Cultura Commestibile 103

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N° 10 3 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia In questi giorni ho visto ripetutamente il mio nome sbattuto in prima pa- gina associato alla vicenda di Mafia Capitale. Il tutto per un saluto che io uso abitualmente e per una conversazione priva di fondamento tra due personaggi. All’epoca di questa intercettazione, tra l’altro, ero già stata eletta alla Camera dei Deputati dove sono entrata con le liste bloccate Micaela Campana Per chi suona la Campana

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N° 103

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

In questi giorni ho visto ripetutamente il mio nome sbattuto in prima pa-gina associato alla vicenda di Mafia Capitale.Il tutto per un saluto che io uso abitualmente e per una conversazione priva di fondamento tra due personaggi.All’epoca di questa intercettazione, tra l’altro, ero già stata eletta alla Camera dei Deputati dove sono entratacon le liste bloccate

Micaela Campana

Per chi suona la Campana

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È approdata al Porto delle Storie di Campi Bisenzio, una delle realtà culturali più vivaci nell’a-

rea fiorentina che sta dimostrando come una Casa del Popolo standard e in difficoltà possa riscoprire il proprio ruolo sociale e culturale nel XXI secolo, la giornalista e poetessa di origini siriane Asmae Dachan. La scrittrice ha incontrato il pubblico, intervista-ta da Stefano Marcelli, lo scorso 22 ottobre al teatro Dante all’interno della rassegna Fogli di viaggio, scrivere per viaggiare, che ha cercato di mettere in rilievo la funzione della scrittura e del viaggio come strumenti di conoscenza fra i popoli e insieme di denuncia sociale. Nata ad Ancona, Asmae Dachan ha due lauree, una in teologia e diritto coranica e l’altra in scienze della comunicazione; autrice di due libri, uno di poesia e l’altro un romanza “Dal quaderno blu”. Pubbli-chiamo, con il consenso del Porto delle Storie, ampi stralci dell’intervento di Asmae Dachan.Sono nata ad Ancona, ma le mie origini sono lontane, della città di Aleppo. Sono nata qui perché mio padre scelse di andare in Europa a studiare medicina in Italia, attratto anche dalla cultura e dall’arte di questo paese. Mentre era qui, in Siria ci fu il colpo di Stato che portò al potere la dinastia degli Assad. Da allora qualunque oppositore del nuovo regime non aveva vita facile in Siria e quindi lui è rimasto qui. I famigerati servizi segreti siriani, il “Mukhabarat” noti per la loro efferatezza, sono articolati in 27 ramificazioni, tanto che la gente era terrorizzata dalla loro pene-trante capacità di spiare le persone. Quando ero piccola e parlavo per telefono con i miei nonni che si domandavano quando li avrem-mo finalmente conosciuti, io ho ingenuamente detto “quando se ne andrà via quel criminale”, ho visto mio padre sbiancare per la paura delle intercettazioni. Molte persone per aver espresso giudizi non favo-revoli al regime, sono state arrestate e sono finite in queste stanze della tortura dove, purtroppo, si stima vi siano almeno 250.000 persone, fra cui anche bambini.La Siria è stata una delle culle della civiltà e della cultura mediterranee; ha una tradizione di tutela della diversità culturale; è stata la culla

del cristianesimo e di altre grandi religioni monoteiste. Se pensiamo a quante etnie esistenti in Siria che i nostri figli studiano sui libri di storia; ancora esistono gli assiri. Una cosa è legata a questa diversità di culture ed etnie, di cui io andavo molto fiera da piccola, ed è il fatto che la Siria è l’unico paese al mondo in cui vi sono due villaggi in cui si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù. Uno di questi è Maaloula, diventato poi tristemente famoso per il rapimento di padre Dall’O-glio. Quando raccontavo questa cosa a scuola, in Italia, i miei compagni pensavano che la lingua di Gesù fosse il latino. I cristiani siriani tengono molto a dire che loro non sono cristiani in Siria, bensì siriani di fede cristiana: rivendicano le loro radici, le loro tradizioni. Quando pregano non dicono “Dio”, bensì “Allah” perché pregano in lingua araba. La cristiani-tà in Siria e in altri paesi musulmani non è qualcosa che è arrivata nel tempo; è invece nata lì. A differenza delle migrazioni dei musulmani che hanno portato con sé in Siria l’Islam, il cristianesimo è invece nato lì, ha fondato le sue radici. Per cui i siriani di fede cristiana sono siriani prima dei musulmani. Così come gli ebrei siriani sono siriani prima

dei cristiani. E questi popoli con diverse religioni hanno continuato a convivere perché nonostante tutto c’era un clima di tolleranza religiosa. E’ è una storia che non ha qualche decina d’anni: qualcuno pensa che la convivenza sia nata da quando c’è il regime degli Assad. Invece questa convivenza esiste da migliaia di anni, perché è nel Dna del popolo siriano accettare la diversità come una forma di ricchezza, di rispetto.Infatti, padre Dall’Oglio è stato ordinato con il rito siriaco, volendo ripercorrere le tradizioni antiche del cristianesimo siriano. Padre Dall’Olio è un italo-siriano: anche quando è stato espulso dal regime di Assad per le sue posizioni di aper-tura al cambiamento, di sostegno alla svolta nella società siriana, era stato ammonito più volte. Prima di essere espulso aveva anche accettato di non parlare più di diritti civili e sociali e di limitarsi alla vita del monastero; ma, ad un certo punto, quello che stava accadendo in Siria non si poteva più fingere di non ve-dere. Quando lui è venuto in Italia l’ho conosciuto: abbiamo fatto un convegno a Fermo e, ogni tanto, mi chiedeva come si dicevano certe pa-role in italiano perché lui ormai, da 40 anni in Siria, pensava in arabo. Nel suo monastero di Mar Musa (il

Monastero di San Mosè l’Abissino) non solo pregavano i cristiani, ma andavano anche dei musulmani e se-guivano un percorso di spiritualità, di ricerca dell’assoluto, del supremo. Il mio primo viaggio è avvenuto nel 2013: prima non avevo mai visto la Siria durante gli anni della sua bellezza. Per me la Siria era quella dei ricordi di mio padre e mia ma-dre, delle foto ritrovate nei cassetti di casa, della musica. La musica siriana ha una grande tradizione, cui si è ispirata poi la musica arabo andalusa, la musica dei sufi. La Siria per me era i piatti che si mangiava-no, i tessuti di Damasco, la poesia (anche qui c’è una grande tradizione di poeti siriani fra cui uno molto famoso anche in Occidente, Nizar Qabbani). Per me la Siria era qual-cosa di pregno di amore e malinco-nia, ma anche di misterioso. Parlare di Siria a casa però non era semplice; piuttosto una sorta di vaso di Pandora. Quando io e i miei fratelli eravamo piccoli chiedevamo perché non potevamo andare in Siria, ci dicevano che papà lavorava molto (era medico). Crescendo ci siamo documentati e io non sopportavo che in Occidente la Siria veniva defi-nito uno Stato canaglia. Quando ho capito cosa stava accadendo in Siria e perché non potevamo andare in Siria, mi sono messa il cuore in pace: l’importante è che i miei genitori e i parenti in Siria stessero bene e tanto mi bastava. Quando è arrivato Internet i parenti siriani hanno iniziato ad avere dei volti (via Skype) e loro si stupivano che io e i miei fratelli parlassimo con un perfetto accento di Aleppo. Tutto questo fa parte del prima. Poi nel 2011, con lo scoppio delle violenze in Siria, qualcosa è cambiato per sempre. Da quando i giovani siriani hanno iniziato a chiedere riforme e libertà, anche noi giovani sirini all’estero abbiamo preso parola, denunciato le violazioni dei diritti umani, ripreso contatti diretti con la Siria. Abbiamo preso contatto con giornalisti siriani e così nel 2013 ho deciso di partire e, attraverso il confine turco, sono entrata in Siria. E l’ho fatto non per andare in cerca di guai, ma perché della Siria non si è mai parlato come si sarebbe dovuto fare. Se oggi siamo arrivati a 250.000 morti accertati, se siamo arrivati a 3 milioni di profughi nei paesi confinanti e a 9 milioni di sfollati interni, significa

Non di AsmAe dAchAntesto raccolto da Simone Siliani consegnate

la Siria all’oblio

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che qualcosa di terribile in questo paese sta accadendo. Ho visto cose terribili in quel 2013: sono arrivata fino alla zona centrale di Aleppo e ho visto scuole, ospedali e abitazioni di civili bombardati. Ho racconta-to la guerra, provandola sulla mia pelle. Non volevo fare un racconto politico della Siria; volevo raccontare la Siria ad altezza di bambino, all’al-tezza di chi la guerra la sta subendo. E così ho costruito un blog, “Diario di Siria”. Sono entrata in Siria dalla Turchia e la prima cosa che ho visto di questo paese è stata una immensa distesa di tende, una delle tante tendopoli che sono nate quando i paesi limitrofi (Tirchia, Libano, Giordani e Iraq) hanno chiuso i confini rifiutandosi di accogliere l’enorme afflusso di profughi che premeva alle frontie-re. Tante persone, quasi 9 milioni su una popolazione stimata in 23 milioni, sono rimaste intrappolate e dislocate in queste tendopoli. Sono in questa terra di nessuno in cui, grazie alle organizzazioni umanitarie, sono state realizzate queste tendo-poli, ma in cui la vita è terribile: mancano i servizi igienici, idrici, le infrastrutture. E queste persone sono ormai lì da quattro anni e, soprat-tutto nel nord della Siria, d’inverno le temperature sono rigide mentre d’estate è caldissimo. Ho voluto fare l’esperienza del campo profughi e ho chiesto di poter dormire nelle tende ed è stata una notte indimen-ticabile perché ti rendi conto della desolazione e dell’abbandono in cui vivono queste persone: di notte di camminano addosso gli insetti e tu devi far finta di nulla, di notte se senti dei passi muori di paura perché non puoi sapere se ci sono malinten-zionati e tu non sei in alcun modo al sicuro. Ma soprattutto di notte senti le voci dei bambini che hanno paura, delle vedove che piangono.Dopo l’esperienza nella tendopoli, sono riuscita lo scorso anno ad arrivare ad Aleppo. Siamo arrivati di notte: le strade non sono più percor-ribili normalmente, minacciate dai cecchini, cosparse di posti di blocco, sorvolate da elicotteri che sparano. Dopo il tramonto abbiamo dovuto procedere a fari spenti. Quindi non era possibile vedere niente. Le prime immagini che di giorno ho visto di Aleppo, erano di distruzione. Volon-tari che, senza guanti, hanno ritrova-to il corpo di una vittima a seguito

di un bombardamento avvenuto una settimana prima su una zona residenziale, con oltre 80 vittime. Quando hanno ritrovato il corpo di questa donna, i volontari si sono messi a parlare con lei, dicendole in arabo “scusaci, zia, se ti abbiamo trovato solo ora”: si sentivano in colpa di averla ritrovata dopo una settimana, sepolta sotto le macerie della sua casa. Immaginiamo l’odore che si respirava ad Aleppo, che poi è lo stesso che si sente a Damasco e in altre città, perché moltissime case crollano sotto le bombe con i loro occupanti che vi rimangono seppel-liti per giorni. E i sopravvissuti con-vivono con questo terribile odore di morte. Il corpo della signora è stato trasportato in una baracca insieme ad altri morti che erano lì da diversi giorni perché nessuno veniva a fare il riconoscimento: in queste situazioni i corpi vengono avvolti nei sudari e con il nastro adesivo bianco si indica soltanto la data di ritrovamento e il luogo, senza il nome del deceduto.Tutto questo avviene sotto lo sguar-do dei bambini, molti orfani, che talvolta per guadagnarsi da vivere girano nelle zone bombardate per raccogliere la plastica e portarla ai loro capi che li pagano con pochi spiccioli per il pane. L’Unicef parla di 5 milioni di bambini a rischio che vivono in questo inferno. Sem-pre l’Unicef parla di oltre 20mila bambini uccisi in Siria o sotto le bombe oppure uccisi all’arma bianca a seguito degli assalti ai villaggi nelle zone rurali, o ancora uccisi dal gas. Il 21 agosto di quest’anno ricorreva l’anniversario del primo bombar-damento con armi chimiche: più di 1.700 persone morte, di cui 500 bambini, che dormivano perché l’attacco è avvenuto alle 2 di notte. Bambini mutilati perché giocano in zone bombardate o minate. Bambini che hanno assistito ad esecuzioni o a stupri e che ti raccontano cose che danno i brividi. Della rivolta siriana si è parlato ben poco e male in Italia. Io dico sempre che ho due date di nascita: quella anagrafica del 1976 come italiana e una del 2011 in cui sono rinata come siriana. Gli slogan dei ragazzi siriani nelle piazze, all’inizio della rivolta, erano ripe-tibili anche dagli studenti italiani: non inneggiavano alla violenza, al settarismo, non partivano da istanze religiose. Era un movimento nato dal basso, fatto da donne, studenti,

gente solo stanca di non potersi li-beramente esprimere o di non poter onestamente guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro perché per qualunque cosa bisognava corrom-pere un funzionario pubblico. La prima parola pronunciata dai ragazzi nelle piazze era riforme (تاحالصإلا) . La risposta del regime fu violen-ta, con la polizia che sparava per uccidere, utilizzando le squadre della morte addestrate per la guerriglia. C’è stato un crescendo con l’arrivo degli iraniani e degli Hezbollah libanesi. Tutto questo ha soffocato questi movimenti. Eppure per 8 mesi i siriani non hanno imbracciato le armi contro il regime, pur tenen-dogli testa. All’ottavo mese, quando all’esercito è arrivato l’ordine di procedere con i bombardamenti dall’alto, c’è stato da parte di alcuni militari il rifiuto di bombardare i loro figli, le loro città, il loro paese. A quel punto è nato l’Esercito Siria-no Libero, fatto esclusivamente di militari siriani che non accettavano di dover sterminare i civili; per cui, ad esempio, se il panettiere perdeva il forno in un bombardamento, loro non lo facevano arruolare, consen-tendogli di continuare a fare il suo mestiere, volendo loro continuare a fare quello di militari che difendono il proprio paese e il proprio popolo. Così, dopo 8 mesi, si sono avuti due fronti, quello militare e quello civile, che continuava con grandi e colorate manifestazioni pacifiche, in cui le donne avevano un ruolo attivo. I protagonisti della rivolta siriana erano giovani e donne normali, non barbuti fanatici, inneggianti all’odio religioso. Invece il regime continua a dire, con 250.000 morti, che loro stanno combattendo contro i terro-risti, che sono poche decine di cri-minali e che in Siria va tutto bene. I giovani della generazione internet hanno deciso di fare controinforma-zione, cosa non consentita in Siria perché per fare il giornalista non bisognava avere la tessera dell’ordi-ne dei giornalisti, bensì quella del Partito Baas, quello che sostiene la dittatura di Bashar al-Assad. Così questi ragazzi hanno costituito dei veri e propri network su internet e a caricare foto e video in diretta, mentre noi dall’Europa davamo loro delle dritte come quella di postare i video o le foto con data e luogo di ripresa. Questi erano i ragazzi della Siria. Alcuni di questi sono stati

L’intervento di Asmae Dachanal Porto delle Storie di Campi

vittime della repressione. Avevo un amico che con una handycam anda-va in giro per la Siria a documentare queste manifestazioni e le repres-sioni. Era un falegname che però, evidentemente, aveva il giornalismo nel sangue, tanto che la Cnn mandò una troupe ad intervistarlo e lui aveva risposto che avrebbe sconfitto Assad con la telecamera. Ebbene, lui è morto con la telecamera in mano, dopo un’agonia di qualche giorno, ma è morto con questo gesto di sfida: “io voglio raccontare quello che sta davvero succedendo e voglio raccontarlo fino all’ultimo”. Questa era la Siria di cui noi, siriani all’estero, ci siamo innamorati.Mentre Bashar al-Assad incarcerava oppositori politici e intellettuali pa-cifici, contemporaneamente ha scar-cerato criminali comuni, arrestati in precedenza per legami con Al Qaeda e con altre organizzazioni terroristi-che. Questi hanno iniziato a prepa-rarsi, aiutati da consiglieri militari provenienti dall’Iraq dove la guerra non è mai davvero finita (il tratto di confine fra Siria e Iraq è immenso e facilmente infiltrabile) e dall’Iran. Questi gruppi di criminali comu-ni si sono coalizzati. Poi si sono moltiplicate le formazioni estremiste che ricevevano aiuto dall’esterno. Mentre nessuno ha sostenuto l’E-sercito Siriano Libero. Oggi è l’Isis a tenere banco sui media internazio-nali, che pure è una organizzazione composta da 25-30.000 miliziani e nessuno più parla dell’esercito di Assad, molto più organizzato e che tutt’ora bombarda le città e i villaggi siriani. Alla periferia meridionale di Damasco, dove lo scorso anno c’è stato il bombardamento chimico, che è letteralmente assediata dalle truppe di Assad e la gente, i bambini soffrono la fame, esattamente come avveniva sotto l’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbe. Homs è sotto assedio da due anni e mezzo: nessuno entra o esce e neppure i viveri. Ma nessuno parla di questo sui media internazionali. I bambini non vanno a scuola da quattro anni. Stiamo vivendo davvero la tragedia del secolo. Abbiamo due scelte: o la ignoriamo oppure denunciamo il genocidio e la tragedia umanitaria che si sta consumando ad appena 4 ore di volo dall’Italia. La città di Da-raa che è stata quasi completamente rasa al suolo; Aleppo, patrimonio mondiale dell’Unesco, che per oltre il 40% non esiste più. E’ una perdita per tutta l’umanità. Non consegnate la Siria all’oblio.

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riunione

difamiglia

Anche noi ci sintonizzeremo, come milioni di italiani, sulla RAI per assistere alla lettura (con commento) di Roberto Benigni dei 10 Comandamenti. Se non altro perché siamo signore di una certa età e timorate di Dio, a cui hanno insegnato a memoria i 10 Coman-damenti.Ma proprio perché diversamente giovani non possiamo dimenticarci di quando Benigni era veramente Benigni e per noi il modo con cui si occupò dei comandamenti bi-blici in “Tuttobenigni 1980” resta insuperato e, con ogni probabilità, insuperabile. Chi se lo scorda? Agnelli come fa a andà all’In-ferno? Agnelli va in Paradiso di sicuro con questi comandamenti! “Onora il padre e la madre”, per forza, con tutti i soldi che gli han-no lasciato. “Santificare le feste”: c’ha sempre tutti i giorni liberi. “Non desiderare la roba d’altri”: come fa? è tutto suo! “Non am-mazzare”: ammazza uno, diminu-isce la manodopera, ‘ndovai? Ha tutto a disposizione. Ti mandano all’Inferno: perché? I’ppopolo, fa all’amore: no, non puoi, loro

si sposano, fanno all’amore con chi gli pare. Fai all’amore quando sei piccino, fai all’amore da solo? Niente, peccato mortale… Pùm! Inferno: vent’anni… Quando sei più grande, fai all’amore con una donna che non sei sposato, non c’è il sacramento: Inferno un’altra volta. Fai all’amore con la tu’moglie, non vuoi un figlio: hai sciupato il seme, stai attento, Pùm! Inferno… Allora, si può fare all’amore solo con la moglie solo quando si vuole un figlio?! Due si sposano, dice “Quanti figli vogliamo? Due! Bene! Si fa all’amore una volta a vent’anni una volta a quaranta…”Lo diciamo preventivamente: Ro-bertaccio, eri meglio allora. Forse, invece di cimentarti con la Bibbia potevi scegliere, ad esempio, Le Sette leggi della Sacra Pipa dei pellerossa Oglala Lakota. Anche perché, non si sa mai, ricordi, magari quando si muore, si arriva di là e invece di trovarci Jahvé ci si trova Manitù. Viviamo in una metropoli e non

ce ne eravamo accorti. Un po’ come a Los Angeles che tra la Valley e Ocean County ci sono due gradi di clima e svariate migliaia di dollari di differenza. Così tra Campo di Marte e le Piagge da noi, almeno a leggere il presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Firenze, Leonar-do Bieber, che rispondendo al Corriere Fiorentino, su quand’era l’ultima volta che era stato nel popolare quartiere a nord ovest ha risposto: “Vivo dalla parte op-posta della città, e la mia attività politica si svolge prevalentemente nel Quartiere 2. Ma se contattato sono assolutamente disponibile a incontrare cittadini e comitati”. In attesa che i cittadini si attivino per contattare il presidente, ma-gari andando in delegazione fino al lontano Quartiere 2, ci duole vedere come sia passata un’era geologica da quando la riqualifi-cazione di quella periferia era un impegno per l’amministrazione e di quando, il maggior partito cittadino (da cui anche Bieber proviene) decideva di chiudere col segretario nazionale Piero Fassino la propria campagna elettorale alle Piagge. Erano simboli certo, un po’ come quelli evocati da quella risposta.

Le soreLLe mArx

i cugini engeLs Lo Zio di TroTZky

BoBoRidateciRobertino

Biebersperdutoalle Piagge

Medagliaal valorePregevole iniziativa del Gruppo Donatello che oggi offre a tutti un bel caffé da Gilli e insignisce il nostro sempreamato Eugenio Giani del premio Donatello. In effetti, dopo il trasloco da Palazzo vecchio, a Eugenio s’erano liberati 30 cmq. sulla parete di destra dell’ufficio in Consiglio Regionale e il Nostro avrà pensato che lì ci stava giusto giusto una bella medaglia. Ed eccoti quelli del Gruppo Donatello. C’era però da decidere le motivazioni e per non ripetere le litanie dell’amore per la Firenze delle tradizioni, eccoti il Giani formato contemporaneo: “In una Firenze sempre più distratta verso l’arte contemporanea – ha detto Luana Lapi vicepresidente del grup-po Donatello – Giani, da cittadino delle istituzioni ha colmato questo vuoto con assiduità e precisione, mantenendo sempre la parola data, sia nelle grandi che nelle piccole occasioni”. Soprattutto le piccole, cara Luana, e il vuoto da riempire era soprattutto sul muro. Ma lui non si scompone: sarà pure per l’arte con-temporanea la pregevole medagliozza donatelleschiana, ma il cuore di Giani è sempre per la sua Firenzi-na. “Sono orgoglioso di ricevere un riconoscimento così prestigioso, anche perché avviene nel giorno canoniz-zato come la festa di Donatello, lo scultore fiorentino più importante del primo Rinascimento. L’impegno è far diventare il 13 dicembre la festa di Donatello in tutta la Toscana”.

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Lo specchiodella Mandragora

La chiesa del Sacro Cuore è nota a Firenze per il suo campanile. L’architetto

Lando Bartoli, che ristrutturò nel periodo fra il 1956 e il 1962 la chiesa fondata dalla congregazione dei Frati Bigi in-torno al 1875, ha progettato e realizzato, con la consulenza di Pier Luigi Nervi, un campanile che la critica dell’epoca definì “avveneristico”.In effetti si tratta di una strut-tura singolare nel panorama delle architetture eclessiastiche, sia per la sua forma caratteriz-zata dal cemento trattato a fac-cia vista con granulometria in vista, molto curata e di ottima fattura, sia per le caratteristiche del reticolo strutturale in com-pleta vista, senza tamponature. Ora questa struttura, che con buon effetto urbano costituisce la chiusura prospettica della via Masaccio, si può specchia-re nella facciata vetrata della nuova sede della casa editrice Mandragora.La sede della Mandragora sta infatti, seminascosta, quasi in fronte della chiesa sulla via Capodimondo, e si affaccia sulla strada solo con il grande cancello di vetro, e con una fac-ciata di vetro bianco a doppia specchiatura.L’effetto urbano della facciata è quello di un grande specchio che riflette la vita della città, e anche il grande campanile. Questa piccola facciata nascon-de però un’opera di grande linearità, completata nel 2013, che si articola in un gioco di volumi ,di spazi e cortili interni che è invisibile, ma intuibile, dal passante.La Mandragora, nata nel 1985 come società specializzata nella gestione di eventi e bookshop museali, decise qualche anno fa di trasferirsi dalla sede prece-dente in questo luogo occupa-to da un vecchio laboratorio artigiano. Claudio Nardi ha affrontato con leggerezza e innovazione il

complesso delle regole e delle norme che regolano l’attività edilizia in città. Anzi ha utiliz-zato i limiti che questo norme ponevano come una risorsa.Come egli stesso dice nella presentazione del progetto: “ La complessa articolazione delle norme che definiscono distan-ze, altezze, affacci, é diventata lo spunto per il disegno delle forme del nuovo edificio e non solo il limite entro cui muo-versi, ci ha invitato a inventare cortili interni, terrazze e ter-razze giardino, logge, collega-menti-ponte, trasparenti, quasi sospesi tra le due unità che compongono il complesso.”Il complesso è articolato su tre livelli, di cui uno interrato e due fuori terra ed è composto da singoli grandi volumi che ospitano uffici, show room, magazzini ecc.L’immagine dell’edificio è quin-di un immagine che è formata dall’articolazione dei grandi volumi, quasi parallelepipedi regolari, che sono costituiti, e racchiusi, da superfici leggere, che si sfiorano, quasi imma-teriali, invece che di pietra o calce,Un architettura fatta di colori, “di lucentezza e incertezza invece che di materie ruvide, terrose e certe, perché tende alla trasparenza invece che alla protezione , perché dialoga e si racconta alle pietre ma anche agli stanchi intonaci che lo circondano.” come racconta Nardi.Un edificio “estraneo” al con-testo urbano che è formato da edifici della prima metà del se-colo scorso, e che si caratterizza per compatezza e solidità.Ma un edificio che si fa notare, nella piccola via su cui affaccia, per le caratteristiche dei mate-riali e delle finiture esterne delle facciate e anche per le forme re-golari delle coperture che, come nell’altro edificio di Nardi a Novoli, sono spesso unificate, in un unica struttura, alle pareti laterali per costituire una strut-tura avvolgente l’edificio.

di John sTAmmer

Foto di Lorenzo Mennonna

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Aldo FrangioniOltre i limitidel visibile

essere artisti è un dono e un privilegio che a pochi è concesso, poiché significa

vedere e osservare il mondo con occhi diversi, visionari e a tratti persino utopici. Immergersi nell’incondizionato mondo dell’estetica contemporanea, operando oltre i limiti del reale sino a reinventarlo, evidenzia la capacità dell’artista di manipola-re i linguaggi moderni con ori-ginalità e sensibilità, riuscendo a cogliere sfumature impercettibili a occhi ingenui e ignari che al di là della percezione c’è tutto un mondo da scoprire e raccontare. In tal senso le opere di Aldo Frangioni manifestano l’esi-genza e il desiderio di confron-tarsi con la realtà circostante, indagandola ed estendendone i limiti del visibile, all’interno di una visione totale e totalizzante in cui perdersi e ritrovarsi nello stesso istante.La delicata attenzione per la morfologia del particolare, il cromatismo forte ed eccentri-co capace di passare in modo versatile dai toni caldi a quelli freddi, uniti al gusto della linea e della forma lucida e decisa nel proprio delinearsi, fanno di Aldo Frangioni un artista ine-dito e originale, la cui poetica è in grado di muoversi oltre il presente in quanto presente, per

Da Sinistra “Macroscopia F” - Stampa su forex – cm. 100x100“Senza titolo” - Parte di un polittico smembrato (6 pezzi) - Acrilico su tela – cm. 180x60“7 lance” – Stampa su tela plastica applicata a lance di legnoTutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato.

di LAurA [email protected]

addentrarsi nel profondo della materia e del mondo, in un viaggio alla scoperta dell’ignoto e della meraviglia. Fra visioni e concretezza, la mano dell’artista si muove verso la presa di co-scienza che anche il più piccolo particolare può essere espresso esteticamente, con l’intento di donare allo spettatore un nuovo punto di vista, un nuovo modo di osservare e rilevare i tratti salienti di una realtà in continua evoluzione nonché un nuovo modo di sentirla e percepirla.

Si tratta di una continua e inesauribile ricerca sul linguag-gio artistico e sulle sue infinite possibilità: un percorso nel quale l’artista ritrova se stesso in un flusso psichico di linee, forme e colori, di architetture mentali senza fine, nate dall’a-more passionale per il disegno analitico e sintetico, ma denso di aspettative, la cui leggibilità è aperta, come un continuum di narrazioni organiche e di costru-zioni poetico-letterarie che non aspettano altro di essere lette.

Oggi sarà inaugurata Firenze alle ore 19.00 la Galleria ZetaEffe in via maggio 47/rosso.La Galleria nasce da un progetto di Sonia Zampini (storica dell’arte e curatrice) e Francesco Giannat-tasio (responsabile della Galleria Immaginaria a Firenze) che insieme ad alcuni collezionisti hanno deciso di dar vita ad un nuovo spazio espo-sitivo, all’interno del quale saranno presentate mostre, video d’arte oltre alla presenza di un’area riservata in mostra permanente, allestita con opere degli artisti che collaborano con la ZetaEffe.Il programma espositivo presenterà opere di giovani artisti, italiani e internazionali, e retrospettive sui maestri contemporanei, in modo da poter creare un ideale dialogo tra la storia, colta nella suo respiro contemporaneo, e i giovani che ne ereditano e sviluppano le premesse.Per questo sarà attiva anche una sala adibita a video e la programmazio-

ne contemplerà anche un corpo di mostre dedicate alla fotografia.Per l’inaugurazione della galleria ZetaEffe sarà presentata la mostra fotografica “Poliuretani” con opere di Max e Torquato Perissi che sarà visibile fino al 31 gennaio 2015.Max e Torquato, fotografi rispettiva-mente di moda e di arte, inaugurano un ciclo di opere che nasce da un lavoro collettivo, in cui le esperienze precedenti si uniscono e danno vita ad una nuova espressione artistica. Le foto che compongono il corpo di immagini di Poliuretani ereditano dalla pittura classica, tardo sette-centesca e ottocentesca, le ambien-tazioni, gli interni, gli elementi descrittivi dei soggetti, ma osserva con un’attenzione destabilizzante il

contemporaneo prossimo futuro. Infatti i soggetti in primo piano sono protagonisti di un’ era ventura, di un tempo prossimo che ridiscute, tramite la presenza di elementi sim-bolici, un passato che fa da sfondo a nuove genti, dalle attitudini umane, collocate in una dimensione rarefatta

ZetaEffeuna nuovagalleria

del tempo, sospesa tra il passato e il futuro. Sono manichini di ultima generazione, colti in atteggiamenti che rimandano all’uomo, composti da poliuretano e idealizzati dalla fo-tografia come una possibile prossima civiltà che si colloca in una porzione di spazio senza tempo.

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Perchécolleziono

Quale è stato la prima opera d’arte che ha acquistato e quando è accaduto?

Quando nei primi anni ‘80 ho comprato una grande tempera di Lorenzo Bonechi non sapevo ancora che quell’opera sareb-be diventata la prima di una collezione, ma il contesto aveva tutte le caratteristiche per affasci-narmi. Conoscevo il mercante dell’artista e con lui visitai il suo studio, più volte e mi decisi per l’acquisto, era una grande carta trattata che aveva bisogno di essere riportata su tela e mon-tata su di un adeguato telaio di legno. Con l’artista ci recammo dal suo falegname e intelatore che era custode di un piccolo museo fiorentino, il Museo Hor-ne, dove viveva e aveva il suo laboratorio, in un grande vano delle soffitte. Horne è stato un grande collezionista e il palazzet-to era la sede della sua collezione di artisti del ‘400 fiorentino ed io potevo starci per delle ore, da solo perché in quegli anni non era aperto al pubblico e per un certo periodo ne ho anche avuto le chiavi. Il contatto con le cose di altissima qualità del passato e la frequentazione degli artisti che facevano sperimentazione sono stati, in quel periodo, alla base della formazione del mio gusto.Perché colleziona?Immagino sia perché desidero avere il controllo sugli oggetti e attraverso questi sul mondo che con loro costruisco, parallelo a quello reale, naturalmente in questo secondo mondo gli oggetti finiscono di essere tali per trasformarsi in compagni. Il modo che uso per procurar-meli è estremamente concreto e fa parte della vita ordinaria, ma quello che ottengo con gli oggetti desiderati mi proietta in una dimensione diversa, molto intensa, che non ha bisogno di bisogni e non ha necessità di confronti. Mi piace poter stare alla presenza dei miei lavori col cambiare dei miei stati d’ani-mo e percepirli con altri sensi oltre alla vista e al tatto, giacché possiedo opere in profumato legno di canfora o fatti con spezie aromatiche o di ciocco-lata, alcuni sono fatti di lana ed altri di suoni e ne posseggo uno formato da tre grandi conteni-tori dove sono coltivate piante commestibili. Certamente il

un ampio e luminoso spazio a Firenze.La decisione successiva di aprirlo al pubblico è stata conseguente, sebbene il pubblico ordina-rio non costituisca la parte più interessante di quanti lo frequentino. In realtà il mio spazio, costituito in fondazio-ne, funziona più con specifici addetti ai lavori, come critici, curatori, giornalisti, collezionisti, istituzioni culturali, accademie ed università, coi quali vengono fissate visite ed incontri fuori dai giorni abituali di apertura, e sempre con persone ed enti non fiorentini, che sembrano vivere benissimo senza la mia collezione.Quale collezione privata accessibi-le pubblicamente suggerirebbe di visitare?Mi piace molto la Fondazione Beyeler poco fuori Basilea che incarna il modello perfetto e insuperabile al quale chiunque ami l’arte dovrebbe tendere, una fusione armonica di spazi interni ed esterni in dialogo e confronto con le opere d’arte, dove si può anche studiare o semplicemente sedere e guardare e come se tutto ci apparisse con la nitidezza del sogno.

Sensus è presente nella BMW Art Guide by Independent Collectors,

pubblicazione che raccoglie le collezioni private di arte contem-

poranea aperte al pubblico nel mondo e recentemente nel BMW Art Guide Blog pubblica on-line alcune interviste fatte ai collezio-

nisti che ne fanno parte.

gioco connesso al cercare, a dare ordine e la piacevole sensazione di intimità che ricevo quando sono al centro dei lavori che ho scelto, sono gli elementi che mi spingono a collezionare.La sua collezione segue un concept o un tema specifico?Posso individuare tre linee: la fragilità dei materiali che assimilo al trascorrere del tempo; la luce che consente la visione e che si può definire solo col suo contrario, l’ombra; il margine o il confine o la superficie di sponda che insieme segnano il passaggio fra elementi concreti e immateriali, limite inteso anche zona intermedia dove un’ope-ra può rischiare di non essere riconosciuta come tale. Questi elementi sono il filo che lega la collezione e li ritrovo tutti, o almeno sempre uno dei tre, nei singoli pezzi che raccolgo.Quali artisti segue attualmente?Seguo da sempre Fabrizio Corneli che lavora con la luce e con gli inganni della visione, un giovane artista giapponese che si chiama Mitsunori Kimura

che costruisce piccole sculture usando la pasta dei colori ad olio e il legno di canfora.Lei instaura rapporti personali con gli artisti di cui colleziona le opere?Sì, in realtà ritengo importante avere un rapporto diretto con l’artista per poter frequentare il suo studio sentirlo parlare del lavoro. In alcuni casi sono nati rapporti di grande amicizia che durano da anni. Poi gli artisti posseggono una visione del mondo che precorre i tempi e anche nelle piccole cose hanno delle attenzioni e atteggiamenti, dei pensieri che, osservati, mi in-segnano a capire degli aspetti di me stesso ai quali non riuscivo a dare nome.Perché ha deciso di rendere la sua collezione accessibile al pubblico?Il desiderio di vedere raccolto in un unico luogo i miei lavori, che per tanto tempo sono stati conservati in magazzini, si è concretizzato due anni fa grazie ad un caro amico, appassionato d’arte, Gualtiero Lombardini, che mi a messo a disposizione

Intervista a Claudio Cosma

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Da Pechinoa Los Angeles

Travels

Pechino. Tempio del cieloIl meraviglioso Tempio del Cielo. Parliamo di una

superficie grande quattro volte quella della Città Proibita. Qui non era ammesso il popolo. Gli animali transitavano sotto i ponti per non contaminare la purezza dell’Imperatore.

KyotoIl Tempio di Ryoanji in Kyoto. Esperienza incan-

tevole. Le pietre disposte in un ordine apparentemente sparso, evocano strutture celate, l’istante come apogeo dell’As-soluto. Visione di una concreta idealità, meandro possibile di una civiltà spirituale, evoluzione eterna nel dettaglio. Antidoto alla barbarie della globalizza-zione. “Cogliere l’ineffabile”: queste le parole che risuonavano durante le passeggiate in questi meravigliosi giardini. “The Rock Garden” ad esempio, creato alla fine del periodo Muromachi (1500) dal monaco zen Tokuho Zenketsu. Originariamente tutta la struttura era una casa di campagna, poi acquisita nel 1450 da Hosokawa Katsumoto è trasformata in tempio zen.

Los Angeles “Watts Tower”Andare in giro per suonare significa crescere interior-

mente e imparare tanto. Oggi, ad esempio abbiamo suonato a Los Angeles al “Watts Tower Jazz Festival”. La storia di questo festival è incredibile. Un emigrante italiano, Simon Rodia, originario di Ribottoli in Serrino, provincia di Avel-lino, ha costruito queste torri nell’arco di un trentennio. Lo ha fatto utilizzando materiale riciclato, cocci di bottiglia, acciaio, cemento ecc. Si tratta di un complesso di diciassette ope-re (la torre più alta misura circa trenta metri) ispirate alla festa dei gigli, che si tiene a Nola, in Campania. Cito: “Perché le ho costruite? Non so dirlo. Perché un uomo realizza i pantaloni? Perché fa delle scarpe?”, diceva Rodia nel 1879, figura con-troversa, tra genio e follia, che ha proiettato nella sua bizzarra opera un sentimento di riscatto umano e sociale, iniziando a la-vorarci dopo un periodo di forte sbandamento in cui era diven-tato un vagabondo alcolizzato .

fortissimo di comunità. In seguito all’opera di Rodia, Watts Tower è diventato un fanta-stico Art Center, che raccoglie centinaia di artisti, gestito da tantissimi operatori e artisti, fra cui la straordinaria Rosie Lee Hooks. Una parte della struttu-ra è dedicata a Charlie Mingus, con scuola di musica annessa. E qui viene la chicca: Mingus abi-tava in queste strade. Era lui a portare molti dei pezzi di scarto a Simon Rodia, in una meravi-gliosa connection tra Avellino e Los Angeles, tra festa dei gigli di Nola e black music. Un contributo fondamentale, una “cementificazione” dei legami artistici tra ambiti differenti ma nello spirito comune. La storia è infinitamente più ricca e complessa. Ci sono libri importanti, e vicende che mi sono state raccontate che rasentano quasi l’incredibile. Per esempio il libro di Luisa Del Giudice, che ha descritto, durante la presentazione al festival, tutte le varie connes-sioni tra l’opera di Rodia e la cultura black della zona (quella foto l’ho carpita durante la conferenza e mostra le condi-zioni attuali dell’originaria casa di Rodia a Riottoli). Inoltre molti giocatori del capolavoro Rockstar “Gta V”, si chiedevano da sempre cosa diavolo fosse questa struttura qui. Grazie alla “funzione” dell’opera si percepi-va attorno a “noi”, all’Italia, un senso di amicizia davvero forte, che difficilmente mi spiegherei altrimenti. È uno straordinario esempio di “eccellenza” che nasce dallo spontaneo, dall’ur-genza espressiva. Per intenderci, il festival si è aperto con una toccante manifestazione yoruba, il servizio d’ordine era compo-sto da ragazzi con tanto di spil-letta falce e martello e simboli musulmani in evidenza sulle giacche. È stato davvero assurdo partecipare ad un rito yoruba, assieme alla gente di colore, nel caldo californiano di fine set-tembre, passando attraverso le strutture del centro, la scuola di Mingus, e - nei fatti - celebran-do l’opera surreale di un italiano che funge da simbolo catartico di una intera comunità. Le parole non bastano a rendere conto di quanto ancora sia da scoprire il mondo.

Ostinandosi a proseguire nella sua opera malgrado l’ostilita’ di molti, tra cui i vicini, che ne fecero bersaglio di atti vadalici. Specie durante la seconda guer-ra mondiale, quando era stata fatta circolar la voce che quelle strane costruzioni nascondessero antenne radio per comunicare

con i nemici giapponesi”. Siamo nel quartiere di Watts, quartiere nero. Eravamo gli unici bian-chi a suonare. È stato davvero bello vedere tantissimi musicisti felici, tanti batteristi e colleghi entusiasti della nostra musica. (Guardate le foto e presto i video). Davvero un concetto

di FrAncesco [email protected]

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Sonia Delaunaye l’influenzadella pitturasulla moda

Il musée d’Art Moderne di Parigi fino al 22 febbraio propone una grande retro-

spettiva di Sonia Delaunay con oltre 400 opere, fotografie e films d’epoca che ripercorrono il pano-rama delle sue creazioni in pittura e nelle arti applicate dall’inizio del XX secolo fino alla fine degli anni 70. L’attività di questa artista viene spesso confusa e associata a quella di Robert Delaunay, ed anche questa volta, nonostante il completo omaggio alla sua multi-forme creatività, la mostra si svolge in contemporanea con quella dedicata all’opera del marito al Centre Pompidou. I due si erano incontrati nel 1906 a Parigi e dal 1910 iniziarono insieme un per-corso artistico che li portò a creare nel 1912 con Kupka e Picabia una nuova corrente, l’Orfismo, termine coniato da Apollinaire, una sorta di linguaggio luminoso, astratto, che si fonda sulla dinamicità dei colori e sul loro contrasto. Le due mostre parigine dimostrano che per molti anni il percorso dei due artisti è simile, quadri di grande formato con coloratissimi centri concentrici che esprimono movi-mento, ma anche l’unicità di Sonia che si rivela soprattutto nelle tante testimonianze di arte applicata.Sara Elievna Stem nacque nel 1885 in un villaggio dell’Ucraina da una famiglia modesta. Ancora piccola venne adottata da un ricco zio di San Pietroburgo che le per-mise di girare il mondo, di visitare musei, di studiare arte e di trasfe-rirsi a Parigi. Qui iniziò il suo per-corso artistico dedicandosi a ritrat-ti di persone anonime delle quali marcava i tratti e la psicologia con decise pennellate nere e con forti contrasti tra toni caldi e freddi. L’incontro con Robert Delaunay fu decisivo per lo sviluppo della sua creatività. Il loro appartamento a Parigi in boulevard Malesherbes, dove andarono ad abitare dopo un lungo soggiorno in Spagna e in Portogallo, divenne anche spazio espositivo delle loro opere e punto di riferimento di personaggi dell’a-vanguardia letteraria e artistica di livello internazionale. Sonia oltre alle tele cominciò a sperimentare anche supporti e tecniche diverse. Nel 1921 iniziò a utilizzare le forme e i colori dei suoi quadri per i tessuti in stoffa e in maglia usati nei vestiti e costumi dise-gnati da lei stessa. Donna creativa

luminosità attraverso accostamenti e contrasti di colori. Alla mostra al musée d’Art Moderne sono esposti alcuni dei deliziosi boz zetti conservati all’archivio Delaunay a Parigi eseguiti ad acquarello o tempera che precedevano sempre la realizzazione dei tessuti e degli abiti. Il successo di Simultanè fu immediato e nel 1925 all’Espo-sizione internazionale delle arti decorative e industriali vennero esposti i tessuti e vestiti di Sonia come “modelli d’arte”. La Delau-nay, con il suo stile riconoscibile ma sempre diverso, disegnò anche costumi per il teatro, la danza e il cinema e si cimentò in progetti editoriali e nell’arredamento. Nel 1933 creò due pannelli monu-mentali, presentati per la prima volta alla mostra parigina, per decorare le pareti del Palais de l’Air progettato da Robert Delaunay e da Felix Aublet per l’Esposizione internazionale delle arti e delle tecniche contribuendo, insieme agli altri due artisti, a fare del padiglione una splendida creazione omogenea di architettura, pittura, decorazione e scultura. Nel 1940 Robert morì. Sonia disperata si rifugiò per un certo periodo in una comunità artistica a Grasse in Costa Azzurra. Tornata a Parigi continuò a dipingere quadri e tessuti creando motivi nuovi e reinterpretando quelli vecchi con altre tecniche fino alla sua morte nel 1977 a 92 anni. Aveva dovuto attendere il 1967, dopo tanti anni di creatività e tante mostre dedica-te alla coppia Delaunay, per avere al museo d’Arte Moderna la sua prima grande personale. Questa nuova esposizione postuma, più completa della precedente, ha il merito di farci conoscere e amare una donna che, fino alla fine, con curiosità e passione, ha continuato a mischiare l’arte con la vita.

di simoneTTA [email protected]

e pragmatica allo stesso tempo affiancò la sua attività artistica a quella commerciale di moda che chiamerà Simultanè in omaggio alla dinamicità delle sue creazioni. Parte del grande appartamento su due piani in boulevard Malesher-bes venne trasformato in una “sar-toria” molto speciale con lavoranti

russe e clientela dell’alta borghesia affascinata da quei vestiti dal taglio semplice ma unici perché fatti di colore e geometria. Su questa espe-rienza Sonia Delaunay scrisse un libro, L’influenza della pittura sulla moda, teorizzando la possibilità di differenti approcci nella ricerca artistica di dinamismo e maggiore

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esattamente un anno fa, alla fine di novembre, moriva a New York, quasi novan-

tenne, Saul Leiter (1923-2013), fotografo e pittore. Attivo come fotografo nella New York degli anni Quaranta, incoraggiato fino dall’inizio da Walter Eugene Smith, si lega in seguito con rapporti di amicizia con Robert Frank e Diane Arbus, ed alterna il lavoro presso le riviste di moda con le ricerche personali condot-te in strada, ricerche visive che egli sviluppa utilizzando come la maggior parte dei fotografi dell’epoca il bianco e nero, per iniziare nel 1948 ad utilizzare il colore in maniera pionieristica. Il passaggio dal bianco nero al colore, contrariamente a quanto avviene per la maggior parte dei suoi colleghi, procede sotto il segno della continuità, dovuta forse alla sua formazione come pittore e ad una sua abitudine al colore come elemento impre-scindibile delle immagini. Que-sta continuità appare evidente nelle sue immagini di strada, quelle realizzate al di fuori di ogni incarico o committenza, che conduce in maniera persona-lissima ed indipendente da ogni moda o tendenza. Nelle imma-gini in bianco e nero il grigio viene trattato come un colore, nella ricchezza delle sfumature e dei toni, negli accostamenti ai neri profondi ed intensi ed ai bianchi sempre un poco sporchi e mai accecanti. Con il passaggio al colore, questo non assume mai delle valenze autonome, tali da prevaricare la forma o l’equilibrio, ma diventa la logica continuazione della sua ricerca visiva, sottolineando alcuni aspetti dell’immagine o della composizione, oppure esaltandone altri, ma sempre nel rispetto della forma e del contesto. Il mondo che emerge dalle sue ricerche è caratterizzato da presenze ambigue, transitorie, fugaci e quasi incorporee, spesso appena accennate o poste ai mar-gini dell’inquadratura, sempre poco definite, mai partecipi o complici, ma sempre ineludibil-mente presenti e condizionanti. Del resto il suo rapporto con gli altri non era improntato alla confidenza ed alla mondanità, ed il silenzio con cui proteggeva le

di dAniLo [email protected] Un ricordo

di Saul Leiterproprie ricerche, rese note solo in epoca recente, ne è la diretta testimonianza. Nonostante le sue immagini fossero pubblicate regolarmente e perfino esposte presso prestigiose gallerie di New York, Saul Leiter non ha mai ricercato la fama, la noto-rietà o il successo commerciale. Essere sconosciuto gli è sempre sembrata una posizione estre-mamente comoda, mettersi in mostra gli ha sempre ripugnato. Questo gli ha permesso di con-fondersi con la gente, diventare parte della folla, dei luoghi, partecipare agli eventi quotidiani non come spietato testimone di presunti “attimi fuggenti”, ma come comprimario, come personaggio che partecipa agli eventi adeguandosi al loro ritmo, senza tuttavia rinunciare ad imporre il proprio modo di leggere e di interpretare il reale. Il rifiuto del fasto e degli abbagli dell’apparenza, gli ha permesso di concentrarsi sui dettagli, sui particolari appena leggibili della realtà, su quel materiale grezzo ed informe a cui solo lo sguardo attento del fotografo conferisce senso, dignità e significato. Più affine a Louis Faurer che ai suoi contemporanei William Klein e Robert Frank, Saul Leiter preferisce lavorare da solo, disso-ciandosi dalla così detta School of New York. Nel 1981 chiude il suo studio, pur continuando a fotografare ed a dipingere per proprio conto. “Per costruire una carriera e per avere successo, bisogna essere determinati. Bisogna essere ambiziosi. Io preferisco di gran lunga bere un caffè, ascoltare della musica e dipingere quando ne ho voglia”.

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culture asiatiche.Il contatto ormai consolidato di Alessandra Garosi con l’isola più grande del mondo ha segnato una tappa centrale del suo per-corso artistico.Artista raffinata e curiosa, la pia-nista non si è limitata a suonare in varie città, ma ha esplorato il

repertorio dei compo-sitori australiani e ha incluso alcune delle loro composizioni nei propri concerti.Al tempo stesso ha collaborato con vari musicisti locali. Uno di questi è appunto Simmons. Il brano iniziale, “Cancer”, è tratto da Zodiac, un CD con brani di Damiano Santini realizzato dalla pianista nel 2011. Il pezzo viene proposto

in un nuovo arrangiamento, più breve dell’originale, arricchito dalla presenza di Simmons. Au-trice di due brani - “Greening” e “Il gatto e la volpe” - Garosi si conferma pianista versatile e priva di orpelli.Il CD si chiude con “The Laic Mass”, un bel brano di Sim-

Confesso che Giovan Battista Gelli era per me un illustre sconosciuto, finché non ne ho casualmente scoperto un singo-lare risvolto. Gelli fu un filosofo e scrittore fiorentino vissuto fra il 1498 e il 1563. Scrisse diversi libri, fra i quali “La Circe”, dove descrive, sicuramente con grande sprezzo del ridicolo, i dialoghi fra Ulisse e i suoi com-pagni trasformati in porci. Ma se “La Circe” è, almeno credo, universalmente dimenticata, ben altra sorte ha avuto l’altra opera capitale del Gelli “Capricci del bottaio” (1546), basata sui dialo-ghi fra tale ser Giusto bottaio da San Pier Maggiore e la propria anima. Ser Bindo notaio, nipote di Giusto e coinquilino impic-cione, carpisce i dialoghi attra-verso un sottile tramezzo e, alla faccia della privacy, li pubblica.I “Capricci” ebbero un destino imprevisto: il libro fu infatti inserito nella prima edizione (1559) dell’”Index librorum prohibitorum”. Potevo capire

che nell’Index finissero Gugliel-mo di Ockham e Machiavelli, ma che ci fosse scaraventato an-che l’innocuo bottaio mi lasciava alquanto perplesso.Ho provato a leggere “I Capric-ci” per capire dove il buon Gelli avesse “toppato”: francamente non ce l’ho fatta, ma arrivato al secondo ragionamento fra Giusto e l’anima, ho trovato un passaggio che potrebbe aver risvegliato l’occhiuta attenzione degli inquisitori: “(due uomini) con tutto e’ mostrassero ancor essi di non credere molto dal tetto in su mentre e’ vivessero, venendo poi a morte, l’uno per raccomandarsi chiese un croce-fisso e l’altro disse: io mi racco-mando a chi è di là, che possa più il Dio o il Diavolo e chi più può più tiri”. Sono poi andato

a vedere dove Gelli era stato collocato. Sopra di lui c’era tale “Ioachimi Tingelbergen. Opera omnia Geomátiæ, & cuicfuis generis Diuinationis”, una specie di indovino, sotto l’autore di un complesso di opere sulle arti magiche: “Ioannis de Barro libri & fcripta omnia Magicæ artis”. Ma subito dopo il buon Ioannis de Barro c’era nientemeno che “Ioannis Boccacij Decades, feu Nouellæcentum. quæ hactenus

cum intollerabilibus erroribus ipreffæ funt, & quæ in pofterú cum eifdem erroribus impri-matur”, che si becca una delle citazioni più lunghe dell’Index.I “Capricci”, come in “1984” di Orwell, fu expurgatum, come dicevano con delicatezza gli inquisitori (non per nulla fra loro si distingueva per le buone maniere monsignor Giovanni della Casa, autore del Galateo) e, già nel 1612, era stato tolto dall’Index; non uguale fortuna ebbe Boccaccio, che ci rimase a lungo, anche se non mi risulte-rebbe che compaia nell’ultima edizione (1948), dove in com-penso ci sono Sartre, Moravia, Capitini, D’Annunzio e molti altri. Probabilmente per una dimenticanza, o forse per il fatto che l’autore si professava catto-lico, non compare in nessuna edizione il “Mein Kampf” di Hitler.Nel 1966 papa Paolo VI abolì definitivamente l’Index: un altro valido motivo a sostegno della Sua beatificazione proclamata di recente da Papa Francesco.

Un’educazione musicale di tipo classico, una lunga esperienza in un gruppo

di musica da camera (Harmonia Ensemble) che collabora con artisti molto diversi, da Gavin Bryars alla Kocani Orkestar, una fanfara di zingari macedoni. Poi l’esperienza solista, che ribadisce l’amore per le origini classiche innestandole in esperienze nuove e multiformi. Questo, in estrema sintesi, è il percorso di Alessandra Garosi, la piani-sta senese della quale ci siamo occupati recentemente per il suo omaggio a Giorgio Gaslini (Chansons et carillons). Adesso torniamo a parlare di lei per un disco di composi-zioni originali, The Melting Pot (Ema Records, 2014), che la musicista ha realizzato insie-me al sassofonista australiano Adam Simmons. Il CD è stato registrato dal vivo nel contesto della rassegna Forme nel verde (Bagno Vignoni, 30 Luglio 2013). Oltre a vari tipi di sax e clarinetto, Simmons suona lo shakuhachi (flauto dritto giap-ponese), confermando l’interesse dei musicisti australiani per le

di ALessAndro [email protected]

di FABriZio [email protected]

mons diviso in tre parti. La coesione strumentale appare quasi sempre eccellente. Purtroppo le note sono ridotte all’essenziale, senza il minimo accenno all’esperienza austra-liana della pianista, che invece meritava di essere raccontata.Opera di un certo spessore, il di-sco ha il merito di farci conosce-re un musicista interessante ma ancora ignoto in Italia. Attivo anche come scultore, Simmons ha collaborato fra l’altro con la Banda Improvvisa di Orio Odo-ri (ex Harmonia Ensemble come Alessandra Garosi). Un sodalizio più lungo è stato quello con la Societé des Arpenteurs guidata dal clarinettista francese Denis Colin, ribattezzata Societé des Antipodes in occasione dei concerti ai quali ha partecipato l’artista australiano. The Melting Pot aggiunge una nuova tessera al mosaico che Alessandra sta costruendo da molti anni. Un viaggio che parte dalla provincia toscana, passa at-traverso l’interesse per il cinema e il teatro e arriva agli antipodi. Non per fermarsi, ma in attesa di un’altra partenza: qualunque sia la meta, la seguiremo con attenzione.

artistiin viaggio2

Via Giovan Battista GelliUn bottaioall’Indice

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In una autorevole intervista televisiva abbiamo appreso che Berlusconi non ha più il mazzo in mano! Dobbiamo dedurne almeno due cose molto impor-tanti: che questi signori, ancor prima che essere uomini di stato sono giocatori di carte (e quanto esperti!); che la metafora significa una e una sola cosa, che è cambiato il “mazziere”, colui cioè che detiene il potere in una determinata situazio-ne o è comunque in grado di dettare condizioni agli altri. Ora il problema, ormai solo squisitamente tecnico , è sapere a che gioco giocano. A Briscola, a Rubamazzo, a Scala 40, a Sco-pa, a Scopone, a Sette e Mezzo, all’Uomo Nero o a Zecchinetta? Né sembra trascurabile il fatto che ormai vogliono distribuire subito le carte senza nemmeno “tagliare il mazzo”...

Per avere successo nella vita contano più le buone amici-zie che un valido percorso

di istruzione. Molti (giovani) italiani la pensano così e questo sentiment - per quanto con quelle non correlabile - si accompagna al ritorno delle occupazioni in molti istituti scolastici, disegnando un ensemble piuttosto grigio. La novità è che quest’anno la verve modaiola di occupare le scuole ha ottenuto il ‘riconoscimento’ del governo. Si, avete capito bene, del governo. Un certo Davide Faraone, sottosegretario alla pubblica istruzione, ha espresso parole di compiacimento verso questo sport nazionale. Finora erano state colpevolmente tolle-rate, da oggi sono dolosamente approvate. Per questo signore si tratterebbe di “esperienze di gran-de partecipazione democratica”. Sembra infatti che, giusto facendo l’esperienza delle occupazioni, il giovane Faraone ebbe a scoprire la propria vocazione alla politica (!) e questo confermerebbe la qualità del potenziale educativo che han-no questi happening radical-chic, dove il conformismo è la regola. “Dalle mie parti”, come si dice, un uomo di governo che rilascia simili dichiarazioni dovrebbe essere preso a calci nel sedere. E che diamine, diranno molti: con

di BurchieLLo 2000

dell’istruzione sarebbe qualcosa di completamente alternativo. Il punto è, però, che i giovani occupanti sembrano impegnati a ‘fare festa’ o al più a giocare al politico-in-erba e quando li senti rispondere in modo evasivo o per slogan al perché stanno occupan-do, ti rendi conto che non hanno idee, non hanno un progetto, sono anzi pieni di difficoltà. E si capisce: molti di loro sono stati allevati alla batteria delle pretese e del tutto-mi-è-dovuto e comincia-no presto a preferire le scorcia-toie, dimenticando che la vera rivoluzione, in questo Paese, è il compimento del proprio dovere. Sono raggiunti da troppi messag-gi negativi e ascoltano, spesso e volentieri, i tanti cattivi maestri che infestano i media, la rete, le città, la vita. Qualcuno dovrebbe spiegare loro che i comporta-menti virtuosi e il rispetto degli altri sono in grado di ‘contagiare’ virtuosamente il mondo che li circonda, almeno quanto le condotte viziose sono capaci di inquinarlo. Occupare licei e facoltà univer-sitarie è una moda che ha alcuni decenni; è vecchia, logora, non ha ormai più niente da dire. Se proprio questi giovini signori non possono rinunciare al loro party autunnale, ci mettano almeno qualcosa di piccante. Solo per fare un esempio, cacciate quel Faraone!

tutto quello che accade in questo Paese, proprio con un faraone te la prendi, e con quei bravi ragazzi che, in fin dei conti, suvvia, che male fanno?L’irresponsabilità è il brodo di coltura nel quale germinano piccole e grandi magagne e la cultura dell’ho-diritto-a-tutto è la stessa in cui matura la sopraffazio-ne, la negazione dei diritti altrui. Molti guardano con simpatia alle

occupazioni perché dimenticano che per tanti giovani, per tanti insegnanti e - se permettete – per i contribuenti esse significano soprattutto “interruzione di pubblico servizio”. Non ho alcuna ragione per difendere la pubblica istruzione, che del resto ha dato e dà, anche in questi frangenti, imperdonabile prova di sé. Sono un sostenitore del mercato e il ‘mio’ sistema

Faraonedi lottae di governo

di PAoLo [email protected]

PasquinateDa unmazziereall’altro

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risotti, carni e gustosissimi sughi. Ma non solo: diversi sono i piatti che la contengono, i francesi ad esempio vanno matti per la zuppa di cipolle, nota in tutto il mondo, ma anche le cipolle ripiene, quelle crude in insalata e la frittata, hanno la loro noto-rietà. Sicuramente il suo è un sapore particolare, generalmente ben tollerato da tutti, che aggiun-ge alle pietanze, quel tocco di gusto in più. Valore nutritivo e proprietà terapeutiche La cipolla

ha un consistente valore nutritivo, grazie alla presenza di sali minerali e vitamine, soprat-tutto la vitamina C, ma contiene anche molti fermenti che aiutano la digestio-

ne e stimolano il metabolismo; inoltre contiene anche oligoele-menti quali zolfo, ferro, potas-sio, magnesio, fluoro, calcio, manganese e fosforo, diverse vitamine (A, complesso B, C, E); flavonoidi con azione diuretica dall’azione diuretica e la gluco-chinina, un ormone vegetale, che possiede una forte azione antidiabetica. Ma questa pianta ha anche numerosissimi impieghi terapeutici: in dermatologia, può essere utilizzata come antibiotico,

Portacenere di biscuit, inizio ‘900, forse tedesco. Queste le laconiche notizie fornite da Rossano per questo oggetto che ha bizzarria intrinseca da vendere. Direi che il suo aspetto è inquietante, come se minac-ciasse chi lo usa, come se quella bocca spalancata prefigurasse un fiero pasto di polmoni interi del povero fumatore di... sigari direi, inizio novecento, i signori si ritiravano nei graziosi e puzzo-lenti fumoir a fumare pestilen-ziali sigari. Una famelica bocca dentata che tutto ingoia...un po’ come tutti noi intorno a Natale, il minicappellino di sghimbescio non ne attenua il morso. Che dire..il biscuit, bis-cotto, cotto due volte, ad almeno 1300 gradi e di morbidità residua se non “verniciato”, ha un’ anima costi-tuente di tenero caolino. Trattasi di materiale interessante usato oltre che per fabbricare ceramica e porcellana, come eccipiente

in farmacia per costituire alcuni tipi di compresse, come antipa-rassitario per debellare la terribile mosca che ha distrutto la pro-duzione delle olive quest’anno, qui da noi e non solo, in edilizia per gli intonaci etc etc... Il suo nome significa Colline Alte come riferimento ai luoghi dove veniva estratto, in Cina, in Italia la produzione più importante si ottiene dai giacimenti di Tretto in provincia di Vicenza, dove il caolino è chiamato appunto terra di Vicenza anche se ne esistono giacimenti presso Novara, a Montecarlo nel Lucchese, nel Grossetano, all’isola d’Elba, in Sardegna... Il biscuit, inventato dai cinesi prima del 1600, usato per fabbricare piatti, tazze e soprammobili, si diffonde in

Europa verso la metà del ‘700 a partire dalla Francia, grazie alla famosissima manifattura di Sèvres, produttrice di “pisserissi-me” statuette a gruppi pastorali e galanti che prosperarono e raggiunsero livelli di altissima qualità fino alla metà dell’’800,

poi la passione per questi oggetti andò pian piano scemando fino a scomparire del tutto, escluso ovviamente il suo rientro dalla finestra del collezionismo di classe. Di biscuit si fabbricavano bambole, ma qui si aprirebbe un immenso discorso a parte...

La cipolla appartiene alla famiglia delle Liliacee, viene coltivata in ogni parte del

mondo e rappresenta uno degli aromi più utilizzati nelle cucine di tutto il mondo. La cipolla è un prodotto dell’orto molto antico, utile in cucina e ricca di pro-prietà terapeutiche. È una pianta erbacea che cresce ogni due anni, ma generalmente è coltivata e in questo caso, produce i suoi bulbi annualmente. Il terreno sul quale cresce è generalmente un terreno fertile che non teme climi diversi, anche se “predilige” una temperatura piuttosto fredda. L’Emilia-Romagna, la Campa-nia, la Sicilia e la Puglia sono tra le regioni più accreditate per la coltivazione di questo prodotto. La parte che noi mangiamo è il “bulbo” centrale, che può essere consumato sia crudo che cotto. Come riconoscere l’integrità di una cipolla e capire se è davvero fresca? È importante osservar-ne la forma che dovrà essere compatta, piuttosto soda e senza ammaccature o “strane” macchie, tipo muffa. La cipolla ha un gusto particolare che regala alle pietanze un sapore gradevole e spesso è utilizzata come “base” per la preparazione di minestre,

di micheLe [email protected]

A curA di crisTinA [email protected]

antibatterico, semplicemente applicando il succo sulla parte da disinfettare; è anche un ottimo espettorante, specialmente unito al miele e un decongestionante della faringe: i gargarismi con succo di cipolla sono parti-colarmente indicati in caso di tonsillite e il succo è anche molto utilizzato come diuretico e depurativo e, infatti, è consigliato da chi soffre di trombosi perché, avendo un potere fluidificante, facilita la circolazione del sangue.Ingredienti per 4 persone: 4 cipolle bianche di grosse dimensioni, 100 g di pangrattato, 2 spicchi d’aglio, Prezzemolo, 150 g di pomodorini, Olio d’oliva extra vergine, Sale e pepe q.b.Preparazione: Mondare le cipolle dalla parte esterna. Tagliate la cipolla in più parti circolari di non più di 3 cm. Preparate un battuto di aglio, pomodori e prezzemolo. Versatelo in una ciotola e incorporate il tutto con olio, sale e pepe; impastate con una forchetta fino a ottenere una farcia morbida. In una teglia versate un filo d’olio, sistemate le cipolle e spalmatele con la farcia, spruzzatele con altro pangrattato e terminate con altro olio. Preriscaldate il forno a 200° e fate cuocere per mezzora circa. Servite tiepide.

La grandefamigliadelle Liliacee

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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era la Primavera del 1994, quando Francesco Gurrie-ri, Piergiovanni Permoli

e Arnaldo Pini fondarono “il Portolano”, tutt’oggi edito da Polistampa, “rivista” – si legge in quel che allora era il numero ‘zero’ – di “Letteratura, Arte, Te-atro, Cinema e Musica”. Seppur divenuta, dalle uscite immedia-tamente successive, “periodico trimestrale di letteratura”, la testata è sempre rimasta fedele al suo impianto iniziale, a un sincretismo che ben ne rispec-chia l’appellativo: quell’essere “carta di navigazione” nel mare magnum della cultura, pronta a calarsi – recita sempre quel numero – “dentro la realtà del nostro tempo”. E se la letteratu-ra, volendo citare Sartre, “esiste quando è in movimento”, po-tremmo ben dire di trovarci di fronte a un dinamismo interno che guida il lettore verso inediti

approdi e lo invita a seguire traiettorie nascoste, suggerite da questa ‘mappa’ sinottica.Giovedì 27 novembre, “il Portolano” ha festeggiato il suo ventennale nella sala macchine della casa editrice Polistampa, quasi a voler siglare un ritorno alle origini, alla fucina di Efesto dove le pagine ruvide, color giallo Napoli, incontrano i segni della scrittura. Lì, tra l’odore pungente d’inchiostro e l’am-biente all’apparenza essenziale, la ‘mappa’ è stata come aggior-nata, riscritta, forse in vista di rotte ulteriori e navigazioni per mari non ancora solcati. Erano presenti Maria Fancelli Caciagli ed Ernestina Pellegrini che, dal 2005, formano con Francesco Gurrieri il nuovo triumvirato della testata e continuano magi-

di diego [email protected] stralmente il lavoro iniziato da

Permoli e Pini. Ad introdurre la serata è stato Riccardo Bru-scagli, ordinario di letteratura italiana presso l’ateneo fioren-tino, che ha posto l’accento sulla portata culturale della rivista: specchio e riflesso dei cambiamenti ma, soprattutto, testimonianza del ruolo etico legato al ‘fare letteratura’. Il pittore e sculture Roberto Barni ha invece richiamato l’atten-zione sugli artisti apparsi tra quelle pagine, sempre affiancate da schizzi e ritratti: anch’essi indicazioni necessarie al viaggio e pronte ad affascinare il lettore; guidarlo verso trame nascoste in un vicendevole scambio di parole e presenze. Ed è in virtù di questo legame profondo tra parola e figura – fra testo e pa-ratesto – che la serata ha avuto come sottofondo la proiezione di una video-rassegna: un con-trocanto d’immagini dove tutti i numeri della rivista – dal primo

al più recente – si sono affian-cati in un’inedita sincronia. “Il Portolano” ha così incontrato la sua costola multimediale: si è lasciato vedere, sfogliare e ha esibito quel coro di voci che, per vent’anni, ne hanno animato le pagine. Se è d’uopo tirare le somme – tappa quasi obbligata per qualsivoglia ricorrenza o festeg-giamento –, “il Portolano” non ha che da festeggiare e ripartire, subito, per un nuovo viaggio: quell’odore d’inchiostro, in fondo, era il segnale anche di una vittoria, di una speranza che non può, e non deve, venire mai abbandonata.

Un periplo durato vent’anniFesteggiando “il Portolano”

il PortolanoA. XX Genn.-Giu. 2014 PERIODICO TRIMESTRALE DI LETTERATURA N. 76-77 - € 8,00

ISSN 1972-7321

EDITORIALE

f.g.

Alessandro, Mario e Piero. Si puòparlare della loro poesia come

ricchezza comune, di un edificio poe-tico costruito insieme, al quale cia-scuno ha concorso con la sua specifi-cità, la sua passione, la sua civiltà? Èun azzardo lo so bene: ma come di-sconoscere che la coincidenza anagra-fica (1914) li abbia messi nella vita, subinari paralleli che hanno consentitoloro un confronto, un traguardare co-mune, che li ha accompagnati per tut-ta intera la loro vita? Ha un senso la“sommatoria” (positivo e negativo)della loro “esistenza letteraria”? Po-

(continua a pag. 2) IN LIMINEALLAGENERAZIONEDELQUATTORDICI

Alla poesia succede unpo’ come al vino: cheogni vendemmia è di-

versa dalle altre, per quantità eper caratteristiche organoletti-che. Di sicuro, all’anagrafe let-teraria il 1914 resta un annomemorabile, oltre che per l’u-scita, a tacer d’altro, dei Cantiorfici di Campana e del primoPianissimo di Sbarbaro, operetra le più fondative del secolo,per la singolare abbondanza dinascite eccellenti; a cominciaredalle ennesime tre ‘corone’ to-scane (Bigongiari, Luzi e Par-

ronchi), cui rende omaggio, inquesto numero, «Il Portolano»,senza peraltro dimenticare, nelsegno di una geografia sinto-maticamente nazionale, l’apuloBodini e il padanoVilla: astri aimargini, se si vuole, di questacostellazione, ma luminosi an-ch’essi, a formare, nel cielodella poesia, la trama ideale diuna nuova Cassiopea.

Ma nella dialettica tra centrie periferie, radicata nel codicegenetico della cultura italiana, èinnegabile che nascere a Fi-renze (o poco lungi) nel 1914

non è precisamente come «na-scere a Trieste nel 1883», perriprendere un lamento di Sabadivenuto proverbiale: perché,se la città adriatica, priva ditradizioni di cultura e ancorasotto l’Austria, scontava a quel-l’altezza una vistosa arretratez-za sul piano letterario, la Firen-ze di primo Novecento, cuorepulsante dello Sturm und Drangpromosso dalle riviste militanti,si guadagna sul campo il titolodi capitale culturale d’Italia,

• I TRE ERMETICI

AL CENTENARIO

Editoriale, GurrieriLangella, Fancelli,

Ramat, Marchi,

Menicacci, Ghidetti,

Iacuzzi, Lanuzza,

Fagioli

• Buscioni, Aforismi

• RECENSIONI

Fancelli, Di Taranto,Pellegrini, Meozzi,Gurrieri

SommarioGiuseppe Langella

BIGONGIARI, LUZI, PARRONCHI

I TRE “ERMETICI”AL CENTENARIO

1914

2014

(continua a pag. 3)

il PortolanoA.XIX Lug.-Dic. 2013 PERIODICO TRIMESTRALE DI LETTERATURA N. 74-75 - € 8,00

ISSN 1972-7321

PRATOLINI 1913

2013EDITORIALE

f.g.

Dunque, un secolo dalla nascita diVasco Pratolini (ottobre del

1913, a Firenze, in via de’ Magazzini,all’ombra della Torre di Arnolfo). E adistanza di due decenni dalla vivacesettimana che Firenze tributò al suoscrittore, ripercorrendone le varievalenze – la mostra documentariacurata al Teatro della Compagnia, larassegna cinematografica curata daAndrea Vannini, il convegno interna-zionale al Vieusseux –, il Portolanodedica questo numero monografico alfine di verificare come e quanto glistudi abbiano scavato sulle sue opere e

(continua a pag. 2)

LACITTÀHAILSUOCUOREANTICO*

Immediatamente seria, non sol-

lecitata, ella ci offerse la pro-

pria storia. Disse, rivolta a me:

“Ascolta.” […] Di noi tre ella

era la sola ad avere pietà della

sua storia. Il minatore ed io sor-

ridevamo, ridemmo addirittura.

(Pratolini, Lungo viaggiodi Natale, San Silvestro 19462)

Ah, se sapessi scrivere, ne avrei

di cose da raccontare!

(Pratolini, Cronache di poveriamanti, in «Il Lavoro»,20 settembre 19533)

Vasco Pratolini è giuntoa lambire la soglia delsuo centenario. Nato a

Firenze, in via de’Magazzini, il19 ottobre 1913, si è spento aRoma il 12 gennaio 1991. Havisto Firenze, e l’ha amata, dal-la fine degli anni Trenta, sem-pre da lontano. Solo così hapotuto ricrearla nella memoriae nell’arte. Del resto aveva di-chiarato in una delle sue inter-viste più accreditate, allo scrit-tore Ferdinando Camon (Il me-stiere di scrittore. Conversazio-ni critiche, 1973), la sua avver-

sione al «detestabile toscanesi-mo», che altro non era che ilmunicipalismo della fiorentini-tà più ortodossa, o dello stato inluogo più prudenziale o piùgretto. Firenze stava a Pratoliniun po’ come Rimini a FedericoFellini, che infatti non ci met-teva piede, se non per sondagginotturni quasi clandestini esempre sperimentali di un con-tatto vitale sì ma incerto e sem-pre nuovo. Il modo più sicuro,la lontananza, perché la memo-ria facesse il suo gioco, quellodi rendere memorabile quanto

• PRATOLINI 1913-2013Marino Biondi, Leandro Pian-tini, Elena Guerrieri, MarcoFagioli, Giovanni Cipriani,Erica Vecchio, Luigi Fontanel-la, Enza Biagini, Maria Fan-celli, Anna Grazzini Bècchi

• Andrea DriganiMachiavelli con gli occhi diManzoni

• RECENSIONIGurrieri, La “Terra nova” diVittorio Cocchi

Lanuzza, “Pensare la peste”di Sergio Givone

• Fancelli, Orgoglio e disin-canto

• Buscioni, Aforismi

Sommario

Marino Biondi

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Cartografia è il titolo della mostra di Fran-cesco Niccolai che si aprirà il prossimo 13 dicembre presso la galleria La Corte Arte Contemporanea. Si tratta infatti di una serie di fotografie, alcune delle quali multiple (ovvero più foto riunite nella stessa immagi-ne, una sorta di “marchio di fabbrica”) che ri-disegnano una personale mappatura di paesi, città e stati a noi contigui secondo lo sguardo trasversale degli scatti di Niccolai. Foto dalle geometrie nette ma mai scontate, dove la luce dei cieli, nei diurni, e dei lampioni, nei notturni, ci rimandano una bellezza assoluta anche laddove il concetto di bellezza sembre-rebbe sconosciuto o, nel migliore dei casi, di-menticato. Le architetture, si potrebbe dire,

diventano soggetti principali loro malgrado. E quando compaiono volti e figure Niccolai riesce a svuotarli di ogni retorica rimandando invece alla dignità resistente della persona, ovunque si trovi e in qualsiasi condizione debba vivere (o sopravvivere). Tutto que-sto con il senso dell’inquadratura che solo i grandi fotografi possiedono. La mostra sarà accompagnata da un catalogo con testi di Roberta De Piccoli, Stefano Loria, Carlo Zei e Sergio Tossi, che ne è curatore.

“Contemporaneamente. Arte design artigianato e cultura contemporanea in via Maggio”, un progetto ideato e a cura dall’Associazione Via Maggio fina-lizzato a dare  risalto a tutte le realtà fiorentine che si muovono in quest’ambito visitabile lungo tutta la strada fino al 24 dicembre. Più di 30 spazi e gallerie con eventi con esposizioni, lectures, presentazioni, concerti, conferenze che permetterà di riscoprire la Via degli Antiquari, con i suoi dintorni,  da una inedita prospettiva contemporanea.

Francesco Niccolai

L’arte di ogginella strada degli antiquari

in

giro

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

In un sogno, pieno zeppo di meta-morfosi, il Gattamelata sul cavallo bronzeo di Donatello era diventato una donna nuda che accorreva in soccorso di Giovanna d’Arco che, denudata per essere arsa viva, si rivelava essere il Pulzello di Orleans. Agonizzan-te,colpito da decine di frecce sputate da quattro serpenti, S.Sebastiano si era trasfor-mato in una orribile bestia fuggita dalle tentazioni di S.Antonio di Matthias Grunewald.

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Il 18 Dicembre 2014 ore 18.30 Interno 14_lo spazio dell’AIAC – Associazione Ita-liana di Architettura e Critica inaugura “L’architemario.Volevo fare l’astronauta” mo-stra-presentazione, a cura di Roberta Melasecca, del nuovo esilarante libro di Christian De Iuliis arricchito da 40 illu-strazioni di Roberto Malfatti, edito da overview editore.Tutte le professioni hanno un lato paradossale, un aspetto del quale si può ridere di gusto o amaramente, ma comunque ridere. Quello dell’architetto, ad esempio, è un mestiere affa-scinante ma molto complesso, specie in Italia, dove tutto quello che dovrebbe essere semplice viene complicato dal-la burocrazia, dallo scetticismo e dalla società.Di questo, ma anche della vita di tutti i giorni e di come l’architettura entri in qualche modo in tanti altri aspetti

della nostra quotidianità ci parla Christian De Iuliis, architetto salernitano: decine di racconti surreali, ognuno illustrato da una vignetta di Roberto Malfatti, architetto e artista fiorentino, episodi di vita vissuta o semplici provo-cazioni.In mostra 50 disegni origi-nali di Roberto Malfatti che condurranno il visitatore in un pianeta diverso da quello immaginato finora, il mondo degli architetti. L’Architemario.Volevo fare l’Astronauta è stato finanzia-to attraverso una campagna di crowdfunding svoltasi nel periodo ottobre/novembre alla quale hanno aderito oltre 200 sostenitori: le operazioni di stampa sono terminate e dalla prossima settimana ini-zieranno gli invii delle copie acquistate.Interno 14 è a Roma in Via Carlo Alberto 63.

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della bella

ScottexL’eteree sculture dellabelliane sono innanzitutto un messaggio di libertà. Nel senso che uno è libero di vederci quello che vuole. Non è un caso che alcuni illustri psicanalisti le preferiscono alle “macchie di Hermann Rorchach” per poter curare i propri pazienti. Simone Froidone, già noto per la sua ricerca inconscia Il collegatore di sogni, stabilisce una scala inter-pretativa con due limiti estremi: chi dice che si tratta di un foglio rappallato e chi sull’immagine del-la scultura non smette di parlare un momento, durante l’ora della seduta dell’analisi, vedendoci tutta la propria vita. A noi piace invece vederci una chimera, il mostruoso essere mitologico fatto di parti di più animali. Se vogliamo buttarla in politica ci pare, anche, una giusta rappresentazione dell’attua-le Partito Democratico, chimera come sogno o come animale fatto di tante parti diverse da non capi-re che bestia sia.

Sculturaleggera 2

L’architemario

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www.davidevirdis.it www.confotografia.net

La cittàinterrotta

Frammentidi una ricerca dinormalità

L’Aquila5 anni dopo

di Davide Virdis per confotografia

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L

Siamo all’ora di pranzo e nell’accampamento sulla strada sono rimaste solo alcune donne e i ragazzi troppo piccoli per il lavoro nei campi. Sotto il caldo del sole californiano si cucina e si accudiscono sia i propri figli che quelli degli amici che hanno avuto la “fortuna” di essere stati scelti per un’altra giornata di duro lavoro sotto il sole cocente di queste giornate d’estate. Sembra proprio di vivere dentro uno dei fa-

mosi romanzi di Steinbeck, si sentono i profumi e i chiacchiericci di queste persone allegre per natura ma prostrate e intristite da una condizio-ne esistenziale decisamente poco entusiasmante. I fagioli in pentola sono quasi la regola, accompagnati spesso da grandi bicchieri di polistirolo pieni di caffé lungo americano, come sempre macchiato di latte a lunga conservazione.

Gilroy, California, 1972

Dall’archiviodi Maurizio berlincioni

[email protected]

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