LE SOCIETà DI RATING, MATERIE ECONOMICHE E AZIENDALI … · sì che gran parte del pubblico sia...

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APPROFONDIMENTI 1 © RCS Libri S.p.A. Milano - Tutti i diritti sono riservati - anno scolastico 2010/2011 online Esistono dei prof (o delle prof) che, pur non appartenen- do formalmente a una determinata classe, hanno l’auto- rità di dare voti agli studenti di quella classe, valutazioni destinate a “pesare” nel giudizio finale? Be’, nella scuola no, non esiste una figura di questo tipo, ma nella finanza internazionale le cose sono un po’ diverse. Già, perché si dà il caso che alcune organizzazioni del mondo finanzia- rio si sono assunte – ormai da svariati decenni – il preci- so compito di assegnare “voti” a molti grandi operatori del settore circa la loro solidità e capacità ad affrontare le sfide del mercato, e tali “pagelle” hanno il potere di influire notevolmente sull’andamento del mercato stes- so, come illustreremo di qui a breve. Stiamo parlando, in particolare, delle cosiddette agenzie di rating (rating è vocabolo anglosassone e significa letteralmente “classi- ficazione”, o “punteggio di merito”), le quali hanno pro- prio il compito di “assegnare voti” in base a determinati criteri di “buona finanza”. In effetti, le agenzie di rating altro non sono che società, e per l’esattezza società per azioni (o corporations), ossia organizzazioni private con finalità lucrative. Per questo, sebbene sia usuale il riferi- mento al concetto di “agenzia”, molti studiosi ritengono sia preferibile parlare, per esse, di “società” o “aziende”, a sottolineare, appunto, il loro carattere privatistico e la loro appartenenza al novero delle imprese “profit”, e in tal senso anche noi ci atterremo a questa terminologia. IL RATING. Il rating è un criterio per classificare sia taluni prodotti (titoli) delle imprese e degli organismi pubblici (Stati compresi), sia le stesse imprese e gli or- ganismi pubblici che li emettono. Tale classificazione avviene, in estrema sintesi, in base alla loro rischiosità, ovvero all’affidabilità del soggetto emittente il titolo e, di conseguenza, alla sua capacità di far fronte, nel tem- po, agli impegni assunti attraverso l’emissione del tito- lo. Stiamo parlando, specificamente, di titoli di debito (e non di “titoli di partecipazione” come sono le azioni), cioè di obbligazioni e altri strumenti finanziari emessi dall’emittente per autofinanziarsi sul mercato, con l’im- pegno di pagare ai sottoscrittori dei titoli (investitori “istituzionali” come banche, compagnie di assicurazioni, fondi pensione ecc., grandi investitori, piccoli risparmia- tori) periodicamente un interesse sulle somme prestate e il rimborso del capitale alla scadenza del prestito con- tratto. Per ciò che riguarda lo Stato e le altre ammini- strazioni pubbliche, i titoli sottoponibili a rating sono quelli del debito pubblico (Buoni del Tesoro, Certificati di Credito del Tesoro ecc.), equivalenti alle obbligazioni emesse dalle società per azioni quotate. Per comprendere l’utilità del rating occorre, quindi, ri- ferirsi al fondamento dei titoli obbligazionari e assimi- lati. Costituendo essi un debito contratto da un’impresa privata o da un’amministrazione pubblica, sono esposti al rischio che l’emittente possa trovarsi, in divenire, nell’incapacità di pagare le cedole (incorporanti l’inte- resse sul debito) a scadenza periodica o, caso estremo, il rimborso del capitale alla scadenza del prestito. Ne deriva come l’acquisto di un titolo obbligazionario o di un titolo del debito pubblico debba essere preceduto da un’accurata analisi delle condizioni di stabilità economi- ca, finanziaria e patrimoniale di chi lo emette. Tuttavia, spesso la mancanza di tempo, o la scarsa dimestichezza con i dati contabili, o anche la difficoltà del reperimento di tutti gli elementi necessari a valutare il livello di ri- schiosità di un titolo e di affidabilità di chi lo emette (si parla, non a caso, di “informazione asimmetrica”) fanno sì che gran parte del pubblico sia incapace di operare scelte oculate e sufficientemente “garantite” nell’orien- tamento dei propri investimenti e impieghi. Per questo sono sorte le società di rating. Esse forniscono una valu- tazione puntuale su un determinato strumento finanzia- rio e/o sulla condizione di “tenuta” di un’impresa o di uno Stato (ossia sul grado di solvibilità di coloro che si indebitano) con il fine di orientare, in tal senso, gli inve- stitori e, più in generale, i diversi soggetti che operano nel mercato finanziario. Sotto il profilo temporale, possiamo avere un rating di breve periodo (copre un arco di tempo che general- mente non supera i dodici mesi) e un rating di lungo periodo (definisce la solvibilità dell’emittente per l’in- tera durata del prestito contratto, che generalmente è di alcuni anni). Quest’ultimo è senza dubbio il rating più diffuso nella pratica. Il monitoraggio e la valutazione che fanno le società di rating è continuo: ciò può condurre a periodiche variazioni del giudizio iniziale, sia in miglio- ramento (upgrade), sia in peggioramento (downgrade). LE SOCIETà DI RATING, I “PROF” DELLA FINANZA MONDIALE di Fabio TITTARELLI MATERIE ECONOMICHE E AZIENDALI (classe 4 a IGEA) La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni ha contribuito ad appanna- re l’immagine delle società di rating, accusate di non avere svolto in maniera adeguata la propria attività. Nell’articolo, dopo aver illustrato il concetto di rating, si prendono in esame la nascita e l’evoluzione di queste società, sof- fermandosi sulle varie problematiche che attualmente le riguardano.

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APPROFONDIMENTI 1

© RCS Libri S.p.A. Milano - Tutti i diritti sono riservati - anno scolastico 2010/2011 online

Esistono dei prof (o delle prof) che, pur non appartenen-do formalmente a una determinata classe, hanno l’auto-rità di dare voti agli studenti di quella classe, valutazioni destinate a “pesare” nel giudizio finale? Be’, nella scuola no, non esiste una figura di questo tipo, ma nella finanza internazionale le cose sono un po’ diverse. Già, perché si dà il caso che alcune organizzazioni del mondo finanzia-rio si sono assunte – ormai da svariati decenni – il preci-so compito di assegnare “voti” a molti grandi operatori del settore circa la loro solidità e capacità ad affrontare le sfide del mercato, e tali “pagelle” hanno il potere di influire notevolmente sull’andamento del mercato stes-so, come illustreremo di qui a breve. Stiamo parlando, in particolare, delle cosiddette agenzie di rating (rating è vocabolo anglosassone e significa letteralmente “classi-ficazione”, o “punteggio di merito”), le quali hanno pro-prio il compito di “assegnare voti” in base a determinati criteri di “buona finanza”. In effetti, le agenzie di rating altro non sono che società, e per l’esattezza società per azioni (o corporations), ossia organizzazioni private con finalità lucrative. Per questo, sebbene sia usuale il riferi-mento al concetto di “agenzia”, molti studiosi ritengono sia preferibile parlare, per esse, di “società” o “aziende”, a sottolineare, appunto, il loro carattere privatistico e la loro appartenenza al novero delle imprese “profit”, e in tal senso anche noi ci atterremo a questa terminologia.

IL RATING. Il rating è un criterio per classificare sia taluni prodotti (titoli) delle imprese e degli organismi pubblici (Stati compresi), sia le stesse imprese e gli or-ganismi pubblici che li emettono. Tale classificazione avviene, in estrema sintesi, in base alla loro rischiosità, ovvero all’affidabilità del soggetto emittente il titolo e, di conseguenza, alla sua capacità di far fronte, nel tem-po, agli impegni assunti attraverso l’emissione del tito-lo. Stiamo parlando, specificamente, di titoli di debito (e non di “titoli di partecipazione” come sono le azioni), cioè di obbligazioni e altri strumenti finanziari emessi dall’emittente per autofinanziarsi sul mercato, con l’im-pegno di pagare ai sottoscrittori dei titoli (investitori “istituzionali” come banche, compagnie di assicurazioni, fondi pensione ecc., grandi investitori, piccoli risparmia-tori) periodicamente un interesse sulle somme prestate

e il rimborso del capitale alla scadenza del prestito con-tratto. Per ciò che riguarda lo Stato e le altre ammini-strazioni pubbliche, i titoli sottoponibili a rating sono quelli del debito pubblico (Buoni del Tesoro, Certificati di Credito del Tesoro ecc.), equivalenti alle obbligazioni emesse dalle società per azioni quotate. Per comprendere l’utilità del rating occorre, quindi, ri-ferirsi al fondamento dei titoli obbligazionari e assimi-lati. Costituendo essi un debito contratto da un’impresa privata o da un’amministrazione pubblica, sono esposti al rischio che l’emittente possa trovarsi, in divenire, nell’incapacità di pagare le cedole (incorporanti l’inte-resse sul debito) a scadenza periodica o, caso estremo, il rimborso del capitale alla scadenza del prestito. Ne deriva come l’acquisto di un titolo obbligazionario o di un titolo del debito pubblico debba essere preceduto da un’accurata analisi delle condizioni di stabilità economi-ca, finanziaria e patrimoniale di chi lo emette. Tuttavia, spesso la mancanza di tempo, o la scarsa dimestichezza con i dati contabili, o anche la difficoltà del reperimento di tutti gli elementi necessari a valutare il livello di ri-schiosità di un titolo e di affidabilità di chi lo emette (si parla, non a caso, di “informazione asimmetrica”) fanno sì che gran parte del pubblico sia incapace di operare scelte oculate e sufficientemente “garantite” nell’orien-tamento dei propri investimenti e impieghi. Per questo sono sorte le società di rating. Esse forniscono una valu-tazione puntuale su un determinato strumento finanzia-rio e/o sulla condizione di “tenuta” di un’impresa o di uno Stato (ossia sul grado di solvibilità di coloro che si indebitano) con il fine di orientare, in tal senso, gli inve-stitori e, più in generale, i diversi soggetti che operano nel mercato finanziario.Sotto il profilo temporale, possiamo avere un rating di breve periodo (copre un arco di tempo che general-mente non supera i dodici mesi) e un rating di lungo periodo (definisce la solvibilità dell’emittente per l’in-tera durata del prestito contratto, che generalmente è di alcuni anni). Quest’ultimo è senza dubbio il rating più diffuso nella pratica. Il monitoraggio e la valutazione che fanno le società di rating è continuo: ciò può condurre a periodiche variazioni del giudizio iniziale, sia in miglio-ramento (upgrade), sia in peggioramento (downgrade).

LE SOCIETà DI RATING, I “PROF” DELLA FINANZA MONDIALEdi Fabio TITTARELLI

MATERIE ECONOMICHE E AZIENDALI (classe 4a IGEA) La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni ha contribuito ad appanna-re l’immagine delle società di rating, accusate di non avere svolto in maniera adeguata la propria attività. Nell’articolo, dopo aver illustrato il concetto di rating, si prendono in esame la nascita e l’evoluzione di queste società, sof-fermandosi sulle varie problematiche che attualmente le riguardano.

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GENESI ED EVOLUZIONE DELLE SOCIETÀ DI RATING. Le società di rating sono nate agli inizi del secolo scor-so negli Stati Uniti, quando gli investitori iniziavano ad avvertire l’esigenza di poter attingere a informazioni più approfondite di quelle normalmente reperibili circa gli strumenti finanziari di debito emessi dalle diverse (e sem-pre più numerose) corporations dell’epoca. Il primo che ebbe “l’idea” di fornire tale servizio informativo fu il fi-nanziere John Moody, che nel 1909 pubblicò un annuario – il Manual of Railroad Securities – concernente le 200 società ferroviarie americane che operavano in quei tem-pi e che necessitavano di ingenti capitali da raccogliere sul mercato per realizzare e potenziare la rete di comu-nicazione su rotaia. A ciascuna impresa contemplata nel manuale corrispondeva un giudizio sulla solidità del suo bilancio, espresso in forma sintetica. Era il “prototipo” del rating. Trattandosi di una sorta di “guida” a beneficio degli investitori, l’annuario si rivolgeva espressamente a questi ultimi i quali, pertanto, se lo ritenevano utile erano tenuti a pagare alla società di Moody il “prezzo” del servizio reso. In sostanza, in origine l’attività di rating era finanziata dai potenziali beneficiari delle informazioni contenute nel rapporto, ossia da coloro che, avendo intenzione di sot-toscrivere titoli obbligazionari, necessitavano di adeguate garanzie circa l’affidabilità delle imprese emittenti i titoli. Qualche anno più tardi Moody fu imitato dalla Standard Company (fusasi poi con la Poor’s) e, nel giro di pochi anni ancora, dalla Fitch Ratings. Attualmente queste tre società – Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch assorbo-no la quasi totalità del mercato del rating: per questo ven-gono anche etichettate, con una punta di sarcasmo, come le “tre sorelle”. All’inizio, dunque, il rating costituiva una “offerta” che le società sottoponevano agli investitori, i quali erano li-beri di aderirvi o no, secondo le loro esigenze. Ma dopo la Grande Crisi del 1929, che provocò una serie impres-sionante di fallimenti e di dissesti di imprese e gettò sul lastrico migliaia di grandi e piccoli investitori, l’Autori-tà statunitense per il controllo della Borsa (la SEC) rese obbligatoria la sottoposizione, da parte delle corporations che intendevano rastrellare capitali sul mercato finanzia-rio attraverso lo strumento obbligazionario, al rating delle “tre sorelle”. Ciò segna l’inizio di un’ascesa che non si è più arrestata. Inoltre, data la obbligatorietà del giudizio di affidabilità fornito dalle società di rating, mutò anche la loro fonte di finanziamento, nel senso che il pagamento del “servizio di rating” non fu più richiesto agli investitori, e dunque ai potenziali destinatari dei titoli da sottoscrive-re, ma alle stesse imprese che li emettevano. Il costo di tale servizio, come è ovvio, finiva poi per essere incorpo-rato nel prezzo di emissione del titolo, per cui il sostenito-re finale rimaneva pur sempre il sottoscrittore. L’ultimo tassello di questa evoluzione si ha con un prov-vedimento della SEC del 1975 con il quale si decise di

regolamentare le società di rating creando uno specifi-co “albo” al quale erano tenute a iscriversi tali società, definite ufficialmente in esso Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSRO, ovvero Or-ganizzazioni Statistiche di Rating Nazionalmente Ricono-sciute). L’istituzionalizzazione di queste società costituì una forma di “licenza” che poteva essere concessa solo a corporations in grado di soddisfare alcuni requisiti fonda-mentali (peraltro difficilmente raggiungibili), per cui essa rappresentò, di fatto, una sorta di barriera all’entrata nel mercato di altre imprese orientate a fornire il servizio di rating. Per questo, tuttora sono le “tre sorelle” a dominare questo particolare settore di mercato.

L’ACCESSO E/O LA SOTTOPOSIZIONE AL RATING. At-tualmente vi sono imprese che sono tenute obbligatoria-mente a “sottoporsi” al rating (in Italia, ad esempio, lo sono le banche e le compagnie di assicurazione), e im-prese per le quali non esiste un vincolo giuridico ad es-sere “retate”: le società medio/piccole, in particolare. Nel nostro Paese, ad esempio, secondo un recente studio di Standard & Poor’s (S&P), circa il 50% delle obbligazioni societarie è privo di rating, mentre in Francia tale percen-tuale scende drasticamente al 16%, in Germania al 14% e in Spagna addirittura al 4%. Anche per gli Stati non esiste un obbligo in senso proprio, ma ormai quasi tutti i Paesi hanno accettato di sottoporsi al giudizio delle “tre sorelle” e di ricevere la (spesso temuta) “pagella” in ordine al vo-lume e alla natura della loro esposizione debitoria verso i risparmiatori (nazionali e stranieri). Vedremo tra breve come tale giudizio abbia dato luogo, anche in epoca recen-te, a non poche turbolenze sui mercati.

LA PROCEDURA DI RATING. Come sottolineato in pre-cedenza, il rating è oggi commissionato dal soggetto che emette il debito. Questi incarica dunque la società di rating di acquisire tutte le informazioni necessarie ed emettere il suo giudizio sull’affidabilità dell’investimen-to (in sostanza, sulla capacità dell’impresa emittente di onorare il debito contratto), in modo che tutti coloro che intendano sottoscrivere i relativi titoli siano messi in con-dizione di valutare i rischi inerenti. Il “voto”, espresso in una sigla viene fornito dopo un’indagine accurata svolta da un’analista della società di rating e portato all’appro-vazione di un comitato, il quale emette un voto colle-giale (a maggioranza). Quindi, la “pagella” è comunicata al committente, che può richiedere – se ritiene il rating non corrispondente alle proprie aspettative e inadeguato a rappresentare la condizione dell’impresa “retata” – un supplemento di indagine, eventualmente fornendo altri elementi di giudizio. In seguito, il comitato può con-fermare la valutazione già data o modificarla in base a ulteriori accertamenti, sino al “voto” definitivo, il qua-le di massima viene pubblicato. Tuttavia, il destinatario

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del rating può chiedere che non venga pubblicato, rima-nendo in tal caso “riservato”, non di pubblico dominio. Successivamente, la società di rating opera un monito-raggio costante dell’impresa emittente i titoli di debito,

per valutare eventuali futuri miglioramenti del giudizio o declassamenti. Nel diagramma di flusso sono riportati i punti salienti della procedura ora descritta.

Il soggetto che intende emettere titoli obbligazionari

richiede il rating a una apposita società

La società di rating incarica un proprio funzionario di

acquisire tutte le informazioni necessarie

L'analista, dopo attenta valutazione dei dati disponibili,

propone un giudizio di rating

La proposta di valutazione è esaminata da un comitato, il

quale decide a maggioranza ed emette il giudizio di rating

Il rating è comunicato al committente

Il committente accetta il rating Il committente non accetta il rating,

chiedendo un supplemento di analisi e

fornendo eventuali altri dati utili allo

scopo

Il comitato esamina gli ulteriori dati in

suo possesso

Il comitato

conferma il rating

II comitato

modifica il rating

Il rating è di nuovo comunicato al

committente

Il rating è reso pubblico Il rating, su richiesta del committente, è

mantenuto in forma privata

Inizia il "monitoraggio" dell'impresa sottoposta a rating

Il rating può essere ritoccato al rialzo

(upgrade)

Il rating può essere ritoccato al ribasso

(downgrade)

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LA TIPOLOGIA DEI “VOTI” DATI DALLE SOCIETà DI RATINGCiascuna delle “tre sorelle” adotta propri criteri di valutazione delle imprese (e degli Stati), e anche i relativi “voti” sono espressi con sigle distinte. Ri-portiamo di seguito una tabella comparativa delle classi di rating rispettivamente di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch Ratings riferite alle valutazioni di lungo termine, con la “legenda” relativa a ciascun livello di giudizio.

MOODY’S STANDARD & POOR’S

FITCH RATINGS DESCRIZIONE

Aaa AAA AAA Massima sicurezza del capitale (“prime”)Aa1 AA+ AA+

Qualità più che buona Aa2 AA AAAa3 AA– AA–A1 A+ A+

Qualità mediaA2 A AA3 A– A–Baa1 BBB+ BBB+

Qualità medio/bassaBaa2 BBB BBBBaa3 BBB– BBB–Ba1 BB+ BB+

Area di non-investimento. SpeculativoBa2 BB BBBa3 BB– BB–B1 B+ B+

Altamente speculativoB2 B BB3 B– B–Caa CCC+

CCCRischio considerevole

Ca CCC Estremamente speculativoC CCC– Rischio di perdita del capitale

– DDDD

Perdita del capitaleDDD

IL RATING NEI RIGUARDI DI UNO STATO. Come già anticipato, le società di rating forniscono le loro “pa-gelle” anche agli Stati. Poiché questi ultimi si rivolgono massicciamente al mercato emettendo titoli del debito pubblico, anch’essi, potrebbero trovarsi in difficoltà nel reperire i fondi per pagare gli interessi e persino in con-dizione di illiquidità all’atto della restituzione dei prestiti a scadenza. Il giudizio delle “tre sorelle”, pertanto, rap-presenta un indicatore di notevole impatto sui mercati, al punto da condizionare i flussi d’investimento e l’an-damento stesso del mercato borsistico, nonché il tasso di cambio. Se, ad esempio, S&P indica il peggioramento del rating relativo a un dato Paese – da BB a CCC, ponia-mo – ciò avrà immediate ripercussioni sul tasso d’inte-resse offerto sui prestiti emessi da quel Paese, in quanto sia i risparmiatori che gli investitori istituzionali saranno incentivati a mantenere o sottoscrivere i prestiti emessi dal Paese considerato – e quindi ad affrontare un maggior

rischio d’insolvenza – solo a condizione di poter ottene-re, in cambio, una remunerazione maggiore dal capitale prestato; in caso contrario, tenderanno a disfarsi dei tito-li già sottoscritti o si sottrarranno all’offerta di ulteriori sottoscrizioni. Con l’innalzamento del tasso d’interesse si ha, come diretta conseguenza, l’incremento dell’onere del debito, e dunque il peggioramento dei conti pubblici. Ma anche il tasso di cambio della valuta di quel Paese ne subirà conseguenze. Infatti, se la situazione peggiora, i capitali nazionali tenderanno a indirizzarsi verso le piaz-ze estere, mentre quelli esteri eviteranno di impegnarsi nel Paese considerato. Ciò inciderà negativamente sul valore della moneta nazionale, con ulteriori ripercussioni sulle importazioni (che saranno più care) e sulle espor-tazioni (che verranno pagate meno dagli stranieri), oltre che sui movimenti di capitali. Data l’elevata interdipendenza dei mercati (non si di-mentichi che l’economia globalizzata è sotto questo

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profilo più fragile ed esposta alle turbolenze), il giudi-zio negativo sulla condizione di un dato Stato produce, in definitiva, un effetto amplificato, coinvolgendo altri Stati, e non raramente vaste aree economiche (si pensi alla cosiddetta “eurozona”). Di questo avremo modo di riparlare tra breve.

LE PROBLEMATICHE SOLLEVATE DALL’ATTIVITÀ DI RATING. È noto che la fama delle “tre sorelle”, negli ul-timi anni, si sia un po’ “appannata”, a seguito dell’ulti-ma virulenta crisi economico-finanziaria, i cui strascichi sono tuttora presenti e condizionano pesantemente l’an-damento delle diverse economie capitalistiche (basta qui citare il drammatico tasso di disoccupazione lavorativa, che in molti Paesi è a doppia cifra). In questo frangente le valutazioni delle società di rating sono state a dir poco inappropriate, e spesso hanno finito per aggravare la si-tuazione, anziché favorire il corretto orientamento delle scelte d’investimento finanziario. Ne sono scaturite criti-che anche assai severe nei loro riguardi, nonché proposte di modifica del vigente “mercato del rating”. Delle une e delle altre daremo, nelle note che seguono, un sintetico resoconto.

Il conflItto dI InteressIIl primo e più rilevante “capo d’accusa” riguarda il con-flitto di interessi che le società di rating manifestano, il quale a sua volta presenta diversi e inquietanti aspetti. Innanzitutto, il fatto stesso che queste organizzazioni: a) hanno scopo di lucro; b) operano nel mercato finan-ziario; c) si fanno pagare le loro prestazioni dagli stessi soggetti ai quali danno le “pagelle”, costituisce un mix davvero difficile da digerire sul piano della autonomia di giudizio e dell’obiettività dei risultati delle loro analisi. Come è stato da molti osservatori sottolineato nel corso di questi ultimi anni, il fatto che l’intero finanziamento dell’analisi di rating ricada – almeno formalmente – sulle spalle di colui che dovrà ricevere il giudizio finale e che dunque non è estraneo ai suoi risultati, ma al contrario è il destinatario di essi, rappresenta a dir poco un’anomalia senza precedenti. Come ha scritto di recente l’economi-sta Sergio Luciano: «non si è mai visto un controllato che paghi il suo controllore per essere davvero incalzato, messo alle strette e se necessario sanzionato per i suoi comportamenti». C’è dunque il fondato sospetto che pos-sa instaurarsi, fra il soggetto emittente che deve essere “retato” e la società incaricata di dare il suo giudizio, un rapporto vizioso: tanto più elevato è il costo dell’attività svolta, tanto migliori risultati è lecito attendersi da esso: ciò significa che il “voto” del rating potrebbe essere in qualche misura “comprato”, o quantomeno “addomesti-cato” dalla stesso soggetto (pubblico o privato che sia) sottoposto a indagine. Un secondo profilo di conflitto d’interessi è quello relati-

vo all’eventuale richiesta, da parte dell’emittente, di pro-muovere un’ulteriore analisi qualora ritenga insoddisfa-cente il rating che gli è stato comunicato, fornendo dati aggiuntivi. Molti esperti hanno sollevato forti perplessità su questa parte della procedura. L’economista Marco De-lugan, ad esempio, ha scritto in proposito: «Possibile che il procedimento non preveda che tutte le informazioni necessarie siano raccolte subito? Sembra una procedu-ra che, senza controlli esterni, possa dar adito a conflitti d’interesse». In pratica, il giudizio delle società di rating non è insindacabile, ma può venir modificato in seguito a un intervento dello stesso “giudicato”: e questo secondo giro di indagine, ovviamente, non è gratuito… Ma anche il rating non pubblicato, cioè mantenuto in for-ma privata su richiesta dell’impresa emittente, si espo-ne al sospetto di conflitti d’interesse. Facciamo l’ipotesi che, dopo aver “retato” un titolo, la società accerti che l’emittente non gode di adeguata solidità e potrebbe ri-schiare l’insolvenza. Nonostante ciò, dietro sollecitazio-ne dell’impresa (la quale è disposta a pagare per questo “silenzio”) il rating rimane non ufficiale. Questo potreb-be portare a operazioni speculative anche illecite, come l’operazione di aggiotaggio (rialzo o ribasso fraudolento di prezzi sul mercato borsistico, indotto da notizie false o – come in questo caso – da omesse informazioni circa un determinato titolo o la società che lo emette). Altra questione legata al conflitto d’interessi è il fatto che le “tre sorelle” appartengono, a loro volta, al mon-do della finanza e svolgono collateralmente attività di banca di investimento. Ciò significa che, in molti casi, il risultato delle loro analisi e il “voto” che conferisco-no a un’impresa emittente titoli non è indifferente alle loro attività di investimento finanziario. Il rating, infat-ti, potrebbe essere utilizzato nell’interesse della stes-sa società che lo ha emesso per attività speculative in Borsa, ad esempio per l’acquisizione di capitali socie-tari a prezzi di realizzo (nel caso di un rating eccessi-vamente penalizzante) o, viceversa, per disfarsi di ca-pitali societari a prezzi più elevati di quanto sarebbe se il rating assegnato fosse stato più basso. Non è un se-greto che le “tre sorelle” abbiano partecipazioni diret-te all’interno delle più grandi corporations internazio-nali e delle grandi banche d’affari regolarmente da esse “retate”: un esempio tra tutte è quello di Standard & Poor’s, la quale è sussidiaria della multinazionale Mc-Graw-Hill Companies, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e che ha cointeressenze praticamente in ogni settore produttivo. A sua volta, nel consiglio di amministrazione di questa società siedono presidenti di grandi banche, compagnie assicurative, im-prese operanti nel settore dell’energia ecc. Non è difficile immaginare che un rating di un certo livello anziché di un altro possa essere “sfruttato”, da parte della società che lo emette, per fare profitti in Borsa.

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Il ratIng “non rIchIesto” e quello “ancIllare”Un’altra forma, per così dire collaterale, di conflitto d’in-teressi deriva dalla pratica dei rating non sollecitati, o “non richiesti”. Le società di rating, infatti, non interven-gono soltanto su incarico dei soggetti emittenti titoli, ma possono svolgere proprie indagini a carico di altri sogget-ti dai quali non hanno ricevuto alcun incarico, fornendo ad essi successivamente le risultanze delle loro analisi e il relativo “voto”. È evidente che si tratta di un modo di conquistare altri clienti, ma poiché non stiamo parlando di un’impresa che confeziona un nuovo prodotto da piazzare sul mercato, il problema esiste, e non è marginale. Fac-ciamo l’ipotesi (che è poi molto diffusa, nella realtà) che Moody’s, ad esempio, attribuisca a un’impresa che inten-de emettere un prestito obbligazionario un giudizio nega-tivo, o solo moderatamente positivo, e glielo comunichi. Questa si trova ora in dilemma: può ignorare il giudizio di Moody’s rifiutandosi di conferire incarico per ottene-re ufficialmente il rating, oppure può fornire ulteriori dati (Moody’s potrebbe aver avvertito l’impresa in questione che il giudizio iniziale è frutto dei dati in suo possesso, ma che potrebbe essere modificato qualora potesse disporre di maggior dettaglio…) pagando il servizio. Date le circo-stanze, è assai probabile che Moody’s conquisti un nuovo cliente, al quale poi attribuirà un rating più soddisfacente. Assai simile al precedente è il possibile conflitto d’inte-ressi che scaturisce dalle cosiddette “consulenze ancil-lari”. Le società di rating svolgono spesso anche ulteriori analisi, per conto dei loro committenti, al fine di illustrare i possibili effetti sui mercati di futuri scenari come ac-quisizioni, vendita di beni, acquisto di capitali azionari, fusioni e incorporazioni ecc. Sostanzialmente, la società di rating svolge in tal modo un servizio di consulenza per conto dell’emittente, ponendo in luce come potrebbe modificarsi il rating per effetto di operazioni pianificate, da realizzare in divenire, se è opportuno che esse siano condotte, se sarebbe preferibile rivolgersi ad altri settori e così via. Anche qui appare evidente il conflitto d’inte-ressi: le imprese emittenti potrebbero temere che se non acquistassero altri servizi ne deriverebbe la possibilità di un rating negativo nel prosieguo del monitoraggio opera-to dalla società di rating, mentre potrebbero ritenere che, acquistando il servizio di “consulenza ancillare”, il loro rating migliorerebbe… In sintesi, non solo gli emittenti pagano per il rating che ottengono, ma possono anche pagare per i servizi che direttamente influiscono sul loro rating.

Il regIme dI olIgopolIoAbbiamo parlato delle “tre sorelle”. Praticamente, sul mercato del rating, non esiste altro. S&P copre il 40% dell’offerta, Moody’s il 39% e Fitch il 16%: in totale fan-no praticamente “cappotto”, tre società di rating si spar-tiscono il 95% dell’omonimo settore; probabilmente un

primato di concentrazione industriale. I commentatori più benevoli parlano di “quasi monopolio naturale”, in quanto risulterebbe assai difficile per una nuova società entrare in questo tipo di mercato, date le sue peculiarità. Ma i più ritengono che tale “quasi monopolio” sia stato favorito, da un lato, dalla regolamentazione “a banda stretta” fissata dalla SEC sin dal 1975 e, da un altro lato, dalla massiccia politica espansionistica delle “tre sorelle” nel corso degli ultimi decenni, sull’onda degli elevati profitti realizzati. «Il mercato del rating è diventato un oligopolio», sostiene Marco Delugan «perché le “tre sorelle” hanno fatto shop-ping negli anni appena scorsi. Hanno comperato le agen-zie locali, le national, per avere una struttura planetaria». Ma certamente la prima ragione del regime di oligopolio concentrato si deve alla procedura SEC di cui abbiamo già parlato. Essa, secondo molti commentatori, è “opaca” in quanto non ufficialmente definita, basandosi su criteri che non sono mai stati esplicitati. Il requisito più famoso contenuto nella procedura SEC è una sorta di comma 22 (così come efficacemente descritto nel romanzo omonimo di Joseph Heller), ossia una disposizione insanabilmente contraddittoria: «un’agenzia deve essere nazionalmen-te riconosciuta per essere una NRSRO; solo un’agenzia NRSRO può essere nazionalmente riconosciuta». Da que-sto paradosso deriva il fatto che, “promosse” a suo tempo NRSRO le “tre sorelle” e poche altre organizzazioni mi-nori, nessun’altra società ha potuto in seguito fregiarsi di questo titolo. Ad aggravare la situazione c’è il fondato sospetto che le “tre sorelle” adottino un tipo di oligopolio che gli econo-misti chiamano “collusivo”, ossia basato su degli accordi sottobanco o, comunque, su una tacita accettazione delle rispettive quote di mercato, con scarsa propensione alla concorrenza fra loro. In sintesi, l’oligopolio in questio-ne porterebbe alla “pace di mercato” fra le “tre sorelle”, considerata anche la barriera all’entrata di nuovi soggetti, praticamente insormontabile, come si è appena detto. E ciò non arreca certo vantaggio alla clientela delle società di rating, e meno ancora ai risparmiatori e agli investitori che dovrebbero essere adeguatamente informati per poter effettuare con minori rischi le loro operazioni nel mercato finanziario.

glI errorI dI valutazIone e I rItardIUn altro fronte di critiche si appunta sulla “singolare” in-capacità che, specie negli ultimi anni, sembrano aver avu-to le società di rating nel valutare titoli e imprese di rilievo nel mercato borsistico, dando di queste ultime giudizi po-sitivi – o comunque non particolarmente negativi – anche in presenza di situazioni ai limiti del fallimento. In Italia, l’Associazione a Difesa degli Utenti di Servizi Bancari e Finanziari (ADUSBEF) ha di recente pubblicato un pon-deroso studio, analizzando oltre 1000 rating forniti dalle “tre sorelle”, dal quale emerge che ben il 91% dei loro giu-

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dizi sembra essere stato inattendibile, o palesemente erra-to: una percentuale che davvero non fa onore alla compe-tenza di queste società. Tra gli “errori di valutazione” più clamorosi si annovera il caso della multinazionale Enron, gigante statunitense dell’energia, fallita nel 2001, che ap-pena tre giorni prima godeva di un rating di tutto rispetto, così come quello della banca d’affari Lehman Brothers, che sfoggiava una invidiabile tripla A ancora pochi giorni prima di fallire, nel settembre del 2008, gettando nella di-sperazione migliaia di risparmiatori ignari della sua disa-strosa condizione e ingannati dalla lusinghiera valutazio-ne che questa società esibiva. Ma anche in Italia abbiamo avuto i nostri crac, debitamente non preannunciati dalle valutazioni degli esperti; basta pensare al caso Parmalat, le cui obbligazioni godevano di un rating non allarmante (BBB–, secondo la simbologia della S&P, corrispondente alla classificazione di investimento “non speculativo”) al momento del suo tracollo, avvenuto nel 2004. E il giudi-zio sugli Stati non è andato molto meglio: la crisi delle cosiddette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Singapore, Taiwan ecc.) fu tranquillamente ignorata dalle “tre sorel-le”, così come il default (inadempienza) dell’Argentina e dei suoi bond che sono diventati junk nel volgere di pochi giorni, ossia autentica “spazzatura”, anche in tal caso por-tando alla disperazione migliaia di piccoli risparmiatori, che si erano orientati su di essi attratti dai (presunti) alti rendimenti e dai suggerimenti delle banche incaricate di piazzarli sul mercato, che ne tessevano le lodi. Inoltre, anche ammettendo che i ritardi nella correzione dei rating dei titoli monitorati dalle società siano da impu-tare a “frizioni” di tipo tecnico o a difficoltà nel reperire in tempo reale le necessarie informazioni (ma spesso l’in-solvenza delle imprese è un fatto stranoto agli ambienti finanziari), vale a dire anche supponendo la buona fede delle società di rating nell’eseguire i loro incarichi, ri-mangono le negative conseguenze di queste tardive cor-rezioni di rotta, che possono avere quello che gli esperti chiamano “effetto prociclico”, ossia l’effetto di accelerare e amplificare una crisi già in atto, scatenando reazioni a catena che potrebbero essere evitate con una più accorta valutazione del rischio-impresa (e del rischio-sistema). Ciò significa che, a differenza degli errori “privati” di una qualsiasi impresa, che rimangono circoscritti al suo comparto e coinvolgono soltanto coloro che hanno diretti rapporti con essa, gli errori di una società di rating, per le loro implicazioni e l’effetto-domino che producono nei mercati, hanno rilievo “pubblico”, e pertanto vi sarebbe bisogno – secondo molti commentatori – di un puntuale e costante controllo da parte delle autorità che sovrinten-dono al funzionamento del mercato finanziario (come la SEC negli Stati Uniti).Per quanto riguarda il rating sul debito pubblico degli Stati, il problema degli eventuali “errori” provoca conse-guenze ancora più gravi. Intanto, va detto che il giudizio

dato dalle società di rating a uno Stato presenta le mede-sime caratteristiche di quello fornito a un’impresa privata, il che appare singolare, in quanto è chiaro che la “coper-tura” di un’istituzione pubblica – tanto più quando essa è un’istituzione-Stato – non è comparabile con quella di un’organizzazione di tipo privatistico. In secondo luogo, valutare uno Stato e i suoi strumenti finanziari alla stre-gua di una company significa non tenere in alcun conto le sue finalità sociali, le esigenze politiche che ne sono alla base e così via. Prendiamo un esempio recente: il caso della Grecia. Già da tempo Fitch e S&P davano della si-tuazione greca un giudizio molto negativo, considerando il suoi prodotti finanziari di debito a livello speculativo (BB+, secondo la nomenclatura della Standard), mentre Moody’s era attestata su un giudizio di sufficienza (A3). Ma proprio nel momento in cui il governo greco presen-tava all’Europa un piano di risanamento stabilendo dure misure a carico della cittadinanza (si è parlato, non a caso di “lacrime e sangue” che avrebbe dovuto sopportare il popolo greco), quest’ultima società modificava la propria valutazione di ben quattro livelli, portandola a Ba1, ossia a una condizione junk dei titoli ellenici. E ciò è avvenu-to senza che Moody’s abbia avuto modo di analizzare a fondo il programma di rientro della crisi predisposto dalla Grecia (che, fra l’altro, aveva provocato al proprio inter-no non poche agitazioni). Era chiaro, infatti, che l’Europa era intenzionata a sostenere lo sforzo di risanamento della Grecia, ma nonostante questo le “tre sorelle” hanno decre-tato praticamente il default di questo Paese, provocando uno scossone nel mercato finanziario (le Borse europee ne hanno risentito negativamente, bruciando in pochi gior-ni milioni di euro di capitale) e un netto peggioramento del tasso di cambio dell’euro contro il dollaro (è sceso al livello di 1,27 dollari per un euro, il più basso negli ultimi due anni). Per di più, il giudizio di Moody’s è stato accompagnato da un commento in cui veniva sottolineato il “rischio di contagio per il sistema bancario europeo”, e in particolare per “Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia e Gran Bretagna”. E questo ignorando – o volendo ignorare – il fatto che le banche più esposte sulla Grecia non sono quelle dei Paesi ora citati e, secondo Moody’s, nell’occhio del ciclone, ma quelle francesi e tedesche. Essendo stato espresso ufficialmente a mercati aperti, questo giudizio ha avuto l’effetto scontato di far cadere le quotazioni dei tito-li degli Stati indicati dalla società di rating, amplificando le difficoltà in cui si dibatte l’Eurozona. Qualcuno, forse malignamente, ha fatto notare che la pesante valutazione della Grecia data dalle “tre sorelle” e il paventato rischio che essa potesse estendersi ad altri Stati europei hanno, di fatto, favorito gli Stati Uniti e i titoli delle sue com-panies (oltre che i titoli del debito pubblico americano), che infatti hanno visto aumentare le loro quotazioni. Si tratterebbe, quindi, di un’altra forma, diciamo così “pla-netaria”, di conflitto d’interessi (le “tre sorelle”, non va

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dimenticato, sono tutte made in Usa): e difatti la Banca centrale europea non ha gradito il giudizio espresso dalle società di rating, considerandolo eccessivamente pena-lizzante e, soprattutto, “affrettato” (con buona pace per i ritardi che, in molti altri casi, hanno contrassegnato l’atti-vità di valutazione di queste società, e di cui ci siamo già occupati).

I sospettI dI connIvenza e dI corruzIoneGli errori di valutazione e/o i ritardi nell’aggiornamento dei rating non implicano, ovviamente, che le società che li esprimono siano necessariamente “in mala fede” (anche se è ben difficile “digerire” l’idea che esse pecchino con tanta frequenza di incompetenza o pressappochismo). Ma in diversi casi sono state lanciate vere e proprie accuse di connivenza (con le imprese “retate”) e di corruzione. Lo studio legale statunitense Grays & Ellsworth, ad esem-pio, ha presentato una denuncia in sede penale a carico delle “tre sorelle” per i loro numerosi interventi “tardivi” o “omissivi” verso società che hanno poi dichiarato falli-mento. In particolare, nel caso Lehman Brothers queste società avrebbero, dietro compenso, scelto i “titoli tossi-ci” che poi le banche collocavano sul mercato dando a quei titoli il relativo “voto”. Secondo Grays & Ellsworth le “triple A” si sprecavano, anche se dietro quelle obbli-gazioni vi erano crediti irrecuperabili, e quindi la mancata solvibilità delle imprese emittenti. In altra sede, il procuratore generale dell’Ohio, Richard Cordray, ha portato in giudizio le “tre sorelle” con l’accusa di frode ai danni di cinque fondi pensione dei dipendenti statali. Secondo l’accusa, le società avrebbero fornito in-formazioni distorte sull’affidabilità di alcuni investimenti, causando perdite per quasi mezzo miliardo di dollari. Tuttavia, se non si riesce a provare il coinvolgimento pe-nalmente sanzionabile delle “tre sorelle”, non sussistono altre ragioni per ritenerle responsabili dei tracolli borsi-stici degli ultimi anni. Infatti i loro giudizi, espressi attra-verso i rating, sono assimilabili a “informazioni giornali-stiche”, che possono essere liberamente seguite da tutti o, viceversa, rifiutate, e dunque non si può mai configurare, per esse, una responsabilità di tipo civilistico. In altri ter-mini, le “tre sorelle” non potrebbero mai essere chiamate a pagare i danni delle loro valutazioni, anche se esse si rive-lassero palesemente sbagliate o colpevolmente in ritardo. Non esiste – lo rammentiamo – un contratto fra la società di rating e l’investitore (come avveniva un tempo), ma tra essa e l’impresa emittente i titoli. Ed è quest’ultima, eventualmente, ad essere chiamata in causa dai risparmia-tori e dagli investitori per avere emesso titoli-spazzatura. Le società di rating, invece, hanno sempre opposto a ogni accusa l’argomento della “libertà di espressione”, rigoro-samente garantita dal I Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. E qui si manifesta l’ennesima anoma-lia: le società di rating, in definitiva, costituiscono l’unico

esempio di soggetti che svolgano attività di controllo (ga-tekeeping) ma che, per tale attività, sfuggono a qualsiasi responsabilità civile.

LO STATO DELLE COSE. Date le critiche che ha provoca-to l’attività di rating svolta dalle “tre sorelle” negli ultimi anni, si è parlato molto di individuare delle soluzioni che possano rendere i loro giudizi più obiettivi, sottraendoli al sospetto di conflitti d’interesse, e nel contempo possano evitare la turbolenza dei mercati indotta da essi. Peraltro, molte di queste proposte contengono delle “controindica-zioni” per cui, allo stato attuale, risulta difficile concepire una modifica sostanziale degli istituti del rating, quanto-meno in tempi brevi. C’è chi ha suggerito di ricorrere a un codice di condotta volontario (ma essendo “volontario”, ha poche possibilità di risolvere il problema), o alla naziona-lizzazione di queste aziende (ma il sistema capitalistico è, per definizione, contrario a qualsiasi “pubblicizzazione”); c’è chi ha proposto il ritorno al pagamento del servizio da parte degli investitori (impraticabile), chi l’apertura a una maggiore concorrenza facendo venir meno i requisiti NRSRO, o l’introduzione di una specifica responsabilità legale per negligenza o illeciti (anche questo di ardua per-corribilità), oppure la separazione fra l’attività di rating e quella di consulenza, ed altro ancora. Nel frattempo, l’Europa non è stata a guardare. Il Consiglio europeo, infatti, ha approvato nel luglio 2009 un nuovo re-golamento del settore bancario, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 17 novembre dello stesso anno (gli Stati avevano sei mesi di tempo per recepirlo), il quale prevede, con stret-to riferimento all’attività di rating, le seguenti specifiche: – le società che vogliono operare nella UE sono tenute a

registrarsi presso il Committee of European Securities Regulators (CESR);

– le predette società devono adottare tutte le misure ne-cessarie a garantire che l’emissione di un rating non sia influenzata da alcun conflitto d’interessi. Tra le misure per assicurare ciò vi è la rotazione degli analisti e la fis-sazione dei loro compensi in misura indipendente dal volume del fatturato. Inoltre, nel consiglio di ammini-strazione delle società vi dovrà essere almeno un terzo di membri indipendenti;

– le società sono tenute a pubblicare i modelli, le meto-dologie e le ipotesi che sottostanno all’emissione dei rating;

– le stesse dovranno astenersi dall’offrire servizi di con-sulenza.

Ma si è anche parlato, in seno all’Unione europea, della creazione di una o più agenzie (società) di rating europee, che possano svolgere la loro attività di valutazione e moni-toraggio sulle imprese dell’Eurozona e sugli Stati aderen-ti all’UE, al riparo, diciamo così, da possibili “influenze” nordamericane. Non sembra, tuttavia, che vi sia sufficiente accordo su questo punto.

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I GIUDIZI DI STUDIOSI ED ESPONENTI POLITICI SULL’ATTIVITà DELLE SOCIETà DI RATING

«Le agenzie di rating non dovrebbero sviluppare, commercializzare e valutare prodotti finanziari allo stesso tempo» (Guido Westerwelle, Ministro degli Esteri della Germania)

«Le agenzie hanno grande influenza sull’attuale processo decisionale europeo in materia di politica finanziaria e non dovrebbero averla. Non sono trasparenti, non soddisfano i criteri per qualificarsi. Sarebbe molto meglio se fossero pubbliche» (Dennis J. Snower, Presidente dell’Istituto di economia mondiale di Kiel)

«Queste agenzie hanno fallito fin dall’inizio della crisi finanziaria. Che motivo ha la Banca centrale europea di fidarsi delle loro valutazioni in questa fase critica?» (Peter Bofinger, economista tedesco)

«Le “tre sorelle” non sono solamente squalificate nella pretesa di valutare la solidità economica e finanziaria degli Stati e delle imprese, ma sono parte integrante del problema che sta portando il mondo economico verso il crack» (Elio Lannutti, Presidente AdusbEf)

«è una vergogna il modo in cui le agenzie di rating stabiliscono le loro pagelle sul credito, i voti di solvibilità» (Alejandro Cifuentes, economista spa-gnolo, ex dirigente di Moody’s)

«Il 93% dei titoli che nel 2006 ebbero il rating AAA, ovvero il massimo, in seguito sono stati declassati al rango “junk”, spazzatura, a dimostrazione che le agenzie sbagliano, e al loro sbaglio è legato il mercato globale» (Paul Krugman, economista statunitense, Nobel per l’economia nel 2008)

«Nessun soggetto che operi nel mercato evita di prendere sul serio le valutazioni delle società di rating. Anzi, la serietà con cui vengono prese è un po’ esagerata» (Wolfgang Schaeuble, Ministro delle finanze della Germania)

«Il mondo ha bisogno di più di tre agenzie di rating, perché i loro giudizi esacerbano le oscillazioni dei mercati» (Jean-Claude Trichet, Presidente della banca centrale europea)