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ATTI CONVEGNO “LE PERFORMANCE ECONOMICHE DELLE IMPRESE TREVIGIANE ATTRAVERSO L’ANALISI AGGREGATA DEI BILANCI” 15 Novembre 2004

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ATTI CONVEGNO

“LE PERFORMANCE ECONOMICHE DELLE IMPRESE TREVIGIANE ATTRAVERSO

L’ANALISI AGGREGATA DEI BILANCI”

15 Novembre 2004

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È consentito l’utilizzo, anche parziale, del contenuto degli interventi riportati, purché venga fatto riferimento alla fonte

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INDICE

Presentazione Federico Tessari Presidente della Camera di Commercio di Treviso

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Introduzione al Convegno Dott. Renato Chahinian Segretario Generale Camera di Commercio di Treviso

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Cosa rivelano i bilanci delle imprese: la “lettura” di un sistema economico locale attraverso l’analisi di un triennio di bilanci ufficialiProf. Ferruccio Bresolin Docente di Politica Internazionale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

Pag. 11

Lettura delle performance del sistema produttivo trevigiano attraverso i bilanci aggregati Prof. Quirino Biscaro Docente di Politica Economica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

Pag. 21

Valore dell’impresa e valore delle capacità imprenditoriali Prof. Guido Mantovani Docente di Finanza Aziendale presso l’UniversitàCa’ Foscari di Venezia

Pag. 27

Testimonianza Dott. Giovanni Battista Ravidà Vice Direttore Generale Unicredit Banca d’Impresa S.p.A.

Pag. 39

Tavole indicatori Pag. 47

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Atti convegno “Le performance economiche delle imprese trevigiane

attraverso l’analisi aggregata dei bilanci”

Presentazione

La Camera di Commercio di Treviso, che da anni pone come prioritario lo studio del proprio sistema economico-produttivo attraverso molteplici punti di osservazione e che per questo ha intrapreso un percorso di valorizzazione del proprio archivio bilanci delle società di capitali, è lieta di pubblicare gli Atti del Convegno “Le performance economiche delle imprese trevigiane attraverso l’analisi aggregata dei bilanci” che si è svolto presso la Sala Conferenze dell’Ente camerale in data 15 novembre 2004.

L’obiettivo è stato quello di fornire alla collettività degli operatori e degli studiosi informazioni sistemiche sulla struttura economico-finanziaria delle imprese del territorio e sulle correlate performance di efficienza e redditività, segmentando l’informazione per settori, per distretti, per caratteristiche delle imprese, convinti che anche l’analisi finanziaria possa essere una modalità di osservazione importante, con implicazioni operative, delle dinamiche di sviluppo locale.

E’ proprio da questi intenti che con la stretta collaborazione di Infocamere è stata progettata una banca dati per l’analisi aggregata dei bilanci, che permette di effettuare interrogazioni non solo con riferimento alla totalità delle società di capitali attive in provincia di Treviso (circa 7.000), ma utilizzando come filtro, per l’appunto, variabili territoriali, settoriali e subsettoriali, dimensionali (addetti e valore della produzione), relative alla forma giuridica e all’anno di costituzione.

Un primo autorevole esempio della ricchezza d’informazioni ricavabili dalla banca dati è stato offerto dalla ricerca distribuita nel corso del Convegno dal titolo “Le performance delle imprese trevigiane attraverso l’analisi aggregata dei bilanci”, che è stata realizzata da un team di professori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Facoltà di Economia: professori Ferruccio Bresolin, Quirino Biscaro e Guido Mantovani e che è disponibile presso la Biblioteca dell’Ente camerale. E’ un’analisi che pone il “bilancio-somma” come chiave di lettura dei settori manifatturieri trevigiani; ne fa il punto di partenza per calcolare una batteria di indicatori economico-finanziari piuttosto ampia, in parte inedita e alquanto significativa. Sono

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indicazioni strutturate e preziose che aiutano a comprendere, settore per settore, comportamenti virtuosi e margini di miglioramento che le imprese possono intraprendere per aumentare il livello complessivo della loro competitività.

La raccolta degli Atti può far conoscere i singoli contenuti sviluppati durante il Convegno che si è aperto con un’introduzione del Segretario Generale della Camera di Commercio, dott. Renato Chahinian, il quale, come esperto di credito e finanza nonché ispiratore dell’idea di realizzazione della banca dati “bilanci aggregati”, ne ha spiegato le finalità istituzionali. E’ seguìto poi l’intervento del professor Ferruccio Bresolin che si è focalizzato sull’analisi dei punti di forza e di debolezza dell'economia provinciale, con particolare riferimento alla globalizzazione, alla competitività di sistema ed alla governance dello sviluppo.

Il professor Quirino Biscaro ha poi analizzato da un lato le capacità reddituali e la solidità-solvibilità finanziaria delle imprese, dall'altro lato il loro ritmo di sviluppo e la reattività ai mutamenti della domanda.

Il professor Guido Mantovani ha svolto una relazione sui legami fra rischio caratteristico delle imprese operanti nella marca trevigiana e capacità di raccolta dei capitali presso il sistema finanziario, dimostrando come le competenze imprenditoriali e la competitività aziendale diventeranno sempre più l’asset principale per attrarre i capitali finanziari da investire in azienda.

Ha chiuso infine il convegno la testimonianza del dott. Giovanni Battista Ravidà, Vice Direttore Generale di Unicredit Banca d’Impresa S.p.A., Direzione regionale Nordest: un commento autorevole alle analisi ed ai possibili sviluppi della banca dati, anche in una prospettiva di fornitura di benchmark per settori e territori, utili sia alle aziende per confrontare i propri risultati di bilancio, sia agli istituti di credito a possibile supporto per la costruzione di indici di rating.

Formuliamo i più sentiti ringraziamenti ai relatori del Convegno per l’alta qualità delle relazioni presentate e per aver saputo coniugare i temi generali della competitività locale con quelli dell’analisi economico-finanziaria delle imprese.

Federico Tessari Presidente della Camera di Commercio di Treviso

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Introduzione al Convegno Dott. Renato Chahinian – Segretario Generale della Camera di Commercio di Treviso

Porto i saluti della Camera di Commercio e del suo Presidente Federico Tessari che, purtroppo, per esigenza imprevista non ha potuto partecipare a questo nostro incontro. La Camera di Commercio è lieta di organizzare un incontro su un tema tanto importante e tanto delicato per la nostra economia, ma anche direi per l'economia in generale del nostro paese; in realtà tutti gli enti pubblici hanno dei patrimoni informativi notevoli su dati amministrativi, patrimoni che perlopiù sorgono da adempimenti giuridici, da regole a garanzia dell'ordinamento e a garanzia del principio di buona fede, quindi di regolazione del mercato. Questi adempimenti amministrativi però non sono soltanto fini a se stessi, cioè per soddisfare degli interessi giuridici o dell'ordinamento, ma hanno spesso dei risvolti economici molto importanti che quasi sempre vengono sottovalutati. Un esempio di questo tipo di patrimoni informativi è proprio quello del deposito dei bilanci: tutte le società di capitali, secondo alcune norme previste nel Codice Civile, sono obbligate a depositare i propri bilanci. E questo è il fine giuridico che è diretto ovviamente alla trasparenza dell'attività economica, alla trasparenza della gestione delle imprese ovviamente a garanzia della buona fede dei terzi. Però, se aggreghiamo tutti questi bilanci, tutto questo grande insieme di dati, in realtà otteniamo un patrimonio informativo notevole, che ci permette di conoscere meglio la situazione economica del nostro paese, la struttura finanziaria di un sistema produttivo, la situazione di un settore, oppure di un'area, oppure di gruppi di impresa variamente dimensionati tra loro, e così via. Infatti si possono fare a scelta varie elaborazioni a seconda, chiaramente, delle nostre esigenze conoscitive ed informative. Questo patrimonio può colmare le lacune, che in realtà ci sono, anche da parte delle statistiche ufficiali e, quindi, possono meglio contribuire alla conoscenza economica soprattutto a livello territoriale, a livello provinciale (ma anche subprovinciale e locale). Per assurdo le nostre principali fonti di dati economici sono a livello nazionale, e poi, nel momento in cui dobbiamo valutare se un territorio sta andando bene o male, operiamo delle disaggregazioni sui dati nazionali. Per esempio, sappiamo tutti che il valore aggiunto viene prima calcolato su basi statistiche a livello nazionale; dopodiché, se vogliamo conoscere il valore aggiunto della regione, della provincia, o anche di singoli comuni, lo possiamo fare con opportuni metodi, disaggregando il dato nazionale. Attraverso l’aggregazione dei bilanci, invece, si può pervenire a dati più

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sicuri e più specifici, perché si riferiscono direttamente al territorio che si vuole indagare. Però, a parte questa conoscenza di tipo territoriale, e quindi di andamenti economici di aree o settori, possiamo perseguire anche altri scopi con questo data-base di bilanci opportunamente aggregati, che ci può consentire ulteriori utilizzazioni. Innanzi tutto la possibilità di creare degli indici di settore, per fare il punto della situazione di questo e, quindi, il suo “rating”.Rating a livello generale, ma anche a livello locale. Questo è un dato essenziale per il rapporto banca/impresa; infatti sempre più le banche stanno sconfinando dai metodi tradizionali di gestione per valutare la capacità di credito delle aziende affidate, ma per far questo occorre riferirsi a dei rating, a dei parametri di confronto; altrimenti non si può mai capire se una certa redditività od un particolare grado di liquidità è buono o carente. Quindi, questa diventa una strada obbligata. Oggigiorno già esistono, certamente, delle banche dati a livello nazionale ed anche a livello internazionale da cui si possono ricavare questi indicatori, ma perlopiù esse sono formate da imprese di dimensioni medio-grandi e che, comunque, hanno attività vaste e diversificate. Il dato locale dimensionale per la valutazione di una piccola impresa in realtà non esiste. Infatti non possiamo certo prendere a riferimento - per fare un esempio banale - i dati della Fiat per dire che tutte le imprese metalmeccaniche devono possedere parametri simili. Di conseguenza, attualmente mancano dati di riferimento specifico a territori, ad imprese di piccole e medie dimensioni, a settori particolari.L’ulteriore aspetto che possiamo indagare con questa banca-dati è ancora più avanzato: si tratta del valore dell'azienda. Sappiamo tutti che il valore di bilancio di un'azienda non è espressivo del suo effettivo valore, cioè del cosiddetto “valore economico”. Ma il valore economico, in realtà, è quello che gioca di più poi nella pratica, perché se dobbiamo comprare o vendere un'azienda, se dobbiamo fare dei conferimenti o cedere parte di essa, se dobbiamo investire in borsa, comprare o vendere delle partecipazioni, se investiamo anche attraverso fondi di investimento, importa conoscere, almeno approssimativamente, il valore economico e non certo il valore che emerge dal bilancio facendo la differenza: attività meno passività. Ecco che allora, senza adesso voler entrare approfonditamente nel merito, perché sotto questo aspetto parlerà poi diffusamente il professor Mantovani, se per il valore economico è importante conoscere a fondo l’impresa nelle sue prospettive di redditività futura, è pure importante confrontarle con il suo settore, cioè disporre di un parametro di sconto, di un parametro di attualizzazione del rendimento della media del settore a cui appartiene l'impresa. Anche questo non si può avere se non attraverso una banca dati settoriale specializzata che possa mettere in evidenza questo parametro di

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attualizzazione ed il rischio connesso. I tre relatori di oggi, cioè i tre professori invitati, ci illustreranno proprio questi aspetti. Il professor Bresolin ci spiegherà appunto come da una banca dati di bilancio si possono ottenere tutta una serie di informazioni utili sull'andamento della nostra economia; il professor Biscaro ci dimostrerà come stanno andando i diversi settori e come questi possono fungere da parametro di valutazione per le singole imprese appartenenti a quegli stessi settori; il professor Mantovani ci parlerà poi del valore dell'azienda; infine, il dottor Ravidà metterà in luce le possibilità di queste valutazioni nei rapporti banca/impresa. Avendo iniziato questo nuovo filone di indagine, continueremo nell’analisi e quindi, se ora i dati sono limitati al triennio 1999-2001, abbiamo già avviato le elaborazioni per i risultati del 2002, che tra l'altro saranno in euro e dunque parallelamente sarà riconvertita tutta la banca dati. Amplieremo ovviamente in futuro anche le possibilità di indagine della nostra economia mettendo a confronto questi dati con altre rilevazioni di tipo più tradizionale tra le diverse fonti statistiche locali, a livello territoriale. Inoltre, allargheremo questa stessa indagine perché, sebbene essa sia un grosso passo in avanti (in quanto per la prima volta mette in evidenza il livello territoriale ed il livello settoriale di tante informazioni economico-finanziarie), comunque riguarda solo le società di capitali. Il problema sarà quindi quello di estendere almeno in maniera campionaria l'indagine a imprese individuali ed a società di persone, che rappresentano generalmente proprio la fascia di aziende più piccole e meno strutturate. Ciò ovviamente permetterà, oltre al miglioramento degli utilizzi di cui ho parlato, una più efficace strategia di impresa e più mirati interventi anche da parte degli enti pubblici (della Camera di Commercio, ma anche della Regione, Provincia e Comuni), perché una soddisfacente conoscenza della realtà economica locale attualmente è carente e, di conseguenza, anche tutte le attività di sviluppo che gli enti locali dovrebbero intraprendere, spesso sono un po’ basate su sensazioni ed intuizioni, perché in realtà non si dispone di dati economici a livello territoriale abbastanza significativi. Ovviamente questo modello che abbiamo costruito per la provincia di Treviso (dato che chiaramente la Camera di Commercio ha competenza provinciale) è replicabile anche in altre province, in qualsiasi altra provincia, e comunque pure a livelli più ampi. Per informazioni sulla nostra banca-dati è a disposizione il nostro Ufficio Studi, che si è prodigato nella realizzazione di tutto questo patrimonio, e ovviamente l'Infocamere (la nostra società di informatica competente sia per Treviso che per tutte le province italiane), la quale ha permesso, attraverso opportune elaborazioni informatiche, questa aggregazione che non è stata facile. Infatti vari bilanci, che per essere depositati dovrebbero esser esatti, in realtà indipendentemente dai dati che

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portano, nemmeno quadrano tra attivo e passivo, o tra costi e ricavi e quindi vi è stato un impegno notevole anche preliminarmente al loro caricamento in banca-dati.

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Cosa rivelano i bilanci delle imprese: la “lettura” di un sistema economico locale attraverso l’analisi di un triennio di bilanci ufficiali Prof. Ferruccio Bresolin – Docente di Politica Internazionale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

Dopo anni di incessante crescita economica, anni di boom produttivo, occupazionale e di espansione internazionale, l’economia del Nord Est si trova ad affrontare un periodo di stagnazione economica, di rallentamento, dal quale si evidenziano le difficoltà del sistema imprenditoriale ad adattarsi al nuovo contesto competitivo. Com’è noto, i processi di ristrutturazione aziendali, conseguenti a mutamenti nei modelli di sviluppo e a nuove formule imprenditoriali cost saving, comportano inevitabili disagi sociali ed economici; tuttavia questa fase presenta una caratteristica in parte nuova rispetto al passato. Ecco allora come risulti di estrema attualità ciò che scriveva uno dei grandi economisti del ’900, Schumpeter, il quale nella Teoria dello sviluppo economico afferma: «Attenzione che il nuovo non nasce dal vecchio, ma il nuovo si affianca al vecchio, lo combatte e lo distrugge». E’ tutto il sistema capitalistico che si modifica e conoscenza e capacità di elaborare strategie si vanno affermando sempre più come fattori produttivi alla base della competitività. Laddove un tempo si pensava alla conoscenza come un fattore esogeno, un dato, oggi essa rappresenta un fattore endogeno in grado di spiegare differenze nella produttività e nello sviluppo dei vari settori. E’ il capitalismo della conoscenza che si diffonde su scala planetaria, un capitalismo che tende ad oscurare le altre forme che l’hanno preceduto. In realtà la conoscenza è sempre stata un elemento cruciale della competitività di ogni sistema imprenditoriale e distrettuale in particolare. Negli ultimi anni il Veneto ha vissuto una rilevante fase di rallentamento economico, caratterizzato da un calo degli investimenti e da un modesto aumento dei consumi. L’apprezzamento dell’Euro assieme alla forte concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro hanno reso evidenti le difficoltà del nostro sistema economico e ridotto la domanda estera. Domanda estera che per altro sconta anche una bassa dinamica del reddito dei principali paesi dell’area Euro, che rappresentano gran parte dell’interscambio commerciale dell’area. Domanda estera in calo e modesti investimenti rappresentano le due facce della stessa medaglia, ovvero del declino competitivo del tessuto imprenditoriale locale. L’attuale situazione dell’economia veneta, attanagliata (come del resto tutta l’economia italiana ed europea) tra rivalutazione dell’euro e caduta della domanda interna, trova molte spiegazioni, quantomeno a livello aziendale in

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ciò che accadde nel triennio 1999 – 2001 in concomitanza con l’ingresso dell’euro. Lo stesso dualismo che oggi contraddistingue la struttura produttiva del Nord Est, con settori ed imprese competitive ed in espansione e settori in pericoloso declino, trova nella strategia gestionale e di mercato di quegli anni elementi per una valida spiegazione. Tutto ciò mette bene in luce come lo sviluppo in quest’area un tempo giustamente citata a modello possa presentare una sorta di dualismo:

Da un lato vi sono settori e imprese dotate di una forte connotazione evolutiva, ovvero di un forte legame con il passato che indica come i risultati odierni possano spiegarsi in una prospettiva path dependent.Proprio questa connotazione viene oggi messa in discussione, poiché se è vero che la “storia conta” è altrettanto vero che essa può essere fonte di inefficienze e di rallentamenti allorquando inibisce od ostacola nuove scelte o nuovi percorsi di crescita. Dall’altro vi sono settori e imprese che, nell’attuale rivoluzione indotta delle tecnologie, comportano una rielaborazione di scelte strategiche e organizzative cui non si può rispondere solamente mediante l’esperienza, le vecchie regole, i vecchi comportamenti. La conoscenza stessa presuppone nuovi codici, nuovi linguaggi, del tutto diversi nel contenuto e nei meccanismi di trasmissione rispetto al passato.

A questo tipo di analisi, fondate per lo più su dati macroeconomici, è mancata soprattutto tutta una serie di dati "micro" in grado di consentire anche una valutazione circa la coerenza delle strategie e dei comportamenti delle imprese rispetto all’evoluzione degli scenari competitivi. Anche se, come ben sanno gli economisti, spesso è difficile trovare i fondamenti “micro” della macroeconomia, consapevoli, come sono, che quest’ultima non costituisce un semplice aggregato di comportamenti individuali. A questa lacuna si è tentato, almeno in parte, di dare una risposta con il presente lavoro che analizza, attraverso i bilanci, redditività, efficienza, performance delle imprese trevigiane nella veste giuridica di società dei capitali. Sono informazioni che, pur con tutti i limiti legati alla trasparenza e alla significatività di molti dati (oltre che alla loro necessaria aggregazione settoriale), consentono di trarre utili conclusioni sulle strategie di efficienza e di efficacia, e sulla sostenibilità delle condotte aziendali soprattutto per quanto attiene la competitività e la capacità a gestire e attrarre risorse finanziarie.Trattasi in definitiva di delineare dei benchmark su quali imprese e settori possono confrontarsi. In questo modo, analisi di "contesto", tanto care ad economisti e sociologi, potranno venir integrate da analisi e verifiche tecniche necessarie a completare le conoscenze utili a guidare il cambiamento.

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Già dal triennio 1999-2001, come si vedrà, cominciano a delinearsi, nell’apparato produttivo trevigiano, due tipi di strategie: una strategia “difensiva” o “di posizione”, che fonda le sue radici sulla difesa di posizioni di mercato attraverso una competizione sui costi, aiutata in questo anche dalla svalutazione dell’euro. Questa strategia trova anche espressione nella diversificazione degli investimenti da parte dell’imprenditore in settori diversi dal “core business” aziendale, ma soprattutto nell’appesantimento della gestione non caratteristica. Questo tipo di strategia interessa soprattutto i settori del cosiddetto “Made in Italy”, ovvero pelli, calzature, cuoio, tessile, abbigliamento e in parte il mobilio. Dall’altro lato stanno emergendo in questo periodo anche strategie che potremmo definire “aggressive” in una gamma di settori che trovano al proprio centro la meccanica e che fondano la loro capacità competitiva sull’innovazione organizzativa, di processo e di prodotto e soprattutto sulla ricerca.

Alcuni risultati delle analisi In questo contesto macroeconomico, l’universo delle imprese trevigiane sotto forma di società di capitali, (oltre 3500 imprese), presentano degli indici di redditività abbastanza sostenuti, in particolare nei settori legati alla meccanica, con dei valori del ROE altre il 10% che denotano una performance addirittura doppia di quella riscontrabile nel campione Mediobanca, relativo alle imprese di tutta Italia. Se osserviamo poi l'indice ROI, ovvero la redditività con riferimento agli investimenti, notiamo che questa è elevata in tutti i settori ma particolarmente performante è quella nel citato comparto della meccanica. Per quanto riguarda invece le variazioni del fatturato, ad eccezione di alcuni settori, sono tutte a due cifre e, anche in questo caso, superiori al campione Mediobanca. Tutto ciò conferma il quadro delineato in premessa, ovvero di una favorevole congiuntura della nostra regione che ha indotto, anche nella nostra provincia, sostenuti ritmi di crescita delle vendite, in gran parte trainate dalle esportazioni. Questo elevato ritmo di crescita del fatturato (oltre il 10%) mediamente più che doppio del campione Mediobanca si è accompagnato, per il noto effetto di induzione creato dalle buone aspettative che va sotto il nome di "acceleratore", un elevato ritmo di crescita degli investimenti. E' da notare che paradossalmente però il tasso di crescita degli investimenti ha interessato soprattutto il settore tessile ed abbigliamento, ovvero settori non di punta quanto a redditività ed espansione, piuttosto che quello della meccanica e dei macchinari. Sul piano generale, merita osservare come una crescita media annua degli investimenti intorno al 14 %, ben superiore alla somma dei tassi di crescita del PIL e dell'inflazione (e comunque anche a quello del fatturato) faccia pensare sia ad una strategia volta alla razionalizzazione dei processi

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produttivi, ivi compresa la qualità delle produzioni, sia ad un aumento della capacità produttiva in previsione di sostenuti ritmi di crescita della domanda. Come si può ben immaginare questa creazione di capacità, particolarmente in settori che saranno maggiormente colpiti dalla crisi negli anni successivi, è all'origine delle attuali difficoltà di molti comparti dell'industria trevigiana. La scomposizione della dinamica degli investimenti in immobilizzazioni tecniche e capitali di giro o circolante induce però ad alcune osservazioni circa la struttura produttiva delle imprese della nostra provincia. Infatti l'introduzione dell'Euro, la stabilizzazione dell'inflazione, l'abbattimento dei tassi di interesse e la relativa stabilità dei cambi avrebbero dovuto dar luogo all'abbandono di un modello di crescita delle imprese fondato sull'elasticità o flessibilità produttiva che, come noto, vede la prevalenza del capitale circolante sul capitale fisso, per dar luogo ad un maggior investimento in capitali fissi maggiormente legati ad un orientamento strategico verso la ricerca e l'innovazione. In realtà, sembra che questo processo sia avvenuto solo in parte, nel senso che il capitale immobilizzato è inferiore all'investimento in capitale di giro, ma ciò che più preoccupa è che questo investimento in capitale di giro ha più che raddoppiato il fabbisogno finanziario.Tutto ciò si riflette in un altro indice particolarmente significativo, ovvero il peso dei debiti, e in particolare di quelli a breve che mediamente incidono per 78% sul totale per l'industria e per l'84% sul totale per il commerciale, rispetto ad una incidenza media del campione Mediobanca inferiore al 70%, il che non manca di avere riflessi significativi sul reddito operativo. Infatti colpisce particolarmente l’elevata “erosione” della redditività da parte della gestione cosiddetta “non operativa”, ovvero la gestione finanziaria e quella fiscale. Vi sono molti settori in cui la gestione finanziaria esercita un peso superiore a quella fiscale e comunque percentualmente molto elevato. Queste considerazioni ci portano inevitabilmente a considerare un altro indice di struttura particolarmente utile a verificare lo stato di solidità patrimoniale della struttura produttiva trevigiana. La “leva” infatti, intesa come rapporto tra totale di bilancio e patrimonio netto appare molto elevata, con valori che in certi settori superano il 5, come nell'alimentare, nella chimica, nei materiali elettrici, per non parlare del commercio al dettaglio e all'ingrosso per i quali siamo a valori attorno al 6. Questi valori sono notevolmente superiori a quelli del campione Mediobanca. Ciò significa che per ogni euro di capitale proprio ci sono fino a 6 euro di capitale di terzi. I valori più elevati si riscontrano nei settori manifatturieri tradizionali, come alimentare, tessile, calzature, legno, ed anche in quelli a maggior contenuto innovativo come meccanica, chimica, macchinari elettrici ed ottici. La presenza di una componente elevata del debito a breve unitamente ad alti valori della leva è indice di una certa compromissione della solidità

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patrimoniale delle imprese della provincia. C'è da dire, tuttavia, che la tendenza nel triennio è verso una sensibile riduzione di questi indicatori a dimostrazione di una tendenza verso un risanamento strutturale. A conferma di queste intuizioni vi è un ulteriore indice, quello di copertura primaria (ovvero il rapporto tra patrimonio netto più debito a medio e lungo termine meno immobilizzazioni sulle immobilizzazioni) che si attesta su valori superiori all'unità e superiore anche al campione Mediobanca su tutti i settori. Purtroppo però l'indicatore "copertura secondaria", ovvero il rapporto tra patrimonio e debito a medio e lungo termine rispetto alle immobilizzazioni per quasi tutti i settori si avvicina pericolosamente alla soglia critica dell'unità. Per quanto riguarda il connesso aspetto della liquidità, tuttavia, gli indicatori del cash flow rispetto al fatturato che, com’è noto, rappresenta una delle fonti di sostegno dell'autofinanziamento e quindi del finanziamento con fonti interne di capitale, appare abbastanza buono con una media del 7,7% per quanto riguarda le imprese industriali, e 1,8% per le imprese commerciali. In particolare, la percentuale di fatturato che si trasforma in “cash flow” nell’arco di un anno appare in netti miglioramento. Anche in questo caso, utilizzando il campione Mediobanca come una sorta di benchmarknazionale, appare una sorta di dualismo tra settori manifatturieri più tradizionali dell'imprenditoria trevigiana (vale a dire alimentare, tessile, abbigliamento, calzature, pelli e cuoio, legno) che presentano degli indicatori inferiori al campione Mediobanca e i settori in cui più forte è la presenza innovativa (come l'industria meccanica, dei macchinari, dei metalli), con la sola eccezione della chimica, che presentano indici significativamente superiori al campione Mediobanca. Tutte gli indicatori, comunque, presentano una tendenza al miglioramento nel corso del triennio. Di fronte alla crescita dei flussi monetari c'è però un forte aumento di circa il 18,5% tra il 2001 ed il 2000 del capitale circolante netto commerciale che rappresenta esigenze connesse con l'espansione della capacità produttiva in un ambiente produttivo fortemente caratterizzato da rapporti di subfornitura e di interdipendenza tra imprese, tipico dei distretti e dei sistemi locali. Ma soprattutto rivela come la struttura produttiva provinciale, a fronte di investimenti in immobilizzazioni esiga un più che proporzionale incremento del capitale di “rigiro” e, tra l’altro, gli investimenti in capitali fissi tra il 2000 ed il 2001 hanno subito una contrazione media del 22,39%. Com’è noto alle soglie dell’ingresso dell’euro e stante l’ipercompetitività dei mercati internazionali, la flessibilità del sistema produttivo trevigiano alla luce dei rapporti tra capitali fissi e circolanti e delle conseguenze che un eccessivo finanziamento a breve può comportare sulla solidità e solvibilità delle imprese, appariva, a parere di scrive, ancora eccessivo rispetto alle esigenze di un modello di sviluppo maggiormente orientato all'innovazione.

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Un ulteriore indicatore utile a verificare questa ipotesi è costituito dagli indici di “reattività”, ovvero un indice costituito dal rapporto tra costi variabili e costi fissi di produzione e che rappresenta una sorta di elasticità del processo produttivo. Anche in questo caso si può introdurre un confronto con il campione di Mediobanca. Questo indicatore ha dei valori medi di circa 15 per l'industria e di 37 per il commercio. Per l'industria, in particolare, questo indice oscilla tra un minimo di circa 8,5 per i settori legati alla lavorazione dei minerali, a 11,4 nel settore del metallo, a circa 16,9 per la chimica a circa 17,7 per l'industria alimentare e a 24,2 per calzature, pelli e cuoio.Anche in questo caso sembra doversi confermare una maggiore flessibilità, intesa come rapporto tra costi variabili e costi fissi, nei settori più tradizionali di quello che abbiamo definito “Made in Italy”, mentre appare minore in quelli, pur tradizionali, ma a maggiore contenuto innovativo. Ciò che merita sottolineare e che riteniamo sorprendente, è il fatto che il campione di Mediobanca denota valori notevolmente superiori agli indicatori rilevati nelle imprese trevigiane. Tutto ciò induce a ritenere che l'eccesso di flessibilità, che pure ha fatto la fortuna del sistema trevigiano e veneto ma che potrebbe essere un ostacolo ad innovazioni più strutturali (di processo e di prodotto), non sia poi così rilevante e peculiare di quest’area. E' evidente che cadute della domanda finale e della produzione dell'ordine del 5%, come mediamente si sono verificati negli anni successivi al 2001, abbiano potuto mettere in crisi molte imprese trevigiane, soprattutto quelle legate ai settori manifatturieri del “Made in Italy”. Non sembra azzardato concludere che alla base di questa limitatezza dei margini di sicurezza vi sia un appesantimento della gestione finanziaria, a sua volta legata ai limiti più volta sottolineati di scarsa capitalizzazione ma soprattutto agli elevati oneri finanziari connessi ad una eccessiva presenza dell'indebitamento a breve termine. Non solo, ma a dimostrazione di come questo triennio con il suo collocarsi sull'onda di un ciclo espansivo abbia influenzato pesantemente gli anni successivi e quindi l’attuale situazione, stanno ulteriori indicatori che potremmo definire di “liquidità”, come l’overtrading, ovvero il rapporto tra capitale circolante al tempo t ed il fatturato al tempo t+1. Questo indicatore sta a dimostrare come i valori dell’attivo resi liquidi entro il tempo t possono fronteggiare i costi connessi con i ricavi al tempo t+1. Più sono bassi i valori dell’indice più è chiaro che per fronteggiare costi futuri legati ad ordinativi in aumento (fatturato al tempo t+1) più si dovrà ricorrere all’indebitamento. E’ evidente che sostenuti incrementi della domanda e la conseguente accettazione di ordinativi in crescita in imprese a forte componente di costi variabili (quindi molto flessibili), può indurre in squilibri rilevanti nella gestione finanziaria successiva.

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La gestione corrente non riesce quindi a generare risorse finanziarie sufficienti per coprire i fabbisogni legati ai processi di investimento, così che si forma un fabbisogno finanziario della gestione operativa a cui sommare quello derivante dagli oneri tributari per determinare un fabbisogno operativo complessivo elevato anche se per l’anno 2001 denota un calo del 31,21% rispetto all’anno precedente. Ne potremmo quindi concludere che, al crescere del fabbisogno finanziario legato alla gestione corrente, le imprese trevigiane hanno posto rimedio contraendo gli investimenti di sviluppo; si tratta di un trend dal quale potrebbe scaturire una certa vulnerabilità delle imprese nel futuro e su cui riflettere.

ConclusioniSe il presente trova origine nel passato, come l’analisi svolta dimostra, assume significato profetico la frase di Keynes “Studiare il passato, analizzare il presente per prefigurare il futuro”. La conclusione principale di queste analisi riguarda da un lato comportamenti strategici, dall’altro processi evolutivi che coinvolgono l’intero territorio. Sul piano delle strategie, alla luce di quanto sta accadendo oggi con la crisi del cosiddetto Made in Italy, appare evidente come la crisi attuale abbia radici nei comportamenti e nelle strategie aziendali di quel periodo, così come il successo attuale e le performance di settori innovativi, quali quelli legati alla meccanica, trovano il loro fondamento nelle scelte di mercato e produttive di quegli anni. Siamo di fronte ad una crisi strutturale, non solo congiunturale, che vede i tassi di crescita regionale e provinciale arretrare rispetto a quello nazionale (di per sè deludente) rispetto al passato quando si registrava invece un differenziale positivo. In questa situazione le attività tradizionali, quelle nelle quali il nostro sistema è maggiormente specializzato, sono le più penalizzate in quanto presentano una bassa produttività accanto ad una elevata intensità di lavoro. Avendo queste inoltre un forte orientamento all’export risultano maggiormente vulnerabili dinanzi alla concorrenza internazionale, soprattutto di quella dei paesi in via di sviluppo. Lo scenario attuale vede inoltre un sistema imprenditoriale che presenta un basso grado di utilizzo degli impianti (dopo anni in cui invece i margini di utilizzo erano ridotti al minimo) e questo a sua volta si ripercuote negativamente sul processo di accumulazione e quindi sugli investimenti in una sorta di circolo vizioso che, alla fine, compromette la competitività dell’intero sistema economico. La crescita si dimostra ben al di sotto dei valori potenziali, non solo ma il gap di Pil tende ad espandersi. La competizione sui mercati globalizzati non si esplica infatti solo nella capacità di esportare o di saper ridurre i costi delocalizzando, ma anche nel saper attrarre capitali ed investimenti dall’estero, capacità di attrazione oggi

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gravemente compromessa dalla carenza di infrastrutture sul territorio e da altri fattori di rigidità. La forte accelerazione impressa dal progresso tecnologico in questi anni impone all'economia provinciale una sorta di transizione verso nuovi paradigmi di sviluppo ed un riposizionamento competitivo. Nel passato le politiche keynesiane di sostegno della domanda (e della spesa pubblica) hanno favorito l’occupazione e la crescita della produzione ha superato quella della produttività. Ciò è stato interpretato come segno di benessere in quanto comportava un aumento dell’occupazione, lasciando tuttavia in secondo piano gli aspetti di limitato progresso tecnologico che ciò poteva comportare. In seguito con la diffusione delle politiche dell’offerta, di matrice monetarista, tese a far intervenire lo Stato sui cosiddetti “fattori di contesto” o precondizioni dello sviluppo (infrastrutture, formazione, fiscalità, etc.) e in cui il processo di globalizzazione dei mercati tende ad esaltare i valori della competitività, l’attenzione si sposta dal rapporto produzione-occupazione a quello tra produzione e produttività. Nel senso che se l’andamento della produttività supera quello della produzione, quindi con una crescita limitata, se non stazionarietà, dell’occupazione, la conclusione (che poteva apparire pessimista sul piano del Welfare) diventa positiva per quanto attiene ad investimenti, innovazione tecnologica e quindi a "posizionamento" di un sistema produttivo in un contesto globalizzato. Laddove a livello nazionale produzione e produttività quasi si sovrapponevano segno di una relativa stazionarietà occupazionale, nelle aree avanzate del Veneto vi è stata, alla fine degli anni ’90, una sorta di "ritorno al passato" nel senso che la crescita della produzione sovrastava quella della produttività con un divario che tendeva ad allargarsi. Nella nostra regione, nella provincia di Treviso in primis, quindi la crescita della produzione ha portato con sé cospicui aumenti occupazionali ma inevitabilmente, dato il modello di sviluppo, anche una forte dipendenza del sistema dall’offerta di lavoro straniera. Questo in un contesto nel quale la società locale ha visto aumentare il proprio indice di invecchiamento e con questo il grado di dipendenza sociale al proprio interno. Ma non solo le scelte strutturali hanno rilevanza nello spiegare le situazioni attuali. Sembrano rilevanti anche alcune scelte aziendali, alcune politiche finanziarie, per non dire le scelte attinenti la struttura e le fonti per il finanziamento degli investimenti. Il cosiddetto modello “estensivo” dell’economia veneta non è solo espressione di scelte settoriali ma è anche, e soprattutto, il risultato di situazioni congiunturali come la crescita della domanda internazionale, la svalutazione dell’euro, situazioni che hanno portato il sistema a sovradotarsi di capacità, ma soprattutto ad andare incontro ad una fragilità finanziaria legata ad un uso spericolato della leva finanziaria e ad una copertura dell’investimento con indebitamento a breve

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termine. Si è ritenuto, erroneamente, che bastasse dotarsi di una relativa flessibilità per poter contrastare sia congiunture avverse che nuovi “competitors”. Se in congiunture favorevoli il peso della gestione non caratteristica può essere facilmente assorbito dal favorevole andamento del fatturato e del “cash flow”, non appena la congiuntura s’inverte, questi aspetti diventano estremamente pesanti. La stessa diversificazione degli investimenti, al di fuori del “core business” dell’impresa, che poteva apparire come una sorta di assicurazione contro i rischi, si traduce di fatto nella creazione di ricchezza finalizzata ad un impiego a titolo di garanzia bancaria.Per altro verso, la presenza di discontinuità innovative in settori come la meccanica e nei comparti ad essa collegati (elettromeccanica, meccanica fine di precisione ecc.), rappresenta al tempo stesso il frutto di consapevolezza e di capacità imprenditoriale a cogliere le opportunità laddove più facilmente potevano presentarsi. Sembra quasi paradossale che, in piena globalizzazione delle economie, in una fase evolutiva del capitalismo della conoscenza come quella attuale, sia ancora la meccanica (il tipico settore alla base di ogni processo di decollo industriale) a riemergere come settore guida di un nuovo e più intensivo modello di sviluppo. Evidentemente, alla base di questo non facile processo vi è l’intuizione e la capacità dell’imprenditore di cogliere le opportunità fornite da contesti cognitivi , da processi di diffusione delle conoscenze, da abilità nel percepire il nuovo che fanno la differenza tra declino e progresso. Se queste sono conclusioni a livello aggregato, su scala micro c’è ancora molto da fare sul piano della gestione dei processi, ovvero nell’acquisizione della consapevolezza che non basta creare produzione per generare valore per cui troppo spesso l’imprenditore dimentica che tra i valori generati dall’impresa sono troppo poco esaltati quegli ”assets” intangibili che sono le capacità umane.

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Lettura delle performance del sistema produttivo trevigiano attraverso i bilanci aggregati Prof. Quirino Biscaro – Docente di Politica Economica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

L'analisi che è stata compiuta si basa su indicatori tradizionali, un’analisi che fa chiunque si appresti a concedere credito alle aziende o che intermedia nella concessione di crediti alle aziende. Il tutto poi si completa con un parallelo nazionale, grazie ad un campione di 1925 imprese di tutto il Paese, estratto dai medesimi settori trevigiani oggetto di indagine1.In questa sede l'attenzione è rivolta agli indicatori più significativi inerenti cinque specifici aspetti: la redditività delle imprese, il loro ritmo di sviluppo, la loro solidità, la loro solvibilità, la reattività e resistenza a improvvise variazioni della domanda. L'analisi poi si conclude con alcuni approfondimenti sulla liquidità aziendale.

La redditività Quella netta finale non è per nulla omogenea. È distribuita "a macchia di leopardo"; si va da una redditività negativa di circa -5% del settore della gomma e delle materie plastiche, fino a un massimo di 15% per i settori della lavorazione dei metalli e della meccanica. Alcuni nostri settori rendono di più della media nazionale: siderurgia e prima produzione dei metalli, costruzione di impianti e macchinari, costruzione di macchinari di precisione, costruzione dei mezzi di trasporto. Più in generale, è la meccanica nel suo complesso che sembra trainare lo sviluppo, nella misura in cui le performance aziendali siano un indicatore accettabile dello stesso. Altri settori, invece, rendono meno, molto meno della media nazionale.Se consideriamo la redditività operativa il dato è solo un po' più omogeneo, ma anch'esso è caratterizzata da una discreta discontinuità tra i vari settori: la media degli industriali è compresa tra il 6-7%, la media dei settori commerciali si avvicina al 5%. In questo i settori trevigiani dimostrano di avere delle performance decisamente migliori di quelle riscontrabili a livello nazionale.Le prime criticità appaiono quando si analizza l'impatto delle gestioni non operative sui risultati aziendali, cioè l'erosione prodotta dalla gestione fiscale, dalla gestione finanziaria e dalla gestione patrimoniale. In questo le

1 Per 5 di essi, però, il paragone non è stato possibile (settori del legno, delle calzature, delle altre industrie manifatturiere, del commercio di veicoli, del commercio all'ingrosso).

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performance locali sono in media molto inferiori a quanto riscontrabile nella media nazionale. I motivi sono chiarissimi. È "normale", ad esempio, che nei settori industriali sia la gestione fiscale che quella degli oneri finanziari erodano il 45-46% del reddito operativo, con una erosione complessiva che quindi si aggira sul 90%. Cosa se ne deduce ? Gli imprenditori si lamentano sempre dell'erosione data dalla pressione fiscale ai loro risultati operativi, però, a ben guardare, l’impatto delle loro scelte finanziarie è esattamente paragonabile a quello fiscale, se non anche superiore.

Lo sviluppo Ci si deve chiedere quanto velocemente crescono le aziende. Il loro ritmo di sviluppo è sostenuto, sicuramente più marcato di quello medio nazionale. La crescita, però, è in parte anomala. Si è infatti rilevata anche una sua potenziale fragilità; lo si deduce dall'indicatore definibile “rischio di sovracapacità produttiva”. Vi sono settori i cui investimenti tecnici, dedicati cioè al core business, attività di produzione, crescono più velocemente di quanto non faccia il fatturato, creando perciò, almeno a livello potenziale, un rischio di sovracapacità produttiva. Va usato il condizionale perché gli imprenditori potrebbero aver ritenuto che al momento dell'investimento fosse probabile una ulteriore e stabile crescita del fatturato; questa ipotesi sarà da verificare con dati più recenti, ma in ogni caso è per il momento vero che nel triennio 1999-2001 molti dei settori locali hanno aumentato la loro capacità tecnica molto di più di quanto non sia cresciuto il fatturato nello stesso periodo.

La solidità Andando a considerare la solidità appaiono le vere note dolenti. Un aspetto certamente decisivo sono i rapporti di indebitamento. Com'è noto, la leva totale (rapporto tra il totale di bilancio e il patrimonio netto) consente di determinare il peso di tutti i debiti. Le leve sono molto alte; nei settori industriali siamo in media tra 5 e 6, mentre nei commerciali (commercio di autoveicoli e carburanti, commercio all'ingrosso, commercio al dettaglio) si va da 6 a oltre 7. La leva 5, tanto per dare l’idea, implica che per ogni euro di capitale di proprietà ce ne sono quattro da rendere a terzi. Riguardo alla tempistica del debito i dati dicono che circa l’80%2

dell’indebitamento è a breve termine, con tutto quello che ne consegue in termini di fragilità delle politiche di crescita aziendale, oltre che in termini di

2 E ancor più dell’80% se guardiamo i solo settori commerciali.

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costi. Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di una tipologia di debito che nel nostro Paese costa di più di quello a medio-lungo termine. La "pesantezza" del debito è evidente anche a livello nazionale, ma a parte qualche settore (come ad esempio la costruzione di impianti e macchinari) è comunque inferiore a quella riscontrabile nella Provincia di Treviso. Un altro dato, che dà l’idea della modesta solidità patrimoniale delle aziende della Marca, è quanto sarebbe necessario ricapitalizzare per riportare la leva totale a livello 2. A questo livello si colloca una leva ottimale: ad ogni euro di proprietà ce n’è uno di terzi. Il rischio sarebbe quantitativamente diviso al 50% tra la proprietà e i terzi. Dal punto di vista metodologico, poiché questa elaborazione porta a risultati che possono essere fuorvianti (per una piccola impresa un modesto importo potrebbe essere molto più problematico di quello che è per una grande impresa il triplo della stessa somma), si è rapportata questa ricapitalizzazione al totale dell’attivo patrimoniale. Il risultato ? Nei settori industriali si dovrebbe ricapitalizzare in media per importi mediamente pari al 25% del complessivo investimento aziendale. Nei settori commerciali si va a sfiorare il 35%.

La solvibilità Uno degli aspetti che vengono normalmente testati è la copertura primaria, cioè la relazione fra fonti e investimenti di medio-lungo termine. Quando questo indicatore supera il livello 1, e i settori trevigiani lo fanno, si desumerebbe che non sono state utilizzate fonti di capitale a breve termine per finanziare investimenti a medio e lungo termine. Questo di per sé sarebbe un segnale positivo, ma se si fa un altro ragionamento, e si passa a considerare una copertura definibile secondaria, la situazione cambia, in alcuni casi radicalmente, Quale ragionamento? Nei bilanci normalmente si considerano le scorte come investimento circolante, ma sappiamo che in ogni attività c'è una scorta minima che deve essere sempre presente, pena l'arresto o il rallentamento del flusso di produzione. Se si considera la scorta minima come investimento immobilizzato, si vedrà che la copertura cala inesorabilmente sotto il livello di sicurezza. Cosa sta a dimostrare questo ? Che se parte delle scorte viene considerata per quello che è (investimenti fissi), le aziende trevigiane stanno utilizzando fonti a breve termine per finanziare investimenti a medio-lungo termine. Questa strategia è piuttosto pericolosa: mina le basi finanziarie della gestione, perché antepone le scadenze di pagamento alle date di incasso. Se perdura nel tempo, l'azienda rincorrerà nuovi debiti per onorare quelli preesistenti.

La reattività e la resistenza Per quanto riguarda la capacità di rispondere a variazioni improvvise della

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domanda, va considerato il margine di sicurezza operativo, cioè quanto si può ridurre il valore della produzione prima che questo pareggi i costi di produzione (pareggio operativo). Si noti che conseguire un pareggio operativo vorrebbe dire andare in perdita netta, visti gli altri costi da considerare (per esempio finanziari e fiscali). Nei settori industriali questo margine si aggira attorno ad un 4-6%. Margini ancor più ridotti ci sono nei settori commerciali, nei quali non si arriva al 3%. Se con uno sforzo di fantasia si considerano anche gli oneri finanziari alla stregua di costi operativi, anche se formalmente appartengono alla gestione finanziaria, si vedrà che i margini di sicurezza si contraggono drasticamente per ciascuno dei settori considerati. Non è però sufficiente valutare la resistenza, poiché si deve quantificare anche la capacità di reazione. Su questo versante un dato che francamente ha sorpreso è l’elasticità del processo produttivo, un indicatore della capacità di modificare la composizione dei costi produttivi in presenza di fluttuazioni improvvise della domanda. Il rapporto tra i costi variabili e costi fissi di produzione dice che le imprese locali sono elastiche, però lo sono inaspettatamente meno della media nazionale.Un ulteriore indicatore che segnala la capacità di reagire a momenti difficili è il periodo di pay back, cioè il periodo medio necessario ad ammortizzare gli investimenti fissi. Per l’industria si sfiorano i sei anni, per i settori commerciali si va da sette a otto anni. A parte qualche caso, i periodi di recupero degli investimenti fissi delle aziende trevigiane sono più lunghi di quanto non sia nella media nazionale.

La liquidità La capacità di trasformare il fatturato in cash flow è modesta. Anche in questo caso, in media, tale capacità è inferiore a quello che invece si riscontra a livello nazionale. Il ciclo monetario, cioè il confronto tra i tempi di attesa per il pagamento dei fornitori da una parte e, dall'altra parte, i tempi di produzione, di ricerca del cliente e d'incasso, è per quasi tutti i settori negativo. Si verifica cioè quello che si era preannunciato prima: si paga prima di incassare. La dimensione dei cicli a livello nazionale è decisamente peggiore.

ConclusioniQual è l'immagine complessiva che traspare da questa indagine ? Le nostre aziende possono essere più redditizie di quanto non sia nella media nazionale, e il principale fattore della loro redditività finale è la resa operativa. D'altra parte, però, la redditività viene "minata" da gestioni non operative, con una perdita di margini che in media è superiore a quanto non

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sia invece a livello nazionale. La redditività viene poi ampliata (contabilmente) da leve altissime: se si ottengono 5 euro di utile con 100 di capitale proprio e 5 euro di utile con 50 di capitale proprio, è chiaro che nel secondo caso appare una redditività doppia, ma vi sono anche 50 euro di debiti in più. Cosa ci dice questo? Dal lato delle strutture finanziarie il capitale di terzi è preponderante in maniera evidente, soprattutto capitale di breve termine che costa di più e che potrebbe essere "richiamato" in tempi brevi. Le imprese trevigiane sono elastiche, però non così tanto come ci si poteva attendere a priori (perlomeno in relazione alla situazione nazionale). Infine, i margini di reazione a cali improvvisi della domanda non sono grandissimi: si è nell'ordine di qualche punto percentuale sul totale dei costi produttivi.

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Valore dell’impresa e valore delle capacità imprenditorialiProf. Guido Mantovani – Docente di Finanza Aziendale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

Scopo del mio intervento consiste nel tentare di capire se la produzione di ricchezza da parte delle aziende trevigiane sia compatibile con il grado di rischio che queste fanno patire ai finanziatori, siano essi investitori nel capitale di rischio (cioè la proprietà), oppure nel capitale di debito (banche e terzi finanziatori). La mia analisi è quindi più circoscritta rispetto a quella dei colleghi, perché si focalizza – in particolare – sugli aspetti finanziari. Infatti, diversamente dall’analisi di bilancio che offre una interpretazione delle performance storiche delle imprese al servizio di tutti gli stakeholderaziendali, quella finanziaria si concentra sui “capital-holders” perché si interessa alla capacità aziendale di attrarre capitali, concentrandosi quindi sulle determinanti del valore delle iniziative.

Guido Mantovani, Valore dell’impresa e valori delle capacità imprenditoriali CCIAA Treviso – 15 novembre 2004 – Slide 2

Le determinanti del valore aziendale

Tuttavia

• FCFE è dato dalla differenza fra il flusso di cassa delle attività operativa (FCFO) e quello da dare ai finanziatori di capitale di debito (FCFD)

• La distribuzione nel tempo di FCFO e FCFD è differenziata perché l’uno dipende dal “business”, l’altro dipende dai “contratti”

• Anche il rischio che contraddistingue i due tipi di capitale è differente, con costi del capitale – Medio ponderato (WACC)

– Di debito (Kd)

SBV

Kd

FCFD

WACC

FCFO

Ke

FCFES

tt

t

tt

t

tt

t

)1(

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Muovo da un'osservazione che apparentemente potrebbe sembrare tanto banale quanto teorica, ma che potrà essere un’utile base di riferimento per lo svolgimento della mia relazione. Il valore del patrimonio netto di un’azienda (S) dipende sostanzialmente da due elementi: i flussi di cassa prodotti per la

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proprietà (FCFE) e il tasso di rendimento da questi atteso (Ke). A loro volta, però, i flussi di cassa per la proprietà sono determinati dal flusso di cassa operativo complessivamente prodotto dall’azienda (FCFO), al netto dell’ammontare da utilizzare per il servizio del debito (FCFD). Relativamente ai tassi di sconto, tanto per la valutazione degli attivi (V), quindi per il trattamento del flusso di cassa operativo, quanto per quella del debito aziendale (B), occorre conoscere gli specifici rendimenti attesi(WACC e Kd). La formula che segue sintetizza quanto appena illustrato. Dall’analisi della formula, emerge come la rischiosità che caratterizza un’impresa, sia frutto di due componenti. Da un lato, vi è la rischiosità operativa, legata al modo con cui si conduce il business, e riflessa nel livello atteso di FCFO prodotto dall’azienda e nel costo medio ponderato del capitale. Dall’altro vi è quella finanziaria, determinata dalla contrapposizione fra rendimento e rischio operativo e gli impegni contrattuali assunti con i finanziatori a titolo di capitale di debito al netto degli eventuali vantaggi fiscali che si creano in conseguenza della deducibilità fiscale degli oneri finanziari.Di conseguenza vi propongo quattro punti di analisi relativamente alle imprese della Marca Trevigiana: 1. andiamo a verificare nei valori, perlomeno contabili, come vengono

impiegate e raccolte le risorse, perché una delle problematiche di rischio potrebbe essere una non perfetta sincronizzazione tra i modi di impiego e di raccolta;

2. cerchiamo poi di comprendere se ci siano degli equilibri finanziari, 3. quindi proviamo a capire, attraverso adeguate proxie di misurazione,

quali siano i rischi effettivamente patiti; 4. infine, andiamo a verificare accanto ai valori correnti, se le imprese

esprimano potenzialità valutabili finanziariamente. In altri termini, con un pizzico di presunzione, vado a raccontare quello che noi tutti gli anni accademici spieghiamo nella sede di Treviso della nostra Università agli studenti: l’analisi finanziaria delle aziende. Nel seguito di questa relazione farò riferimento ai dati che sono oggetto della pubblicazione che oggi viene presentata, a cui rimando per la specificazione delle simbologie, la spiegazione delle metodologie ed i dettagli di calcolo e risultato.

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Impieghi e delle fonti di capitale finanziario

Guido Mantovani, Valore dell’impresa e valori delle capacità imprenditoriali CCIAA Treviso – 15 novembre 2004 – Slide 3

Gli impieghi di risorse finanziarie

• Rilevanza del capitale di giro rispetto al capitale immobilizzato

• Liquidità significativa

• Peso apparentemente contenuto delle attività accessorie

1999 2000 2001

CCLC 15.505.020.769 17.951.444.237 19.032.881.350 107,2%

PC (presunte) -8.625.519.179 -9.890.540.088 -9.571.876.981 -57,4%

CCNC 6.879.501.590 8.060.904.149 9.461.004.369 49,9%

CIMM 7.209.790.613 8.490.818.773 8.841.628.473 50,1%

CIN 14.089.292.203 16.551.722.922 18.302.632.842 100,0%

Liquidità 1.470.045.593 1.448.152.010 1.569.391.190 9,2%

Attività Accessorie 440.489.561 559.863.174 587.763.730 3,2%

CIT 15.999.827.357 18.559.738.106 20.459.787.762 112,4%

Impieghi di

risorse finanziarie

PROVINCIA DI TREVISO

MEDIATOTALE PROVINCIA

La tabella mette bene in evidenza tre caratteristiche dei bilanci consolidati del campione di imprese analizzato: forte rilevanza del capitale di giro rispetto al capitale immobilizzato; presenza di un significativo buffer di liquidità; peso apparentemente contenuto delle attività accessorie. I primi due punti sono già stati ampiamente trattati dai colleghi, preferisco quindi concentrarmi sulle attività accessorie che costituiscono un “pericolo” per l'analista finanziario perché comprendono solitamente due tipi di investimento: quelli non strettamente legati all'attività di impresa, c.d. surplus assets, beni che di solito non sono graditi ai finanziatori, perché evidenziano un investimento al di fuori del business caratteristico dell'impresa; oppure investimenti nelle c.d. opportunità di sviluppo, ovvero piccole evidenze correnti di grandi prospettive future. Le attività accessorie nel totale della Marca Trevigiana pesano per il 3,2% degli investimenti nel capitale investito netto, l’investimento operativo delle imprese; in assoluto un valore “basso”. Tuttavia, analizzando come le attività accessorie sono finanziate, possiamo dare una interpretazione più attenta dell’indebitamento complessivo aziendale. Tre aspetti mi sembrano abbastanza rilevanti e fra loro concatenati.

Il primo: c'è una forte divergenza, fra indebitamento totale (cioè il rapporto

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tra le risorse finanziarie raccolte e il complesso degli investimenti, indipendentemente dalla loro natura) e indebitamento industriale. Questi è una misura del rapporto di indebitamento, calcolato rettificando i mezzi propri dell'impresa per tutti gli investimenti che non pertengono al business caratteristico (ovvero immaginando che siano finanziati prioritariamente con capitale di rischio). Ne emerge un dato, purtroppo significativo: mentre l'indebitamento totale in media nel triennio è 1,758 (quindi abbiamo 1,75 euro di indebitamento netto della liquidità per ogni euro di investimento nei mezzi propri), l'indebitamento industriale è decisamente più elevato, pari a 2,537. Il secondo: la causa di questa divergenza si spiega con l’assorbimento di capitale di debito dal ciclo corrente dell’azienda (69,4%, del monte finanziato da terzi), ma soprattutto dal fatto che l’impiego di capitale di debito in attività non caratteristiche dell’impresa è pari mediamente al 17,41% del monte debito (sebbene questo valore medio sia molto differente nei vari settori di analisi). Come a dire che depurando i bilanci delle imprese trevigiane dagli investimenti in attività non caratteristiche, osserveremmo un calo immediato degli oneri finanziari di oltre il 17%. Non voglio negare che questo fatto sia anche conseguenza di una serie di portati storici, che purtroppo, rendono estremamente oneroso e difficile per la proprietà estrarre le risorse finanziarie prodotte all'interno dell'impresa. Il terzo: rebus sic stantibus, solo il 13,19% del capitale di debito gravante sui bilanci trevigiani è investito in investimenti fissi.

Gli equilibri dei flussi finanziari Permettetemi di dire, con un po’ di orgoglio, che Ca’ Foscari fa scuola in questo campo, dato che la classica distinzione fra equilibri finanziari verticali (esplicativi del bilanciamento fra risorse prodotte a livello operativo e loro utilizzo per remunerare di coloro che hanno contribuito finanziariamente alla costruzione quelle risorse) ed equilibri finanziari orizzontali (che illustrano invece le modalità di copertura da parte dei finanziatori aziendali dei nuovi investimenti netti) è stata per la prima volta razionalizzata dall’amico e maestro Giorgio Bertinetti. Nella pubblicazione della Camera di Commercio troverete applicata, per la prima volta, una variante di quell’analisi originale a cui ho contribuito e che dovrebbe essere oggetto di una futura pubblicazione. Rispetto al modello originale, essa scompone fra i due equilibri, gli investimenti di rimpiazzo di capacità produttiva da quelli di sviluppo. Sono grato alla CCIAA di aver consentito questo test sperimentale di una variante di modello di cui mi assumo tutte le responsabilità scientifiche, avendone suggerito l’utilizzo.Proprio questa variante, tuttavia, consente di mettere in luce evidenze empiriche molto importanti, illustrate nella tabella che segue:

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Guido Mantovani, Valore dell’impresa e valori delle capacità imprenditoriali CCIAA Treviso – 15 novembre 2004 – Slide 4

Gli equilibri nei flussi

1999 2000 2001

EQUILIBRIO VERTICALEFMG Corrente n.d. 1.611.248.430 1.489.098.296 100,0%

FMG accessorie e straordinarie n.d. -2.273.576 -50.127.093 -1,7%

Totale disponibile n.d. 1.608.974.854 1.438.971.203 98,3%

Investimenti di rimpiazzo n.d. -1.151.110.558 -1.157.667.864 -74,5%

Imposte n.d. -753.353.108 -725.957.631 -47,7%

Remunerazioni al capitale di debito n.d. -446.998.114 -583.524.155 -33,2%

Remunerazioni al capitale di rischio n.d. -142.917.267 -169.251.259 -10,1%

SALDO VERTICALE n.d. -885.404.193 -1.197.429.706 -67,2%

EQUILIBRIO ORIZZONTALEApporti di nuovo capitale di rischio n.d. 183.314.352 454.973.144 20,6%

Apporti di nuovo capitale di debito n.d. 1.511.641.912 1.106.502.788 84,4%

Totale disponibile n.d. 1.694.956.264 1.561.475.932 105,0%

Investimenti di espansione e sviluppo n.d. -809.552.071 -364.046.226 -37,9%

SALDO ORIZZONTALE n.d. 885.404.193 1.197.429.706 67,2%

Equilibri finanziari

PROVINCIA DI TREVISO

MEDIATOTALE PROVINCIA

Netto squilibrio verticale. Possibili interpretazioni:

• Incidenza degli investimenti di rimpiazzo

• Andamento non uniforme delle fonti di capitale rispetto agli investimenti di sviluppo

Siamo in presenza di un netto squilibrio verticale. Ogni 100 euro di flusso monetario generato dalla gestione corrente, 74,5 vengono utilizzati per rimpiazzare capitale obsoleto relativo agli investimenti fatti in passato che per questa via condizionano l’equilibrio corrente; altri 47,7 euro vengono utilizzati per imposte, 33,2 euro per pagare oneri finanziari, e 10,1 euro vengono utilizzati per dividendi. Sommando l’insieme degli impieghi con i flussi derivanti dalle attività accessorie (-1,7) e confrontando il totale con la cassa prodotta, si scopre che nella Marca lo squilibrio verticale è pari mediamente a 67,2 ogni 100 di flusso corrente. La copertura finanziaria di questo squilibrio è garantita dalla dinamica degli equilibri finanziari c.d. orizzontali. Utilizzando sempre il flusso corrente come benchmark di riferimento (dunque pari a 100) si osserva una raccolta media complessiva di nuovo capitale da finanziatori pari a 105 euro, scomponibile in 20 euro circa di capitale di rischio e 85 euro circa di capitale di debito. Tale raccolta viene impiegata per 37,9 euro circa per effettuare investimenti di espansione e sviluppo, (cioè di accrescimento della capacità produttiva) mentre la restante parte per finanziare lo squilibrio orizzontale. Normalmente le imprese dovrebbero autofinanziarsi in parte, perché dovrebbe esserci equilibrio finanziario verticale, con produzione di risorse finanziarie eccedentarie da reinvestire nel ciclo di sviluppo dell'impresa. Posto che i dati ci dicono che questo non accade, occorre comprendere se la

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situazione messa in luce sia strutturale oppure congiunturale. Per fare ciò è necessario comprendere anzitutto se lo squilibrio verticale sia dovuto all’eccessiva incidenza degli investimenti di rimpiazzo, oppure alla scarsità di produzione di cassa dai cicli correnti dell’azienda: nei due casi il profilo di rischio aziendale risulterebbe ben diverso. A breve termine, infatti, la presenza di squilibri verticali non è necessariamente un aspetto preoccupante, a patto che vi siano aspettative di crescita tali da giustificare la copertura dello squilibrio verticale con ricorso a capitale esterno. Diversamente, invece, ci troveremmo in una situazione finanziariamente molto simile a quella della new economy prima della crisi finanziaria del 2000 (ricorso a capitale per finanziare spese correnti senza prospettiva di ricavo), con tutti gli scompensi che da ciò ne potrebbero derivare.

I rischi patiti dalle imprese Occorre fare una premessa importante. Nella cultura comune il rischio è spesso concepito come uno “stato dell’ambiente”, perché fuori dalla portata di controllo dei singoli, in particolare dei manager che gestiscono l’azienda; contro questa rischiosità è solo possibile ricorrere a coperture meccaniche che producano effetti economici uguali e contrari a quelli eventualmente indotti dal dispiegarsi del rischio. Più recentemente, invece, studi svolti da aziendalisti non accecati da ortodossie tanto ideologiche quanto infondate,hanno evidenziato come il rischio vada inteso a tutti gli effetti come un fattore della produzione. Perché un fattore della produzione? Perché il rischio va dosato e remunerato, pagato per la parte che non si vuole tenere, e, soprattutto, concorre alla definizione delle scelte manageriali. Un problema che questo approccio solleva è che la misura economica del rischio, dovrebbe cercare di intercettare non solo il fatto casuale ma anche la capacità di reazione dell'impresa. Infatti, se l’azienda possiede una grande reattività, pur operando in un’arena competitiva molto rischiosa farebbe patire un rischio più contenuto ai propri finanziatori. In questo contesto le misure statistiche sono utili ma insufficienti perché focalizzate sulla quantità di rischio nell’ipotesi che esso sia inevitabile. In un’ottica economica, invece, la misurazione del rischio dovrebbe estendersi anche: alle quantità eliminabili di rischio (quello che gli economisti finanziari chiamano rischio diversificabile); al prezzo unitario del rischio; al grado di avversione al rischio; infine, - tema spesso e volentieri dimenticato dai ricercatori - a quali siano le distorsioni che dai parametri precedenti ne possano derivare in termini di metodologia e di misurazione. Allo stato attuale delle conoscenze non esiste una misura di tipo universale capace di sintetizzare gli aspetti sopra indicati. Esistono più misure possibili del rischio, tutte di tipo parziale, che rappresentano “proxies” del rischio, cioè delle approssimazioni capaci di dare una rappresentazione, talvolta

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precisa, talaltra sfuocata, della rischiosità esistente all'interno dell'impresa. Vi sono proxies più adatte alla misura del rischio operativo, altre più adatte a cogliere la sincronia tra i rischi operativi e finanziari. Alla luce di questa premessa analizziamo alcune evidenze empiriche cominciando dalle proxiesdel rischio operativo. Una prima misura è espressa dalla intensità d'uso del capitale; l’evidenza è chiara: l'intensità del capitale circolante cresce rispetto a quella del capitale immobilizzato. Mediamente, un'impresa trevigiana investe tanto denaro in capitale circolante quanto ne investe in capitale immobilizzato. Il problema, come abbiamo già detto, è che la fonte di finanziamento pressoché unica del circolante è il capitale di debito. La riflessione che ne consegue in termini di analisi della rischiosità è che, nel corso del triennio, le imprese hanno fatto una sorta di baratto dei rischi riducendo il rischio della tecnologia (tipicamente accorpato nel capitale immobilizzato) a spese di un maggiore rischio legato al circolante. Così il beneficio derivante dall’ottima gestione delle obsolescenze tecnologiche già illustrata dagli altri colleghi non si è trasformata in flusso di cassa, perché è stato retrocesso alla filiera produttiva di appartenenza attraverso espansioni significative del capitale circolante di giro. Apparentemente i finanziatori sembrano gradire questa situazione dato che preferiscono finanziare il capitale di giro rispetto al capitale fisso, come abbiamo già avuto modo di vedere. È da chiedersi però per quanto tempo questo baratto possa essere tollerato, alla luce degli squilibri verticali che le imprese dimostrano. Un secondo aspetto, legato alla problematica della crescita, è chiedersi quale sia l'autonomia finanziaria che le imprese hanno per crescere. Una proxy acui si ricorre in questi casi consiste nel calcolare il potenziale teorico di crescita autofinanziata ovvero la crescita che si potrebbe realizzare senza ricorrere al sistema esterno, pena l’azzeramento di altri processi di investimento. Proprio per queste ipotesi forti che sottendono i calcoli, i risultati si prestano maggiormente ad analisi di trend anziché giudizi puntuali. Nel 1999 la crescita autofinanziabile era pari al 20% dei fatturati correnti; questo dato tracolla letteralmente al 2001 a 13,04%. Vi è dunque una netta contrazione del potenziale di crescita la cui causa, naturalmente, è proprio l'espansione relativa del capitale di giro rispetto al capitale fisso. Ne devo concludere che questo baratto dei rischi non sia stato particolarmente conveniente, specie se questa situazione si dovesse consolidare. Un tema fortemente legato alle evidenze appena commentate è quello dell’efficienza nell'uso del capitale immobilizzato, che può essere analizzata ricorrendo al calcolo della vita economica residua dei cespiti di produzione industriale. Si tratta di un dato di un certo rilievo, perché potrà poi essere messo a confronto con la durata finanziaria media dei debiti aziendali. Le evidenze empiriche che emergono da questo indicatore sono a netto sostegno

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dell’impegno delle imprese trevigiane nell’affrontare il rischio tecnologico: il rischio tecnologico si batte riducendo il ciclo di vita nell'utilizzo degli impianti e nella Marca tale dato scende da poco più di 7 anni nel '99 a circa 6,5 anni nel 2001 con un trend netto. Un ultimo gruppo di misure approssimate dei livelli di rischio aziendale sono espresse dalle sensibilità dei flussi di cassa operativi al mutare di alcune variabili chiave. Così:

il grado di leva operativa pari in media a 4,58 ci dice che perdendo l’1% del fatturato in quantità, le imprese trevigiane rischiano di perdere il 4,58% dei flussi di cassa operativi; il grado di leva di prezzo, stimato per variazioni di prezzo dell’1%, è pari a 4,66 e ci segnala che una compressione dei listini dell’1% richiede una crescita delle quantità vendute pari almeno al 4,66% affinché resti inalterato il quadro economico-finanziario aziendale.

Di particolare interesse è anche il trend triennale degli indicatori. Il grado di leva operativa tende a crescere nel corso del triennio, in conseguenza dell’aumento dell'incidenza media dei costi fissi per unità di prodotto, conseguente a quel rinnovo tecnologico più volte rimarcato. Anche per questo motivo, la leva operativa è una misura abbastanza affidabile dell'esposizione di un impresa al rischio legato al ciclo economico di breve. Posto peraltro che il rischio che rileva è quello al netto della capacità di reazione dell’impresa stessa è legittimo chiedersi come possa un’azienda reagire alla dinamica del ciclo economico. La risposta è abbastanza naturale: manovrando i prezzi. Infatti, normalmente, la leva operativa e la leva di prezzo si comportano in maniera, diciamo così, contrapposta: quando la prima sale, cioè quando aumentano i rischi di ciclo, di solito scendono quelli di prezzo. Insomma: tutte le volte che le cose si mettono male, una manovra di prezzi dovrebbe essere più efficace. Purtroppo questa evidenza per la Marca Trevigiana non vi è, perché nel triennio aumenta sia l'esposizione di tipo operativo, sia quella ai prezzi. Di conseguenza, la tradizionale ricetta sulla manovra di difesa del Made in Italy attraverso l’abbassamento dei prezzi di listino a sostegno della ciclicità congiunturale contrasta nettamente con i fatti, che indicano invece la persistenza di una rara situazione in cui entrambi gli indicatori, purtroppo, peggiorano a danno delle imprese. Sebbene nell’utilizzo di questi dati occorre prestare molte precauzioni di ordine metodologico, il trend in questo caso è abbastanza significativo. Un ultimo aspetto del rischio che mi sembra importante riguarda il rischio finanziario e fa riferimento alla dispersione temporale dei rischi, dimensione che chi si occupa con eccessiva disinvoltura di cose economiche trascura, forse perché di difficile trattamento formalizzato. Per affrontare efficacemente questo tema occorrono due dati di partenza: la vita economica media dei cespiti ed una soglia minima di rendimento operativo nel triennio,

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compatibile con i mercati finanziari internazionali e comparabile con i dati che emergono dalla lettura contabile. Nel corso del triennio il primo dato è – come già visto – mediamente pari a 6,74 anni; il secondo dato è stimato – da studi della Fondazione Teofilo Intato di Lentiai (BL) a cui farò ricorso fra breve – a circa il 6,64%, come a dire che chi avesse mostrato, mediamente, un ROI superiore al 6,64% a dati contabili stava probabilmente creando valore. Sulla base di questi due dati, e dello stock di capitale che emerge dalle evidenze contabili per il campione delle imprese, è possibile calcolare un indicatore denominato “costo d'uso del capitale” ideato dall’economista J.M. Keynes che ci dice quale dovrebbe essere il margine operativo lordo minimo che è necessario produrre per giustificare quello specifico stock di capitale. Alternativamente, è possibile calcolare, sulla base dei margini correnti, quale sia l’orizzonte temporale implicito nella situazione corrente delle aziende trevigiane per poterlo confrontare poi con la vita economica effettiva dei cespiti. Ne emerge che, a livello di attivi, la dispersione totale dei rischi nel tempo si distribuisce su un arco di 12,67 anni, cioè 6 anni in più rispetto alla vita economica dei cespiti! Ciò significa che quando si investono 100 euro in una impresa operante nella provincia di Treviso, ci si aspetta che da quel capitale ne emerga una remunerazione contabile media del 6,64% ed una restituzione del capitale mediamente nei successivi 12,67 anni. Tuttavia, mentre questa aspettativa è sostenuta nei primi 6,74 anni dalla tecnologia contenuta nei cespiti dell’azienda, per gli ulteriori sei anni vi è pieno rischio! Calcolando questo indicatore relativamente ai soli finanziatori con capitale di debito, si scopre ovviamente un maggiore equilibrio, perché si escludono le attese della proprietà. Attraverso questo calcolo potrei determinare che se i finanziatori mettessero, per assurdo, “a rientro” l'intero affidamento provinciale impiegherebbero quasi otto anni per recuperare tutta la loro esposizione (in conto interessi e conto capitale). Anche in questo caso, i primi 7 anni di questo rientro si appoggerebbero sulla tecnologia disponibile, mentre l’ultimo anno (che di fatto pagherebbe gli interessi) sarebbe a rischio. Come riequilibrare questo squilibrio temporale del 16% circa (un anno su otto)? Vedo solo una possibilità: aumentare i margini operativi lordi. E’ possibile determinare nel 12% l’aumento minimo dei MOL necessari a questa manovra di recovery rispetto alla dimensione rischio-tempo insita nel capitale di debito delle imprese; ben maggiore e pari al 58% è invece il riallineamento necessario per tutelare dall’effetto rischio-tempo anche l’investimento della proprietà nel capitale di rischio. Questa indicazione ci suggerisce quindi che lo squilibrio finanziario verticale che prima abbiamo analizzato è probabilmente causato da una eccessiva contrazione dei margini correnti, indotta da misure sui listini di prezzo, necessarie a sostenere quantità vendute minime accresciutesi in conseguenza di un eccessivo investimento nel circolante. Tuttavia, questa stessa evidenza

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ci suggerisce anche che l’indebitamento che grava sulle imprese, seppure formalmente a breve termine, presenta un orizzonte temporale lungo. Occorre quindi estendere la nostra indagine alle potenzialità delle aziende.

Valori delle competenze e valori potenziali d’azienda Similmente a quanto contenuto nel volume che viene presentato, la parte seguente del mio intervento si fonda su evidenze empiriche tratte da un data base diverso dal precedente. Si tratta infatti di dati e metodologie che sono proprietà del Comitato Promotore della Fondazione Teofilo Intato di Lentiai (BL) e che l’Università Ca’ Foscari è autorizzata ad utilizzare per questa ricerca essendo il partner scientifico che la Fondazione Intato ha identificato per sviluppare le proprie iniziative a sostegno della ricerca economico-finanziaria. Naturalmente i dati presentati fanno riferimento alla sola provincia di Treviso anche se il campione complessivo censisce oltre 130.000 realtà aziendali sparse in tutta Italia. Il “metodo Intato” consente di confrontare i valori indotti dalla competitività aziendale con quelli indotti dalla competenza delle persone, in particolare di coloro che guidano le aziende. Sebbene non divulgabile nel dettaglio fino a quando tutte le protezioni giuridiche non saranno definitive (affinché il metodo possa divenire parte integrante del patrimonio di dotazione della Fondazione) l'idea di base che lo caratterizza è sinteticamente la seguente. Quando si investe, la modalità con cui il capitale è organizzato all’interno di una struttura porta a generare un valore di mercato del capitale aziendale che normalmente supera il suo costo di rimpiazzo; si forma quindi, grazie alla competitività, un prezzo dell'azienda comprendente un avviamento. Ma accanto a questo fenomeno, ce n'è un altro, che è quello delle competenze. Le competenze, diversamente dai beni capitali, non si organizzano ma si stratificano nel tempo e si accrescono attraverso il capitale che svolge una funzione “enzimatica” a tale processo di accumulo; al completamento del processo di accumulo di competenza, poi, essa rimane incorporata in quello stesso capitale che ne ha consentito la coltivazione, facendo emergere un avviamento. Lo svolgimento di questo processo, è segnalata dalla formazione di una seconda componente di valore dell’azienda non compresa nell'avviamento, non facilmente negoziabile fino a quando non si è trasfusa nel capitale stesso e che normalmente viene definita “competence value”. Coltivando le competenze si pongono le premesse per poter disporre di un futuro avviamento.Il tema è importante ai fini dell’indagine in corso per comprendere la sostenibilità a lungo termine del livello attuale di competitività delle imprese trevigiane. Pur non entrando in complessi ragionamenti di teoria, è importante notare come la difficoltà di isolare il valore delle competenze da quello di avviamento sia conseguenza di illusioni ottiche figlie di approcci

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metodologici volti ad adattare metodi di stima del valore già esistenti anziché produrne di nuovi. La maggiore problematica metodologica riguarda proprio il tempo: mentre nei metodi di stima del goodwill il tempo è uno strumento di misura (perchè serve per attualizzare i flussi), nella stima del valore delle competenze esso è uno strumento di coltivazione (perchè le competenze si coltivano nel tempo). Cercare quindi di adottare le tradizionali metodologie basate sull’attualizzazione di flussi di redditi in eccesso al normale è quindi nettamente fuorviante; questo è l’aspetto che i ricercatori (soprattutto quelli nel campo finanziario) tralasciano a differenza del “metodo Intato”. Se si analizzano i dati di rendimento contabile delle imprese della provincia di Treviso confrontati con quelli generali del campione su cui i ricercatori della nostra Università hanno applicato il “metodo Intato” su mandato del Comitato Promotore della Fondazione Lentiaiese, due dati medi per la provincia mi sembrano particolarmente interessanti: la resa media del campione pari al 6,01% e quella delle imprese c.d. best performer (ovvero quelli con resa superiore alla mediana) pari al 6,78%. Entrambi i valori sono nettamente superiori a quelli del campione complessivo che evidenziano invece pari rispettivamente al 5,77% (contro 6,01%) e 6,46% (contro 6,78%). Il tasso soglia di confronto che permette di identificare le imprese che creano valore (avviate) e stimato secondo il “metodo Intato” è pari a 6,64%. Sulla base di questi dati e censendo nel dettaglio il campione, otteniamo una prima evidenza interessante: le imprese dotate di avviamento nella provincia sono mediamente il 45,62% della popolazione. Naturalmente il dato fa riferimento a tutta la provincia così che nei diversi settori sono presenti dispersioni ampiamente differenziate: da un minimo del 12,45% nella categoria “Ateco 36” (fabbricazione dei mobili), ad un massimo del 74,07% nell’“Ateco 55” (alberghiero e ristorazione). Quanto valore creano queste imprese? La stima è stata effettuata ricorrendo alla “Q di Tobin”, cioè un indice di misurazione complessivo, che esprime il quoziente fra prezzo di mercato e costo di rimpiazzo del capitale: nella provincia di Treviso la “Q di Tobin” è 1,0457. L'investimento di 100 euro in media in un'impresa della provincia può essere venduto a 104,57 euro. Naturalmente, anche qui vi sono situazioni differenziate per i diversi settori al punto tale che per taluni di essi non è possibile completare il calcolo. È interessante però notare che, anche in questo caso, il livello dell’indicatore nei vari settori è più alto rispetto alla media del campione. Particolarmente significativo sotto questo profilo è il settore “Ateco 61” (trasporti), ed, in particolare, i trasporti privati. La sovrapposizione fra imprese di valore e imprese competenti non è garantita; questo perché non tutte le imprese promettenti (con competenze) sono già oggi competitive e, similmente, non tutte le imprese oggi competitive potranno esserlo in futuro. Secondo il “metodo Intato” nella

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provincia di Treviso vi sono mediamente 58,67 imprese promettenti ogni 100 imprese esistenti. Quindi, per ogni 100 imprese, 45 creano valore e 59 sono le promettenti: evidentemente la sovrapposizione non è perfetta perché alcune sono promesse e creatrici di valore, altre sono solo creatrici di valore senza promesse, altre ancora sono promesse ma al momento non riescono a creare valore, tant'è che nei diversi settori trovate dei dati fortemente dispersi. Dove sono le imprese più promettenti nell'ambito della nostra provincia? Tipicamente solo nel settore “Ateco 18” (confezione di articoli e di vestiario), dove potenzialmente, e sottolineo potenzialmente, quasi il 94% delle imprese potrebbero creare valore, ma solo il 22,47% lo creano effettivamente. Altro settore dove le competenze sono fortissimamente diffuse è ancora il settore “Ateco 36” (fabbricazione dei mobili) dove quasi il 100% delle imprese dimostra di avere competenza, ma purtroppo, anche qui, solo il 12,45% sa trasformare la propria competenza in un fatto economico, cioè in rendimenti dei capitali superiori alla media. E ancora, è da osservare il settore “Ateco 55” (alberghi e dei ristoranti), dove abbiamo il 92% di imprese competenti e, come abbiamo visto prima, 74% delle imprese capaci di creare valore. Ora, quanto potrebbe valere già oggi questa competenza? Il “metodo Intato” consente una stima per la provincia di Treviso: se investendo 100 euro in un’impresa trevigiana vorrebbe dire vedere ipotetici prezzi di borsa salire del 4,57%, il valore potenziale dentro agli stessi 100 euro è pari oggi a 27,58. Quindi, nel momento in cui ci fosse una finanza capace veramente di selezionare gli “intraprenditori”, cioè capace di selezionare le imprese competenti e di valore, assisteremmo ad un immediato accrescimento del nostro ipotetico listino di borsa da 104,57 a 127,58. Va sottolineato che il gap fra valore potenziale ed effettivo nell'ambito della nostra provincia è particolarmente elevato.

Concludendo, possiamo dire che questa ricerca, se da un lato ci consegna alcune cattive notizie relativamente allo status quo delle aziende, dall’altro ci dà anche una buona notizia: quanto più nell'ambito della provincia saremmo capaci di selezionare gli imprenditori competenti, tanto più avremmo la possibilità di ottenere delle performance eccellenti. C’è circa un 23% di valore degli attivi, cioè la differenza tra 1,27 e 1,04, che potrebbe, a tutti gli effetti, diventare valore reale delle imprese ed essere diffuso nell’economia, divenendo garanzia di finanziamenti bancari, maggior remunerazione degli investitori, e maggiore soddisfazione, perché no, della performance complessiva della provincia.

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Testimonianza Dott. Giovanni Battista Ravidà – Vice Direttore Generale di Unicredit Banca d’Impresa S.p.A.

La prima considerazione che vorrei fare, pur se scontata, è che la rilevata e più volte sottolineata sottocapitalizzazione delle imprese non è un fenomeno che peculiarizza la struttura delle sole aziende trevigiane, ma è un fenomeno di assai più ampia portata che caratterizza la gran parte del sistema produttivo del Nord Est e dell'intera Italia. Sotto taluni aspetti, anzi, potrei anche affermare che la quantità di "equity" effettivo che l'imprenditore della Marca immette nella propria azienda è mediamente maggiore a quello riscontrabile in realtà geografiche esterne alla nostra area. Ciò premesso, devo affermare che mi ritrovo perfettamente con i dati illustrati dal Prof. Bresolin e dagli altri illustri relatori che mi hanno preceduto. Le risultanze a mani di Unicredit Banca d'Impresa, riguardanti un aggregato invero rilevante di aziende del Triveneto (sono circa 28.000 le imprese che conosciamo e di queste circa 22.000 sono assistite creditiziamente), indicano chiaramente che nel periodo in esame l'apparato industriale ha sicuramente incrementato la produzione ma riducendo, in molti casi, la produttività. Le conseguenze di ciò, ovviamente, non hanno reso un servigio all'assetto della struttura. Aggiungo che i dati della presente analisi si fermano al 2002. Temo che quando andremo a leggere quelli elaborati sui dati del 2003, a causa del rapporto di cambio Euro- Dollaro e delle più spinte delocalizzazioni, le risultanze saranno ancor meno positive. Fatto questo preambolo, ritengo che i tempi siano finalmente maturi per far cessare lo sterile dibattito sviluppatosi in passato fra i fautori del "piccolo e bello", che si contrapponevano ai sostenitori della "grande industria". La stuttura delle nostre imprese è figlia di una situazione che si è sviluppata nei trascorsi decenni, e non è certo questa la sede per ricordare le motivazioni storiche, politiche e, per alcuni versi, socio-antropologiche che hanno condotto a tale caratterizzazione. Ci deve bastare il sapere che la crisi che stiamo attraversando non è congiunturale (basti, in proposito, osservare il divario fra la velocità di sviluppo dell'economia mondiale - ancorché trainata principalmente dalle aree extra europee - e quella nazionale e degli altri paesi europei), ma strutturale, riconducibile a tutta una serie di fattori fra i quali non sono secondarie le ridotta dimensioni medie delle nostre aziende ed i settori, per lo più tradizionali, in cui esse operano. Possiamo addirittura affermare che i due suddetti elementi rappresentano, allo stesso tempo, causa ed effetto delle strutture poi caratterizzanti la gran parte delle nostre imprese.

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Uno studio condotto prima dell'allargamento dell'Europa evidenziava che nella graduatoria nazionale per classi dimensionali delle proprie aziende, noi occupavamo la 15a posizione, preceduti anche dal Belgio. Si diceva, quindi, aziende di piccole dimensioni, dedite, prevalentemente, ad attività tradizionali, caratterizzate da non elevatissima tecnologia e con un significativo utilizzo di risorse umane. Aziende con tali configurazione è naturale, poi, che appalesino strutture patrimoniali caratterizzate da attivi "a veloce rigiro" e da passivi in cui, stante il modesto apporto di "equity" risulta preponderante il ricorso ai terzi, prevalentemente a breve; contemporaneamente nei conti economici si rileva una spiccata presenza di costi strettamente connessi alla produzione d'esercizio (anche se, mi par giusto far rilevare, non sempre i bilanci prospettano in maniera fedelissima tutti gli aspetti della gestione, ma tendono ad "affasarsi" alle opportunità di vario genere offerte dalle normative contabili e fiscali). Sempre in tema di sottocapitalizzazione c'è da rilevare che sin quando esistevano le condizioni per applicare le leggi di Modigliani-Miller, era coerente il comportamento degli imprenditori, che preferivano ricorrere ai mezzi dei terzi, piuttosto che immettere mezzi propri che, se altrove investiti, offrivano remunerazioni nette assai più significative. In proposito, saranno da osservare con molta attenzioni gli effetti che riverranno dall'applicazione delle norme di recente emanazione. Sicuramente si otterrà un maggior riequilibrio nel rapporto mezzi propri, mezzi di terzi. Ricorso ai terzi, dunque, e moltro spesso a breve. A ciò ha contribuito molto l'atteggiamento delle banche, molto riottose ad erogare finanziamenti a medio lungo termine, vuoi perché, paradosso tutto italiano, il finanziamento a medio lungo termine rende mediamente meno di quello a breve, vuoi perché, molto spesso, i bilanci delle aziende richiedenti evidenziavano l'assenza di indicatori comprovanti la capacità di generare flussi di cassa idonei al servizio del debito. Da qui, quindi, l'orientamento delle banche di concedere breve termine, con la presunzione di poter meglio e più velocemente rientrare, grazie ai cicli del circolante. Torno a ripetere: è inutile continuare a dare spiegazioni sul perché dei comportamenti del passato. Aggiungo è altrettanto inutile continuare a fare diagnosi, senza indicare le opportune terapie. Mi ha molto colpito, perché condivido pienamente l'affermazione finale del Prof. Mantovani: individuare la aziende, gli imprenditori validi e dedicare ad essi il sostegno finanziario e, viceversa (non detto), toglierlo a chi non genera valore. Orbene, poiché in Italia il sostegno finanziario si chiama Banca, declinare compiutamente tale principio mi porterebbe ad un mestiere che, francamente, non vorrei per nulla fare: quello di becchino delle imprese. Preferirei che lo facessero altri.

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Questa, comunque, è la realtà dei fatti. In prospettiva assisteremo ad un credito generoso ma selettivo. Più in generale, la capacità di attirare capitali di qualsivoglia natura sarà sempre più marcata da parte di quelle aziende che, al di là dell'aspetto di relazione, saranno in grado di dimostrare, con i numeri alla mano, la capacità di generare valore. Noi abbiamo fin qui vissuto un modo di far banca ed un modo di interconnettersi delle imprese con le banche, che potremmo definire di relazione. Piccole imprese, o meglio, piccoli imprenditori, con piccole banche con forte radicamento sul territorio. Sviluppo dell'impresa, sviluppo della banca. Il tutto in una sorta di continuum. Era quel famoso "sviluppo senza fratture" che ha caratterizzato, specie nel Nord Est, la fortuna del territorio.Su questo impianto di rapporto banca/impresa si è poi inserito, unicum italiano, il sistema del credito assicurativo, di cui la multi-bancarizzazione è stata la conseguenza. Dunque, le imprese hanno potuto beneficiare di credito da parte di banche che, pur non formalizzata, avevano una profonda conoscenza dell'azienda e delle sue reti di relazioni sul territorio, e da banche che, prive di tale know how, concedevano credito utilizzando il principio "poco so e poco do, comunque ripartisco il rischio fra molti soggetti". Un siffatto modo di operare è risultato ottimale per le banche. Adesso, pero, le reti di relazione, stante la globalizzazione, sono diventate enormemente più lunghe e complesse. Le norme previste da "Basilea 2" impongono, inoltre, logiche creditizie diverse da quelle passate (almeno per quanto riguarda le aziende con affidamenti superiori al milione di Euro). Per dirla con semplicità, non si può più operare come in passato. La premessa del Segretario Generale é stata: "come poter utilizzare questi numeri, questi dati, questi bilanci?". Noi di Unicredit Banca d'Impresa ci siamo già attrezzati, abbiamo iniziato una nuova era, proprio in previsione di un qualche cosa che preme, di un domani che é già oggi. Lo abbiamo fatto nel momento che siamo nati. Siamo, infatti, l'unica banca italiana che rivolge la sua attenzione esclusivamente alle imprese ed opera per la soluzione dei problemi aziendali grazie ad una struttura di professionisti dedicati esclusivamente a questo scopo. A partire dal nostro Amministratore Delegato a finire al nostro più giovane dei neo-assunti, tutti nella mia Banca si occupano solo ed esclusivamente di impresa. Lo scorso anno abbiamo inaugurato una nuova stagione nel far credito. Abbiamo rivolto agli imprenditori una domanda: perché non trasformi il tuo ricorso al credito a breve in credito a medio termine? In questo modo è nato quello strumento che, in maniera colorita, è stato definito il "Bond di Distretto"; cioè uno strumento idoneo a sostenere l'impresa nel medio termine, senza il supporto delle garanzie collaterali personali che tanta parte hanno avuto nel successo dello sviluppo delle relazioni banca/impresa, con

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un pricing risultante non già da una trattativa fra le parti, ma basato su predeterminati spread, variabili in funzione del rating aziendale. In parole povere, abbiamo detto: "Se tu fossi una azienda di grandi dimensioni, ti rivolgeresti al mercato internazionale che ti assegnerebbe un rating e su questo determinerebbe il pricing. Noi ti offriamo la possibilità di emulare le grandi imprese applicando al tuo finanziamento uno spread collegato al rating che viene sviluppato da CE:BI (Centrale dei Bilanci, organismo strettamente collegato a Cerved, e che scaturisce dai bilanci che vengono depositati, e che sono gli stessi di cui oggi discutiamo, ancorché in forma aggregata). Poiché il mercato internazionale sarebbe scarsamente interessato ad un credito di modeste dimensioni, noi ti uniremo a tante altre aziende che ci richiederanno questo credito e, dopo averli concessi, li venderemo in blocco attraverso un veicolo ad hoc sulle piazze internazionali, dove verranno prezzati sulla base del rating medio risultante da tutte le concessioni operate".Come sapete, il successo è stato enorme. Ciò malgrado abbiamo deciso di sospendere le cartolarizzazioni. Tale decisione è scaturita dalla constatazione che, anche una soglia di 250/300 milioni di euro, minima per una operazione del genere, finiva col diventare antieconomica, in considerazione degli elevatissimi costi connessi. Non abbiamo, però, interrotto la nostra azione tesa a trasferire l'indebitamento da breve a medio. Anzi, abbiamo continuato con maggior lena di prima, trattenendo però, sui nostri libri i crediti concessi, sempre sulla base del rating CE.BI. e sempre senza richiedere garanzie collaterali personali.Con tale azione contiamo di realizzare un miglioramento nell'attuale rapporto debito a breve/debito a medio che caratterizza la struttura del passivo delle imprese italiane: attualmente il medio termine incide per circa il 40%, mentre altri Paesi Europei evidenziano aliquote assai più rilevanti, con evidenti benefici di carattere strutturale ed economico.Tale azione, però, non risolve i problemi di modestia dimensionale e di scarso equity che caratterizza la gran parte delle aziende. Per risolvere tali problemi occorrerà studiare tutti assieme dei sistemi con i quali poter far confluire nelle aziende parte di quella rilevantissima entità di risparmio privato che ora trova allocazione in altre forme di investimento. Parimenti si dovrà lavorare per favorire forme di aggregazioni e fusioni di aziende, ora spesso disincentivate anche da normative di carattere fiscale. E' vero che le caratteristiche delle nostre aziende complicano questo tipo di approccio: imprese e famiglie spesso sono un difficile groviglio in cui non è facile districarsi. Per raccogliere mezzi di terzi occorre anche fare rinunce e sostenere dei costi (anche di trasparenza). Non sono molti quelli disponibili a ciò nei momenti in cui l'azienda è florida. Di contro, tale disponibilità

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abbonda quando iniziano le classiche "vacche magre". Allora, però, scarseggiano i soggetti interessati all'investimento. Diciamo la verità, anche a causa della "grande bolla" degli anni passati, abbiamo perduto delle grosse opportunità, la Borsa non è riuscita a realizzare il suo scopo: negli ultimi cinque anni il numero delle aziende quotate è diminuito, anziché aumentare. Neanche i Fondi ed i Venture Capital hanno dato sempre una risposta al bisogno. Ho assistito a casi in cui l'ingresso di questi soggetti ha finito col complicare, anziché risolvere i problemi. Ho a mente molti casi aziendali in cui, per premiare il ritorno dell'investimento, si è operato bloccando lo sviluppo e gli investimenti di ricerca, oppure ho assistito a disimpegni, palesemente confliggenti con le già avviate strategie di sviluppo aziendale. Non meno complicata è la questione attinente le fusioni ed aggregazioni. A mio avviso è indispensabile prevedere grossi sgravi fiscali per quei soggetti che decidano di mettersi insieme. Occorre che i benefici risultino superiori ai costi.Personalmente ritengo che sia finito il tempo dell'"individualismo ad oltranza". Occorre mettersi insieme. Far squadra. Nei giorni scorsi sono stato impegnato a tessere contatti fra quattro aziende, tutte operanti nello stesso settore, tutte con le stesse caratteristiche, che si approvvigionano per le materie sugli stessi mercati e che esitano i loro prodotti presso gli stessi clienti. E' emerso che, prescindendo dai vantaggi di prezzo ottenibili sia a monte che a valle per la cessata concorrenza, sommando i benefici rivenienti dalla riduzione delle scorte strategiche, dalle economie di più razionali processi produttivi, e di rete commerciale, emergono cifre impressionanti, multiple dei "benefici non visibili" attualmente generati dalle strutture individuali. In questo caso la mia Banca è impegnata a tutto tondo: da un lato quale elemento terzo di garanzia nell'ambito di processi valutativi e, dall'altro, quale "stanza di compensazione", atta a monetizzare i valori in eccesso, laddove non si vogliano creare quote eccedenti fra i vari soci. Termino col dire che la trasparenza e la chiarezza dei dati fa bene al mercato. Auspico, quindi, che analisi come quelle che oggi ci occupano siano sempre più frequenti ed approfondite. Spero che possano diventare abituali strumenti di analisi e confronto, specie quando elaborati dal mondo dell'Università. Spero, anzi, che possano diventare ordinari strumenti operativi a disposizione di tutti gli utilizzatori interessati, primo fra tutti il mondo bancario.Grazie.

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TAVOLE INDICATORI

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Questa pubblicazione è edita nella collana:

Profili economici

della Camera di Commercio di Treviso. Le precedenti pubblicazioni sono:

1- I problemi finanziari delle PMI trevigiane: aspetti critici e strategie di intervento (1997)

2- Riforma fiscale e ricapitalizzazione delle imprese (1998 3- Le nuove sfide per i distretti industriali: sistemi cognitivi e reti

transnazionali (1998) 4- La “rivoluzione” Euro: quali implicazioni per il finanziamento delle

P.M.I.? (1998) 5- Un progetto di marketing territoriale per il distretto di Montebelluna

— Offerta del territorio, contesti competitivi e possibili strategie di rilancio — (1998)

6- Immigrati: problema o risorsa? - L’immigrazione di extracomunitari nei territori evoluti con particolare riguardo alla provincia di Treviso — (1999)

7- Le opportunità dell’Euro Nouveau Marchè per le imprese ad alto potenziale di crescita (1999)

8- Guida “Crea la tua impresa a Treviso” (2000). 9- Convegno “E– commerce frontiera del nuovo sviluppo”

Tavola rotonda “Marketplace comunità e distretti virtuali. E-uforia o reali opportunità strategiche di sviluppo”(2000).

10- IL PROGRAMMA “JEV” - Agevolazioni alle imprese che intendono investire in Europa (2001).

11- Le politiche commerciali e di Marketing nel settore dell’arredamento – Ricerca sui distretti industriali del Livenza e del Quartier del Piave

12- Problematiche di internazionalizzazione dei distretti industriali della provincia di Treviso

13- La qualità nella Pubblica Amministrazione – Alcune esperienze negli enti locali

14- Analisi dell’organizzazione logistica del distretto industriale di Montebelluna

15- L’UEM, l’Euro e l’Ampliamento dell’Unione Europea 16- I Servizi integrati a tutela della Proprietà Industriale 17- Qualità e certificazione nella Pubblica Amministrazione esperienze a

confronto18- Guida “Crea la tua impresa a Treviso”. (2004)

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19- Atti “Giornata dell’economia” (17 Novembre 2003) 20- Premio Tesi di Laurea sull’Economia Trevigiana (6^ edizione – 2003) 21- Nuove opportunità di finanziamento per le PMI – Dalla finanza

innovativa al mercato expandi – (2 Aprile 2004) 22- Atti del ciclo di incontri informativi - “La normativa sulla sicurezza e

conformità dei prodotti” – Gennaio Dicembre 2003 23- Studio preliminare sui potenziali nuovi Mercati di sbocco per lo Sport

System Montebellunese – Settembre 2004 24- Atti del convegno “Lean Organization per lo sviluppo dell’eccellenza

e della competitività 25- “Pogettiamo il nostro futuro” Il Piano di Marketing territoriale per lo

sviluppo di Roncade – Relazioni del Convegno (30 ottobre 2004)

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Redazione Ufficio Studi della Camera di Commercio di Treviso

Impaginato a cura del Centro stampa della Camera di Commercio di Treviso - Giugno 2005