Gli studi di economia agraria e le conoscenze necessarie...
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GAETANO MARENCO, ANDREA BORLIZZI, CARLO CAFIERO, FABIAN CAPITANIO, FRANCESCO CARACCIOLO, LUIGI CEMBALO, TERESA DEL GIUDICE, MARIA TERESA GORGITANO, TERESA PANICO, STEFANO PASCUCCI
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Gli studi di economia agraria e le conoscenze necessarie per le politiche
agrarie del futuro2
1. ALCUNE PREMESSE
Va detto innanzitutto che la relazione è il frutto di un lavoro collettivo svolto
presso il Dipartimento di Economia e Politica Agraria di Portici. L’idea generale ad
esso sottesa è che, per rispondere al meglio ai propri compiti nella vita sociale, gli
studiosi di economia e di politica agraria (come, del resto gli studiosi di altre discipline)
devono anzitutto impegnarsi a fornire conoscenze ed informazioni corrette e rilevanti a
chi deve prendere decisioni ed operare e, in primo luogo, ai rappresentanti del pubblico
interesse. Se si concentra l’attenzione su questo compito e, quindi, sull’oggetto e la
natura delle informazioni richieste, il ruolo della “conoscenza della realtà” viene
naturalmente posto in primo piano e diventa il punto di partenza delle valutazioni circa
le esigenze di sviluppo della ricerca. In questa ottica particolare vengono a perdere
importanza le tradizionali distinzioni accademiche fra studi di economia e studi di
1 Gaetano Marenco e Maria Teresa Gorgitano sono professori presso il Dipartimento di Economia e
Politica Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale (Portici – NA). Carlo Cafiero, Fabian Capitanio, Luigi Cembalo, Teresa Del Giudice e Teresa Panico sono ricercatori presso lo stesso Dipartimento e Collaboratori Scientifici Ordinari presso il Centro di Portici. Andrea Borlizzi, Francesco Caracciolo e Stefano Pascucci sono dottori di ricerca in Economia e Politica Agraria. Il lavoro è frutto di un lavoro comune da parte degli autori. Tuttavia, Gaetano Marenco ha redatto i parr. 1 e 8; Andrea Borlizzi e Maria Teresa Gorgitano il par. 7; Carlo Cafiero e Fabian Capitanio il par. 3, Luigi Cembalo e Francesco Caracciolo il par. 5; Teresa Del Giudice il par. 2; Teresa Panico il par. 6; Stefano Pascucci il par. 4. Si desidera ringraziare i proff. Antonio Cioffi, Francesco de Stefano, Pasquale Lombardi e Eugenio Pomarici per gli utili suggerimenti che hanno permesso di migliorare la stesura del lavoro. Ogni responsabilità di quanto scritto rimane comunque dei soli autori.
2 Questo lavoro costituisce una versione ridotta della relazione su “Conoscenza della realtà e politica agraria: questioni aperte per la ricerca” predisposta dagli stessi Autori.
politica agraria, anzi, in un certo senso, la rilevanza “politica” dei primi viene rivalutata.
Viceversa, nella stessa ottica passa in secondo piano un certo tipo di studi e di
conoscenze, di natura più intuitivamente politica, riguardanti il modo in cui e le ragioni
per le quali le decisioni sono prese, studi che pure fanno parte della tradizione
disciplinare, ma che evidentemente acquistano rilevanza con riferimento ad esigenze
conoscitive di diverso tipo.
1.1. - La politica agraria e le conoscenze necessarie.
Riserveremo in questa sede il termine “Politica Agraria” ad indicare l’attività reale
politico-legislativa ed amministrativa in cui si concretizza “l’intervento dello Stato nel
campo dell’economia agricola” (definizione di M. Bandini) ovvero “la parte o il settore
della politica economica che si occupa dell’agricoltura” (definizione di G. Orlando, O.
Ferro e F. de Stefano).
Viceversa, il termine “conoscenza della realtà” come qui lo si intende, pur avendo
molto in comune con gli studi di politica agraria, non include l’intera gamma dei tipi di
indagine che sono abitualmente inclusi in tale disciplina ma, di converso, include un
certo tipo di esigenze conoscitive della cui soddisfazione gli studiosi (o, almeno, gli
accademici) non si sentono, di norma, direttamente responsabili.
Per chiarire quali sono i tipi di indagine di politica agraria che, almeno in questa
sede, lasciamo al margine dei nostri discorsi, torna comodo fare riferimento alla chiave
di classificazione proposta da Rausser e Goodhue (2002) e basata sulla “dimensione (o
impostazione) analitica” che caratterizza ciascun tipo. Le diverse dimensioni sono
sinteticamente descrivibili come:
- dimensione dell’incidenza-efficacia, secondo la quale l’analisi “mette a fuoco gli
effetti delle politiche in atto e/o la scelta tra diversi strumenti di intervento,
assumendo una perfetta esecuzione di ciascuno di essi, l’assenza di reazioni
(“feedback effects”) da parte dei gruppi di interesse coinvolti ed una data
struttura costituzionale di governo”;
- dimensione di analisi del funzionamento (“mechanism design”) di un particolare
strumento, nella quale si rilascia l’ipotesi di perfetta esecuzione e realizzazione e
si considerano esplicitamente le possibili strategie di comportamento dei singoli
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operatori di fronte al sistema di incentivi che lo strumento di intervento mette in
atto;
- la dimensione di economia politica, che mira ad analizzare il processo politico di
scelta degli strumenti di intervento, considerando tale scelta come risultato
dell’azione esplicita di gruppi di interesse e/o di forze politiche contrapposte; ciò
implica evidentemente il rilascio dell’ipotesi dell’assenza di reazioni da parte
degli “stakeholders”;
- la dimensione costituzionale, nella quale si fa cadere anche l’ipotesi di un dato
assetto costituzionale politico-economico di base, riconoscendo che in definitiva
da esso dipendono, oltre che il livello generale di civiltà e libertà di un sistema
sociale, anche le regole che vincolano le possibili azioni e poteri delle diverse
forze politiche e gruppi di interesse e quindi, in definitiva, la scelta degli
strumenti dell’intervento pubblico.
Rausser e Goodhue affermano che “al fine di comprendere a fondo, spiegare o riformare
le politiche esistenti, tutte le quattro dimensioni debbono essere considerate in modo
integrato” (R. e G. 2002, p. 2092) e, in termini di logica astratta, non si può non
concordare. In questa sede, tuttavia, se ci domandiamo quali siano le esigenze
conoscitive di un decisore pubblico interessato anzitutto a compiere le proprie scelte di
politica agraria con cognizione dei loro effetti, ci sembra che esse includano
prioritariamente gli studi caratterizzati dalle prime due impostazioni. Riteniamo, per il
momento, possibile trascurare gli studi che aderiscono alle impostazioni analitiche della
“economia politica” e, soprattutto, dell’”assetto costituzionale” i quali assumono
evidente rilievo quando si voglia giudicare la fattibilità politica di certe scelte o
interpretare,dall’esterno, il perché delle scelte fatte.
Ma le esigenze conoscitive, vale a dire “le conoscenze” richiamate nel titolo,
includono tuttavia qualcos’altro rispetto ai risultati delle specifiche ricerche di politica
agraria.
In primo luogo chi assume la responsabilità delle politiche dovrebbe essere
consapevole delle ragioni e delle circostanze per le quali si determinano le dinamiche ed
i fenomeni osservabili (e per lui rilevanti, almeno in potenza) anche quando non siano in
atto nei loro confronti interventi diretti. La ragione più ovvia di questa esigenza è
rappresentata dal fatto che solo conoscendo il perché dei “fatti” è possibile decidere se,
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come e quando eventualmente intervenire. Non occorre dire che, in considerazione di
ciò, tutta la ricerca economico-agraria (teorica ed applicata), assume potenziale rilievo
ai fini delle conoscenze richieste dalla politica agraria3.
In secondo luogo egli dovrebbe essere, per ovvi motivi, tempestivamente
informato dei “fatti”, ossia dello “stato delle cose” e delle dinamiche in atto, riguardanti
gli aspetti della realtà che per lui assumono rilievo in quanto direttamente collegati agli
obiettivi generali o specifici che intende o deve perseguire ed ai quali l’intervento è
specificamente rivolto.
A questo proposito può essere opportuno spendere qualche parola per evidenziare
il contributo che gli esperti di economia e politica agraria possono e debbono fornire al
riguardo, contributo che, in sintesi, può essere individuato nell’indicazione dei dati e
fenomeni specifici più rilevanti e dei requisiti di “qualità”, in senso lato, che il flusso di
informazioni deve soddisfare per essere utilizzabile ai fini di progettazione o di
esecuzione e gestione degli interventi. Tali requisiti hanno evidentemente a che fare non
solo con la veridicità dei dati, ma riguardano altresì la forma e modalità di espressione,
la tempestività ed il grado di frequenza per i fenomeni variabili nel tempo ed il grado di
aggregazione o di dettaglio per i fatti o fenomeni variabili nello spazio. È facile capire
come questi requisiti possano essere diversi a seconda sia del tipo di problema o di
politica in cui i “fatti” o fenomeni sono chiamati in causa, sia del livello decisionale od
operativo per il quale sono necessari. Non è quindi pensabile alcun tentativo di
affrontare questo discorso in termini generali. Riteniamo tuttavia necessario segnalare
l’importanza di una questione specifica che rientra nel novero delle esigenze
informative e per la quale la competenza degli economisti e politici agrari è
particolarmente importante. La questione è facile da presentare e le ragioni della sua
importanza evidenti: se le politiche/gli interventi devono risolvere determinati problemi,
i loro obiettivi debbono essere formulati in modo appropriato e, soprattutto, in termini
suscettibili di misurazione e controllo; inoltre, il flusso di informazioni disponibili e la
loro qualità debbono essere tali da rendere possibile questa misurazione. Questa
esigenza dovrebbe essere soddisfatta sia in fase di progettazione o di valutazione ex-
ante (tuttavia, per problemi nuovi, le informazioni disponibili al momento possono
3 Non sarà inopportuno ricordare che l’integrazione delle “teorie” economico-agrarie nel corpo dei
Principi di Politica agraria costituì uno degli elementi innovativi del trattato di Francesco de Stefano, comparso oltre 20 anni or sono (de Stefano, 1985)
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essere carenti) sia, soprattutto, in fase di monitoraggio e/o di valutazione ex-post
(quando cioè si avrebbe avuto modo, volendo, di provvedere alla loro raccolta).
Malgrado la sua importanza, non si ha la sensazione che, soprattutto nel nostro
paese, a tale questione sia stata prestata dagli esperti e dai loro interlocutori politici la
dovuta attenzione.
Per completare questa prima premessa ci sembra opportuno, se non necessario, il
richiamo di una questione di sapore, per così dire, epistemologico, nei cui confronti la
tradizione degli studi di politica agraria mostra una diversità di posizioni.
Tale questione riguarda la competenza ed il diritto degli economisti agrari (o,
meglio, di tutti gli economisti, in quanto tali) a discutere e valutare nel merito gli
obiettivi generali dell’intervento pubblico. Questo diritto e questa competenza sono dati
evidentemente per scontati da parte, ad esempio, dagli Autori di quel (nutrito) gruppo di
studi di politica agraria che valutano gli esiti di ogni intervento pubblico alla luce dei
teoremi dell’economia del benessere e, in particolare, delle condizioni di ottimo
paretiano. Tra essi spiccano, come è noto, per attivismo e convinzione, gli economisti
agrari che si sono occupati delle politiche di regolazione del commercio internazionale
(Anderson, 2005; Sumner e Tangermann, 2002) e comunque di interventi sul mercato
dei prodotti agricoli (Alston e James, 2002). Oggigiorno le opinioni sulla validità e sui
possibili ambiti di applicazione di tali criteri di valutazione delle politiche sono molto
discordi (Gardner e Johnson, 2002, pp 2245 e segg.) ed è ancora meno diffuso, a mio
giudizio, il consenso circa il grado di priorità degli obiettivi di tipo strettamente
efficientistico nei confronti di altri obiettivi, quali, ad esempio, quello dell’equità
distributiva o della sostenibilità, che un corpo sociale ed i suoi rappresentanti ritengono
di dover perseguire4. Ciò comunque non mette al margine il ruolo sociale degli
economisti (e degli economisti agrari) come “consiglieri” del decisore pubblico, o come
informatori e formatori del pubblico e della pubblica opinione, in quanto essi rimangono
i primi responsabili del compito di “osservare se i mezzi proposti siano coerenti con i
fini da raggiungere o non siano invece in contrasto con il sistema che la collettività si è
scelto” (Ferro, 2004, p. 217).
4 Ciò evidentemente non significa che debba intendersi come inutile o irrilevante la valutazione del costo
sociale dell’intervento pubblico, che include anche varie poste di costi monetari espliciti quali quelli di tipo amministrativo; questo va evidentemente messo a confronto con gli obiettivi, eventualmente non monetizzabili, che si intendono raggiungere
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1.2. - Approcci metodologici, attendibilità dei risultati e studi di scenario a lungo termine
Anche se, e proprio perché, il nostro contributo non intende (e comunque non
potrebbe) assumere la veste e gli obiettivi di un lavoro generale di valutazione dello
stato dell’arte in merito al potenziale contributo della ricerca economico-agraria a
sostegno delle future scelte di politica agraria e della loro messa in atto, ci sembra
necessario o, almeno, utile, al fine di fare emergere la specificità ed i limiti del suo
contenuto, richiamare alcuni criteri di valutazione proposti in recenti lavori di rassegna
che, insieme con i giudizi che ne conseguono, ci appaiono rilevanti e condivisibili.
Tali criteri riguardano, in generale, i requisiti che tale ricerca deve possedere per
produrre risultati affidabili (e quindi effettivamente rispondenti alle esigenze degli
utilizzatori) e consentono di individuare temi o problematiche per i quali la
soddisfazione di tali requisiti è più difficile. A questo proposito richiamiamo
sinteticamente alcune considerazioni tratte principalmente dal lavoro di Gardner e
Johnson (2002). La prima considerazione, certo non sorprendente, riguarda il fatto che
la ricerca finalizzata ad affrontare i problemi di politica agraria richiede, di norma, la
disponibilità di un’adeguata base di dati empirici5 Per quanto riguarda poi il tipo di
metodi di elaborazione e di utilizzo di questi dati, Gardner e Johnson distinguono tre
categorie: i modelli econometrici, i modelli di simulazione e le “analisi descrittive”.
La prima comprende i lavori che “forniscono sistemi di relazioni tra variabili di
interesse economico in cui i parametri che collegano l’una all’altra sono ottenuti
mediante analisi statistiche dei dati”. La seconda “comprende l’uso di sistemi di
equazioni che quantificano relazioni economiche allo scopo di simulare gli effetti dei
cambiamenti nelle variabili di interesse, senza stima econometrica delle equazioni”. La
terza comprende tutti i lavori che, per “mancanza di risultati a cui prestare fede in virtù
di prove econometriche o di modelli di simulazione, si basano sostanzialmente
sull’intuizione ed esperienza (“perceptiveness”) dell’esperto-osservatore”. Le prime due
categorie di studi adottano quindi, a differenza della terza, lo stesso linguaggio
matematico-quantitativo. In termini di grado di affidabilità dei risultati, tuttavia, tra esse 5 “Applications of economic theory have suggested many interesting hypotheses in agricultural
economics, but, seeking to improve our knowledge of the range of subjects covered in this Handbook, a recurring theme is the necessity of data based empirical work” (Gardner and Johnson, 2002, p.2240)
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vi è una differenza sostanziale, in quanto, mentre l’aderenza alla realtà dei modelli
econometrici può essere evidentemente verificata grazie ai metodi statistici di stima (se)
correttamente applicati, nel secondo caso, anche alla luce delle valutazioni espresse da
specialisti in tali modelli, come Hertel (2002) e Sumner e Tangermann (2002) “si deve
concludere che il valore empirico di questo approccio non è stato ancora dimostrato”
(Gardner e Johnson, 2002, p.2242).
Per quanto riguarda infine gli studi del tipo “descrittivo”, gli stessi Autori,
mettendoli a confronto con quelli di simulazione, affermano che “è sorprendente, dopo
la lettura dei capitoli sulle politiche agricole dei paesi sviluppati e sui negoziati sul
commercio internazionale, che le analisi descrittive non abbiano molto meno da offrire
di quanto conseguito da grossi investimenti in analisi sviluppate in modo più formale”
(Gardner e Johnson, 2002, p.2243). In definitiva, quindi, l’unica categoria di studi, i cui
risultati offrono informazioni con un grado di affidabilità obiettivamente controllabile è
quella in cui tali risultati sono ottenuti mediante metodi econometrici.6 Ma questi,
purtroppo, si possono applicare solo con adeguata disponibilità di dati statistici per le
variabili di interesse ed è “forse sorprendente la relativa scarsità nella letteratura di
risultati (“findings”) econometrici riguardanti le risorse, l’ambiente, lo sviluppo rurale
e la politica” per cui gran parte del lavoro riportato in tale letteratura “deriva da idee,
referenze, modelli e osservazioni che non sono state confermate, né rifiutate e nemmeno
poste seriamente in confronto con i dati statistici” (Gardner e Johnson, 2002, p. 2241).
Forse un po’ meno sorprendente la carenza di studi econometrici volti ad ottenere
proiezioni (di trends) a lungo termine, i cosiddetti studi di scenario, cioè, proprio il tipo
di studi che servirebbero per fornire riferimenti concreti alle discussioni in un convegno
come il nostro. Non che siano mancati tentativi al riguardo, anche ad opera di istituzioni
con tutte le carte (risorse accademiche ed economiche) in regola, come l’ERS
dell’USDA in collegamento con le “Land Grant Universities” statunitensi, ma “essi
sono stati tentati e sono morti” (Gardner e Johnson, 2002, p. 2244).
Questo quadro sintetico dello stato (metodologico) dell’arte riguardo gli studi di
politica agraria e le valutazioni di fondo a suo riguardo, che sarebbe azzardato non
6 Ovviamente, ciò non significa che i risultati degli studi di simulazione o delle analisi descrittive
debbano, ipso facto, essere considerati poco attendibili, ma solo che la loro affidabilità non è condizionata dall’approccio metodologico, bensì, anzitutto, dalla quantità e qualità delle informazioni di base utilizzate e dalla esperienza, “perceptiveness” e coscienziosità dell’ Autore. Servono degli esempi al riguardo?
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condividere, mettono evidentemente in difficoltà chiunque debba occuparsi dei
cambiamenti della realtà e dei conseguenti adattamenti delle politiche. Ma, anche se non
si può sperare di parlare del futuro sulla scorta di risultati di modelli econometrici,
sembra opportuno verificare anzitutto la disponibilità di studi di simulazione che, se non
altro, avrebbero il merito della trasparenza, nel senso che essi devono (dovrebbero)
dichiarare esplicitamente tutte le ipotesi su cui sono basate le stime prodotte.
A questo riguardo dobbiamo in effetti notare che l’impossibilità di avvalersi di
metodi econometrici e la dubbia attendibilità dei risultati derivanti dai loro tentativi non
hanno affatto indebolito la “compatta confraternita”7 dei simulatori, che, come risulta,
ad esempio, dal recente seminario dell’EAAE di Siviglia8, ha tutt’ora un’agguerrita
filiale (a meno che non sia nel frattempo divenuta casa madre) in Europa.
Indipendentemente dalle nostre personali vedute sul valore scientifico (e sul grado
di affidabilità reale) dei risultati dei modelli di simulazione, sarebbe stato molto bello
(ed utile per la nostra relazione) se dal lavoro dei nostri colleghi appassionati di
“futurologia quantitativa” fossero emerse valutazioni concrete, a scala europea e
nazionale, sul prevedibile comportamento di variabili rilevanti per gli obiettivi e le
scelte politiche di lungo termine di cui ci occupiamo. Purtroppo, così non è. Almeno a
giudicare da alcune delle relazioni presentate al già citato Seminario di Siviglia e che
riguardano esperimenti/lavori di simulazione del quadro generale e a grande scala
(Banse et al., 2008; Britz and Heckelei, 2008) si deve dedurre che, al momento, lo stato
dell’arte, per quanto giudicato promettente, non consente di mettere a disposizione degli
economisti e dei responsabili politici stime robuste delle variabili oggi più rilevanti (ad
es., per le politiche ambientali e di sviluppo rurale) al livello di aggregazione, spaziale
e/o settoriale, necessario per orientare le scelte.
Pur non avendo alcun titolo nè motivo (almeno in questa sede) per entrare nel
merito e per scoraggiare gli sforzi dei modellisti in questa direzione, mi sembra
doveroso e forse utile avanzare il dubbio che questa carenza di risultati utilizzabili
dipenda non tanto da un insufficiente/migliorabile grado di affinamento degli strumenti
(modelli quantitativi) disponibili, quanto dal fatto che non esiste ancora alcun
7 definizione di Hertel (Hertel, 2002, p. 1409) 8 107th EAAE Seminar “Modelling of Agricultural and Rural Development Policies” Sevilla, Spain,
January 29th/February, 1st, 2008
8
programma di Ph.D o altro marchingegno atto a fornire agli economisti (agrari o meno)
le capacità di chiaroveggenza a lungo termine.
In ogni caso, se poi si considera il fatto che le future generazioni (di cittadini e di
politici) potrebbero avere una scala di priorità degli obiettivi diversa da quella cui si
attiene la presente, si è portati a concludere che ogni tentativo di individuare quali
(nuovi) orientamenti di politica agraria sono auspicabili in un orizzonte di lungo periodo
non può che apparire vano e, quindi, a riconoscere, come fa Buckwell nella sua
relazione, che il grado di incertezza è tale da determinare una vera e propria “paralisi
delle idee”.
1.3. - Cambiamenti e politiche: un approccio problematico tradizionale.
L’esigenza di collegare la nostra relazione al tema generale del convegno, ci evita
il rischio, opposto a quello appena indicato, di assumere un’ottica di analisi troppo
ravvicinata e miope, riferita cioè all’immediato futuro. Questa ci avrebbe portato a
discutere dei cambiamenti che si originano all’interno del sistema istituzionale che
gestisce l’attuale PAC e che riguardano, in sostanza, i criteri di distribuzione del
sostegno diretto.
È facile intuire come quest’ottica, che presenterebbe, peraltro, il vantaggio di
potersi avvalere dei risultati di un gran numero di studi di simulazione, non
consentirebbe di abbracciare l’ampia gamma delle nuove questioni che i cambiamenti
già in atto nella realtà agricola e nello scenario esistente pongono alla nostra attenzione.
Tali questioni sono rilevanti per la politica in quanto corrispondono a “problemi”, cioè a
situazioni considerate o da considerare insoddisfacenti alla luce dei criteri e degli
obiettivi che oggi ci proponiamo di soddisfare e sulla cui soluzione entro tempi
ragionevoli non si possono fare previsioni ottimistiche, a meno di una qualche modifica
del quadro delle politiche oggi operanti.
Ma le “nuove questioni” non sono solo quelle originate da cambiamenti in atto
nella realtà o da nuove esigenze od obiettivi da soddisfare. È infatti evidente che esse
possono nascere da cambiamenti nel nostro grado di conoscenza della realtà, il quale
può progredire sia a motivo della crescita quantitativa e qualitativa del flusso di dati e
informazioni che riguardano i fatti di nostro interesse sia perché la ricerca teorica ed
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applicata ha consentito di proporre ipotesi più soddisfacenti di spiegazione e di
interpretazione di tali fatti, ma anche (spesso) solo grazie ad una maggiore esperienza.
Se si affronta la questione dei rapporti tra cambiamenti, conoscenze e politiche in
questo modo problematico (e dialettico), si perde naturalmente in termini di ordine e
linearità, ma si guadagna (si spera di guadagnare) in termini di concretezza e di
interesse. Forse ci si sottrae, ma potrebbe non essere necessario, alla prassi di fare
distinzioni più o meno rigide fra questioni di breve, medio e lungo periodo, ma si
facilitano e si stimolano i rapporti tra studi di economia e studi di politica agraria.
Quella che certamente si perde è la possibilità di sviluppare, nei limiti di una
relazione, una presentazione organica di tutti i problemi e di tutte le questioni
conoscitive ancora aperte. I diversi ricercatori, docenti e dottorandi che hanno deciso di
fare parte del gruppo di lavoro hanno proposto autonomamente un certo numero di
questioni ed hanno in seguito definito e sviluppato a loro riguardo un lavoro che può
essere definito, in senso lato, un’analisi di valutazione dello stato dell’arte, ma che
comprende, in molti casi, anche l’indicazione delle vedute personali dell’Autore o degli
Autori. Come si vedrà, la gamma delle questioni (o aree/problema) discusse nei sei
contributi che seguono, per quanto limitate rispetto al numero di quelle che i
cambiamenti in atto o prevedibili ci propongono, appare diversificata e certamente
rappresentativa delle più importanti problematiche delle quali ci dovremo occupare
negli anni a venire: il sostegno della competitività e della salute economica delle
imprese alla luce dei cambiamenti in atto nelle filiere produttive e distributive agro-
alimentari (T. del Giudice, par. 2) e delle nuove condizioni di rischio a cui esse devono
far fronte, sia pure avvalendosi di nuovi strumenti di gestione (C. Cafiero e F.
Capitanio, par. 3); il perseguimento dei nuovi obiettivi “ambientali”, sia dal punto di
vista della sostenibilità degli usi del suolo (S. Pascucci, par. 4) sia da quello della
“produzione” di servizi che l’esercizio dell’agricoltura può comportare come effetto
esterno (L. Cembalo e F. Caracciolo, par.5); lo sviluppo rurale in senso proprio e le
condizioni necessarie per l’efficacia degli interventi (T. Panico, par. 6); infine una
problematica conoscitiva fondamentale e trasversale a tutte le altre: le iniziative in atto e
la possibilità di miglioramento della qualità e quantità dell’informazione necessaria per
il monitoraggio di consistenza, caratteri, attività e risultati economici delle imprese
agricole italiane (M. T. Gorgitano e A. Borlizzi, par. 7).
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I diversi contributi si distinguono non solo per l’area/problema considerato ma
anche per l’impostazione logica ed il taglio, i quali sono evidentemente collegati alla
natura ed all’origine del cambiamento da cui i problemi derivano.
Sotto questo profilo, come risulterà evidente dalla successiva presentazione,
ciascuno di essi può caratterizzarsi, in termini molto sintetici, nel modo seguente.
Il contributo di Teresa Del Giudice parte dalla considerazione dell’evoluzione
verificatasi negli ultimi anni all’interno di alcune importanti filiere di produzione e
distribuzione agro-alimentare, che impone sia una rivisitazione del concetto di qualità,
sia un ripensamento dell’articolazione delle strategie di applicazione di diverse linee di
politica agricola.
Carlo Cafiero e Fabian Capitanio analizzano le esigenze di ridefinizione
dell’intervento pubblico volto a rafforzare la capacità degli agricoltori ad affrontare il
rischio, con specifico riferimento alla situazione italiana ed europea, avvalendosi dei
risultati della ricerca teorica ed applicata sviluppata negli ultimi anni su diversi aspetti
del problema.
Luigi Cembalo e Francesco Caracciolo fanno il punto sullo stato attuale
(chiaramente inadeguato) delle conoscenze riguardanti la definizione in termini
concettuali e la possibilità di misurazione sul piano operativo degli obiettivi di tutela
della qualità del paesaggio rurale e del grado di biodiversità.
Il contributo di Stefano Pascucci parte dalla constatazione della scarsa efficacia
della politica agraria europea nei confronti del dichiarato obiettivo della salvaguardia
della sostenibilità dell’uso del suolo e propone e sviluppa a questo proposito un’analisi
interpretativa di carattere istituzionale. Questa interpretazione implica intuitivamente
l’esigenza di una radicale modifica della “filosofia” degli interventi pubblici che si
propongano esplicitamente l’obiettivo della sostenibilità.
Teresa Panico parte dalla considerazione dei risultati della ricerca riguardante la
teoria dello sviluppo agricolo e dello sviluppo rurale per valutare criticamente la
potenziale efficacia dei nuovi piani di sviluppo rurale delle regioni (italiane)
dell’Obiettivo Convergenza, con specifico riferimento all’ottica territoriale dello
sviluppo nell’ambito delle aree rurali più arretrate. A questo proposito si richiama
l’attenzione anche sulla questione del monitoraggio e della definizione ad uso degli
indicatori di impatto.
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Il contributo di Maria Teresa Gorgitano ed Andrea Borlizzi affronta infine la
questione delle esigenze di conoscenza dei fatti, con specifico riferimento al
monitoraggio delle dinamiche generali riguardanti consistenza, caratteri e risultati
economici delle imprese agricole; a questo proposito si presentano e si discutono le
attuali prospettive ed i problemi di miglioramento del flusso di informazioni e propone
una valutazione della loro rispondenza al fine di effettuare le verifiche, in itinere ed ex-
post, dei piani di sviluppo rurale 2007-2013.
2. UNA MODERNA POLITICA DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE: LA NECESSITÀ
DI NUOVE BASI CONOSCITIVE PER L’IMPLEMENTAZIONE
Conoscere le tendenze di cambiamento della realtà rappresenta un presupposto di
base che è destinato ad acquisire una valenza strategica nuova ed un’importanza
crescente nei moderni scenari competitivi. Il settore agroalimentare è stato interessato,
nell’ultimo decennio, da un processo di cambiamento che non sembra ancora arrivato
alla conclusione. Gli effetti principali di tale evoluzione sono chiaramente visibili in
tutta una serie di peculiarità nuove del comparto alimentare che ancora, in molti casi,
non sono state oggetto di un sufficiente sforzo di analisi. La necessità di acquisire
conoscenze aggiuntive inerenti a tali aspetti è la sfida che attende analisti e policy maker
al fine di implementare politiche per l’agroalimentare che permettano un aumento della
competitività del comparto.
Numerosi sono i percorsi strategici su cui strutturare l’intervento pubblico per
l’agroalimentare del prossimo futuro. Fra questi le politiche incentrate sul
miglioramento della qualità dei prodotti sembrano rivestire un ruolo di primaria
importanza sia al fine di rendere più efficace la tutela dei consumatori sia di migliorare
la competitività del sistema agroalimentare.
Scegliere il miglioramento della qualità come strategia per favorire lo sviluppo e
la competitività del settore agroalimentare richiede, a monte, di fare chiarezza su tre
quesiti di base.
Il primo, forse il più importante, è relativo a che cosa significhi, oggi, nei moderni
scenari di consumo, produrre beni di qualità.
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Il secondo è, invece, connesso alle condizioni per le quali la qualità potrebbe
rappresentare uno strumento competitivo non solo nei mercati internazionali ma anche
fra i diversi operatori delle filiere agroalimentari.
Il terzo, infine, è relativo a come la qualità, nell’ambito degli obiettivi e strumenti
della politica agricola, potrebbe produrre effetti positivi nel medio e lungo periodo a
favore del sistema agroalimentare italiano.
Riguardo al primo quesito, possiamo riconoscere che negli ultimi anni, il concetto
di qualità ha subito una rapida evoluzione. La qualità è passata dal riferirsi
esclusivamente agli attributi intrinseci del prodotto e, quindi, ad essere sinonimo di
eccellenza, ad una accezione più ampia che è andata riempiendosi di significati diversi.
Attualmente, è ampiamente riconosciuto che, nei moderni mercati al consumo, la qualità
dei prodotti alimentari è formata sia dall’insieme di caratteristiche intrinseche ed
estrinseche del bene (Grunert, 2002) sia dalle modalità con cui queste vengono
assicurate e comunicate ai clienti finali (Caswell e Joseph, 2007). Conseguentemente, le
scelte di acquisto vengono influenzate non solo da elementi quali il gusto, il prezzo, ma
anche dall’assortimento del punto vendita, dalle strategie di comunicazione, dal livello
di sicurezza alimentare, dagli aspetti nutrizionali, dall’origine, dalla certificazione
biologica, così come da quella del rispetto dei principi di equità e solidarietà lungo i
processi produttivi (Del Giudice, 2007). Queste nuove componenti del concetto qualità,
rappresentate sempre più da attributi fiducia dei beni e sempre meno da quelli
esperienza, hanno reso necessario un ricorso crescente a svariate forme di certificazione
o standard che rendessero visibili tali caratteristiche ai consumatori finali al fine di
influenzarne le scelte di acquisto (de Stefano, 2007). La proliferazione di standard di
produzione che hanno come oggetto aspetti tangibili ed intangibili del prodotto o del
processo ha, negli anni recenti, interessato sia la sfera legislativa pubblica che quella
privata, dando vita ad un fenomeno nuovo per il comparto agroalimentare. Gli effetti
principali di tale sviluppo hanno riguardato, in modo particolare, la strutturazione delle
filiere produttive in termini di cambiamenti nei rapporti di forza fra le diverse fasi e di
creazione di nuove forme di integrazione (Del Giudice, 2007). I diversi operatori della
filiera, infatti, con intensità e potere crescente a partire dalla fase di produzione primaria
fino alle aziende di distribuzione, usano le diverse componenti della qualità non solo per
decidere le politiche di marketing da adottare ma soprattutto per individuare i sistemi di
13
controllo di processo e di prodotto più adeguati da implementare (Giacomini e Mancini,
2005). In particolare, la fase di distribuzione che, sempre più, rappresenta l’operatore
con maggiore potere di mercato e con la più alta influenza informativa nei confronti del
consumatore finale, sembra aver affidato agli standard, in misura ridotta a quelli
pubblici e, in modo particolare, a quelli privati, un valore strategico rilevante sia nei
confronti dei consumatori finali sia nei confronti delle fasi a monte della filiera. Tale
scelta strategica, inoltre, acquisisce un’importanza maggiore alla luce del peso minore
che le preferenze dei consumatori finali sono destinate ad avere sullo sviluppo del
comparto agroalimentare. Infatti, il ruolo svolto dall’evoluzione della domanda di
qualità sull’evoluzione di tale settore, nei paesi avanzati, sarà caratterizzato da
un’importanza decrescente (Caswell e Joseph, 2007). In futuro, sarà lecito attendersi
che, anche se la domanda finale rimarrà comunque una delle principali forze che
guiderà il mercato agroalimentare, il ruolo degli operatori più forti sarà destinato ad
assumere una valenza crescente nelle linee di sviluppo da seguire.
La descrizione dei cambiamenti avvenuti indica perché sia necessario anche dare
una risposta al secondo quesito esposto in precedenza. La qualità, vista in termini di
standard e di certificazioni di processo e di prodotto, è diventata una leva strategica da
utilizzare sia dal comparto nel suo complesso nei diversi mercati al consumo sia dagli
operatori più forti nei confronti dei soggetti più deboli all’interno della filiera.
In particolare, la politica seguita dalla fase commerciale della filiera è stata quella
di moltiplicare e differenziare un numero elevato di standard privati che, molto prima di
quanto abbia fatto la regolamentazione pubblica obbligatoria, hanno avuto come
obiettivo quello di selezionare i fornitori al fine di raggiungere livelli più elevati di
sicurezza alimentare e di qualità, addossando un parte rilevante dei costi alle fasi a
monte della filiera e ai consumatori finali. Nella realtà operativa di impresa, la creazione
di una filiera controllata con fornitori affidabili e con costi minimi di controllo viene
realizzata dalla moderna distribuzione attraverso queste nuove forme contrattuali
(Giacomini e Mancini, 2006). In linea con l’evolversi e l’arricchirsi di contenuti del
concetto di qualità, anche i protocolli contrattuali tra la moderna distribuzione e le fasi a
monte della filiera hanno avuto come obiettivi prima la semplice sicurezza igienico
sanitaria degli alimenti, poi la realizzazione di processi produttivi a minor impatto
ambientale, fino ad arrivare attualmente a standard che prevedono aspetti etici e solidali
14
della produzione. Le ISO 9000, la tracciabilità di filiera (ISO 10439), i numerosi
standard implementati da specifiche catene distributive, la certificazione Eurepgap e
BRC, la SA 8000 rappresentano solo alcuni esempi dei possibili protocolli “volontari”
richiesti dalla grande distribuzione ai propri fornitori.
L’elevata attenzione che i consumatori moderni rivolgono agli aspetti igienico-
sanitari ed etici degli alimenti e l’aumento della concentrazione9 e della competizione
all’interno della fase distributiva rappresentano le condizioni per cui una moderna
accezione di qualità viene considerata una via da seguire per aumentare la competitività
del comparto. Più interessante e meno studiato è, invece, il ruolo rivestito dagli standard
nella governance delle filiere agroalimentari. Tali certificazioni, infatti, benché abbiano
carattere volontario sono, de facto, obbligatorie per quei produttori che hanno la grande
distribuzione come cliente intermedio di elezione (Henson, 2006). Inoltre, gli standard
privati sono, in molti casi, la risposta a leggi nazionali ed internazionali deboli e
rappresentato un’innovazione nell’approccio alla regolamentazioni. Infatti, questi
protocolli privati, creati da distributori che, nella maggior parte dei casi, hanno
dimensioni transnazionali se non planetarie, finiscono per creare piattaforme contrattuali
caratterizzate da bassi costi di transazione e con una vocazione di spinta trasversalità fra
economie e legislazioni nazionali non armonizzate (World Bank, 2005; Chemits, 2007).
Tali standard privati rappresentano, in sintesi, moderni strumenti per coordinare le
filiere agroalimentari (Reardon e Farina 2002, Giacomini e Mancini, 2006) e forze
importanti nel dirigere lo sviluppo del settore agroalimentare (de Stefano, 2007).
I processi evolutivi descritti, caratterizzati da numerosi elementi di novità,
rendono necessaria una riflessione sulle possibili componenti da includere in una
moderna politica pubblica della qualità. Tale analisi è di fondamentale importanza al
fine anche solo di accennare una possibile risposta all’ultimo quesito esposto in
precedenza.
Il primo aspetto da considerare è quello legato ai nuovi contenuti del concetto di
qualità già richiamati: oggi la qualità non è solo sinonimo di eccellenza come nel caso
dei prodotti tutelati da certificazioni comunitarie (DOP, IGP, ecc.) ma è qualcosa di più
ampio e in continua evoluzione che interessa non solo attributi tangibili ed intangibili
del bene ma anche aspetti organizzativi dell’intero processo produttivo. 9 Le prime 5 catene distributive hanno una quota di mercato pari a circa il 70% in molti paesi europei (Wijnands et al., 2006)
15
L’importanza crescente rivestita dal livello organizzativo dei soggetti economici si
riflette in un’altra componente strategica di una moderna politica, che è l’innovazione.
Anche in questo caso, tale concetto deve, necessariamente, spingersi oltre i confini
tradizionali del processo e del prodotto per arrivare al management aziendale e
all’organizzazione di filiera.
Seguendo questo potrebbe essere utile dare una nuova ed alternativa lettura al
concetto di piccola e media impresa alla luce dell’importanza che tale soggetto
economico riveste all’interno delle filiere produttive, influenzandone le strategie di
crescita e di governance. Questa categoria che caratterizza il sistema agroalimentare,
soprattutto italiano, è stata tradizionalmente identificata ricorrendo ai classici indicatori
di dimensione economica (estensione, fatturato, numeri di dipendenti). In una realtà,
dove nuove forme di integrazione verticale stanno ridisegnando i rapporti fra i diversi
soggetti delle filiere, fare riferimento oltre che alla dimensione economica anche a
quella organizzativa delle imprese permetterebbe una migliore caratterizzazione degli
interventi ed una più adeguata identificazione dei diversi segmenti a cui rivolgere tali
politiche.
In un contesto così articolato come quello dell’attuale sistema alimentare,
l’operatore pubblico dovrebbe rivedere il ruolo rivestito nella gestione della qualità,
ambito questo che, mai come negli scenari attuali, appare fortemente integrato con le
politiche per la competitività e quelle per l’innovazione.
L’implementazione di un moderno intervento pubblico dovrebbe seguire due
direttrici ben delineate. La prima, fortemente connessa alle nuove valenze del concetto
di qualità, dovrebbe avere come obiettivi quelli di abbassare l’asimmetria informativa e
i costi di transazione con l’ausilio di standard pubblici e di analizzare le potenzialità di
vecchie e nuove forme contrattuali come possibili elementi strategici di sviluppo.
La seconda, invece, correlata ai nuovi rapporti esistenti fra gli operatori
agroalimentari, dovrebbe facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese alle moderne
filiere produttive (OECD, 2006) e implementare interventi a favore del comparto
agroalimentare maggiormente customer oriented.
Le linee strategiche descritte, benché molto diverse, dovrebbero essere tutte il
risultato di un approccio che individui nel miglioramento della qualità, nell’aumento
della competitività e nel perseguimento dell’innovazione obiettivi integrati.
16
Amplificare e rendere operativi gli aspetti descritti richiede, come sottolineato in
apertura, sia l’integrazione di basi conoscitive già esistenti sia la creazione di nuove.
A livello comunitario il bisogno di una nuova base conoscitiva ed interpretativa è
ormai avvertito come forte e non procrastinabile. Uno degli esempi, nell’ambito dei
tentativi compiuti per l’armonizzazione degli standard, è fornito dal progetto pilota
Food Quality Schemes promosso dalla DG AGRI e dalla DG RTD, il cui primo
obiettivo è proprio quello di rilevare, nei vari paesi membri, le informazioni necessarie
alla fattibilità e alla eventuale costruzione di un protocollo unico europeo10 .
Nuovi fabbisogni conoscitivi riguardano anche la veloce evoluzione che interessa
da un lato le preferenze dei consumatori e dall’altro i fabbisogni dei clienti intermedi.
Impostare programmi di interventi pubblici e privati non riconoscendo un ruolo
“ridimensionato della domanda finale” significa non riconoscere che le imprese
agroalimentari hanno, sempre più, quale interlocutore esclusivo il cliente intermedio.
In tale ottica, un rinnovato sforzo di indagine ed analisi andrebbe dedicato alle
forme contrattuali moderne e alle filiere, approfondendone la conoscenza non solo degli
aspetti strutturali ma anche delle tipologie di integrazione.
3. L’INTERVENTO PUBBLICO PER LA GESTIONE DEL RISCHIO PER LE IMPRESE
AGRICOLE
3.1.- La premessa
Per circa 35 anni, la PAC e la presenza della compensazione ex-post in caso di
eventi dannosi hanno contribuito in maniera determinante ad annullare o mitigare gli
effetti di molti fattori di rischio per i produttori agricoli europei, indebolendo
l’attenzione che ricercatori e politici hanno dedicato in Europa al problema della
gestione del rischio di impresa in agricoltura.
Di recente però, la riforma della PAC e gli accordi siglati in ambito WTO per il
settore agricolo sembrano aver creato i presupposti per un rinnovato interesse al
10 Per eventuali approfondimenti si veda il sito http://foodqualityschemes.jrc.es/en/index.html
17
problema, in termini sia di necessità di intervento pubblico che del possibile uso di
strumenti privati (Cafiero, 2003).
Da un lato, la sostanziale revisione delle politiche di mercato, con lo
smantellamento del sistema di prezzi garantiti e la graduale eliminazione delle
restituzioni alle esportazioni, avrebbe il risultato di esporre gli agricoltori europei alle
dinamiche del mercato mondiale e, quindi, a prezzi più variabili che in passato. Tra
l’altro, l’istituzione del pagamento unico aziendale, pur introducendo una componente
stabile del reddito delle famiglie agricole, genera il “rischio” politico che tale
componente possa essere ridotta o eliminata in futuro.
Dall’altro lato, in ambito WTO, tra gli interventi a sostegno del settore agricolo
che rientrano nella “scatola verde” sono stati inclusi il sostegno alle assicurazioni
agricole e il sostegno pubblico ex-post in caso di eventi calamitosi (artt. 7 e 8 dell’annex
II all’accordo sull’Agricoltura, rispettivamente, disciplina della partecipazione dei
governi ai programmi assicurativi e aiuti governativi in occasione di disastri e calamità
naturali) ed è inoppugnabile che tali accordi abbiano inciso notevolmente sulle forme
che le politiche di sostegno ai redditi degli agricoltori hanno assunto da allora,
inducendo i singoli Governi a cercare, nelle pieghe degli accordi presi, mezzi meno
diretti, diversi, ma leciti, per aiutare gli operatori del settore primario (Cafiero et al,
2007). Nello specifico, è verosimile l’ipotesi per cui il poter sussidiare le assicurazioni
agricole in virtù di questi accordi, ha giustificato politicamente e, quindi, rafforzato lo
stanziamento di risorse pubbliche in questa direzione, prescindendo da una analisi
attenta dell’efficienza della spesa pubblica.
Questo scenario politico-istituzionale dell’agricoltura europea, mutato rispetto al
passato, ha generato indubbiamente una spinta per gli agricoltori e i governi europei
verso la definizione e l’uso di strumenti, anche alternativi rispetto a quelli impiegati in
passato, che fossero di ausilio alla prevenzione o alla gestione delle conseguenze di una
perdita di produzione o un calo dei prezzi. In tal senso, anche la ricerca economico-
agraria si è impegnata di recente nel tentativo di definizione di un approccio nuovo al
problema, ma è nostra opinione che gli sforzi profusi finora non abbiano ancora avuto i
risultati auspicabili e quanto accaduto finora in tema di intervento pubblico nella
gestione del rischio in agricoltura manifesta dei limiti che, in questa nota, vorremmo
contribuire a evidenziare, indicando alcune direzioni operative per il loro superamento.
18
3.2.- La tradizione: sussidio alle assicurazioni e pagamenti compensativi ex-post
Storicamente, dove c’è stato, l’intervento pubblico esplicito a sostegno della
gestione del rischio è stato in gran parte limitato alla erogazione di risarcimenti dei
danni ex-post e di sussidi ai premi assicurativi pagati dagli agricoltori.
Nel primo caso, i pagamenti compensativi istituzionalizzati (come ad esempio in
Francia e Italia) o gli stanziamenti ad hoc in caso di eventi “eccezionali” (negli USA),
avevano il vantaggio di essere basati su un concetto di solidarietà estesa, con riduzione
dei costi sociali degli eventi catastrofici, ma, contemporaneamente, impedivano la
programmazione della spesa e generavano la possibilità di “political rent seeking”11
(Cafiero et all. 2005).
Nel secondo caso, sulla scia forse del massiccio e datato intervento che il governo
USA indirizza a sostegno dei premi delle polizze assicurative agricole, anche in Europa
(Italia e Spagna soprattutto) si è cercato di sfruttare il vantaggio di poter programmare la
spesa ex ante e di potersi affidare ad un meccanismo di mercato presunto più efficiente.
Tuttavia, anche nel caso del sussidio alle assicurazioni si sono presto manifestate
problematiche di “economic rent seeking” e di efficienza della spesa. La possibilità di
“importare” il modello di intervento americano si deve scontrare con il fatto che, mentre
negli USA esistono condizioni per cui tale sistema può avere un senso, in Europa tali
condizioni non sono presenti. Molti, ad esempio, ignorano che negli USA esistono serie
storiche lunghe ed affidabili dei redditi individuali degli agricoltori; che è il pubblico
stesso che svolge la funzione di assicuratore (le imprese sono solo agenti del RMA, lo
USDA fornisce esso stesso la riassicurazione); che esiste una capacità di spesa pubblica
procapite in agricoltura molto maggiore di quella che abbiamo in Europa. Queste
condizioni si tramutano nella possibilità di poter determinare con maggiore precisione i
profili di rischio degli assicurati, di poter calcolare le soglie di indennizzo, di poter
fissare premi per le polizze che non siano distorti da eventuali concentrazioni di mercato
11 In Italia, ad esempio, tra il 1998 e il 2005, ci sono stati circa 300 decreti di stato di evento “eccezionale” che hanno autorizzato l’erogazione di pagamenti compensativi. Negli Stati Uniti gli anni in cui cadevano le elezioni presidenziali sono stati anche quelli caratterizzati da maggiori stanziamenti ad hoc.
19
dal lato dell’offerta, e di poter sostenere livelli di efficienza della spesa pubblica molto
inferiori di quelli che vengono richiesti in Europa.
L’espansione del modello di intervento basato sul sussidio alle assicurazioni di
ispirazione nordamericana ha avuto comunque delle conseguenze che rendono più
difficile la eventuale modifica del tipo di intervento pubblico nel settore. In altri paesi,
Italia in primis e più di altri12, da un lato si è diffusa una percezione comune, a nostro
avviso distorta, della potenzialità delle assicurazioni da parte degli agricoltori,
generando una sorta di “illusione da sussidio”; da un versante diverso, si è tolta
l’attenzione dalle possibilità offerte da altri strumenti di gestione del rischio, per cui il
mercato del rischio agricolo è in parte sfuggito all’attenzione degli operatori finanziari.
La principale giustificazione addotta dai sostenitori del sostegno pubblico
all’assicurazione resta quella per cui questo strumento dovrebbe essere uno alternativo
alla compensazione ex-post, e che garantirebbe, a parità di spesa pubblica, una
maggiore efficienza, data la possibilità di poter condividere con le società assicuratrici
parte delle perdite finanziarie necessarie alla compensazione dei danni materiali occorsi
agli agricoltori. Il costo dell’intervento istituzionale necessario a “spingere” la domanda
di assicurazioni con sussidi ai premi delle polizze sarebbe stato, nelle intenzioni, più che
compensato dal risparmio negli interventi ad hoc per il settore. Alla luce dell’esperienza
storica, tuttavia, la giustificazione sembra non reggere. Innanzitutto, tanto negli Stati
Uniti che in Europa, il costo del sostegno alle assicurazioni ha raggiunto livelli elevati
quando, al sussidio ai premi, si è presto dovuta aggiungere anche la presenza dello Stato
nella riassicurazione delle perdite delle compagnie. Venendo meno la possibilità di
reperire sul mercato capacità riassicurativa per le polizze agricole agevolate, le
compagnie hanno trasferito allo Stato l’eccesso di rischio (anche in questo, il modello
statunitense sembra aver fatto scuola). In tal modo però, anziché essere le compagnie
assicurative a sostenere parte dell’onere del sistema, sembra essere lo Stato che oltre
agli agricoltori, supporta anche il settore assicurativo privato, ma con fondi che
comunque vengono ascritti al bilancio di spesa di competenza agricola! 12 Più specificatamente, l’intervento pubblico per la gestione del rischio e delle crisi in agricoltura nasce
in Italia nel 1970 con la L. n. 364, che istituiva il Fondo di Solidarietà Nazionale (FSN). Inizialmente, il FSN nasceva con due intenti: in primo luogo, compensare gli agricoltori che vedevano gravemente danneggiata la propria capacità reddituale per danni alle colture imputabili ad eventi atmosferici indesiderati ovvero, per ragioni al di fuori del controllo gestionale dell’impresa. Dall’altro lato, ulteriore obiettivo del FSN, era quello di sostenere i fondi assicurativi mutualistici, che, invero, storicamente è stata la voce che ha assorbito minori risorse.
20
Ma ciò che è più grave, secondo noi, è che questo impegno pubblico sia avvenuto
senza benefici aggiuntivi per il settore agricolo: come ripetutamente evidenziato nei
tanti studi che hanno analizzato il mercato delle assicurazioni agricole nei vari paesi, il
livello complessivo di partecipazione degli agricoltori al mercato assicurativo non
sembra essere stato positivamente correlato al livello di spesa pubblica. All’aumento del
livello di sussidio ai premi, non si è accompagnata una capillare diffusione delle
assicurazioni. Né tantomeno il bilancio dello Stato sembra aver trovato sollievo da
questo tipo di politica. L’aumento della spesa a sostegno delle assicurazioni si è
accompagnato ad una mancata riduzione, se non addirittura ad un aumento, dei fondi
stanziati a vario titolo per la compensazione dei danni ex-post13 (Glauber, 2004). La
realtà è che si è assistito al sostanziale fallimento di una visione di intervento pubblico
nella gestione del rischio in agricoltura basata sulla contemporanea presenza della
compensazione dei danni ex-post e sul sostegno ai premi delle polizze, fallimento
ratificato dal fatto che, ad esempio, in paesi dove non esiste sostegno pubblico (come ad
esempio in Germania, Regno Unito, Australia o Nuova Zelanda) il livello di diffusione
delle assicurazioni agricole non è inferiore a quello che si osserva in Italia, in cui,
ancora, l’assicurazione riguarda essenzialmente la copertura di poche colture (frutta e
vite) contro la grandine14.
3.3.- Le ragioni di un fallimento
È opportuno chiedersi, a questo punto cosa sia alla base delle difficoltà evidenziate
finora dall’assicurazione tradizionale quale strumento generale per la gestione del
rischio agricolo. Il primo punto da evidenziare è quale sia la “variabile” di interesse da
assicurare. Cioè, cosa si deve assicurare, il rischio di resa o il rischio di reddito?
L’assicurazione tipicamente riguarda il primo, e in un regime di prezzi garantiti i due
rischi praticamente si equivalgono. Ma se i prezzi sono liberi di variare, allora ciò che
conta è il rischio di ricavo, o addirittura, se anche i costi di produzione sono incerti, il 13 Negli Stati Uniti, così come più recentemente in Italia, per evitare il problema della duplicazione della
spesa, si è cercato di condizionare il pagamento di indennizzi al possesso di una qualche forma di assicurazione delle colture; ma se gli agricoltori non credono, come nei fatti non hanno creduto, alla minaccia di non indennizzare gli agricoltori privi di copertura assicurativa e non si assicurano lo stesso, il problema rimane irrisolto.
14 A partire dal 2006 si è registrata una crescita sostanziale, fino al 30% della quota di PLV nazionale, assicurata con polizze multi rischio.
21
rischio di reddito netto. Ciò però implica delle difficoltà per l’assicurazione, dato che le
condizioni per l’assicurabilità di un danno risiedono nella possibilità di caratterizzare il
“profilo” di rischio del potenziale assicurato, e quindi di disporre di dati attendibili sul
reddito storico dello stesso e di contare sulla stazionarietà del processo di generazione
del reddito, entrambi aspetti problematici in Europa e in Italia.
Altra condizione per la stipula di una polizza assicurativa è quella di poter
controllare efficacemente i problemi di asimmetria informativa (selezione avversa,
azzardo morale) (Coble et al, 1997; Just et al, 1999) ovvero, la possibilità di
accertamento e misura del danno, tutte cose particolarmente problematiche quando
l’oggetto dell’assicurazione sia il reddito. Infine, un’ulteriore condizione che rende
efficace l’assicurazione è l’assenza di eventi sistemici, il che rende difficile pensare di
estendere l’assicurazione anche al rischio di prezzo che, per sua natura, è sistemico per i
produttori di un dato prodotto. L’assicurazione delle rese, quindi, al più può
rappresentare una delle componenti di un portafoglio più ampio di attività e strumenti
che l’agricoltore dovrebbe utilizzare per garantirsi un reddito stabile. Inoltre, dal punto
di vista della giustificazione dell’intervento pubblico, ciò che conta è la stabilità dei
consumi delle famiglie agricole, non quella del reddito corrente, il che implica anche il
dover considerare in che modo l’uso dell’assicurazione si integra con l’uso del
risparmio, del credito e, in generale della diversificazione di fonti di reddito (Wright and
Hewitt, 1994). Per tutti questi motivi, la presunta efficienza dell’intervento pubblico
passato e attuale appare non sufficientemente supportata dall’evidenza sia teorica che
empirica. Per poter concludere sulla auspicabilità dell’intervento pubblico in questo
senso, bisognerebbe chiedersi se e in che misura il sussidio al premio può ridurre
l’impatto negativo dei fenomeni di azzardo morale, selezione avversa, rischio sistemico
e pagamenti compensativi sul livello del premio delle polizze. Siamo cioè sicuri che
sussidiare i premi sia il modo meno costoso per il pubblico di supportare gli agricoltori
nella gestione del rischio di reddito? Quali problemi di distribuzione di benefici questo
tipo di intervento implica?
Le risposte a queste domande contribuiscono tutte alla formazione di un giudizio
molto negativo. Primo, il sostegno dei premi delle polizze non è in grado di attenuare o
al limite eliminare l’azzardo morale o la selezione avversa poiché non affronta né
direttamente né indirettamente il problema informativo che ne è alla base, e i costi
22
amministrativi associati per tentare il controllo dei problemi di asimmetria informativa
sono molto alti. Secondo, la possibilità di rischio sistemico impone alti costi di
riassicurazione (Duncan, 2000; Glauber, 2004). In aggiunta, il sussidio al premio,
nascondendo agli agricoltori quale sia il reale costo associato allo strumento, potrebbe
alterarne i comportamenti produttivi, favorendo scelte rischiose quali la messa a coltura
di terreni fragili e potendo in questo senso generarsi anche problematiche di carattere
ambientale e di conflitto con politiche di salvaguardia ambientale.
Un ulteriore aspetto che sembra essere sfuggito quasi totalmente all’analisi
sull’incidenza del sussidio pubblico alle assicurazioni agricole è quello del possibile
legame tra gli effetti di una tale politica e la presenza di possibili concentrazioni di
mercato, e di comportamenti strategici da parte delle compagnie assicurative (Capitanio
and Cafiero, 2006). In virtù di un possibile potere di mercato, le compagnie assicurative
potrebbero effettuare di fatto una discriminazione di prezzo che coinvolgerebbe solo la
domanda caratterizzata da una elevata disponibilità a pagare. Se esiste potere di
mercato, il sussidio potrebbe non determinare una riduzione del costo effettivo della
copertura assicurativa per gli agricoltori, ma tramutarsi in rendita catturata dagli
assicuratori attraverso un più alto valore del premio di mercato.
3.4.- La proposta
Appare chiaro quindi di come ci sia necessità di una nuova visione dell’intervento
pubblico nella gestione del rischio e delle crisi nel settore primario.
Le principali lezioni che si possono trarre dal passato possono essere riassunte
nella mancata comprensione della rilevanza dei fattori di rischio e dei loro potenziali
effetti sul benessere degli agricoltori; tali effetti e, quindi, il valore di possibili politiche
pubbliche che riducono il rischio richiedono che i rischi affrontati dagli agricoltori siano
misurati in termini dei livelli dei consumi delle famiglie agricole e non del reddito
corrente. I consumi dipendono dal livello di reddito permanente atteso dell’intera
famiglia; molti rischi possono essere gestiti efficacemente dagli agricoltori, sia
attraverso la diversificazione delle fonti di reddito, sia attraverso l’uso di meccanismi,
quali il risparmio e il credito, con i quali si possono gestire fluttuazioni di reddito
limitate senza l’esigenza di un sostegno pubblico.
23
All’estremo opposto, quando la prevedibilità degli eventi è così limitata che non è
possibile concepire alcuna azione preventiva, oppure quando i potenziali danni
eccedono le capacità di gestione autonoma da parte dell’agricoltore, non c’è alternativa
alla presenza di una qualche forma di solidarietà pubblica.
Al fine di evitare inefficienze e sprechi di risorse pubbliche, tuttavia, dovrebbe
essere fatta una distinzione non surrettizia tra il normale rischio d’impresa e gli eventi
effettivamente disastrosi. Gli agricoltori dovrebbero conservare la responsabilità
principale della gestione del normale rischio d’impresa, per il quale dovrebbero essere
sempre evitate azioni pubbliche che tendono a sostituirsi alle azioni private.
Nella gestione del sistema di solidarietà pubblica da attivare in caso di “crisi” uno
degli aspetti cruciali resta quello del controllo dell’informazione. La responsabilità di
determinare le condizioni che possono far scattare il trasferimento di risorse pubbliche,
ad esempio, dovrebbero essere delegate ad un’agenzia indipendente dall’autorità
politica; solo i danni alle strutture aziendali che potrebbero compromettere la ripresa
della normale attività produttiva in tempi brevi dovrebbero essere oggetto di
risarcimento diretto. I danni eventuali alla produzione corrente dovrebbero essere
sempre esclusi dal risarcimento diretto, ad evitare la creazione di incentivi distorti. Le
compensazioni potrebbero prendere la forma sia di trasferimenti diretti di reddito, che –
meglio – di partecipazione finanziaria nel pagamento degli interessi su prestiti
specificamente accesi per ricostruire le strutture aziendali danneggiate. Nel medio-lungo
termine, l’azione pubblica dovrebbe essere mirata a sostenere le azioni preventive
private che riducono la portata dei danni causati dalle calamità naturali, per esempio,
fornendo agli agricoltori incentivi per realizzare investimenti in infrastrutture protettive.
Per il normale rischio d’impresa, d’altro canto, l’azione pubblica dovrebbe
limitarsi a favorire il realizzarsi delle condizioni che consentono agli agricoltori di
sviluppare la propria capacità autonoma di gestione del rischio, usando gli strumenti
privati dell’assicurazione, del credito, e dei mercati finanziari. In questo caso,
l’intervento pubblico dovrebbe avere il solo scopo di promuovere l’attività dei mercati
privati e non di sostituirsi ad essi. In tal senso, ancora una volta il ruolo chiave
dell’operatore pubblico potrebbe essere quello di garantire la trasparenza, tempestività
ed affidabilità delle informazioni. In questa direzione, tipologie di intervento pubblico
auspicabili, anzi necessarie, sarebbero quelle di produrre e favorire la diffusione rapida
24
delle informazioni “certificate” sugli eventi atmosferici e sulle rese e sui prezzi. In tal
modo, gli assicuratori potrebbero delineare meglio i profili di rischio degli assicurati; la
stima del danno sarebbe meno soggetta a comportamenti opportunistici degli agenti in
gioco (lo sviluppo di contratti assicurativi indicizzati su parametri atmosferici oggettivi
appare, in tal senso, particolarmente promettente).
Ancora, anziché intervenire direttamente sui rischi, lo Stato potrebbe intervenire
sulle capacità degli agricoltori di affrontarne le conseguenze, promuovendo la
costituzione di fondi mutualistici o di riserve precauzionali, attraverso incentivi diretti e
indiretti quali, ad esempio benefici fiscali e previdenziali.
L’obiettivo ultimo dell’intervento pubblico dovrebbe cioè essere quello di
accrescere il potenziale di autoassicurazione degli agricoltori contro i rischi meno gravi
a livello di azienda, ad esempio sostenendo gli agricoltori nel migliorare la protezione
attiva (reti anti-grandine, irrigazione contro la siccità, ecc.); implementando un sistema
di monitoraggio dei prezzi e delle quantità scambiate sui diversi mercati nazionali, in
modo da poter certificare e fronteggiare velocemente le crisi di mercato; migliorando
l’accesso al credito, che è fondamentale per la gestione di cassa nei momenti di
difficoltà dell’azienda; incentivando la diffusione di strumenti innovativi quali fondi
mutualistici e coperture indicizzate, in cui la presenza pubblica potrebbe essere relegata
utilmente alla garanzia del funzionamento degli strumenti e alla fornitura di
informazioni.
4. IL RUOLO DELL’AMBIENTE ISTITUZIONALE NELLA GESTIONE SOSTENIBILE DELLA
RISORSA TERRA
4.1. - Gestione sostenibile del suolo e ambiente istituzionale
Il tema della gestione sostenibile del suolo, nella duplice funzione di risorsa
naturale e di bene strumentale per l’impresa agraria, è divenuto uno dei principali
capisaldi della Politica Agricola Comunitaria15. Esso fornisce un valido esempio di ciò
che è possibile intendere come "nuova questione" sia per la "politica" che per le
15 Obiettivi di Goteborg.
25
esigenze conoscitive ad essa collegate. Favorire una maggiore sostenibilità d'uso della
risorsa suolo, infatti, richiede una approfondita conoscenza sul ruolo di tutti i fattori che
contribuiscono a determinarla e sul modo in cui l’ambiente istituzionale interagisce con
essi. In questo senso è utile riconoscere, da un lato, la presenza di più livelli istituzionali
in grado di incidere sulla sostenibilità d'uso e, dall'altro lato, la presenza di una path
dependency nel processo di formazione delle istituzioni tale che la valutazione del loro
funzionamento risulta fortemente connessa all'analisi dei processi di cambiamento
intervenuti nel passato (North, 1994).
La rilevanza dell’ambiente politico-istituzionale nel condizionare l’uso sostenibile
delle risorse è ormai ampiamente riconosciuta (Schleyer et al., 2007). Nel corso della
valutazione sui progressi nell’implementazione di Agenda 21 la Commissione per lo
Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (UNCSD) ha ufficialmente definito la
dimensione istituzionale come la quarta dimensione della sostenibilità dello sviluppo
che si affianca alle tre tradizionali dimensioni: economica, sociale ed ambientale
(Spangenberg et al., 2002). L’insieme di regole formali ed informali costituiscono
l’ambiente istituzionale e il sistema di inclusione sociale in cui si realizzano le scelte
che ogni singolo attore compie. Tali regole condizionano sia le scelte di utilizzazione
delle risorse (allocazione) sia la distribuzione dei diritti d’uso tra gli individui ed i
gruppi sociali (diritti di proprietà). In molti casi le regole che maggiormente tendono a
condizionare le scelte d’uso e possesso sono proprio quelle di carattere informale che
derivano da un insieme di valori, credenze ed aspetti culturali insiti nella comunità in
cui sono stati concepiti. Molto spesso l’incapacità di riconoscere l’assetto istituzionale
che effettivamente agisce in un dato ambito provoca l’implementazione di politiche
incompatibili con le regole formali ed informali della società, che pertanto tendono ad
essere inefficaci (Schleyer et al., 2007). In questo caso l'uso sostenibile delle risorse
spesso fallisce proprio a causa della mancanza o dell’inadeguatezza di assetti
istituzionali che invece i “policy-makers” danno, erroneamente, per acquisiti. Questa
problematica è ormai ampiamente documentata da una serie di evidenze empiriche che
sono state prodotte soprattuto nel dibattito sulle risorse collettive (Dovers, 2001; Esty et
al., 2005). In particolare, secondo la definizione di istituzione fornita da Ostrom
26
(1999)16 per analizzare le modalità di formazione (e cambiamento) delle istituzioni è
necessario distinguere tra tre livelli di regole in grado di influenzare le azioni sull’uso
delle risorse (allocazione delle risorse e dei diritti di proprietà): il primo di riferisce alle
regole operative, che influenzano direttamente le decisioni quotidiane prese da coloro
che detengono un diritto d’uso e possesso su quando, come e perché utilizzare le
proprie risorse; il secondo alle regole collettive, che indirettamente influenzano le regole
operative e derivano dall’azione di soggetti collettivi e loro rappresentanti nell’ambito
del processo di definizione delle politiche; l’ultimo alle regole costituzionali che
determinano chi sono i soggetti eleggibili e le regole da utilizzare per realizzare il set di
regole collettive. L’introduzione di una nuova politica, quindi, rappresenta uno dei
principali fattori formali di cambiamento istituzionale17, in grado di influenzare l’uso
sostenibile delle risorse naturali.
4.2. - Una riflessione sull’influenza dei cambiamenti politico-normativi sull’uso sostenibile del suolo in Italia
Il riconoscimento del legame tra ambiente istituzionale e scelte di gestione del
suolo è un tema che ha storicamente caratterizzato la tradizione economico-agraria
italiana18. Basterebbe ricordare i lavori del Medici (1948; 1966) e i numerosi scritti del
Serpieri (1947, 1957, 1969) in cui emerge la profonda consapevolezza, ad esempio, del
legame tra processi proprietari e dinamiche d’uso del suolo. In questi studi è
riconosciuta la complessità “istituzionale” di tali processi, in cui interagiscono regole
informali, norme abitudinarie, leggi statali e diritti “costituzionali”. In questi studi,
evidentemente, non vi è una prospettiva analitica connessa al tema della sostenibilità, in
quanto è una problematica di ricerca emersa molto più di recente nelle trattazioni
economico-agrarie. Tuttavia l’approccio istituzionalista de facto di due tra i più
importanti padri dell’economia agraria italiana può darci la dimensione della rilevanza
16 “una istituzione può essere definita come l’insieme di regole operative che vengono utilizzate per
determinare chi è eleggibile a prendere una decisioni in un dato contesto, quali azioni sono permesse o limitate, quali criteri di aggregazioni potranno essere usati, quali procedure seguire, quali informazioni possono o non possono essere fornite, e quali incentivi/premi devono essere assegnati ai singoli individui in relazione alle loro azioni”.
17 per un approfondimento teorico si vedano “Efficiency Theories of Institutional Change” (Eggertsson, 1990), “Distributional Theory of Institutional Change” (Knight, 1992), e “Public Choice Theory of Institutional Change” (Weimer, 1997).
18 Per una rassegna sul tema si rinvia al testo a cura di Paolo Abbozzo e Gaetano Martino (2004).
27
che il tema degli usi e del possesso della terra ha avuto in Italia ed in particolare della
relazione (ed interrelazione) tra regole d'uso (ambiente istituzionale) e sostenibilità.
Nella breve analisi che qui proponiamo il piano teorico-concettuale si riferisce al ruolo
attribuito da Williamson (2000) all’ambiente istituzionale nel condizionare le scelte
d’uso delle risorse, sia a livello di allocazione (uso) che di distribuzione dei diritti di
proprietà (possesso). Riferendosi alla classificazione tipologica di Ostrom (1999)
l’ambiente istituzionale (regole collettive) analizzato è costituito dai tre principali ambiti
politico-normativi che hanno condizionato la gestione del suolo in Italia: la normativa
europea in tema di agricoltura e, più di recente, di sviluppo rurale; le leggi e norme
nazionali per il settore agricolo (regole collettive settoriali); regole e norme in tema di
assetto territoriale (regole collettive territoriali). La metodologia di indagine utilizzata è
quella che viene definita "narrative literature review", che utilizza i risultati di altre
indagini ed un insieme plurimo di documenti per giungere ad una visione d’insieme più
ampia di quella raggiunta dalle singole analisi e dai singoli documenti utilizzati. Nel
caso specifico si è cercato di valutare il grado di compatibilità delle tre principali regole
collettive riferendosi a due dimensioni principali: la funzione attribuita alla risorsa suolo
ed il tipo di interazione con gli altri sistemi di regole formali. In questo modo è stato
possibile ipotizzare gli effetti prodotti dalle presenza di “incompatibilità istituzionali”
tra questi ambiti normativi in termini di maggiore/minore sostenibilità nella gestione del
suolo. Premettendo che la complessità degli impianti normativi analizzati non si presta
ad una agevole sintesi è possibile tracciare alcune indicazioni generali:
1. Le politiche agricole comunitarie, pur nella loro frammentazione e apparente
discontinuità, sembrano derivare da un disegno strategico meglio definito
rispetto alle politiche di origine nazionale; in esse il tema della gestione del
suolo riflette il progressivo delinearsi di una visione più complessa delle
funzioni della risorsa terra non solo in senso produttivo ma anche sociale,
ambientale, culturale, ecc.19;
2. Le politiche agricole di origine nazionale sono maggiormente orientate a
regolare gli assetti proprietari (diritti di proprietà). In esse la terra è una
risorsa economica (patrimoniale) e la regolazione dei diritti di proprietà uno
strumento di regolazione sociale; 19 Per un approfondimento sulla relazione policy/funzioni del suolo si veda Oltmer, 2003.
28
3. Le norme italiane in tema di gestione del territorio (in particolare in tema di
urbanistica e paesaggio) pur molto variegate per tipo di intervento e scala
territoriale, hanno tentato di regolare gli aspetti conflittuali tra natura privata
della proprietà delle singole parcelle di terra e natura pubblica dell’insieme
dei caratteri che costituiscono beni collettivi come il paesaggio, gli
ecosistemi, i bacini idrografici, ecc.;
Queste considerazioni derivano dai risultati ottenuti dall'analisi condotta sulle
principali “tappe normative” del processo di definizione delle politiche nei tre ambiti
prescelti. Per quanto attiene alle politiche comunitarie possiamo distinguere tre fasi
principali: la fase in cui la politica agricola comune è nata ed è stata avviata (1957-
1968) in cui, già a partire dal Trattato di Roma, il tema della gestione del suolo è
marginale e sostanzialmente connesso alla definizione delle politiche per le strutture
agricole (Reg. CEE/17/64) in una visione sostanzialmente produttivistica e solo
parzialmente sociale della terra, legata, per lo più, all’obiettivo del riordino fondiario.
La seconda fase è quella caratterizzata dai primi tentativi di riforma ed abbraccia il
ventennio dal 1968 (anno del II Piano Mansholt) al 1988 (anno di pubblicazione del
"Futuro del mondo rurale"). Questo periodo sembra caratterizzato da un sostanziale
“avanzamento” della visione comunitaria della terra da risorsa produttiva a bene dalle
funzioni multiple tra cui emerge con maggiore forza quella ecologico-ambientale20.
Esso appare come un periodo caratterizzato da “riflessioni” politiche piuttosto che da
azioni normative incidenti sul piano operativo. E’ solo con la riforma Mac Sherry e
l’introduzione delle misure di accompagnamento che inizia a prendere corpo la fase di
riforme effettive che ha caratterizzato l’inizio degli anni novanta ed è continuata,
attraverso Agenda 2000, sino alle riforme politiche più recenti (riforma Fishler e nuovo
regolamento per lo sviluppo rurale21). Questa fase vede la traduzione dei numerosi
documenti di riflessione in atti normativi effettivi che hanno introdotto un sostanziale
cambiamento dell’assetto istituzionale sulla gestione del suolo nei paesi membri
dell’Unione, facendo emergere la centralità del concetto di sostenibilità che si è
sostanziata nel riconoscimento delle funzioni multiple della terra.
20 si veda a tal proposito il Documento di riflessione della Commissione del 1985 "Prospettive della
politica agraria comune" (noto come Libro Verde) e la nota di De Filippis, Fugaro, 2004. 21 La riforma Fischler ha introdotto il principio della condizionalità, che la nuova programmazione per lo
sviluppo rurale ha recepito come baseline di riferimento per la concessione di ogni tipologia di aiuto (premio, indennità o sostegno agli investimenti).
29
Il percorso normativo nazionale è invece caratterizzato da una sostanziale
focalizzazione sulle regole proprietarie in cui le tappe più significative sembrano quelle
incentrate sull’azione di riordino fondiario e sulla regolazione della conduzione
dell’azienda agraria. L'analisi è stata concentrata, pertanto, sul periodo ritenuto più
rilevante in questo senso, dai primi anni del secondo dopoguerra agli inizi degli anni
'80. In particolare, sino alla prima metà degli anni sessanta (dalla Legge Stralcio del
1950 ai Piani Verdi del 1961 e del 1966) le politiche agricole nazionali maggiormente
connesse al tema della gestione della terra sono quelle della riforma fondiaria. Con
questo termine è possibile abbracciare un gran numero di atti legislativi, con effetti in
differenti aree del paese, orientati a regolare i diritti di proprietà della terra tra classi
sociali a favore della creazione delle proprietà diretto-coltivatrici22 (Minoia, 2007).
Anche le azioni normative successive sono per lo più ascrivibili alla sfera della
regolazione dei rapporti proprietari nelle campagne, attraverso regole sull’affitto e sulla
conduzione (contratti agrari)23. L’insieme di queste norme ha costituito un ambiente
istituzionale nel quale la funzione prevalente della terra è stata primariamente quella
sociale (regolatrice dei rapporti tra differenti classi sociali) e accessoriamente
economica (Grillenzoni, 1982).
Nonostante le intenzioni, si è trattato di un sostanziale "fallimento istituzionale"
che, pur originato dalle regole proprietarie, ha avuto conseguenze molto rilevanti anche
in termini di gestione sostenibile del suolo. Il fenomeno dell'abbandono di numerosi
terreni collinari e montani, ad esempio, è stato accentuato anche dalla crisi della
mezzadria a cui non si è saputo contrapporre un modello contrattuale in grado di rendere
efficiente l'organizzazione dell'impresa ed economicamente sostenibile l’uso dei suoli
meno dotati dal punto di vista pedologico (Di Cocco, 1978). Gli effetti dell'abbandono
sono stati rilevanti in termini di perdita di fertilità, erosione e gestione delle acque,
soprattutto nelle aree della collina appenninica24 (Medici, 1978). In pianura, al
contrario, la debolezza strutturale delle imprese agricole e la paralisi dei fenomeni di
22 In tema di riforma fondiaria in Italia si veda Pampaloni (1976) e Grillenzoni (1982). 23 Negli anni sessanta si sviluppano una serie di interventi per la regolazione dei contratti agrari (colonia e
mezzadria), mentre tra il 1971ed il 1973 viene approvata la legge 11/71 e la legge 814/73 sul riordino della disciplina degli affitti. All'inizio degli anni ottanta fu emanata la legge n° 203/1982, che ha stabilito la conversione in affitto di tutti i contratti associativi (mezzadria, colonia parziaria e soccida). Alla fine degli anni ’70 era stata emanata la legge 440/78 sul recupero delle terre marginali.
24 Per una trattazione più completa degli effetti dell'abbandono nelle colline appenniniche si rinvia al saggio di Medici, 1978.
30
aggiustamento hanno contribuito ad accentuare la progressiva trasformazione degli usi
dei suoli da agricoli ad urbani.
A queste debolezze, tutte interne all'ambito istituzionale "agricolo", si sono
aggiunti gli effetti delle regole collettive in tema di gestione e pianificazione del
territorio che hanno accentuato questo processo, rivelandosi del tutto inefficaci per la
difesa e la conservazione dei suoli più fertili in diverse aree del paese. Anche per le
norme di governo territoriale gli anni di maggiore "criticità" sono quelli tra la fine degli
anni sessanta e l'inizio degli anni ottanta, quando le regole collettive hanno dovuto
affrontare gli effetti della crescita economica e dei conseguenti cambiamenti politici,
sociali e demografici verificatisi in Italia25. La legislazione italiana in materia di
pianificazione urbanistica ha individuato nei comuni il livello territoriale più rilevante.
Questo è riscontrabile sia nella legge fondamentale del 194226, che ha istituito i
principali strumenti normativi in materia di governo del territorio, che nelle principali
azioni legislative ad essa successive, come, ad esempio, la legge 10 del 1977 in materia
di edificabilità dei suoli, che di fatto trasferiva alle amministrazioni locali (in particolare
ai comuni) il potere decisionale sul diritto di edificare.
Di fatto, anche in questo ambito normativo, si è assistito ad un vero e proprio
"fallimento istituzionale" e le norme urbanistiche da regole collettive di gestione
(sostenibile) della risorsa suolo, si sono trasformate in regole per la gestione (più o
meno formale) dell'edificazione (Rocella, 1994). In assenza di una visione strategica
sull'uso dei suoli, infatti, la trasformazione urbana è stata "regolata" dai processi di
interazione tra istituzioni formali ed istituzioni informali a livello locale. Questo ha
significato la rottura degli equilibri sull'uso della risorsa suolo nelle pianure e in molte
delle colline italiane, in cui, progressivamente, gli usi edificatori hanno prevalso su
quelli agricoli. E' evidente che un combinato istituzionale di questo tipo ha reso
inefficienti molte delle politiche a favore della centralità dell'agricoltura come elemento
equilibratore nell'uso delle risorse (e del territorio) vanificando, in molti casi, ogni altra
politica, nazionale o comunitaria, a favore della gestione sostenibile della risorsa terra.
Il ruolo fondamentale della pianificazione territoriale per la gestione della terra (come
25 Un esempio è la vicenda della mai approvata proposta di legge avanzata dal ministro Sullo all'inizio
degli anni sessanta, che, di fatto, rappresenta un caso rilevante del "difficile" rapporto tra ambito politico-normativo e società italiana riguardo all’uso del suolo e alla gestione del territorio.
26 L. n. 1150/42
31
risorsa pubblica in questo caso) era stato segnalato dagli stessi economisti agrari,
proprio per le evidenti interconnessioni tra questo piano normativo e le politiche
settoriali. L'individuazione del livello comunale come perno della regolazione degli usi
edificatori ha di fatto prodotto una spinta propulsiva all'urbanizzazione soprattutto delle
terre di pianura a tutto svantaggio delle politiche attuate per la protezione delle unità
produttive agricole e dell'uso agricolo dei suoli27.
Complessivamente il quadro che l'analisi delle principali "tappe politico-
normative" ci consegna è di una frammentazione dell'ambiente istituzionale relativo alle
regole d'uso e possesso del suolo che, in alcune fasi, sembra aver prodotto effetti
alquanto contradditori. Se da un lato il quadro normativo comunitario ha
progressivamente delineato una maggiore attenzione verso regole collettive orientate
alla sostenibilità d'uso e possesso del suolo in agricoltura, imponendo in alcuni casi
regimi gestionali estranei alle tradizioni e consuetudini italiane, dall'altro lato un
insieme di regole di origine nazionale sembrerebbe aver agito in opposizione a tale
processo. In particolare la maggiore enfasi posta sul ruolo sociale della distribuzione
della proprietà della terra nella società italiana, da un lato, e l'assenza di una visione
strategica sul ruolo del settore agricolo nei processi di sviluppo e governo del territorio,
dall'altro, hanno determinato la nascita di un ambiente istituzionale inadeguato a
sostenere processi di riequilibrio negli usi della risorsa, sia privati che pubblici,
soprattutto negli anni di maggiore "criticità".
Gli effetti di questo "fallimento istituzionale" sono evidenti ancora oggi e
richiedono una attenta riflessione sul modo con cui analizzarli ed affrontarli. La lettura
del “caso italiano”, infatti, suggerisce la necessità di guardare alla “compatibilità
istituzionale” come ad un momento specifico dei processi di costruzione e valutazione
delle politiche per la gestione sostenibile delle risorse naturali. Questo richiede
l’individuazione di un insieme di momenti informativi e conoscitivi del tutto nuovi in
grado di supportare tali processi sia ex-ante che nelle fasi di monitoraggio ed ex-post.
Ad oggi non è stato ancora formalizzato un procedimento tecnico-scientifico in grado di
supportare il decisore pubblico nel valutare gli effetti prodotti da un mutamento
dell’ambiente istituzionale dovuto, ad esempio, all’introduzione di una nuova norma in
materia di gestione delle risorse naturali. Questo richiederebbe, in primo luogo, il
27 Per una analisi tra normativa urbanistica e usi dei suoli nelle pianure si veda Rocella, (1994)
32
riconoscimento e la “classificazione” delle tipologie di norme informali che agiscono a
livello locale su tali usi; in secondo luogo l’identificazione del tipo di modifiche che la
“nuova norma” determina ed, infine, il grado di interazione (e quindi di
minore/maggiore compatibilità) tra norme informali e norme formali. Questa
valutazione potrebbe assumere la connotazione di una vera e propria procedura, come è
già nel caso delle Valutazioni di Impatto Ambientale o Strategico per i progetti di
urbanistica ed infrastrutturazione, dove la valutazione di impatto potrebbe concernere
proprio gli effetti dovuti alla nuova norma sulle regole di gestione delle risorse già
presenti, in termini di miglioramento/peggioramento della sostenibilità d’uso.
E’ evidente che tale “Valutazione di Compatibilità Istituzionale” potrebbe essere
un procedimento applicabile non solo alle politiche concernenti la gestione delle risorse
naturali o all’ambito della “politica agraria” bensì a tutti i momenti normativi in cui il
tema della sostenibilità può rappresentare un obiettivo diretto dell’intervento pubblico.
5. I RECENTI SVILUPPI DEI SERVIZI AMBIENTALI DELL’AGRICOLTURA
L’Unione Europea, così come la stragrande maggioranza dei governi, recepisce le
istanze ambientali attraverso diversi strumenti di politica. Un passaggio che a nostro
avviso ben riassume l’attuale posizione dell’UE in merito alle questioni ambientali è
contenuto nella relazione conclusiva della presidenza del Consiglio europeo28 del 15-16
Giugno 2001:
“…che la politica agricola comune e il suo sviluppo futuro contribuiscano, tra gli obiettivi, a realizzare uno sviluppo sostenibile ponendo maggiore enfasi sulla promozione di prodotti sani e di qualità elevata, di metodi produttivi sostenibili dal punto di vista ambientale, incluse produzione biologica, materie prime rinnovabili e la tutela della biodiversità…”
L’enfasi viene posta in parte a strumenti che assicurino produzioni agricole di
qualità e salubri e, in altra parte, a obiettivi di sostenibilità ambientale e protezione della
biodiversità. Questi due ultimi aspetti riportano l’attenzione nuovamente ai servizi
ambientali dell’agricoltura. Diciamo subito che in questa sede non intendiamo
28 Pur essendo del Giugno 2001, l’affermazione riportata è divenuta parte integrante delle linee guida
strategiche della Comunità per la programmazione 2007-2013 (Community strategic guidelines for rural development - programming period 2007 to 2013; 2006/144/EC)
33
affrontare il tema complessivo delle problematiche ambientali legate in qualche modo al
mondo agricolo. L’obiettivo è, invece, quello di porre l’accento su due questioni rispetto
alle quali sembra ci sia un ritardo di conoscenza rispetto alle altre tralasciando alcuni
temi che, seppur altrettanto rilevanti, sono ampiamente dibattuti in letteratura. Il
tentativo sarà, quindi, di evitare una trattazione criptica pur coscienti del fatto di non
poter essere completamente esaustivi. I servizi ambientali, o comunque operanti sugli
ecosistemi che, a nostro avviso, meritano una maggiore attenzione, se non altro per il
fatto di essere stati recentemente messi al centro del dibattito scientifico e politico, ma
rispetto ai quali l’esigenza di conoscenza e di dati è ancora carente, sono gli aspetti
definiti come benefici immateriali, in particolar modo il paesaggio e la tutela della
biodiversità. Conviene, prima di trattare nel dettaglio i due argomenti selezionati, fare
una osservazione generale. Sia il paesaggio che la biodiversità, per la loro natura
intrinseca, sono condizionati da una vasta gamma di attività antropiche e naturali. Non
si può, quindi, parlare di una incidenza esclusiva del settore agricolo su nessuno dei due
aspetti dell’ambiente. Il paesaggio ha subito, e continua a subire, continue evoluzioni
dettate sia da esigenze antropiche che da eventi naturali a loro volta condizionati a vario
titolo dall’operato dell’uomo. A ogni mutazione dell’ambiente naturale, quindi non solo
del paesaggio, corrisponde in varia misura una modificazione degli ecosistemi con una
incidenza più o meno massiccia sulla biodiversità. Nella trattazione specifica che segue
verranno, tuttavia, messi in risalto i legami e i rapporti di causalità tra il settore agricolo
e gli aspetti ambientali in questione in quanto si ritiene che, seppure in un contesto più
ampio, l’agricoltura possa e debba svolgere un ruolo di primo piano nella tutela e nella
salvaguardia sia del paesaggio che della biodiversità. Molti dei paesaggi che
identificano inequivocabilmente un territorio sono a forte caratterizzazione rurale.
Mutare un paesaggio ricco di attributi materiali e immateriali, con i relativi ecosistemi,
comporta una variazione di valore per la collettività difficile da stimare ma sicuramente
non trascurabile. Da qui l’esigenza di non tralasciare il ruolo dell’agricoltura che,
seppure non unico nel condizionare paesaggio e ambiente, è un settore che riveste una
rilevanza chiave. Per quanto riguarda nello specifico il paesaggio, vanno sottolineati
alcuni aspetti che rendono questo aspetto peculiare. Innanzitutto il carattere di bene
pubblico. In quanto tale risulta meno ovvio, rispetto a beni privati o comunque per
quelli regolati dal mercato, chi sono gli offerenti del servizio, chi i beneficiari e quali gli
34
“acquirenti”. Per quest’ultima categoria, inoltre, si verrebbero ad instaurare inevitabili
condizioni di free riders a motivo della non identificabilità di un sistema di accesso al
bene controllato o controllabile. È essenziale comprendere il ruolo dell’agricoltura nella
composizione e creazione del paesaggio. Proprio su quest’ultimo aspetto, al fine di
delineare ulteriormente il problema, alla definizione classica di paesaggio rurale, inteso
come quei legami delle strutture più profonde dell’attività agricola con la forma dei
territori (Torquati, 2007) si va via via sostituendo il concetto di componente agraria del
paesaggio che non può essere concepibile fuori dell’insieme dei fattori cui la
costruzione e la forma del territorio sono riconducibili. Quest’ultima definizione è in
linea con la normativa che regola, almeno in Italia, l’uso e il mantenimento del
paesaggio. Riprendendo la legge 1497 del 1939 e la legge “Galasso" del 1985, il d.lgs
42/2004, successivamente modificato e integrato con il d.lgs 156/2006 in vigore dal
2007, obbliga le Regioni a identificare i paesaggi regionali, tra cui quelli rurali a forte
carattere identitario; a confrontare le dinamiche di mutamento negli anni; a valutare i
paesaggi (valore attribuito loro dalle popolazioni); e a definire gli obiettivi di qualità
paesaggistica. Infine, riconoscendo che non tutto il paesaggio di una Regione identifica
i territori della stessa, per quelli non identitari si stabilisce un obbligo generale al
mantenimento secondo criteri di non deterioramento e, comunque, di “gradevolezza
estetica”. Il supporto legislativo, quindi, identifica le linee guida da seguire. Rimane,
tuttavia, da comprendere come dar seguito alle indicazioni appena citate, il ruolo che gli
economisti agrari possono svolgere in tale contesto e l’esigenza di informazioni
necessarie per svolgere un efficiente ed efficace lavoro di valutazione. Se il paesaggio
rurale è una esternalità positiva il cui valore non viene riflesso nel mercato, allora il
mercato fallisce, giustificando un intervento pubblico. Inoltre, mentre il paesaggio è un
bene pubblico, il controllo della risorsa che lo caratterizza, come ad esempio un campo
coltivato, può essere privato. Entrambi questi aspetti sembrerebbero giustificare un
pagamento, a carattere pubblico, per il servizio ambientale fornito dal privato. Rimane,
però, il problema di come identificare e monitorare un paesaggio. Premesso che
l’approccio conoscitivo e di gestione del paesaggio non può che essere
multidisciplinare, alla funzione percettiva (naturale e culturale) del paesaggio va
associata quella legata all’ambiente produttivo e alla sostenibilità economica del suo
mantenimento. In tale contesto, verrebbe da pensare a strumenti di valutazione che
35
indaghino la disponibilità a pagare o che stimino il valore economico totale come, ad
esempio, la valutazione contingente (Idda et al., 2006). Il tal caso, però, a parte il
carattere troppo localistico o troppo generale delle stime e la onerosità degli studi, è
nostra opinione che un’analisi in cui si confrontano costi e benefici quando si parla di
un bene pubblico quale l’ambiente e il paesaggio potrebbe risultare non idoneo. Ciò non
perché tale metodo non sia applicabile di per se al caso di un bene pubblico, ma per la
mancanza, nel caso specifico, di criteri soddisfacenti per la valutazione di tali costi e
benefici da un punto di vista sociale in senso proprio. Infatti, mentre la stima dei costi,
almeno di quelli diretti, potrebbe risultare relativamente agevole, la completa
identificazione e il relativo computo dei benefici “sociali” risulta essere impresa ardua.
In questo contesto, allora, necessitano politiche di tutela di tutti i territori per i quali
sarebbe opportuno monitorare le modifiche. Uno strumento che risulta efficiente dal
punto di vista dei costi ed efficace dal punto di vista tecnico è l’uso dei GIS e degli
indici di valutazione della qualità paesaggistica (Cembalo et al., 2006). Essenziale, però,
è il contributo degli economisti agrari al fine di elaborare indici sintetici, ma esaustivi,
del grado di ruralità, e degli aspetti socio-economici del tessuto imprenditoriale e
sociale costituente la componente agraria del paesaggio. Anche il tema della
biodiversità ricopre un ruolo peculiare all’interno del vasto intreccio dei rapporti
esistenti fra l’attività agricola ed i servizi ambientali ad essa imputati. Trattare della
tutela della biodiversità diventa in questo ambito stimolante, sia perché ormai questo
termine ha assunto un significato corrente onnicomprensivo includendo il concetto
stesso della conservazione dell’ambiente, sia perché quando si affronta genericamente la
questione “biodiversità” si evidenziano palesemente tutte le difficoltà del complesso
dialogo fra ricerca scientifica e decisore pubblico, a cui si debbono fornire gli strumenti
per l’analisi ex-ante di un fenomeno e per la valutazione ex-post delle politiche. A
questo proposito sembra opportuno fare riferimento alla recente analisi delle strategie
per la gestione e tutela della biodiversità svolta da Gios (2007) ed al suo invito rivolto
agli economisti agrari a svolgere il ruolo di guida nella comprensione delle diverse
interazioni ed effetti dell’attività antropica sulle risorse naturali. Da economisti
ambientali ed agrari affrontare in termini di ottima allocazione delle risorse, o attraverso
un’analisi costi benefici la gestione di una risorsa complessa quale la biodiversità, con i
suoi attributi di bene pubblico, rappresenterebbe comunque, anche in questo caso, poco
36
più di un esercizio di stile non solo perché le motivazioni etiche alla base della necessità
della sua tutela (Ehrlich et al., 1991) renderebbero politicamente sterili valutazioni di
tipo monetario, ma anche perché risulterebbe altrettanto velleitario “con significativo
dispendio di tempo, talento e denaro” arrivare ad una stima puntuale del valore
economico dell’insieme dei benefici diretti ad essa associata (Pardey et al., 2001).
Velleitario anche nel caso si volesse applicare, ad esempio, il paradigma del VET29 per
definire un valore economico alla biodiversità, ciò di cui si ritrovano frequenti tentativi
in letteratura (Smale e Koo, 2003), (Gios, 2007) proprio per la caratteristica
intertemporale, multidimensionale della risorsa, caratterizzata per larga parte da un
valore d’opzione difficilmente quantificabile. Nonostante queste difficoltà è comunque
sorta recentemente la necessità di valutare con rigore le politiche di tutela della
biodiversità, in termini di efficienza economica ed efficacia dell’intervento. Con la
convenzione di Johannesburg, ed il successivo impegno assunto dall’UE con la
comunità internazionale di arrestare il tasso di perdita di Biodiversità entro il 2010
fissando obiettivi concreti se pure difficilmente valutabili (target 2010) si è infatti
presentata all’improvviso la necessità di dotarsi di sistemi di monitoraggio e di analisi
del problema a supporto di strumenti che venissero progettati esplicitamente a garanzia
della tutela della biodiversità e per dotarsi di sistemi di valutazione ex- post di controllo
(Balmford et al., 2005). La Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB), adottata
durante la conferenza di Rio del 1992, di fatto,vincolava solo in maniera generica gli
Stati firmatari ad attuare misure finalizzate alla conservazione della biodiversità in-situ
(attraverso l’attività agricola o nei loro habitat naturali) ed ex-situ (nelle banche del
germoplasma). Come noto, mentre la conservazione ex-situ permette di creare delle
librerie genetiche a disposizione della ricerca e delle generazioni future garantendo la
stabilità genetica della varietà, la conservazione in situ richiede la tutela dell’ambiente
naturale per garantire la sopravvivenza della specie e la sua continua evoluzione in
risposta alle pressioni biologiche. Le due forme di tutela della biodiversità rispondono
ad obiettivi diversi: la prima mira alla conservazione ed utilizzazione delle risorse
genetiche intese come base primaria dell’innovazione tecnologica in agricoltura, mentre
la seconda include motivazioni etiche ed estetiche di protezione del paesaggio e
dell’ambiente. È facile capire che in tutti i casi, per un corretto programma di
29 Valore Economico Totale
37
conservazione, l’una è imprescindibile dall’altra. Le istituzioni europee nel ratificare la
CDB nel concreto si limitarono però più ad enunciare sulla carta principi ed
orientamenti di politica, che ad affrontare il tema in maniera sistematica, includendo
poche norme e misure accessorie per lo più all’interno dei regolamenti già strutturati
alla politica agricola comunitaria (Kleijn e Sutherland, 2003); alcuni schemi agro-
ambientali nelle misure di sviluppo rurale ed interventi di cross-compliance, il sostegno
diretto a coltivare alcune varietà a rischio d’erosione genetica, o l’istituzione volontaria
o obbligatoria del set-aside, limitando gli strumenti di intervento per la biodiversità ad
un auspicabile esternalità positiva dell’attività agricola. Come riportato in modo
puntuale da Gios (2007) e dal recente piano nazionale sulla biodiversità di interesse
agricolo (Mipaf, 2008), le poche norme esplicitamente in atto per la tutela della
biodiversità si riducono, infatti, unicamente ad iniziative destinate all’incremento e
razionalizzazione delle attività di raccolta e preservazione delle risorse vegetali ex-situ,
o all’istituzione delle aree protette dalla rete Natura 2000. La perdurante carenza di dati
a livello territoriale ha, infatti, contribuito ad alimentare una scarsità di informazione a
livello pubblico con l’evidente risultato di generare all’atto pratico strumenti, se non di
scarsa efficacia ed efficienza, sicuramente difficilmente valutabili (Oñate et al. 2000;
Trisorio, 2008). Dalla lettura dei recenti studi è apparso, infatti, evidente come questi
manchino complessivamente di un approccio di tipo quantitativo al problema essendo,
molti di essi, privi di qualsivoglia analisi di tipo statistico (Flynn et al., 2002);
l’impossibilità di ricorrere a strumenti di stima robusti sembra esser comunque dovuta
anche alla completa assenza di informazioni affidabili e di dati pre-trattamento utili alla
valutazione degli effetti ex-post e, quando presenti, risultano essere più indici costruiti
ad hoc, riadattando dati raccolti per altri tipi di analisi, che propriamente studiati per lo
studio oggetto della ricerca (Balmford et al. 2005). Anche i risultati empirici degli
effetti delle politiche attuate per la tutela della diversità genetica, seppure focalizzati su
micro nicchie ecologiche, considerando come indicatori solo la diversità genetica di
alcune specie (in genere artropodi o uccelli) risultano essere spesso contrastanti (Kleijn
et al., 2003). Infine, proprio per l’approccio ecologico-ambientale che contraddistingue i
lavori analizzati, questi mancano completamente di un approccio economico agrario,
ovvero, manca anche il più timido tentativo di valutare gli effetti di politiche agrarie
almeno su un piano di efficienza economica (Boggia et al., 2002). Conseguentemente,
38
l’impossibilità di validare scientificamente ed economicamente gli effetti delle misure
agro-ambientali potrebbe quanto meno far sorgere alcuni dubbi sulla credibilità della
relazione virtuosa comunemente presunta fra un certo tipo d’agricoltura eco-
compatibile, ed una effettiva ed economicamente efficiente conservazione
dell’ecosistema. Se valutare gli effetti delle politiche di conservazione in-situ resta,
allora, un’ambizione al momento30 resa impraticabile dall’assenza delle basi
informative e dalla complessità dei meccanismi ancora ignoti con cui le diverse attività
dell’uomo incidono sul destino delle altre specie del pianeta, anche nella tutela ex-situ
l’informazione gioca un ruolo essenziale perché, da semplice conservazione della
risorsa genetica, si possa giungere ad una sua gestione ed utilizzazione efficace.
Sembrerebbe che l’obiettivo implicito alla base della costituzione delle prime collezioni
nelle banche del seme sia stata la conservazione piuttosto che una gestione razionale
della risorsa che favorisse la sua utilizzazione nel campo della ricerca. Si dispone
tutt’oggi, infatti, solo di stime approssimative sull’ammontare delle specie e varietà
protette ex-situ nel mondo. Carenze gestionali, dimensioni ridotte ed assenza di
collaborazione e scambio di informazioni anche fra le stesse banche del seme Europee
hanno, di fatto, favorito il proliferare di ridondanze di materiale genetico superfluo per
duplicazioni inter ed intra collezioni. L’impellente necessità di soddisfare le esigenze
conoscitive alla base della comprensione del fenomeno e per l’intervento pubblico è
stata riconosciuta, seppur in ritardo rispetto alla velocità con cui si sono fissati i
“target”, dall’ultimo piano d’azione Europeo sulla biodiversità, dove si invita a
“rafforzare la base di conoscenze” sul fenomeno, investendo in dati e ricerca, invitando
la comunità scientifica ad esprimersi ed informare repentinamente la classe politica. Il
ruolo dell’economista agrario, quindi, diventa essenziale per un duplice aspetto. Il
primo è inerente al contributo sull’ottima allocazione di risorse finanziarie destinate alla
conservazione della biodiversità e all’opportunità di definire un piano articolato e
complessivo in cui vengano identificate le efficienti e razionali proporzioni tra la
conservazione ex-situ ed in-situ, evidenziandone i problemi conoscitivi e di governance.
Il secondo riguarda, invece, la messa a punto di strumenti di politica economico-agraria
che siano destinati specificamente alla tutela della biodiversità in-situ. In altre parole,
30 Solo recentemente sono state definite a livello comunitario alcune linee guida per l’istituzioni di indici
per la valutazione della variazione di biodiversità almeno per le aree agricole ad alto valore naturale (IIEP, 2007).
39
una volta identificata l’ottima proporzione tra conservazione in-situ ed ex-situ, è
necessario pensare ad una serie di interventi e studi che, da un lato, indaghino come
monitorare la biodiversità e, dall’altro, identifichino degli strumenti di intervento
pubblico mirati i cui risultati, è necessario, che siano quantificabili. Ultimo aspetto,
certamente non in ordine di importanza, è la questione inerente l’accessibilità delle
risorse biologiche che è trasversale ai due metodi di conservazione. Allo stato attuale
risulta non sufficientemente chiaro quali agenzie detengono il germoplasma e quali i
possibili accessi. Tale aspetto, quasi del tutto trascurato nella letteratura economico-
agraria italiana, si ritiene debba essere un’altra area di sviluppo della conoscenza e della
ricerca.
6. POLITICHE DI SVILUPPO RURALE NELLE REGIONI ITALIANE OBIETTIVO
CONVERGENZA TRA REALTÀ E POTENZIALITÀ
6.1.- Alcuni aspetti introduttivi
Le politiche per lo sviluppo rurale (SR) sono andate assumendo un’importanza
crescente nell’agenda politica europea quale riflesso dei cambiamenti intervenuti nel
modo di intendere il sostegno all’agricoltura. Su di esse, parte integrante della politica
di coesione economica e sociale europea, sempre più politica di sviluppo regionale, si
pone forse un’enfasi eccessiva rispetto alle reali intenzioni di intervento. Scopo di
questo contributo, pertanto, è presentare alcune riflessioni sulle politiche di SR
riferendosi, in modo particolare, alla programmazione 2007-2013 delle regioni italiane
obiettivo convergenza31. Queste dovrebbero, difatti, essere destinatarie privilegiate di
tali politiche, data l’importanza che ancora vi rivestono sia le aree rurali con problemi di
sviluppo che quelle svantaggiate. Il richiamo alla “realtà” nel titolo è, perciò, riferito
alle politiche di SR previste dai Programmi di Sviluppo Rurale (PSR)32, eventualmente
31 All’obiettivo convergenza sono ammissibili Paesi membri o regioni in ritardo di sviluppo (con un PIL
pro capite inferiore al 75% della media comunitaria). In Italia vi rientrano Calabria, Campania, Puglia, Sicilia mentre la Basilicata è regione phasing out (PIL pro capite inferiore al 75% del PIL pro capite medio dell’UE a 15 ma superiore di quello medio dell’UE a 27).
32 Con il periodo di programmazione 2007-13 lo sviluppo rurale è finanziato dal Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR).
40
integrate dai Programmi Operativi Regionali (POR) a valere sul Fondo Europeo per lo
Sviluppo Regionale (FESR). Quello alla “potenzialità” è legato, invece, alla
identificazione delle eventuali possibilità di cambiamento.
Rimandando a più specifici contributi sulle metodologie di identificazione delle
“aree rurali” (ad esempio Esposti e Sotte, 2001), è opportuno, richiamarne qui le
caratteristiche principali. Sul piano sociale: bassa o bassissima densità demografica;
povertà diffusa; accessibilità limitata ed, in generale, scarsità di servizi essenziali.
Elementi questi che ne favoriscono il progressivo spopolamento e l’invecchiamento
della popolazione, segni evidenti di fragilità del tessuto socio-economico che non manca
di avere ripercussioni negative sull’equilibrio ambientale del territorio. Sul piano più
strettamente economico, il peso ancora significativo del settore agricolo, sia in termini
di reddito che di occupazione. Il che richiede che si chiariscano subito quali siano le
caratteristiche distintive dello sviluppo rurale rispetto a quello agricolo. Come si precisa
in un recente contributo (Marenco, 2007) mentre per sviluppo agricolo si intende la
crescita in termini reali del valore aggiunto della produzione del sottoinsieme delle
imprese operanti nel settore, “..necessariamente collegato alla crescita del valore
aggiunto per unità di lavoro impiegata, compatibile con (e di norma accompagnata da)
una riduzione dell’occupazione in agricoltura e, quindi, con l’esodo agricolo”, per lo
“…sviluppo rurale, la crescita va riferita al sotto-insieme delle imprese e/o delle
famiglie residenti nelle parti del territorio riconosciute come “rurali”, …..
necessariamente collegata a quella del valore aggiunto per unità di lavoro o del reddito
pro-capite dei residenti ma, di norma, non …..compatibile con una riduzione
dell’occupazione e/o della popolazione residente nelle aree rurali e, quindi, con l’esodo
rurale”. Lo sviluppo agricolo, dunque, non determina automaticamente sviluppo delle
aree rurali. Per quest’ultimo è necessario il concorso di attività diverse da quelle
tradizionali agricole attraverso il ricorso sì alla “multifunzionalità” dell’impresa agricola
ma soprattutto alla mobilitazione delle diverse forme di capitale di cui le specifiche aree
rurali risultano dotate. La diversificazione delle attività economiche diviene, anzi,
condizione necessaria per il mantenimento della stessa agricoltura, altrimenti destinata a
scomparire, a causa dell’esodo giovanile determinato dall’arretratezza del contesto
socio-economico. Inoltre, come precisato nello stesso contributo richiamato sopra, è
importante tener presente che in alcune specifiche aree rurali, di collina e di montagna
41
prevalentemente, dove si è consolidato un uso estensivo della terra, l’agricoltura è
attività essenziale per il mantenimento e la salvaguardia dello stesso ambiente naturale.
Risulta, dunque, evidente l’esistenza del legame “complesso” tra sviluppo rurale,
attività agricola, ed ambiente la cui sintesi sfocia nella rinnovata visione dello sviluppo
rurale sostenibile per il quale nè l’ambiente in sé né i livelli produttivi, rivestono un
ruolo centrale ma i mezzi di sussistenza intesi sia come soddisfazione di fabbisogni di
base che come sicurezza di lungo periodo (Chambers, 1992; Romano, 1996). Il contesto
socio-economico-istituzionale-culturale riveste, dunque, non meno importanza della
dimensione ambientale e compito della politica è incentivare la mobilitazione delle
risorse locali.
6.2.- Le politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane obiettivo convergenza: strumenti utilizzabili ed opzioni possibili.
Con riferimento alle regioni italiane obiettivo convergenza, esaminiamo ora le
modalità previste dalla politica comunitaria per affrontarne i problemi di SR. Premesso
che ai fini dell’articolazione territoriale degli interventi, il Piano Strategico Nazionale
(PSN) prevede 4 possibili tipologie territoriali riprese nei PSR, poli urbani (A), aree
rurali ad agricoltura intensiva (B), aree rurali intermedie (C), aree rurali con problemi
complessivi di sviluppo (D), nell’insieme delle cinque regioni, le aree D rappresentano
circa il 44% della superficie territoriale mentre la superficie svantaggiata33 ne
costituisce il 59% con una netta prevalenza di quella svantaggiata di montagna, pari a
poco più del 36%. Accanto a questo dato va nondimeno sottolineata la diffusa presenza
di contesti territoriali di riconosciuto valore ambientale e paesaggistico che, insieme al
più vasto patrimonio storico, sociale e culturale ed alle risorse umane, costituiscono un
patrimonio di risorse da mobilitare. Ma proprio in ciò consiste il compito delle politiche
di SR. Una prima considerazione da fare riguarda, allora, il principale strumento di
programmazione per lo SR, i PSR regionali. Questi, contemperando sia misure rivolte
allo sviluppo agricolo che a quello più propriamente rurale, possono risultare più o
meno efficaci a tale ultimo riguardo, in dipendenza della loro articolazione qualitativa e
finanziaria. Coerentemente agli obiettivi strategici della politica di SR dell’UE:
“accrescere la competitività del settore agricolo e forestale; valorizzare l’ambiente e lo 33 Ai sensi della Dir 75/268/ CEE e s.m.i.
42
spazio naturale; migliorare la qualità della vita nelle zone rurali ed accrescere la
diversificazione”, i PSR prevedono, difatti, varie misure raggruppate in 4 assi di cui i
primi tre a sostegno dei tre obiettivi strategici ed il quarto, a carattere trasversale, a
sostegno di strategie di sviluppo locale secondo l’approccio LEADER34. Una seconda
considerazione riguarda il differente significato che le misure relative ai diversi assi
assumono per lo sviluppo delle aree rurali. Lasciando da parte il 2° asse per la sua
specificità ambientale, quelle del 1° e del 3° possono essere classificate in due gruppi:
misure settoriali agricole, in quanto rivolte specificamente a questo settore e misure
intersettoriali, perché rivolte all’insieme degli altri settori. Risultano, allora, settoriali
tutte quelle del 1° asse unitamente alla misura 311 (del 3° asse) che, pur prevedendo il
finanziamento ad investimenti per la diversificazione in attività non agricole, è destinata
alle sole aziende agricole. Di conseguenza, sono le altre misure del terzo asse e quelle
del quarto che dovrebbero avere maggiore rilevanza per uno sviluppo dei territori rurali
basato sulla rivitalizzazione del tessuto produttivo e sociale locale. Tuttavia, il principio
relativo all’equilibrio finanziario tra gli obiettivi prevedendo che a questi due assi sia
riservato almeno il 15% delle risorse (10% all’asse 3; 5% all’asse 4), sembrerebbe
riservare all’obiettivo “miglioramento della qualità della vita e della diversificazione
economica” una posizione di livello inferiore. Il che assume maggiore rilevanza in
considerazione delle esigue risorse destinate alle politiche di SR nell’ambito del totale
delle risorse afferenti al settore agricolo (Mantino, 2006). E contrasta non poco con
l’enfasi posta sul ruolo, presente e futuro, delle politiche del secondo pilastro, che non
solo hanno sostituito, di fatto, tutto l’impianto delle politiche strutturali ma che
dovrebbero divenire il canale privilegiato attraverso il quale iniettare risorse verso il
settore agricolo. Ciononostante, non è da sottovalutare il fatto che all’Italia, nell’attuale
periodo di programmazione, vada una quota consistente delle risorse destinate non solo
alle politiche di SR ma a quelle della coesione in genere (rispettivamente 10,7% ed
8,3% delle risorse europee). E non è da sottovalutare neppure che alle regioni obiettivo
convergenza vada circa il 50% del contributo FEASR.
34Gli Orientamenti Strategici Comunitari (OSC) prevedono che le risorse destinate all’asse LEADER debbano contribuire a conseguire le priorità degli Assi 1, 2 e, soprattutto del 3°, ma anche il miglioramento della governance e la mobilitazione del potenziale di sviluppo endogeno delle zone rurali. Il PSN prevede, quali ulteriori obiettivi nazionali, la realizzazione della capacità progettuale e gestionale locale ed il miglioramento della partecipazione locale alla definizione delle politiche attraverso Progetti di Sviluppo Locale (PSL) attivati da Gruppi di Azione Locali (GAL) secondo l’approccio bottom-up.
43
6.3.- Le politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane obiettivo convergenza: le opzioni scelte sono adeguate?
Il PSN, quadro di riferimento per la programmazione regionale per lo SR, si
caratterizza per un’ampia flessibilità nel ricorso alle diverse misure previste dal Reg.
1698/2005 nell’intento di fornire un’altrettanto ampia possibilità di manovra alle
regioni. Ci si aspetterebbe, allora, che nelle regioni obiettivo convergenza in cui le aree
di tipo D hanno un forte peso, la quota di risorse riservate agli assi 3 e 4 si collocasse
ben più in alto del minimo stabilito. Per capire, dunque, come si sono effettivamente
comportate le cinque regioni in esame, prenderemo in considerazione i seguenti aspetti:
1) la ripartizione delle risorse tra i quattro assi; 2) il peso assegnato a quelle misure che
più specificamente si rivolgono allo SR; 3) la complementarietà/integrazione con gli
altri fondi strutturali.
Con riferimento al primo punto, le regioni convergenza destinano in media il
17,5% delle risorse agli assi 3 e 4 considerati nel loro insieme, vale a dire una quota
leggermente superiore al minimo. La differenza rispetto alle regioni “competitività” che
ne destinano, in media, il 16%, è evidentemente trascurabile (Panico et al., 2008; Sotte e
Ripanti, 2008a). Venendo all’articolazione del sostegno in misure e riprendendo la
distinzione tra misure settoriali agricole ed intersettoriali (punto 2), si rileva che in
media, nelle regioni convergenza, l’asse 1 unitamente alla misura 311, assorbe il 43%
delle risorse, mentre si riduce il peso degli assi 3 e 4 che nel loro insieme contano per il
15%. Risulta, dunque, evidente il generale e netto orientamento verso il sostegno di
processi di sviluppo agricolo35 in un’ottica meramente settoriale che, oltre ad incontrare
minori difficoltà operative, risente della cosiddetta “path dependency” rispetto alla
tradizionale PAC (Sotte e Ripanti, 2008b). Al contempo è da rilevare la consistente
territorializzazione degli interventi soprattutto per le misure degli assi 3 e 4 rivolti,
prevalentemente, alle aree rurali classificate come C e D. In queste, un’attenzione
significativa è posta sui PSL, ormai in fase di avanzata sperimentazione che ricevono, in
tutti i PSR, una valutazione sostanzialmente positiva che ne giustifica l’ulteriore
35 A sostegno di tale conclusione c’è, difatti, il ridimensionamento da operare per il 2° asse la cui
consistenza non deve trarre in inganno dal momento che, in più di un caso, gioca l’effetto trascinamento degli impegni di spesa presi nel periodo di programmazione precedente ma non ancora liquidati.
44
consolidamento. Tuttavia, pur rappresentando i PSL modalità di attuazione di percorsi
di sviluppo integrato, forte è la consapevolezza che il per il conseguimento degli
obiettivi delle politiche di SR sia necessaria la complementarietà e l’integrazione con gli
altri fondi strutturali, peraltro esplicitamente richiesta nel Reg. 1083/2006 (art. 27 e 37).
A tale proposito la normativa comunitaria, pur raccomandando di evitare
sovrapposizioni, sottolinea la necessità di avviare operazioni sinergiche proficue per i
territori rurali e per le filiere agro-alimentari. Difatti, nell’ambito dei POR finanziati dal
FESR, si rendono possibili interventi complementari e coerenti con quelli finanziati dal
FEASR tra cui quelli per il trattamento di specificità territoriali riguardanti anche le
zone rurali, le zone caratterizzate da svantaggi specifici (tra cui quelle a bassa e
bassissima densità demografica) e quelle montane. In tal caso, il coordinamento del
FESR con il FEASR, specie per l’asse 3 della politica di SR, è ritenuto necessario. Gli
interventi previsti nelle zone caratterizzate da svantaggi geografici e/o naturali possono
riguardare, a grandi linee, il miglioramento e l’accessibilità di tali aree; la promozione e
lo sviluppo delle attività economiche connesse al patrimonio culturale e naturale locale;
l’incentivazione dell’uso sostenibile delle risorse naturali; il turismo sostenibile e così
via. Ma se questo è vero sul piano delle opportunità, non altrettanto può dirsi, per le
regioni considerate, su quello operativo. Difatti, la valutazione che, a tal proposito, si
ritrova nei loro PSR è relativa più che altro alla netta demarcazione tra gli interventi
finanziabili dal FEASR e quelli finanziabili dal FESR e dal Fondo Sociale Europeo
(FSE). Cosa che denota un’attenzione rivolta anzitutto ad evitare la sovrapposizione di
finanziamenti a carico dei diversi fondi. Analogamente, l’analisi della destinazione delle
risorse nell’ambito dei POR FESR, non lascia intravedere obiettivi strategici espliciti
per le aree rurali. Anche i POR, come è noto, sono articolati su più assi tematici che
potrebbero essere attivati per progetti rivolti a specifici territori rurali, verso i quali
incanalare risorse da destinare non solo ad ambiti tematici classici36 ma anche ad ambiti
più innovativi (servizi per il miglioramento della qualità della vita e dell’inclusione
sociale; energia; logistica; banda larga e superamento del digital divide). Alcune regioni
prevedono, tra i cosiddetti Grandi Progetti37, la realizzazione di importanti strutture
36 Quali risorse idriche, turismo sostenibile, valorizzazione ambientale, mobilità. 37 Trattasi di progetti di precisa natura tecnica o economica dalle finalità chiaramente identificate e il cui
costo complessivo supera i 25 milioni di EURO nel caso dell'ambiente e i 50 milioni di EURO negli altri settori (cfr. Reg CE 1083/2006.art. 39).
45
logistiche per l’agroalimentare ma, al momento, non si è in condizioni di dire quanto
potrebbero giovarsene le aree rurali più svantaggiate. Ad analoghe conclusioni si giunge
analizzando la ripartizione del contributo FESR per tipologie territoriali. Intanto il
contributo a carico di questo fondo, per le singole regioni obiettivo convergenza, è più
che doppio se non triplo rispetto a quello FEASR38. Nel complesso, per le Zone a
bassissima densità demografica è previsto appena il 4,5% delle risorse, per quelle di
montagna circa l’8% mentre per le Zone rurali (diverse dalle zona di montagna, dalle
isole, e dalle zone a bassa e bassissima densità demografica) il 19%. A questo
proposito, un’analisi sulla destinazione delle risorse destinate ai programmi FESR e
FSE 2007-2013 (Lucatelli, 2008), ri-classificate sulla base di un criterio territoriale39,
perviene alla conclusione dell’esistenza di una forbice generalmente assai ampia tra
peso delle categorie di spesa esplicitamente rurali e contributo complessivo dei
programmi regionali allo sviluppo dei territori rurali. Inoltre, ritornando ai PSR, le
novità/opportunità insite nelle caratteristiche di integrazione, multisettorialità e
partecipazione dell’asse LEADER, scontano una serie di limiti. In primo luogo quelli
dovuti ad un’integrazione tutta interna ai PSR, dalle dimensioni troppo locali in contesti
in cui sarebbero da sperimentare progetti di portata più ampia, in grado di coinvolgere
attori operanti in più settori economici (Lanzalaco e Lizzi, 2008). In secondo luogo, gli
effetti positivi legati alla diffusione di percorsi partecipativi, su cui molto si insiste nel
valutare la bontà dei PSL, non sarebbero una costante perché spesso si genererebbero
elite finalizzate ad una crescita del consenso politico sia nelle fasi di progettazione che
di gestione e realizzazione (Cavazzani e Moseley, 2001).
L’ultimo aspetto che si è ritenuto importante considerare è quello relativo alla
valutazione delle politiche proposte dai PSR a proposito del quale va subito precisato
che esso costituisce un obbligo regolamentare per gli Stati Membri che si configura
come valutazione continua dei programmi (AA.VV., 2006) cioè ex ante, intermedia ed
ex post. Tra le possibili modalità di valutazione dell’efficienza ed efficacia delle
politiche, particolare interesse assume la quantificazione del loro impatto socio-
economico, indicativo del contributo delle politiche di SR al raggiungimento degli
obiettivi generali della politica di coesione economica e sociale dell’UE. Nei PSR tale
38 Fa eccezione la Basilicata, il cui territorio è classificato interamente rurale. 39 Come interventi esplicitamente rurali; orizzontali e non territorializzabili; esplicitamente urbani; potenzialmente destinati sia ad aree urbane che ad aree rurali.
46
valutazione è prioritariamente affidata all’uso di indicatori comuni che misurano i
contributi in termini di crescita, occupazione, produttività del lavoro40. Nel rispetto
delle prescrizioni contenute nei vari documenti comunitari, nei singoli PSR, la
valutazione ex ante riporta una stima puntale dell’impatto delle politiche inteso come
contributo dei singoli assi e/o delle singole misure ai target stimati, ma solo a livello
regionale. Ciò, evidentemente, è in contraddizione con la connotazione fortemente
territoriale delle politiche di SR, per la quale, ai fini della loro valutazione, sarebbe
essenziale conoscere l’entità dell’impatto generato a livello di macroaree sub-regionali
di intervento.
A questo punto, quali considerazioni conclusive, si ritiene di dover sottolineare
l’inadeguata considerazione degli aspetti dell’integrazione-complementarietà delle
politiche e quello della loro valutazione nel processo di programmazione per lo SR.
L’integrazione e la complementarietà richiedono assetti organizzativi e funzionali
specifici sia a livello politico-amministrativo, sia a livello dei partenariati, nei quali
sarebbe opportuno un maggiore coinvolgimento fattivo di esponenti del mondo
produttivo extra agricolo, e sia tra i diversi strumenti finanziari. In ogni caso, sarebbe
opportuno avviare una fase di riflessione critica sui molteplici aspetti in grado di
influenzare l’efficienza e l’efficacia delle politiche a livello territoriale, soffermandosi
sulla molteplicità di progetti a carattere locale che si sono sviluppati in Italia e che
hanno avuto un impatto anche sulle aree rurali (Mantino, 2007). La valutazione
dell’impatto delle politiche secondo un approccio territoriale, da estendere anche alle
politiche a carico degli altri fondi europei (Lucatelli, 2008), dovrebbe assumere, infine,
maggiore rilevanza in quanto unico strumento in grado di informare sui reali progressi
compiuti in termini di sviluppo socio-economico di tali aree. Ciò assume per le regioni
convergenza particolare rilevanza. La fragilità del loro tessuto economico e sociale vede
nella povertà un problema che torna a porsi all’attenzione al punto che esse si
scambiano, di anno in anno, il primato in un Mezzogiorno generalmente sempre più
povero (ISTAT, annate varie; ISTAT, 2008). Ciò che impone un uso attento e mirato di
risorse che, oggi già scarse, potrebbero diventarlo ancor di più in futuro.
40 Il contributo alla crescita economica è misurato come incremento netto di valore aggiunto, espresso in Potere di Acquisto Standard; quello all’aumento dell’occupazione come incremento netto di posti di lavoro equivalenti a tempo pieno ed, infine, quello all’aumento della produttività del lavoro come valore aggiunto lordo per occupato a pieno tempo.
47
7. INFORMAZIONI STATISTICHE E POLITICHE: OPPORTUNITÀ DI UN LEGAME
NECESSARIO
La ricchezza delle informazioni gioca un ruolo centrale nel definire la qualità delle
politiche; in periodi di grandi cambiamenti, come quello attuale, le esigenze di qualità,
dettaglio e tempestività dei dati aumentano ulteriormente. Non sorprende verificare,
dunque, che il quadro di riferimento per l’attività di rilevazione statistica stia mutando e
che l’introduzione di metodologie innovative, l’armonizzazione tra fonti statistiche e la
rilevazione di fenomeni più recenti consentano una lettura nuova del settore, più utile
per la futura azione politica dell’Unione.
Tra le informazioni disponibili, quelle derivanti dalle statistiche ufficiali, sebbene
prodotte per fini diversi, si caratterizzano per una qualità e un potenziale informativo
elevato, ma non pienamente utilizzato: spesso esse sono fondamentali nella fase di
valutazione ex ante dei programmi d’intervento, ma quasi del tutto ignorate nei
successivi momenti della valutazione.
Nelle pagine seguenti sono discusse le linee-guida del programma statistico
comunitario, che ridefinisce l’insieme delle rilevazioni statistiche in agricoltura.
L’attenzione è stata focalizzata sulle proposte riguardanti il futuro censimento e sul
tema della qualità delle rilevazioni. La possibilità concreta di legare necessità
informative della politica e disponibilità delle statistiche ufficiali è discussa con
riferimento alla valutazione dell’impatto dell’attuale programma di sviluppo rurale.
7.1. - Il programma statistico comunitario per l’agricoltura e i registri amministrativi
L’attività di rilevazione statistica per il periodo 2008-2012 è definita da uno
specifico programma comunitario che descrive l’organizzazione del sistema statistico
europeo e riconosce nella cooperazione il principio-guida dell’attività di rilevazione41.
41 L’articolazione del programma è precisata dalla decisione n. 1578 del Parlamento europeo e del
Consiglio, GU del 28-12-2007, che sollecita una fattiva cooperazione con gli interlocutori esterni all’Unione, tra gli istituti nazionali di statistica, tra i gestori delle rilevazioni e gli utenti dei dati al fine di pervenire ad un linguaggio statistico condiviso, una delle tappe verso la coesione dell’Unione.
48
La sezione del programma dedicata all’agricoltura distingue le rilevazioni
statistiche in due gruppi: quelle tradizionali, utili per la gestione del mercato, e le nuove
statistiche strutturali dettate dalle preoccupazioni più recenti della politica agraria, come
la sicurezza alimentare e la sostenibilità delle attività produttive. L’indirizzo adottato
per le future rilevazioni è ispirato al principio della differenziazione: sia tra le necessità
conoscitive (semplificazione per le statistiche tradizionali, analiticità per le nuove), sia
tra gli Stati membri (impegno statistico proporzionale al peso nell’aggregato europeo) e
fra gli utenti (disagio statistico direttamente proporzionale alla dimensione delle
imprese). Tra le numerose attività programmate, l’organizzazione del censimento e la
costituzione degli archivi amministrativi riveste un particolare interesse per due motivi
principali. In primo luogo, per entrambe le attività si è in fase di progettazione, ossia nel
momento più opportuno per sollecitare scelte operative in direzione di una maggiore
qualità dei dati. In secondo luogo, la riorganizzazione dell’attività di rilevazione
statistica prevede una stretta interrelazione tra gli archivi amministrativi ed il
censimento, così come con l’insieme delle altre indagini, per cui le scelte adottate per
gli archivi condizioneranno inevitabilmente tutta l’attività di rilevazione programmata
per il settore agricolo.
L’impiego dei dati amministrativi è finalizzato alla costruzione di due archivi: il
business register, che risponde alle necessità delle indagini congiunturali di contabilità
nazionale, ed il farm register, ancora in fase di studio, che dovrebbe armonizzare
l’articolato sistema delle statistiche strutturali in agricoltura. I due archivi sono diversi
per finalità, natura delle unità rilevate, articolazione e periodicità di aggiornamento, ma
sono concepiti come strettamente interrelati. In particolare è previsto che il farm
register includa l’altro archivio per raccordarlo con più fonti amministrative ottenendo
un’articolata caratterizzazione delle agricultural holding.
Secondo l’ordinamento comunitario, il business register deve includere tutte le
imprese che contribuiscono al PIL offrendo, anche solo in parte, i propri prodotti e
servizi sul mercato42. Tale registro, aggiornato annualmente, costituirà la fonte
42 Il Reg. 177 del 5-03-2008, definisce il Quadro comune per i registri di imprese utilizzati a fini statistici.
Nell’archivio sono incluse le imprese singole di qualunque settore e per la prima volta anche i gruppi di imprese tutte residenti e le sezioni delle multinazionali a controllo estero o europeo che operano nel territorio dell’Unione (gruppi troncati). L’archivio includerà tutte le imprese pubbliche, mentre esclude le famiglie impegnate unicamente nella locazione dei beni di proprietà o in attività per l’auto-consumo.
49
d’informazione principale sulla popolazione delle imprese e il riferimento esclusivo per
la progettazione delle indagini campionarie.
Per la prima volta l’obbligatorietà del rilievo è estesa alle imprese agricole,
consentendo una più articolata conoscenza del settore, delle filiere produttive e dei
distretti rurali. Dall’istituzione del business register è dunque legittimo attendersi alcune
importanti indicazioni: in primo luogo sulla numerosità delle imprese impegnate
nell’attività economica in agricoltura, una delle questioni da sempre più dibattute; in
secondo luogo, sarà possibile conoscere le attività economiche caratterizzanti tutte le
imprese che operano in una stessa area rurale, misurare l’intensità delle interazioni tra
l’attività agricola e le altre attività produttive43, nonché identificare le relazioni di
controllo tra le unità giuridiche e conoscere il grado di concentrazione dei mercati agro-
alimentari.
La trasposizione al settore agricolo delle procedure utilizzate per il registro delle
imprese dell’industria e dei servizi ha richiesto scelte metodologiche differenti in
considerazione della specificità delle regole amministrative per l’agricoltura44. Una
speciale attenzione merita la proposta avanzata dai ricercatori dell’ISTAT di identificare
l’attività economica principale e secondaria in due fasi: prima caratterizzando l’attività
con riferimento alla tipologia OTE, poi classificandola secondo il sistema NACE
(Garofalo e Lorenzini, 2007). Adottare la classificazione OTE per caratterizzare l’attività
economica equivale ad accettare rilevanti modifiche procedurali: ricorrere al reddito
lordo standard calcolato su base regionale e non alla composizione del valore aggiunto
aziendale, come per tutte le altre imprese; identificare l’attività economica principale in
base a soglie che distinguono tra OTE specializzato e misto piuttosto che in base al
criterio gerarchico del contributo fornito da tutte le attività al valore aggiunto
complessivo dell’impresa; elaborare un criterio esterno al sistema di classificazione per
ricondurre le molte tipologie miste previste dalla classificazione OTE a quelle meno
numerose e molto specializzate dal sistema NACE.
Le implicazioni di tale scelta dovrebbero essere attentamente ponderate perché 43 Per ciascuna unità locale e per l’unità giuridica è precisata la natura delle attività principale e
secondaria, codificata secondo il sistema di classificazione NACE (Nomenclatura delle Attività Economiche) rev. 2 in vigore dal 2008.
44 Per costruire il registro delle imprese agricole l’Italia ha scelto sia fonti generali (registro IVA e iscrizioni camerali) che fonti specifiche (redditi da terreni, INPS agricoltura, registro Agea, banca dati dei bovini, registro UMA). L’entrata in vigore è prevista per il 2010, con possibilità di deroghe fino al marzo 2013.
50
l’attività economica è una delle variabili di stratificazione delle imprese. Le modalità
adottate condizioneranno dunque inevitabilmente i confronti intersettoriali e le
successive rilevazioni statistiche quali l’indagine censuaria, la rilevazione REA-RICA e
quelle intercensuarie.
7.2. - Il 6° censimento dell’agricoltura
Nel programma statistico europeo il censimento agricolo è annoverato tra le
statistiche tradizionali. Pur essendo affiancato da indagini finalizzate alle più recenti
esigenze della politica agricola, il suo carattere di rilevazione tradizionale ne rafforza il
ruolo di indispensabile raccordo tra le indagini specifiche, la cui periodicità non è
definita a priori. La qualità della rilevazione censuaria, pertanto, continua ad essere una
questione di interesse rilevante.
Il dibattito attuale sul disegno del censimento si caratterizza per due novità: la
definizione dell’unità di osservazione e la delimitazione del campo di osservazione
(Garofalo e Lorenzini, 2007; Mancini et al, 2006).
L’unità di osservazione è identificata come un’unità tecnico-economica a gestione
unitaria che svolge attività economica, in via principale o secondaria, all’interno del
territorio dell’UE, secondo le categorie di attività economica della divisione 01 della
classificazione NACE rev. 245. Una definizione coerente con le indicazioni internazionali
(FAO, 2005) e con quelle previste per il registro delle imprese, che introduce la
caratterizzazione delle unità secondo l’importanza economica di ciascuna attività
realizzata e una definizione ampia di attività agricola fino ad includere i servizi alla
produzione e le attività di post-raccolta. In conformità a tali indicazioni, il campo di
osservazione ai fini censuari è identificato da tutte le unità che offrono prodotti o servizi
sul mercato, comprese quelle che realizzano nel territorio dell’UE le sole attività
successive alla raccolta di una produzione ottenuta in territori esterni ai suoi confini, o
che sono impegnate nell’attività di servizi a supporto dell’agricoltura e, infine, dalle
unità impegnate in attività economiche principali la cui natura tecnologica può essere
molto diversa da quelle incluse nella divisione 01 della classificazione NACE rev2.
45 Il campo di osservazione del censimento agricolo italiano include tradizionalmente anche le attività
incluse nella divisione 02 (Silvicoltura e utilizzo di aree forestali) della classificazione NACE .
51
Con riferimento alla delimitazione del campo di osservazione, la Comunità ha
posto un obiettivo di copertura minima fissato al 98% della SAU e degli allevamenti, con
la possibilità di limitare il campo di osservazione delle unità da rilevare sulla base di un
articolato sistema di 14 soglie fisiche disgiunte, unico per tutti gli Stati membri.
Una simulazione condotta applicando tale sistema all’universo Italia rilevato nel
censimento del 2000 evidenzia che l’obiettivo della copertura minima della SAU
nazionale non sarebbe raggiunto soprattutto con riferimento alle colture legnose, mentre
le unità rilevate sarebbero solo 1,4 milioni, inferiori di 1,1 milioni di unità rispetto a
quelle effettivamente censite. I risultati potrebbero addirittura peggiorare qualora al
2010 la numerosità della base censuaria dovesse essere, come si attende, minore rispetto
a quella del 2000. I risultati della simulazione impongono pertanto una riflessione
attenta. Al momento le proposte elaborate dai ricercatori dell’ISTAT sono orientate
all’identificazione di un più articolato sistema di soglie fisiche nazionali e regionali in
considerazione della specificità dell’agricoltura italiana (Mancini et al., 2006).
Non è possibile prevedere se in sede comunitaria si derogherà al criterio del
sistema unico di soglie fisiche, ma è possibile avanzare dei dubbi sull’opportunità di
circoscrivere l’analisi dei risultati ai soli aspetti di natura statistica così come sembrano
suggerire le soluzioni in discussione. Gli stessi risultati, infatti, inducono a dubitare
dell’adeguatezza del criterio proposto così come della base censuaria cui sono applicati,
riportando l’attenzione sulla qualità della rappresentazione dell’agricoltura italiana
offerta dalle rilevazioni censuarie.
L’attuale fase di progettazione del censimento è il momento più opportuno per
riconsiderare la qualità della rilevazione censuaria ed evidenziare quelli che appaiono
come errori che possono portare ad una rappresentazione distorta della struttura
produttiva dell’agricoltura italiana. Come suggerisce un'indagine conoscitiva
sull'affidabilità dei dati elementari dei censimenti dell'agricoltura ai fini delle analisi
economiche (Borlizzi, 2008), gli elementi critici sono identificati in tre momenti della
rilevazione: la definizione del campo di osservazione, il contenuto informativo del
questionario e le modalità di esecuzione della rilevazione.
Con riferimento all’identificazione del campo di osservazione il tema più critico è
costituito dalle proprietà collettive di terre destinate a prati e pascolo; appare, infatti,
dubbia la scelta adottata finora di includere nel campo di osservazione “le aziende
52
agricole costituite da prati permanenti e/o pascoli condotti dall’amministrazione
comunale (terreni messi a disposizione, generalmente dietro corresponsione di un
canone, per l’utilizzazione da parte di animali appartenenti ad altre aziende)” così come
quella di escludere dalla base produttiva quella parte di tali superfici utilizzata dalle
imprese private, fatta eccezione per l’affidapascolo. In questo modo, infatti, da un lato si
osserva la presenza di aziende comunali posticce di enormi dimensioni, dall’altro si
sottodimensionano le aziende che utilizzano le terre collettive. In Italia si calcola che
circa 2,5 milioni di ettari di SAT costituiscano la base produttiva “di proprietà” dei
Comuni (Branca, Macrì, 2005); il fenomeno, dunque, non è né circoscritto né limitato a
pochi casi.
Su tale tema la FAO chiarisce che “le terre collettive a pascoli e a foreste non sono
normalmente considerate un’azienda, tranne che in presenza di un’area specificamente
recintata o con altra forma di demarcazione dei confini” (FAO, 2005, paragrafo 3.34), e
suggerisce di eseguire la loro rilevazione tra i community-level data ovvero tra “i dati
locali, spesso riferiti ad un villaggio o un comune, utili per esaminare le infrastrutture ed
i servizi disponibili per le aziende” che non possono essere raccolti attraverso intervista
diretta delle aziende. Tale rilevazione dovrà, poi, essere completata dall’indicazione
delle aziende che utilizzano i terreni collettivi, per le quali determinare correttamente
l’estensione della superficie a loro disposizione. La soluzione della doppia rilevazione
offrirebbe così il duplice vantaggio di censire tutta la superficie agricola e di non
assimilare ad aziende agricole gli enti gestori delle proprietà collettive che si limitano ad
amministrare tale patrimonio.
Circa le cause di errore legate al contenuto informativo del questionario, la scarsa
enfasi riservata alla unitarietà di gestione nella definizione di azienda agricola e la
scarsa attenzione prestata al fenomeno dell’affitto appaiono i temi più rilevanti.
L’unitarietà di gestione è richiamata solo incidentalmente nel corso della
definizione di azienda individuale, proposta nel capitolo dedicato alle forme
giuridiche46. La scarsa attenzione ad essa prestata comporta il rischio che appezzamenti
fisicamente distinti ma tecnicamente connessi siano identificati come unità indipendenti
con il conseguente sovradimensionamento dell’universo delle aziende (Barbero, 1982).
46 L’azienda individuale è “condotta da persona singola o da più persone legate da vincoli di parentela che
conducono unitariamente i terreni, compresi eventualmente quelli appartenenti ad uno o più componenti”.
53
Tale rischio è concreto nel caso di più unità aziendali che rispondono ad un’unica
gestione, spesso esercitata all’interno di uno stesso nucleo familiare. Ancora una volta le
indicazioni contenute nel manuale della FAO si rivelano utili sia quando definiscono
l’unità di osservazione47, sia quando propongono i due concetti complementari di sub-
holding (“una singola attività economica o un gruppo di attività gestita da una
particolare persona (o gruppo di persone) nella famiglia del conduttore e per conto del
conduttore”) e di sub-holder (“persona responsabile della gestione di una sotto-
azienda”).
Anche la scarsa attenzione accordata alla definizione di affitto è causa di errori. Se
confrontata con la notevole complessità delle forme di possesso dei terreni (formali ed
informali) diffuse in Italia, la definizione riportata nel manuale di istruzioni per i
rilevatori: “all’affitto è assimilato l’affitto misto” (ISTAT, 2000) appare semplicistica e
lacunosa. Al contrario, la proposta contenuta nel manuale della FAO, che assimila
all’affitto un gran numero di forme di pagamento per il concedente appare più adeguata
a rappresentare le molteplici forme di possesso oggi molto diffuse e non riconducibili al
contratto di affitto definito dalla giurisprudenza.
Le soluzioni organizzative adottate in passato per la rilevazione hanno
ulteriormente favorito il rischio di errori. Tra queste, il compenso dei rilevatori legato al
numero di questionari compilati ha rappresentato un incentivo all’incremento del
numero di unità rilevate, con il risultato che dei semplici “orti familiari”, teoricamente
esclusi dal campo di osservazione del censimento, siano stati censiti come aziende
agricole. Nuove regole dovrebbero essere individuate per considerare la qualità della
rilevazione e non solo il numero di questionari compilati. Ciò sarà possibile se, come ci
si aspetta, il prossimo censimento sarà basato su una lista pre-censuaria delle aziende, la
cui esistenza non dovrà essere verificata sul campo da parte dei rilevatori.
47 “Unità economica di produzione agricola sotto una direzione unica, comprendente tutti gli allevamenti
e i terreni usati totalmente o parzialmente per la produzione agricola (...)”. La direzione unica può essere esercitata “da un individuo o da una famiglia, in forma associata da due o più individui o famiglie, da un clan o tribù (...). I terreni aziendali possono consistere in uno o più appezzamenti situati in aree separate o in una o più divisioni territoriali o amministrative (...) purché essi siano condotti con gli stessi mezzi di produzione, lavoro, fabbricati rurali e macchinari agricoli”.
54
7.3. - Le informazioni statistiche: le opportunità per la valutazione dell’impatto
L’efficienza, l’efficacia e l’equità dei programmi di sviluppo rurale per il periodo
2007-2013 sono affidate ad un articolato sistema di monitoraggio e valutazione che,
adottando la logica del concatenamento causale, identifica il contributo fornito da
ciascuna misura al raggiungimento degli obiettivi generali dell’intervento. Le
implicazioni operative non sono di poco conto: dall’azione incentrata sulla correttezza
formale delle procedure si passa alla gestione degli interventi guidata sia dai risultati
raggiunti che dagli effetti prodotti.
La trasposizione operativa di tale nuovo indirizzo si caratterizza per la continuità
del processo di valutazione dell’impatto (ex ante, intermedia ed ex post), e per la
proposta di indicatori associati a ciascuno degli obiettivi in modo da riprodurne la scala
gerarchica48. La finalità della valutazione è di fornire informazioni a valenza operativa
per adattare i programmi e migliorarne la gestione, per rispondere alla necessità di
trasparenza nei confronti dei beneficiari e dei cofinanziatori, più in generale, per
orientare le decisioni e il dibattito sulle politiche.
Se la valutazione deve produrre informazioni, la sua realizzazione necessita di dati
e di procedure di analisi ben definite. Gli indicatori di risorsa, di prodotto e di risultato
sono i più semplici perché ottenuti da dati acquisiti nel corso della stessa realizzazione
del programma. Non così per gli indicatori d’impatto: in questo caso i dati sono sempre
esterni e le metodologie di analisi meno definite.
Nonostante l’attività di indirizzo svolta dalla Comunità, la valutazione
dell’impatto dei programmi è un tema di indagine non ancora consolidato (Barca et al.,
2004), in particolare per quanto riguarda i complessi programmi di sviluppo rurale49
(Mantino, 2005; Monteleone et al., 2004; Zumpano, 2005). Le scelte metodologiche per
la valutazione sono da precisare nel corso del periodo di attuazione degli stessi
programmi, pertanto tale specifico tema di indagine è aperto ad ulteriori contributi da 48 La gerarchia degli obiettivi di politica (generali, operativi e di specifica attuazione) è affiancata da
quella parallela degli indicatori distinti in indicatori di impatto (contributo al raggiungimento degli obiettivi generali), di risultato (effetti diretti e immediati di ciascun intervento), di prodotto (attività realizzate per singola misura) e di risorsa (disponibilità finanziaria per misura).
49 Le indicazioni comunitarie precisano che l’impatto deve essere valutato seguendo una prospettiva dal basso ed essere articolato in due fasi; nella prima l’attenzione è posta ai beneficiari (diretti ed indiretti) conducendo un’analisi controfattuale che tenga conto dei trend caratteristici della zona di intervento; nella seconda fase l’attenzione è rivolta all’area di intervento per valutare i cambiamenti rispetto alla situazione di partenza (AA.VV., 2006).
55
parte degli economisti agrari. A questo proposito alcune indicazioni possono essere
formulate in merito alle priorità cui la valutazione dell’impatto dovrebbe rispondere:
rintracciare il legame causale tra gli interventi adottati e gli effetti ottenuti; consentire la
valutazione dell’impatto territoriale per l’intervento incrociato di più politiche;
articolare l’analisi per ciascuna macroarea identificata dalla zonizzazione della strategia
di sviluppo rurale; distinguere gli effetti per tipologia di impresa, prevedendo la
possibilità di un’analisi controfattuale per le imprese beneficiarie degli interventi. In
sintesi, l’attenzione al territorio deve considerare sia l’integrazione tra le differenti
politiche predisposte per una stessa area rurale, sia la capacità di coordinarle con
riferimento ad obiettivi definiti.
L’elaborazione degli indicatori di impatto richiede dati (primari o secondari)
esterni all’attuazione del programma, costantemente aggiornati e con un dettaglio
territoriale statisticamente significativo, in modo da consentire l’identificazione dei
cambiamenti avvenuti nel periodo di riferimento e nelle aree individuate dalla
territorializzazione degli interventi. La necessità operativa di programmare l’attività di
valutazione delle politiche ravviva dunque l’interesse per le fonti ufficiali ed invita ad
operare al fine di sfruttare a pieno il loro potenziale informativo.
Le novità in discussione nella progettazione del futuro censimento e l’adozione dei
suggerimenti per migliorare la qualità ne prefigurano una utilità potenziale più alta che
in passato. Posto che le novità attese diventino certezze, due circostanze pesano
negativamente sull’utilità operativa della rilevazione ai fini della valutazione
dell’impatto: l’intervallo di tempo necessario per disporre dei dati definitivi e
l’asincronia tra la fase della rilevazione statistica e quelle della valutazione
dell’intervento50, queste ultime previste per il 2010 (valutazione in itinere) e per il 2015
(valutazione ex post). In particolare, i dati censuari rilevati nel 2010, seppure
tempestivamente disponibili, non potranno essere utilizzati per la valutazione intermedia
e saranno ormai datati per la valutazione ex post.
Per quanto riguarda i dati degli archivi amministrativi, l’aggiornamento annuale
previsto li renderebbe particolarmente utili per analisi articolate dei distretti e delle
50 Alcuni di questi problemi potrebbero essere superati da una diversa frequenza di aggiornamento
prevista dal futuro regolamento sulla Farm Structural Survey, che potrebbe essere differenziata in decennale, triennale e annuale al crescere della dimensione dell’impresa (Brogi et al., 2005).
56
filiere; tuttavia la possibile decisione italiana di spostare al 2013 la prima realizzazione
del business register peserà sulla loro disponibilità.
Considerazioni diverse devono essere formulate per l’indagine campionaria sulle
strutture e per quella sui risultati economici: la prima, prevista per il 2013, potrebbe
essere penalizzata dall’epoca di rilevazione, intermedia a quelle delle due valutazioni;
per l’indagine REA-RICA, realizzata annualmente, il problema dell’asincronia è
inesistente, tuttavia l’utilità dei suoi dati è condizionata dalle scelte del disegno
campionario. Ai fini dell’analisi dell’impatto, infatti, l’indagine REA-RICA soffre di due
limiti: la rappresentatività regionale e la natura casuale del campione. In particolare, tale
natura la rende particolarmente utile per la valutazione del contesto, ma la penalizza ai
fini dell’analisi dell’impatto che, invece, richiederebbe il monitoraggio delle stesse unità
di osservazione nel tempo, come solo un campione tipo panel data consente. Entrambi i
vincoli possono essere superati adottando un diverso disegno statistico e costruendo dei
campioni-satellite aggiuntivi, di numerosità ridotta e riferiti a particolari tipologie di
aziende, soluzioni che meglio rispondono alle necessità del percorso suggerito dalla
Comunità. Esperienze operative sono già state compiute nel periodo di programmazione
2000-2006 da parte di alcune Autorità di gestione e meritano di essere approfondite per
una loro adozione generalizzata (Abitabile e Scardera, 2008). Con riferimento alla
diversa rappresentatività territoriale, invece, la soluzione è data dall’adozione di
opportuni criteri di stratificazione geografica sub-regionale. Ai fini della valutazione
dell’impatto, dunque, l’utilità potenziale dei dati economici e strutturali dell’indagine
REA-RICA è molto alta ma vincolata dalla necessità di rimodulare e ampliare il suo
disegno statistico. L’applicazione operativa di entrambe le soluzioni prospettate deve
essere sollecitata dalle Autorità di gestione regionale.
In sintesi, nonostante le numerose novità del programma statistico europeo, in
Italia il legame tra le informazioni statistiche e le necessità delle politiche sembra ben
lontano dall’essere una realtà operativa. Numerosi i problemi ancora da superare che
richiedono un ruolo più attivo sia alle Autorità nazionali nel coordinare i diversi attori,
sia a quelle di gestione dei programmi regionali nel disegnare l’attività di valutazione.
57
8. CONSIDERAZIONI (NON) CONCLUSIVE
Considerando la natura e gli obiettivi del lavoro qui presentato, dovrebbe essere
evidente che esso, in quanto contributo di discussione e proposta sugli orientamenti
auspicabili per il nostro lavoro di ricerca, non si presta a chiare e semplici osservazioni
conclusive. Le proposte avanzate sono variegate e riguardano aspetti sia di contenuto
che di metodo. Spetta ai lettori interessati a tali questioni di valutarne correttezza,
rilevanza ed utilità. Gli Autori del lavoro ritengono comunque opportuno, ad evitare
malintesi, richiamare la loro attenzione sull’ottica particolare scelta come riferimento
della sua impostazione generale. Questa ottica concentra l’attenzione su uno dei ruoli
che gli studiosi di economia e politica agraria possono/devono svolgere a beneficio dei
responsabili (pubblici e privati) delle scelte politiche. Tale ruolo è quello della
prestazione di un servizio che consiste nella produzione di conoscenze ed informazioni
su stato, dinamiche e meccanismi di funzionamento della realtà agricola, agro-
industriale e rurale. Sono viceversa trascurati altri (legittimi) ruoli quali quello di
indicare e discutere obiettivi da perseguire e loro scale di priorità o quello di analizzare
e valutare criticamente i modi e le circostanze in cui le decisioni sono prese ed,
eventualmente, portate ad effetto51.
Pur tenendo conto dei limiti del lavoro derivanti dall’ottica prescelta, il lettore
attento non potrà non rilevare che, comunque, la lista dei temi trattati è tutt’altro che
esauriente. Ci sembra, tuttavia, che la gamma di questioni di politica agraria (e dei temi
di ricerca ad esse collegati) su cui il nostro lavoro richiama l’attenzione sia comunque
molto più ricca e articolata di quella a cui, a giudicare dalla pubblicistica e dalla
convegnistica specializzata, hanno dedicato, quasi in esclusiva, il proprio impegno negli
ultimi anni i politici e gli amministratori che si occupano di agricoltura ed i loro
interlocutori accademici abituali.
Peraltro la stessa circostanza della varietà e, insieme, della incompletezza dei temi
di ricerca indicati nei diversi contributi qui raccolti scoraggia ogni tentativo di derivare,
dall’esame del loro insieme, delle indicazioni generali su nuovi orientamenti cui
dovrebbe rivolgersi la ricerca economico agraria. Tuttavia, ci sembra non debba essere
considerato del tutto fortuito il fatto che solo sporadicamente tali temi riguardino 51 Tali ruoli sono viceversa, con ogni evidenza, al centro dell’attenzione delle relazioni presentate al Convegno da Buckwell e da Lanzalaco e Lizzi.
58
questioni di competenza strettamente disciplinare economico-agraria; essi, infatti si
collocano, di norma, in spazi in cui l’economista agrario deve necessariamente
interloquire con esperti di altre discipline Mi piace pensare che in una qualche misura il
verificarsi di questa circostanza, non creata ad arte, sia stata favorita dal clima
intellettuale che tradizionalmente caratterizza l’ambiente porticese in cui gli Autori
operano. Ma, per il resto, tale fatto non può che ricollegarsi al “progressivo
ampliamento dei confini dell’arena agricola” evidenziato da Lanzalaco e Lizzi nella loro
relazione.
Un altro carattere comune a molti dei temi di ricerca menzionati, forse meno
evidente, ma che è opportuno notare a motivo della necessità di affrontarli anche sul
piano empirico, è quello della scarsità o difficile reperibilità dei dati di base che
sarebbero richiesti. Ma questa, come sappiamo, è la circostanza che accomuna la
maggior parte delle ricerche al servizio delle esigenze conoscitive della politica, e che,
come si è già visto, è responsabile della lamentata scarsità di studi di tipo econometrico
nella letteratura che, anche a livello internazionale, si rivolge a questo insieme di lavori.
Sarò quindi facile profeta se dirò che ci dovremo, di norma, aspettare, nei futuri
sviluppi, una riproposizione della scelta metodologica tra i modelli di simulazione e gli
studi descrittivi, secondo la classificazione di Gardner e Johnson richiamata in
precedenza. Senza stare a ripetere che, in tale scelta, il fattore decisivo da cui dipende il
grado di attendibilità dei risultati non si deve individuare nel metodo di elaborazione,
bensì nella qualità dei dati e nella competenza e nella perceptiveness dello studioso,
preferisco osservare che, se mi trovassi nei panni di un politico che ha bisogno di certe
informazioni e valutazioni su di un dato fenomeno, cercherei sistematicamente di
ottenerle da più fonti indipendenti, assicurandomi che esse siano state prodotte con
metodi diversi.
59
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Summary
Real world knowledge and agricultural policy: open issues for research (JEL: A11) The paper aims at defining and analyzing a few new and relevant problems for
which the agricultural economics research already offers and/or might offer useful pieces of information and knowledge which may shed light on the needs of adjustment of agricultural policy. These new problems stem from the changes occurring inside and outside the agro-industrial sector, including the re-orientation of the social preference system, but also from the progress already achieved in the knowledge and understanding of the agro-industrial real world.
The concerned issues regard: the role of product quality in the organization of the supply chain and as a component of competitive strategies; the producer’ risk conditions and the new tools for risk management; the role of policies and institutions in affecting the sustainability of land use; the meaning and relevance of rural landscape and biodiversity safeguard as objectives of agricultural policy; the ideal and the real design of rural development plans for disadvantaged areas in southern Italian regions; the progresses in the collection and availability of farm data and their respondence to the needs of impact analyses of agricultural policies.
Riassunto
Il lavoro individua ed analizza alcuni nuovi e rilevanti problemi nei cui confronti la ricerca in campo economico-agrario già offre o potrebbe offrire contributi di conoscenza ed informazione necessari od utili per meglio orientare le scelte dei decisori politici. Tali nuovi problemi sorgono a motivo dei cambiamenti che stanno avvenendo all’interno ed all’esterno del settore agricolo ed agro-industriale o, anche, nel sistema delle preferenze adottato dal corpo sociale ed, inoltre, a motivo dei progressi già realizzati nello stesso grado di conoscenza della realtà.
Le questioni considerate riguardano: il ruolo della qualità dei prodotti nell’organizzazione delle filiere produttive e nelle strategie competitive; le condizioni del rischio dell’attività produttiva e gli strumenti pubblici e privati per la sua gestione; il ruolo di politiche ed istituzioni per la salvaguardia della sostenibilità dell’uso del suolo; la rilevanza ed il significato degli obiettivi di tutela del paesaggio e della biodiversità nelle politiche agricole; le condizioni per l’efficacia delle politiche di sviluppo rurale nelle Regioni “obiettivo convergenza”; i possibili progressi nella raccolta e disponibilità di dati sulle imprese agricole e la loro rispondenza ai fini delle analisi di impatto delle politiche.