo sociale ed i suoi rappresentanti ritengono

di dover perseguire4. Ciò comunque non mette al margine il ruolo sociale degli

economisti (e degli economisti agrari) come “consiglieri” del decisore pubblico, o come

informatori e formatori del pubblico e della pubblica opinione, in quanto essi rimangono

i primi responsabili del compito di “osservare se i mezzi proposti siano coerenti con i

fini da raggiungere o non siano invece in contrasto con il sistema che la collettività si è

scelto” (Ferro, 2004, p. 217).

4 Ciò evidentemente non significa che debba intendersi come inutile o irrilevante la valutazione del costo

sociale dell’intervento pubblico, che include anche varie poste di costi monetari espliciti quali quelli di tipo amministrativo; questo va evidentemente messo a confronto con gli obiettivi, eventualmente non monetizzabili, che si intendono raggiungere

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1.2. - Approcci metodologici, attendibilità dei risultati e studi di scenario a lungo termine

Anche se, e proprio perché, il nostro contributo non intende (e comunque non

potrebbe) assumere la veste e gli obiettivi di un lavoro generale di valutazione dello

stato dell’arte in merito al potenziale contributo della ricerca economico-agraria a

sostegno delle future scelte di politica agraria e della loro messa in atto, ci sembra

necessario o, almeno, utile, al fine di fare emergere la specificità ed i limiti del suo

contenuto, richiamare alcuni criteri di valutazione proposti in recenti lavori di rassegna

che, insieme con i giudizi che ne conseguono, ci appaiono rilevanti e condivisibili.

Tali criteri riguardano, in generale, i requisiti che tale ricerca deve possedere per

produrre risultati affidabili (e quindi effettivamente rispondenti alle esigenze degli

utilizzatori) e consentono di individuare temi o problematiche per i quali la

soddisfazione di tali requisiti è più difficile. A questo proposito richiamiamo

sinteticamente alcune considerazioni tratte principalmente dal lavoro di Gardner e

Johnson (2002). La prima considerazione, certo non sorprendente, riguarda il fatto che

la ricerca finalizzata ad affrontare i problemi di politica agraria richiede, di norma, la

disponibilità di un’adeguata base di dati empirici5 Per quanto riguarda poi il tipo di

metodi di elaborazione e di utilizzo di questi dati, Gardner e Johnson distinguono tre

categorie: i modelli econometrici, i modelli di simulazione e le “analisi descrittive”.

La prima comprende i lavori che “forniscono sistemi di relazioni tra variabili di

interesse economico in cui i parametri che collegano l’una all’altra sono ottenuti

mediante analisi statistiche dei dati”. La seconda “comprende l’uso di sistemi di

equazioni che quantificano relazioni economiche allo scopo di simulare gli effetti dei

cambiamenti nelle variabili di interesse, senza stima econometrica delle equazioni”. La

terza comprende tutti i lavori che, per “mancanza di risultati a cui prestare fede in virtù

di prove econometriche o di modelli di simulazione, si basano sostanzialmente

sull’intuizione ed esperienza (“perceptiveness”) dell’esperto-osservatore”. Le prime due

categorie di studi adottano quindi, a differenza della terza, lo stesso linguaggio

matematico-quantitativo. In termini di grado di affidabilità dei risultati, tuttavia, tra esse 5 “Applications of economic theory have suggested many interesting hypotheses in agricultural

economics, but, seeking to improve our knowledge of the range of subjects covered in this Handbook, a recurring theme is the necessity of data based empirical work” (Gardner and Johnson, 2002, p.2240)

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vi è una differenza sostanziale, in quanto, mentre l’aderenza alla realtà dei modelli

econometrici può essere evidentemente verificata grazie ai metodi statistici di stima (se)

correttamente applicati, nel secondo caso, anche alla luce delle valutazioni espresse da

specialisti in tali modelli, come Hertel (2002) e Sumner e Tangermann (2002) “si deve

concludere che il valore empirico di questo approccio non è stato ancora dimostrato”

(Gardner e Johnson, 2002, p.2242).

Per quanto riguarda infine gli studi del tipo “descrittivo”, gli stessi Autori,

mettendoli a confronto con quelli di simulazione, affermano che “è sorprendente, dopo

la lettura dei capitoli sulle politiche agricole dei paesi sviluppati e sui negoziati sul

commercio internazionale, che le analisi descrittive non abbiano molto meno da offrire

di quanto conseguito da grossi investimenti in analisi sviluppate in modo più formale”

(Gardner e Johnson, 2002, p.2243). In definitiva, quindi, l’unica categoria di studi, i cui

risultati offrono informazioni con un grado di affidabilità obiettivamente controllabile è

quella in cui tali risultati sono ottenuti mediante metodi econometrici.6 Ma questi,

purtroppo, si possono applicare solo con adeguata disponibilità di dati statistici per le

variabili di interesse ed è “forse sorprendente la relativa scarsità nella letteratura di

risultati (“findings”) econometrici riguardanti le risorse, l’ambiente, lo sviluppo rurale

e la politica” per cui gran parte del lavoro riportato in tale letteratura “deriva da idee,

referenze, modelli e osservazioni che non sono state confermate, né rifiutate e nemmeno

poste seriamente in confronto con i dati statistici” (Gardner e Johnson, 2002, p. 2241).

Forse un po’ meno sorprendente la carenza di studi econometrici volti ad ottenere

proiezioni (di trends) a lungo termine, i cosiddetti studi di scenario, cioè, proprio il tipo

di studi che servirebbero per fornire riferimenti concreti alle discussioni in un convegno

come il nostro. Non che siano mancati tentativi al riguardo, anche ad opera di istituzioni

con tutte le carte (risorse accademiche ed economiche) in regola, come l’ERS

dell’USDA in collegamento con le “Land Grant Universities” statunitensi, ma “essi

sono stati tentati e sono morti” (Gardner e Johnson, 2002, p. 2244).

Questo quadro sintetico dello stato (metodologico) dell’arte riguardo gli studi di

politica agraria e le valutazioni di fondo a suo riguardo, che sarebbe azzardato non

6 Ovviamente, ciò non significa che i risultati degli studi di simulazione o delle analisi descrittive

debbano, ipso facto, essere considerati poco attendibili, ma solo che la loro affidabilità non è condizionata dall’approccio metodologico, bensì, anzitutto, dalla quantità e qualità delle informazioni di base utilizzate e dalla esperienza, “perceptiveness” e coscienziosità dell’ Autore. Servono degli esempi al riguardo?

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condividere, mettono evidentemente in difficoltà chiunque debba occuparsi dei

cambiamenti della realtà e dei conseguenti adattamenti delle politiche. Ma, anche se non

si può sperare di parlare del futuro sulla scorta di risultati di modelli econometrici,

sembra opportuno verificare anzitutto la disponibilità di studi di simulazione che, se non

altro, avrebbero il merito della trasparenza, nel senso che essi devono (dovrebbero)

dichiarare esplicitamente tutte le ipotesi su cui sono basate le stime prodotte.

A questo riguardo dobbiamo in effetti notare che l’impossibilità di avvalersi di

metodi econometrici e la dubbia attendibilità dei risultati derivanti dai loro tentativi non

hanno affatto indebolito la “compatta confraternita”7 dei simulatori, che, come risulta,

ad esempio, dal recente seminario dell’EAAE di Siviglia8, ha tutt’ora un’agguerrita

filiale (a meno che non sia nel frattempo divenuta casa madre) in Europa.

Indipendentemente dalle nostre personali vedute sul valore scientifico (e sul grado

di affidabilità reale) dei risultati dei modelli di simulazione, sarebbe stato molto bello

(ed utile per la nostra relazione) se dal lavoro dei nostri colleghi appassionati di

“futurologia quantitativa” fossero emerse valutazioni concrete, a scala europea e

nazionale, sul prevedibile comportamento di variabili rilevanti per gli obiettivi e le

scelte politiche di lungo termine di cui ci occupiamo. Purtroppo, così non è. Almeno a

giudicare da alcune delle relazioni presentate al già citato Seminario di Siviglia e che

riguardano esperimenti/lavori di simulazione del quadro generale e a grande scala

(Banse et al., 2008; Britz and Heckelei, 2008) si deve dedurre che, al momento, lo stato

dell’arte, per quanto giudicato promettente, non consente di mettere a disposizione degli

economisti e dei responsabili politici stime robuste delle variabili oggi più rilevanti (ad

es., per le politiche ambientali e di sviluppo rurale) al livello di aggregazione, spaziale

e/o settoriale, necessario per orientare le scelte.

Pur non avendo alcun titolo nè motivo (almeno in questa sede) per entrare nel

merito e per scoraggiare gli sforzi dei modellisti in questa direzione, mi sembra

doveroso e forse utile avanzare il dubbio che questa carenza di risultati utilizzabili

dipenda non tanto da un insufficiente/migliorabile grado di affinamento degli strumenti

(modelli quantitativi) disponibili, quanto dal fatto che non esiste ancora alcun

7 definizione di Hertel (Hertel, 2002, p. 1409) 8 107th EAAE Seminar “Modelling of Agricultural and Rural Development Policies” Sevilla, Spain,

January 29th/February, 1st, 2008

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programma di Ph.D o altro marchingegno atto a fornire agli economisti (agrari o meno)

le capacità di chiaroveggenza a lungo termine.

In ogni caso, se poi si considera il fatto che le future generazioni (di cittadini e di

politici) potrebbero avere una scala di priorità degli obiettivi diversa da quella cui si

attiene la presente, si è portati a concludere che ogni tentativo di individuare quali

(nuovi) orientamenti di politica agraria sono auspicabili in un orizzonte di lungo periodo

non può che apparire vano e, quindi, a riconoscere, come fa Buckwell nella sua

relazione, che il grado di incertezza è tale da determinare una vera e propria “paralisi

delle idee”.

1.3. - Cambiamenti e politiche: un approccio problematico tradizionale.

L’esigenza di collegare la nostra relazione al tema generale del convegno, ci evita

il rischio, opposto a quello appena indicato, di assumere un’ottica di analisi troppo

ravvicinata e miope, riferita cioè all’immediato futuro. Questa ci avrebbe portato a

discutere dei cambiamenti che si originano all’interno del sistema istituzionale che

gestisce l’attuale PAC e che riguardano, in sostanza, i criteri di distribuzione del

sostegno diretto.

È facile intuire come quest’ottica, che presenterebbe, peraltro, il vantaggio di

potersi avvalere dei risultati di un gran numero di studi di simulazione, non

consentirebbe di abbracciare l’ampia gamma delle nuove questioni che i cambiamenti

già in atto nella realtà agricola e nello scenario esistente pongono alla nostra attenzione.

Tali questioni sono rilevanti per la politica in quanto corrispondono a “problemi”, cioè a

situazioni considerate o da considerare insoddisfacenti alla luce dei criteri e degli

obiettivi che oggi ci proponiamo di soddisfare e sulla cui soluzione entro tempi

ragionevoli non si possono fare previsioni ottimistiche, a meno di una qualche modifica

del quadro delle politiche oggi operanti.

Ma le “nuove questioni” non sono solo quelle originate da cambiamenti in atto

nella realtà o da nuove esigenze od obiettivi da soddisfare. È infatti evidente che esse

possono nascere da cambiamenti nel nostro grado di conoscenza della realtà, il quale

può progredire sia a motivo della crescita quantitativa e qualitativa del flusso di dati e

informazioni che riguardano i fatti di nostro interesse sia perché la ricerca teorica ed

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applicata ha consentito di proporre ipotesi più soddisfacenti di spiegazione e di

interpretazione di tali fatti, ma anche (spesso) solo grazie ad una maggiore esperienza.

Se si affronta la questione dei rapporti tra cambiamenti, conoscenze e politiche in

questo modo problematico (e dialettico), si perde naturalmente in termini di ordine e

linearità, ma si guadagna (si spera di guadagnare) in termini di concretezza e di

interesse. Forse ci si sottrae, ma potrebbe non essere necessario, alla prassi di fare

distinzioni più o meno rigide fra questioni di breve, medio e lungo periodo, ma si

facilitano e si stimolano i rapporti tra studi di economia e studi di politica agraria.

Quella che certamente si perde è la possibilità di sviluppare, nei limiti di una

relazione, una presentazione organica di tutti i problemi e di tutte le questioni

conoscitive ancora aperte. I diversi ricercatori, docenti e dottorandi che hanno deciso di

fare parte del gruppo di lavoro hanno proposto autonomamente un certo numero di

questioni ed hanno in seguito definito e sviluppato a loro riguardo un lavoro che può

essere definito, in senso lato, un’analisi di valutazione dello stato dell’arte, ma che

comprende, in molti casi, anche l’indicazione delle vedute personali dell’Autore o degli

Autori. Come si vedrà, la gamma delle questioni (o aree/problema) discusse nei sei

contributi che seguono, per quanto limitate rispetto al numero di quelle che i

cambiamenti in atto o prevedibili ci propongono, appare diversificata e certamente

rappresentativa delle più importanti problematiche delle quali ci dovremo occupare

negli anni a venire: il sostegno della competitività e della salute economica delle

imprese alla luce dei cambiamenti in atto nelle filiere produttive e distributive agro-

alimentari (T. del Giudice, par. 2) e delle nuove condizioni di rischio a cui esse devono

far fronte, sia pure avvalendosi di nuovi strumenti di gestione (C. Cafiero e F.

Capitanio, par. 3); il perseguimento dei nuovi obiettivi “ambientali”, sia dal punto di

vista della sostenibilità degli usi del suolo (S. Pascucci, par. 4) sia da quello della

“produzione” di servizi che l’esercizio dell’agricoltura può comportare come effetto

esterno (L. Cembalo e F. Caracciolo, par.5); lo sviluppo rurale in senso proprio e le

condizioni necessarie per l’efficacia degli interventi (T. Panico, par. 6); infine una

problematica conoscitiva fondamentale e trasversale a tutte le altre: le iniziative in atto e

la possibilità di miglioramento della qualità e quantità dell’informazione necessaria per

il monitoraggio di consistenza, caratteri, attività e risultati economici delle imprese

agricole italiane (M. T. Gorgitano e A. Borlizzi, par. 7).

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I diversi contributi si distinguono non solo per l’area/problema considerato ma

anche per l’impostazione logica ed il taglio, i quali sono evidentemente collegati alla

natura ed all’origine del cambiamento da cui i problemi derivano.

Sotto questo profilo, come risulterà evidente dalla successiva presentazione,

ciascuno di essi può caratterizzarsi, in termini molto sintetici, nel modo seguente.

Il contributo di Teresa Del Giudice parte dalla considerazione dell’evoluzione

verificatasi negli ultimi anni all’interno di alcune importanti filiere di produzione e

distribuzione agro-alimentare, che impone sia una rivisitazione del concetto di qualità,

sia un ripensamento dell’articolazione delle strategie di applicazione di diverse linee di

politica agricola.

Carlo Cafiero e Fabian Capitanio analizzano le esigenze di ridefinizione

dell’intervento pubblico volto a rafforzare la capacità degli agricoltori ad affrontare il

rischio, con specifico riferimento alla situazione italiana ed europea, avvalendosi dei

risultati della ricerca teorica ed applicata sviluppata negli ultimi anni su diversi aspetti

del problema.

Luigi Cembalo e Francesco Caracciolo fanno il punto sullo stato attuale

(chiaramente inadeguato) delle conoscenze riguardanti la definizione in termini

concettuali e la possibilità di misurazione sul piano operativo degli obiettivi di tutela

della qualità del paesaggio rurale e del grado di biodiversità.

Il contributo di Stefano Pascucci parte dalla constatazione della scarsa efficacia

della politica agraria europea nei confronti del dichiarato obiettivo della salvaguardia

della sostenibilità dell’uso del suolo e propone e sviluppa a questo proposito un’analisi

interpretativa di carattere istituzionale. Questa interpretazione implica intuitivamente

l’esigenza di una radicale modifica della “filosofia” degli interventi pubblici che si

propongano esplicitamente l’obiettivo della sostenibilità.

Teresa Panico parte dalla considerazione dei risultati della ricerca riguardante la

teoria dello sviluppo agricolo e dello sviluppo rurale per valutare criticamente la

potenziale efficacia dei nuovi piani di sviluppo rurale delle regioni (italiane)

dell’Obiettivo Convergenza, con specifico riferimento all’ottica territoriale dello

sviluppo nell’ambito delle aree rurali più arretrate. A questo proposito si richiama

l’attenzione anche sulla questione del monitoraggio e della definizione ad uso degli

indicatori di impatto.

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Il contributo di Maria Teresa Gorgitano ed Andrea Borlizzi affronta infine la

questione delle esigenze di conoscenza dei fatti, con specifico riferimento al

monitoraggio delle dinamiche generali riguardanti consistenza, caratteri e risultati

economici delle imprese agricole; a questo proposito si presentano e si discutono le

attuali prospettive ed i problemi di miglioramento del flusso di informazioni e propone

una valutazione della loro rispondenza al fine di effettuare le verifiche, in itinere ed ex-

post, dei piani di sviluppo rurale 2007-2013.

2. UNA MODERNA POLITICA DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE: LA NECESSITÀ

DI NUOVE BASI CONOSCITIVE PER L’IMPLEMENTAZIONE

Conoscere le tendenze di cambiamento della realtà rappresenta un presupposto di

base che è destinato ad acquisire una valenza strategica nuova ed un’importanza

crescente nei moderni scenari competitivi. Il settore agroalimentare è stato interessato,

nell’ultimo decennio, da un processo di cambiamento che non sembra ancora arrivato

alla conclusione. Gli effetti principali di tale evoluzione sono chiaramente visibili in

tutta una serie di peculiarità nuove del comparto alimentare che ancora, in molti casi,

non sono state oggetto di un sufficiente sforzo di analisi. La necessità di acquisire

conoscenze aggiuntive inerenti a tali aspetti è la sfida che attende analisti e policy maker

al fine di implementare politiche per l’agroalimentare che permettano un aumento della

competitività del comparto.

Numerosi sono i percorsi strategici su cui strutturare l’intervento pubblico per

l’agroalimentare del prossimo futuro. Fra questi le politiche incentrate sul

miglioramento della qualità dei prodotti sembrano rivestire un ruolo di primaria

importanza sia al fine di rendere più efficace la tutela dei consumatori sia di migliorare

la competitività del sistema agroalimentare.

Scegliere il miglioramento della qualità come strategia per favorire lo sviluppo e

la competitività del settore agroalimentare richiede, a monte, di fare chiarezza su tre

quesiti di base.

Il primo, forse il più importante, è relativo a che cosa significhi, oggi, nei moderni

scenari di consumo, produrre beni di qualità.

12

Il secondo è, invece, connesso alle condizioni per le quali la qualità potrebbe

rappresentare uno strumento competitivo non solo nei mercati internazionali ma anche

fra i diversi operatori delle filiere agroalimentari.

Il terzo, infine, è relativo a come la qualità, nell’ambito degli obiettivi e strumenti

della politica agricola, potrebbe produrre effetti positivi nel medio e lungo periodo a

favore del sistema agroalimentare italiano.

Riguardo al primo quesito, possiamo riconoscere che negli ultimi anni, il concetto

di qualità ha subito una rapida evoluzione. La qualità è passata dal riferirsi

esclusivamente agli attributi intrinseci del prodotto e, quindi, ad essere sinonimo di

eccellenza, ad una accezione più ampia che è andata riempiendosi di significati diversi.

Attualmente, è ampiamente riconosciuto che, nei moderni mercati al consumo, la qualità

dei prodotti alimentari è formata sia dall’insieme di caratteristiche intrinseche ed

estrinseche del bene (Grunert, 2002) sia dalle modalità con cui queste vengono

assicurate e comunicate ai clienti finali (Caswell e Joseph, 2007). Conseguentemente, le

scelte di acquisto vengono influenzate non solo da elementi quali il gusto, il prezzo, ma

anche dall’assortimento del punto vendita, dalle strategie di comunicazione, dal livello

di sicurezza alimentare, dagli aspetti nutrizionali, dall’origine, dalla certificazione

biologica, così come da quella del rispetto dei principi di equità e solidarietà lungo i

processi produttivi (Del Giudice, 2007). Queste nuove componenti del concetto qualità,

rappresentate sempre più da attributi fiducia dei beni e sempre meno da quelli

esperienza, hanno reso necessario un ricorso crescente a svariate forme di certificazione

o standard che rendessero visibili tali caratteristiche ai consumatori finali al fine di

influenzarne le scelte di acquisto (de Stefano, 2007). La proliferazione di standard di

produzione che hanno come oggetto aspetti tangibili ed intangibili del prodotto o del

processo ha, negli anni recenti, interessato sia la sfera legislativa pubblica che quella

privata, dando vita ad un fenomeno nuovo per il comparto agroalimentare. Gli effetti

principali di tale sviluppo hanno riguardato, in modo particolare, la strutturazione delle

filiere produttive in termini di cambiamenti nei rapporti di forza fra le diverse fasi e di

creazione di nuove forme di integrazione (Del Giudice, 2007). I diversi operatori della

filiera, infatti, con intensità e potere crescente a partire dalla fase di produzione primaria

fino alle aziende di distribuzione, usano le diverse componenti della qualità non solo per

decidere le politiche di marketing da adottare ma soprattutto per individuare i sistemi di

13

controllo di processo e di prodotto più adeguati da implementare (Giacomini e Mancini,

2005). In particolare, la fase di distribuzione che, sempre più, rappresenta l’operatore

con maggiore potere di mercato e con la più alta influenza informativa nei confronti del

consumatore finale, sembra aver affidato agli standard, in misura ridotta a quelli

pubblici e, in modo particolare, a quelli privati, un valore strategico rilevante sia nei

confronti dei consumatori finali sia nei confronti delle fasi a monte della filiera. Tale

scelta strategica, inoltre, acquisisce un’importanza maggiore alla luce del peso minore

che le preferenze dei consumatori finali sono destinate ad avere sullo sviluppo del

comparto agroalimentare. Infatti, il ruolo svolto dall’evoluzione della domanda di

qualità sull’evoluzione di tale settore, nei paesi avanzati, sarà caratterizzato da

un’importanza decrescente (Caswell e Joseph, 2007). In futuro, sarà lecito attendersi

che, anche se la domanda finale rimarrà comunque una delle principali forze che

guiderà il mercato agroalimentare, il ruolo degli operatori più forti sarà destinato ad

assumere una valenza crescente nelle linee di sviluppo da seguire.

La descrizione dei cambiamenti avvenuti indica perché sia necessario anche dare

una risposta al secondo quesito esposto in precedenza. La qualità, vista in termini di

standard e di certificazioni di processo e di prodotto, è diventata una leva strategica da

utilizzare sia dal comparto nel suo complesso nei diversi mercati al consumo sia dagli

operatori più forti nei confronti dei soggetti più deboli all’interno della filiera.

In particolare, la politica seguita dalla fase commerciale della filiera è stata quella

di moltiplicare e differenziare un numero elevato di standard privati che, molto prima di

quanto abbia fatto la regolamentazione pubblica obbligatoria, hanno avuto come

obiettivo quello di selezionare i fornitori al fine di raggiungere livelli più elevati di

sicurezza alimentare e di qualità, addossando un parte rilevante dei costi alle fasi a

monte della filiera e ai consumatori finali. Nella realtà operativa di impresa, la creazione

di una filiera controllata con fornitori affidabili e con costi minimi di controllo viene

realizzata dalla moderna distribuzione attraverso queste nuove forme contrattuali

(Giacomini e Mancini, 2006). In linea con l’evolversi e l’arricchirsi di contenuti del

concetto di qualità, anche i protocolli contrattuali tra la moderna distribuzione e le fasi a

monte della filiera hanno avuto come obiettivi prima la semplice sicurezza igienico

sanitaria degli alimenti, poi la realizzazione di processi produttivi a minor impatto

ambientale, fino ad arrivare attualmente a standard che prevedono aspetti etici e solidali

14

della produzione. Le ISO 9000, la tracciabilità di filiera (ISO 10439), i numerosi

standard implementati da specifiche catene distributive, la certificazione Eurepgap e

BRC, la SA 8000 rappresentano solo alcuni esempi dei possibili protocolli “volontari”

richiesti dalla grande distribuzione ai propri fornitori.

L’elevata attenzione che i consumatori moderni rivolgono agli aspetti igienico-

sanitari ed etici degli alimenti e l’aumento della concentrazione9 e della competizione

all’interno della fase distributiva rappresentano le condizioni per cui una moderna

accezione di qualità viene considerata una via da seguire per aumentare la competitività

del comparto. Più interessante e meno studiato è, invece, il ruolo rivestito dagli standard

nella governance delle filiere agroalimentari. Tali certificazioni, infatti, benché abbiano

carattere volontario sono, de facto, obbligatorie per quei produttori che hanno la grande

distribuzione come cliente intermedio di elezione (Henson, 2006). Inoltre, gli standard

privati sono, in molti casi, la risposta a leggi nazionali ed internazionali deboli e

rappresentato un’innovazione nell’approccio alla regolamentazioni. Infatti, questi

protocolli privati, creati da distributori che, nella maggior parte dei casi, hanno

dimensioni transnazionali se non planetarie, finiscono per creare piattaforme contrattuali

caratterizzate da bassi costi di transazione e con una vocazione di spinta trasversalità fra

economie e legislazioni nazionali non armonizzate (World Bank, 2005; Chemits, 2007).

Tali standard privati rappresentano, in sintesi, moderni strumenti per coordinare le

filiere agroalimentari (Reardon e Farina 2002, Giacomini e Mancini, 2006) e forze

importanti nel dirigere lo sviluppo del settore agroalimentare (de Stefano, 2007).

I processi evolutivi descritti, caratterizzati da numerosi elementi di novità,

rendono necessaria una riflessione sulle possibili componenti da includere in una

moderna politica pubblica della qualità. Tale analisi è di fondamentale importanza al

fine anche solo di accennare una possibile risposta all’ultimo quesito esposto in

precedenza.

Il primo aspetto da considerare è quello legato ai nuovi contenuti del concetto di

qualità già richiamati: oggi la qualità non è solo sinonimo di eccellenza come nel caso

dei prodotti tutelati da certificazioni comunitarie (DOP, IGP, ecc.) ma è qualcosa di più

ampio e in continua evoluzione che interessa non solo attributi tangibili ed intangibili

del bene ma anche aspetti organizzativi dell’intero processo produttivo. 9 Le prime 5 catene distributive hanno una quota di mercato pari a circa il 70% in molti paesi europei (Wijnands et al., 2006)

15

L’importanza crescente rivestita dal livello organizzativo dei soggetti economici si

riflette in un’altra componente strategica di una moderna politica, che è l’innovazione.

Anche in questo caso, tale concetto deve, necessariamente, spingersi oltre i confini

tradizionali del processo e del prodotto per arrivare al management aziendale e

all’organizzazione di filiera.

Seguendo questo potrebbe essere utile dare una nuova ed alternativa lettura al

concetto di piccola e media impresa alla luce dell’importanza che tale soggetto

economico riveste all’interno delle filiere produttive, influenzandone le strategie di

crescita e di governance. Questa categoria che caratterizza il sistema agroalimentare,

soprattutto italiano, è stata tradizionalmente identificata ricorrendo ai classici indicatori

di dimensione economica (estensione, fatturato, numeri di dipendenti). In una realtà,

dove nuove forme di integrazione verticale stanno ridisegnando i rapporti fra i diversi

soggetti delle filiere, fare riferimento oltre che alla dimensione economica anche a

quella organizzativa delle imprese permetterebbe una migliore caratterizzazione degli

interventi ed una più adeguata identificazione dei diversi segmenti a cui rivolgere tali

politiche.

In un contesto così articolato come quello dell’attuale sistema alimentare,

l’operatore pubblico dovrebbe rivedere il ruolo rivestito nella gestione della qualità,

ambito questo che, mai come negli scenari attuali, appare fortemente integrato con le

politiche per la competitività e quelle per l’innovazione.

L’implementazione di un moderno intervento pubblico dovrebbe seguire due

direttrici ben delineate. La prima, fortemente connessa alle nuove valenze del concetto

di qualità, dovrebbe avere come obiettivi quelli di abbassare l’asimmetria informativa e

i costi di transazione con l’ausilio di standard pubblici e di analizzare le potenzialità di

vecchie e nuove forme contrattuali come possibili elementi strategici di sviluppo.

La seconda, invece, correlata ai nuovi rapporti esistenti fra gli operatori

agroalimentari, dovrebbe facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese alle moderne

filiere produttive (OECD, 2006) e implementare interventi a favore del comparto

agroalimentare maggiormente customer oriented.

Le linee strategiche descritte, benché molto diverse, dovrebbero essere tutte il

risultato di un approccio che individui nel miglioramento della qualità, nell’aumento

della competitività e nel perseguimento dell’innovazione obiettivi integrati.

16

Amplificare e rendere operativi gli aspetti descritti richiede, come sottolineato in

apertura, sia l’integrazione di basi conoscitive già esistenti sia la creazione di nuove.

A livello comunitario il bisogno di una nuova base conoscitiva ed interpretativa è

ormai avvertito come forte e non procrastinabile. Uno degli esempi, nell’ambito dei

tentativi compiuti per l’armonizzazione degli standard, è fornito dal progetto pilota

Food Quality Schemes promosso dalla DG AGRI e dalla DG RTD, il cui primo

obiettivo è proprio quello di rilevare, nei vari paesi membri, le informazioni necessarie

alla fattibilità e alla eventuale costruzione di un protocollo unico europeo10 .

Nuovi fabbisogni conoscitivi riguardano anche la veloce evoluzione che interessa

da un lato le preferenze dei consumatori e dall’altro i fabbisogni dei clienti intermedi.

Impostare programmi di interventi pubblici e privati non riconoscendo un ruolo

“ridimensionato della domanda finale” significa non riconoscere che le imprese

agroalimentari hanno, sempre più, quale interlocutore esclusivo il cliente intermedio.

In tale ottica, un rinnovato sforzo di indagine ed analisi andrebbe dedicato alle

forme contrattuali moderne e alle filiere, approfondendone la conoscenza non solo degli

aspetti strutturali ma anche delle tipologie di integrazione.

3. L’INTERVENTO PUBBLICO PER LA GESTIONE DEL RISCHIO PER LE IMPRESE

AGRICOLE

3.1.- La premessa

Per circa 35 anni, la PAC e la presenza della compensazione ex-post in caso di

eventi dannosi hanno contribuito in maniera determinante ad annullare o mitigare gli

effetti di molti fattori di rischio per i produttori agricoli europei, indebolendo

l’attenzione che ricercatori e politici hanno dedicato in Europa al problema della

gestione del rischio di impresa in agricoltura.

Di recente però, la riforma della PAC e gli accordi siglati in ambito WTO per il

settore agricolo sembrano aver creato i presupposti per un rinnovato interesse al

10 Per eventuali approfondimenti si veda il sito http://foodqualityschemes.jrc.es/en/index.html

17

problema, in termini sia di necessità di intervento pubblico che del possibile uso di

strumenti privati (Cafiero, 2003).

Da un lato, la sostanziale revisione delle politiche di mercato, con lo

smantellamento del sistema di prezzi garantiti e la graduale eliminazione delle

restituzioni alle esportazioni, avrebbe il risultato di esporre gli agricoltori europei alle

dinamiche del mercato mondiale e, quindi, a prezzi più variabili che in passato. Tra

l’altro, l’istituzione del pagamento unico aziendale, pur introducendo una componente

stabile del reddito delle famiglie agricole, genera il “rischio” politico che tale

componente possa essere ridotta o eliminata in futuro.

Dall’altro lato, in ambito WTO, tra gli interventi a sostegno del settore agricolo

che rientrano nella “scatola verde” sono stati inclusi il sostegno alle assicurazioni

agricole e il sostegno pubblico ex-post in caso di eventi calamitosi (artt. 7 e 8 dell’annex

II all’accordo sull’Agricoltura, rispettivamente, disciplina della partecipazione dei

governi ai programmi assicurativi e aiuti governativi in occasione di disastri e calamità

naturali) ed è inoppugnabile che tali accordi abbiano inciso notevolmente sulle forme

che le politiche di sostegno ai redditi degli agricoltori hanno assunto da allora,

inducendo i singoli Governi a cercare, nelle pieghe degli accordi presi, mezzi meno

diretti, diversi, ma leciti, per aiutare gli operatori del settore primario (Cafiero et al,

2007). Nello specifico, è verosimile l’ipotesi per cui il poter sussidiare le assicurazioni

agricole in virtù di questi accordi, ha giustificato politicamente e, quindi, rafforzato lo

stanziamento di risorse pubbliche in questa direzione, prescindendo da una analisi

attenta dell’efficienza della spesa pubblica.

Questo scenario politico-istituzionale dell’agricoltura europea, mutato rispetto al

passato, ha generato indubbiamente una spinta per gli agricoltori e i governi europei

verso la definizione e l’uso di strumenti, anche alternativi rispetto a quelli impiegati in

passato, che fossero di ausilio alla prevenzione o alla gestione delle conseguenze di una

perdita di produzione o un calo dei prezzi. In tal senso, anche la ricerca economico-

agraria si è impegnata di recente nel tentativo di definizione di un approccio nuovo al

problema, ma è nostra opinione che gli sforzi profusi finora non abbiano ancora avuto i

risultati auspicabili e quanto accaduto finora in tema di intervento pubblico nella

gestione del rischio in agricoltura manifesta dei limiti che, in questa nota, vorremmo

contribuire a evidenziare, indicando alcune direzioni operative per il loro superamento.

18

3.2.- La tradizione: sussidio alle assicurazioni e pagamenti compensativi ex-post

Storicamente, dove c’è stato, l’intervento pubblico esplicito a sostegno della

gestione del rischio è stato in gran parte limitato alla erogazione di risarcimenti dei

danni ex-post e di sussidi ai premi assicurativi pagati dagli agricoltori.

Nel primo caso, i pagamenti compensativi istituzionalizzati (come ad esempio in

Francia e Italia) o gli stanziamenti ad hoc in caso di eventi “eccezionali” (negli USA),

avevano il vantaggio di essere basati su un concetto di solidarietà estesa, con riduzione

dei costi sociali degli eventi catastrofici, ma, contemporaneamente, impedivano la

programmazione della spesa e generavano la possibilità di “political rent seeking”11

(Cafiero et all. 2005).

Nel secondo caso, sulla scia forse del massiccio e datato intervento che il governo

USA indirizza a sostegno dei premi delle polizze assicurative agricole, anche in Europa

(Italia e Spagna soprattutto) si è cercato di sfruttare il vantaggio di poter programmare la

spesa ex ante e di potersi affidare ad un meccanismo di mercato presunto più efficiente.

Tuttavia, anche nel caso del sussidio alle assicurazioni si sono presto manifestate

problematiche di “economic rent seeking” e di efficienza della spesa. La possibilità di

“importare” il modello di intervento americano si deve scontrare con il fatto che, mentre

negli USA esistono condizioni per cui tale sistema può avere un senso, in Europa tali

condizioni non sono presenti. Molti, ad esempio, ignorano che negli USA esistono serie

storiche lunghe ed affidabili dei redditi individuali degli agricoltori; che è il pubblico

stesso che svolge la funzione di assicuratore (le imprese sono solo agenti del RMA, lo

USDA fornisce esso stesso la riassicurazione); che esiste una capacità di spesa pubblica

procapite in agricoltura molto maggiore di quella che abbiamo in Europa. Queste

condizioni si tramutano nella possibilità di poter determinare con maggiore precisione i

profili di rischio degli assicurati, di poter calcolare le soglie di indennizzo, di poter

fissare premi per le polizze che non siano distorti da eventuali concentrazioni di mercato

11 In Italia, ad esempio, tra il 1998 e il 2005, ci sono stati circa 300 decreti di stato di evento “eccezionale” che hanno autorizzato l’erogazione di pagamenti compensativi. Negli Stati Uniti gli anni in cui cadevano le elezioni presidenziali sono stati anche quelli caratterizzati da maggiori stanziamenti ad hoc.

19

dal lato dell’offerta, e di poter sostenere livelli di efficienza della spesa pubblica molto

inferiori di quelli che vengono richiesti in Europa.

L’espansione del modello di intervento basato sul sussidio alle assicurazioni di

ispirazione nordamericana ha avuto comunque delle conseguenze che rendono più

difficile la eventuale modifica del tipo di intervento pubblico nel settore. In altri paesi,

Italia in primis e più di altri12, da un lato si è diffusa una percezione comune, a nostro

avviso distorta, della potenzialità delle assicurazioni da parte degli agricoltori,

generando una sorta di “illusione da sussidio”; da un versante diverso, si è tolta

l’attenzione dalle possibilità offerte da altri strumenti di gestione del rischio, per cui il

mercato del rischio agricolo è in parte sfuggito all’attenzione degli operatori finanziari.

La principale giustificazione addotta dai sostenitori del sostegno pubblico

all’assicurazione resta quella per cui questo strumento dovrebbe essere uno alternativo

alla compensazione ex-post, e che garantirebbe, a parità di spesa pubblica, una

maggiore efficienza, data la possibilità di poter condividere con le società assicuratrici

parte delle perdite finanziarie necessarie alla compensazione dei danni materiali occorsi

agli agricoltori. Il costo dell’intervento istituzionale necessario a “spingere” la domanda

di assicurazioni con sussidi ai premi delle polizze sarebbe stato, nelle intenzioni, più che

compensato dal risparmio negli interventi ad hoc per il settore. Alla luce dell’esperienza

storica, tuttavia, la giustificazione sembra non reggere. Innanzitutto, tanto negli Stati

Uniti che in Europa, il costo del sostegno alle assicurazioni ha raggiunto livelli elevati

quando, al sussidio ai premi, si è presto dovuta aggiungere anche la presenza dello Stato

nella riassicurazione delle perdite delle compagnie. Venendo meno la possibilità di

reperire sul mercato capacità riassicurativa per le polizze agricole agevolate, le

compagnie hanno trasferito allo Stato l’eccesso di rischio (anche in questo, il modello

statunitense sembra aver fatto scuola). In tal modo però, anziché essere le compagnie

assicurative a sostenere parte dell’onere del sistema, sembra essere lo Stato che oltre

agli agricoltori, supporta anche il settore assicurativo privato, ma con fondi che

comunque vengono ascritti al bilancio di spesa di competenza agricola! 12 Più specificatamente, l’intervento pubblico per la gestione del rischio e delle crisi in agricoltura nasce

in Italia nel 1970 con la L. n. 364, che istituiva il Fondo di Solidarietà Nazionale (FSN). Inizialmente, il FSN nasceva con due intenti: in primo luogo, compensare gli agricoltori che vedevano gravemente danneggiata la propria capacità reddituale per danni alle colture imputabili ad eventi atmosferici indesiderati ovvero, per ragioni al di fuori del controllo gestionale dell’impresa. Dall’altro lato, ulteriore obiettivo del FSN, era quello di sostenere i fondi assicurativi mutualistici, che, invero, storicamente è stata la voce che ha assorbito minori risorse.

20

Ma ciò che è più grave, secondo noi, è che questo impegno pubblico sia avvenuto

senza benefici aggiuntivi per il settore agricolo: come ripetutamente evidenziato nei

tanti studi che hanno analizzato il mercato delle assicurazioni agricole nei vari paesi, il

livello complessivo di partecipazione degli agricoltori al mercato assicurativo non

sembra essere stato positivamente correlato al livello di spesa pubblica. All’aumento del

livello di sussidio ai premi, non si è accompagnata una capillare diffusione delle

assicurazioni. Né tantomeno il bilancio dello Stato sembra aver trovato sollievo da

questo tipo di politica. L’aumento della spesa a sostegno delle assicurazioni si è

accompagnato ad una mancata riduzione, se non addirittura ad un aumento, dei fondi

stanziati a vario titolo per la compensazione dei danni ex-post13 (Glauber, 2004). La

realtà è che si è assistito al sostanziale fallimento di una visione di intervento pubblico

nella gestione del rischio in agricoltura basata sulla contemporanea presenza della

compensazione dei danni ex-post e sul sostegno ai premi delle polizze, fallimento

ratificato dal fatto che, ad esempio, in paesi dove non esiste sostegno pubblico (come ad

esempio in Germania, Regno Unito, Australia o Nuova Zelanda) il livello di diffusione

delle assicurazioni agricole non è inferiore a quello che si osserva in Italia, in cui,

ancora, l’assicurazione riguarda essenzialmente la copertura di poche colture (frutta e

vite) contro la grandine14.

3.3.- Le ragioni di un fallimento

È opportuno chiedersi, a questo punto cosa sia alla base delle difficoltà evidenziate

finora dall’assicurazione tradizionale quale strumento generale per la gestione del

rischio agricolo. Il primo punto da evidenziare è quale sia la “variabile” di interesse da

assicurare. Cioè, cosa si deve assicurare, il rischio di resa o il rischio di reddito?

L’assicurazione tipicamente riguarda il primo, e in un regime di prezzi garantiti i due

rischi praticamente si equivalgono. Ma se i prezzi sono liberi di variare, allora ciò che

conta è il rischio di ricavo, o addirittura, se anche i costi di produzione sono incerti, il 13 Negli Stati Uniti, così come più recentemente in Italia, per evitare il problema della duplicazione della

spesa, si è cercato di condizionare il pagamento di indennizzi al possesso di una qualche forma di assicurazione delle colture; ma se gli agricoltori non credono, come nei fatti non hanno creduto, alla minaccia di non indennizzare gli agricoltori privi di copertura assicurativa e non si assicurano lo stesso, il problema rimane irrisolto.

14 A partire dal 2006 si è registrata una crescita sostanziale, fino al 30% della quota di PLV nazionale, assicurata con polizze multi rischio.

21

rischio di reddito netto. Ciò però implica delle difficoltà per l’assicurazione, dato che le

condizioni per l’assicurabilità di un danno risiedono nella possibilità di caratterizzare il

“profilo” di rischio del potenziale assicurato, e quindi di disporre di dati attendibili sul

reddito storico dello stesso e di contare sulla stazionarietà del processo di generazione

del reddito, entrambi aspetti problematici in Europa e in Italia.

Altra condizione per la stipula di una polizza assicurativa è quella di poter

controllare efficacemente i problemi di asimmetria informativa (selezione avversa,

azzardo morale) (Coble et al, 1997; Just et al, 1999) ovvero, la possibilità di

accertamento e misura del danno, tutte cose particolarmente problematiche quando

l’oggetto dell’assicurazione sia il reddito. Infine, un’ulteriore condizione che rende

efficace l’assicurazione è l’assenza di eventi sistemici, il che rende difficile pensare di

estendere l’assicurazione anche al rischio di prezzo che, per sua natura, è sistemico per i

produttori di un dato prodotto. L’assicurazione delle rese, quindi, al più può

rappresentare una delle componenti di un portafoglio più ampio di attività e strumenti

che l’agricoltore dovrebbe utilizzare per garantirsi un reddito stabile. Inoltre, dal punto

di vista della giustificazione dell’intervento pubblico, ciò che conta è la stabilità dei

consumi delle famiglie agricole, non quella del reddito corrente, il che implica anche il

dover considerare in che modo l’uso dell’assicurazione si integra con l’uso del

risparmio, del credito e, in generale della diversificazione di fonti di reddito (Wright and

Hewitt, 1994). Per tutti questi motivi, la presunta efficienza dell’intervento pubblico

passato e attuale appare non sufficientemente supportata dall’evidenza sia teorica che

empirica. Per poter concludere sulla auspicabilità dell’intervento pubblico in questo

senso, bisognerebbe chiedersi se e in che misura il sussidio al premio può ridurre

l’impatto negativo dei fenomeni di azzardo morale, selezione avversa, rischio sistemico

e pagamenti compensativi sul livello del premio delle polizze. Siamo cioè sicuri che

sussidiare i premi sia il modo meno costoso per il pubblico di supportare gli agricoltori

nella gestione del rischio di reddito? Quali problemi di distribuzione di benefici questo

tipo di intervento implica?

Le risposte a queste domande contribuiscono tutte alla formazione di un giudizio

molto negativo. Primo, il sostegno dei premi delle polizze non è in grado di attenuare o

al limite eliminare l’azzardo morale o la selezione avversa poiché non affronta né

direttamente né indirettamente il problema informativo che ne è alla base, e i costi

22

amministrativi associati per tentare il controllo dei problemi di asimmetria informativa

sono molto alti. Secondo, la possibilità di rischio sistemico impone alti costi di

riassicurazione (Duncan, 2000; Glauber, 2004). In aggiunta, il sussidio al premio,

nascondendo agli agricoltori quale sia il reale costo associato allo strumento, potrebbe

alterarne i comportamenti produttivi, favorendo scelte rischiose quali la messa a coltura

di terreni fragili e potendo in questo senso generarsi anche problematiche di carattere

ambientale e di conflitto con politiche di salvaguardia ambientale.

Un ulteriore aspetto che sembra essere sfuggito quasi totalmente all’analisi

sull’incidenza del sussidio pubblico alle assicurazioni agricole è quello del possibile

legame tra gli effetti di una tale politica e la presenza di possibili concentrazioni di

mercato, e di comportamenti strategici da parte delle compagnie assicurative (Capitanio

and Cafiero, 2006). In virtù di un possibile potere di mercato, le compagnie assicurative

potrebbero effettuare di fatto una discriminazione di prezzo che coinvolgerebbe solo la

domanda caratterizzata da una elevata disponibilità a pagare. Se esiste potere di

mercato, il sussidio potrebbe non determinare una riduzione del costo effettivo della

copertura assicurativa per gli agricoltori, ma tramutarsi in rendita catturata dagli

assicuratori attraverso un più alto valore del premio di mercato.

3.4.- La proposta

Appare chiaro quindi di come ci sia necessità di una nuova visione dell’intervento

pubblico nella gestione del rischio e delle crisi nel settore primario.

Le principali lezioni che si possono trarre dal passato possono essere riassunte

nella mancata comprensione della rilevanza dei fattori di rischio e dei loro potenziali

effetti sul benessere degli agricoltori; tali effetti e, quindi, il valore di possibili politiche

pubbliche che riducono il rischio richiedono che i rischi affrontati dagli agricoltori siano

misurati in termini dei livelli dei consumi delle famiglie agricole e non del reddito

corrente. I consumi dipendono dal livello di reddito permanente atteso dell’intera

famiglia; molti rischi possono essere gestiti efficacemente dagli agricoltori, sia

attraverso la diversificazione delle fonti di reddito, sia attraverso l’uso di meccanismi,

quali il risparmio e il credito, con i quali si possono gestire fluttuazioni di reddito

limitate senza l’esigenza di un sostegno pubblico.

23

All’estremo opposto, quando la prevedibilità degli eventi è così limitata che non è

possibile concepire alcuna azione preventiva, oppure quando i potenziali danni

eccedono le capacità di gestione autonoma da parte dell’agricoltore, non c’è alternativa

alla presenza di una qualche forma di solidarietà pubblica.

Al fine di evitare inefficienze e sprechi di risorse pubbliche, tuttavia, dovrebbe

essere fatta una distinzione non surrettizia tra il normale rischio d’impresa e gli eventi

effettivamente disastrosi. Gli agricoltori dovrebbero conservare la responsabilità

principale della gestione del normale rischio d’impresa, per il quale dovrebbero essere

sempre evitate azioni pubbliche che tendono a sostituirsi alle azioni private.

Nella gestione del sistema di solidarietà pubblica da attivare in caso di “crisi” uno

degli aspetti cruciali resta quello del controllo dell’informazione. La responsabilità di

determinare le condizioni che possono far scattare il trasferimento di risorse pubbliche,

ad esempio, dovrebbero essere delegate ad un’agenzia indipendente dall’autorità

politica; solo i danni alle strutture aziendali che potrebbero compromettere la ripresa

della normale attività produttiva in tempi brevi dovrebbero essere oggetto di

risarcimento diretto. I danni eventuali alla produzione corrente dovrebbero essere

sempre esclusi dal risarcimento diretto, ad evitare la creazione di incentivi distorti. Le

compensazioni potrebbero prendere la forma sia di trasferimenti diretti di reddito, che –

meglio – di partecipazione finanziaria nel pagamento degli interessi su prestiti

specificamente accesi per ricostruire le strutture aziendali danneggiate. Nel medio-lungo

termine, l’azione pubblica dovrebbe essere mirata a sostenere le azioni preventive

private che riducono la portata dei danni causati dalle calamità naturali, per esempio,

fornendo agli agricoltori incentivi per realizzare investimenti in infrastrutture protettive.

Per il normale rischio d’impresa, d’altro canto, l’azione pubblica dovrebbe

limitarsi a favorire il realizzarsi delle condizioni che consentono agli agricoltori di

sviluppare la propria capacità autonoma di gestione del rischio, usando gli strumenti

privati dell’assicurazione, del credito, e dei mercati finanziari. In questo caso,

l’intervento pubblico dovrebbe avere il solo scopo di promuovere l’attività dei mercati

privati e non di sostituirsi ad essi. In tal senso, ancora una volta il ruolo chiave

dell’operatore pubblico potrebbe essere quello di garantire la trasparenza, tempestività

ed affidabilità delle informazioni. In questa direzione, tipologie di intervento pubblico

auspicabili, anzi necessarie, sarebbero quelle di produrre e favorire la diffusione rapida

24

delle informazioni “certificate” sugli eventi atmosferici e sulle rese e sui prezzi. In tal

modo, gli assicuratori potrebbero delineare meglio i profili di rischio degli assicurati; la

stima del danno sarebbe meno soggetta a comportamenti opportunistici degli agenti in

gioco (lo sviluppo di contratti assicurativi indicizzati su parametri atmosferici oggettivi

appare, in tal senso, particolarmente promettente).

Ancora, anziché intervenire direttamente sui rischi, lo Stato potrebbe intervenire

sulle capacità degli agricoltori di affrontarne le conseguenze, promuovendo la

costituzione di fondi mutualistici o di riserve precauzionali, attraverso incentivi diretti e

indiretti quali, ad esempio benefici fiscali e previdenziali.

L’obiettivo ultimo dell’intervento pubblico dovrebbe cioè essere quello di

accrescere il potenziale di autoassicurazione degli agricoltori contro i rischi meno gravi

a livello di azienda, ad esempio sostenendo gli agricoltori nel migliorare la protezione

attiva (reti anti-grandine, irrigazione contro la siccità, ecc.); implementando un sistema

di monitoraggio dei prezzi e delle quantità scambiate sui diversi mercati nazionali, in

modo da poter certificare e fronteggiare velocemente le crisi di mercato; migliorando

l’accesso al credito, che è fondamentale per la gestione di cassa nei momenti di

difficoltà dell’azienda; incentivando la diffusione di strumenti innovativi quali fondi

mutualistici e coperture indicizzate, in cui la presenza pubblica potrebbe essere relegata

utilmente alla garanzia del funzionamento degli strumenti e alla fornitura di

informazioni.

4. IL RUOLO DELL’AMBIENTE ISTITUZIONALE NELLA GESTIONE SOSTENIBILE DELLA

RISORSA TERRA

4.1. - Gestione sostenibile del suolo e ambiente istituzionale

Il tema della gestione sostenibile del suolo, nella duplice funzione di risorsa

naturale e di bene strumentale per l’impresa agraria, è divenuto uno dei principali

capisaldi della Politica Agricola Comunitaria15. Esso fornisce un valido esempio di ciò

che è possibile intendere come "nuova questione" sia per la "politica" che per le

15 Obiettivi di Goteborg.

25

esigenze conoscitive ad essa collegate. Favorire una maggiore sostenibilità d'uso della

risorsa suolo, infatti, richiede una approfondita conoscenza sul ruolo di tutti i fattori che

contribuiscono a determinarla e sul modo in cui l’ambiente istituzionale interagisce con

essi. In questo senso è utile riconoscere, da un lato, la presenza di più livelli istituzionali

in grado di incidere sulla sostenibilità d'uso e, dall'altro lato, la presenza di una path

dependency nel processo di formazione delle istituzioni tale che la valutazione del loro

funzionamento risulta fortemente connessa all'analisi dei processi di cambiamento

intervenuti nel passato (North, 1994).

La rilevanza dell’ambiente politico-istituzionale nel condizionare l’uso sostenibile

delle risorse è ormai ampiamente riconosciuta (Schleyer et al., 2007). Nel corso della

valutazione sui progressi nell’implementazione di Agenda 21 la Commissione per lo

Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (UNCSD) ha ufficialmente definito la

dimensione istituzionale come la quarta dimensione della sostenibilità dello sviluppo

che si affianca alle tre tradizionali dimensioni: economica, sociale ed ambientale

(Spangenberg et al., 2002). L’insieme di regole formali ed informali costituiscono

l’ambiente istituzionale e il sistema di inclusione sociale in cui si realizzano le scelte

che ogni singolo attore compie. Tali regole condizionano sia le scelte di utilizzazione

delle risorse (allocazione) sia la distribuzione dei diritti d’uso tra gli individui ed i

gruppi sociali (diritti di proprietà). In molti casi le regole che maggiormente tendono a

condizionare le scelte d’uso e possesso sono proprio quelle di carattere informale che

derivano da un insieme di valori, credenze ed aspetti culturali insiti nella comunità in

cui sono stati concepiti. Molto spesso l’incapacità di riconoscere l’assetto istituzionale

che effettivamente agisce in un dato ambito provoca l’implementazione di politiche

incompatibili con le regole formali ed informali della società, che pertanto tendono ad

essere inefficaci (Schleyer et al., 2007). In questo caso l'uso sostenibile delle risorse

spesso fallisce proprio a causa della mancanza o dell’inadeguatezza di assetti

istituzionali che invece i “policy-makers” danno, erroneamente, per acquisiti. Questa

problematica è ormai ampiamente documentata da una serie di evidenze empiriche che

sono state prodotte soprattuto nel dibattito sulle risorse collettive (Dovers, 2001; Esty et

al., 2005). In particolare, secondo la definizione di istituzione fornita da Ostrom

26

(1999)16 per analizzare le modalità di formazione (e cambiamento) delle istituzioni è

necessario distinguere tra tre livelli di regole in grado di influenzare le azioni sull’uso

delle risorse (allocazione delle risorse e dei diritti di proprietà): il primo di riferisce alle

regole operative, che influenzano direttamente le decisioni quotidiane prese da coloro

che detengono un diritto d’uso e possesso su quando, come e perché utilizzare le

proprie risorse; il secondo alle regole collettive, che indirettamente influenzano le regole

operative e derivano dall’azione di soggetti collettivi e loro rappresentanti nell’ambito

del processo di definizione delle politiche; l’ultimo alle regole costituzionali che

determinano chi sono i soggetti eleggibili e le regole da utilizzare per realizzare il set di

regole collettive. L’introduzione di una nuova politica, quindi, rappresenta uno dei

principali fattori formali di cambiamento istituzionale17, in grado di influenzare l’uso

sostenibile delle risorse naturali.

4.2. - Una riflessione sull’influenza dei cambiamenti politico-normativi sull’uso sostenibile del suolo in Italia

Il riconoscimento del legame tra ambiente istituzionale e scelte di gestione del

suolo è un tema che ha storicamente caratterizzato la tradizione economico-agraria

italiana18. Basterebbe ricordare i lavori del Medici (1948; 1966) e i numerosi scritti del

Serpieri (1947, 1957, 1969) in cui emerge la profonda consapevolezza, ad esempio, del

legame tra processi proprietari e dinamiche d’uso del suolo. In questi studi è

riconosciuta la complessità “istituzionale” di tali processi, in cui interagiscono regole

informali, norme abitudinarie, leggi statali e diritti “costituzionali”. In questi studi,

evidentemente, non vi è una prospettiva analitica connessa al tema della sostenibilità, in

quanto è una problematica di ricerca emersa molto più di recente nelle trattazioni

economico-agrarie. Tuttavia l’approccio istituzionalista de facto di due tra i più

importanti padri dell’economia agraria italiana può darci la dimensione della rilevanza

16 “una istituzione può essere definita come l’insieme di regole operative che vengono utilizzate per

determinare chi è eleggibile a prendere una decisioni in un dato contesto, quali azioni sono permesse o limitate, quali criteri di aggregazioni potranno essere usati, quali procedure seguire, quali informazioni possono o non possono essere fornite, e quali incentivi/premi devono essere assegnati ai singoli individui in relazione alle loro azioni”.

17 per un approfondimento teorico si vedano “Efficiency Theories of Institutional Change” (Eggertsson, 1990), “Distributional Theory of Institutional Change” (Knight, 1992), e “Public Choice Theory of Institutional Change” (Weimer, 1997).

18 Per una rassegna sul tema si rinvia al testo a cura di Paolo Abbozzo e Gaetano Martino (2004).

27

che il tema degli usi e del possesso della terra ha avuto in Italia ed in particolare della

relazione (ed interrelazione) tra regole d'uso (ambiente istituzionale) e sostenibilità.

Nella breve analisi che qui proponiamo il piano teorico-concettuale si riferisce al ruolo

attribuito da Williamson (2000) all’ambiente istituzionale nel condizionare le scelte

d’uso delle risorse, sia a livello di allocazione (uso) che di distribuzione dei diritti di

proprietà (possesso). Riferendosi alla classificazione tipologica di Ostrom (1999)

l’ambiente istituzionale (regole collettive) analizzato è costituito dai tre principali ambiti

politico-normativi che hanno condizionato la gestione del suolo in Italia: la normativa

europea in tema di agricoltura e, più di recente, di sviluppo rurale; le leggi e norme

nazionali per il settore agricolo (regole collettive settoriali); regole e norme in tema di

assetto territoriale (regole collettive territoriali). La metodologia di indagine utilizzata è

quella che viene definita "narrative literature review", che utilizza i risultati di altre

indagini ed un insieme plurimo di documenti per giungere ad una visione d’insieme più

ampia di quella raggiunta dalle singole analisi e dai singoli documenti utilizzati. Nel

caso specifico si è cercato di valutare il grado di compatibilità delle tre principali regole

collettive riferendosi a due dimensioni principali: la funzione attribuita alla risorsa suolo

ed il tipo di interazione con gli altri sistemi di regole formali. In questo modo è stato

possibile ipotizzare gli effetti prodotti dalle presenza di “incompatibilità istituzionali”

tra questi ambiti normativi in termini di maggiore/minore sostenibilità nella gestione del

suolo. Premettendo che la complessità degli impianti normativi analizzati non si presta

ad una agevole sintesi è possibile tracciare alcune indicazioni generali:

1. Le politiche agricole comunitarie, pur nella loro frammentazione e apparente

discontinuità, sembrano derivare da un disegno strategico meglio definito

rispetto alle politiche di origine nazionale; in esse il tema della gestione del

suolo riflette il progressivo delinearsi di una visione più complessa delle

funzioni della risorsa terra non solo in senso produttivo ma anche sociale,

ambientale, culturale, ecc.19;

2. Le politiche agricole di origine nazionale sono maggiormente orientate a

regolare gli assetti proprietari (diritti di proprietà). In esse la terra è una

risorsa economica (patrimoniale) e la regolazione dei diritti di proprietà uno

strumento di regolazione sociale; 19 Per un approfondimento sulla relazione policy/funzioni del suolo si veda Oltmer, 2003.

28

3. Le norme italiane in tema di gestione del territorio (in particolare in tema di

urbanistica e paesaggio) pur molto variegate per tipo di intervento e scala

territoriale, hanno tentato di regolare gli aspetti conflittuali tra natura privata

della proprietà delle singole parcelle di terra e natura pubblica dell’insieme

dei caratteri che costituiscono beni collettivi come il paesaggio, gli

ecosistemi, i bacini idrografici, ecc.;

Queste considerazioni derivano dai risultati ottenuti dall'analisi condotta sulle

principali “tappe normative” del processo di definizione delle politiche nei tre ambiti

prescelti. Per quanto attiene alle politiche comunitarie possiamo distinguere tre fasi

principali: la fase in cui la politica agricola comune è nata ed è stata avviata (1957-

1968) in cui, già a partire dal Trattato di Roma, il tema della gestione del suolo è

marginale e sostanzialmente connesso alla definizione delle politiche per le strutture

agricole (Reg. CEE/17/64) in una visione sostanzialmente produttivistica e solo

parzialmente sociale della terra, legata, per lo più, all’obiettivo del riordino fondiario.

La seconda fase è quella caratterizzata dai primi tentativi di riforma ed abbraccia il

ventennio dal 1968 (anno del II Piano Mansholt) al 1988 (anno di pubblicazione del

"Futuro del mondo rurale"). Questo periodo sembra caratterizzato da un sostanziale

“avanzamento” della visione comunitaria della terra da risorsa produttiva a bene dalle

funzioni multiple tra cui emerge con maggiore forza quella ecologico-ambientale20.

Esso appare come un periodo caratterizzato da “riflessioni” politiche piuttosto che da

azioni normative incidenti sul piano operativo. E’ solo con la riforma Mac Sherry e

l’introduzione delle misure di accompagnamento che inizia a prendere corpo la fase di

riforme effettive che ha caratterizzato l’inizio degli anni novanta ed è continuata,

attraverso Agenda 2000, sino alle riforme politiche più recenti (riforma Fishler e nuovo

regolamento per lo sviluppo rurale21). Questa fase vede la traduzione dei numerosi

documenti di riflessione in atti normativi effettivi che hanno introdotto un sostanziale

cambiamento dell’assetto istituzionale sulla gestione del suolo nei paesi membri

dell’Unione, facendo emergere la centralità del concetto di sostenibilità che si è

sostanziata nel riconoscimento delle funzioni multiple della terra.

20 si veda a tal proposito il Documento di riflessione della Commissione del 1985 "Prospettive della

politica agraria comune" (noto come Libro Verde) e la nota di De Filippis, Fugaro, 2004. 21 La riforma Fischler ha introdotto il principio della condizionalità, che la nuova programmazione per lo

sviluppo rurale ha recepito come baseline di riferimento per la concessione di ogni tipologia di aiuto (premio, indennità o sostegno agli investimenti).

29

Il percorso normativo nazionale è invece caratterizzato da una sostanziale

focalizzazione sulle regole proprietarie in cui le tappe più significative sembrano quelle

incentrate sull’azione di riordino fondiario e sulla regolazione della conduzione

dell’azienda agraria. L'analisi è stata concentrata, pertanto, sul periodo ritenuto più

rilevante in questo senso, dai primi anni del secondo dopoguerra agli inizi degli anni

'80. In particolare, sino alla prima metà degli anni sessanta (dalla Legge Stralcio del

1950 ai Piani Verdi del 1961 e del 1966) le politiche agricole nazionali maggiormente

connesse al tema della gestione della terra sono quelle della riforma fondiaria. Con

questo termine è possibile abbracciare un gran numero di atti legislativi, con effetti in

differenti aree del paese, orientati a regolare i diritti di proprietà della terra tra classi

sociali a favore della creazione delle proprietà diretto-coltivatrici22 (Minoia, 2007).

Anche le azioni normative successive sono per lo più ascrivibili alla sfera della

regolazione dei rapporti proprietari nelle campagne, attraverso regole sull’affitto e sulla

conduzione (contratti agrari)23. L’insieme di queste norme ha costituito un ambiente

istituzionale nel quale la funzione prevalente della terra è stata primariamente quella

sociale (regolatrice dei rapporti tra differenti classi sociali) e accessoriamente

economica (Grillenzoni, 1982).

Nonostante le intenzioni, si è trattato di un sostanziale "fallimento istituzionale"

che, pur originato dalle regole proprietarie, ha avuto conseguenze molto rilevanti anche

in termini di gestione sostenibile del suolo. Il fenomeno dell'abbandono di numerosi

terreni collinari e montani, ad esempio, è stato accentuato anche dalla crisi della

mezzadria a cui non si è saputo contrapporre un modello contrattuale in grado di rendere

efficiente l'organizzazione dell'impresa ed economicamente sostenibile l’uso dei suoli

meno dotati dal punto di vista pedologico (Di Cocco, 1978). Gli effetti dell'abbandono

sono stati rilevanti in termini di perdita di fertilità, erosione e gestione delle acque,

soprattutto nelle aree della collina appenninica24 (Medici, 1978). In pianura, al

contrario, la debolezza strutturale delle imprese agricole e la paralisi dei fenomeni di

22 In tema di riforma fondiaria in Italia si veda Pampaloni (1976) e Grillenzoni (1982). 23 Negli anni sessanta si sviluppano una serie di interventi per la regolazione dei contratti agrari (colonia e

mezzadria), mentre tra il 1971ed il 1973 viene approvata la legge 11/71 e la legge 814/73 sul riordino della disciplina degli affitti. All'inizio degli anni ottanta fu emanata la legge n° 203/1982, che ha stabilito la conversione in affitto di tutti i contratti associativi (mezzadria, colonia parziaria e soccida). Alla fine degli anni ’70 era stata emanata la legge 440/78 sul recupero delle terre marginali.

24 Per una trattazione più completa degli effetti dell'abbandono nelle colline appenniniche si rinvia al saggio di Medici, 1978.

30

aggiustamento hanno contribuito ad accentuare la progressiva trasformazione degli usi

dei suoli da agricoli ad urbani.

A queste debolezze, tutte interne all'ambito istituzionale "agricolo", si sono

aggiunti gli effetti delle regole collettive in tema di gestione e pianificazione del

territorio che hanno accentuato questo processo, rivelandosi del tutto inefficaci per la

difesa e la conservazione dei suoli più fertili in diverse aree del paese. Anche per le

norme di governo territoriale gli anni di maggiore "criticità" sono quelli tra la fine degli

anni sessanta e l'inizio degli anni ottanta, quando le regole collettive hanno dovuto

affrontare gli effetti della crescita economica e dei conseguenti cambiamenti politici,

sociali e demografici verificatisi in Italia25. La legislazione italiana in materia di

pianificazione urbanistica ha individuato nei comuni il livello territoriale più rilevante.

Questo è riscontrabile sia nella legge fondamentale del 194226, che ha istituito i

principali strumenti normativi in materia di governo del territorio, che nelle principali

azioni legislative ad essa successive, come, ad esempio, la legge 10 del 1977 in materia

di edificabilità dei suoli, che di fatto trasferiva alle amministrazioni locali (in particolare

ai comuni) il potere decisionale sul diritto di edificare.

Di fatto, anche in questo ambito normativo, si è assistito ad un vero e proprio

"fallimento istituzionale" e le norme urbanistiche da regole collettive di gestione

(sostenibile) della risorsa suolo, si sono trasformate in regole per la gestione (più o

meno formale) dell'edificazione (Rocella, 1994). In assenza di una visione strategica

sull'uso dei suoli, infatti, la trasformazione urbana è stata "regolata" dai processi di

interazione tra istituzioni formali ed istituzioni informali a livello locale. Questo ha

significato la rottura degli equilibri sull'uso della risorsa suolo nelle pianure e in molte

delle colline italiane, in cui, progressivamente, gli usi edificatori hanno prevalso su

quelli agricoli. E' evidente che un combinato istituzionale di questo tipo ha reso

inefficienti molte delle politiche a favore della centralità dell'agricoltura come elemento

equilibratore nell'uso delle risorse (e del territorio) vanificando, in molti casi, ogni altra

politica, nazionale o comunitaria, a favore della gestione sostenibile della risorsa terra.

Il ruolo fondamentale della pianificazione territoriale per la gestione della terra (come

25 Un esempio è la vicenda della mai approvata proposta di legge avanzata dal ministro Sullo all'inizio

degli anni sessanta, che, di fatto, rappresenta un caso rilevante del "difficile" rapporto tra ambito politico-normativo e società italiana riguardo all’uso del suolo e alla gestione del territorio.

26 L. n. 1150/42

31

risorsa pubblica in questo caso) era stato segnalato dagli stessi economisti agrari,

proprio per le evidenti interconnessioni tra questo piano normativo e le politiche

settoriali. L'individuazione del livello comunale come perno della regolazione degli usi

edificatori ha di fatto prodotto una spinta propulsiva all'urbanizzazione soprattutto delle

terre di pianura a tutto svantaggio delle politiche attuate per la protezione delle unità

produttive agricole e dell'uso agricolo dei suoli27.

Complessivamente il quadro che l'analisi delle principali "tappe politico-

normative" ci consegna è di una frammentazione dell'ambiente istituzionale relativo alle

regole d'uso e possesso del suolo che, in alcune fasi, sembra aver prodotto effetti

alquanto contradditori. Se da un lato il quadro normativo comunitario ha

progressivamente delineato una maggiore attenzione verso regole collettive orientate

alla sostenibilità d'uso e possesso del suolo in agricoltura, imponendo in alcuni casi

regimi gestionali estranei alle tradizioni e consuetudini italiane, dall'altro lato un

insieme di regole di origine nazionale sembrerebbe aver agito in opposizione a tale

processo. In particolare la maggiore enfasi posta sul ruolo sociale della distribuzione

della proprietà della terra nella società italiana, da un lato, e l'assenza di una visione

strategica sul ruolo del settore agricolo nei processi di sviluppo e governo del territorio,

dall'altro, hanno determinato la nascita di un ambiente istituzionale inadeguato a

sostenere processi di riequilibrio negli usi della risorsa, sia privati che pubblici,

soprattutto negli anni di maggiore "criticità".

Gli effetti di questo "fallimento istituzionale" sono evidenti ancora oggi e

richiedono una attenta riflessione sul modo con cui analizzarli ed affrontarli. La lettura

del “caso italiano”, infatti, suggerisce la necessità di guardare alla “compatibilità

istituzionale” come ad un momento specifico dei processi di costruzione e valutazione

delle politiche per la gestione sostenibile delle risorse naturali. Questo richiede

l’individuazione di un insieme di momenti informativi e conoscitivi del tutto nuovi in

grado di supportare tali processi sia ex-ante che nelle fasi di monitoraggio ed ex-post.

Ad oggi non è stato ancora formalizzato un procedimento tecnico-scientifico in grado di

supportare il decisore pubblico nel valutare gli effetti prodotti da un mutamento

dell’ambiente istituzionale dovuto, ad esempio, all’introduzione di una nuova norma in

materia di gestione delle risorse naturali. Questo richiederebbe, in primo luogo, il

27 Per una analisi tra normativa urbanistica e usi dei suoli nelle pianure si veda Rocella, (1994)

32

riconoscimento e la “classificazione” delle tipologie di norme informali che agiscono a

livello locale su tali usi; in secondo luogo l’identificazione del tipo di modifiche che la

“nuova norma” determina ed, infine, il grado di interazione (e quindi di

minore/maggiore compatibilità) tra norme informali e norme formali. Questa

valutazione potrebbe assumere la connotazione di una vera e propria procedura, come è

già nel caso delle Valutazioni di Impatto Ambientale o Strategico per i progetti di

urbanistica ed infrastrutturazione, dove la valutazione di impatto potrebbe concernere

proprio gli effetti dovuti alla nuova norma sulle regole di gestione delle risorse già

presenti, in termini di miglioramento/peggioramento della sostenibilità d’uso.

E’ evidente che tale “Valutazione di Compatibilità Istituzionale” potrebbe essere

un procedimento applicabile non solo alle politiche concernenti la gestione delle risorse

naturali o all’ambito della “politica agraria” bensì a tutti i momenti normativi in cui il

tema della sostenibilità può rappresentare un obiettivo diretto dell’intervento pubblico.

5. I RECENTI SVILUPPI DEI SERVIZI AMBIENTALI DELL’AGRICOLTURA

L’Unione Europea, così come la stragrande maggioranza dei governi, recepisce le

istanze ambientali attraverso diversi strumenti di politica. Un passaggio che a nostro

avviso ben riassume l’attuale posizione dell’UE in merito alle questioni ambientali è

contenuto nella relazione conclusiva della presidenza del Consiglio europeo28 del 15-16

Giugno 2001:

“…che la politica agricola comune e il suo sviluppo futuro contribuiscano, tra gli obiettivi, a realizzare uno sviluppo sostenibile ponendo maggiore enfasi sulla promozione di prodotti sani e di qualità elevata, di metodi produttivi sostenibili dal punto di vista ambientale, incluse produzione biologica, materie prime rinnovabili e la tutela della biodiversità…”

L’enfasi viene posta in parte a strumenti che assicurino produzioni agricole di

qualità e salubri e, in altra parte, a obiettivi di sostenibilità ambientale e protezione della

biodiversità. Questi due ultimi aspetti riportano l’attenzione nuovamente ai servizi

ambientali dell’agricoltura. Diciamo subito che in questa sede non intendiamo

28 Pur essendo del Giugno 2001, l’affermazione riportata è divenuta parte integrante delle linee guida

strategiche della Comunità per la programmazione 2007-2013 (Community strategic guidelines for rural development - programming period 2007 to 2013; 2006/144/EC)

33

affrontare il tema complessivo delle problematiche ambientali legate in qualche modo al

mondo agricolo. L’obiettivo è, invece, quello di porre l’accento su due questioni rispetto

alle quali sembra ci sia un ritardo di conoscenza rispetto alle altre tralasciando alcuni

temi che, seppur altrettanto rilevanti, sono ampiamente dibattuti in letteratura. Il

tentativo sarà, quindi, di evitare una trattazione criptica pur coscienti del fatto di non

poter essere completamente esaustivi. I servizi ambientali, o comunque operanti sugli

ecosistemi che, a nostro avviso, meritano una maggiore attenzione, se non altro per il

fatto di essere stati recentemente messi al centro del dibattito scientifico e politico, ma

rispetto ai quali l’esigenza di conoscenza e di dati è ancora carente, sono gli aspetti

definiti come benefici immateriali, in particolar modo il paesaggio e la tutela della

biodiversità. Conviene, prima di trattare nel dettaglio i due argomenti selezionati, fare

una osservazione generale. Sia il paesaggio che la biodiversità, per la loro natura

intrinseca, sono condizionati da una vasta gamma di attività antropiche e naturali. Non

si può, quindi, parlare di una incidenza esclusiva del settore agricolo su nessuno dei due

aspetti dell’ambiente. Il paesaggio ha subito, e continua a subire, continue evoluzioni

dettate sia da esigenze antropiche che da eventi naturali a loro volta condizionati a vario

titolo dall’operato dell’uomo. A ogni mutazione dell’ambiente naturale, quindi non solo

del paesaggio, corrisponde in varia misura una modificazione degli ecosistemi con una

incidenza più o meno massiccia sulla biodiversità. Nella trattazione specifica che segue

verranno, tuttavia, messi in risalto i legami e i rapporti di causalità tra il settore agricolo

e gli aspetti ambientali in questione in quanto si ritiene che, seppure in un contesto più

ampio, l’agricoltura possa e debba svolgere un ruolo di primo piano nella tutela e nella

salvaguardia sia del paesaggio che della biodiversità. Molti dei paesaggi che

identificano inequivocabilmente un territorio sono a forte caratterizzazione rurale.

Mutare un paesaggio ricco di attributi materiali e immateriali, con i relativi ecosistemi,

comporta una variazione di valore per la collettività difficile da stimare ma sicuramente

non trascurabile. Da qui l’esigenza di non tralasciare il ruolo dell’agricoltura che,

seppure non unico nel condizionare paesaggio e ambiente, è un settore che riveste una

rilevanza chiave. Per quanto riguarda nello specifico il paesaggio, vanno sottolineati

alcuni aspetti che rendono questo aspetto peculiare. Innanzitutto il carattere di bene

pubblico. In quanto tale risulta meno ovvio, rispetto a beni privati o comunque per

quelli regolati dal mercato, chi sono gli offerenti del servizio, chi i beneficiari e quali gli

34

“acquirenti”. Per quest’ultima categoria, inoltre, si verrebbero ad instaurare inevitabili

condizioni di free riders a motivo della non identificabilità di un sistema di accesso al

bene controllato o controllabile. È essenziale comprendere il ruolo dell’agricoltura nella

composizione e creazione del paesaggio. Proprio su quest’ultimo aspetto, al fine di

delineare ulteriormente il problema, alla definizione classica di paesaggio rurale, inteso

come quei legami delle strutture più profonde dell’attività agricola con la forma dei

territori (Torquati, 2007) si va via via sostituendo il concetto di componente agraria del

paesaggio che non può essere concepibile fuori dell’insieme dei fattori cui la

costruzione e la forma del territorio sono riconducibili. Quest’ultima definizione è in

linea con la normativa che regola, almeno in Italia, l’uso e il mantenimento del

paesaggio. Riprendendo la legge 1497 del 1939 e la legge “Galasso" del 1985, il d.lgs

42/2004, successivamente modificato e integrato con il d.lgs 156/2006 in vigore dal

2007, obbliga le Regioni a identificare i paesaggi regionali, tra cui quelli rurali a forte

carattere identitario; a confrontare le dinamiche di mutamento negli anni; a valutare i

paesaggi (valore attribuito loro dalle popolazioni); e a definire gli obiettivi di qualità

paesaggistica. Infine, riconoscendo che non tutto il paesaggio di una Regione identifica

i territori della stessa, per quelli non identitari si stabilisce un obbligo generale al

mantenimento secondo criteri di non deterioramento e, comunque, di “gradevolezza

estetica”. Il supporto legislativo, quindi, identifica le linee guida da seguire. Rimane,

tuttavia, da comprendere come dar seguito alle indicazioni appena citate, il ruolo che gli

economisti agrari possono svolgere in tale contesto e l’esigenza di informazioni

necessarie per svolgere un efficiente ed efficace lavoro di valutazione. Se il paesaggio

rurale è una esternalità positiva il cui valore non viene riflesso nel mercato, allora il

mercato fallisce, giustificando un intervento pubblico. Inoltre, mentre il paesaggio è un

bene pubblico, il controllo della risorsa che lo caratterizza, come ad esempio un campo

coltivato, può essere privato. Entrambi questi aspetti sembrerebbero giustificare un

pagamento, a carattere pubblico, per il servizio ambientale fornito dal privato. Rimane,

però, il problema di come identificare e monitorare un paesaggio. Premesso che

l’approccio conoscitivo e di gestione del paesaggio non può che essere

multidisciplinare, alla funzione percettiva (naturale e culturale) del paesaggio va

associata quella legata all’ambiente produttivo e alla sostenibilità economica del suo

mantenimento. In tale contesto, verrebbe da pensare a strumenti di valutazione che

35

indaghino la disponibilità a pagare o che stimino il valore economico totale come, ad

esempio, la valutazione contingente (Idda et al., 2006). Il tal caso, però, a parte il

carattere troppo localistico o troppo generale delle stime e la onerosità degli studi, è

nostra opinione che un’analisi in cui si confrontano costi e benefici quando si parla di

un bene pubblico quale l’ambiente e il paesaggio potrebbe risultare non idoneo. Ciò non

perché tale metodo non sia applicabile di per se al caso di un bene pubblico, ma per la

mancanza, nel caso specifico, di criteri soddisfacenti per la valutazione di tali costi e

benefici da un punto di vista sociale in senso proprio. Infatti, mentre la stima dei costi,

almeno di quelli diretti, potrebbe risultare relativamente agevole, la completa

identificazione e il relativo computo dei benefici “sociali” risulta essere impresa ardua.

In questo contesto, allora, necessitano politiche di tutela di tutti i territori per i quali

sarebbe opportuno monitorare le modifiche. Uno strumento che risulta efficiente dal

punto di vista dei costi ed efficace dal punto di vista tecnico è l’uso dei GIS e degli

indici di valutazione della qualità paesaggistica (Cembalo et al., 2006). Essenziale, però,

è il contributo degli economisti agrari al fine di elaborare indici sintetici, ma esaustivi,

del grado di ruralità, e degli aspetti socio-economici del tessuto imprenditoriale e

sociale costituente la componente agraria del paesaggio. Anche il tema della

biodiversità ricopre un ruolo peculiare all’interno del vasto intreccio dei rapporti

esistenti fra l’attività agricola ed i servizi ambientali ad essa imputati. Trattare della

tutela della biodiversità diventa in questo ambito stimolante, sia perché ormai questo

termine ha assunto un significato corrente onnicomprensivo includendo il concetto

stesso della conservazione dell’ambiente, sia perché quando si affronta genericamente la

questione “biodiversità” si evidenziano palesemente tutte le difficoltà del complesso

dialogo fra ricerca scientifica e decisore pubblico, a cui si debbono fornire gli strumenti

per l’analisi ex-ante di un fenomeno e per la valutazione ex-post delle politiche. A

questo proposito sembra opportuno fare riferimento alla recente analisi delle strategie

per la gestione e tutela della biodiversità svolta da Gios (2007) ed al suo invito rivolto

agli economisti agrari a svolgere il ruolo di guida nella comprensione delle diverse

interazioni ed effetti dell’attività antropica sulle risorse naturali. Da economisti

ambientali ed agrari affrontare in termini di ottima allocazione delle risorse, o attraverso

un’analisi costi benefici la gestione di una risorsa complessa quale la biodiversità, con i

suoi attributi di bene pubblico, rappresenterebbe comunque, anche in questo caso, poco

36

più di un esercizio di stile non solo perché le motivazioni etiche alla base della necessità

della sua tutela (Ehrlich et al., 1991) renderebbero politicamente sterili valutazioni di

tipo monetario, ma anche perché risulterebbe altrettanto velleitario “con significativo

dispendio di tempo, talento e denaro” arrivare ad una stima puntuale del valore

economico dell’insieme dei benefici diretti ad essa associata (Pardey et al., 2001).

Velleitario anche nel caso si volesse applicare, ad esempio, il paradigma del VET29 per

definire un valore economico alla biodiversità, ciò di cui si ritrovano frequenti tentativi

in letteratura (Smale e Koo, 2003), (Gios, 2007) proprio per la caratteristica

intertemporale, multidimensionale della risorsa, caratterizzata per larga parte da un

valore d’opzione difficilmente quantificabile. Nonostante queste difficoltà è comunque

sorta recentemente la necessità di valutare con rigore le politiche di tutela della

biodiversità, in termini di efficienza economica ed efficacia dell’intervento. Con la

convenzione di Johannesburg, ed il successivo impegno assunto dall’UE con la

comunità internazionale di arrestare il tasso di perdita di Biodiversità entro il 2010

fissando obiettivi concreti se pure difficilmente valutabili (target 2010) si è infatti

presentata all’improvviso la necessità di dotarsi di sistemi di monitoraggio e di analisi

del problema a supporto di strumenti che venissero progettati esplicitamente a garanzia

della tutela della biodiversità e per dotarsi di sistemi di valutazione ex- post di controllo

(Balmford et al., 2005). La Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB), adottata

durante la conferenza di Rio del 1992, di fatto,vincolava solo in maniera generica gli

Stati firmatari ad attuare misure finalizzate alla conservazione della biodiversità in-situ

(attraverso l’attività agricola o nei loro habitat naturali) ed ex-situ (nelle banche del

germoplasma). Come noto, mentre la conservazione ex-situ permette di creare delle

librerie genetiche a disposizione della ricerca e delle generazioni future garantendo la

stabilità genetica della varietà, la conservazione in situ richiede la tutela dell’ambiente

naturale per garantire la sopravvivenza della specie e la sua continua evoluzione in

risposta alle pressioni biologiche. Le due forme di tutela della biodiversità rispondono

ad obiettivi diversi: la prima mira alla conservazione ed utilizzazione delle risorse

genetiche intese come base primaria dell’innovazione tecnologica in agricoltura, mentre

la seconda include motivazioni etiche ed estetiche di protezione del paesaggio e

dell’ambiente. È facile capire che in tutti i casi, per un corretto programma di

29 Valore Economico Totale

37

conservazione, l’una è imprescindibile dall’altra. Le istituzioni europee nel ratificare la

CDB nel concreto si limitarono però più ad enunciare sulla carta principi ed

orientamenti di politica, che ad affrontare il tema in maniera sistematica, includendo

poche norme e misure accessorie per lo più all’interno dei regolamenti già strutturati

alla politica agricola comunitaria (Kleijn e Sutherland, 2003); alcuni schemi agro-

ambientali nelle misure di sviluppo rurale ed interventi di cross-compliance, il sostegno

diretto a coltivare alcune varietà a rischio d’erosione genetica, o l’istituzione volontaria

o obbligatoria del set-aside, limitando gli strumenti di intervento per la biodiversità ad

un auspicabile esternalità positiva dell’attività agricola. Come riportato in modo

puntuale da Gios (2007) e dal recente piano nazionale sulla biodiversità di interesse

agricolo (Mipaf, 2008), le poche norme esplicitamente in atto per la tutela della

biodiversità si riducono, infatti, unicamente ad iniziative destinate all’incremento e

razionalizzazione delle attività di raccolta e preservazione delle risorse vegetali ex-situ,

o all’istituzione delle aree protette dalla rete Natura 2000. La perdurante carenza di dati

a livello territoriale ha, infatti, contribuito ad alimentare una scarsità di informazione a

livello pubblico con l’evidente risultato di generare all’atto pratico strumenti, se non di

scarsa efficacia ed efficienza, sicuramente difficilmente valutabili (Oñate et al. 2000;

Trisorio, 2008). Dalla lettura dei recenti studi è apparso, infatti, evidente come questi

manchino complessivamente di un approccio di tipo quantitativo al problema essendo,

molti di essi, privi di qualsivoglia analisi di tipo statistico (Flynn et al., 2002);

l’impossibilità di ricorrere a strumenti di stima robusti sembra esser comunque dovuta

anche alla completa assenza di informazioni affidabili e di dati pre-trattamento utili alla

valutazione degli effetti ex-post e, quando presenti, risultano essere più indici costruiti

ad hoc, riadattando dati raccolti per altri tipi di analisi, che propriamente studiati per lo

studio oggetto della ricerca (Balmford et al. 2005). Anche i risultati empirici degli

effetti delle politiche attuate per la tutela della diversità genetica, seppure focalizzati su

micro nicchie ecologiche, considerando come indicatori solo la diversità genetica di

alcune specie (in genere artropodi o uccelli) risultano essere spesso contrastanti (Kleijn

et al., 2003). Infine, proprio per l’approccio ecologico-ambientale che contraddistingue i

lavori analizzati, questi mancano completamente di un approccio economico agrario,

ovvero, manca anche il più timido tentativo di valutare gli effetti di politiche agrarie

almeno su un piano di efficienza economica (Boggia et al., 2002). Conseguentemente,

38

l’impossibilità di validare scientificamente ed economicamente gli effetti delle misure

agro-ambientali potrebbe quanto meno far sorgere alcuni dubbi sulla credibilità della

relazione virtuosa comunemente presunta fra un certo tipo d’agricoltura eco-

compatibile, ed una effettiva ed economicamente efficiente conservazione

dell’ecosistema. Se valutare gli effetti delle politiche di conservazione in-situ resta,

allora, un’ambizione al momento30 resa impraticabile dall’assenza delle basi

informative e dalla complessità dei meccanismi ancora ignoti con cui le diverse attività

dell’uomo incidono sul destino delle altre specie del pianeta, anche nella tutela ex-situ

l’informazione gioca un ruolo essenziale perché, da semplice conservazione della

risorsa genetica, si possa giungere ad una sua gestione ed utilizzazione efficace.

Sembrerebbe che l’obiettivo implicito alla base della costituzione delle prime collezioni

nelle banche del seme sia stata la conservazione piuttosto che una gestione razionale

della risorsa che favorisse la sua utilizzazione nel campo della ricerca. Si dispone

tutt’oggi, infatti, solo di stime approssimative sull’ammontare delle specie e varietà

protette ex-situ nel mondo. Carenze gestionali, dimensioni ridotte ed assenza di

collaborazione e scambio di informazioni anche fra le stesse banche del seme Europee

hanno, di fatto, favorito il proliferare di ridondanze di materiale genetico superfluo per

duplicazioni inter ed intra collezioni. L’impellente necessità di soddisfare le esigenze

conoscitive alla base della comprensione del fenomeno e per l’intervento pubblico è

stata riconosciuta, seppur in ritardo rispetto alla velocità con cui si sono fissati i

“target”, dall’ultimo piano d’azione Europeo sulla biodiversità, dove si invita a

“rafforzare la base di conoscenze” sul fenomeno, investendo in dati e ricerca, invitando

la comunità scientifica ad esprimersi ed informare repentinamente la classe politica. Il

ruolo dell’economista agrario, quindi, diventa essenziale per un duplice aspetto. Il

primo è inerente al contributo sull’ottima allocazione di risorse finanziarie destinate alla

conservazione della biodiversità e all’opportunità di definire un piano articolato e

complessivo in cui vengano identificate le efficienti e razionali proporzioni tra la

conservazione ex-situ ed in-situ, evidenziandone i problemi conoscitivi e di governance.

Il secondo riguarda, invece, la messa a punto di strumenti di politica economico-agraria

che siano destinati specificamente alla tutela della biodiversità in-situ. In altre parole,

30 Solo recentemente sono state definite a livello comunitario alcune linee guida per l’istituzioni di indici

per la valutazione della variazione di biodiversità almeno per le aree agricole ad alto valore naturale (IIEP, 2007).

39

una volta identificata l’ottima proporzione tra conservazione in-situ ed ex-situ, è

necessario pensare ad una serie di interventi e studi che, da un lato, indaghino come

monitorare la biodiversità e, dall’altro, identifichino degli strumenti di intervento

pubblico mirati i cui risultati, è necessario, che siano quantificabili. Ultimo aspetto,

certamente non in ordine di importanza, è la questione inerente l’accessibilità delle

risorse biologiche che è trasversale ai due metodi di conservazione. Allo stato attuale

risulta non sufficientemente chiaro quali agenzie detengono il germoplasma e quali i

possibili accessi. Tale aspetto, quasi del tutto trascurato nella letteratura economico-

agraria italiana, si ritiene debba essere un’altra area di sviluppo della conoscenza e della

ricerca.

6. POLITICHE DI SVILUPPO RURALE NELLE REGIONI ITALIANE OBIETTIVO

CONVERGENZA TRA REALTÀ E POTENZIALITÀ

6.1.- Alcuni aspetti introduttivi

Le politiche per lo sviluppo rurale (SR) sono andate assumendo un’importanza

crescente nell’agenda politica europea quale riflesso dei cambiamenti intervenuti nel

modo di intendere il sostegno all’agricoltura. Su di esse, parte integrante della politica

di coesione economica e sociale europea, sempre più politica di sviluppo regionale, si

pone forse un’enfasi eccessiva rispetto alle reali intenzioni di intervento. Scopo di

questo contributo, pertanto, è presentare alcune riflessioni sulle politiche di SR

riferendosi, in modo particolare, alla programmazione 2007-2013 delle regioni italiane

obiettivo convergenza31. Queste dovrebbero, difatti, essere destinatarie privilegiate di

tali politiche, data l’importanza che ancora vi rivestono sia le aree rurali con problemi di

sviluppo che quelle svantaggiate. Il richiamo alla “realtà” nel titolo è, perciò, riferito

alle politiche di SR previste dai Programmi di Sviluppo Rurale (PSR)32, eventualmente

31 All’obiettivo convergenza sono ammissibili Paesi membri o regioni in ritardo di sviluppo (con un PIL

pro capite inferiore al 75% della media comunitaria). In Italia vi rientrano Calabria, Campania, Puglia, Sicilia mentre la Basilicata è regione phasing out (PIL pro capite inferiore al 75% del PIL pro capite medio dell’UE a 15 ma superiore di quello medio dell’UE a 27).

32 Con il periodo di programmazione 2007-13 lo sviluppo rurale è finanziato dal Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR).

40

integrate dai Programmi Operativi Regionali (POR) a valere sul Fondo Europeo per lo

Sviluppo Regionale (FESR). Quello alla “potenzialità” è legato, invece, alla

identificazione delle eventuali possibilità di cambiamento.

Rimandando a più specifici contributi sulle metodologie di identificazione delle

“aree rurali” (ad esempio Esposti e Sotte, 2001), è opportuno, richiamarne qui le

caratteristiche principali. Sul piano sociale: bassa o bassissima densità demografica;

povertà diffusa; accessibilità limitata ed, in generale, scarsità di servizi essenziali.

Elementi questi che ne favoriscono il progressivo spopolamento e l’invecchiamento

della popolazione, segni evidenti di fragilità del tessuto socio-economico che non manca

di avere ripercussioni negative sull’equilibrio ambientale del territorio. Sul piano più

strettamente economico, il peso ancora significativo del settore agricolo, sia in termini

di reddito che di occupazione. Il che richiede che si chiariscano subito quali siano le

caratteristiche distintive dello sviluppo rurale rispetto a quello agricolo. Come si precisa

in un recente contributo (Marenco, 2007) mentre per sviluppo agricolo si intende la

crescita in termini reali del valore aggiunto della produzione del sottoinsieme delle

imprese operanti nel settore, “..necessariamente collegato alla crescita del valore

aggiunto per unità di lavoro impiegata, compatibile con (e di norma accompagnata da)

una riduzione dell’occupazione in agricoltura e, quindi, con l’esodo agricolo”, per lo

“…sviluppo rurale, la crescita va riferita al sotto-insieme delle imprese e/o delle

famiglie residenti nelle parti del territorio riconosciute come “rurali”, …..

necessariamente collegata a quella del valore aggiunto per unità di lavoro o del reddito

pro-capite dei residenti ma, di norma, non …..compatibile con una riduzione

dell’occupazione e/o della popolazione residente nelle aree rurali e, quindi, con l’esodo

rurale”. Lo sviluppo agricolo, dunque, non determina automaticamente sviluppo delle

aree rurali. Per quest’ultimo è necessario il concorso di attività diverse da quelle

tradizionali agricole attraverso il ricorso sì alla “multifunzionalità” dell’impresa agricola

ma soprattutto alla mobilitazione delle diverse forme di capitale di cui le specifiche aree

rurali risultano dotate. La diversificazione delle attività economiche diviene, anzi,

condizione necessaria per il mantenimento della stessa agricoltura, altrimenti destinata a

scomparire, a causa dell’esodo giovanile determinato dall’arretratezza del contesto

socio-economico. Inoltre, come precisato nello stesso contributo richiamato sopra, è

importante tener presente che in alcune specifiche aree rurali, di collina e di montagna

41

prevalentemente, dove si è consolidato un uso estensivo della terra, l’agricoltura è

attività essenziale per il mantenimento e la salvaguardia dello stesso ambiente naturale.

Risulta, dunque, evidente l’esistenza del legame “complesso” tra sviluppo rurale,

attività agricola, ed ambiente la cui sintesi sfocia nella rinnovata visione dello sviluppo

rurale sostenibile per il quale nè l’ambiente in sé né i livelli produttivi, rivestono un

ruolo centrale ma i mezzi di sussistenza intesi sia come soddisfazione di fabbisogni di

base che come sicurezza di lungo periodo (Chambers, 1992; Romano, 1996). Il contesto

socio-economico-istituzionale-culturale riveste, dunque, non meno importanza della

dimensione ambientale e compito della politica è incentivare la mobilitazione delle

risorse locali.

6.2.- Le politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane obiettivo convergenza: strumenti utilizzabili ed opzioni possibili.

Con riferimento alle regioni italiane obiettivo convergenza, esaminiamo ora le

modalità previste dalla politica comunitaria per affrontarne i problemi di SR. Premesso

che ai fini dell’articolazione territoriale degli interventi, il Piano Strategico Nazionale

(PSN) prevede 4 possibili tipologie territoriali riprese nei PSR, poli urbani (A), aree

rurali ad agricoltura intensiva (B), aree rurali intermedie (C), aree rurali con problemi

complessivi di sviluppo (D), nell’insieme delle cinque regioni, le aree D rappresentano

circa il 44% della superficie territoriale mentre la superficie svantaggiata33 ne

costituisce il 59% con una netta prevalenza di quella svantaggiata di montagna, pari a

poco più del 36%. Accanto a questo dato va nondimeno sottolineata la diffusa presenza

di contesti territoriali di riconosciuto valore ambientale e paesaggistico che, insieme al

più vasto patrimonio storico, sociale e culturale ed alle risorse umane, costituiscono un

patrimonio di risorse da mobilitare. Ma proprio in ciò consiste il compito delle politiche

di SR. Una prima considerazione da fare riguarda, allora, il principale strumento di

programmazione per lo SR, i PSR regionali. Questi, contemperando sia misure rivolte

allo sviluppo agricolo che a quello più propriamente rurale, possono risultare più o

meno efficaci a tale ultimo riguardo, in dipendenza della loro articolazione qualitativa e

finanziaria. Coerentemente agli obiettivi strategici della politica di SR dell’UE:

“accrescere la competitività del settore agricolo e forestale; valorizzare l’ambiente e lo 33 Ai sensi della Dir 75/268/ CEE e s.m.i.

42

spazio naturale; migliorare la qualità della vita nelle zone rurali ed accrescere la

diversificazione”, i PSR prevedono, difatti, varie misure raggruppate in 4 assi di cui i

primi tre a sostegno dei tre obiettivi strategici ed il quarto, a carattere trasversale, a

sostegno di strategie di sviluppo locale secondo l’approccio LEADER34. Una seconda

considerazione riguarda il differente significato che le misure relative ai diversi assi

assumono per lo sviluppo delle aree rurali. Lasciando da parte il 2° asse per la sua

specificità ambientale, quelle del 1° e del 3° possono essere classificate in due gruppi:

misure settoriali agricole, in quanto rivolte specificamente a questo settore e misure

intersettoriali, perché rivolte all’insieme degli altri settori. Risultano, allora, settoriali

tutte quelle del 1° asse unitamente alla misura 311 (del 3° asse) che, pur prevedendo il

finanziamento ad investimenti per la diversificazione in attività non agricole, è destinata

alle sole aziende agricole. Di conseguenza, sono le altre misure del terzo asse e quelle

del quarto che dovrebbero avere maggiore rilevanza per uno sviluppo dei territori rurali

basato sulla rivitalizzazione del tessuto produttivo e sociale locale. Tuttavia, il principio

relativo all’equilibrio finanziario tra gli obiettivi prevedendo che a questi due assi sia

riservato almeno il 15% delle risorse (10% all’asse 3; 5% all’asse 4), sembrerebbe

riservare all’obiettivo “miglioramento della qualità della vita e della diversificazione

economica” una posizione di livello inferiore. Il che assume maggiore rilevanza in

considerazione delle esigue risorse destinate alle politiche di SR nell’ambito del totale

delle risorse afferenti al settore agricolo (Mantino, 2006). E contrasta non poco con

l’enfasi posta sul ruolo, presente e futuro, delle politiche del secondo pilastro, che non

solo hanno sostituito, di fatto, tutto l’impianto delle politiche strutturali ma che

dovrebbero divenire il canale privilegiato attraverso il quale iniettare risorse verso il

settore agricolo. Ciononostante, non è da sottovalutare il fatto che all’Italia, nell’attuale

periodo di programmazione, vada una quota consistente delle risorse destinate non solo

alle politiche di SR ma a quelle della coesione in genere (rispettivamente 10,7% ed

8,3% delle risorse europee). E non è da sottovalutare neppure che alle regioni obiettivo

convergenza vada circa il 50% del contributo FEASR.

34Gli Orientamenti Strategici Comunitari (OSC) prevedono che le risorse destinate all’asse LEADER debbano contribuire a conseguire le priorità degli Assi 1, 2 e, soprattutto del 3°, ma anche il miglioramento della governance e la mobilitazione del potenziale di sviluppo endogeno delle zone rurali. Il PSN prevede, quali ulteriori obiettivi nazionali, la realizzazione della capacità progettuale e gestionale locale ed il miglioramento della partecipazione locale alla definizione delle politiche attraverso Progetti di Sviluppo Locale (PSL) attivati da Gruppi di Azione Locali (GAL) secondo l’approccio bottom-up.

43

6.3.- Le politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane obiettivo convergenza: le opzioni scelte sono adeguate?

Il PSN, quadro di riferimento per la programmazione regionale per lo SR, si

caratterizza per un’ampia flessibilità nel ricorso alle diverse misure previste dal Reg.

1698/2005 nell’intento di fornire un’altrettanto ampia possibilità di manovra alle

regioni. Ci si aspetterebbe, allora, che nelle regioni obiettivo convergenza in cui le aree

di tipo D hanno un forte peso, la quota di risorse riservate agli assi 3 e 4 si collocasse

ben più in alto del minimo stabilito. Per capire, dunque, come si sono effettivamente

comportate le cinque regioni in esame, prenderemo in considerazione i seguenti aspetti:

1) la ripartizione delle risorse tra i quattro assi; 2) il peso assegnato a quelle misure che

più specificamente si rivolgono allo SR; 3) la complementarietà/integrazione con gli

altri fondi strutturali.

Con riferimento al primo punto, le regioni convergenza destinano in media il

17,5% delle risorse agli assi 3 e 4 considerati nel loro insieme, vale a dire una quota

leggermente superiore al minimo. La differenza rispetto alle regioni “competitività” che

ne destinano, in media, il 16%, è evidentemente trascurabile (Panico et al., 2008; Sotte e

Ripanti, 2008a). Venendo all’articolazione del sostegno in misure e riprendendo la

distinzione tra misure settoriali agricole ed intersettoriali (punto 2), si rileva che in

media, nelle regioni convergenza, l’asse 1 unitamente alla misura 311, assorbe il 43%

delle risorse, mentre si riduce il peso degli assi 3 e 4 che nel loro insieme contano per il

15%. Risulta, dunque, evidente il generale e netto orientamento verso il sostegno di

processi di sviluppo agricolo35 in un’ottica meramente settoriale che, oltre ad incontrare

minori difficoltà operative, risente della cosiddetta “path dependency” rispetto alla

tradizionale PAC (Sotte e Ripanti, 2008b). Al contempo è da rilevare la consistente

territorializzazione degli interventi soprattutto per le misure degli assi 3 e 4 rivolti,

prevalentemente, alle aree rurali classificate come C e D. In queste, un’attenzione

significativa è posta sui PSL, ormai in fase di avanzata sperimentazione che ricevono, in

tutti i PSR, una valutazione sostanzialmente positiva che ne giustifica l’ulteriore

35 A sostegno di tale conclusione c’è, difatti, il ridimensionamento da operare per il 2° asse la cui

consistenza non deve trarre in inganno dal momento che, in più di un caso, gioca l’effetto trascinamento degli impegni di spesa presi nel periodo di programmazione precedente ma non ancora liquidati.

44

consolidamento. Tuttavia, pur rappresentando i PSL modalità di attuazione di percorsi

di sviluppo integrato, forte è la consapevolezza che il per il conseguimento degli

obiettivi delle politiche di SR sia necessaria la complementarietà e l’integrazione con gli

altri fondi strutturali, peraltro esplicitamente richiesta nel Reg. 1083/2006 (art. 27 e 37).

A tale proposito la normativa comunitaria, pur raccomandando di evitare

sovrapposizioni, sottolinea la necessità di avviare operazioni sinergiche proficue per i

territori rurali e per le filiere agro-alimentari. Difatti, nell’ambito dei POR finanziati dal

FESR, si rendono possibili interventi complementari e coerenti con quelli finanziati dal

FEASR tra cui quelli per il trattamento di specificità territoriali riguardanti anche le

zone rurali, le zone caratterizzate da svantaggi specifici (tra cui quelle a bassa e

bassissima densità demografica) e quelle montane. In tal caso, il coordinamento del

FESR con il FEASR, specie per l’asse 3 della politica di SR, è ritenuto necessario. Gli

interventi previsti nelle zone caratterizzate da svantaggi geografici e/o naturali possono

riguardare, a grandi linee, il miglioramento e l’accessibilità di tali aree; la promozione e

lo sviluppo delle attività economiche connesse al patrimonio culturale e naturale locale;

l’incentivazione dell’uso sostenibile delle risorse naturali; il turismo sostenibile e così

via. Ma se questo è vero sul piano delle opportunità, non altrettanto può dirsi, per le

regioni considerate, su quello operativo. Difatti, la valutazione che, a tal proposito, si

ritrova nei loro PSR è relativa più che altro alla netta demarcazione tra gli interventi

finanziabili dal FEASR e quelli finanziabili dal FESR e dal Fondo Sociale Europeo

(FSE). Cosa che denota un’attenzione rivolta anzitutto ad evitare la sovrapposizione di

finanziamenti a carico dei diversi fondi. Analogamente, l’analisi della destinazione delle

risorse nell’ambito dei POR FESR, non lascia intravedere obiettivi strategici espliciti

per le aree rurali. Anche i POR, come è noto, sono articolati su più assi tematici che

potrebbero essere attivati per progetti rivolti a specifici territori rurali, verso i quali

incanalare risorse da destinare non solo ad ambiti tematici classici36 ma anche ad ambiti

più innovativi (servizi per il miglioramento della qualità della vita e dell’inclusione

sociale; energia; logistica; banda larga e superamento del digital divide). Alcune regioni

prevedono, tra i cosiddetti Grandi Progetti37, la realizzazione di importanti strutture

36 Quali risorse idriche, turismo sostenibile, valorizzazione ambientale, mobilità. 37 Trattasi di progetti di precisa natura tecnica o economica dalle finalità chiaramente identificate e il cui

costo complessivo supera i 25 milioni di EURO nel caso dell'ambiente e i 50 milioni di EURO negli altri settori (cfr. Reg CE 1083/2006.art. 39).

45

logistiche per l’agroalimentare ma, al momento, non si è in condizioni di dire quanto

potrebbero giovarsene le aree rurali più svantaggiate. Ad analoghe conclusioni si giunge

analizzando la ripartizione del contributo FESR per tipologie territoriali. Intanto il

contributo a carico di questo fondo, per le singole regioni obiettivo convergenza, è più

che doppio se non triplo rispetto a quello FEASR38. Nel complesso, per le Zone a

bassissima densità demografica è previsto appena il 4,5% delle risorse, per quelle di

montagna circa l’8% mentre per le Zone rurali (diverse dalle zona di montagna, dalle

isole, e dalle zone a bassa e bassissima densità demografica) il 19%. A questo

proposito, un’analisi sulla destinazione delle risorse destinate ai programmi FESR e

FSE 2007-2013 (Lucatelli, 2008), ri-classificate sulla base di un criterio territoriale39,

perviene alla conclusione dell’esistenza di una forbice generalmente assai ampia tra

peso delle categorie di spesa esplicitamente rurali e contributo complessivo dei

programmi regionali allo sviluppo dei territori rurali. Inoltre, ritornando ai PSR, le

novità/opportunità insite nelle caratteristiche di integrazione, multisettorialità e

partecipazione dell’asse LEADER, scontano una serie di limiti. In primo luogo quelli

dovuti ad un’integrazione tutta interna ai PSR, dalle dimensioni troppo locali in contesti

in cui sarebbero da sperimentare progetti di portata più ampia, in grado di coinvolgere

attori operanti in più settori economici (Lanzalaco e Lizzi, 2008). In secondo luogo, gli

effetti positivi legati alla diffusione di percorsi partecipativi, su cui molto si insiste nel

valutare la bontà dei PSL, non sarebbero una costante perché spesso si genererebbero

elite finalizzate ad una crescita del consenso politico sia nelle fasi di progettazione che

di gestione e realizzazione (Cavazzani e Moseley, 2001).

L’ultimo aspetto che si è ritenuto importante considerare è quello relativo alla

valutazione delle politiche proposte dai PSR a proposito del quale va subito precisato

che esso costituisce un obbligo regolamentare per gli Stati Membri che si configura

come valutazione continua dei programmi (AA.VV., 2006) cioè ex ante, intermedia ed

ex post. Tra le possibili modalità di valutazione dell’efficienza ed efficacia delle

politiche, particolare interesse assume la quantificazione del loro impatto socio-

economico, indicativo del contributo delle politiche di SR al raggiungimento degli

obiettivi generali della politica di coesione economica e sociale dell’UE. Nei PSR tale

38 Fa eccezione la Basilicata, il cui territorio è classificato interamente rurale. 39 Come interventi esplicitamente rurali; orizzontali e non territorializzabili; esplicitamente urbani; potenzialmente destinati sia ad aree urbane che ad aree rurali.

46

valutazione è prioritariamente affidata all’uso di indicatori comuni che misurano i

contributi in termini di crescita, occupazione, produttività del lavoro40. Nel rispetto

delle prescrizioni contenute nei vari documenti comunitari, nei singoli PSR, la

valutazione ex ante riporta una stima puntale dell’impatto delle politiche inteso come

contributo dei singoli assi e/o delle singole misure ai target stimati, ma solo a livello

regionale. Ciò, evidentemente, è in contraddizione con la connotazione fortemente

territoriale delle politiche di SR, per la quale, ai fini della loro valutazione, sarebbe

essenziale conoscere l’entità dell’impatto generato a livello di macroaree sub-regionali

di intervento.

A questo punto, quali considerazioni conclusive, si ritiene di dover sottolineare

l’inadeguata considerazione degli aspetti dell’integrazione-complementarietà delle

politiche e quello della loro valutazione nel processo di programmazione per lo SR.

L’integrazione e la complementarietà richiedono assetti organizzativi e funzionali

specifici sia a livello politico-amministrativo, sia a livello dei partenariati, nei quali

sarebbe opportuno un maggiore coinvolgimento fattivo di esponenti del mondo

produttivo extra agricolo, e sia tra i diversi strumenti finanziari. In ogni caso, sarebbe

opportuno avviare una fase di riflessione critica sui molteplici aspetti in grado di

influenzare l’efficienza e l’efficacia delle politiche a livello territoriale, soffermandosi

sulla molteplicità di progetti a carattere locale che si sono sviluppati in Italia e che

hanno avuto un impatto anche sulle aree rurali (Mantino, 2007). La valutazione

dell’impatto delle politiche secondo un approccio territoriale, da estendere anche alle

politiche a carico degli altri fondi europei (Lucatelli, 2008), dovrebbe assumere, infine,

maggiore rilevanza in quanto unico strumento in grado di informare sui reali progressi

compiuti in termini di sviluppo socio-economico di tali aree. Ciò assume per le regioni

convergenza particolare rilevanza. La fragilità del loro tessuto economico e sociale vede

nella povertà un problema che torna a porsi all’attenzione al punto che esse si

scambiano, di anno in anno, il primato in un Mezzogiorno generalmente sempre più

povero (ISTAT, annate varie; ISTAT, 2008). Ciò che impone un uso attento e mirato di

risorse che, oggi già scarse, potrebbero diventarlo ancor di più in futuro.

40 Il contributo alla crescita economica è misurato come incremento netto di valore aggiunto, espresso in Potere di Acquisto Standard; quello all’aumento dell’occupazione come incremento netto di posti di lavoro equivalenti a tempo pieno ed, infine, quello all’aumento della produttività del lavoro come valore aggiunto lordo per occupato a pieno tempo.

47

7. INFORMAZIONI STATISTICHE E POLITICHE: OPPORTUNITÀ DI UN LEGAME

NECESSARIO

La ricchezza delle informazioni gioca un ruolo centrale nel definire la qualità delle

politiche; in periodi di grandi cambiamenti, come quello attuale, le esigenze di qualità,

dettaglio e tempestività dei dati aumentano ulteriormente. Non sorprende verificare,

dunque, che il quadro di riferimento per l’attività di rilevazione statistica stia mutando e

che l’introduzione di metodologie innovative, l’armonizzazione tra fonti statistiche e la

rilevazione di fenomeni più recenti consentano una lettura nuova del settore, più utile

per la futura azione politica dell’Unione.

Tra le informazioni disponibili, quelle derivanti dalle statistiche ufficiali, sebbene

prodotte per fini diversi, si caratterizzano per una qualità e un potenziale informativo

elevato, ma non pienamente utilizzato: spesso esse sono fondamentali nella fase di

valutazione ex ante dei programmi d’intervento, ma quasi del tutto ignorate nei

successivi momenti della valutazione.

Nelle pagine seguenti sono discusse le linee-guida del programma statistico

comunitario, che ridefinisce l’insieme delle rilevazioni statistiche in agricoltura.

L’attenzione è stata focalizzata sulle proposte riguardanti il futuro censimento e sul

tema della qualità delle rilevazioni. La possibilità concreta di legare necessità

informative della politica e disponibilità delle statistiche ufficiali è discussa con

riferimento alla valutazione dell’impatto dell’attuale programma di sviluppo rurale.

7.1. - Il programma statistico comunitario per l’agricoltura e i registri amministrativi

L’attività di rilevazione statistica per il periodo 2008-2012 è definita da uno

specifico programma comunitario che descrive l’organizzazione del sistema statistico

europeo e riconosce nella cooperazione il principio-guida dell’attività di rilevazione41.

41 L’articolazione del programma è precisata dalla decisione n. 1578 del Parlamento europeo e del

Consiglio, GU del 28-12-2007, che sollecita una fattiva cooperazione con gli interlocutori esterni all’Unione, tra gli istituti nazionali di statistica, tra i gestori delle rilevazioni e gli utenti dei dati al fine di pervenire ad un linguaggio statistico condiviso, una delle tappe verso la coesione dell’Unione.

48

La sezione del programma dedicata all’agricoltura distingue le rilevazioni

statistiche in due gruppi: quelle tradizionali, utili per la gestione del mercato, e le nuove

statistiche strutturali dettate dalle preoccupazioni più recenti della politica agraria, come

la sicurezza alimentare e la sostenibilità delle attività produttive. L’indirizzo adottato

per le future rilevazioni è ispirato al principio della differenziazione: sia tra le necessità

conoscitive (semplificazione per le statistiche tradizionali, analiticità per le nuove), sia

tra gli Stati membri (impegno statistico proporzionale al peso nell’aggregato europeo) e

fra gli utenti (disagio statistico direttamente proporzionale alla dimensione delle

imprese). Tra le numerose attività programmate, l’organizzazione del censimento e la

costituzione degli archivi amministrativi riveste un particolare interesse per due motivi

principali. In primo luogo, per entrambe le attività si è in fase di progettazione, ossia nel

momento più opportuno per sollecitare scelte operative in direzione di una maggiore

qualità dei dati. In secondo luogo, la riorganizzazione dell’attività di rilevazione

statistica prevede una stretta interrelazione tra gli archivi amministrativi ed il

censimento, così come con l’insieme delle altre indagini, per cui le scelte adottate per

gli archivi condizioneranno inevitabilmente tutta l’attività di rilevazione programmata

per il settore agricolo.

L’impiego dei dati amministrativi è finalizzato alla costruzione di due archivi: il

business register, che risponde alle necessità delle indagini congiunturali di contabilità

nazionale, ed il farm register, ancora in fase di studio, che dovrebbe armonizzare

l’articolato sistema delle statistiche strutturali in agricoltura. I due archivi sono diversi

per finalità, natura delle unità rilevate, articolazione e periodicità di aggiornamento, ma

sono concepiti come strettamente interrelati. In particolare è previsto che il farm

register includa l’altro archivio per raccordarlo con più fonti amministrative ottenendo

un’articolata caratterizzazione delle agricultural holding.

Secondo l’ordinamento comunitario, il business register deve includere tutte le

imprese che contribuiscono al PIL offrendo, anche solo in parte, i propri prodotti e

servizi sul mercato42. Tale registro, aggiornato annualmente, costituirà la fonte

42 Il Reg. 177 del 5-03-2008, definisce il Quadro comune per i registri di imprese utilizzati a fini statistici.

Nell’archivio sono incluse le imprese singole di qualunque settore e per la prima volta anche i gruppi di imprese tutte residenti e le sezioni delle multinazionali a controllo estero o europeo che operano nel territorio dell’Unione (gruppi troncati). L’archivio includerà tutte le imprese pubbliche, mentre esclude le famiglie impegnate unicamente nella locazione dei beni di proprietà o in attività per l’auto-consumo.

49

d’informazione principale sulla popolazione delle imprese e il riferimento esclusivo per

la progettazione delle indagini campionarie.

Per la prima volta l’obbligatorietà del rilievo è estesa alle imprese agricole,

consentendo una più articolata conoscenza del settore, delle filiere produttive e dei

distretti rurali. Dall’istituzione del business register è dunque legittimo attendersi alcune

importanti indicazioni: in primo luogo sulla numerosità delle imprese impegnate

nell’attività economica in agricoltura, una delle questioni da sempre più dibattute; in

secondo luogo, sarà possibile conoscere le attività economiche caratterizzanti tutte le

imprese che operano in una stessa area rurale, misurare l’intensità delle interazioni tra

l’attività agricola e le altre attività produttive43, nonché identificare le relazioni di

controllo tra le unità giuridiche e conoscere il grado di concentrazione dei mercati agro-

alimentari.

La trasposizione al settore agricolo delle procedure utilizzate per il registro delle

imprese dell’industria e dei servizi ha richiesto scelte metodologiche differenti in

considerazione della specificità delle regole amministrative per l’agricoltura44. Una

speciale attenzione merita la proposta avanzata dai ricercatori dell’ISTAT di identificare

l’attività economica principale e secondaria in due fasi: prima caratterizzando l’attività

con riferimento alla tipologia OTE, poi classificandola secondo il sistema NACE

(Garofalo e Lorenzini, 2007). Adottare la classificazione OTE per caratterizzare l’attività

economica equivale ad accettare rilevanti modifiche procedurali: ricorrere al reddito

lordo standard calcolato su base regionale e non alla composizione del valore aggiunto

aziendale, come per tutte le altre imprese; identificare l’attività economica principale in

base a soglie che distinguono tra OTE specializzato e misto piuttosto che in base al

criterio gerarchico del contributo fornito da tutte le attività al valore aggiunto

complessivo dell’impresa; elaborare un criterio esterno al sistema di classificazione per

ricondurre le molte tipologie miste previste dalla classificazione OTE a quelle meno

numerose e molto specializzate dal sistema NACE.

Le implicazioni di tale scelta dovrebbero essere attentamente ponderate perché 43 Per ciascuna unità locale e per l’unità giuridica è precisata la natura delle attività principale e

secondaria, codificata secondo il sistema di classificazione NACE (Nomenclatura delle Attività Economiche) rev. 2 in vigore dal 2008.

44 Per costruire il registro delle imprese agricole l’Italia ha scelto sia fonti generali (registro IVA e iscrizioni camerali) che fonti specifiche (redditi da terreni, INPS agricoltura, registro Agea, banca dati dei bovini, registro UMA). L’entrata in vigore è prevista per il 2010, con possibilità di deroghe fino al marzo 2013.

50

l’attività economica è una delle variabili di stratificazione delle imprese. Le modalità

adottate condizioneranno dunque inevitabilmente i confronti intersettoriali e le

successive rilevazioni statistiche quali l’indagine censuaria, la rilevazione REA-RICA e

quelle intercensuarie.

7.2. - Il 6° censimento dell’agricoltura

Nel programma statistico europeo il censimento agricolo è annoverato tra le

statistiche tradizionali. Pur essendo affiancato da indagini finalizzate alle più recenti

esigenze della politica agricola, il suo carattere di rilevazione tradizionale ne rafforza il

ruolo di indispensabile raccordo tra le indagini specifiche, la cui periodicità non è

definita a priori. La qualità della rilevazione censuaria, pertanto, continua ad essere una

questione di interesse rilevante.

Il dibattito attuale sul disegno del censimento si caratterizza per due novità: la

definizione dell’unità di osservazione e la delimitazione del campo di osservazione

(Garofalo e Lorenzini, 2007; Mancini et al, 2006).

L’unità di osservazione è identificata come un’unità tecnico-economica a gestione

unitaria che svolge attività economica, in via principale o secondaria, all’interno del

territorio dell’UE, secondo le categorie di attività economica della divisione 01 della

classificazione NACE rev. 245. Una definizione coerente con le indicazioni internazionali

(FAO, 2005) e con quelle previste per il registro delle imprese, che introduce la

caratterizzazione delle unità secondo l’importanza economica di ciascuna attività

realizzata e una definizione ampia di attività agricola fino ad includere i servizi alla

produzione e le attività di post-raccolta. In conformità a tali indicazioni, il campo di

osservazione ai fini censuari è identificato da tutte le unità che offrono prodotti o servizi

sul mercato, comprese quelle che realizzano nel territorio dell’UE le sole attività

successive alla raccolta di una produzione ottenuta in territori esterni ai suoi confini, o

che sono impegnate nell’attività di servizi a supporto dell’agricoltura e, infine, dalle

unità impegnate in attività economiche principali la cui natura tecnologica può essere

molto diversa da quelle incluse nella divisione 01 della classificazione NACE rev2.

45 Il campo di osservazione del censimento agricolo italiano include tradizionalmente anche le attività

incluse nella divisione 02 (Silvicoltura e utilizzo di aree forestali) della classificazione NACE .

51

Con riferimento alla delimitazione del campo di osservazione, la Comunità ha

posto un obiettivo di copertura minima fissato al 98% della SAU e degli allevamenti, con

la possibilità di limitare il campo di osservazione delle unità da rilevare sulla base di un

articolato sistema di 14 soglie fisiche disgiunte, unico per tutti gli Stati membri.

Una simulazione condotta applicando tale sistema all’universo Italia rilevato nel

censimento del 2000 evidenzia che l’obiettivo della copertura minima della SAU

nazionale non sarebbe raggiunto soprattutto con riferimento alle colture legnose, mentre

le unità rilevate sarebbero solo 1,4 milioni, inferiori di 1,1 milioni di unità rispetto a

quelle effettivamente censite. I risultati potrebbero addirittura peggiorare qualora al

2010 la numerosità della base censuaria dovesse essere, come si attende, minore rispetto

a quella del 2000. I risultati della simulazione impongono pertanto una riflessione

attenta. Al momento le proposte elaborate dai ricercatori dell’ISTAT sono orientate

all’identificazione di un più articolato sistema di soglie fisiche nazionali e regionali in

considerazione della specificità dell’agricoltura italiana (Mancini et al., 2006).

Non è possibile prevedere se in sede comunitaria si derogherà al criterio del

sistema unico di soglie fisiche, ma è possibile avanzare dei dubbi sull’opportunità di

circoscrivere l’analisi dei risultati ai soli aspetti di natura statistica così come sembrano

suggerire le soluzioni in discussione. Gli stessi risultati, infatti, inducono a dubitare

dell’adeguatezza del criterio proposto così come della base censuaria cui sono applicati,

riportando l’attenzione sulla qualità della rappresentazione dell’agricoltura italiana

offerta dalle rilevazioni censuarie.

L’attuale fase di progettazione del censimento è il momento più opportuno per

riconsiderare la qualità della rilevazione censuaria ed evidenziare quelli che appaiono

come errori che possono portare ad una rappresentazione distorta della struttura

produttiva dell’agricoltura italiana. Come suggerisce un'indagine conoscitiva

sull'affidabilità dei dati elementari dei censimenti dell'agricoltura ai fini delle analisi

economiche (Borlizzi, 2008), gli elementi critici sono identificati in tre momenti della

rilevazione: la definizione del campo di osservazione, il contenuto informativo del

questionario e le modalità di esecuzione della rilevazione.

Con riferimento all’identificazione del campo di osservazione il tema più critico è

costituito dalle proprietà collettive di terre destinate a prati e pascolo; appare, infatti,

dubbia la scelta adottata finora di includere nel campo di osservazione “le aziende

52

agricole costituite da prati permanenti e/o pascoli condotti dall’amministrazione

comunale (terreni messi a disposizione, generalmente dietro corresponsione di un

canone, per l’utilizzazione da parte di animali appartenenti ad altre aziende)” così come

quella di escludere dalla base produttiva quella parte di tali superfici utilizzata dalle

imprese private, fatta eccezione per l’affidapascolo. In questo modo, infatti, da un lato si

osserva la presenza di aziende comunali posticce di enormi dimensioni, dall’altro si

sottodimensionano le aziende che utilizzano le terre collettive. In Italia si calcola che

circa 2,5 milioni di ettari di SAT costituiscano la base produttiva “di proprietà” dei

Comuni (Branca, Macrì, 2005); il fenomeno, dunque, non è né circoscritto né limitato a

pochi casi.

Su tale tema la FAO chiarisce che “le terre collettive a pascoli e a foreste non sono

normalmente considerate un’azienda, tranne che in presenza di un’area specificamente

recintata o con altra forma di demarcazione dei confini” (FAO, 2005, paragrafo 3.34), e

suggerisce di eseguire la loro rilevazione tra i community-level data ovvero tra “i dati

locali, spesso riferiti ad un villaggio o un comune, utili per esaminare le infrastrutture ed

i servizi disponibili per le aziende” che non possono essere raccolti attraverso intervista

diretta delle aziende. Tale rilevazione dovrà, poi, essere completata dall’indicazione

delle aziende che utilizzano i terreni collettivi, per le quali determinare correttamente

l’estensione della superficie a loro disposizione. La soluzione della doppia rilevazione

offrirebbe così il duplice vantaggio di censire tutta la superficie agricola e di non

assimilare ad aziende agricole gli enti gestori delle proprietà collettive che si limitano ad

amministrare tale patrimonio.

Circa le cause di errore legate al contenuto informativo del questionario, la scarsa

enfasi riservata alla unitarietà di gestione nella definizione di azienda agricola e la

scarsa attenzione prestata al fenomeno dell’affitto appaiono i temi più rilevanti.

L’unitarietà di gestione è richiamata solo incidentalmente nel corso della

definizione di azienda individuale, proposta nel capitolo dedicato alle forme

giuridiche46. La scarsa attenzione ad essa prestata comporta il rischio che appezzamenti

fisicamente distinti ma tecnicamente connessi siano identificati come unità indipendenti

con il conseguente sovradimensionamento dell’universo delle aziende (Barbero, 1982).

46 L’azienda individuale è “condotta da persona singola o da più persone legate da vincoli di parentela che

conducono unitariamente i terreni, compresi eventualmente quelli appartenenti ad uno o più componenti”.

53

Tale rischio è concreto nel caso di più unità aziendali che rispondono ad un’unica

gestione, spesso esercitata all’interno di uno stesso nucleo familiare. Ancora una volta le

indicazioni contenute nel manuale della FAO si rivelano utili sia quando definiscono

l’unità di osservazione47, sia quando propongono i due concetti complementari di sub-

holding (“una singola attività economica o un gruppo di attività gestita da una

particolare persona (o gruppo di persone) nella famiglia del conduttore e per conto del

conduttore”) e di sub-holder (“persona responsabile della gestione di una sotto-

azienda”).

Anche la scarsa attenzione accordata alla definizione di affitto è causa di errori. Se

confrontata con la notevole complessità delle forme di possesso dei terreni (formali ed

informali) diffuse in Italia, la definizione riportata nel manuale di istruzioni per i

rilevatori: “all’affitto è assimilato l’affitto misto” (ISTAT, 2000) appare semplicistica e

lacunosa. Al contrario, la proposta contenuta nel manuale della FAO, che assimila

all’affitto un gran numero di forme di pagamento per il concedente appare più adeguata

a rappresentare le molteplici forme di possesso oggi molto diffuse e non riconducibili al

contratto di affitto definito dalla giurisprudenza.

Le soluzioni organizzative adottate in passato per la rilevazione hanno

ulteriormente favorito il rischio di errori. Tra queste, il compenso dei rilevatori legato al

numero di questionari compilati ha rappresentato un incentivo all’incremento del

numero di unità rilevate, con il risultato che dei semplici “orti familiari”, teoricamente

esclusi dal campo di osservazione del censimento, siano stati censiti come aziende

agricole. Nuove regole dovrebbero essere individuate per considerare la qualità della

rilevazione e non solo il numero di questionari compilati. Ciò sarà possibile se, come ci

si aspetta, il prossimo censimento sarà basato su una lista pre-censuaria delle aziende, la

cui esistenza non dovrà essere verificata sul campo da parte dei rilevatori.

47 “Unità economica di produzione agricola sotto una direzione unica, comprendente tutti gli allevamenti

e i terreni usati totalmente o parzialmente per la produzione agricola (...)”. La direzione unica può essere esercitata “da un individuo o da una famiglia, in forma associata da due o più individui o famiglie, da un clan o tribù (...). I terreni aziendali possono consistere in uno o più appezzamenti situati in aree separate o in una o più divisioni territoriali o amministrative (...) purché essi siano condotti con gli stessi mezzi di produzione, lavoro, fabbricati rurali e macchinari agricoli”.

54

7.3. - Le informazioni statistiche: le opportunità per la valutazione dell’impatto

L’efficienza, l’efficacia e l’equità dei programmi di sviluppo rurale per il periodo

2007-2013 sono affidate ad un articolato sistema di monitoraggio e valutazione che,

adottando la logica del concatenamento causale, identifica il contributo fornito da

ciascuna misura al raggiungimento degli obiettivi generali dell’intervento. Le

implicazioni operative non sono di poco conto: dall’azione incentrata sulla correttezza

formale delle procedure si passa alla gestione degli interventi guidata sia dai risultati

raggiunti che dagli effetti prodotti.

La trasposizione operativa di tale nuovo indirizzo si caratterizza per la continuità

del processo di valutazione dell’impatto (ex ante, intermedia ed ex post), e per la

proposta di indicatori associati a ciascuno degli obiettivi in modo da riprodurne la scala

gerarchica48. La finalità della valutazione è di fornire informazioni a valenza operativa

per adattare i programmi e migliorarne la gestione, per rispondere alla necessità di

trasparenza nei confronti dei beneficiari e dei cofinanziatori, più in generale, per

orientare le decisioni e il dibattito sulle politiche.

Se la valutazione deve produrre informazioni, la sua realizzazione necessita di dati

e di procedure di analisi ben definite. Gli indicatori di risorsa, di prodotto e di risultato

sono i più semplici perché ottenuti da dati acquisiti nel corso della stessa realizzazione

del programma. Non così per gli indicatori d’impatto: in questo caso i dati sono sempre

esterni e le metodologie di analisi meno definite.

Nonostante l’attività di indirizzo svolta dalla Comunità, la valutazione

dell’impatto dei programmi è un tema di indagine non ancora consolidato (Barca et al.,

2004), in particolare per quanto riguarda i complessi programmi di sviluppo rurale49

(Mantino, 2005; Monteleone et al., 2004; Zumpano, 2005). Le scelte metodologiche per

la valutazione sono da precisare nel corso del periodo di attuazione degli stessi

programmi, pertanto tale specifico tema di indagine è aperto ad ulteriori contributi da 48 La gerarchia degli obiettivi di politica (generali, operativi e di specifica attuazione) è affiancata da

quella parallela degli indicatori distinti in indicatori di impatto (contributo al raggiungimento degli obiettivi generali), di risultato (effetti diretti e immediati di ciascun intervento), di prodotto (attività realizzate per singola misura) e di risorsa (disponibilità finanziaria per misura).

49 Le indicazioni comunitarie precisano che l’impatto deve essere valutato seguendo una prospettiva dal basso ed essere articolato in due fasi; nella prima l’attenzione è posta ai beneficiari (diretti ed indiretti) conducendo un’analisi controfattuale che tenga conto dei trend caratteristici della zona di intervento; nella seconda fase l’attenzione è rivolta all’area di intervento per valutare i cambiamenti rispetto alla situazione di partenza (AA.VV., 2006).

55

parte degli economisti agrari. A questo proposito alcune indicazioni possono essere

formulate in merito alle priorità cui la valutazione dell’impatto dovrebbe rispondere:

rintracciare il legame causale tra gli interventi adottati e gli effetti ottenuti; consentire la

valutazione dell’impatto territoriale per l’intervento incrociato di più politiche;

articolare l’analisi per ciascuna macroarea identificata dalla zonizzazione della strategia

di sviluppo rurale; distinguere gli effetti per tipologia di impresa, prevedendo la

possibilità di un’analisi controfattuale per le imprese beneficiarie degli interventi. In

sintesi, l’attenzione al territorio deve considerare sia l’integrazione tra le differenti

politiche predisposte per una stessa area rurale, sia la capacità di coordinarle con

riferimento ad obiettivi definiti.

L’elaborazione degli indicatori di impatto richiede dati (primari o secondari)

esterni all’attuazione del programma, costantemente aggiornati e con un dettaglio

territoriale statisticamente significativo, in modo da consentire l’identificazione dei

cambiamenti avvenuti nel periodo di riferimento e nelle aree individuate dalla

territorializzazione degli interventi. La necessità operativa di programmare l’attività di

valutazione delle politiche ravviva dunque l’interesse per le fonti ufficiali ed invita ad

operare al fine di sfruttare a pieno il loro potenziale informativo.

Le novità in discussione nella progettazione del futuro censimento e l’adozione dei

suggerimenti per migliorare la qualità ne prefigurano una utilità potenziale più alta che

in passato. Posto che le novità attese diventino certezze, due circostanze pesano

negativamente sull’utilità operativa della rilevazione ai fini della valutazione

dell’impatto: l’intervallo di tempo necessario per disporre dei dati definitivi e

l’asincronia tra la fase della rilevazione statistica e quelle della valutazione

dell’intervento50, queste ultime previste per il 2010 (valutazione in itinere) e per il 2015

(valutazione ex post). In particolare, i dati censuari rilevati nel 2010, seppure

tempestivamente disponibili, non potranno essere utilizzati per la valutazione intermedia

e saranno ormai datati per la valutazione ex post.

Per quanto riguarda i dati degli archivi amministrativi, l’aggiornamento annuale

previsto li renderebbe particolarmente utili per analisi articolate dei distretti e delle

50 Alcuni di questi problemi potrebbero essere superati da una diversa frequenza di aggiornamento

prevista dal futuro regolamento sulla Farm Structural Survey, che potrebbe essere differenziata in decennale, triennale e annuale al crescere della dimensione dell’impresa (Brogi et al., 2005).

56

filiere; tuttavia la possibile decisione italiana di spostare al 2013 la prima realizzazione

del business register peserà sulla loro disponibilità.

Considerazioni diverse devono essere formulate per l’indagine campionaria sulle

strutture e per quella sui risultati economici: la prima, prevista per il 2013, potrebbe

essere penalizzata dall’epoca di rilevazione, intermedia a quelle delle due valutazioni;

per l’indagine REA-RICA, realizzata annualmente, il problema dell’asincronia è

inesistente, tuttavia l’utilità dei suoi dati è condizionata dalle scelte del disegno

campionario. Ai fini dell’analisi dell’impatto, infatti, l’indagine REA-RICA soffre di due

limiti: la rappresentatività regionale e la natura casuale del campione. In particolare, tale

natura la rende particolarmente utile per la valutazione del contesto, ma la penalizza ai

fini dell’analisi dell’impatto che, invece, richiederebbe il monitoraggio delle stesse unità

di osservazione nel tempo, come solo un campione tipo panel data consente. Entrambi i

vincoli possono essere superati adottando un diverso disegno statistico e costruendo dei

campioni-satellite aggiuntivi, di numerosità ridotta e riferiti a particolari tipologie di

aziende, soluzioni che meglio rispondono alle necessità del percorso suggerito dalla

Comunità. Esperienze operative sono già state compiute nel periodo di programmazione

2000-2006 da parte di alcune Autorità di gestione e meritano di essere approfondite per

una loro adozione generalizzata (Abitabile e Scardera, 2008). Con riferimento alla

diversa rappresentatività territoriale, invece, la soluzione è data dall’adozione di

opportuni criteri di stratificazione geografica sub-regionale. Ai fini della valutazione

dell’impatto, dunque, l’utilità potenziale dei dati economici e strutturali dell’indagine

REA-RICA è molto alta ma vincolata dalla necessità di rimodulare e ampliare il suo

disegno statistico. L’applicazione operativa di entrambe le soluzioni prospettate deve

essere sollecitata dalle Autorità di gestione regionale.

In sintesi, nonostante le numerose novità del programma statistico europeo, in

Italia il legame tra le informazioni statistiche e le necessità delle politiche sembra ben

lontano dall’essere una realtà operativa. Numerosi i problemi ancora da superare che

richiedono un ruolo più attivo sia alle Autorità nazionali nel coordinare i diversi attori,

sia a quelle di gestione dei programmi regionali nel disegnare l’attività di valutazione.

57

8. CONSIDERAZIONI (NON) CONCLUSIVE

Considerando la natura e gli obiettivi del lavoro qui presentato, dovrebbe essere

evidente che esso, in quanto contributo di discussione e proposta sugli orientamenti

auspicabili per il nostro lavoro di ricerca, non si presta a chiare e semplici osservazioni

conclusive. Le proposte avanzate sono variegate e riguardano aspetti sia di contenuto

che di metodo. Spetta ai lettori interessati a tali questioni di valutarne correttezza,

rilevanza ed utilità. Gli Autori del lavoro ritengono comunque opportuno, ad evitare

malintesi, richiamare la loro attenzione sull’ottica particolare scelta come riferimento

della sua impostazione generale. Questa ottica concentra l’attenzione su uno dei ruoli

che gli studiosi di economia e politica agraria possono/devono svolgere a beneficio dei

responsabili (pubblici e privati) delle scelte politiche. Tale ruolo è quello della

prestazione di un servizio che consiste nella produzione di conoscenze ed informazioni

su stato, dinamiche e meccanismi di funzionamento della realtà agricola, agro-

industriale e rurale. Sono viceversa trascurati altri (legittimi) ruoli quali quello di

indicare e discutere obiettivi da perseguire e loro scale di priorità o quello di analizzare

e valutare criticamente i modi e le circostanze in cui le decisioni sono prese ed,

eventualmente, portate ad effetto51.

Pur tenendo conto dei limiti del lavoro derivanti dall’ottica prescelta, il lettore

attento non potrà non rilevare che, comunque, la lista dei temi trattati è tutt’altro che

esauriente. Ci sembra, tuttavia, che la gamma di questioni di politica agraria (e dei temi

di ricerca ad esse collegati) su cui il nostro lavoro richiama l’attenzione sia comunque

molto più ricca e articolata di quella a cui, a giudicare dalla pubblicistica e dalla

convegnistica specializzata, hanno dedicato, quasi in esclusiva, il proprio impegno negli

ultimi anni i politici e gli amministratori che si occupano di agricoltura ed i loro

interlocutori accademici abituali.

Peraltro la stessa circostanza della varietà e, insieme, della incompletezza dei temi

di ricerca indicati nei diversi contributi qui raccolti scoraggia ogni tentativo di derivare,

dall’esame del loro insieme, delle indicazioni generali su nuovi orientamenti cui

dovrebbe rivolgersi la ricerca economico agraria. Tuttavia, ci sembra non debba essere

considerato del tutto fortuito il fatto che solo sporadicamente tali temi riguardino 51 Tali ruoli sono viceversa, con ogni evidenza, al centro dell’attenzione delle relazioni presentate al Convegno da Buckwell e da Lanzalaco e Lizzi.

58

questioni di competenza strettamente disciplinare economico-agraria; essi, infatti si

collocano, di norma, in spazi in cui l’economista agrario deve necessariamente

interloquire con esperti di altre discipline Mi piace pensare che in una qualche misura il

verificarsi di questa circostanza, non creata ad arte, sia stata favorita dal clima

intellettuale che tradizionalmente caratterizza l’ambiente porticese in cui gli Autori

operano. Ma, per il resto, tale fatto non può che ricollegarsi al “progressivo

ampliamento dei confini dell’arena agricola” evidenziato da Lanzalaco e Lizzi nella loro

relazione.

Un altro carattere comune a molti dei temi di ricerca menzionati, forse meno

evidente, ma che è opportuno notare a motivo della necessità di affrontarli anche sul

piano empirico, è quello della scarsità o difficile reperibilità dei dati di base che

sarebbero richiesti. Ma questa, come sappiamo, è la circostanza che accomuna la

maggior parte delle ricerche al servizio delle esigenze conoscitive della politica, e che,

come si è già visto, è responsabile della lamentata scarsità di studi di tipo econometrico

nella letteratura che, anche a livello internazionale, si rivolge a questo insieme di lavori.

Sarò quindi facile profeta se dirò che ci dovremo, di norma, aspettare, nei futuri

sviluppi, una riproposizione della scelta metodologica tra i modelli di simulazione e gli

studi descrittivi, secondo la classificazione di Gardner e Johnson richiamata in

precedenza. Senza stare a ripetere che, in tale scelta, il fattore decisivo da cui dipende il

grado di attendibilità dei risultati non si deve individuare nel metodo di elaborazione,

bensì nella qualità dei dati e nella competenza e nella perceptiveness dello studioso,

preferisco osservare che, se mi trovassi nei panni di un politico che ha bisogno di certe

informazioni e valutazioni su di un dato fenomeno, cercherei sistematicamente di

ottenerle da più fonti indipendenti, assicurandomi che esse siano state prodotte con

metodi diversi.

59

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Summary

Real world knowledge and agricultural policy: open issues for research (JEL: A11) The paper aims at defining and analyzing a few new and relevant problems for

which the agricultural economics research already offers and/or might offer useful pieces of information and knowledge which may shed light on the needs of adjustment of agricultural policy. These new problems stem from the changes occurring inside and outside the agro-industrial sector, including the re-orientation of the social preference system, but also from the progress already achieved in the knowledge and understanding of the agro-industrial real world.

The concerned issues regard: the role of product quality in the organization of the supply chain and as a component of competitive strategies; the producer’ risk conditions and the new tools for risk management; the role of policies and institutions in affecting the sustainability of land use; the meaning and relevance of rural landscape and biodiversity safeguard as objectives of agricultural policy; the ideal and the real design of rural development plans for disadvantaged areas in southern Italian regions; the progresses in the collection and availability of farm data and their respondence to the needs of impact analyses of agricultural policies.

Riassunto

Il lavoro individua ed analizza alcuni nuovi e rilevanti problemi nei cui confronti la ricerca in campo economico-agrario già offre o potrebbe offrire contributi di conoscenza ed informazione necessari od utili per meglio orientare le scelte dei decisori politici. Tali nuovi problemi sorgono a motivo dei cambiamenti che stanno avvenendo all’interno ed all’esterno del settore agricolo ed agro-industriale o, anche, nel sistema delle preferenze adottato dal corpo sociale ed, inoltre, a motivo dei progressi già realizzati nello stesso grado di conoscenza della realtà.

Le questioni considerate riguardano: il ruolo della qualità dei prodotti nell’organizzazione delle filiere produttive e nelle strategie competitive; le condizioni del rischio dell’attività produttiva e gli strumenti pubblici e privati per la sua gestione; il ruolo di politiche ed istituzioni per la salvaguardia della sostenibilità dell’uso del suolo; la rilevanza ed il significato degli obiettivi di tutela del paesaggio e della biodiversità nelle politiche agricole; le condizioni per l’efficacia delle politiche di sviluppo rurale nelle Regioni “obiettivo convergenza”; i possibili progressi nella raccolta e disponibilità di dati sulle imprese agricole e la loro rispondenza ai fini delle analisi di impatto delle politiche.