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Gabiano e dintorni Febbraio 2012 In copertina foto di: Gianni Boschi, Arianna Boschi, Laura Chiarello, Ubertalli Lorenzo. Trifole del Monferrato, ultime notizie Civiltà del vino Cereseto curiosità, racconti e un po’ di storia & Il mensile della nostra terra

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Febbraio 2012

In copertina foto di: Gianni Boschi, Arianna Boschi, Laura Chiarello, Ubertalli Lorenzo. Trifole del Monferrato, ultime notizie Civiltà del vino Cereseto curiosità, racconti e un po’ di storia

&Il mensile della nostra terra

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Se quello dei funghi è un regno a sé stante e quindi non fa parte né di quello vegetale e tantomeno di quello animale, il tartufo è certa-mente il re di questo regno. Non cresce alla luce del sole e ne-cessita di grandi piante, piante no-bili come roveri, noccioli, pioppi che mettano al suo servizio le loro grandi radici per farlo crescere. Che siano una categoria di nobili lo si vede anche dal limitato numero, se le specie fungino sono centia-naia di migliaia poche decine sono le varietà di tartufi. Limiti che si estendono non solo alla varietà ma anche ai ritrovamenti. E fra questi uno in particolare sem-bra disporre di tutte le qualità per rivestire all’interno di questa ristret-ta cerchia il ruolo di re: il Tuber Magnatum Pico al secolo il tartu-fo bianco d’Alba. Nome altisonante nella sua versio-ne latina quanto simbolica nella versione popolare con quel suo richiamo al bianco, colore amato da queste terre, rafforzato dal nome di Alba che, oltre al richiamo della celeberrima città capitale delle lan-ghe, rafforza l’aggettivo conferendo al fungo ipogeo una sorta di aura sacrale, proprio a lui che di luce in verità non ne ha mai vista, prima di venir scoperto. Re del Monferrato, delle Langhe e del Roero, re perché ha evitato nei millenni di attraversare le Alpi co-me hanno fatto tanti suoi amici con la scorza ben più scura e dura della sua; re perché a differenza di tutti

gli altri è restio ad o-gni forma di coltivazio-ne e pretende condi-zioni ambientali molto particolari, in fatto di umidità, temperature, caratteristiche del suo-lo radici su cui cresce-re. Re che ha persino cre-ato una economia che lo vede al centro di compravendite dalle cifre ragguardevoli e certamente, fra tutti i

certamente, fra tutti i suoi simili, più consistenti. Un re che sa essere anche il miglior rappresentante delle nostre terre e delle colline in cui cresce senza mai farsi notare e ricorda da vicino le genti che da sempre le abitano, ci vivono e ci lavorano. Riservato, sensibilissimo all’ambien-te in cui si sviluppa, cresce anche per anni sotto terra, invisibile, col-laborando con piante ben più gran-di di lui con cui sa intrecciare rap-porti di mutuo interesse. Per scoprirlo occorre gente speciale che conosce non solo i luoghi, le ore, le stagioni, le piante, il territo-rio, ma la terra, la dura, bassa, fertile, incontaminata, terra delle nostre colline, gente che si accom-pagna, come una simbiosi, solo al suo “tabui” cercatori che, come lui, amano lavorare in solitudine, nel silenzio dei boschi d’autunno, spes-so avvolti dalla nebbia, senza farsi notare senza farsi vedere e senza lasciar segno del proprio passag-gio. Persino nell’aspetto il nostro re ri-specchia una cultura. Informe, mo-nocromatico, senza le rotondità delle patata, il colore delle carote, la lucentezza delle cipolle, vaga-mente simile al “grottoluto” Topi-nanbur che diversamente la lui sbandiera la sua presenza con alti e colorati fiori gialli, mentre lui, lungi dal segnalare la sua presenza, resta sempre legato alla terra dove è nato e cresciuto e dalla quale pare non volersi staccare nemmeno quando, scoperto, viene posato, come un re, sul morbido mantello che riveste un vassoio per essere esposto al mondo. Un re che al momento sa esprimer-si con grande forza, investendo della sua presenza della sua essen-za tutto ciò che lo circonda diven-tando il centro dell’attenzione, del-l’interesse e talvolta dell’economia di mercati a lui dedicati nei diversi angoli delle nostre colline, mercati in cui da tutto il mondo si conten-dono a suo di euro, dollari, juan le sue grazie.

Trifole del Monferrato… ultime notizie dalla ricerca

Pochi sanno che esistono tartufi... maschi e… tartufi femmina, e che 10.000 anni fa, quando le querce hanno varcato le Alpi il tartufo bianco non le ha seguite restandone al di qua...

di Enzo Gino

Tuber Magnatum Pico, Bianco d’Alba

Paola Bonfante

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tartufismo, quel comportamento sotterraneo, nascosto, invisibile ma talvolta letale per chi non lo sa ri-conoscere. Questo nostro tartufo metafora del carattere nato dall’intreccio di cul-tura, tradizione, economia, com-mercio, territorio che come, e più di tante altre creature, ha contri-buito e contribuisce a plasmare. Sono i caratteri umili e forti, talvol-ta sfuggenti di società contadine che hanno attraversato secoli di storia, carestie, invasioni, guerre ed epidemie ma che hanno saputo superarle proprio perché hanno un tratto comune immutato da sempre divenuto valore intrinseco destinato sempre più a diventare l’ancora di salvezza delle società secolarizzate: la terra, la nostra terra, quella che nessun cinese potrà copiare, nes-sun laboratorio clonare, nessuna business distruggere e che solo chi con essa è cresciuto e ci vive sa intimamente conoscere ed amare. E chi più di un tartufo che nella nostra terra, dalla notte dei tempi, nasce, cresce e ci vive letteralmen-te immerso, può raccontarcelo?. Per questo abbiamo voluto sapere tutto ciò che c’è da sapere su que-sto re della nostra terra, per farlo ci siamo rivolti a chi di mestiere i tar-tufi e non solo, li studia da decen-ni: Paola Bonfante, direttore ades-so del Dipartimento di Biologia Ve-getale dell'Università e prima del Centro di Studio sulla Micologia del terreno del CNR, un classico lumi-nare della materia, con trent’anni di ricerca sulle spalle e che in una lunga intervista ci ha raccontato qualche frammento delle relazioni scienza-tartufo. Molti sanno che il tartufo appartie-ne alla famiglia dei funghi cosiddet-ti ipogei, ossia che crescono sotto terra, pochi sanno che i funghi, dopo gli insetti, sono il gruppo bio-logico più numeroso sul pianeta; si stima esistano almeno mezzo milio-ne di varietà fungine e da tem-po sono stati elevati al rango di un regno a sé, alla stregua del regno vegetale o animale non es-sendo quindi né l’uno né l’altro. Tanto è importante la materia che negli anni si è sviluppata la etnomi-cologia che studia il rapporto fra l’uomo e i funghi, un rapporto do-cumentato sin dall’età della pietra che coinvolge intimamente l’uomo. Giusto per dare qualche sommario

cenno, citiamo che pa-ne, birra, vino, formag-gi, penicillina, antibiotici esistono grazie ai funghi oltre purtroppo a nume-rose malattie indotte da funghi. Anche il territorio è ca-ratterizzato dai funghi, tanto che si potrebbe dire “Paese che vai, fun-ghi che trovi” visto che ogni paese ha le sue varietà ed in alcuni con-tinenti come l’Australia questo regno è ancora tutta da esplorare. Attraverso la filogeografia, che stu-dia la distribuzione geografica delle linee genetiche che sono presenti nelle popolazioni di una specie o gruppi di specie, è stata studiata la distribuzione del tartufo anche nel passato. Così si è scoperto che, alla fine della glaciazione, 10.000 anni fa, il Tuber melanosporum seguì le querce dalle zone più meridionali e calde dell'Italia e della Spagna verso le valli francesi, mentre il Tuber magnatum Pico o Bianco d’Alba non ha mai superato le Alpi, restando confinato nelle colline e nelle pianure padane per arrivare sino all’Istria, Croazia, Slovenia e Ungheria NI tartufi si riducono a oltre una sessantina di specie presenti in Europa America e Australia. In Ita-lia sono presenti circa 25 varietà e di queste solo poche sono ricercate e, in base alla legge 752 del 16 dicembre 1985, solo 9 specie in tutto sono commercializzabili: 1) Tuber magnatum Pico, detto volgarmente tartufo bianco; 2) Tu-ber melanosporum Vitt., detto vol-garmente tartufo nero pregiato; 3) Tuber brumale var. moschatum De Ferry, detto volgarmente tartufo moscato; 4) Tuber aestivum Vitt., detto volgarmente tartufo d’estate o scorzone; 5) Tuber aestivum var. uncinatum Chatin, detto vol-garmente tartufo uncinato; 6) Tu-ber brumale Vitt., detto volgarmente tartufo nero d’in-verno o trifola nera; 7) Tuber Borchii Vitt. o Tu-ber albidum Pico,

detto volgarmente bian-chetto o marzuolo; 8) Tuber macrosporum Vitt., detto volgarmente tartufo nero liscio; 9) Tuber mesentericum Vitt., detto volgarmente tartufo nero ordinario. E continuando a parlare dei mangerecci, pare che i primi cultori dei tartufi in cucina fossero gli antichi Greci e Roma-ni. Ma per avere il pri-mo trattato ad essi dedi-cato si dovette attendere

qualche secolo quando un italiano Alfonso Ciccarelli nel 1564 pubblicò Opusculum de Tuberibus. Da allora gli scritti si sono moltiplicati per arrivare agli oltre 1500 testi di oggi come stimati da Anna Fontana già Direttrice del Centro di Studio Mico-logia del Terreno (CSMT) del CNR. In Piemonte il prof. Oreste Mattiro-lo fondatore della Facoltà di Agraria a Torino sin dalla fine ‘800 iniziò a studiare i funghi ipogei ed in parti-colare la simbiosi localizzata nel-l'apparato radicale tra un fungo ed una pianta superiore. Da questa simbiosi si sviluppano delle struttu-re caratteristiche che gli addetti ai lavori chiamano Micorriz e, essen-ziali per il completamento del ciclo vitale e per la creazione del corpo fruttifero particolarmente aromati-co a tutti noto come tartufo. Il Mattirolo diede così il via ad una ricerca scientifica che ancora oggi vede l’Italia, e Torino in particolare, all’avanguardia nel mondo in que-sto campo. Il CSMT-CNR fondato nel 1951 dal micologo Beniamino Peyrronel è infatti l’unico in Italia a dedicarsi in modo istituzionalizzato ai funghi del suoloe in particolare a quelli micorrizici. Interessante la “joint venture”fra le piante ed i tartufi, questi ultimi in-fatti sono alquanto selettivi e non si

Tuber aestivo Vittad.

Oreste Mattirolo

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accontentano di una pianta qualun-que, ma esigono specie particolari. Il tartufo nero cresce solo con alcu-ne varietà di quercia: Roverella, Leccio, Cerro, oltre che col Tiglio, il Carpino Nero, il Nocciolo ed il Cisto che è un cespuglio. Quello bianco oltre alle citate varietà (ad esclusione del Cisto e del Leccio) cresce anche sulle radici della Far-nia, del Rovere e su diverse varietà di pioppo: Nero, Bianco, Carolina e Tremulo, sulle radici del Salicone e del Salice Bianco. L’accordo fra i rappresentanti dei due regni, quello vegetale e quello fungino, prevede che la pianta for-nisca al fungo ipogeo gli zuccheri sintetizzati dalla fotosintesi clorofil-liana che esso non è in grado di svolgere e quest’ultimo ricambia rilasciando minerali indispensabili alla pianta quali fosforo e azoto. Diversamente dai tanti loro parenti “patogeni”, ossia generatori di ma-lattie, i tartufi quindi vivono pacifi-camente e nel reciproco interesse con la pianta ospite. Giova segnalare anche altre impor-tanti funzioni svolte dai funghi che possono esser considerate delle “scatole nere” della natura. La loro distribuzione sul territorio sia attua-le che passata, attraverso i reperti fossili, consente di comprendere la storia evolutiva delle piante. I fun-ghi simbionti sono stati sicuramen-te essenziali alla conquista delle terre emerse da parte delle piante, e attraverso essi si può anche te-stare lo stato di salute del suolo. I funghi infatti assorbono i metalli pesanti dal terreno in misura tale che a 25 anni dall’incidente di

Chernobyl, Greenpeace ha misu-rato nei funghi attorno alla centra-le, livelli di Cesio 137 di 288.000 Bq/kg (Becquerel per chilogrammo) pari a 155 volte oltre i limiti con-sentiti. I miceti, altro nome dei funghi, riescono infatti a sopravvivere al-l’inquinamento bloccando i metalli pesanti sulla superficie delle loro pareti cellulari, o immobilizzandoli dentro loro vacuoli. Questa inte-ressante caratteristica è stata og-getto di studio da parte dei gruppi di ricerca del Dipartimento di biolo-gia vegetale e del CNR nell’ambito di progetto dedicati alle biotecnolo-gie ambientali: essa può aprire in-teressanti prospettive all’uso com-binato di piante e funghi per il risa-namento dei luoghi inquinati. Fra tutti i funghi mangerecci, il tar-tufo è, come tutti sanno il più pre-giato ed è diventato oggetto di un importante mercato: basti pensare che nel 2010 il prezzo, per pezzatu-re media di 20 grammi, si aggirava attorno ai 220 € all’ettogrammo crescendo sensibilmente con il cre-scere delle dimensioni, inevitabil-mente quindi si presta a contraffa-zioni e truffe di vario genere. Dai vari alimenti a base di tartufo, for-maggi, salumi, paste, salse “arricchiti” dalla sua presenza, sino alla vendite delle piccole piante tartufigene o più propriamente mi-corrizate che hanno (o dovrebbero avere) le radici colonizzate dai fun-ghi ipogei e che vengono vendute a caro prezzo. In passato era difficile verificare la reale presenza di tartufo negli ali-menti piuttosto che il ricorso ad

aromi artificiali, così come difficol-toso se non impos-sibile era l’accerta-mento dell’effettiva e corretta micorri-zazione delle pian-te. Grazie allo svi-luppo a partire dagli anni ’90 delle t e c n i c h e di diagnostica mo-lecolare, si sono identificate se-quenze di DNA che permettono di rico-noscere e distin-guere i diversi tar-tufi, tra cui il Tuber magnatum, il più

tum, il più prezioso tra tutti, e che, grazie a tali sonde, può essere i-dentificato con certezza anche du-rante la fase simbiontica. Con que-sto sistema è stato scoperto che solo il 15-20% dei campioni di piante esaminate erano corretta-mente micorrizati, e soprattutto in situazioni controllate, quali celle climatiche e serre. L’assenza di mi-corrize di T. magnatum nei vivai, insieme al frequente ritrovamento di bianchetti quali il T. maculatum e il T. borchii, indicano una scarsa competizione del T. magnatum in queste condizioni. Dalle ricerche sono emerse anche le condizioni ambientali necessarie alla crescita dei tartufi. Se in un recente passato l’unica indicazione disponibile per chi voleva allestire una tartufaia sperimentale era l’a-nalisi chimico-fisica del suolo, oggi è possibile affiancare a questa una analisi molecolare, una vera carta d’identità, in grado di rilevare l’e-ventuale presenza del micelio di T. magnatum nel suolo. Quindi è pos-sibile stabilire non solo se un terre-no è vocato alla tartuficoltura, ma anche rilevare la persistenza del prezioso micete in tartufaie di im-pianto. Parallelamente alla tracciabilità del pregiato bianco T. magnatum, è stato possibile anche tracciare il tartufo pregiato nero, T. melano-sporum, che si trova spontanea-mente in Italia, Francia e Spagna ma viene anche ottenuto in tartu-faie sperimentali in altri paesi quali Israele, Stati Uniti e Nuova Zelan-da. Da un punto di vista ecologico la presenza di questo fungo nel suolo è associata, a differenza del T. magnatum, alla formazione del pianello, meglio noto con la parola francese brulé, una zona intorno alla pianta ospite caratterizzata da assenza o scarsità di vegetazione ed entro cui si raccolgono general-mente i tartufi. Ipotesi sulla forma-zione del pianello hanno suggerito un effetto fitotossico dovuto al tar-tufo, tuttavia i meccanismi con cui questo processo avviene sono del tutto sconosciuti. In uno studio condotto sul suolo di tartufaie fran-cesi buone produttrici di tartufo è stato accertato che il T. melano-sporum è il tartufo dominante in questo ambiente in cui diminuisco-no in percentuale altre specie fun-gine, evidenziando quindi un effet-

Ciclo del tartufo

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suo ruolo importante nella forma-zione del pianello. La tradizione francese nel settore della tartuficoltura è notevole: da secoli infatti in Francia si coltivava-no i tartufi neri e in assenza di conoscenze scientifiche i contadini diffondevano semplicemente le radici delle piante tartufigene. Ma il tempo della Scienza non è passato invano: nel 2007 in un meeting tenutosi a Torino, ad ope-ra di un consorzio italo-francese, coordinato da Francis Martin, diret-tore di Ecogenomics of interactions di Nancy, un Centro specializzato nei sequenziamenti genomici, fu lanciato un progetto per il sequen-ziamento del DNA del tartufo nero del Périgord (Tuber melanospo-rum). Il sequenziamento è il meto-do che consente di descrivere tutte le informazioni genetiche ereditarie che sono presenti nel DNA di un organismo e che sono alla base dello sviluppo di tutti gli organismi viventi. I risultati della ricerca, che ha visto attivamente coinvolto il gruppo di ricerca di Torino tra cui la dottoressa R.Balestrini del CNR , furono pubblicati nel marzo 2010 sulla prestigiosa rivista Nature, ed ebbero grande riscontro sulla stam-pa di tutto il mondo. La conoscenza del Genoma del tar-tufo è stata una chiave di volta per capire la biologia di questi organi-smi che sono considerati dei biofer-tilizzatori naturali. L'analisi ha sve-lato, senza più ombra di dubbio, che questo fungo è eterotallico, ossia porta caratteri genetici che

permettono il processo di feconda-zione su individui differenti, analo-ghi a maschi e femmine. Sulla base di questa scoperta sarà presto pos-sibile selezionare individui di segno opposto per garantire la compatibi-lità sessuale e il successo riprodut-tivo in programmi di tartuficoltura che si potranno svolgere finalmente su base scientifica. Questa scelta di bilanciamento degli individui si tra-durrà in una maggiore produttività del tartufo nero nelle tartufaie di impianto in cui le piante ospiti do-vranno presentare individui di ses-so opposto. Altre informazioni di carattere ap-plicativo che emergono sono le migliaia di marcatori genetici sparsi lungo tutto il genoma e che potran-no essere impiegati per evidenziare polimorfismi genetici, ossia varia-zioni genetiche presenti nella stes-sa popolazione di tartufi provenien-ti da diverse aree e quindi utili per classificare i tartufi sulla base della loro provenienza. L’analisi del ge-noma ha anche evidenziato il ridot-tissimo potenziale allergenico (ossia la capacità di causare aller-gie) del tartufo, che viene pertanto riconosciuto come sicuro, in quanto in esso mancano i geni capaci di creare le temibili micotossine. Inol-tre, sono stati individuati i geni re-sponsabili della formazione dei composti volatili che costituiscono l’aroma del tartufo (isoprenoidi, alcools e, soprattutto, composti solforati). L’insieme di queste informazioni permetterà di definire un profilo genetico molecolare che coniughi l’origine geografica dei tartufi neri con il loro aroma. grazie alla cono-scenza del genoma, il fine ultimo della rintracciabilità si traduce quin-di nel controllo della qualità tanto dei tartufi freschi quanto dei pro-dotti al tartufo che hanno, ormai, un largo consumo. Gli strumenti molecolari messi a punto negli ultimi 15 anni insieme a una conoscen-za approfondita della sistematica dei tartufi, iniziata proprio a Torino, permettono pertanto di identificare con certezza le specie di tartufo pre-senti sulla nostra tavola. Ma anche i tartufi in sca-tola possono essere iden-tificati su questa base.

Per i prodotti al tartufo l’osservazio-ne delle spore e la messa a punto di un metodo che permetta il recu-pero di DNA costituiscono lo stru-mento per svelare il segreto conte-nuto. Se oggi è possibile quindi sapere quali specie sono state usate in un prodotto, ben poco si sa sulla loro origine. È quindi al genoma che si affidano le prospettive di rintraccia-re l’origine geografica dei tartufi che sono adoperati in vario modo nell’industria alimentare. Basti pen-sare che in Italia, il tartufo fresco e lavorato ha un mercato che supera i 300 milioni di euro. Naturalmente fra tanti benefici e tante opportunità qualche pericolo si nasconde. Sentendo parlare di genoma e DNA il pensiero corre subito alle piante ed agli animali transegnici. Perché quindi non un tartufo in vitro, usando metodi di trasferimento genetico ? L’eventua-lità, per ora, non è l’obiettivo delle ricerche che si stanno conducendo, come conferma la prof.ssa Bonfan-te. Anzi queste ricerche consentiranno di disporre di strumenti molto utili per garantire la sopravvivenza di un prodotto naturale eccezionale come il tartufo; questi strumenti sono a disposizione delle Agenzia locali e di chi volesse indagare sulla provenienza dei tartufi, in quanto oltre al loro preciso riconoscimento, essi consentono anche di tracciare la loro storia e provenienza. Sarebbe infatti difficile distinguere solo su base morfologica ossia sulla loro forma ed aspetto un T. mela-nosporum da un T. himalayense o da un T. indicum, specie che non hanno valore commerciale. Così come risulterebbe difficile distin-guere il bianchetto (T. borchii) dal T. maculatum non presente nella lista della legge 752. Quindi viva la ricerca sia essa in laboratorio o nei boschi .

Micorrize al microscopio

Trifulau con Tabui

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Dopa la pausa di fine anno ripren-diamo un po’ di storia del vino. Un’annosa e campanilistica questio-ne: chi produsse il primo vino in Italia ? 2000 anni fa lo si trova in Sicilia; anfore e contenitori di fattura Egea rinvenuti in questa regione ci fanno pensare che il vino arrivasse dalla Magna Grecia, dove era considera-tissimo, anche usato come merce di scambio. Una citazione dell’Odissea narra “di una terra (l’Italia) dove non serve ne’ arare ne’, seminare, perche’ tutto nasce da solo, compreso la vite che dà grossi grappoli” quindi già considerata terra da vino, e sempre Omero narra che Ulisse offrì del vino a Polifemo, che gradì paragonandolo all’ambrosia. Storicamente quindi, essendo por-tato il vino dalla Magna Grecia, ini-ziò a farsi conoscere in Sicilia, per poi continuare il suo viaggio secon-do l’espandersi della Magna Grecia, cioè risalendo la penisola fino al Nord. Giusto per non trovare risposta all’annosa e campanilistica questio-ne iniziale, molti sono contrari a questa tesi, però sembra che nel centro Italia le bevande del tempo fossero realizzate con more, lampo-ni o bacche di sambuco. Ne consegue che mentre in Sicilia si brindava con il vino, più a nord si brindava con bevande diverse. Un grosso passo avanti lo fecero gli

Etruschi, che avendo a disposizione le viti autoctone e spontanee, altro non fecero che affinarne la coltiva-zione. Ricordiamo che le viti a quel tempo erano assolutamente spon-tanee, non potate e si arrampica-vano ad altri alberi come faggi, pioppi, querce per sostenersi, col-tivazione definita “ad arbustum”, al contrario del Sud dove la vite veni-va già coltivata bassa, sorretta da piccoli pali (quasi come oggi in cer-te zone più calde). Reperti archeologici confermano che Dionisio (il Bacco per i Greci), dio della felicità, lo si ritrova rap-presentato su vasellame, sempre più raffinato per poter accogliere una bevanda sempre più raffinata, e ricordiamo che gli Etruschi, come i Greci, non annacquavano mai, perchè ritenevano il vino una me-dicina… si sa tutte le scuse sono buone!!!!! E non solo medicina, perchè già i Romani bevevano, e le donne, ini-zialmente escluse dalla pratica del bere perchè il vino a loro offerto era considerato sprecato, hanno iniziato a bere quando il vino si era raffinato un po’ : e quando si dice “cosa da donne” gli uomini romani intendevano questo vino raffinato, che loro non bevevano, prediligen-done uno più rozzo, quasi aceto, con cui fare anche colazione ba-gnandoci il pane, considerandosi uomini forti. Con l’espandersi di Roma nel medi-terraneo, si scoprì che il vino era largamente redditizio, più di altre colture, per esempio il grano, che confluiva a Roma in larga misura dalle terre conquistate. Se tempi addietro le matrone ro-mane erano considerate adultere e quasi condannate a morte per aver bevuto in pubblico, Livia la moglie di Augusto ha contribuito a far cambiare le cose: era una profonda conoscitrice di vino, beveva solo i migliori, che pare arrivassero appo-sitamente per lei da Sibari, dove la vinificazione aveva raggiunto uno sviluppo maggiore in confronto di quella praticata a Roma, e arriva-vano via mare in anfore ricoperte

Civiltà del vino Seconda parte

di Sergio Ramoino

dopo il Tartufo l’altro re delle nostre terre che gli contende il trono: il vino

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quella praticata a Roma, e arriva-vano via mare in anfore ricoperte di pece all’interno, senza fondo, adatte ad essere trasportare nelle stive delle navi. Tornando ai tempi di Roma la vite incontrò uno sviluppo di coltivazio-ne e di conseguenza di affinamento delle tecniche di lavorazione in tut-to il Lazio. Si dovette scegliere se applicare il sistema di coltivazione ad alberello, cioè basso e sorretto da piccoli pali, oppure “ad arbustum”. Ci vengono

in aiuto affreschi realizzati a Pom-pei che ci illustrano che fu adottata quest’ultima soluzione, raffigurano putti alati che sistemano alcune viti sugli alberi. Inoltre allo sviluppo della coltura della vite ha contribuito molto l’as-segnazione di terreni ai legionari che avevano finito la loro carriera, e sviluppare l’agricoltura, e in con-siderazione che la vite era molto redditizia, come detto prima, ne consegue che un po’ per moda di bere, un po’ per convenienza eco-

nomica, il vino ebbe un forte svi-luppo. Già allora i trattati di agro-nomia consigliavano di effettuare la vendemmia nei primo giorni di ot-tobre, ma solo nelle zone più a nord; altri suggerivano di effettuare la vendemmia a luna crescente, altri a luna calante, altri di notte con la luna piena… fortunatamente moltissimi contadini vignaioli non sapevano leggere e quindi effettua-no le pratiche di vigna e di cantina secondo il loro estro e la loro espe-rienza agricola.

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Cereseto: curiosità, racconti e un po’ di storia

A proposito di “Sciancaciuendi” Non si sa con precisione da quando i ceresetesi vengono nominati dagli abitanti dei paesi l imitrofi “sciancaciuendi”. Si sa soltanto che questo è il loro soprannome. Per meglio comprendere cosa signi-fica questo termine, forse non trop-po adatto oggigiorno, vediamo il significato e le origini di questa strana e poco conosciuta parola; si legge su “Il Monferrato” del 17 Set-tembre 2002: “Avvicinandosi la vendemmia, i contadini delle nostre colline avevano un lavoro impor-tante da sbrigare: difendere la vi-gna dagli intrusi o, più chiaramen-te, dai ladri di uva, impedendone l'accesso con rami, spine, canne e con qualsiasi altra cosa atta a for-mare una barriera e a bloccarne l'entrata. Ricercatissimi erano i ra-mi delle giovani acacie, belli lunghi e, soprattutto, ornatissimi di spine, ma non è che si disdegnassero ra-mi di prugnolo, di biancospino o, addirittura, di grisele (uva spina) che, in quanto ad aculei, non ave-vano proprio niente da vergognarsi di fronte agli aculei delle gaggìe. Questa tradizione di chiudere la vigna, per quanto ne possiamo sa-pere, risale addirittura al Medioevo e la ritroviamo negli Statuti di vari paesi. Per esempio, negli Statuti di Camino, nel primo corpo anteriore al 1286, leggiamo al capo 14: “…inoltre si è stabilito che se qualcu-no rompendo la recinzione entra nella vigna altrui, è in multa di soldi 5; se ruba uva è in multa di denari 4...” e ancora al capitolo 112: “…inoltre stabilirono che se qualcuno asporta o trasferisce una cancellata o una recinzione altrui che sia col-locata intorno ad una vigna, un orto od un frutteto, è multato per ogni volta di soldi 5 di Pavia”.(…) Negli Statuti di Casale all’ art. 280 si legge: “…si è stabilito che nessu-na bestia possa o debba pascolare né stare nelle chiuse o nel distretto delle vigne…”. Però anche qui c’ era l’ abitudine di “grattare" le re-cinzioni del vicino infatti l' articolo 267 recita: “…nessuna persona debba asportare qualche delimita-zione dagli orti e dai sedimi altrui

pena 60 soldi pavesi …” In altri Statuti, come in quello di Castel-nuovo, i contadini, entro il mese di Aprile, erano obbligati a recingere le vigne con siepi e l' ingresso alle stesse era vietato dalle calende di Giugno fino al termine della ven-demmia. Nei tempi più vicini a noi, oltre a recintare la vigna, quando l' uva era quasi matura, di notte, il contadino si appostava nei “casot” che costellavano le vigne (e di que-sti qualcuno, qua e là c'è ancora: semplici ripari costruiti in mattoni dai benestanti, con canne e lamiera dai più tapini), tenendo sempre a portata di mano il fedele fucile da caccia e ben carico. Ma la selvaggi-na che il padrone della vigna aspet-tava al varco nel buio della notte, non era selvaggina comune, bensì una selvaggina speciale, seleziona-tissima e, per di più, stagionale: era di passo solo al tempo dell' uva matura. Si trattava nientemeno che di bipedi "sgraffignatori" d' uva. Però, per non avere grane, non si caricava mai l' arma col piombo, perchè questo munizionamento avrebbe costituito un pericolo gra-ve per la vita del ladro, bensì si caricava con sale grosso, in modo che l' intruso, sorpreso in fragran-te, non arrischiasse danni fisici, ma potesse avere tutto il tempo neces-sario per meditare sulle conseguen-ze della sua cattiva azione, magari anche soffiando e versando acqua fresca sulle ferite. Quel che può interessare, è che dalle siepi prepa-rate, dal latino, “ad clauden-das” (per chiudere) le vigne, arriva la nostra ciuènda, che indica la stessa chiusura fatta con gli stessi materiali e per delimitare una col-tura. Quindi, dal latino claudenda deriva chiudenda e, in seguito alla caduta di alcune lettere, (c(h)iu(d)enda) eccoci alla “ciuènda” (da questa parola procede sautaciuèndi o sciancaciuèndi, che è colui che salta le chiusure che delimitano una proprietà). Ma il termine sauta-ciuèndi, in realtà, assume ben altro valore! Bisogna tener presente che la chiusura più sacra, non era quel-la della vigna, ma quella che deli-mitava la proprietà privata e, in

di Mirko Carzino

Iniziamo da questo numero di G&d una serie di racconti su Cereseto scrivendo di storia e di... storie Sul sito di G&d www.gabianoedintorni.net potrete leggere e, se volete scaricare e stampare, il libro di Mirko Carzino Cereseto Monferrato Dalle origini al XXI secolo

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particolare, la casa. E cosa faceva il sautaciuendi? Era un uomo che non si fermava davanti ai confini sacri di un'abitazione nè di fronte ad altre difficoltà pur di poter arri-vare ad attentare alla virtù di qual-che donna. E vi pare poco? E chia-malo grappolo d'uva! Altro termine di ugual significato è “sautabiscùn”, ovvero “salta cespu-gli”. Poichè, sovente, la proprietà privata era difesa da cespugli, ma-gari anch'essi fioritissimi di spine, questo signore, per entrare in una certa proprietà privata quant' altre mai, era disposto a saltare cespugli spinosi e pungenti, sperando di ottenere, come premio per tanta fatica, quella stessa ricompensa che, e sempre con la stessa specia-lità sportiva, cercava di ottenere il sautacuièndi. Così, da una tradizione che si colle-ga al Medioevo, è nato un termine che oggi ha perso ogni valore per-chè le abitazioni private non sono più difese nè da cespugli nè da ciuènde.” Una meteorite su Cereseto Le meteoriti sono frammenti di ma-teriale roccioso o metallico prove-nienti dallo spazio che, a differenza delle meteore, sono sopravvissuti al passaggio nell’atmosfera e rag-giungono la superficie della Terra. Sulla Terra cadono ogni anno molte decine di migliaia di tonnellate di materiale extraterrestre sotto for-ma di meteoriti e micrometeoriti. Le meteoriti sono classificate in tre categorie principali: le metalliche ricche di ferro e nikel (dette sideri-ti), le pietrose (aeroliti) e le ferro-pietrose (sideroliti). Le condriti so-no invece meteoriti rocciose che presentano all’interno aggregati sferici (condrule). Il 17 Luglio 184-0, sul territorio di Cereseto Monfer-rato, cadde una meteorite catalo-gata come “condrite ordinaria” di classe H5 dalla massa di 5 chilo-grammi; un frammento dal peso di 3,40 chilogrammi si trova al Museo Regionale delle Scienze Naturali di Torino, mentre frammenti minori della meteorite si trovano nei mu-sei di Perugia, Vienna, Budapest, Praga, Berlino e Washington. Le antiche pietre Sulla parete esterna dell’abitazione privata situata in Via Roma n. 46, durante le recenti ristrutturazioni, è venuta alla luce un’antica pietra in tufo con sopra scolpita la frase:

“MCCCCLXXX - VIII DIE XXII - MENSIS MADII - HOC OPUS FECIT - MAGISTER F4EO” che tradotta diventa “1488 - 22 MAGGIO QUE-STA OPERA FECE IL MAESTRO …”. Molto probabilmente, tenuto conto del tipo di scrittura utilizzato, que-sta pietra faceva parte dell’antica costruzione presente sulla sommità del paese, forse un castello, prima della costruzione della villa dei Mar-chesi Ricci (che venne poi rasa al suolo dal finanziere Riccardo Guali-no per la costruzione dell’attuale maniero). Una seconda pietra, a forma irre-golarmente esagonale, si trova po-sizionata su un pozzo in un’abita-zione privata in Via Roma n.14. Non si riesce a decifrare la scrittu-ra, probabilmente risalente al VIII secolo; vi compare soltanto un sim-bolo cristiano (a forma di pesce).

La scommessa della Madonni-na ex-voto di Vittorio Tornelli La Madonnina disegnata sulla fac-

ciata del castello, fu oggetto di scommessa una notte d’estate del 1926; doveva essere toccata da due ceresetesi della stessa età, in questo caso della leva del 1909, che oltre ad aver scalato la faccia-ta, non si accontentarono di toccar-la, ad una altezza di 30 metri circa, ma si dice che ci posero anche la loro firma. La radio Nel 1924 i ragazzi delle scuole ele-mentari ceresetesi, accompagnati dal maestro Franzosi, vennero con-dotti (naturalmente a piedi), alla Fornace del Cav. Ferraris in Frazio-ne Madonnina di Serralunga di Cre-a. Qui vi era una linea ferroviaria elettrica, con dei piccoli vagoni che portavano il gesso e la calce dalle colline di Rolasco alla fornace; inol-tre, per la prima volta, i bambini ascoltarono le notizie trasmesse da una delle rare radio che vi erano in quel periodo nella nostra zona. Il biplano I bambini delle scuole elementari furono accompagnati a vedere il luogo dove un aeroplano (un bipla-no) cadde nei pressi delle Cascine Merli, nella zona dove oggi vi è un laghetto artificiale; infatti i proprie-tari della tenuta (nei primi decenni d’inizio secolo era la Famiglia Ma-gnardi) avevano un figlio aviatore che decise di voler atterrare sui propri terreni. La famiglia, su precisi ordini del figlio, preparò una pista su un pra-to per permettere l’atterraggio del velivolo e stese delle grosse len-zuola bianche per delimitare i confi-ni; purtroppo non si era tenuto conto di un fosso che attraversava il prato. Al momento dell’atterrag-gio, alla vista di questo ostacolo imprevisto, il pilota del velivolo ten-tò di riprendere quota, ma inutil-mente, e si schiantò al suolo per-dendo la vita. Il proverbio “meteo” Sicuramente è nato nei nostri terri-tori, visto che vengono menzionate due città che si trovano l’una l’op-posto all’altra rispetto a Cereseto, il detto: “quand al nivuli i van an ver Ast, pia l’asu e gavii al bast; quand al nivuli i van an ver Casà, pia al beu a va a laurà” e cioè: “quando le nuvole vanno verso Asti, prendi l’asino e levagli il giogo(ovvero pio-verà); quando le nuvole vanno ver-so Casale, prendi il bue e vai ad arare (sta arrivando il bel tempo)”

La meteortite di Cereseto

Via Roma 46 (foto 2002)

Via Roma 14 (foto 2000)

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ed ora un po’ di... storia Gli Statuti comunali del 1358 A partire dal 1358, furono redatti gli Statuti comunali. Come in molti altri comuni del Monferrato, il Con-siglio Comunale riunì tutte le leggi ed i regolamenti allora vigenti, comprese le principali norme di carattere consuetudinario. Gli sta-tuti del comune vennero aggiornati con ulteriori disposizioni e con l’ag-giunta di capitoli, l’ultimo dei quali, in ordine di tempo, fu il capitolo n. 94 del 1457, approvato dal Marche-se. Negli ultimi capitoli non sono più nominati nè consoli, nè rettori, come mediatori tra Comune e Mar-chesato. Nel periodo della pubblica-zione dei primi Statuti, Cereseto era un comune signorile, sorto in seguito al dominio ed al potere della classe nobile “…ad laudem et magnificentia Ill.mi Principis et D.D. Marchionis Montisferrati ac Condominorum de Cerexeto…”. Come altri comuni, Cereseto fu un’autentica organizzazione politica che rivendicava la propria autono-mia a proposito di alcune funzioni di carattere amministrativo e giuri-sdizionale. In quest’epoca apparve-ro anche nel Monferrato i primi Consorzi famigliari, anche se già nell’alto Medioevo se ne erano cre-ati. A questo fenomeno di vita as-sociativa presero parte sia i nobili che i sudditi; i primi per consolidare la loro potenza politica nei confron-ti delle famiglie rivali e per creare organizzazioni economiche di tipo bancario o mercantile più efficienti; i secondi per diminuire le maggiori tasse e imposte dovute all’aumento dei nuclei famigliari allora definiti fuochi. I consorzi potevano essere di due tipi: consorzi originari (o per ceppi) e consorzi per carta. Il con-sorzio per ceppo era formato da persone aventi lo stesso vincolo

sanguigno, mentre il consorzio per carta era una sorta di alleanza tra famiglie di stirpe diversa. Un esem-pio dell’epoca di consorzio per cep-po fu quello della casata dei Bardi di Chieri, mentre un consorzio per carta era quello dei De Castello che riuniva le famiglie Guttuerii, Isnardi e Turchi, ad Asti. In base alla docu-mentazione dell’epoca si deduce che Cereseto fosse un comune go-vernato da Signori che crearono un consorzio per carta; infatti origina-riamente il feudo fu governato dai Graseverto, che vivevano secondo la legge longobarda (e quindi i di-scendenti avevano diritto di concor-rere in parti uguali all’eredità del padre), mentre in seguito il nome Graseverto non compare su alcun documento. Perciò questo fa pen-sare, in seguito alla frammentazio-ne del territorio, ad un’unione con altre famiglie nobili. Anche se si tratta di comune, l’idea del tempo era ben diversa dall’attuale: infatti vi era sempre una notevole diffe-renza tra la classe nobile ed il po-polo. In ogni caso è necessario tenere presente che la parola “comune” non è sinonimo di ugua-glianza nei primi secoli dell’anno 1000, anzi rappresenta una diffe-renza di classi sociali; in numerosi capitoli degli Statuti di Cereseto, troviamo “...fidelium subditorum …Comuni tat i s et Hominum…Cerexeti ...” ovvero rappresentanti del ceto nobile e ricco, eleggibili alle cariche pubbliche ed ammini-strative, e “ ... personarum existen-tium in Cerexeto ...”, persone ap-partenenti alle classi rurali e nulla-tenenti. Nel periodo compreso tra gli anni 1100 e 1500 circa, il siste-ma economico era governato dal comune soprattutto per quel che riguardava la determinazione dei

prezzi, in particolar modo quello dei prodotti tessili. La Chiesa a Cerese-to era in una posizione privilegiata per quanto riguardava il pagamen-to delle imposte e delle tasse, pur senza partecipare attivamente alla vita politica del paese; per esem-pio, in caso di passaggio di proprie-tà di beni, tutti i condomini erano obbligati, sotto stretta sorveglian-za, al pagamento delle imposte, tranne la Chiesa. Non tutti gli Sta-tuti comunque prevedevano questa tassazione differenziata; infatti gli Statuti di Chivasso, Verolengo ed Occimiano sancivano numerose restrizioni finanziarie e giurisdizio-nali a favore del clero. Per quanto riguarda la partecipazione alla vita parlamentare dello Stato Monferri-no, apprendiamo da alcuni docu-menti che i rappresentanti del co-mune di Cereseto presero parte attivamente alle assemblee. Nel 1305 ci fu l’assemblea di Trino che, per il suo carattere straordinario, più che un parlamento, fu il primo atto di partecipazione del popolo Monferrino ad un problema di inte-resse pubblico. La partecipazione alle assemblee veniva limitata ai ceti più forti e produttivi; pratica-mente intervenivano i rappresen-tanti dei Consortili di nobili e delle comunità che avevano l’obbligo di pagare i tributi ordinari e straordi-nari. Quindi, quasi sempre, la clas-se ecclesiastica e la massa rurale venivano escluse. Secondo le Leggi e gli Statuti del tempo, i Consortili non potevano inviare al Parlamento più di due ambasciatori, mentre i comuni potevano inviarne di più; Cereseto, essendo un comune Si-gnorile, non poteva inviare più di due rappresentanti. Pur non essen-do a conoscenza del criterio di scel-ta, possiamo ritenere che i Condo-

Cartolina storica di Cereseto prima della costruzione del castello

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mini abbiano eletto un proprio rap-presentante tra i nobili, mentre il Consiglio Comunale abbia eletto un proprio ambasciatore con modalità analoghe a quelle previste dal Cap. 15 degli Statuti. Durante le assem-blee i rappresentanti della classe nobile vigilavano sul rispetto delle proprie immunità, mentre gli amba-sciatori comunali dovevano accer-tare che non fossero stabilite con-tribuzioni contrarie alla consuetudi-ne ed alle possibilità finanziarie del paese. Da alcuni documenti si ap-prende che nel Parlamento riunitosi il 3 Gennaio 1379, convocato dal curatore del Marchese e governato-re del Monferrato, Ottone di Brun-swick, risulta che Cereseto inviò due rappresentanti: il giurisperito Stefano «ex Dominis Cerexeti» con il titolo di Vicario, ed Enrietto «de Cerexeto». Durante questa assem-blea, su proposta del consigliere Albertone «de Prato de Montecal-vo», vi fu una discussione molto accesa a proposito del giuramento di fedeltà al Marchese Giovanni III a patto che non venissero commes-si soprusi e violenze nei confronti dei sudditi. Questa situazione fu la conseguenza del malgoverno del Marchese Secondotto (siamo nella seconda metà del 1300); si risve-gliò infatti proprio in questo perio-do, in molti comuni del Monferrato (probabilmente anche nel comune di Cereseto), l’esigenza di chiarire il complesso di diritti e doveri tra i sudditi e il signore. Un decreto del-l’Imperatore Carlo VI, del 1355, conferma il possedimento del terri-torio di Cereseto ai Marchesi del Monferrato. Sempre a proposito della situazione politica del tempo, si apprende che in alcuni casi, te-mendo che i comuni o i Consortili dessero poteri limitati ai loro rap-presentanti, il Marchese ordinava ai rappresentanti ed agli ambasciatori di intervenire al Parlamento con

pieni poteri; un esempio lo abbia-mo nell’assemblea del Maggio 137-9, convocata con lettera del 25 A-prile dal Duca Ottone, che ingiunse alle Comunità di concedere pieno mandato agli ambasciatori. Il rap-presentante di Cereseto, inviato dai Consorti, fu il Vicario Stefano. In una lettera del Duca Ottone, invia-ta ai Consortili di Cereseto, sulla quale sono annotate le decisione deliberate in sede parlamentare, si apprende che il Vicario Stefano fu nominato, dallo stesso Duca, mem-bro di un ristretto consiglio. Con questo incarico il Vicario avrebbe preso tutte le decisioni relative al governo ed alla difesa dei territori del Monferrato, in caso di assenza del Duca o del Marchese. Il consi-glio nominò come luogotenente del Marchese, Ghigone Flota di Proven-za, il quale poteva scegliere quattro consiglieri, due appartenenti alla nobiltà e due appartenenti al popo-lo, che duravano in carica quattro mesi. I nomi dei consiglieri proveni-vano da una lista di nominativi sul-la quale, in quel periodo, compare il nome di un’altro Ceresetese, il Condomino Facio. In questo periodo storico il paese di Cereseto risultava essere uno dei paesi più ricchi ed importanti del territorio sul quale governava il Marchese Teodoro II. Il 4 Settem-bre 1388 si riunì a Moncalvo un Parlamento; la seduta aveva come scopo la del ibera di una “talea” (tassa straordinaria) per finanziare il reclutamento di milizie mercenarie. Cereseto contribuì con il pagamento di centocinquanta Fiorini, versati in due rate, la prima a Novembre e la seconda a Gen-naio dell’anno 1389. Nel verbale sono elencati anche gli altri comuni appartenenti al Marchesato: il mag-gior contribuente risulta essere il comune di Trino, con una “talea” di cinquecentoottantasei Fiorini; i mi-

nori invece sono “Baldischius” e “Rocha”, con un carico di dieci Fio-rini ciascuno. I criteri di ripartizione erano dettati appunto dall’impor-tanza e dalla ricchezza del comune; Cereseto aveva una capacità eco-nomica, e quindi contributiva, piut-tosto considerevole. Il gettito tribu-tario del comune di Cereseto era superiore alla quarta parte di quello dei maggiori comuni e superava di quindici volte il gettito dei comuni minori. Avvenuta la ripartizione, il comune pagava con redditi ordina-ri, imputando l’onere alle entrate fiscali, oppure distribuiva tra i citta-dini la quota, che veniva riscossa direttamente o tramite degli esatto-ri appositamente nominati. Il 14 Agosto 1432, a Pontestura, si riunì il Parlamento per deliberare la “taglia” relativa al mantenimento delle guarnigioni militari in Piemon-te; la tassa risultò troppo onerosa per tutti i comuni: così, nel Feb-braio 1433, Amedeo VIII la ridusse a ottomila Fiorini in seguito ad una supplica delle comunità. I rappre-sentanti inviati da Cereseto all’as-semblea presieduta da Amedeo VIII furono Antonio de Valynana e Pietro Gagliano. Fino all’anno 1500 il comune di Cereseto partecipò attivamente alla complessa attività parlamentare dell’epoca; infatti, oltre alla ripartizione delle milizie e dei tributi, si trattarono questioni concernenti il commercio e l’econo-mia, la polizia interna, il diritto pro-cessuale civile e penale, le libertà personali e il foro ecclesiastico. Dal 1500 in poi, con l’affermarsi del potere centrale, i Marchesi convo-carono il parlamento (quindi gli ambasciatori dei comuni), solo più per imporre nuove tasse o “taglie”; il declino della vita parlamentare, per quanto riguarda tutto ciò che non faceva parte delle imposizioni, peggiorò maggiormente con la do-minazione Sabauda.

Cartolina storica di Cereseto dopo la costruzione del castello

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Gabiano, dicembre 20

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Il cinquantesimo della cl

asse 1961