Cultura Commestibile 100

18
N° 100 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Fabio de Poli fecit per Cultura commestibile MMXIV

description

 

Transcript of Cultura Commestibile 100

N° 100

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Fabio de Poli fecit per Cultura commestibile MMXIV

Da nonsaltare

22noVeMbre

2014pag. 2

Le metafore petrolifere per proclamare il proprio im-pegno a favore della cultu-

ra sono, fin dai nostri esordi 100 numeri online fa e 67 numeri cartacei allegati al “Corriere di Firenze” in precedenza, per noi l’insopportabile retorica che ha presieduto ad una stomachevole banalizzazione della cultura come mero fatto spettacolare, chiacchie-riccio informe e traslitterazione in termini quantitativi/economici del successo (o meno) di un’opera culturale. In questa accezione pas-siva della cultura, sono l’audien-ce e il ritorno economico diretto che contano, mentre l’esperienza e l’arricchimento cognitivo dei fruitori è considerato irrilevante e confinato nella sfera del fatto privato. La finalità dell’offerta culturale è quella di avere riscon-tro nella domanda e misura il suo successo solo attraverso la dimen-sione quantitativa dell’attrazione di pubblico. “La cultura è il no-stro petrolio”, il “motore dello svi-luppo”: tutta roba che inquina (le menti) e fa perdere di vista il cuore della materia: che cosa è veramen-te cultura? Perché gli enti pubblici vi si debbano impegnare? A cosa serve la cultura?A nulla, assolutamente a nulla, dovremmo rispondere: cioè la cul-tura non può “servire” ad un altro fine, ad un diverso padrone, se non se stessa. La cultura è disutile, se non a rendere le persone più consapevoli di sé e del mondo che ci circonda; se non a sviluppare il proprio senso critico; se non a co-struire relazioni con gli altri e con il mondo più creative, pro-attive, aperte e curiose al non già scritto, detto, fatto; oppure nel costruire, attraverso l’apprendimento e la cultura, il proprio riscatto indivi-duale e collettivo. Cultura come motore di un ascensore sociale drammaticamente fermo (quando non in regresso), fucina di oppor-tunità che si basano sulle garanzie civili, sociali ed economiche, di un welfare robusto, universale e inclusivo che pone la cultura come uno dei suoi fondamentali.Dunque, non possiamo misurare la cultura e la sua efficienza in termini quantitativi (pubblico e conto economico costi/ricavi), perché altrimenti non avremmo avuto larga parte della produzione

artistica contemporanea, anche quando dall’illuminismo in poi il tema della retribuzione dell’autore ha soppiantato il mecenatismo. Il motivo per cui gli enti pubblici devono finanziare la cultura non è solo per ampliare l’accesso, ma per sostenere la libera produzione cul-turale e l’innovazione di linguaggi e contenuti dell’espressione umana. Se questa attività creativa e spesso di rottura con i paradig-mi culturali precedenti, affermati

e diventati di largo consumo, non fosse sostenuta dall’intervento pubblico e fosse lasciata al solo mercato avremmo soltanto il teatro che può diventare film o musical. La produzione originale e libera in cultura prepara i nuovi paradigmi, ma quando si presenta è quasi sempre incompresa, avvertita come offensiva per il senso comune: non è così solo per la musica dodecafonica, ma lo fu per l’opera (nel 1600 considerata

una stramberia), per la poesia non in rima, per la

prospettiva di Ma-saccio, per Picasso come

per Van Gogh. Se dovessimo lasciare il campo al solo mercato, a Firenze non avremmo i Cantieri Goldonetta o la Biblioteca delle Oblate, la stazione di Miche-lucci o il Gabinetto Vieusseux. Allora, forse dovremmo tornare a domandarci: cosa è la cultu-ra? Essa è sempre movimento verso il futuro, sperimentazione, ricerca, inquietudine, modo critico di guardare il mondo, girare e cercare il film non ancora girato, voglia di leggere il libro non ancora scritto. Ma implica comprensione, prima ancora che rispetto, del passato, che non si può semplicemente rottamare perché esso incombe sulla nostra vita presente. La giusta traduzio-ne dell’evocazione, talvolta solo modaiola, della contemporaneità è produzione culturale che natu-ralmente può avvenire anche sul materiale del passato e che, anzi, deve saper mettere in comuni-cazione passato e futuro con gli strumenti e i linguaggi del presen-te. Produzione implica scienza e conoscenza, quindi formazione, educazione, assorbimento ed elaborazione critica di strumenti

Cosa ècultura

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Non chiederci la parola, Eugenio Montale

Illus

trazi

oni d

i Pao

lo d

ella

Bella

trat

ta d

a “C

ento

dise

gni p

er C

entu

ria”,

lib

eram

ente

ispi

rati

al li

bro

di G

iorg

io M

anga

nelli

Da nonsaltare

22noVeMbre

2014pag. 3

Ripartiamodai fondamentali

per comprendere.Dunque, c’è un valore in sé nella cultura, nella sua capacità di dare alternative e migliorare la qualità della vita in una comunità. Per questo gli enti pubblici hanno il dovere istituzionale di investire ri-sorse pubbliche, dei cittadini, nella cultura: per migliorare la qualità della loro vita! Sta qui la traduzione in azione di governo del dettato costituzionale in materia; che all’art.9 recita “La Repubblica (dunque le Regioni, i Comuni, le Province, le Città Metropolitane e lo Stato, che, su un piano paritario, la costituisco-no, art.114) promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La Costituzione im-pone un ruolo attivo, di governo dell’ente pubblico nel tutelare, promuovere e sviluppare la cultu-ra, che dunque chiama in causa i concetti di qualità e risultato dell’azione, mai disgiunti dalla fe-deltà al significato profondo della cultura come elemento costitutivo della Repubblica stessa. Dunque, la cultura che significa autonomia della funzione produttiva e intel-lettuale, ma allo stesso tempo una attività che in quanto produttiva ha anche significati economici. Noi pensiamo che una concezione attiva della cultura può dare luogo ad un anche maggiore impatto economico e sociale ma, soprat-tutto, dare significato nuovo ad un sistema culturale che ricostruisca e aggiorni continuamente l’identità dei luoghi, dei patrimoni culturali, della produzione e delle comunità. In questa logica non è possibile separare tutela e valorizzazione; non si può concepire una relazione monodirezionale e causale fra of-ferta e domanda (giacché i fruitori si trasformano continuamente in produttori e viceversa); il “bilan-cio cognitivo” di chi partecipa ad

una esperienza culturale diventa generatore di una dinamica nuova nella società. Una concezione di questo tipo richiede una politica industriale per la cultura che – come per ogni settore produttivo, sia fatta di investimenti nelle infrastrutture per la cultura (dai musei alle biblioteche, dalle galle-rie d’arte ai teatri) che per essere produttivi di significato devono continuamente essere rinnovati nella struttura e nella gestione; di investimenti nel capitale umano che significa formazione, ricerca, miglioramento dei talenti dei lavo-ratori del settore; di programma-zione e integrazione delle politiche fra i diversi soggetti coinvolti nel settore (dagli enti pubblici, alle imprese, alle Università e scuole) e fra diversi ambiti (dall’ambiente

all’istruzione, dal turismo alla ricerca scientifica); di creazione di reti fra i produttori; di protagoni-smo di produttori e fruitori (dai lavoratori del settore ai cittadini che accedono alla cultura); di stru-menti finanziari per supportare chi opera economicamente nel settore. Una politica di investimento, che veda agire insieme ciascuno per le proprie responsabilità e con le proprie modalità, soggetti pubblici e soggetti privati.Una corretta e integrata politica per la cultura, dunque, può anche generare anche economia. Una recente (giungo 2014) ricerca realizzata dalla Fondazione Sym-bola ha messo in evidenza quanto efficace possa essere l’investimento in cultura sotto il profilo econo-mico attraverso la valutazione del

“moltiplicatore della cultura”, cioè di quanto euro vengono prodotti da ogni euro investito nel settore.Quelle culturali appaiono però realtà produttive, però, spesso ignorate, sottovalutate oppure investite dai fiumi petroliferi della retorica; quasi mai considerate nella loro concretezza e quindi difficilmente oggetto di una po-litica consapevole, tanto nei loro momenti di crisi quanto nelle loro potenzialità. Difficilmente, ad esempio, si percepisce questo come un comparto che necessità di politiche di incentivazione specifiche e, ancor più spesso, si accetta passivamente che i lavora-tori dell’intelletto siano sottopaga-ti, lavorino senza inquadramenti contrattuali o addirittura siano concepiti alla stregua di volontari. E nell’azione amministrativa oltre che nel sentire comune, si pensa che le imprese in questo settore non debbano fare utili, quindi non essere imprese.Tutto ciò testimonia di una poli-tica che non riesce andare oltre la retorica nell’affrontare i problemi della cultura e senza la capacità di confrontarsi con la realtà con-creta di una “cosa” che è insieme immateriale e materiale.Quindi torna la necessità di ripartire dai fondamentali: cosa è cultura? Nel riflettere su questa domanda di fondo Walter Benja-min scriveva: “non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, moderna, e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza di-sperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità”.Cultura Commestibile è da 167 settimane al servizio di questa condizione critica, in equilibrio sul baratro: è lì che occorre recu-perare capacità di ragionamento, tranquillità ma decisione, e di inventarsi soluzioni innovative per rimanere vivi. Dal n°100 proviamo a condividere queste riflessioni con amici, collaborato-ri, esperti frequentatori spericolati dell’orrido.

La redazione

Da nonsaltare

22noVeMbre

2014pag. 4

Collettivo John Snellinberg

Sergio Staino

FranCeSCo gurrieri

E’ ben vero che riflettere sul-la cultura in 140 caratteri sa farlo solo Renzi ma farlo in 9500 caratteri è un po’ troppo da gufi, tanto è lungo il documento che vorreste io leggessi, e forse lo farò ma sotto Natale, durante le vacanze. Intanto posso dirvi che io ho cominciato ad interessarmi di cultura perché ero convinto di non piacere alle bambine. Così mentre tutti i miei amici andavano a caccia di loro, me ne restavo a casa a leggere libri. Poi da grande ho scoperto che con la cultura si imbroccava molto di più e allora ci ho dato sotto fino a diventare quasi un intellettuale. Se poi, oltre che ad imbroccare, serva anche a salvare il mondo, non l’ho ancora capito. Ma continuo a sperare di sì.

Pochi periodici liberi in stagione di “regime” hanno vita lunga. Quindi le cose son due: o “Cuco” non ha una satira decisamente incisiva oppure non siamo ancora al “regime”. In subordine c’è una terza ipotesi: che la chiusura venga imposta quanto prima. Scherzi a parte, “Cultura Commestibile” (in barba a quel ministro che invo-lontariamente suggerì la testata) è, grazie a Dio, un luogo di cultura e di espressione veramente libero. Lo è per l’intelligenza del suo modulo giornalistico-letterario, lo è per l’apertura intellettuale di chi lo dirige. Dunque, un caloroso augurio per i prossimi cento!

Cultura è rispetto del nostro passato; ma soprattutto del nostro futuro

Le risposteLa parola “intellettuale” assume spesso di questi tempi una connotazione negativa, legata all’idea che la “casta” degli intellet-tuali, narcisista e tutta presa da dibattiti compiaciuti su questioni di nessuna rilevanza pratica, sarebbe tra i principali responsabili dei decenni di declino del Paese. In modo per certi versi simile, la parola “cultura” si è coperta di una patina grigia e rimane di frequente un concet-to astratto e liso, confinato in dibattiti inconcludenti in cui compare principal-mente sotto forma di slogan o frase fatta - “fare cultura”, “bisogna rilanciare la cultura”, “è ora di investire sulla cultura”.Il problema di fondo è che in Italia il sempre controverso rapporto tra l’aspira-zione della cultura a mantenersi indipen-dente e a bastare a se stessa e la necessità di confrontarsi con logiche commerciali non ha trovato ancora un equilibrio, e rimane un nodo irrisolto. Attualmente non è praticamente più pos-sibile sperare in contributi governativi “a fondo perduto”, che investano in un pro-dotto per il suo esclusivo valore culturale, prescindendo dal valore economico.Lo stesso mercato della cultura è cam-biato profondamente con le tecnologie digitali: si parla spesso della riduzione drastica dei profitti che ha interessato diversi settori artistici e culturali, ma vale la pena considerare anche i tanti casi in cui i costi di produzione si sono abbas-sati grazie alle nuove tecnologie o delle piattaforme di finanziamento collettivo di progetti (non solo culturali) come l’ormai celebre crowdfunding.Il nostro collettivo lavora nell’ambito delle produzioni cinematografiche e video, settore in cui i costi di produzione nell’era digitale sono più contenuti che in passato ma richiedono pur sempre un investimento considerevole. Facendo di necessità virtù, ci siamo specializzati in lavori a budget praticamente zero che puntano molto sulla autoproduzione

(talvolta con appoggi esterni) e il lavoro di squadra. E nonostante il nostro lavoro, special-mente agli esordi, fosse contraddistinto da un’attitudine punk e anarcoide, non intendiamo assolutamente specchiarci né nel purismo dell’indie a tutti i costi né nella sfida del prodotto di nicchia a basso budget a oltranza. Anche perché la forma che abbiamo scelto, nonostante le continue contaminazioni con altri generi, mantiene un legame fondamentale con la commedia e con l’intrattenimento di qualità – e con ‘qualità” intendiamo principalmente la possibilità di leggere il film su molteplici livelli. Chi fa quello che facciamo noi ha, si spera, qualcosa da dire, delle storie da raccontare e condi-videre, e le aspirazioni principali sono di dire esattamente quello che vogliamo dire, nel modo che vogliamo, e di dirlo a più persone possibile. Un’aspirazione sana, che per realizzarsi pienamente richiede budget sostanziosi. Forse perché lavoriamo nel cinema, disciplina “giovane” e fin dagli inizi legata in modo stretto con il pubblico e con il mercato, non ci scandalizza né infastidi-sce pensare a quello che facciamo come a “cultura” ma anche come un prodotto. La sfida è riuscire a fare un prodotto che piaccia a tutti: a noi, a chi deve investirci, e a chi deve comprarlo. Significa lavorare entro certi limiti, portarsi dietro un baga-glio di risorse che la tradizione “artigia-nale” del cinema italiano ha tramandato e richiede una certa elasticità creativa. Ci si lamenta spesso del fatto che il pubbli-co cinematografico premia prodotti di qualità scadente. Tuttavia secondo noi è fondamentale provare a rendere certi contenuti di qualità appetibili e fruibili a un pubblico vasto piuttosto che chiudersi ostinandosi a parlare a una ristretta élite. Anche perché, come disse il grande Mo-nicelli, il cinema non produce mai arte, crea al massimo cultura.

antonio natali

Da nonsaltare

22noVeMbre

2014pag. 5

Una volta qualcuno, in vena di battute, ci chiese chi di noi, nel fare fotografie, mettesse a fuoco e chi, invece, inquadrasse ed infine, chi premesse il pulsante di scatto. Una battuta, naturalmente, ma an-che una difficoltà nel confrontarsi con un fare diverso, autarchico.Sin dalla sua nascita, nel 2006, il nostro collettivo si è mostrato capace di rompere alcune regole e presentare modi diversi di fare fotografia e documentazione. L’idea di metterci insieme e costi-tuire un gruppo venne già qualche anno prima, ma fu appunto nel 2006 che anche incidentalmente ci trovammo a realizzare il nostro primo lavoro collettivo in cui, un pó per sintonia creativa un pò per esigenze pratiche, decidemmo di utilizzare uno sguardo unico anziché ciascuno il proprio. Fu una scelta radicale: ognuno di noi abbandonava le vesti di autore e diveniva veicolo di scelte fatte con e per altri. Questa decisione, che ha caratterizzato tutti i successivi lavori di gruppo, è diventata per noi una modalità di sperimenta-zione stilistica, ma anche una piat-taforma per continuare la ricerca del significato di documentazione e di rappresentazione della realtà. Tra i progetti che abbiamo realiz-zato, “4” è quello che rappresenta meglio la nostra idea di scrittura collettiva. Il lavoro raccoglie 4 distinti reportage sullo stato di salute del paesaggio italiano, realizzati lentamente, viaggiando in lungo ed in largo il nostro paese per quattro anni, dividendo l’Italia in regioni tematiche e geografi-che. Nella nostra mente, il lavoro concluso avrebbe dovuto includere un’importante parte testuale. Fu così che decidemmo di contattare il collettivo di scrittori Wu Ming. Con loro è nato TerraProject + WuMing = 4, un libro ed una mostra che raccolgono, oltre alle immagini, quattro testi scritti da Wu Ming 2. L’Italia è quindi raccontata non soltanto attra-verso l’indagine visiva, ma anche utilizzando il registro narrativo dei racconti fantastici, punti di parten-za diversi per un viaggi nel nostro paese. La mostra, realizzata con un finanziamento del Comune di Firenze, ha accolto migliaia di visitatori ed è disponibile per altre sedi espositive. Il libro, sottoline-ando ancora la sua vocazione di Le risposte

catalizzatore di menti e desideri, è stato prodotto utilizzando una piattaforma di crowdfunding, Produzioni dal Basso, attraverso la quale circa 400 sostenitori hanno pre-acquistato altrettante copie, permettendoci di stampare un volume ardito, senza sottostare ai dettami e alle logiche di mercato di un qualsiasi editore.

www.terraproject.net/quattro

Non è un caso che una doman-da come quella che voi molto giustamente riproponete - che cos’è cultura? - abbia come orizzonte questa città, città della cultura, se mai ce n’è stata una. Sono stati gli umanisti fiorentini i primi a chiedersi che cosa fosse cultura e la loro risposta merita ancora oggi di essere ripensata. Dicevano: l’uomo è una strana creatura, che a differenza di tutte le altre non ha un’essenza, non è com’è per natura, ma è quello che di volta in volta decide di essere, tant’è vero che può innal-zarsi fino a diventare quasi un dio o può abbassarsi fino a farsi bestia. Ecco, cultura altro non è che la consapevolezza di questo nostro curioso destino. In ogni momento della nostra vita, anche se non ce ne rendiamo conto, siamo chiamati a decidere

che cosa per noi è giusto e che cosa ingiusto, che cosa è bene fare e che cosa è male fare, che cosa ci piace e che cosa non ci piace. Cultura è consapevolezza, è responsabilità, è dire sì o dire no a nostro nome e non a nome di qualcun altro o qualcos’altro. Poi magari si dice sì quando si dovrebbe dire no, e viceversa; magari si fanno errori che, senza cultura, e cioè abbandonandosi alla corrente, non si farebbero, dal momento che la cultura non è affatto una garanzia, anzi! Eppure, che cosa è meglio, che cosa è più degno dell’uomo: lasciarsi vivere, o vivere seguen-do “virtù e conoscenza”? Dante, e gli umanisti dopo di lui, una risposta chiara l’hanno data. Ed è anche la mia risposta, si parva licet...

La cultura è la misura della capacità di esercita-re la nostra sovranità: che essa sia intellettuale, o politica. La cultura è lo strumento della critica e del giu-dizio. È la sorella insperabile della giustizia.La cultura è ciò che ci fa diventare, e rimanere, umani. La cultura è ciò che salva.

terra proJeCt

tomaSo montanari

Sergio givone

Da nonsaltare

22noVeMbre

2014pag. 6

Il succo della questione può essere riassunto così: il rinno-vamento proposto dalla Nem non è generazionale, o inerente le politiche culturali (leggi, teatri stabili, fus e quant’altro). Vuole essere un rinnovamento artistico, programmatico, con il preciso obiettivo di far ascoltare la musica classica a più persone possibile. L’intuizione vera della Nem è stata quella di prevedere, con buon e utile anticipo, la scomparsa graduale, la disaffe-zione, la disattenzione di gran parte del pubblico che ai primi anni duemila ancora si recava ad ascoltare concerti di musica classica. Per gestire questa buona intui-zione, anche a livello statutario (fin dalle origini quindi), ha voluto inserire come strumento la parola, con precisione quasi profetica una rivista. All’epoca non avevamo la minima idea di come poter fare a mettere in piedi una rivista. Ma nella vita le cose accadono, si inventano, e tra mille fili rossi, alla fine, eccoci da quasi due anni editori

di Cuco, e al numero cento.Il metodo funziona: una piccola realtà, con un bilancio ridicolo, è riuscita a vendere migliaia di biglietti, a soddisfare gran parte della critica (impossibile fare breccia sui classicisti doc, d’al-tronde pochissimi ormai), ad arrivare alle cronache nazionali, a ricevere medaglie presiden-ziali. Di più era impossibile, servivano due cose: o l’unione degli operatori del settore, o una decisione forte di una Istituzio-ne.Le intuizioni devono però na-scere in un contesto favorevole, purtroppo non si alimentano da sole, non possono riuscire a diventare realtà se non hanno la buona sorte di trovare fattori utili a sé.L’obiettivo era quello di creare un metodo nuovo di creazione dei programmi musicali, di promuoverli in modo nuovo ed infine di farli ascoltare in contesti e situazioni nuove. Per nuovo non si intende “smart”, “web”, “social”, “streaming”. Si intende al contrario utilizzare

al massimo la potenza della aggregazione fra più persone, la potenza dell’ascolto dal vivo, della partecipazione emotiva.Una volta creati questi “eventi”, in una città come Firenze nota in tutto il mondo, anche facen-do leva sui buoni anni Settanta e Ottanta che questa città ha vissuto nell’ambito della musica e della cultura, sarebbe bastato che una grande Istituzione (il Comune, la Regione, il Maggio, a vostra scelta…) esponesse questo nuovo metodo in tutta Europa e in tutto il mondo. Sarebbe stato un successo plane-tario, ne sono certo. Slow food è nata così, più per azione privata che pubblica, ma il metodo è stato questo. Dal Piemonte, con i Barolo boys, poi con un piccolo furgone attraversando New York.Le opportunità che abbiamo avuto fino ad oggi, diciamo i contenitori Festival e simili, sono stati sì un mettere a dispo-sizione spazi e mezzi economici sicuramente superiori alla media, ma non per espande-

re e far conoscere al mondo questa grande novità, bensì per assorbirla e standardizzarla. Per controllarla. Ora ci hanno tolto anche questi, ed infatti siamo più forti: il 2014 è stata forse la stagione più densa e bella.Non credo sia troppo tardi: avere iniziato a 21 anni è una fortuna (eravamo in 5 ad avere 21 anni…il più vecchio…). Ma il problema vero non è il tempo, bensì la situazione nella quale dopo 10 anni si trova il Paese. Non c’entra essere ricchi o poveri. C’entra che non c’è più la sensazione di poter cambiare le cose, la sensazione più forte, esplosiva e dirompente che possa esistere, al di là della tua attuale condizione economica o sociale.Anche Cuco rientra in questo metodo, in questo clima: non è infatti una rivista che promuo-ve, che indirizza, che decide, che influenza. È una rivista che smuove, che gioca (e non scher-za), che è di carta anche se la carta non c’è, che è conosciuta perché produce conoscenza.

A Capri nel 1990 nasce l’O-plepo (Opificio di Letteratura Potenziale), un laboratorio di scrittori, matematici e ricer-catori in vari campi, omologo dell’Oulipo (Ouvroir de Littérat-ure Potentielle), fondato a Parigi all’inizio degli anni sessanta da Raymond Queneau e François Le Lionnais, che ha avuto fra i suoi membri attivi Georges Perec e Italo Calvino.L’attività degli oulipiani-oplepia-ni è dedicata all’invenzione di testi bizzarri partendo da regole formali severamente costrittive, improntate a uno spiccato gusto matematizzante. Il carattere «potenziale» della letteratura praticata dall’Oulipo-Oplepo risiede nel fatto che si tratta di una letteratura ancora da farsi, da scoprire in opere già date o da inventare attraverso l’uso di nuo-

ve procedure linguistiche, una letteratura mossa dall’idea che la creatività, la fantasia trovano uno stimolo nel rispetto di regole, di vincoli, di costrizioni (con-traintes), come quella di scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera (lipogram-ma): è il caso di La disparition (La scomparsa) (1969) di Perec, romanzo scritto senza mai usare la lettera “e”, la più frequente nella lingua francese.Fra i numerosi opifici nati dall’esperienza dell’Oulipo e dell’Oplepo c’è l’Opificio di Pittura Potenziale (OuPeinPo in francese) fondato sempre a Parigi nel 1980, il cui scopo è d’inventare, nel campo dell’arte, nuove forme attraverso contrain-tes, cioè regole matematiche, logiche o ludiche capaci di stimolare il lavoro dei pittori e

degli artisti visivi in generale.Prima della nascita dell’Ople-po, molti artisti in Italia hanno spesso fatto della regola una loro poetica, ad esempio − senza an-dare troppo indietro nel tempo e scomodare i rebus di Leonardo o i palindromi visivi di Giusep-pe Arcimboldo – artisti come Enrico Baj (amico di Queneau, entrambi patafisici), Gianfranco Baruchello, Alighiero Boetti, Bruno Munari, Giulio Paolini o Fabrizio Clerici che, sulla base dei suoi Quaderni delle Meta-morfosi, una sorta di bestiario fantastico composto da otto disegni fra loro combinabili, lavorò con lo stesso Perec.Ancora oggi il gioco basato su vincoli, su costrizioni, conti-nua a stimolare la fantasia di artisti di varia formazione: si va da coloro che sperimenta-

no sulle variazioni di un tema (alla maniera degli Esercizi di stile di Queneau ispirati all’Arte della fuga di Bach) a quelli che privilegiano l’uso di particola-ri manipolazioni linguistiche come l’anagramma (c’è un’opera di Aldo Spinelli, Immutando attingo, che, riprendendone la stessa tecnica, è un chiaro omaggio a Immaginando tutto di Boetti); si va dalla rivisitazione di antichi artifici come il tec-nopegnio (disegno fatto con le parole) al sovvertimento ludico di schemi tipici dell’enigmistica oppure alla scoperta dell’esi-stenza di altre pitture possibili (potenziali appunto) sotto la superficie di quadri famosi come L’urlo di Munch che in una stesura iniziale non avrebbe avuto nessun uomo raffigurato in primo piano.

Le risposte

mario Setti

paolo albani

22noVeMbre

2014pag. 7

riunione

difamiglia

Cento, tondi tondi. Eccoci qua, ci siamo arrivati anche noi di Cul-tura Commestibile e noi Sorelle Marx abbiamo contribuito ogni settimana. Arrivate a 100, forse è l’ora di scendere in politica emu-lando il nostro amato premier: lui aveva i 100 luoghi e i 1000 giorni? E che dobbiamo essere da meno, noi? Cosa ci manca? Niente. Infatti, vi riveliamo un segreto: l’altra sera, alle 1 di notte, orario suo tipico per questo genere di cose, ci ha chiamato Matteo e, come alla Alessandra Moretti, ci ha detto: “Guardate Sorelle, ab-biamo bisogno di voi in Toscana. Siete le uniche che possono mettere in difficoltà Rossi e soprattutto la candidata che Pippo Civati sta

per tirare fuori”. Non possiamo tirarci indietro: come la Ale in Veneto, ci candidiamo in Tosca-na. D’altra parte come ha detto la Moretti: “Quando devi vincere una partita importante, tu chi mandi in campo? Mandi i mi-gliori. Io non mi sento di essere la fatina dalla bacchetta magica che risolve tutti i problemi. Però mi sento di essere una opportunità. Questo è il nostro tempo.” E quin-di,, come lei, ci buttiamo nella mischia. Ma con il nostro stile. Femminile: la cura di noi stesse, la voglia di essere sempre a posto.

Come la Ale. “La bellezza non è affatto incompatibile con l’intel-ligenza. Il nostro stile è diverso da quello della Bindi, perché è cambiato il mondo, la politica; e per fortuna che sono cambiate. Non possiamo avere tutti lo stile femminile di un tempo. Che era uno stile più austero, più rigido; uno stile che mortificava in qual-che caso la bellezza, la capacità di mostrare un volto piacente.” E quindi abbiamo deciso di andare dall’estetista ogni settimana. Per far cosa? Come dice la Ale, per far qualsiasi cosa: le mèches, la tinta,

la pedicure, la ceretta... via, non scendiamo in altri dettagli. Se vogliamo avere un ruolo pubblico, rappresentare tante donne, voglia-mo rappresentarle al meglio. Ci critichino pure: noi continueremo ad essere più belle, più eleganti, più curate, più pronte, più brave, più coraggiose.Il nostro stile di fare politica è uno stile Lady Like, che deve piacere; mica Lady Hawke o Lady Oscar. Le nostre canzoni preferite, sono due, in questo mo-mento: “The Best” di Tina Turner e “Voglio dirti grazie” di Orietta Berti che dedichiamo al nostro caro Matteo.Con la Turner inizieremo tutte le nostre manifestazioni elettorali e con la Berti le chiuderemo.

Zapruder si è chiuso in una stan-za in questi mesi. Ha ripreso non più immagini, ma oggetti: libri e dischi. Quasi furtivamente. Ora che ha deciso di non stare più ai giochi della fretta e delle scosse elettriche della comunicazione globale, tutti lo vengono a cercare, lo ascoltano. Strana la vita. Lui poi, sempre muto dietro la cinepresa 8mm, non era abituato. E allora, per gioco si intende, ha provato a mettersi nei panni di coloro che riprende: che ne so, una Maria Elena, un Matteo, un Da-rio, un Luca. Tutti nomi propri, pensa, neanche fossero i vangeli…Ad ogni modo: in questi panni si è accorto che le cose che aveva scelto risultavano ingestibili. Leggere, impossibile, ascoltare musica, impossibile. Eppure, come sicuramente anche loro (pensa Zapruder), l’esigenza di ore dedi-cate a leggere e ascoltare la avverte fortissima. E allora si è chiesto: come posso fare ad esaudire questa

esigenza incontenibile? Ha messo in campo alcuni trucchi: nel bagno di casa ha messo guerra e pace, nel bagno dell’ufficio la recherche. Nel tablet i miserabili, nell’aifon le sinfonie di Beetho-ven. In questo ultimo caso faceva spesso finta di parlare al cellulare mentre in realtà era al quarto tempo della Nona.E allora ecco il dubbio dei dubbi: ha provato su google e simili a trovare foto o video di loro (quelli dei nomi propri…) che leggono, o ascoltano musica. Che ne so, anche solo un settimanale sotto mano, o un breve video mentre in macchina ascoltano un Mozart. Nulla. Eppure migliaia di foto, video, niente: né Maria Elena, né Matteo, né Luca…Dario qualco-sina si, ma di qualche anno fa.Ed ecco l’intuizione finale: Zapruder ha messo la sua piccola cinepresa nei buchi delle serrature dei loro gabinetti, e cosa non ha filmato! Libri, riviste, enciclo-pedie. Tutte sul mobiletto del sontuoso cesso. E poi hanno anche il lettore cd, e ascoltano mentre si fanno la doccia, si commuovono, cantano, tutto sul wc.Ora però, questo materiale scot-tante va gestito bene: è come la Daddario con il video del lettone di Putin. È con questo materiale che Zapruder, che già ha filmato l’omicidio Kennedy, cambierà il corso della storia politica italiana, influenzerà l’opinione pubblica. Ma anche in questo caso non voleva, voleva aiutarli.

Con Aleksandra Kollontaj, unica donna commissario del governo rivoluzionario di Lenin, Alessandra Moretti condivide oltre al nome la volontà di essere vicina alle donne e di lottare per la loro affermazione. Così la Kollontaj, come racconta Paul Ginsborg nel suo bellissimo Famiglia Novecento, lottò per la pa-rità delle donne nel regime sovietico,

ritenendo che la liberazione sessuale fosse indispensabile all’edificazione della nuova società sovietica. Allo stesso modo la Moretti pensa che la liberazione della donna sia indi-spensabile per l’edificazione della società renziana o comunque per la sua elezione al prossimo scranno della sua frenetica e rapida carriera. E se la Kollontaj per esprimere la sua vicinanza alle compagne si sfiniva di soviet in soviet, oggi che i tempi son cambiati la Moretti si depila tutte le settimane per avvici-narsi alle donne. D’altra parte si sa che la rivoluzione non è un pranzo di gala ma non per questo ci si deve presentare coi peli superflui.

Le SoreLLe Marx

Zapruder La StiLiSta di Lenin

BoBo

Vota e fai votarele sorelle Marx

Allaricercadellamusicaperduta

Ceretta rossa la trionferà

22noVeMbre

2014pag. 8

L’archivio, la raccoltae le collezioni di Carlo Palli

A Prato esiste un’interessante realtà archivistica che testi-monia l’idea di un collezio-

nismo diverso dalla mera raccolta di opere e lontano dalle leggi del mercato, più incline alla promo-zione e alla valorizzazione di una stagione culturale e artistica den-sa di partecipazione e possibilità espressive: un feticismo esaustivo e completo che ha reso l’Archivio di Carlo Palli un fulcro di prospetti-ve e situazioni, un luogo vitale ed energico, la cui rilevanza è stata più volte messa in luce da intervi-ste e pubblicazioni. Il nucleo principale della raccolta è costituito da opere, documenti e testimonianze dei movimenti artistici degli anni Sessanta e Settanta, come Fluxus, Poesia Visiva, declinazioni della spe-rimentazione verbo-visuale e Gruppo ’70. Tuttavia all’interno si trovano anche le opere degli artisti appartenenti al Nouveau Rèalisme, alla Scuola di Pistoia, all’Architettura Radicale, all’Arte Povera, alle Poetiche dell’Oggetto, alla Transavanguardia, all’Azioni-smo Viennese, al Graffitismo, ai musicisti d’avanguardia fiorentini, ai fotografi contemporanei e non mancano le opere e i lavori più in-teressanti della scena artistica con-temporanea toscana e nazionale. Il rilievo attuale della raccolta non risiede soltanto nella collezione delle opere quanto piuttosto nell’archivio, che custodisce i documenti afferenti agli artisti e ai movimenti con cui ha collaborato e tutt’oggi collabora: testimonian-za concreta del lavoro, dell’espe-rienza e della passione che Carlo Palli ha sempre dimostrato per il mondo dell’Arte Contemporanea (da mercante a gallerista, da bat-titore d’aste a curatore e, infine, da appassionato) e che tutt’oggi persegue con la stessa determina-zione, dedito a musealizzare l’Ar-chivio e le collezioni contenute al suo interno, in quanto Tutt’uno indissolubile, apprezzabile e interessante sotto ogni punto di vista, proprio in virtù del suo valore non solo estetico ma anche

storico e storiografico.È lecito, in ogni caso, lasciare la parola all’uomo che ha fatto di una passione il suo lavoro, attraverso due semplici ma non scontate domande. Cosa significa essere un colle-zionista?É una domanda per me inte-ressante, perché mi permette di marcare la differenza che esiste fra il collezionista e il raccoglitore di opere d’arte. Il raccoglitore, che viene erroneamente chiamato collezionista, cerca il pezzo impor-tante, che gli piace, provando a risparmiare sul prezzo d’acquisto, lo mette in casa e segue costante-mente il mercato nella speranza che il valore aumenti. Al colle-zionista tutto ciò non interessa, anzi è costretto eventualmente ad acquisire anche un’opera che non gli piace se è inerente alla sua collezione. Il collezionista è un appassionato, un malato cronico, un feticista che del mercato se ne frega. Accade spesso che le collezioni vengano donate a musei ed enti vari: i pezzi della mia collezione, per esempio, sono co-stantemente in giro per il mondo donate e/o prestate esclusivamen-te alle istituzioni museali.È stato pubblicato da poco un libro sulla tua collezione, edito da Polistampa. Cosa rende la tua collezione importante e, per tanti aspetti, anche interessante?Il titolo e il sottotitolo “Neoa-vanguardia. Arte da colleziona-re. La raccolta di Carlo Palli a Prato”, dati al libro dall’autrice Lucilla Saccà, mi forniscono l’alibi per puntualizzare alcune cose. All’interno della raccolta ci sono le mie vere collezioni: Poesia Visiva, Fluxus e dintorni. Se la mia collezione è interessan-te lo si deve prima di tutto alla sua diversità rispetto alle altre (infatti in Italia sono pochissimi i collezionisti di questi artisti) e in secondo luogo alla presenza di un cospicuo archivio documentario (libri, cataloghi, lettere, fotografie, manifesti, inviti, ecc…). Se, per questi motivi, la mia collezione viene reputata importante non è che mi dispiaccia.

A sinistra dall’alto Lamberto Pignot-ti, Di scena il peggio, 1967. Collage su cartone, cm 46x54George Maciunas, Flux-Deck, 1968. Carte da gioco in scatola di plastica, cm 9,3x7,5Yoko Ono, Quando riflette il sole esprimi un desiderio, 1973 / 1990. Specchio e legno, cm 124x121,5Joseph Beuys, Olkanne F.I.U., 1980. Contenitore metallico per olio + scritte. cm h. 53 - Ø cm. 30,5Eugenio Miccini, Il vangelo, 1967. Collage su cartoncino, cm 49,5x69Courtesy Collezione Carlo Palli, PratoSopra fotosequenza di Aldo Frangioni

di Laura [email protected]

22noVeMbre

2014pag. 9

Il partigianoe il bambinoAltissima povertà di Virginio Sieni

Scrivo queste note prima che Virgilio Sieni abbia rappre-sentato a Cantieri Goldo-

netta il suo ultimo lavoro, “Altissi-ma povertà” (sabato 22 novembre ore 21 e domenica 23 novembre ore 17). Sulla scena anziani par-tigiani (nomi di battaglia: Mal-co, Macario, Stoppa, Staffa) e bambini di 8-10 anni (nomi di un’altra battaglia: Giulio, Mer-curio, Nina, Eva, Masanwi, Sara) intenti in un’opera di arte civile di trasferimento di memoria at-traverso il gesto, sguardi. Il corpo inserito nel tempo oggi si fa me-dium per esperienze, sogni, spe-ranze, vive e vivide per il futuro: in fondo, è ciò che Sieni propone da diversi anni a Cantieri Goldo-netta. Che è diventato una banca e una fabbrica della memoria che si tramanda fra individui di ge-nerazioni lontane che resistono, non intendono arrendersi all’o-blio, all’ideologia che vuole che l’unica realtà possibile sia adesso, l’immediato presente, perché il passato non serve ed è ingom-brante, mentre il futuro è incerto e fuori dalle nostre disponibilità. Questi vecchi partigiani sono fra i pochi ancora a mantenere una visione continua del tempo e Sie-ni li chiama qui a dare in eredità ai primi nati nel nuovo Millennio la passione per il futuro. Come i monaci, nel Trecento, predicatori e custodi del bene comune, ap-punto Altissima povertà, grazie ai quali la cultura dei manoscritti delle grandi opere dell’antichità è arrivata fino a Gutenberg e quin-di fino a noi. Una lavoro pun-tuale, metodico, leggero eppure gravoso quello di Sieni a CanGo e dei “suoi” partigiani: “c’è anco-ra tanto da fare... Il lavoro di noi partigiani non è finito” dice Staf-fa. Arte civile contro la inciviltà dell’eterno presente. Arte forte e lieve: uno sguardo, un gesto, null’altro. Ma qualcosa di deci-samente eversivo. Come lo fu la regola del monachesimo. la cui grande novità non fu la confusio-ne fra la vita e la norma, ma nella scoperta di una nuova dimensio-ne, in cui forse per la prima volta la “vita” come tale si affermava nella sua autonomia e la rivendi-cazione dell’“altissima povertà” e dell’“uso” lanciava al diritto una sfida con cui il nostro tempo deve ancora fare i conti. Ecco, infine,

di SiMone [email protected]

il senso di questa coreografia: una sfida, la rottura con la regola ante-riore. Nella Resistenza fu una rot-tura violenta dell’ordine imposto dalla dittatura e che per vent’anni aveva governato ogni istante delle vite di milioni di persone. Oggi la sfida dell’altissima povertà è alla dittatura dell’eterno presente.

Foto di Virginio Sieni

Foto di Virginio Sieni

22noVeMbre

2014pag. 10

L’arte di trovare ciò che non si sta cercando

Scavezzacollo

“Un mattino, preso dal deside-rio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai

il mio scrittoio (…) discesi in fret-ta le scale, diretto in strada. (…) Mi riempiva un’attesa gioiosa di tutto ciò che avrebbe potuto ve-nirmi incontro o presentarmisi”. Chi scrive è Robert Walser e que-sto esordio è un accesso ideale alla serendipity, quella strana cosa che si compone di “due filoni di pen-siero”, uno “che porta verso il caos, l’indeterminatezza, il principio di incertezza, l’imprevedibilità”, l’altro che conduce verso “parole quali scoperta, esplorazione, istin-to, improvvisa illuminazione” (A. Detheridge). La serendipity è quel processo per cui si scopre qual-cosa mentre si sta cercando qual-cos’altro ovvero “l’arte di trovare ciò che non si sta cercando” (U. Bottazzini), un’eventualità ricor-rente nella scienza, anzi, autentica

logica della scoperta scientifica. Il termine fu coniato dallo scrittore Horace Walpole nel 1754 e la pa-rola deriverebbe, attraverso la tra-scrizione araba, dal nome sanscrito dell’isola di Ceylon. E’ legato alla favola persiana “dei tre principi, figli del re dell’isola di Serendip-po, che dopo essere stati educati

di paoLo [email protected]

di MaSSiMo [email protected]

un po là, il viaggio senza destina-zione, l’itinerario senza tragitto – privo di un disegno prestabi-lito. Però iniziano a divergere, a mio modo di vedere, allorché il cazzeggio allude (e si ferma) ad un pressoché totale disimpegno men-tre la sagacia/prontezza che nella serendipità consente di cogliere le novità inattese, di afferrare l’in-tuizione, di realizzare la scoperta, sarebbe impensabile senza una qualche vigilanza mentale. La ‘for-tuna’, come si è osservato, vi gioca un ruolo fondamentale, però non è - e non può essere - tutto. Parlare di serendipity ha un senso - qui, nel nostro Cultura Commestibile che si avvia al suo centesimo numero - perché anch’esso, come la passeggiata di Walser, come altri e magari più noti ‘output’ editoriali, può aprire la mente ad un vagabondaggio costruttivo. La scuola avrebbe molto da assu-mere dal concetto serendipitiano. Ingessata com’è da programmi ministeriali, da format uniformi, sarebbe ben più appetibile per le giovani menti se insegnasse loro a far tesoro, a prendere coscienza, di ciò che probabilmente già fanno benissimo. L’apprendimento che corre lungo un filo da dipanare è come un gioco, potrebbe ben sostituire o almeno integrare il rigido piano da attuare, magari stancamente, senza mai un sus-sulto o una variazione di registro. La vita intera è ricostruibile come una ‘big’ serendipity e con ciò, se la scuola ha da essere un po’ mae-stra di vita, perché non sperimen-tare già in aula la sua erraticità feconda?

dai più grandi saggi del tempo, coltissimi ma privi di esperienza, furono mandati dal padre in terra straniera per provare le difficoltà del mondo reale. Sarà il loro spi-rito di osservazione, (...), a guidarli nelle loro avventure, permettendo loro di scoprire cose inaspettate e curiose, ma anche mettendoli nei

guai. Guai da cui si sapranno però tirar fuori con onestà e intelligen-za” (A. Massarenti). Fino ad un certo punto si può accostare la ‘serendipità’ al nostro comune e un po’ goliardico ‘cazzeggio’, perché condividono l’assenza di scopo o progetto e l’erraticità, il vagare un po’ qua e

1) Sono una Ninfetta.2) “Ama una ninfa e perdi la linfa” diceva mia nonna al nonno. Che infatti perse la ragione per lei.3)Sono qui, sdraiata al sole, ole, luminosa, osa, leccando un gelato, ato, con le goccioline di sudore, ore, che cadono sulle mie spalle nude, ude, sulla mia schiena ar-cuata, ata,, sui miei fianchi stretti, etti, sulla mia pancia, ancia, sulle mie gambe, ambe.4) so cosa suscito: passione im-possibile5) so cosa suscito: amore indicibile6) so cosa suscito: la lombaggine7) No… Ho guardato su Google. Lombaggine è un’altra cosa. Vole-

vo dire… ardore nei lombi.8) Ho finito il gelato. Ora mi sto dando lo smalto color ciliegia sulle unghie.9) so cosa suscito: il fuoco10) so cosa suscito: la bilido.11) No…Ho guardato su Google. Libido… non bilido. 12) Adesso sono un delta irrag-giungibile.13) Poi crescerò. 14) Mi viene la pelle doca.15) No…ho guardato su Google. No doca…D’oca.16) Mi sono infilata gli occhiali da sole17) Il mio consiglio è: quelli rosa a forma di cuore sono i più belli.

22noVeMbre

2014pag. 11

Il 25 ottobre ha finalmente riaperto dopo cinque anni il museo Picasso a Parigi. Si

trova in un bel palazzo del XVII secolo, oggi monumento storico, nel cuore del Marais, in rue de Thorigny 5. Il museo con la sua eccezionale collezione di 5.000 opere tra schizzi, dipinti, cerami-che, sculture e foto costituisce in assoluto il più importante cen-tro di studi sulla vita e sull’opera dell’artista. Il restauro durato il doppio del tempo previsto e costa-to, tra polemiche e licenziamenti, la cifra record di 56 milioni di euro è l’ennesimo omaggio del-la città a uno dei suoi più illustri ospiti.Picasso arrivò a Parigi la prima volta nel 1900, non ancora di-ciannovenne, con già un passato da enfant prodige (aveva fatto la sua prima mostra a quattordici anni) e con un suo quadro Gli ultimi momenti, dipinto tre anni prima, scelto per essere presentato nel padiglione spagnolo della grande Esposizione Universale d’inizio secolo. Parigi, che all’e-poca aveva 1.500.000 abitanti, era stata da qualche decina d’anni completamente rimodernata dalla radicale trasformazione urbanisti-ca di Haussmann, con l’illumina-zione a gas nei larghi boulevards, le prime autovetture, i bistrot frequentati da intellettuali, artisti, uomini politici, le grandi opere per l’Esposizione Universale come il Grand Palais, la Tour Eiffel appena inaugurate. Il giovanissi-mo Pablo Ruiz Picasso ne rimase affascinato, sicuro di trovarsi in

un ambiente intellettualmente e artisticamente più stimolante di quello lasciato a Barcellona. Non parlava francese ma nei due mesi della sua permanenza frequentò alcuni artisti spagnoli e soprat-tutto il mercante d’arte Pedro Manyac che gli dette 150 franchi al mese in cambio di alcuni qua-dri, cosa che gli permise questo soggiorno così prolungato. La sua prima opera parigina intitolata Le moulin de la Gallette, dedicata al famoso locale ricavato da un vecchio mulino, era chiaramente ispirata agli interni dipinti da Toulouse Lautrec. In un altro suo viaggio nella capitale francese, nel 1902, conobbe il gallerista Ambroise Vollard, il quale gli organizzò una mostra nella sua Galleria in Rue Laffitte. Nel 1904 si trasferì definitivamente a Parigi. Andò ad abitare sulla collina di Montmartre come molti artisti squattrinati. Lì a quell’epoca si poteva affittare appartamenti privi di elettricità e di gas per pochi soldi. Trovò un alloggio al piano terra nella cosiddetta Maison du Trappeur, denomi-nata da Max Jacob Le Bateau lavoir, un ex lavatoio diviso in ambienti con pareti sottilissime, freddo d’inverno e afoso d’estate con il bagno in comune. I suoi vicini di casa erano Gauguin, Matisse, Gris, Modigliani, Soffici, i suoi amici Max Jacop, Andrè Breton, Braque, Apollinaire, Geltrude e Leo Stain. Econo-micamente erano tempi ancora molto duri, ma cominciavano le prime mostre parigine e i primi amori. Continueranno entram-bi per tutta la vita fino alla sua

morte nel 1973. Picasso lasciava un patrimonio delle sue opere invendute immenso (si definiva “il più grande collezionista di se stesso”). I suoi eredi decisero di pagare le tasse di successione con opere d’arte anziché in denaro secondo una legge francese del 1968 chiamata Dation che viene applicata solo nel caso particolare di artisti di tale fama da arricchire con le loro creazioni lo sviluppo culturale del paese. La scelta di ciò che doveva essere donato allo stato fu fatta, non senza qualche difficoltà dato l’enorme quantità, da Dominique Bozo, uno dei curatori del patrimonio museale francese. La selezione fu concepi-ta in maniera da avere opere che rappresentassero tutte le tecniche e tutti i periodi dell’artista. Anche alla morte della figlia di Picasso, Jacquiline, i suoi eredi scelsero di pagare la successione con la Da-tion. Entrambe queste donazioni

con altre di collezionisti privati costituiscono il patrimonio del museo Picasso definito dal presi-dente Francois Hollande il giorno dell’inaugurazione “uno dei più belli e affascinanti del mondo”. Il museo, restaurato dall’architetto Jean Francois Bodin, riapre con una superfice ampliata, quasi raddoppiata, con dieci nuove sale espositive. Nei cinque piani che lo compongono sono presentate, secondo un ordine cronologi-co, 400 opere di Picasso e oltre 150 quadri di grandi artisti, e spesso amici, come Matisse, Renoir, Cezanne di proprietà dello stesso Picasso. In occasione della riapertura il figlio Claude, l’unico rimasto in vita, ha deciso di donare al museo la preziosa documentazione fotografica che Dora Maar, uno dei tanti grandi amori di Picasso, fece alla fine degli anni 30 durante la realizza-zione di Guernica.

Picassoil più grande collezionista di se stessodi SiMonetta [email protected]

22noVeMbre

2014pag. 12

nell’ultima passeggiata di alcuni giorni fa dedicata dall’associazione Trekking

Italia alla scoperta dei luoghi fiorentini della poesia, abbiamo attraversato il Parco di San Salvi per ricordare episodi della vita di Dino Campana e per soffermar-ci davanti al piccolo edificio che fungeva da deposito per la Tina-ia, l’ambiente famoso nella sto-ria dell’Ospedale per le attività espressive. Sulle pareti della casa è riportata la poesia di Pablo Ne-ruda, La città, dedicata alla visita del poeta cileno in Palazzo Vec-chio al sindaco di Firenze, Mario Fabiani, nel gennaio del 1950:E quando in Palazzo Vecchio/ bello come un’agave di pietra,/ salii i gradini consunti,/ attra-versai le antiche stanze,/ e uscì a ricevermi un operaio,/ capo della città, del vecchio fiume,/ delle case tagliate come in pietra di luna,/ io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava./ …Il testo della poesia risalta fra le figure monumentali, coloratis-sime di un affresco dipinto nel 1978 da un gruppo di pazienti dell’Ospedale insieme a giovani del quartiere di San Salvi e di altre parti della città, con la col-laborazione di alcuni esuli cileni, in occasione di una settimana di festa fra il 25 aprile e il 1° maggio. La festa era per l’apertu-ra alla città dell’Ospedale, con la legge Basaglia, festa animata su un versante più generale, dall’i-dea della “liberazione” in termi-ni personali, civili, politici. Nel quadro della festa, si può dire, brillavano i versi della poesia di Neruda dedicata a Firenze. Oggi, com’è successo a noi, si rimane di sasso fermandoci davanti alle pareti di quell’edi-ficio. Il perimetro della casa è circondato da una rete, oltre la rete mucchi di spazzatura, una foresta di piante rampicanti sale fino al tetto, in parte crollato, ampie macchie di umido e muf-fa si distendono sopra le pitture delle pareti. Dopo questa sorprendente “scoperta” fatta da parte nostra in occasione dell’iniziativa di Trekking Italia, con una rapida ricerca su internet abbiamo appreso dell’appello lanciato un anno fa per salvare l’edificio, di

Crolla a San Salvila poesia di Neruda

di roBerto [email protected]

proprietà del Comune, e per il rilascio della dichiarazione di bene culturale da parte della Soprintendenza. Su internet compare anche il suggestivo, commovente filmato di quella

festa di “liberazione” di 36 anni fa. E’ il documento prezioso di un brano della nostra memoria che merita di essere salvaguarda-ta a partire dalle testimonianze materiali di quella storia.

Sorgono spontanee delle domande. Che fine ha fatto l’appello di un anno fa? Come riprendere quell’impegno cultu-rale e politico per scongiurare la dispersione di quella memoria?

22noVeMbre

2014pag. 13

Scrive Paolo Petroni, il più ac-creditato studioso (e dispensatore di ricette!) della cucina fiorentina tradizionale: “La bistecca, così antica, così nostra, dispiace dirlo, non ha un nome fiorentino”. Vuole infatti la leggenda che il nome nascesse il 10 agosto 1565 quando, durante la festa di San Lorenzo, nella Piazza intitolata al Santo venivano distribuiti gratuitamente ai presenti pezzi di bue girato allo spiedo a cura della potentissima Arte dei Beccai (la cui importanza è testimoniata dal fatto che fu fra le poche Arti Minori che ebbe il privilegio di esporre il suo protettore, San Pie-tro, sulla facciata di Orsanmichele, accanto ai colleghi protettori delle Arti Maggiori); per inciso, mi è sempre parso leggermente blasfe-mo che si celebrasse San Lorenzo, morto martire, come noto, su una graticola ardente, con una gran grigliata, ma tant’è… Fra coloro che aspettavano di assaggiare la

carne c’erano dei mercanti inglesi (Firenze allora era crocevia del mondo) che, protendendo le mani, chiedevano a gran voce un pezzo di bue gridando “Beef steak, beef steak!” (“Una fetta di manzo!”), immediatamente fiorentinizzato in “bistecca”, che, chissà perché, sembrò all’epoca più appropriato di quello di “car-bonata” allora in uso.Da allora la bistecca alla fioren-tina ha dettato legge sulle tavole di tutto il mondo e le regole sul taglio di carne da usare e sulle mo-dalità di cottura sono incise nella pietra né possono essere in alcun

modo discusse; tutti le conoscete sicuramente e non sto a ripeterle, salvo il primo comandamento della bistecca alla fiorentina, che talvolta qualche ignaro cerca di infrangere: NON ESISTE UNA BISTECCA BEN COTTA.In tanti secoli di storia, la bistecca alla fiorentina ha avuto un solo momento di crisi. Successe il 31 marzo 2001, quando, a causa della preoccupante diffusione di casi di malattia di Creutzfeldt-Jakob o “encefalopatia spongiforme bovina” (più comunemente nota come “morbo della mucca pazza”), la Comunità Europea impose la

rimozione della colonna vertebrale (e di conseguenza del midollo spinale) dei bovini da macellazio-ne Con questo provvedimento di fatto uccise la bistecca alla fioren-tina, la cui caratteristica è appunto l’osso a forma di “T” (non a caso negli Stati Uniti la chiamano “T-bone”) che separa il filetto dal controfiletto. Uno dei più famosi macellai della provincia di Firenze, Dario Cecchini di Panzano, ne ce-lebrò il funerale dedicandole una lapide. Poiché il provvedimento riguardava bovini adulti, oltre i 24 mesi di età, nelle trattorie fiorenti-ne si continuò comunque a servire bistecche provenienti da animali “regolari”.Il 1° gennaio 2006, la Commis-sione Veterinaria della Comunità Europea annunciò il cessato pericolo e la bistecca alla fioren-tina, con tutti i crismi di legge, tornò trionfalmente sulle tavole di Firenze e del mondo, mentre sulla lapide di Cecchini si celebrava la sua resurrezione, a cura di Alberto Severi, cronista del TG3.

La città polacca di Szczecin non suona molto familiare, ma forse ci appare meno estranea

se la chiamiamo col suo nome ita-liano, Stettino. Negli ultimi secoli è stata soggetta al dominio svedese, poi a quello prussiano, quindi parte dell’impe-ro tedesco. Con i mutamenti ter-ritoriali definiti dopo la Seconda Guerra Mondiale è diventata parte della Polonia. Il nome tedesco di Stettin è stato sostituito da quello polacco di Szczecin. Oggi questo porto industriale situato sul Baltico è un punto di contatto fra cultura slava e cultura germanica: Berlino dista appena 120 km. Città natale dello scrittore tedesco Alfred Döblin (1878–1957), Stettino ospita ancor oggi una piccola minoranza germanofona. Nella città, oltre alla maggioranza cattolica, vivono luterani ed ebrei: fino a qui niente di strano. Quello che sorprende, invece, è il fatto che pochi mesi fa il sindaco Piotr Krzysztek abbia annunciato pub-blicamente la propria conversione alla religione islamica.In questo ambiente multiculturale si è formata Anna Witczak,musicista originaria di Pila. Nata nel 1973, Anna ha viaggiato per l’Europa centrale e orientale

di aLeSSandro [email protected]

FaBriZio [email protected]

to la musica da ballo perché la confonde con quella da discoteca si ricrederà. Il materiale è tratto dai lavori precedenti; oltre metà dei 19 brani era già apparsa nel preceden-te disco registrato dal vivo (2010). La formazione del sestetto è rima-sta sostanzialmente immutata fino a pochi mesi fa. Il ruolo centrale di Anna Witczak non deve comun-que farci dimenticare quello dei validi musicisti che la affiancano, come il chitarrista Piotr Rejdak e la violinista Kasia Dziubak, che ha lasciato il gruppo recentemente. Rassi, il CD più recente, conferma ancora una volta la versatilità del gruppo. Voce e violino si fondono magicamente in “Dumy moi”, tratta da un testo del celebre poeta ucraino Taras Szewczenko (1814-1861).“Usti baba”, con la tromba di Szymon Bobrowski in primo piano, è un brano tradizionale rom già noto nella versione della Kocani Orkestar. In “Kori” emerge invece la chitarra elettrica di Piotr Rejdak. Nel tradizionale serbo “Gusta mi magla” dominano il violino di Kasia Dziubak e le voci femminili. Dikanda non è l’ennesimo gruppo che propone l’ormai consueta fusione di musiche mitteleuropee, ma possiede una vitalità e un’in-ventiva che lo rendono inconfon-dibile.

entrando in contatto con molti musicisti. In questo modo ha svi-luppato una conoscenza profonda del patrimonio musicale balcanico e danubiano. Su queste fonda-menta ha edificato il suo gruppo, Dikanda, nato nel nel 1997. Cantante, compositrice e fisar-monicista, Anna ha attinto alle musiche conosciute negli anni pre-cedenti rielaborandole in maniera molto personale. Col tempo, no-nostante l’interesse prevalente per le culture balcaniche e mitteleu-

ropee, il suo gruppo ha superato i confini del Vecchio Continente ac-cogliendo anche umori asiatici, in particolare arabi, indiani e kurdi. Lo stesso nome del sestetto deriva da un’imprecisata lingua africana. Dal 2000 a oggi ha realizzato sette CD, gli ultimi due dei quali sono usciti nel corso dell’ultimo anno. Live in Zakopane (2013), doppio DVD registrato nel 2012, fornisce un ottimo esempio della forza trascinante che il gruppo esprime dal vivo. Chi guarda con sospet-

Dal Danubioal Gange

Piazza San LorenzoNascita,mortee resurrezionedella bistecca

22noVeMbre

2014pag. 14

Dino Campana

Void within unlimited freedom è una mostra inedita di Koo Jeong A con la quale l’arti-sta si propone di scoprire la città di Firenze e lo spazio di BASE / Progetti per l’arte du-rante una breve residenza di una settimana, quella precedente l’inaugurazione. Il fram-mento temporale preso in questione, che è il vero soggetto del progetto, sarà sintetiz-zato, espanso ed evocato all’interno dello spazio espositivo attraverso interventi tanto minimali, quanto coinvolgenti emotiva-mente. Questa modalità scelta dall’artista è pensata non per realizzare un prodotto fine a sé stesso, bensì come mezzo con cui apri-re una discussione collettiva sul valore e sul senso dell’attenzione verso il quotidiano e

rispetto alla pratica dell’incontro (nell’era del villaggio globale). Gli indizi per intuire che tipo di processo sarà attivato dalla mo-stra di Koo consistono, per adesso, in una lista di desideri da verificare ed esperire in loco: “Visitare il convento di San Marco; incontrare gli artisti di BASE; realizzare un libro/diario dell’esperienza; ripensare al rapporto con l’Oriente; guardare il fiume Arno; creare dei timbri in gomma per stampare una serie di disegni; vedere cosa accade…”. BASE / Progetti per l’arteVia di San Niccolò, 18.Inaugurazione: sabato 22 novembre ore 1822 novembre 2014 / 10 gennaio 2015

Resmi Al Kafaji racconta di come nel 2006, al rientro da un viaggio in Iraq (il secondo dopo un esilio trentennale, finito solo con la caduta del regime), il colore sia sparito dalla sua tavolozza per lasciare spazio a un’ampia tessitura di bianco e nero. Questo nuovo corso della sua pittura (e più in generale della sintesi delle sue visioni, che comprendono anche il video e l’installazio-ne) mantiene a otto anni di distanza una stringente coerenza stilistica e concettuale. Nel naturale mutarsi delle opere – un mutare che passa attraverso la ripetizione del gesto dell’artista e si arricchisce ad ogni passo ripercorso di un’esplorazione tecnica o poetica in più – si delinea uno dei temi più importanti per tutta la ricerca di Resmi, che imbeve le sue diverse sperimentazioni

ed emerge con fisionomie più o meno criptiche attraverso i suoi diversi percorsi. Questo tema è stretto intorno alla varietà delle possibili interpretazioni del mondo visibile: la non obiettività dei formati in cui la realtà viene tradotta dall’intelletto (creativo o speculativo) rende impossibile ogni comunicazione neutra, così attraverso le parole come attraverso le forme; pertanto la reale natura delle idee, delle persone, delle cose e dello spazio deve sempre essere rimessa in discussione, deve essere mante-nuta in uno stato di dubbio rivisitabile.(dal testo di Pietro Gaglianò nel volume pubblicato da Fratini Editore)Sabato 22 novembre ore 18inaugura la mostra Resmi Al Kafaji “Autun-no” alla galleria immaginaria Firenze

Nel centenario della pubblicazione del Libro Unico di Dino Campana, un progetto integrato fra Teatro Studio Krypton, Biblioteca Maru-celliana di Firenze e Fondazione Primo Conti di Fiesole, su iniziativa di Regione Toscana, Comune di Firenze, Comune di Lastra a Signa, Comune di Marradi e Comune di Scandicci, e intitolato canti orfici: un libro tra due secoli celebra uno dei più grandi poeti del ‘900. Un progetto lungo e composito, dal 21 novem-bre al 31 dicembre, che, partendo da Scandicci, tocca territori campaniani come Firenze, Badia a Settimo, Lastra a Signa e include mostre, una produzione teatrale in prima nazionale, spetta-coli, film, incontri, conferenze e un laboratorio condotto da Giancarlo Cauteruccio aperto a giovani attori e artisti della scena.Con una scelta forte e simbolica Teatro Studio Krypton apre il progetto nella Villa di Castelpulci (oggi sede della Scuola Supe-riore della Magistratura) il 21 novembre alle ore 21.00, dove presenta la mise en espace del poemetto drammatico Un poeta in fuga scritto da Roberto Carifi nel 1994. A cura di Massimo Bevilacqua e con un cast di giovani attori, prende vita il testo, liberamente ispirato alla vita e alle opere di Campana che, attraversando Trakl e Rilke, comprende anche alcuni frammenti dei

Canti Orfici reinterpretati da Carifi.Il 22 novembre alle ore 21.00, al Teatro Stu-dio di Scandicci, il regista Marco Moretti introduce il suo film Dino Campana girato nel 1974.Il 24 novembre dalle ore 19.00 studenti e insegnanti dell’Istituto Russell Newton di Scandicci daranno vita a Notte campaniana, una no stop di letture, musica e considera-zioni sui Canti Orfici di Dino Campana al Teatro Studio di Scandicci.Al Teatro delle Arti di Lastra a Signa, il 25 novembre alle ore 21.00, la compagnia Giardino Chiuso mette in scena Mi chiamo

Dino… sono elettrico, da La notte della cometa di Sebastiano Vassalli, scrittura tea-trale di Attilio Lolini, interpretato da Fulvio Cauteruccio, Laura Bandelloni e Patrizia de Bari, regia di Tuccio Guicciardini. L’azione teatrale si concentra in modo particolare sugli anni che il poeta passò a Castelpulci e sul personaggio dello psichiatra Pariani, suo accanito persecutore. Il 27 novembre al Teatro Studio di Scan-dicci alle ore 21.00 è ospite il drammatur-go Giuseppe Manfridi con un recital del suo inedito dedicato a Campana Trafitto da lance. Un copione scritto in versi che enfatizza un episodio focale della biografia campaniana: la riscrittura dei Canti Orfici, un’impresa disperata alla quale il poeta si accinse dopo il drammatico smarrimento della prima dettatura.Il 29 novembre alle ore 16.00, nell’Abbazia di Badia a Settimo, l’attrice Lorella Serni e il musicista Volfango Dami sono i protago-nisti di Così bella come un sogno. Sibilla Aleramo, drammaturgia di Lorenzo Bertola-ni, ispirata attraverso ricordi, lettere, poesie, all’incontro tra Sibilla Aleramo e Campana, in cui l’autrice riscopre le ragioni e i passag-gi di una storia da lei stessa definita “orrida e meravigliosa”.

Koo Jeong A

Resmi Al Kafaji

in

giro

Un poeta in fuga1994 Foto di Massimo Agus

22noVeMbre

2014pag. 15

horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Per quel salto dalla torre, che fortemente hai voluto, non riesco

a capire se la mano che lo blocca lo fa perché

tu non ti sfracelli o per impedirti di volare?

22noVeMbre

2014pag. 16

www.davidevirdis.it www.confotografia.net

L’Aquila5 anni dopo

La cittàinterrotta

Frammentidi una ricerca dinormalità

di Davide Virdis per confotografia

22noVeMbre

2014pag. 17

Come vi avevamo promesso, nella nostra compagna editoriale due anni fa, abbiamo raggiunto i 100 numeri. Gli italiani, i fiorentini o forse solo un gruppo di cari amici, ci avevano chiesto di cambiare qualcosa e qualcosa abbiamo cambiato. Ora siamo sereni per affrontare i prossimi 1.000 numeri. Ci diamo quindi appuntamento per il 22 novembre 2036, solo allora accetteremo di far entrare nella nostra prestigiosa Accademia dei Rottamati il 61enne Renzi.

22noVeMbre

2014pag. 18

L

Ancora due scatti dalla zona periferica di Alviso. Madre e figlio stanno “dialogando” davanti al portico di casa e come si può chiaramente vedere l’ambiente è piuttosto degradato rispetto ai livelli del resto della Bay Area. L’intesa tra i due appare comunque intensa e positiva e non mancano i segni delle attenzioni di cui anche questo bambino sembra, per fortuna, essere circondato. In questa zona, almeno

quando io ho avuto l’occasione di visitarla, le condizioni degli abitanti erano spesso al di sotto degli standards californiani. Molti abitanti erano latinos e, come si può vedere anche nella seconda immagine, l’ambiente mostra evidenti segni di degrado, con abitazioni di dimensioni modeste e mal conservate e tutta una serie di oggetti abbandonati in mezzo a dei “backyards” in cui l’erba non veniva certo tagliata con la stessa cura maniacale tipica della suburbia più ricca.

Alviso, California 1972

Dall’archiviodi Maurizio berlincioni

[email protected]

ultimaimmagine