Cultura Commestibile 144

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N° 1 211 44 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Ricordat(ev)i di me

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N° 121144

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Ricordat(ev)idi me

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Da nonsaltare

Pubblichiamo l’intervento di To-maso Montanari a Novo Modo, Firenze, 23 ottobre 2015.

Cosa c’è di male nell’affit-tare Ponte Vecchio a un club di milionari per farci

una festa privata e che lo chiuda per una serata lasciando fuori i cittadini? Non è un esempio astratto, ma qualcosa che è avvenuto in questa città qualche tempo fa, quando era sindaco di Firenze, l’attuale Presidente del Consiglio. E’ giusto? In quale orizzonte morale lo collochia-mo? C’è qualcosa di male? E, se sì, perché? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo porcene un’altra più larga: a che cosa serve il patrimonio arti-stico? È una domanda che gli storici dell’arte tendono a non porsi; lo danno per scontato. Può essere utile, per rispondere, chiedersi se qualcuno prima di noi si è posto questa stessa do-manda, e come ha risposto. Per cercare nella storia il momento giusto, forse possiamo cercare un momento in cui le cose an-davano peggio di come vadano oggi. Un momento in cui in Italia sembrava si fosse toccato il fondo: vorrei partire da un anno difficilissimo, e però già un anno di ricostruzione, il 1944. In quell’anno a Firenze finisce la guerra, ma c’è un’Italia ancora da liberare dai nazisti e dai fasci-sti, eppure si comincia a pensare a come sarà l’Italia nuova, e non solo l’Italia ma tutta l’Europa, che esce dall’esperienza forse più terribile della sua storia. In questo momento alcune persone si fanno queste domande, appa-rentemente banali o senza rispo-sta: a che cosa servono le cose fondamentali con cui abbiamo a che fare? A cosa serve studiare la storia? Perché paghiamo delle persone per insegnare la storia? Se lo chiede nel 1944 il grande storico Marc Bloch, un ebreo francese, che è stato anche uno dei primi storici del paesaggio. Marc Bloch aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, aveva studiato cosa succede alla conoscenza durante la guerra, scrivendo un bellissimo libro sulle false notizie nella guerra; partecipa alla Resistenza, prende le armi per difendere la libertà;

è senza libri e si mette a scrivere un libro che comincia così: “Babbo, spiegami a cosa serve la storia?. È una domanda – dice – che mi ha fatto un bambino di 12 anni che mi è molto caro”. Era suo figlio a chiederglielo. Lui dice che in effetti questa do-manda non ce la poniamo mai, ma adesso, durante la guerra, senza libri per le mani, messo di fronte alle cose ultime, io sento il dovere di pormi la questione della legittimità della storia. E risponde così: “La conoscen-za della storia serve a costruire una democrazia, attraverso la formazione di cittadini liberi e consapevoli. Nella nostra età, avvelenata dalle tossine della propaganda e della menzogna, è una vergogna che a storia non si studi il metodo critico della storia”. Si dice sempre che il passato serve a capire il presente; è vero, ma Bloch dice “nessuno che non abbia una forte aderen-za al presente e il desiderio di cambiare il futuro, può capire la storia. Se tu non sei interessato al presente, non sei uno storico, sei un erudito. La storia non è la scienza del passato, è la cono-scenza degli uomini nel tempo”. Passato, presente, futuro. Negli stessi mesi in Italia, il più grande storico dell’arte Roberto Longhi, di fronte alle rovine di Genova distrutta dai bombar-damenti, scrive una bellissima lettera al suo allievo, Giuliano Briganti (a suo volta grande

storico dell’arte, e autore di un’importante storia dell’arte per le scuole). Scrive Longhi: “E’ colpa nostra se l’Italia è stata distrutta dai bombardamenti. Avremmo dovuto dire di più quali erano i valori da protegge-re”. Firenze era stata dichiarata città aperta, Roma anche perché erano città d’arte e, dunque, qualcosa si era salvato: di Genova nessuno si era interes-sato perché non era avvertita come una città d’arte. Longhi dice: “Dobbiamo cambiare nel futuro. Dobbiamo fare in modo che ogni italiano impari, fin da bambino, la storia dell’arte come una lingua viva. Non per essere colto o erudito, ma per avere coscienza intera della propria nazione”. Perché dice così? Perché in Italia non siamo mai stati una nazione per via di sangue. Se ci facciamo le analisi del sangue storico, siamo una nazione felicemente meticcia. Non c’è un’italianità pura: ci siamo messi insieme nella storia soprattutto attraverso la cultura. Nessun’altra nazione europea è nazione, come noi, attraverso la conoscenza, la storia, l’arte, la cultura. Potremmo dire che tutti siamo italiani per iure soli, per il diritto del suolo, per que-sta appartenenza biunivoca degli italiani al paesaggio e al patri-monio e del paesaggio e del pa-trimonio agli italiani. Il primo che ha usato questa espressione, “appartenenza biunivoca”, è

stato il costituzionalista Paolo Maddalena (che è stato vice presidente della Corte Costitu-zionale) che dice “noi pensiamo che tutto questo patrimonio ci appartenga, ma noi appartenia-mo a questa tradizione, a questo territorio, a questa storia”. In un paese in cui, fino all’avvento della televisione, un veneziano e un siciliano parlavano due lingue diverse, eppure qualcosa ci univa.Negli stessi mesi del 1944, Piero Calamadrei, uno studioso di diritto ma che scrive una lettera al figlio dicendo che se avesse potuto scegliere avrebbe fatto lo storico dell’arte o l’archeologo quindi era anche lui legato a questi beni comuni, era rettore dell’Università di Firenze. Lui chiede agli americani di poter riaprire subito l’Università, nonostante le macerie e i ponti saltati. “Questo paese si rimette in piedi studiando”. Riapre l’U-niversità e pronuncia un discor-so dal titolo “L’Italia ha ancora qualcosa da dire”. In questo di-scorso parla molto di paesaggio e di opere d’arte. C’è un passo in cui dice “io non so se la Ma-donna del Parto, che mi è caris-sima più di una persona viva, si sia salvata o meno”. Il Comitato di Liberazione di Monterchi gli scriverà una bella lettera per dirgli che sì, la Madonna del Parto è viva. Calamandrei, in questo discorso, racconta che lui e un gruppo di amici (i fratelli Rosselli, Galante Garrone e altri) il sabato lasciavano Firenze perché c’erano le parate del “Sabato Fascista”, sfuggivano “a questa città corrotta per cercare nel paesaggio”, dice Calaman-drei con parole che sembrano del Risorgimento, “il vero volto della patria”. Parole che ci sembrano lontane, retoriche: il volto della patria nel paesaggio, nelle colline toscane? Calaman-drei era uno che nel 1941, per parlare di politica e di libertà in un momento in cui il Fascismo lo proibiva, scrive un libro che ci sembra assurdo: “L’inventa-rio della casa di campagna”. E’ un libro che stampa per pochi amici, 150 persone, e racconta che cosa è la libertà e che cosa è la giustizia attraverso la sua esperienza del paesaggio. Per

di Tomaso monTanari La fiammadel peccato

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esempio racconta che, quando lui era bambino e andava a cer-care funghi nel bosco, quando non li trovava perché qualcuno ci era già passato prima, non ci rimaneva male, ma diceva che non poteva capire come chi andava per il bosco non pensasse a chi deve venire dopo. Ecco il nostro rapporto con l’ambiente e con i beni comuni: che cosa siamo noi? Padroni? Il governo Renzi, nelle pubblicità in televisione per promuovere la legge cosiddetta “Sblocca Italia,” ha usato il motto “Padroni in casa propria”. Qualcun altro, Papa Francesco, ha detto “siamo custodi del Creato”. Sono due modi diversi di guardare ai beni comuni: padroni o custodi? I nativi americani dicono “non abbiamo ereditato la terra dai nostri nonni, l’abbiamo in pre-stito dai nostri nipoti”.In quegli anni intorno al ‘44 si riflette moltissimo su quale rapporto c’è fra la libertà e la giustizia e cose come l’arte, la storia, la natura e il paesaggio. Il risultato di tutto questo in Italia è che noi, unico paese al mondo, abbiamo messo fra i principi fondamentali dell’I-talia da ricostruire, i primi 12 articoli della Costituzione, il paesaggio e l’arte. All’articolo 9, che dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Ecco che salta fuori questa parola, “nazione”, che dopo il Fascismo non si poteva quasi pronunciare e la si mette accanto al paesaggio e l’arte: siamo italiani perché abbiamo un rapporto speciale con l’arte e il paesaggio. E non è un rapporto chiuso: se siamo tutti italiani iure soli , siamo aperti agli italiani che arrivano con i barconi sulle nostre coste; è un’identità che non è come le radici di un albero che ci tiene fermi a terra, è come l’acqua di un fiume che scorre e raccoglie tutte le acque degli affluenti e però andiamo tutti in una stessa direzione. Questa è l’idea di tradizione, che non è legata al passato, bensì al futuro. Il più antico vincolo italiano che si conosca è del 1162: si proibisce di distruggere la colonna Tra-iana, che era in quel momento

il campanile di una chiesa fem-minile benedettina. Il Senato di Roma dice che nessuno la può distruggere perché “deve durare finché il mondo duri per l’onore pubblico della città di Roma”. Non perché è bella, ma perché ha a che fare con la città, cioè con la Politica. Il patrimonio culturale è un progetto per il futuro: non proteggiamo queste cose perché hanno a che fare con il passato, ma perché hanno a che fare con il futuro. In Italia il patrimonio culturale non è la somma delle cose belle dei ric-chi, non è nemmeno la somma dei musei; è lo spazio pubblico, perché le piazze, i palazzi civici, le strade in Italia sono belle, ma il loro valore ultimo non è quello estetico; quelle cose sono belle perché erano di tutti, erano i luoghi della comunità, erano lo spazio e i beni comuni. Allora difendere il patrimonio culturale oggi non vuol dire difendere il privilegio di chi ha più soldi; vuol dire difendere la nostra possibilità di avere uno spazio comune. Uno scrittore americano, Jona-than Franzen, ha scritto recen-temente che i musei americani sono visitati da tanti cittadini americani, anche dei più poveri, perché sono uno dei pochi luo-ghi dove non si può esibire un consumismo sfacciato. Dentro

un museo si è tutti uguali. Ora, quello che vale per un museo americano, per noi vale non solo nei musei, ma nello spazio pubblico delle nostre piazze, dei nostri ponti. Se io affitto Ponte Vecchio alla Ferrari, non faccio male alle sue pietre che non sentono male e che possono attendere tempi più civili e più giusti; faccio male a noi, faccio male a quel progetto della Costituzione. Perché l’articolo 9 non è da solo, ma sta fra i primi 12 principi fondamentali e lo capisco se, per esempio, capisco il primo, la sovranità appartiene al popolo. Per tanto tempo il patrimonio culturale italiano ha legittimato la sovranità dei papi, dei granduchi a Firenze, dei duchi di Mantova, degli Estensi, delle grandi famiglie nobili. Dopo la Costituzione la storia si ribalta: il patrimonio culturale legittima, manife-sta, rappresenta la sovranità del nuovo sovrano: voi, noi, ciascuno di noi. Anche chi non ha la casa o neppure un euro è un sovrano, e nei simboli e nella sostanza della sua sovranità ci sono gli Uffizi, c’è il Colosseo. Tutto questo è vero se noi non lo sottomettiamo ad altre leggi che non sono quelle della Costi-tuzione.Nella costituzione c’è anche l’articolo 3, il più bello forse, il più alto. Guardiamo come è stata scritta la Costituzione: le stesse persone che hanno scritto l’articolo 3 hanno scritto anche il 9. Calamandrei, Lelio Basso, Aldo Moro, Concetto Mar-chesi, Giorgio La Pira: persone che hanno scritto per intero la Costituzione. Nell’articolo 3 c’è scritto che la ragione sociale della Repubblica Italiana è il pieno sviluppo della persona umana, attraverso l’uguaglianza. Questo è il fine, il motivo per cui stiamo insieme. L’uguaglian-za sostanziale, di fatto.

E poche cose come il patrimo-nio artistico, il paesaggio, sono strumenti per costruire l’ugua-glianza: di fronte a questi siamo davvero tutti uguali. Nello spa-zio pubblico non siamo sudditi, non siamo fedeli e soprattutto oggi non siamo clienti o desti-natari di un messaggio pubblici-tario, di un marketing o di uno storytelling. Siamo cittadini sovrani. C’è una condizione per esercitare davvero questa so-vranità, ed è la conoscenza. Per questo l’articolo 9 è composto di due commi: la ricerca scien-tifica e tecnica e lo sviluppo della cultura stanno insieme al paesaggio e il patrimonio. Per-ché il patrimonio culturale è un grande luogo di costruzione e redistribuzione della conoscen-za. Se noi vogliamo entrare da sovrani e non da sudditi nello spazio pubblico e, dunque, nella democrazia, ecco la politica. Che viene da polis, città e que-sto in Italia significa un grande rapporto diretto con le città di pietra, materiali, storiche. Se io voglio essere cittadino sovrano ho bisogno che il patrimonio culturale continui a produrre conoscenza e a redistribuirla. Finché è questo, è un luogo dove si costruisce l’uguaglian-za. Se invece lo assoggetto alle regole del mercato, produrrò non cittadini ma clienti. E noi abbiamo bisogno di cittadini se vogliamo una democrazia viva; se pensiamo che in Italia il fatto che voti meno del 50% dei cittadini sia un problema, allora fare del patrimonio culturale pubblico una macchina per far soldi e metterlo al servizio del mercato è sbagliato.Siamo nell’auditorium di Sant’Apollonia. La santa era la protettrice dei dentisti; fu condannata a morte e bruciata. Nel soffitto c’è scritto in due cartigli: “con il ferro non si di-strugge, non si strappa la virtù” e “le fiamme non domano le fiamme”. Si intendeva dire che anche dando fuoco a Sant’Apol-lonia non si sarebbero domate le fiamme della sua fede. La domanda è: le fiamme della democrazia, della virtù civile, dell’uguaglianza, del pieno sviluppo della persona umana, saranno domate dalle fiamme del mercato e del denaro? La risposta dipende da noi.

Pubblichiamol’interventodi TomasoMontanaria NovoModo

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Il conforto spirituale sul luogo di lavoro può avere una sua utilità, discutibile certo, ma non così incom-prensibile. Certo in uno stato laico sarebbe opportuno che, se all’interno di uno spazio pubblico, si decide di creare uno spazio adibito a tale conforto, questo fosse disponibile a tutte le confessioni. Capiamo che questo spesso non sia sempre possibile e possiamo perfino comprendere, pur ritenendolo sbagliato, che si possa adibire tale spazio alla confessione maggioritaria. Se però tale spazio viene approntato, sotto forma di cappella, all’interno della Regione Lazio e tale cappella, per il suo funzionamento costa ai contribuen-ti, mussulmani e buddisti inclusi, 200.000 euro all’anno ecco qualche problemino si pone. Problema che si è posto anche il presidente Zingaretti che infatti ha annullato la contri-buzione e, immaginiamo, chiuso la cappella. Immaginiamo anche però che lo sconforto per i dipendenti della Regione Lazio sia durato poco

visto che, nelle immediate vicinanze degli uffici della regione trattandosi di Roma, ci sono ben 7 Chiese in cui trovare, fuori dall’orario di lavoro, il giusto conforto spirituale.

Onoratissimo, si è detto il buon Ivan Scalfarotto per essere stato inserito dal prestigioso Economist fra le 50 persone più influenti nel mondo in tema di cultura della diversità, la Global Diversity List. Motivazioni cristalline: “Ha sostenuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso, l’introduzione del permesso di paternità, il diritto dei transessuali al cambio di sesso”. Sì, ma nel Rwanda Burundi, non certo in Italia, dove di tutto ciò non risulta traccia. E, infatti, per dimostrare quanto fos-se influente il Governo, per bocca della Santa Maria Elena Boschi, si è incaricato di far slittare per l’ennesima volta l’approvazione in Parlamento della legge sulle unioni civili. E sì che Renzi aveva promesso l’approvazione più volte, prima a primavera 2015 (ante elezioni regionali) e poi entro ottobre e prima della legge di stabilità perché “è un patto di civiltà al quale non rinunciano”. E, infatti, Renzi ha dato ordine di rimettere la legge in calendario (ma quello greco, delle calende). Con buona pace dell’influentissi-mo influenzato Scalfarotto.

riunione

difamiglia

i Cugini EngEls lo Zio di TroTZky

lE sorEllE marx

Comicità regionale

BoBo

La Chiesa e la Regione

Questionedi influenza

Il Papa è preoccupato. Vorrei vedere, direte voi, con gli arresti, il marcio nella curia e tutti gli scandali romani…Niente di tutto questo in realtà. Il Santo Padre è infatti preoccupato per l’imminente visita pastorale a Firenze. Alcuni segnali arrivati da Palazzo Vecchio infatti non tranquillizzano Francesco. Intanto il sindaco Nardella gli ha mandato un sms con scritto “a causa dei cantieri della tramvia non usare la papamobile” e poi un certo Pradé ha detto che anche se gioca in casa al Franchi non può mettere la veste viola perché per esigenze di sponsor deve indossare la terza maglia blu. Ma più di tutto al Papa venuto dalla fine del mondo preoccupa l’insistenza di un tale Giani, che gli chiede lumi sugli orari degli sposta-menti papali per coordinare le sue 1.500 inaugurazioni quotidiane e lo invita a chiudere la messa invece col canonico “andate in pace la mes-sa è finita” col più efficace “lodevole iniziativa”

il monsignorE dEl krEmlino

I pensieridel Papa

“Mai contraddire il premier-segre-tario”. Come si sa, questo è il nuovo mantra che risuona da Predoi nella Valle Aurina a Lampedusa e i presidenti delle Regioni, che da sud a nord tutto lo Stivale rappresenta-no, quando hanno letto le agenzie con la frase dal sen fuggita di Renzi - “Adesso ci divertiamo, ma sul serio” - non hanno messo tempo in mezzo e all’incontro convocato da Renzi per discutere con loro della Legge di Stabilità 2016, si sono acconciati per soddisfare al massimo il premier. Ecco, dunque, Chiamparino – coordinatore delle Regioni – che, diciamolo, proprio un simpaticone non è, bussare alla porta e affacciarsi timidamente indossando un naso finto rosso, occhiali e baffi finti come il nostro nonno Groucho, trombetta in bocca e coriandoli, che fa Cucù. Segue Maroni che da buon chansonnier improvvisa “Ho visto un re” di Fo-Iannacci (pare che però Renzi ci abbia visto della sottile ironia nei

suoi confronti e non abbia gradito). A ruota Vincenzo De Luca vestito da Pulcinella che fa “uè ué”. Rossi, invece, si era preparato una serie di barzellette, ma Renzi non le ha volute neppure sentire, pare perché pisane. Mentre il premier ha gradito molto quelle di Zingaretti, noto negli anni giovanili della Fgci per essere un cabarettista. La Serracchiani, invece, nonostante gli sforzi, non ha fatto ridere nessuno. Come Catiuscia Marini del resto, rigida nel suo stile bolscevico-tode-sco. Maggiore fortuna hanno avuto

il trio Pigliaru-Crocetta-Emiliano che si sono prodotti in una vorticosa danza - misto di pizzica pugliese, tarantella siciliana e ballu tundu sardo - a cui anche il premier ha inteso partecipare accennando ad alcuni passi del ballo tipico toscano, il trescone (ogni riferimento a persone e cose realmente esistite è assolutamente casuale).Insomma, anche in questi riti degli incontri con le parti sociali sul bi-lancio, l’amato leader ha cambiato verso e tutto è finito, letteralmente, a tarallucci e vino.

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sia la forma espressiva è, soprat-tutto in occidente, un mutare continuo e un diversificarsi fra gli artisti e soprattutto con il passare del tempo. Gli attori di Pasolini spesso “recitano” male, ci sono sequenze lunghe e primi piani eccessivi, spesso inespres-sivi, ma questo è il linguaggio pasoliniano che non ha fatto, e forse non poteva fare scuola. Pasolini è un profeta-poeta o meglio un poeta-profeta, spesso estremista e quindi utilizzabile e apprezzabile e solo in parte, accoglibile. Il suo slancio è peda-gogico, ma i profeti (come gran parte dei pensatori idealisti) sono fatti così, basta non diventare discepoli acritici e fanatici e voler tradurre in azione reale la poesia. M. Non diciamo cose dissimili. Il mio formalmente era eviden-temente una forzatura riferita al fatto che, soprattutto nel cinema, la tecnica non è un elemento che

si può trascurare fino alle estreme conseguenze. In particolare negli anni in cui Pasolini girava, fatti di analogico, pellicola e cartape-sta. Pasolini sottodimensiona il lato tecnico a scapito di quello narrativo. La sua è scelta istintiva ma voluta. Il mezzo è funzionale all’espressione di un racconto, una lezione. Non solo artistica (che ci sta, comprendo e pure posso condividere), ma politi-ca e qui invece probabilmente differiamo ché il comunista vuole educare il popolo mentre il liberale si accontenta di infor-marlo. Sul linguaggio pasolinia-no concordo in pieno, l’assenza di valore tecnico (inteso come utilizzo alla perfezione del mezzo meccanico da cui il film dipen-de) è cifra, come tu giustamente noti, non replicabile. Però atten-zione, Muccino che non difendo sia chiaro, non dice (lo ricordava Andrea Minuz che di critica

Dopo l’intervento di Muccino sulla qualità del regista Pasolini, in redazione si è discusso. Questo il resoconto, stenografico si sarebbe detto una volta, di questo confron-to a due voci.M. Insomma ci voleva Muccino per farci ragionare su Pasolini.A. Ma ti rendi conto Muccino. Muccino che giudica Pasolini. Comunque lasciamo stare il pul-pitino e prendiamo in considera-zione la predica. M. La cosa triste è che, formal-mente, ha pure in parte ragione. Pasolini regista non è tecnica-mente all’altezza con i nomi che Muccino cita (non tutti in effet-ti) ma quello che Muccino non capisce (forse non può capire) è che Pasolini regista è volutamen-te un passo indietro al narratore, all’autore. Arrivo a dire che se il libro fosse stato oggetto diffuso alle masse nell’Italia di Pasoli-ni, egli non avrebbe sentito il bisogno di mettersi dietro una macchina da presa. È il bisogno di narrare, di educare (la cosa che personalmente amo meno di PPP, la più comunista) che muo-ve tutta la produzione artistica pasoliniana. Ma la polemica non è nuova. Sergio Leone non fu mai tenero con Pasolini. Sia sul piano cinematografico che pure (ahimè) su quello politico non sottraendosi alle paginate che il Borghese dedicava al “capovol-to” Pasolini, dove spiccava per infamia Pier Francesco Pingitore che avrebbe dato al Paese il baga-glino (vuoi mettere con Mamma Roma?). Insomma Muccino si inserisce in un contesto, magari involontariamente; anche se di-mostra di non aver capito molto di Pasolini. Il che, visti i suoi film, non stupisceA. Le tue osservazioni sono interessanti e acute, ma quel “formalmente” di Muccino che “ha ragione” è fonte di un gran-de equivoco che in tutta la storia, soprattutto moderna dell’arte tende, in molti casi devianti per un giudizio completo, a separare forma e contenuto. Divisione inesistente in arte, spesso gli innovatori si sono staccati dalle consolidate capacità professionali per procedere quasi con appa-rente dilettantismo, almeno per i canoni consolidati del tempo. La produzione artistica, quale che

Dialogo sul cinema di Pasolini con occhi diversi(o come render serioun post a bischero)

cinematografica vive su facebo-ok) qualcosa di molto diverso da quanto disse Fellini dopo aver vi-sto il girato di Accattone. Segno, se ci aggiungo quanto già detto su Leone, che un’insofferenza di chi ha inteso il mestiere di regista come combinazione (più o meno riuscita) di racconto e di tecnica, sul Pasolini regista è possibile e persino legittima. Certo dipende molto da chi la pronuncia.Pasolini è un regista che uti-lizza spesso le immagini della pittura italiana. Per decifrarlo a pieno suggerisco di vedere con attenzione La Ricotta. Nel 1963, egli crea dei tableuax vivants mettendo a confronto le Deposizione del Pontormo e quella del Rosso Fiorentino. Non a caso mette insieme le opere di due artisti che, seppure in maniera molto diversa, vanno oltre i canoni allora osannati di Michelangelo e Raffaello. Il Rosso, come Pasolini, rifiuta la “dolcezza” consolidata dei grandi maestri. Giuliano Briganti dice che la deposizione di Volterra è una “violentazione cubista”. Altri critici hanno visto nella sua opera un “non finito”. Il Rosso, si dice, era solito abbozzare le sue figure per poi addolcirle con pennellate successive. Il respon-sabile dello Spedale di S.Maria Nuova (forse un antico parente di Muccino) rifiutò una sua pala d’altare perché gli angeli gli “pareano diavoli”. Cosa direbbe il giovin regista di Mirò che nei suoi anni giovanili era frustrato perché “non sapeva disegnare”? In questi giorni ho rivisto Medea (1969) e Decameron (1971) non mi sono apparsi invecchiati, con il loro marchio pasoliniano. Quel marchio che non ammicca allo spettatore, anzi nel farci trapelare che i personaggi “recitano” che le tecniche non vogliono illuderci che assistiamo ad una cosa reale, ma rappresenta come le “sacre rappresentazioni” medievali, dove la Maria è la bella contadi-na che tutti conoscono. Pasolini può non piacere, sui gusti mai discutere, ma relegarlo fra i minori con la macchina da presa, questa sì è un’operazione che vuol “educare il popolo” su cosa è il “vero” cinema. M. Hai ragione. M’è venuta voglia di andare la cinemaA. Mica a vedere Muccino vero?M. No, no tranquillo.

di aldo Frangioni E miChElE [email protected] @michemorr

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Ma in questi giorni di comme-morazioni forse vale la pena di riprendere una discussione e anche riconsiderare alcune valutazioni. Lo hanno fatto in due distinte occasioni Claudia Conforti e Ulisse Tramonti nella scorsa settimana nei giorni “dell’80°compleanno”delle due opere, e lo ha ripreso la stessa Conforti in una lezione agli architetti fiorentini. Considerazioni e valutazioni che, pure confermando quanto la critica ha consolidato nel tempo riguardo al diverso giudizio sul valore delle due opere, ne con-sente una lettura più articolata.In primo luogo la considerazio-ne che la stazione del Gruppo Toscano (costituito da Giovanni

Michelucci e dai giovani laureati Gamberini, Baroni, Berardi, Guarnieri e Lusanna) ha un’im-pronta razionalista che ha a poco a che vedere con il razionalismo europeo. Una stazione che recu-pera dalla tradizione classica, in particolar modo fiorentina, un linguaggio attraverso cui filtrare la contemporaneità. Il fabbri-cato viaggiatori della stazione di Firenze (gli altri edifici su via Alamanni e le pensiline dei binari sono di Angiolo Mazzoni) richiama più la compattezza volumetrica di Palazzo Pitti che l’articolazione spaziale del padiglione per l’Esposizione Universale di Barcellona di Mies van de Rohe, come ha affermato Claudia Conforti nel suo inter-

vento nella Palazzina Reale. La citazione classica dell’architrave a fasce con cornice modanata posta a coronamento del fabbri-cato viaggiatori non può essere letta che in questa luce. Anche i materiali denotano un’atten-zione alla tradizione con un uso molto esteso ed articolato degli elementi lapidei che costituiso-no il vero materiale costruttivo della stazione, sia in alzato sia in pianta. Un linguaggio contem-poraneo filtrato attraverso lo sguardo dalla classicità è quindi la risposta a quanto chiede nel 1932 Romano Romanelli quan-do, dalle pagine de La Nazione dice, in polemica con il progetto della stazione redatto da Angiolo Mazzoni: “Quindi se Firenze potesse, fra le città, avere l’onore e la distinzione di non avere una stazione ferroviaria grandiosa, pur essendo città vivente nel tempo presente rimarrebbe fedele alle sue più belle tradizio-ni e ancora una volta avrebbe affermato quella verità d’arte che nel cammino degli eventi umani eternamente si rinnova in saecula saeculorum”.La Biblioteca Nazionale è rac-contata da Ulisse Tramonti, in un incontro tenuto alla Spazio A, come un edificio “monu-mentalista” del tardo periodo dell’eclettismo, con una orga-nizzazione in pianta elegante e funzionale e un rapporto studia-to con il cortile di Santa Croce, ma con una dimensione fuori scala rispetto alle architetture del contesto (a partire dalla Basilica Francescana) e con ambienti interni che denotano in alcuni dettagli (come le vetrate e anche alcune sale non di lettura) una certa (contraddittoria) atten-zione al razionalismo che nel frattempo si era affermato nel campo architettonico. Queste contemporanee riletture degli edifici inaugurati il 30 ottobre 1935, ed in particolare quella sulla fabbrica della Biblioteca, più articolata rispetto alla drasti-ca condanna di Grazia Gobbi nel suo” Itinerari di Firenze Moder-na”, ci pare tengano conto del fatto che la città è un organismo complesso fatto di parti, e di edifici, in continuo dialogo fra di loro e che i giudizi di valore estetico e formale, che pure sono legittimi e in alcuni casi necessa-ri, sono solo una parte del tutto.

Ci sono giorni che restano nella storia delle città. Il 30 ottobre del 1935 (XIII

EF) è uno di questi. A Firenze si inaugurano due grandi opere pubbliche. Nello stesso giorno a distanza di poche ore i cittadi-ni di una Firenze, solitamente polemica, possono vedere il Re e Costanzo Ciano che entra-no nel fabbricato viaggiatori della nuova stazione di Firenze e nella nuova Biblioteca Nazionale Centrale. Due opere che segnano, insieme allo stadio Berta (inaugurato circa tre anni prima), la “rinasci-ta” della città dopo il fallimento dell’amministrazione nel secolo precedente e i periodi grami dei primi anni del nuovo secolo e del primo dopoguerra. Una “rinascita” fortemente voluta da Luca Pavolini, influente gerarca fiorentino e uomo di cultura raf-finata, che vede nell’architettura lo strumento per l’affermazione di una nuova stagione di rilancio culturale della sua città, già pe-raltro avviato con la costituzione del Maggio Musicale Fiorentino nel 1933. La Biblioteca Cen-trale di Firenze (una delle due Biblioteche Centrali con diritto di stampa presenti in Italia, caso più unico che raro nel panorama internazionale) nasce dal proget-to del 1911 di Cesare Bazzani e dopo alterne e lunghissime vicende vede il completamento dopo 24 anni di lavoro. A dire il vero il progetto è stato comple-tato solo negli anni ‘60 con la costruzione del padiglione su via dei Magliabechi su progetto di Vincenzo Mazzei, un’ala del progetto del Bazzani rimasta incompiuta. La nuova stazione, o meglio il Fabbricato Viaggia-tori della stazione di Firenze, nasce dal progetto del Gruppo Toscano con un concorso del 1932, concluso nello stesso anno e viene completato in poco più di due anni di lavori.Due architetture con storie, vi-cende e fortuna critica profonda-mente diverse. La nuova stazione di Firenze si affermerà come una delle icone del razionalismo eu-ropeo mentre la nuova biblioteca stenterà a farsi strada nella storia dell’architettura italiana. Potenza della critica e della evocazione del potere politico.

Firenze si dividetra tra eclettico e moderno

di gianni [email protected]

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Carlo Cantini non sono altro che una metafora della vita, del tempo che sembra non passare, ma che lascia nei nostri volti e nelle nostre anime dei segni incancellabili.

La galleria “Schema” di Carmignano ospita fino al tutto novembre una serie

di opere recenti del fotografo / artista fiorentino Carlo Cantini. Da sempre immerso nell’am-biente artistico e creativo di Firenze, cresciuto a contatto con i diversi protagonisti e le diverse forme espressive in cui essi si sono prodotti, Cantini alla fine degli anni Cinquanta decide di cominciare ad utilizzare lo stru-mento fotografico, acquistando sempre di più la padronanza della tecnica e del linguaggio, e qualificandosi attivamente fino dai primissimi anni Settanta, non solo come testimone della vita artistica, ma ponendosi anche come protagonista, con esposizioni personali e collet-tive. Dopo essersi avvicinato a correnti diverse, dalla pop art all’iperrealismo, dalla body art all’arte povera, inizia un percor-so di accostamento all’arte con-cettuale, approfondendo i temi, congeniali alla fotografia, della serialità e della reiterazione. Le sue opere più recenti affron-tano la tematica del tempo e della consunzione della materia inorganica, mettendo a con-fronto i due concetti di staticità (apparentemente inalterabile) e di dinamicità (apparentemente impalpabile), incarnati rispetti-vamente nella materia rocciosa e nello scorrere ritmico ed inar-restabile dell’acqua, che tutto dilava e consuma, lentamente ma inesorabilmente. Da questo confronto / scontro nascono le sue “Abrasioni”, segni super-ficiali o profondi che l’acqua lascia sul terreno più solido e compatto, in quella eterna terra di confine dalla sagoma mu-tevole che è il bordo del mare, in quella sorta di apparente immobilità in cui solo la dimen-sione del tempo permette di apprezzare i mutamenti. L’acqua scorre veloce o lenta, insidiosa o impetuosa, lambisce o morde la costa, accarezza o schiaffeg-gia gli scogli, leviga o sgretola la pietra, modella e trasforma la roccia. L’acqua che non ha forma si adatta ad ogni forma, ma alla fine è essa che determina la forma della terra. Nel giuoco degli opposti che si scontrano e si completano, le “abrasioni” di

di danilo [email protected]

Le abrasionidi Carlo Cantini

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sviluppare maggiormente le loro competenze come “steward” e lasciar perdere il loro istinto di “conservatori collezionisti”. Semplicemente perché non si può collezionare tutto: “Questo modello è troppo difficile da perseguire. Una rete di steward può ottenere maggiori risultati di un gruppo di collezionisti disconnessi (anche se in qualche

caso competitivi)”. Anche il progetto della Library of Congress di conservare tutti i Tweet appare fuori dalla portata dei conser-vatori anche se supportati dalle migliori tecnologie. Non ci sono scappatoie al problema della tensione fra reale e virtuale, fra scaffale e nuvola. Sono questioni da affrontare senza timore e con coraggio. Un esempio di ciò è

la questione degli e-book nelle biblioteche: è possibile prestare e-book senza limitazioni nelle biblioteche come si fa con i libri di carta? Così diventerebbero dei competitori mortali per le librerie? Molti paesi europei si sono dati dei programmi per garantire il pagamento dei diritti agli autori di questi supporti digitali: può essere un approccio interessante, soprattutto se allar-gati ad ambiti sempre più ampi perché sempre più le biblioteche tendono a spostare sulla rete non solo l’accesso ai propri cataloghi, ma anche al prestito e, come ben si intuisce, gli e-book in questo campo farebbero la differenza.Ma affrontare questi temi non significa far venir meno la funzione culturale e sociale della biblioteca, semmai vuol dire rinnovare quella missione alla luce della rivoluzione tecnologi-ca in corso. Fino a ieri i grandi players del commercio digitale (Google, Amazon, Facebook, ecc.) ritenevano di star creando una nuova società e non solo un nuovo mercato, ma forse ci sono ripensamenti o almeno un mag-giore equilibrio fra l’attuale realtà e quella a cui si grande. È così, direi, che forse possiamo leggere l’apertura da parte di Amazon della prima libreria materiale.

Destino assai controver-so e critico quello delle biblioteche negli anni del

dominio di Internet e della de-materializzazione della conserva-zione delle informazioni e della trasmissione della cultura. Tanto che più d’uno si è interrogato se le biblioteche come luogo di conservazione e prestito di libri stessero diventando obsolete. Per evitare questo tragico esito molte biblioteche si sono dotate di ser-vizi di libero accesso ad Internet, PC, caffetterie e, addirittura, alcune biblioteche “senza libri” sono già realtà. Sembra che, grazie a queste iniziative, le bi-blioteche siano di nuovo abitate da tante persone (forse non tutti “utenti”, ma senz’altro “ frequen-tatori “). Ma non possiamo non domandarsi se sia auspicabile per le biblioteche un futuro da succursale della Starbucks o da nodo Internet. Certo, neppure possiamo pensare che le biblio-teche possano avere un futuro arroccandosi su una posizione da magazzino di antiquariato. In un nell’articolo sulla New York Review of Books dell’ottobre 2015, James Gleick (“What Li-braries can (still) do”) diceva che “fino a quando le nostre anime digitali non avranno lasciato i nostri corpi per lievitare nella nuvola, noi rimaniamo parte dei cittadini del mondo fisico, dove ci sarà ancora bisogno di libri, microfilm, diari e lette-re, mappe e manoscritti, e di esperti che sanno come trovarli, organizzarli e condividerli con altri”. Ecco, dunque, il tema: la biblioteca può continuare a svolgere una specifica funzione sociale e culturale nella misura in cui - al culmine della rivoluzione informatica - vi saranno ancora quei versatili specialisti dell’in-formazione che sono i bibliote-cari. Secondo alcuni, addirittura, le biblioteche sono l’ultimo spazio libero per l’incontro e la condivisione della conoscenza, dove la nostra attenzione non può essere comprata o vendu-ta. Essa dà forma fisica a quel principio di accesso pubblico alla conoscenza che sta al fonda-mento della democrazia, nonché della nostra Costituzione. John Palfrey, nel suo “BiblioTech” , dice che i bibliotecari dovranno

di simonE [email protected]

Biblioteche, quale destino?

Il migliore dei Lidipossibili

Trasparenze vaticane

Disegnodi Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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Le guerredi Carlo Nannini

di laura [email protected]

Scolpire e fare nascere un’immagine da un unico blocco lapideo sono le

abilità significative dello scul-tore per antonomasia, per colui che è capace di dare una forma concettuale alla non-forma tan-gibile e concreta dinanzi a sé, grazie alla possibilità innata di saper vedere oltre la superficie e l’apparenza, sondando la mate-ria e cogliendo nel profondo la sua intima essenza. Così Carlo Nannini opera sulla pietra e sul marmo: un intenso labor lime che dal significante conduce al significato, che dal medium lapideo porta allo svelamento di un’immagine reale elevata a un piano aulico di rappresen-tazione e concettualizzazione. L’artista porta avanti una vera e propria ricerca sulla resa monu-mentale dei miti, dei simboli e dei linguaggi dell’attuale e della passata società mass mediatica, trasfigurandoli in Storia, in modo da trascendere il tempo e lasciare un’impronta conside-revole. In contrasto con l’oblio delle coscienze le scultore pop di Carlo Nannini conquistano lo spazio e si pongono con forza e vigore agli occhi dello spettatore, per rianimarlo nella memoria e nel presente, per porlo nell’ottica di trovarsi di fronte alla resa concreta di un idolo interpretato. Le effigi scultoree acquistano vita e perdurano nella vita stessa per essere ammirate e rinnovare co-stantemente il proprio ruolo di simbologia: un’allegoria cultura-le, nella quale si racchiudono la potenza dello scalpello e la precisione del dettaglio, nonché una visione aperta e totale sulla cultura contemporanea. Proprio in quest’ottica, sabato 7 novembre nello spazio espo-sitivo più piccolo del mondo - Quadro 0,96, Fiesole – verrà presentata la nuova installazione dello scultore, che rilegge in chiave pop le Guerre che hanno contraddistinto la modernità. L’opera è una grande narrazione epica, ove il monolitico si com-penetra con la memoria dello spettatore, dà forma all’idea e la rende concreta nella tridimen-sionalità della scultura lapidea, configurandosi come un’armata variegata, essenzializzata nelle

forme, che simula un evento devastante; piccoli monumen-ti, ma immensi nel concetto, che rievocano il ricordo e lo rendono permanente nella co-struzione stabile dell’espressione d’arte; reliquie di un passa-to-presente e di un presente remoto, in continuità materiale e spirituale; sculture comme-morative in atto; mausolei in potenza della contemporaneità; pezzi di un gioco di forze ove non esistono né regolamenti né dadi che ne dettano la sorte. “Guerre” riporta alla memoria che gli strumenti del passato sono gli strumenti del presente, che le immagini di ieri sono le icone dell’oggi.

Sabato 7 novembre alle ore 12 a Quadro 0,96 Fiesole

via del Cecilia, 4 Carlo Nannini (presentato da Laura Monaldi) espone le sue

“Guerre 1915-2015”.

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razione è la natura: “noi siamo neozelandesi, quindi dobbia-mo risolvere i nostri problemi culturali nel nuovo contesto delle isole che abitiamo, un

contesto dotato di una ricchez-za potenziale infinita alla quale abbiamo attinto pochissimo”. Lo stesso che evoca in A Song of Islands (1946), un brano orchestrale ispirato dal quadro di Rita Angus Central Otago. Il primo incarico accademico è quello di part-time tutor alla Victoria University di Wellin-gton (1947). Alla fine degli anni Quaranta comincia a scri-vere il ciclo di tre sinfonie che costituisce uno dei momenti più alti della sua carriera.Symphony no. 1 (1949) è ispi-rata alle Port Hills, una catena collinare situata nei pressi di Christchurch. Lilburn ama tra-scorrere il tempo libero a con-tatto con la natura, traendone le impressioni che poi riverserà nelle sue composizioni. La prima si tiene a Wellington il 12 maggio 1951. La stampa l’accoglie con entusiasmo: è la

Il 2015 segna il centenario della nascita di Dou-glas Lilburn, che viene

considerato il più importanze compositore neozelandese contemporaneo. Purtroppo la ricorrenza, eccettuati la Nuova Zelanda e pochi altri paesi, è stata dimenticata. Douglas Gordon Lilburn nasce il 2 novembre 1915 a Wanga-nui, una cittadina a circa 200 km da Wellington. È l’ultimo di sette figli. Il padre è un piccolo proprietario terriero di origine scozzese. Fino a 9 anni vive nella fattoria di Drysdale: una vita isolata ma idilliaca. Qui impara a suonare il piano e canta nel coro della scuola. Dopo aver frequentato il Can-terbury College di Christchur-ch si trasferisce a Londra, dove studia composizione con Ral-ph Vaughan Williams (1937-39). Qui scrive The Drysdale Overture (1937), uno dei primi pezzi orchestrali, dedicato al padre. Si nota l’influenza di Sibelius, che in questi anni, con Vaughan Williams, rappre-senta il suo principale punto di riferimento.Rientrato in patria, scrive la prima composizione di rilievo, Overture: Aotearoa, che viene eseguita a Londra per il cente-nario della nascita della Nuova Zelanda (1940). Il titolo mostra un certo interesse per la cultura maori (Aotearoa è il nome indigeno dell’isola).Quindi torna a Christchurch, sede di un ambiente artisti-co vivace che stimola varie collaborazioni. Il poeta Allen Curnow scrive il testo che Lilburn inserisce in Landfall in Unknown Seas (1942), per ar-chi e voce narrante. La regista Edith Ngaio Marsh gli com-missiona le colonne sonore di varie opere teatrali, fra le quali A Midsummer Night’s Dream (1945) e Macbeth (1946). Con la pittrice Rita Angus costru-isce un rapporto sentimentale breve ma intenso. Inoltre scrive alcune colonne sonore per i documentari della National Film Unit, l’ente cinematogra-fico statale. Nel frattempo elabora la propria filosofia musicale. L’e-lemento centrale della sua ispi-

prima sinfonia scritta da un neozelandese che venga esegui-ta in pubblico. Nell’orchestrale A Birthday Offering (1956) si nota invece un uso misurato della tecnica dodecafonica. Symphony no. 3 (1961) si diffe-renzia dalle altre due sinfonie, perché contiene gli accenti dodecafonici già comparsi in A Birthday Offering. Lilburn è attratto dal fermento che ha partorito il Groupe de Recher-ches Musicales (GRM) di Pari-gi, lo Studio für Elektronische Musik di Colonia, il BBC Ra-diophonic Workshop di Londra. Decide quindi di viaggiare per conoscere questa nuova realtà musicale. Visita Darmstadt, dove conosce Stockhausen, quindi Londra, Toronto e altre città. Rientrato in patria, si dedica interamente alla musica elet-tronica. Il primo risultato è Five To-ronto Pieces (1963). The return (1965) ha un testo bilingue (inglese e maori). Una scelta insolita ma naturale: l’autore è Alistair Campbell, poeta anglo-maori. Nel 1966, presso la Victoria University, fonda il primo studio di musica elettro-nica dell’emisfero australe. Soundscape with Lake and River (1979), brano elettroacustico per nastro, può essere consi-derata la sua ultima compo-sizione. Nello stesso periodo termina l’attività accademica, ma continua a lavorare riela-borando varie colonne sonore. Inoltre fonda il Lilburn Trust per promuovere i giovani ta-lenti. Negli ultimi anni di vita mostra un forte interesse per la musica maori. Il Lilburn Trust finanzia infatti la produzione del CD Te Kū te Whē (Rattle, 1994), dove Hirini Melbour-ne e Richard Nunns suonano strumenti tradizionali maori. Negli anni successivi emergono vari problemi di salute: il è afflitto dalla sordità e da una crescente cecità. Le sue condi-zioni peggiorano rapidamente, fino alla morte che lo coglie il 6 giugno 2001 nella sua casa di Wellington.

La voce della naturadi alEssandro [email protected]

Scavezzacollodi massimo [email protected]

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ne”, è la frase più ricorrente per descrivere la mezzadria. Immobi-lismo, sussistenza, paternalismo e riuso sono le caratteristiche di quel mondo. Nella sezione storica, a cura di Stefano Bartolini, si tocca con mano quell’universo: per la sala, appesi alle pareti o sul pavimento, ci sono oggetti d’uso quotidia-no. Da un lato quelli domestici, dall’altro quelli di lavoro; ma nella mezzadria, lavoro e casa sono un tutt’uno. Certi manufatti posso-no stupire, come un bossolo di

proiettile svuotato e riadattato a borsa dell’acqua calda. Coadiuvati da pannelli divulgativi, curati gra-ficamente da Osman Bucci, questi oggetti mostrano la situazione di povertà dei mezzadri, costretti a riusare ogni cosa perché non pote-vano permettersi beni di consumo. Si può ammirare, e toccare con mano, le fasi della costruzione dei cappelli di paglia, un tempo fatti dalle donne, ma pure strumenti agricoli consumati, come falci, rastrelli, un aratro e il giogo per i buoi: tutti disposti per mostrare il

La mezzadria toscana è stata spesso descritta come una società armonica, che alla

fine fu sopraffatta da un mondo frenetico. Fu un passaggio repen-tino, traumatico, se si pensa che la mezzadria era ancora largamente diffusa fino a mezzo secolo fa. Un passato che diventa mito di pari passo con la riscoperta del mondo agricolo, tramite colture biologiche e ecosostenibili che si propongono come alternative alla produzione alimentare intensiva e alla crisi occupazionale.La mostra “La mezzadria nel No-vecento: storia, lavoro, memoria”, allestita in Palazzo Sozzifanti di Pistoia e realizzata da Fondazione Valore Lavoro, col contributo di Fondazione Caript, ci riporta in quel passato non così lontano e al contempo tanto attuale. La mostra crea subito empatia col visitatore. Nella sezione memoria, due brevi filmati, a cura di Francesca Perugi, ci accolgono e ci salutano: vecchi mezzadri raccontano quel mondo, descrivendo i ritmi e le abitudini, narrando i rapporti con i padroni, tra paternalismo e aperto conflitto, fino agli scontri sindacali del se-condo dopoguerra e l’esodo verso l’industria. “Non si stava male, ma eri sempre sottoposto al padro-

di FranCEsCo [email protected]

La mezzadria nel ‘900in mostra a Pistoia

ciclo produttivo agricolo. Gli og-getti in mostra, davvero numerosi, sono stati prestati da collezioni private e dal Museo Casa di Zela di Quarrata.La parte documentaria ridimen-siona il mito della mezzadria come mondo armonico. Sono documen-ti e foto provenienti dall’Archivio fotografico della Cgil di Pistoia, Archivio Federmezzadri di Pistoia e Biblioteca Forteguerriana. I pannelli narrano le lunghe lotte dei mezzadri nel 900’ e fanno da corredo a libretti colonici, pagine di giornale, ma anche foto di ma-nifestazioni e volantini di scioperi intrapresi dalla Federmezzadri. Si va dai fermenti dei primi del Novecento, passando per le fragili conquiste del primo dopoguerra e la reazione fascista, sino alle lotte d’epoca repubblicana e il tramonto del sistema mezzadrile toscano. Tra queste due stanze, vi è la sezione “Gli artisti pistoiesi e il lavoro della terra”, a cura di Maurizio Tuci. Qui si possono ammirare dipinti sul tema della mezzadria: ambienti rurali dove vi sono contadini intenti a lavorare, ma anche ritratti di coloni nei loro abbigliamenti quotidiani.. La mostra non può che coinvolgere il visitatore, che riconosce, in essa, pezzi della sua memoria personale e oggetti talvolta ancora presenti, come cimeli, nelle nostre case.

Nella zona di Via Villamagna molte strade sono dedicate a città gemellate con Firenze (che vanta 21 gemellaggi, oltre a vari “patti di amicizia”, “patti di fratellanza” e “progetti di cooperazione”, nel solco di una tradizione inizia-ta dal sindaco La Pira con il gemellaggio con Reims il 3 luglio 1954); fra le altre c’è la città di Nanchino, gemellata con Firenze dal 22 febbraio 1980 e alla quale è intitolata una strada alla Nave a Rovezzano.Premesso che questa vicenda non ha niente a che fare con Firen-ze e senza voler assolutamente impartire lezioni di storia, può darsi comunque che alcuni di coloro che abitano o percorrono Via Nanchino, intitolata a quella che fu la capitale della Cina dal 1356 al 1403 e anche in epoca più recente, non sappiano che cosa accadde in quella città fra il dicembre 1937 e il febbraio 1938 e forse quel che segue può essere

per loro di qualche interesse.Durante la guerra sino-giappo-nese del 1937, l’esercito giappo-nese incontrò una fiera resistenza vicino a Shangai, dove si svolse una cruenta battaglia. L’imperato-re Hirohito ordinò allora ai suoi ufficiali di non rispettare le con-venzioni internazionali relative ai prigionieri di guerra e l’ordine fu preso alla lettera: anche se i fatti sono controversi, pare che durante l’avanzata verso Nanchi-no due sottotenenti giapponesi si cimentassero in una gara dove avrebbe prevalso chi per primo avesse decapitato cento prigionie-ri cinesi.I giapponesi iniziarono il 7 dicembre l’assedio della città, che cadde pochi giorni dopo, mentre gran parte dei soldati cinesi cerca-

vano di mimetizzarsi fra la popo-lazione civile. Una volta entrati in città i giapponesi diedero il via a un orribile massacro, noto anche come “lo stupro di Nanchino”, considerato che furono stuprate e poi uccise almeno 20.000 donne, comprese bambine e anziane.Le atrocità proseguirono per sei settimane: vennero indiscrimi-natamente massacrati civili e militari e non furono risparmiati neppure i bambini che venivano seviziati prima di essere sventrati a colpi di baionetta e poi lasciati a marcire sui marciapiedi; tribunali

internazionali hanno calcolato che furono vittime del massacro fra le 200.000 e le 350.0000 per-sone, anche se i giapponesi hanno sempre contestato queste cifre.All’epoca si trovava a Nanchino il tedesco John Rabe, ferven-te nazista e responsabile della filiale Siemens. Insieme ad altri residenti stranieri creò “L’area di protezione di Nanchino” dove offrì rifugio e sostentamento ad almeno 250.000 cittadini cinesi. Tornato in patria, scrisse ad Hitler denunciando le atrocità dei giapponesi e, per tutta risposta, fu arrestato dalla Gestapo. Alla fine della guerra fu denunciato per l’appartenenza al partito nazista e solo dopo molto tempo gli furono riconosciuti i suoi meriti. Morto dimenticato e in povertà, nel 2009 gli è stato dedicato un film (“John Rabe” di Florian Gal-lenberger) che ricostruisce tutte le vicende del massacro di Nanchi-no e che merita di essere visto.

di FaBriZio [email protected] Via Nanchino

Il massacrodimenticato

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Entrando nella hall del nuovo Museo dell’Opera del Duo-mo ed aspettandomi i gran-

di spazi per la già ampiamente proclamata riproduzione dell’an-tica facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore, ho avuto quasi, incredibile dictu ,un senso di claustrofobia. Possibile, con tanto spazio (6000 mq di superficie), che ci si debba infilare in questo corridoio, in cui si addossano l’antica facciata (1:1), con la sua enorme massa di falso marmo e le nuova architettura di Natalini, a dire il vero semplice, pulita, ma annientata dalla presenza della finta facciata, ripiazzata lì a sof-focare lo spazio ? Il visitatore, per guardare la parete che contiene la ricostruzione arnolfiana, deve fare un giro di 360 gradi su se stesso e voltare totalmente le spalle alla parete disegnata da Natalini, e viceversa. Come è possibile che un pool di architetti di quella esperienza non si siano ricordati, al di là di ogni programma icono-grafico, ecc., che la gestione dello spazio è la madre di tutte le archi-tetture ? Insomma, se vuoi vedere il gruppo del Sansovino sulle arcate nataliniane, devi rassegarti a non vedere, neppure di sbieco i profeti di Donatello. Ci si sarebbe aspettati un qualche invenzione che avesse alleggerito quella massa ottocentesca alla Viollet- le -Duc redivivo. Anzi no. L’architetto e storico francese è stato coerente e mai avrebbe tradito i suoi modelli nella sua ottica di conservatore e trasmettitore del patrimoine, qua-le fu .Qui per facilitare la visione del visitatore-turista si sono messi in basso gli originali delle grandi sculture che stavano nelle nicchie in alto, e in alto le copie. Inutile aggiungere che tutto l’insieme, dal basso ai piani alti, concede moltissimo al gusto cinematografico anche dove la bellezza dei reperti basterebbe a se stessa., disperdendo l’attenzione nel coup de theatre, non certo inducendo alla pacata analisi dell’opera.Del resto l’articolo di domenica 25 sul “Sole24Ore”, a firma di Timoty Verdon, storico dell’arte americano, canonico del Duo-mo e direttore artistico di tutto l’allestimento, titola: “Le statue diventano spettacolo”. Più chiaro di così.

Opera (teatrale) del Museo

di annamaria manETTi [email protected]

Se Hannah Arendt è riuscita a dare una definizione, tragica ma perfetta, del meccanismo che ha reso possibile la Shoah (la banalità del male) questa definizione non ha impedito e non impedisce a generazioni di intellettuali di inda-gare il più insondabile dei misteri. Warum? Perché? E non importa quel che scrive Primo Levi appena arrivato ad Auschwitz: Hier ist kein Warum (qui non c’è un perché), perché quella domanda intacca le nostre coscienze, pur consapevoli di non trovare la risposta, nel tentativo necessario che spiegare o almeno interrogarsi, ne impe-disca il ripetersi. Non so se è un caso ma due dei libri più belli letti quest’anno ruotano intorno alla domanda, alla banalità del male, all’universo concentrazionario nazista (e fascista): “Trieste” di Daša Drndić e “La zona d’Interes-se” di Martin Amis, appena uscito in traduzione italiana da Einaudi. Due libri particolari anche nella loro forma, nella loro scrittura. Oggetto letterario non indentifi-cato quello della Drndić, romanzo “diario” a più voci quello di Amis. Un Amis straordinario che inscena

tre vite grottesche e tragiche all’in-terno di un campo di sterminio, nella sua zona di interesse. Un romanzo con un uso difficile ma magnifico della lingua (resa molto bene nella non facile traduzione di Maurizia Balmelli) che diventa necessaria-mente uno strumento da manipolare per rendere l’”irrendibile” di quell’esperienza. Tre tragedie, quelle raccontate, in cui non c’è riscatto né salvezza che girano intorno alla “normalità” di una coppia non felice, un amore impossibile (non solo per le condizioni eccezionali del contesto) e la disperazione dell’esistenza da Sonderkomman-do. Amis ci porta tra le abitazioni delle famiglie delle SS, con loro a teatro; apparentemente non giudica, non mostra empatia per alcuno. Eppure ci scava den-tro, scavando nei personaggi. Il suo non è uno sguardo neutro, nemmeno uno sguardo da storico. Usa giudizi e mette in bocca ai

personaggi considerazioni “no-stre”, contemporanee, probabil-mente difficilmente imputabili ad una SS nel 1942; eppure questo

slittamento non tradisce il romanzo, non lo rende falso. Ne mette invece in luce la disastrosa anoma-lia del nazismo. Amis si era già confrontato con la segregazione, i campi di concentramento e i senti-menti umani ne “La casa degli incontri”, ambientato nei Gulag sovietici, ma era rimasto all’umanità delle vit-time, alla loro prosecuzione

(tra cadute e risalite) come esseri umani in una condizione estrema. Era, quello, un romanzo anche di speranza. Niente di tutto questo c’è ne “La zona di interesse”, pro-prio come in Levi (citato più volte nella postfazione) non c’è salvezza nemmeno in chi sopravvive, da ambo le parti. Come se, volesse farci dire l’autore, l’unica salvezza è non ripetere tutto quello che è stato mai più e che per farlo non si debba mai far scemare la nostra zona d’interesse.

di miChElE morroCChitwitter @michemorr La nostra zona d’interesse

per il nazismo e la shoah

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Il percorso dell’Anello si è chiuso con l’ultima tappa, la prima domenica di novem-

bre, da Santa Brigida a Pontassie-ve, da dove era partito dieci mesi orsono, a febbraio. I soci della se-zione toscana del Trekking Italia hanno dedicato sette tappe, ogni volta di domenica, per compiere i centocinquanta chilometri di saliscendi sul crinale delle colline e dei monti, in un paesaggio di volta in volta diverso, ricco in maniera sorprendente di boschi, di testimonianze storiche, quasi sempre in vista della Cupola del Brunelleschi, chiave centrale del paesaggio fiorentino. Notevole è stata la partecipazione dei soci ai diversi appuntamenti: complessi-vamente duecento presenze.La settima tappa dell’Anello può essere considerata un’escursione facile, lunga 15 chilometri, con un dislivello di 300 metri in sali-ta e 600 in discesa. Il percorso da Santa Brigida – che si raggiunge, la domenica, con il bus dalla sta-zione di Pontassieve – tocca La Villa, Fornello, Monterifrassine, Monte Fiesole, Poggio Bardello-ne per giungere a Pontassieve; si snoda per lo più in discesa, nella campagna che degrada verso la val di Sieve, punteggiata da casali immersi nei vigneti, da antiche pievi, da case torri, da resti di castelli.S’inizia dalla chiesa di Santa Brigida, dove si trova la grotta che accoglie i resti della Santa arrivata oltre mille anni fa dalla lontana Scozia per assistere il fratello malato, Andrea, vescovo di Fiesole. Alla sua morte, qui si ritirò a vivere, da eremita. Visse fino alla sorprendente età di 103 anni, raccontano le storie, cibandosi dei frutti e delle erbe del bosco. Dal paese di Santa Brigida la strada panoramica conduce a un bivio in località La Villa. Si prende in direzione di Fornello. In seguito si segue, nella zona di Galiga, la forestale che entra nel bosco e sale ancora, diventando una mulattiera sassosa. In breve si arriva a Monterifrassine, dove si trova ancora un mulino a vento perfettamente conservato, l’unico rimasto com’era nell’Ot-tocento, infatti, fino a un paio di secoli fa sulle colline circostanti, sorgevano decine di mulini a

di roBErTo [email protected]

Pontassieveun patrimoniodel Rinascimentoda scoprire

vento. Merita visitare l’interno con gli affascinanti ingranaggi legati al movimento delle pale.Dopo aver ammirato il panora-ma sul sottostante borgo di Rufi-na e la campagna ricca di vigne, si procede in direzione di Monte Fiesole e alla sua bella pieve che sorge in prossimità delle rovine del castello dei vescovi di Firenze di cui essa stessa era dominio. La chiesa, restaurata nel 1998, conserva in parte l’originario impianto romanico articolato in tre navate e cinque campate divise da pilastri quadrangolari. All’interno era presente una tavola raffigurante la Vergine del Parto e donatori della fine del se-colo XIV, attribuita ad Antonio Veneziano. Ogni 25 anni vi si celebra il Giubileo, una festa che in passato richiamava migliaia di fedeli. Sulla cima del poggio di Monte Fiesole sono ancora visibili i resti del castello attestato dalla documentazione scritta. Le indagini archeologiche sono ini-ziate nel 2001: sono stati rilevati i resti di una torre e un tratto del circuito murario difensivo che cingeva la sommità della collina. Lo scavo del castello vescovile di Monte Fiesole rientra in un progetto generale di studio degli insediamenti fortificati medievali presenti in questo territorio. Si continua in un bosco di cipressi per arrivare a un incrocio segnato da un antico taberna-colo. Da qui si aggira la cima di Poggio Bardellone, che sovrasta con la sua mole, dall’alto, l’abita-to di Pontassieve: davanti a noi il panorama sul versante della Sieve e il borgo di Nipozzano immerso nei vigneti degli Antinori. Una lunga, sassosa discesa nel bosco arriva a una strada che immette in via del Capitano - dove, è da notare, con un salto temporale ai nostri giorni, si trova l’attuale residenza del capo del governo - alle prime case di Pontassieve. Si passa poi per la Porta Fioren-tina, una delle tre antiche porte del Castello di Sant’Angelo (dal quale sorgerà l’attuale paese) rimasta intatta dai tempi del Me-dio Evo. Siamo alla stazione per il rientro a Firenze, con un po’ di rammarico per essere arrivati alla fine dell’Anello del Rina-scimento, patrimonio di valori ambientali e culturali, occasione d’incontro e socializzazione nello spirito del “camminare insieme”.

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Solo nelle relazioni siamo liberi perché solo attraverso di esse esprimiamo noi stessi. Solo con le relazioni conosciamo noi stessi e ci facciamo conoscere. Le relazioni fanno paura, bloccano o liberano ma, sicuramente, attraverso il corpo e il gioco delle emozioni profonde ci rendono consapevoli. Le relazioni tempo-ranee dell’artista Manuela Man-cioppi ci portano tutto questo. Sabato 24 ottobre in un clima di sperimentazione e con un po’ di leggerezza, in una Venezia bellissima dove l’azzurro del cielo si specchia sulla laguna e il sole autunnale ci accarezza, indossia-mo Temporary relationships se-cond skin, abiti in tessuto stretch e cotone color carne. Abiti installazione, abiti performativi, abiti che favoriscono l’incontro e lo scambio. Sono abiti relazio-nali da indossare e condividere tra due - tre - quattro persone, “costrette” ad abitarsi. Ognuno di noi sceglie l’indumento e un po’ casualmente i compagni della relazione. Non siamo obbligati a stare sempre insieme, possiamo dividerci e s-cambiare partner, come nella vita reale e come nella vita reale ci blocchiamo, diventia-

Relazioni temporaneedi angEla [email protected]

Un passo più vicini è il titolo di un cortometraggio che, dopo l’anteprima ed i riconoscimenti ricevuti nel contesto del festival internazionale del cinema di montagna Cervino Cinemoun-tain, verrà proiettato il prossimo 19 novembre alle 21.15 presso il cinema DOP di Firenzuola. Breve ma intenso, in 20 minuti conden-sa l’essenza di uno sport, di una passione che nasce da lontano e di una terra, con i suoi paesaggi, la sua natura e la sua storia fatta di una convivenza armonica anche se dura e contrastata con l’uomo.Il film prende spunto e occasione creativa da un evento sportivo, l’Ultra Trail del Mugello; si tratta di una gara di trail-running (corsa in natura) che, con un percorso di 60 km ed uno di 23 si snoda, inte-ramente immerso nel verde e nella natura, all’interno del complesso demaniale regionale “Giogo-Ca-saglia” e che, partendo dall’antica Badia di Moscheta (Firenzuola) percorre i sentieri più suggestivi e

selvaggi della zona attraversando boschi maestosi, castagneti secola-ri, praterie e faggete di montagna, toccando rifugi, torrenti e cascate e offrendo scorci panoramici sugge-stivi ed unici.Due amici, con la passione per la corsa libera che segna la loro vita fin da bambini, si incontrano sui sentieri di montagna e, innamorati

del proprio territorio, sognano di condividere questa ricchezza e di farla conoscere al mondo. Prende vita così l’idea di una gara e di un percorso permanente concepito come viaggio nei luoghi, nella storia, nei paesaggi. Attorno a loro si crea un gruppo di volontari, un esercito di persone armate di sorrisi e passione che, entusia-smate come bambini, si dedicano anima e corpo per la riuscita dell’impresa...e saranno centinaia e provenienti da tutto il mondo i visi stanchi ma felici che transite-ranno attraverso l’arco di ingresso al cortile dell’antica Badia, arrivo della corsa. Il percorso dell’Ultra Trail Mugello diviene così un’oc-casione importante, un modo per essere un passo più vicini ad un territorio, ad una storia che in silenzio e nascosta tra le fronde dei faggi di montagna ci ha accompa-gnato dove siamo e ci regala ciò

che oggi possiamo apprezzare; ma soprattutto un passo più vicini alla propria essenza fatta di emozioni e di un collegamento diretto e pro-fondo con i sensi. Perché in fondo siamo animali evoluti per vivere e muoversi in natura; in un mondo in cui le percezioni sensoriali, ancora prima che la razionalità, danno la possibilità di sopravvivere e di relazionarsi e lasciarsi pervade-re da ciò che ci circonda.Ed ogni viaggio alla fine si presenta come una occasione di cambiamento, lascia qualcosa ed arricchisce, non tanto per la meta raggiunta ma per il percorso che facciamo per arrivare fin là. Ed allora il tracciato circolare dell’Ul-tra Trail del Mugello diviene metafora di un percorso emotivo, un percorso all’interno del quale ogni passo, indipendentemen-te dal punto in cui ci si trovi e dalla direzione in cui lo si muova, avvicina contemporaneamente alla meta e ad un lontanissimo punto di partenza.

di giovanni [email protected]

Un passo più vicini

mo passivi, aggressivi o trainanti. Le emozioni scorrono e corrono nel tramonto veneziano mentre cerchiamo di “abitare” i turisti e i veneziani. All’interno delle sale dell’Officina delle Zattere, dove si svolge il vernissage dell’Arteam Cup 2015, coinvolgiamo gli artisti e i visitatori che rispon-dono bene ai nostri abbracci ed alle nostre relazioni temporanee. E’ una piccola danza, è una presentazione e un’incursione nell’altro, i nostri confini fisici quasi si dissolvono per entrare in relazione temporaneamente con i nostri simili. Scopriamo che queste relazioni temporanee ci vincolano e ci liberano, ci vincolano perché siamo legati e costretti dalla stoffa, ci libe-rano perché sperimentiamo la possibilità di muoverci autono-mamente s-convolgendo l’altro e noi stessi, cercando l’accordo dei movimenti del nostro corpo e la sintonia emotiva. Quando tutto questo non c’è possiamo cam-biare e allontanarci alla ricerca di un’altra compagnia per un nuovo ed appassionante viaggio, tutto ciò è libertà.

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interni ristrutturati in gran-di volumi luminosi con vista sulla vicinissima Tour Eiffel, il percorso scientifico e culturale è stato completamente riorga-nizzato attorno ad un progetto

Quando ero studente di architet-tura si poteva entrare in Facoltà anche dal ‘Chiostro di Levante’ progettato da Filippo Brunelleschi nel 1434, accessibile direttamente da via Degli Alfani dal lato Nord del complesso di Santa Maria Nuova. Allora era in condizioni migliori di quelle attuali e mi piaceva molto, mi era sempre sem-brato una sorta di “brano musica-le” dell’architettura di straordinaria leggerezza, quasi un minuetto se fosse accettabile questo paragone. Trovo che sia parte di un tutt’uno ‘melodico’, una sorta di miste-riosamente armonico ‘accordo numerico e musicale universale’. Una ‘symphonía’, avrebbero detto i filosofi greci. Mi è sembrato giusto, perciò, e ‘ben temperato’ che oggi vi si vogliano condurre esperimenti di ‘installazione sonora’. Ritornato di recente e del tutto casualmente

da quelle parti, mi ha preso come un dolce senso di malinconia ‒ forse come il ‘Sensucht’ provato da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’ ‒ per via del tempo che passa, irrag-giungibile, remota Patria di sogno. Ho rivissuto in un lampo quel giorno di fine ottobre del 1966, quando nell’aula che noi studenti di architettura chiamavamo ‘il quadrilatero’ ricavata nell’altana del chiostro e chiusa da infissi in legno,

ebbe luogo il primo dei ‘provini’ di laurea: l’ex tempore di ‘progetta-zione’. Mi sono ricordato che quel pomeriggio pioveva che Dio la mandava, senza interruzione, e che avrebbe continuato con quel ritmo fino al 4 novembre. La discussione vera e propria della mia tesi era stata prevista in Aula Magna per il 15 novembre, però non avvenne in quell’anno. A furia di piovere, quell’anno venne invece l’allu-vione, e tutto fu spostato a fine giugno di quello seguente. Mio padre, che stimava poco il mio impegno nella regolarità dei miei studi, disse lapidario: “Vedi, pur di spostare la laurea, sei stato perfino capace di far venir giù un’alluvio-ne”. Naturalmente scherzava, però ... Sono tuffi nel tempo che fanno anche un po’ bene. Fanno rivivere certe figure ‘riposte’ in archivi della memoria solo in apparenza remoti, come un babbo severo ma buono, lento all’ira e pronto al perdono.

Anche per rendere (spero) il favore grande che mi ha fatto chi ha permesso che rivivesse in me un ricordo così complesso, copio ‒ erudito, forse, ma non sapiente, di certo ‒ una frase molto intensa: “La memoria è vita, conquista ardimentosa dell’Uomo contro la morte e contro l’oblio che lo assediano davanti all’Abisso, fuori del quale tenta di rimanere questo Mondo”. Ce l’ha lasciata Gior-gio Colli, filosofo e storico della filosofia. Torinese di nascita, le sue ossa riposano – strana coincidenza ‒ nel Cimitero di San Domenico di Fiesole. Dove anzi, essendo in collina e risparmiato dall’alluvione, il grande piazzale di Camerata lì vicino fu una delle “basi logistiche” dei soccorritori di Firenze accorsi da tutto il mondo, alcuni dei quali ebbero il privilegio di ‘aggiustarsi’ in sacco a pelo per parecchie notti sotto il porticato davanti alla chiesa e nel chiostro del Convento.

di simonETTa [email protected]

Un museo parigino dai numeri impressionan-ti: 6.583 visitatori alla

riapertura il 17 ottobre, 15.000 nei primi tre giorni per vedere i 700.000 oggetti preistorici, i 30.000 di antropologia, i 6.000 manufatti di collezioni inestimabili, tra le più grandi al mondo, distribuite in 3.100 metri quadri. Dopo lo smembramento di parte delle sue collezioni dirot-tate in altri musei, come quello etnologico del Quai Branly, e anni di declino, tanto da far pensare ad una definitiva chiu-sura, risorge dalle ceneri, dopo 6 anni di lavori, l’incredibile musée de l’Homme. Inaugurato nel 1938 in un’ala del Palais de Chaillot, in place du Trocadéro 17, un elegante edificio costrui-to per l’ Esposizione Universale del 1937, che accoglie anche il musée de la Marine e quello della Cité de l’Architecture, il museo ha una lunga e prestigio-sa storia fin dalla sua creazione. Nato come laboratorio-museo secondo gli intenti dei suoi fondatori, l’etnologo Paul Rivet e il museologo George-Henri Riviére. ha ospitato il lavoro di pionieri e studiosi delle scienze umane passati alla storia come Claude Lévi-Strauss e André Le-

Un museoper il futuro

di alEssandro [email protected]

roi-Gourhan. Ma l’uomo cambia e il museo anche, come ha detto David Bruno, presidente del musée d’ Histoire Naturelle dal quale dipende quello de l’Homme. Quindi, oltre agli

che si fonda su 3 domande: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Per rispondere, il rinnovato museo unisce in un unico luogo le sue prestigiose collezioni, un centro di ricerca che già ora vede all’opera 150 (numero destinato ad aumen-tare) tra scienziati e studiosi di varie discipline, dalla genetica delle popolazioni all’etnomusi-cologia, laboratori didattici, un auditorium, mostre, dibattiti che daranno la possibilità ai visitatori di incontrare, sulla base di un calendario prestabili-to, antropologi, storici, filosofi, biologi....e una grande struttura alta 11 metri e lunga 19 con 90 busti in bronzo e gesso realizzati nel XIX secolo da etnologi e antropologi sulle caratteristi-che fisiognomiche dei popoli indigeni d’America, Africa e Asia. Una cabina di registrazio-ne permetterà poi a chiunque di dare il proprio contributo, che resterà tra le testimonianze in possesso del museo, rispon-dendo ad una serie di domande su come pensa il futuro della specie umana e le relazioni tra i popoli. Per gli scienziati è previsto un laboratorio, unico in Francia, sul DNA antico la cui ambizione è quello di con-frontare quello di fossili anche di 8.000 anni con il nostro per capirne l’evoluzione.

Diariodell’alluvione

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Il ballo ovverodi una magistrale spietatezza

figlia adolescente Antoniette che, umiliata, dominata e quasi anni-chilita dalla madre, è naturalmen-te animata dal desiderio profondo di spiccare il volo verso l’amore, la pienezza, la vita. Questo gioiello della letteratura del Novecento non è soltanto un piccolo raffinato boccone da assaporare nel tempo di un po-meriggio; è l’affresco, la ‘macchia’ nitida, al vetriolo, di una società velata di garbate apparenze ma in realtà priva di spessore e di grazia. Ciò vale per la famiglia Kampf, di ricchezza recente (grazie ad

un geniale colpo in Borsa Alfred Kampf, marito e padre delle protagoniste, “dopo aver scom-messo sul ribasso del franco (…) aveva poi, nel 1926, speculato su quello della sterlina”), e si ripete per i loro invitati, alla cui ‘facies’ di ricchezza e rispettabi-lità spesso non corrisponde un adeguato lignaggio. Ma il mondo non è solo regno di finzione e di ipocrisia, non lo è neppure di quel destino beffardo che la sera del ballo distribuirà in modo inatteso una gioia malvagia e liberatoria (“Si sentivano gli scoppi di risa

Compie dieci anni Zoom, il pro-getto di Teatro Studio Krypton tra teatro, danza, musica e arte, che indaga i territori delle nuove arti performative e dà un palcoscenico ai giovani talenti under 35. Festeg-gia fino al 15 novembre con due spettacoli a sera al Teatro Mila Pie-ralli di Scandicci per un’edizione dal titolo “Altrofuturo”, guidata da Giancarlo Cauteruccio. “Altrofu-turo perché Teatro Studio Krypton ha sempre immaginato di viaggiare in un tempo a venire, per la sua forza e caparbietà innovativa, che molte tracce ha lasciato sui sentieri percorsi e precorsi lungo un esal-tante quarto di secolo” dice il regi-sta. In programma 19 compagnie nazionali emergenti, provenienti da vari parti d’Italia: il 7 novembre vedremo la compagnia Bianco-fango che torna a Zoom con il collaudato spettacolo Fragile show, codiretto da Francesca Macrì e Andrea Trapani, e poi il gruppo fiorentino Fosca, nel debutto di Tenue – radiodramma tattile, un lavoro acustico, in forma di radio-

dramma, fruibile allo stesso tempo dal vivo e in diretta radiofonica su Controradio. Gli esecutori/attori sono tre persone non vedenti, in uno spettacolo ideato e diretto da Caterina Poggesi e Cesare Torri-celli, in cui il gesto vocale si genera dalla tattilità degli oggetti utilizzati e dalla stessa lettura del copione in Braille. Nel programma, il 10 novembre, la compagnia Opera, diretta da Vincenzo Schino, pre-senta XX,XY – primo passo nella tragedia di Amleto (sul palco una

danzatrice e uno scultore, l’alto e il basso, il maschile e il femminile). A seguire Teatrodilina in Le vacan-ze dei signori Lagonìa, racconto di una giornata al mare di un’anziana coppia. Sei gli spettacoli in calen-dario nella sezione dedicata alla danza: l’11 novembre due spetta-coli dell’artista marchigiana Mara Oscar Cassiani, Justice, ultima fatica coreografica, indagine della solitaria relazione tra corpo femmi-nile, media e potere dell’immagi-ne, e poi TRASHX$$$ (Trash for dollars), in cui è affiancata dai due danzatori Francesco Vecchi e Fran-cesco Marilungo, sull’immaginario del corpo occidentale di oggi, dove l’oggi è rappresentato dal denaro, i media e il petrolio. Il 12 va in scena la giovane danza d’autore con tre coreografi che presentano le loro recenti creazioni: Gianluca Girolami con “M”1 poi 2 poi 3, Francesco Colaleo con Re-garde, affiancato in scena da Maxime Freixas, e Nicola Galli con il solo Delle ultime visioni cutanee. Il 13 la compagnia Barokthegreat si esibirà in Indigenous - Dramma

sonoro, coreografato da Sonia Bru-nelli e danzato insieme a Simona Rossi e Dafne Boggeri, musica originale live di Leila Gharib e Francesco Brasini, che genererà un universo dalla temperatura primitiva e psichedelica. La musica chiuderà il festival il 15: il colletti-vo cesenate Dewey Dell si esibirà in un concerto in cui il movimen-to dei musicisti sarà legato allo spostamento e allo stratificarsi di vari suoni percussivi, teso verso la creazione di un unico organismo ritmico. In apertura, il concerto Mind out di Pianokitar, duo di pianoforte e chitarra elettrica, formato dai giovanissimi Giovanni Berdondini e Gianpaolo Capraro. Come evento speciale, Zoom ren-de omaggio a Jon Fosse, punta di diamante della nuova drammatur-gia internazionale, il 14 novembre con lo spettacolo Inverno, una bella e importante messa in scena della storica compagnia Florian Metateatro. Biglietti: 12-6 euro, info e prenotazioni 055 7351023, [email protected] www.zoomfestival.net.

Voglio parlare di qualcosa di breve e di ‘cattivo’, epperò dotato di una rara per-

fezione formale. Sapete perché? Perché - non so se accade anche a voi - noto che molto di ciò che ci viene propinato è – all’opposto – così inutilmente ripetitivo, così banalmente stupido ma anche insopportabilmente ‘buono’ e me-lenso. Quindi, evviva l’intelligente cattiveria ovvero l’intelligenza ‘cattiva’ e perspicace, quella che sa essere affilata e crudele come la lama di un coltello. Che io non posso fare a meno di rilevare nel capolavoro giovanile (non l’unico) di Irene Nemirovsky dal titolo “Il ballo”. Sul quale sbaglierebbe chi lo immaginasse come la storia elegante, leggera, di un brillante evento mondano; perché appunto è la cruda (qualcuno ha oppor-tunamente scritto: “spietata”) narrazione del conflitto tra una madre egoista e anaffettiva, Rosi-ne Kampf, che nell’organizzare un ballo per la cosiddetta ‘alta società’ parigina cerca prepotentemente la propria affermazione di donna (“Insomma, è molto semplice (…), se non so che l’indomani creperanno tutti d’invidia, preferi-sco non dare nessun ballo...”), e la

dei domestici nella dispensa”). E’ soprattutto teatro di acri recrimi-nazioni, di furibonde battaglie tra individui e “Il ballo” incornicia magistralmente la fragile impal-catura, la implacabile verità di un matrimonio (Rosine ad Alfred: “Credi forse che la gente non sappia chi sei, da dove vieni?” ed Alfred a Rosine: “Quando ti ho raccattata non eri certo alle prime armi! Pensi che non lo sapessi, che non me ne fossi accorto? Mi son detto: è carina, intelligente, se diventerò ricco non mi farà sfigurare... Sono capitato bene, come no, davvero un buon affare: una pescivendola, una vecchia con modi da cuoca...”) così come il duello quasi ‘mortale’ - de-scritto con sapienza psicanalitica e in un crescendo drammatico - tra una madre e una figlia, che giunge inevitabilmente al proprio apogeo: l’attimo, quell’“istante impercettibile” in cui le due donne si incrociano sul cammino della vita: la prima, appunto, per spiccare il volo; l’altra, per avviarsi a sprofondare nell’ombra.

di Paolo [email protected]

di sara [email protected] Auguri

Zoom

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La storia di una città attraver-so la storia della sua Chiesa e della sua vita religiosa: è

questo il percorso descritto nell’ul-timo libro di Mauro Bonciani: un raffinato testo di sintesi storica. “Due millenni di fede e storia” sono raccontati descrivendo il rapporto fra religione e governo cittadino, fra istituzioni ecclesiasti-che e struttura dei sistemi culturali fiorentini. Leggendo questo testo possiamo comprendere come questo rapporto abbia preso forma nella geografia della città, nelle mura delle chiese e nella sua con-formazione urbanistica. E tuttavia, un altro tema appare sottotraccia: si tratta del ruolo svolto da Firenze nel processo di costruzione della modernità occidentale. Il racconto della Chiesa fiorentina ci mostra due fondamentali elementi che ca-ratterizzano tale funzione storica. Il primo: Firenze come punto di riferimento di rapporti culturali ed economici “transnazionali”, a metà fra l’Europa e il Mediter-raneo. Il secondo: la relazione privilegiata che Firenze stabilisce, grazie anche alla vicinanza geogra-fica, con il centro della Cristianità, e cioè con Roma. Il Concilio fiorentino del 1439, sebbene in definitiva fallito nel suo intento di ricomporre lo scisma d’Oriente, rappresenta un esempio evidente del primo elemento. Così come il

pontificato di Leone X e quello di Clemente VII, i due grandi papi Medici del ‘500, sono indicativi del secondo. Fra le pagine di Firenze e la sua Chiesa possiamo ritrovare descritte le principali ori-ginalità del cristianesimo fiorenti-no: i primi santi e la loro origine orientale (San Miniato, Santa Felicita, Santa Reparata e San Za-nobi), la storia delle Confraternite e la nascita della Misericordia, la rivoluzione di Savonarola.Il libro di Mauro Bonciani, inoltre, risulta particolarmen-te utile poiché ci costringe ad osservare i processi storici da una prospettiva di lunga durata.

Nella seconda metà del novecento Firenze riesce ad affermarsi come un centro internazionale di dialogo interreligioso, di politiche di pace e di rinnovamento della Chiesa; in particolare, com’è a tutti noto, con il Sinda-co Giorgio La Pira. Sebbene in questo periodo il rapporto fra religione e politica abbia acqui-sito forme, rappresentazioni ed anche strutture estremamente diverse, possiamo cogliere nel riformismo cattolico fiorentino dell’epoca conciliare un segno di fondo: torniamo, in qualche

modo, ad un simbolo di sostanza politica del discorso religioso: quel savonarolismo che fa della sovrap-posizione fra riforme politiche e riforme religiose la sua forza e, al tempo stesso, la sua debolezza. E tuttavia quelle istanze di riforma che si fecero contestazione, con Don Milani, padre Balducci e Don Mazzi, ebbero un ruolo e una funzione di mutamento della religiosità italiana che ancora oggi non appaiono del tutto comprese.

Il Convegno Ecclesiale Naziona-le, che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre, e la visita di papa France-sco in città rappresentano

senza dubbio un’occasione per cercare di capire meglio i successi e le sconfitte di quella stagione. Ma appare,

inoltre, altrettanto rilevante collegare tali considerazioni ad una riflessione sulla figura stessa del pontefice romano,

affermatasi negli ultimi decenni come forza di primaria impor-tanza in uno scenario politico e culturale di dimensioni tenden-zialmente globali.

Firenze e la sua Chiesa. Due millenni di fede e storia, Prefazione

di Silvano Piovanelli, Le Lettere, Firenze 2015

Eretici, profeti e politicidi FiliPPo [email protected]

Domenica 8 novembre, alle consuete ore 11 in Sala Vanni di Piazza del Carmine 19, infatti, è la giornata della “Gastronomia Musicale”, rappresentazione che viene riproposta e aggiornata con nuove musiche, dopo l’esordio ed il successo nel 2012, perché

richiestissima dai nostri amici, ed eseguita dall’Ensemble in molte sale italiane. Dopo il concerto, per chi lo deside-rasse, è proposto un pranzo “da Ginone” sulle ricette, per quanto possibili, rappresentate in musica (in via dei Serragli, al prezzo di 22 euro).

Gastronomia Musicale in Sala Vanni

FONDAZIONE HORNEMUSEO HORNECasa VasariFirenze

DANIELE LOMBARDI

FONDAZIONE MUDIMAMilano

CAPOGIRIcm 150

Cortile di Palazzo Antinori Corsini SerristoriBorgo Santa Croce 6

Firenze

GAMBE IN SPALLAcm 235x95

Museo Hornecortile di Palazzo Corsi-Hornevia de’ Benci 6Firenze

ROBERTO BARNIWELL

Mercoledì 11 novembre 2015 Ore 17.00

SCULTURA DA INTITOLAREcm 140x39x49

CALCHI INNAMORATI cm 25x37

Casa Vasari, Sala GrandeBorgo Santa Croce 8Firenze

11 - 28 novembre 2015Orario lun-sab, 9-13Ingresso libero al cortileBiglietto di ingresso:Museo Horne € 7,00 (ridotto € 5,00)Casa Vasari € 5,00Museo Horne e Casa Vasari € 10,00Per informazioni: tel. 055 244661 – email. [email protected] anche il nostro sito www.museohorne.it e la nostra pagina ufficiale facebookApertura straordinaria su prenotazzione

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Durante tutto il tempo che ho vissuto in Italia, la maggior parte delle persone che conicia, sapendo che era un cittadino spagnolo, mi sono chiesto circa tre o quattro cose: Zapatero, paella, flamenco e la corrida. Il primo di essi, Zapatero, perché era in voga in un’Italia governata da Berlusconi. Gli altri tre da un argomenti di semplice domanda nazionale e culturale. Riconosco che non ha votato a Zapatero (mi stoy a sinistra). Che la paella, piatto tipico della mia regione (Comunidad Valenciana), sì mi piace. Che il flamenco è bello. E che Tori - ripeto: i tori - sì mi piace, come la maggior parte degli animali (ad eccezione di insetti...). D’altra parte, non mi piace è che alcuni, in un modo completa-mente sbagliato dal mio punto di vista, qualificarsi come arte e corrida Nacional.La festa è stata considerata uno degli elementi più caratteristici della cultura spagnola e, tradizionalmente, gli eroi di toreros: coraggiosi giovani che hanno gareggiato per la morte di fronte un animale forte e feroce sono riusciti a dominare, mostrando la potenza dell’uomo animale. Già la Bibbia, intendeva quando disse che l’uomo domi-nerà il resto degli esseri viventi.

Forse che è il motivo per cui e cer-care di mostrare la naturale forza e il coraggio della corsa spagnola, durante la dittatura di Franco, nacional-catolica che Toreros visse il suo periodo di maggior rilievo. Fortunatamente, nella Spagna di oggi le persone sono sempre più lontano da questa attività. E a questo proposito sono generati, eppure importanti dibattiti. Una parte della società, con il sostegno dei viali più media nei confronti della società di un conservatore vsion continua a promuovere la corrida, sostenendo il valore culturale di questi eventi e il ruolo

economico collegato ad esso, soprattutto dal settore dell’alleva-mento e del turismo. Essi sosten-gono, troppo, che senza corrida scomparirebbe chiamati tori e gli ecosistemi dei paesaggi in cui allevato, pascoli. Quindi inoltre, cercare di dare un tocco di verde e in difesa dell’ambiente a questa attività. Tuttavia, crescere altrove, che pone questa tradizione, molto vecchia e spagnolo ad essere, non ha alcuna giustificazione. I tori e altri animali, sono esseri viventi che sentono e soffrono e che subiscono questa tortura con un semplice desiderio di diverti-

mento è non è affatto giustificata. Uno studio dall’associazione dei veterinarii abolizionista della cor-rida e dei posti di maltrattamento di animali (AVATMA), chiamato anche in discussione gli argo-menti in favore della corrida: solo il 10% della dehesa è dedicato all’allevamento del bestiame per la corrida. C’è una gara chiamata Toro e tori normale, che è che cosa sono questi tori, continuerà ad essere necessario per l’industria del bestiame, così non si estin-guerà. E, infine, viene mostrata con i dati che il settore della corrida sopravvive solo grazie a una quantità enorme di sovven-zioni e aiuti di stato di diverse amministrazioni, compresi i fondi europei. Infatti, negli 8 anni, studio di Jody, la corrida a plaza è passata da più di 3500 a 1800, mostrando che come attività eco-nomica è possibile portare poco all’economia nazionale. Dopo le ultime elezioni e autonoma nella primavera del 2015, alcuni comuni e regioni autonome sono ritirantesi sovvenzioni per la corrida di assegnare loro ad altre cose più urgenti o produttivi. Un dato di fatto che, a mio avviso, rappresenta un atto non solo dell’umanità verso gli animali, ma di civiltà, modernità e risparmio economico.

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexCome l’Araba Fenice lo Scottex 41 di Paolo della Bella diventa un bellissimo uccello dopo avere pulito il piano della tavola di cucina, asciugato i bordi del lavandino, aver tolto un po’ di polvere sul lato superiore di due cornici, asciu-gato delle gocce d’olio sul pavimento del soggiorno e aver data una lustrati-na alle scarpe prima di uscire. Una bel-la resurrezione complimenti Maestro!

Sculturaleggera

Toros o tauromaquia?

41di viCEnT sElvaConsigliere comunale di Esquerra Unida

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Canto IX

Dante, dopo essersi

rassicurato sul fatto che

Virgilio cono-sce la strada,

incontra le Erinni. Nelle

tre Furie scatenate si possono

riconoscere personag-gi attuali al servizio di

un Potente decaduto

l ben col mio Maestro ci affratella,ma impaurito per l’andare avanti:saprà dove si va o andrà a balzella?

Capii che si potea star senza guanti,il viottolo per lui non era ignoto.Altra volta passò e con rimpianti.

Ma guardai oltre, anche se devoto,in cima ad una torre arroventata,tre furie si movean come tremoto,

servitrici della potenza andata.La prima secca digrignava i denti da do’ s’impara ella era scappata,

terrore di insegnanti e di studentiparlava con un fare da moina,punire le piacea solo i perdenti,

in vita la chiamavan la Gelmina.La seconda cattiva di qui ché,non si potea guardar, era una mina.

Santa de nome, ma Santa de ché?La terza mi parea la più carina,regina era invece dei lacchè,

perfida col suo volto da suorina,Mara Carfa era nota fra sodalipe’ i’ senzacrini l’era una bambina.

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L

Un’immagine cui sono molto affezionato. La sorella più grande che abbraccia con aria protettiva il fratello più piccolo. E’ uno scatto realizzato nello spazio pubblico vicino al casermone dei “projects” dove ero ospite di una famiglia di amici. Mi colpì subito la tenerezza dei volti di questi ragazzini e ii loro sguardo al tempo stesso dolce e penetrante. Sono quelle immagini che uno scatta di getto e se per-

di l’attimo invece di diventare un’icona ti ritrovi tra le mani un’immagine qualsiasi che non riesce a trasmettere alcuna emozione. E’ come se l’avessi scattata ieri e tutte le volte che la vedo mi torna alla mente quell’estate così intensa, e quella scoperta continua di un mondo che fino ad allora avevo visto soltanto nei film.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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