Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 1 Analisi comparata delle Supply Chains nel settore ortofrutticolo Melaranci Michele, Università degli studi Roma III Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo

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Analisi comparata delle Supply Chains

nel settore ortofrutticolo

Melaranci Michele,

Università degli studi Roma III

Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo

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INDICE

1. INTRODUZIONE .................................................................................................................................... 4

1.1 OBIETTIVI E MOTIVAZIONI ........................................................................................................................ 6

1.2 LA FILIERA CORTA .................................................................................................................................... 9

1.2.1 Il Farmers’ Market ......................................................................................................................... 13

1.3 FOOD MILES ........................................................................................................................................... 17

2. ANALISI DELLA LETTERATURA ....................................................................................................... 22

2.1 PANORAMICA DEGLI STUDI SUL GENERE ................................................................................................ 22

3. METODOLOGIA ....................................................................................................................................... 29

3.1 CASE STUDY RESEARCH ......................................................................................................................... 30

3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani ...................................................................................... 32

3.1.2 CONAD, Genzano di Roma ............................................................................................................ 36

4. RISULTATI ................................................................................................................................................ 38

3.1 LE FILIERE DEI PRODUTTORI ................................................................................................................... 39

3.2 IL CONTRIBUTO DELL’ULTIMO CHILOMETRO ......................................................................................... 42

4. CONCLUSIONI ......................................................................................................................................... 47

5.BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................................... 54

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1. INTRODUZIONE

Uno dei processi demografici più importanti che ha caratterizzato tutto il secolo scorso è

stato il progressivo abbandono della vita contadina per una nuova vita in città. La

concentrazione delle funzioni produttive all’interno delle città, secondo una tendenza

sviluppatasi nei paesi occidentali a seguito della rivoluzione industriale, la domanda di

lavoro a basso costo, la crescita edilizia e il conseguente sviluppo dei servizi urbani,

creava le condizioni per ingenti spostamenti demografici dalla campagna alla città.

Diventava così possibile, per larghe fasce di popolazione, cercare condizioni di vita

migliori allontanandosi dalla fatica dei campi e vivere con i frutti della propria autonoma

capacità di emancipazione piuttosto che con quelli elargiti dalla terra. Le campagne si

svuotavano e grazie all’introduzione di nuove tecnologie nei macchinari agricoli, sempre

meno braccianti erano necessari alla produzione. L’urbanesimo del diciannovesimo e

ventesimo secolo che ha interessato in generale tutte le economie del mondo

occidentale più sviluppato, conosce una accelerazione vertiginosa negli ultimi

cinquant’anni fin oltre la fine del ventesimo secolo, seppure tra alterne pause che però

non hanno compromesso un paradigma di sviluppo economico centrato

sull’investimento immobiliare (Bartolini, 2010; Martinotti, 1993).

Nel 2006, in seguito ad una massiccia speculazione nel mercato immobiliare

americano, questo percorso esponenziale di sviluppo subisce una brusca interruzione.

Scoppia la bolla dei sub-primes e s’innesca una reazione a catena che getterà gran

parte delle economie del mondo in una profonda crisi economica che, fatte le debite

distinzioni tra contesti e congiunture che presentano diverse caratterizzazioni, perdura

ancora oggi. In questo nuovo mondo complicato dalla crisi, la città non è più solo un

luogo di aggregazione, un melting pot culturale, un polo di attrazione, è anche un luogo

di stenti, disagi e malessere. In questo nuovo contesto si ripropone, sia nelle

opportunità lavorative che nell’immaginario sociale, uno stile di vita che aspira alla

autosufficienza, per certi aspetti agreste, legato alla terra e lontano dalle ansie e dalle

paure che genera la vita urbana contemporanea. La sussistenza è riscoperta come

valore: si comincia a parlare di un ritorno alla terra (Cersosimo, 2012).

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Come in tutti i fenomeni sistemici ovviamente la spiegazione del perché il ritorno alla

terra sia percepito come una nuova opportunità, non risiede in un'unica variabile, ma è

piuttosto frutto dell’interazione nel tempo, di una moltitudine di esse. In questo caso

bisogna senz’altro considerare il processo di sensibilizzazione sul tema della

sostenibilità ambientale e di sviluppo virtuoso, che inizia nella seconda metà del

ventesimo secolo e con il rapporto Bruntland del 1987 si sancisce in modo formale il

paradigma dello sviluppo sostenibile: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi

i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di

soddisfare i propri ” (WCED,1987). Anche in Italia, dove la tradizione contadina è stata

forte e profondamente radicata nella cultura dei territori (INEA, 2013), scorgiamo un

incipiente fenomeno in gran parte promosso dalle nuove generazione che riscoprono il

lavoro dei padri e dei nonni, approcciandolo con tecniche e conoscenze nuove.

Per inquadrare il fenomeno, è necessario definire il contesto di riferimento con l’aiuto di

dati tratti dal sesto censimento sull’agricoltura del 2010. L’estensione del territorio

nazionale è di 302.071 km quadrati e la superficie agricola totale (SAT) italiana è pari a

17,1 milioni di ettari, di cui 12,9 milioni appartenenti alla superficie agricola utilizzata

(SAU). È importante considerare in questo ambito il fenomeno crescente della vendita

di prodotti direttamente in azienda, che rappresenta una grande novità, se intesa come

strutturata strategia di mercato (INEA, 2013). Se infatti in passato, questo metodo di

compravendita rappresentava (assieme al mercato cittadino) la via principale di vendita,

oggi diventa il modo per svincolarsi dagli schemi della grande distribuzione che

deprimono il valore in sé del prodotto. Sempre secondo i dati del 6° censimento

dell’agricoltura, sono 270.579 nel 2010, le aziende italiane che utilizzano il canale della

vendita diretta al consumatore (Ibidem). Esse rappresentano il 26% del totale delle

aziende che commercializza nei prodotti agricoli. Tale metodo di vendita è più diffuso

nelle circoscrizioni del Centro e del Sud Italia, dove la tradizione familiare della terra è

rimasta più radicata e la percentuale sale, rispettivamente, al 35% e 31%. Le regioni

che presentano il maggior numero di aziende con vendita diretta sono la Calabria, con il

16,3% sul totale delle aziende, la Sicilia (12,2%) e la Campania (11,7%). Scendendo

nel dettaglio della distinzione tra vendita diretta effettuata in azienda e vendita diretta

che avviene fuori dai locali dell’azienda, emerge che, a livello nazionale, è

maggiormente frequente la vendita in azienda, presente nel 78% dei casi (ibidem). Per

quanto riguarda la distribuzione delle aziende per regione e classe di superficie agricola

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si evidenzia una correlazione positiva tra le aziende di piccola dimensione e la

frequenza nell’utilizzo del canale di vendita diretta. Esse infatti non potendo sviluppare i

volumi delle grandi aziende agricole, aggirano volentieri le fasi intermedie della grande

distribuzione organizzata (o GDO) arrivando direttamente al consumatore senza diluire

il proprio profitto. Il 76% di queste aziende si concentra nella classe 0-3 ettari, la

percentuale scende al 21% per quanto riguarda la classe 3-5 ettari.

Per quanto concerne la forma giuridica assunta dalle aziende con vendita diretta, si

registra nel 94% delle unità la declinazione dell’impresa individuale, rispecchiando il

quadro generale delle aziende italiane nel settore agricolo. Significativo è, inoltre, il dato

che riguarda i dati sull’occupazione, dove possiamo notare che, in forte controtendenza

alla percentuale di disoccupati a livello nazionale (41%, 2013), dal comparto agricolo

provengono (per lo meno in riferimento ai giovani lavoratori) segnali incoraggianti: nel

2013 la classe di lavoratori al di sotto dei 35 anni impiegati in agricoltura ha registrato

un incremento del 5,1%. Agricoltura, ambiente e alimenti è un trinomio che attrae le

nuove generazioni che vogliono investire nel loro futuro, promuovendo la qualità con

tecniche diverse da quelle dei loro nonni. La facoltà di Agraria ha sorprendentemente

registrato nel 2013 un incremento delle immatricolazioni del 45%, a differenza delle

altre facoltà che complessivamente hanno registrato un calo del 12,5%. (Cersosimo,

2012).

1.1 Obiettivi e motivazioni

In questo quadro di rinnovato interesse verso il settore primario, ed in generale verso le

questioni ambientali, si inserisce il presente studio, basato sul presupposto che sia

giusto e necessario indagare le sfaccettature di un settore in così forte trasformazione.

Proprio perché deve necessariamente alimentarsi di una visione integrata delle qualità

del territorio, può fare del virtuosismo ambientale e qualitativo un obiettivo

imprescindibile.

L’idea della ricerca nasce principalmente dalla questione ambientale legata

all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le filiere logistiche della grande

distribuzione su scala nazionale e quella della piccola/micro distribuzione sono

enormemente diverse per un gran numero di variabili, prima fra tutte quella della

distanza. Infatti la distanza che percorre il cibo dal luogo di produzione alle nostre tavole

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gioca un ruolo fondamentale nella quantificazione dell’impatto ambientale ascrivibile alla

produzione alimentare.

Lo scopo della ricerca è quindi di determinare se la short supply chain produca

effettivamente un minor impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2 per

tonnellata di prodotto trasportata, rispetto alla filiera di distribuzione tradizionale.

Segnatamente riferite all'area dei Castelli Romani saranno prese in esame le filiere

logistiche di un mercato contadino e di un supermercato, al fine di quantificarne gli

impatti per ogni segmento.

Il contesto di riferimento è dunque quello dei Castelli Romani, dove la tradizione

contadina è ancora radicata, anche se fortemente ridimensionata negli ultimi trenta anni

a seguito della esuberante crescita della domanda immobiliare generata dalla capitale

che ha portato ad un consumo di suolo molto consistente a scapito proprio dell’area

agricola. Qui i mercati rionali, o settimanali, sono stati un tempo il luogo dove il

consumatore sapeva di poter acquistare i prodotti della propria terra, interfacciandosi

direttamente con il produttore, stabilendovi un rapporto di fiducia, che inevitabilmente si

è perso con l’avvento della grande distribuzione e quindi dei supermercati.

Anche il mercato rionale o settimanale, ha perduto con il tempo le proprie

caratteristiche, di piazza di distribuzione dei prodotti locali, trasformandosi sempre più in

mera agglomerazione di banchi di distribuzione di prodotti provenienti dai mercati

generali nazionali e internazionali. Questi non sono più da tempo i luoghi dove poter

apprezzare le tipicità nostrane dei Castelli Romani.

La ricerca, pertanto, muove da questo quadro contestuale e dal riconoscimento che il

fenomeno dei “mercati contadini” risponde proprio al vuoto di mercato creatosi con

l’insorgere di una maggiore sensibilità sociale e ambientale verso certi temi. In

definitiva, da una domanda rimasta inevasa rispetto ai quei criteri di genuinità, salute e

tipicità sopra richiamati.

Il luogo prescelto come studio di caso è il mercato contadino della cittadina di Ariccia, a

30 km da Roma.

All’incirca all’inizio del 2010 l’associazione Coltivendo istituisce l’organizzazione di

Farmer’s Market a cadenza settimanale. Essi sono infatti reperibili in alcune città dei

Castelli ed anche nel quartiere di Capannelle a sud Roma. Proprio nella capitale, le

associazioni Campagna Amica e Coldiretti, danno corpo a queste nuove esigenze di

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qualità e sostenibilità istituendo nel 2009 il Mercato dei Contadini in zona Circo

Massimo nell’antico mercato ebraico del pesce. Analizzando la letteratura specifica

vedremo come questi nuovi “centri commerciali di prossimità” stiano avendo un

rimarchevole successo. Il contatto diretto con il produttore, il biologico, lo “slow-food”, il

buono, pulito e giusto; la filiera corta in generale, sono ormai percepiti come valori

aggiunti ai prodotti ed il tutto non sarebbe certo possibile senza una presa di coscienza

forte da parte del consumatore.

Per questi motivi può essere interessante condurre una ricerca ambientale attraverso il

confronto con un supermercato inserito nella grande distribuzione organizzata da un

lato ed un mercato contadino dall’altro. Nonostante in prima analisi possa sembrare

scontato il risultato che si potrebbe ottenere da tale indagine, l’elevato numero di

variabili che si inseriscono possono ribaltare la conclusione in modo sorprendente.

Relativamente a tali questioni infatti, lo scenario italiano rappresenta un caso

abbastanza particolare, nel senso che gli schemi della grande distribuzione organizzata

non si sono affermati profondamente tanto quanto in altre realtà europee. L’Italia è

infatti caratterizzata da un basso grado di efficienza e integrazione del sistema logistico

ed un estensione delle filiere distributive più contenute della media (Marletto e Sillig,

2014). L’impatto ambientale ascrivibile al solo trasporto del cibo è stato, ed è tutt’ora

oggetto di grande dibattito nella comunità scientifica specializzata in logistica, agraria e

sviluppo sostenibile.

Una volta definito l’obiettivo principale del lavoro, va sottolineato però come la ricerca

non si esaurisca in questo. Nei prossimi paragrafi sarà trattato nello specifico il

fenomeno della filiera corta per definire il quadro di riferimento e fornire la percezione, al

di là della logistica, delle enormi potenzialità che possiede il commercio di prossimità

dal punto di vista economico, sociale e culturale.

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1.2 La filiera corta

Come già accennato, la crisi del modello economico dominante ha contribuito alla

nascita di modalità particolari di fare imprenditoria, nel campo dell’agroalimentare ad

esempio ha dato respiro a quelle realtà che si trovano a metà tra la conservazione di

tradizioni locali e la spinta innovativa di nuove generazioni di agricoltori e consumatori

(INEA 2012). Il concetto di filiera corta si definisce in contrapposizione alla grande

distribuzione organizzata (GDO), dove il ricavato del lavoro agricolo viene diluito dalla

moltitudine di passaggi che deve affrontare il prodotto. Attraverso l’abbattimento di molti

di questi passaggi si ottiene una filiera di distribuzione accorciata, dove il produttore si

riappropria di quel ruolo chiave, che da lungo tempo si era perso negli schemi della

distribuzione di massa, passando quindi da attore passivo ad attore attivo nel sistema

(Giuca, 2012).

Fig. 1: Giuca, 2012 p13

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Al concetto di filiera corta di distribuzione è giustamente associato quello di “chilometro

zero”, oltre alla riduzione degli intermediari commerciali vi è quindi una riduzione di

chilometri che il cibo percorre, dal luogo di produzione alla nostra tavola. In Italia questa

distanza è generalmente considerata di circa 100 km (Slow Food, 2013), mentre negli

stati uniti si considera un raggio di 100 miglia (Martinez et al., 2010). Secondo Parker

(2005) infatti, si può definire filiera corta di distribuzione un sistema nel quale distanza

geografica e numerosità degli intermediari è ridotta, solo combinando insieme questi

due criteri si può avere un network alternativo del cibo.

Anche Martinez (2010) concorda con tale definizione ed amplia questo concetto

riflettendo sul consumatore che associa alla propria comunità il cibo che viene prodotto,

elaborato e distribuito all’interno di un’area geografica circoscritta, inevitabilmente tutto il

processo si carica di attributi assolutamente estranei alla grande distribuzione. Quando

nel 1986 nasce l’associazione no-profit Slow Food Movement, fondata da Carlo Petrini,

che fa propri i concetti di cibo buono, pulito e giusto, raccoglie da subito un larghissimo

consenso espandendosi in tutta Italia ed arrivando oggi, ad essere attiva a livello

mondiale. La filiera corta non è dunque una moda, un fenomeno transitorio, ma

piuttosto una risposta fisiologica alla sempre più ridotta capacità d’acquisto del

consumatore unita alla crescente attenzione spostata sulla sicurezza alimentare (Slow

Food, 2013). In un contesto territoriale circoscritto, il cosiddetto «movimento del cibo» è

stato definito infatti come «uno sforzo di collaborazione per costruire un’economia

alimentare auto-sufficiente a livello locale in cui la produzione, la trasformazione, la

distribuzione ed il consumo del cibo sono attività integrate nell’obiettivo di migliorare la

salute economica, ambientale e sociale di un determinato luogo» (Kloppenburg et al.,

2000).

In tutte le regioni italiane, in aggiunta ai mercati contadini (Farmers’ Markets) si sono

diffusi altri diversi schemi di vendita diretta praticati già da molto tempo dai paesi

dell’Europa Settentrionale e Nord America come il metodo “Pick-your-own”, la tipologia

dei “Box-schemes”e i gruppi organizzati di domanda e offerta (GODO).

Il metodo del Pick-your-own (“raccoglitelo da te”, se si volesse tradurre), compare negli

anni ’20 e ’30, dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti. Nasce essenzialmente

per motivi di necessità, in quanto per gli agricoltori, nel periodo della grande

depressione, era più conveniente lasciar cogliere i prodotti dal terreno direttamente agli

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avventori, facendo così fronte ai costi di raccolta, imballaggio e trasporto (Guidi, 2009).

Oggi fortunatamente questa metodologia ha perso la caratteristica di sussistenza

dettata dalla disperazione che la contraddistingueva, e il pick-your-own viene vissuto

come un esperienza ricreativa, didattica, da fare in comune all’aria aperta, di riscoperta

e scelta del prodotto direttamente dalla terra (Hand & Martinez, 2010). Secondo il report

del 2010 di COLDIRETTI e AGRI2000, in Italia questo metodo di vendita continua ad

essere poco diffuso limitandosi ad essere praticato da non più di un centinaio di

aziende.

Fig. 2, Wareham, UK1.

La tipologia dei Box-schemes rappresenta il canale principale di vendita diretta del

Regno Unito ed è comunque molto diffusa in tutta l’Europa settentrionale. Consiste nel

ricevere (ogni una o due settimane) un box (cesto, cassetta ecc.) contenente prodotti di

genere agroalimentare forniti da uno o più produttori. Il consumatore in alcuni casi può

scegliere cosa ricevere, ma di norma non ha la possibilità di sapere quale sia il

contenuto del box, che viene riempito con i prodotti stagionali, freschi e disponibili al

momento, il prezzo invece viene concordato con il produttore (Slow Movement, 2013).

Quello che può sembrare dunque un commercio di nicchia, operato da piccole aziende

tradizionali e limitato agli amanti del biologico ed dell’eco-sostenibile, è invece una

normale consuetudine nelle società del nord Europa, nelle quali tantissimi produttori

1 Fonte: www.holmeforgardens.co.uk

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all’ingrosso dell’agroalimentare propongo servizi di box-schemes, che hanno successo

soprattutto tra la popolazione più anziana (Ibidem).

In Italia, la tipologia di vendita diretta dei Box schemes può essere individuata nei

gruppi d’acquisto solidale (GAS), nei quali gruppi di amici, colleghi, familiari o membri di

un’associazione, acquistano all’ingrosso dai produttori agroalimentari per motivi

ideologici o puramente economici (Giuca, 2012). Questi gruppi sono definiti solidali

perché si fondano sui principi etici della stagionalità, del biologico e dell’eco-sostenibilità

del prodotto. I GAS in Italia hanno una lunga tradizione, ma ne sono state stabilite in

modo formale le finalità, gli obiettivi, ma soprattutto l’aspetto non lucrativo, solamente

con la legge 244/2007, che all’art. 1, comma 266 così li definisce:

Fig. 3 Veg Box Delivering System2.

2 Fonte: http://www.myvegbox.co.uk/

“soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di

beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti,

con finalità etiche, di solidarietà e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi

istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita”.

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Un altro caso è rappresentato dai gruppi organizzati di domanda e offerta, in Italia sono

iniziative promosse dall’associazione AIAB3 (Associazione Italiana Agricoltura

Biologica), operando in un contesto normativo ben definito dal Reg. CE 2092/91. I

GODO possono essere visti come strutture che intervenendo in un contesto specifico,

hanno come obiettivo quello di far incontrare la domanda e l’offerta di prodotti biologici,

organizzando ordini e distribuzione ed imponendo controlli qualitativi comuni. Non

limitandosi a queste fasi, l’AIAB ha come scopo principale quello della tutela e della

riqualificazione dello spazio rurale e del ruolo del contadino nell’economia. Per

perseguire tale obiettivo offre una serie di servizi agli associati quali corsi di

aggiornamento e divulgazione di nuove tecniche produttive e tecnologie tramite

periodici, inoltre in sinergia con università ed enti di sviluppo e informazione, si occupa

di ricerca e perfezionamento nell’efficienza del metodo del biologico (D’Amico et al.,

2013).

Tra le tipologie di vendita diretta, la più diffusa e famosa è certamente quella del

mercato contadino (COLDIRETTI - AGRI2000, 2010), essendo proprio questa tipologia

il caso di studio di questa ricerca, si è ritenuto di approfondire l’argomento nel prossimo

paragrafo.

1.2.1 Il Farmers’ Market

Nel vasto panorama della filiera corta di approvvigionamento (short food supply chain) il

Farmers’ Market ha senz’altro un ruolo dominante (R. Tchoukaleyska 2013).

Rappresenta la declinazione più conosciuta di vendita diretta e sta avendo in generale,

una larga diffusione, soprattutto nelle zone con una forte tradizione contadina, dove il

prodotto tipico rappresenta una forma di identificazione culturale importante (Ibidem).

Anche in Italia l’argomento del “local-food” sta diventando sempre più popolare e

nell’ultimo decennio si sta avendo un inquadramento giuridico del fenomeno sempre più

puntuale. Il D.L. 228/2001 ad esempio permette ai contadini la vendita diretta del

prodotto esclusivamente proveniente dalla propria fattoria; il D.L. 1468/2002 invece

fissa il confine, entro il quale si può parlare di filiera corta, 80 km dal luogo di

3 Per saperne di più: http://www.aiab.it/

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produzione a luogo di vendita; infine, con il D.L. De Castro, del 20 Novembre 2007, si

offrono le linee guida per la creazione di mercati dedicati all’esclusiva vendita diretta,

all’identificazione dei soggetti che possono farvi parte e i termini di vendita dei prodotti

agricoli.

Questi spazi regolamentati fanno sovente riferimento alle due maggiori organizzazioni

Italiane specializzate nell’agroalimentare: lo Union Coldiretti sotto il brand “Campagna

amica” e “Earth Market” format di “slow food Movement”. La sola “Campagna Amica”

nel 2011 registra 878 FMs ed anche “Earth Market” acquista rapidamente popolarità

raggiungendo nel 2012, 23 mercati in Italia.

Tiemann nei suoi studi (2004) ha individuato diverse tipologie di mercati contadini:

street-markets, mercati del weekend o della domenica, mercati giornalieri urbani,

mercati in occasione di feste di paese. Tra questi si distinguono altre due categorie

principali: gli “indigenous market” i quali operano senza regole scritte, ma più che altro

con accordi informali fra i commercianti, e gli “experience markets” i quali si sviluppano

all’interno di un dettagliato insieme di regole prestabilite dagli stessi produttori. Nello

studio di R. Tchoukaleyska (2013) emerge come sia preponderante il ruolo degli stessi

attori dei FMs nel condurre un controllo severo in questi spazi: se il successo passa

soprattutto attraverso la percezione che ha il cliente del prodotto che compra e il

rapporto di fiducia che instaura con chi lo vende, i produttori sono autorizzati ad una

verifica qualitativa dei prodotti sui quali si abbia un sospetto, così da individuare ed

allontanare, chi cerca di ingannare il consumatore proponendo prodotti non genuini o

semplicemente non provenienti dall’area geografica stabilita (“fake farmers”).

Nei mercati locali si intrecciano relazioni immediate, personali e spontanee, si

scambiano informazioni sui prodotti e la loro produzione (Lyson e Green, 1999;

Hinrichs, 2000). Si stringe un legame che trascende il semplice ”andare a fare la spesa”

e diventa una occasione per venire in contatto con la comunità che si percepisce come

propria (Feenstra, 1997). Alcune amministrazioni locali virtuose utilizzano questo

fenomeno in senso politico preferendo l’affermarsi (o il valorizzarsi) di una comunità

agricola intrecciata al tessuto cittadino, piuttosto che lasciare spazio all’urbanizzazione

(Aubry et al., 2008).

Il grande successo del mercato contadino passa dunque soprattutto attraverso il clima

di sicurezza e familiarità nel quale si trova l’acquirente. Gli studi volti ad indagare sui

motivi che spingono ad acquistare in un farmers’ market hanno evidenziato come

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l’attributo “locale” riferito al cibo giochi un ruolo chiave (Szmigin et al., 2003;Youngs,

2003; Zepeda e Li, 2006; Connell et al., 2008; Feagan e Morris, 2009).

Meno evidenti appaiono invece le motivazioni economiche che spingono all’acquisto. Si

può essere spinti a pensare infatti che i beni commercializzati attraverso il canale della

vendita diretta siano percepiti come più economici (Festing, 1998), ma da altri sudi

emerge, al contrario, come l’aspetto economico sia poco o per nulla considerato,

rispetto ai consumatori dei supermercati tradizionali (Brown, 2002; Mc Garry et al.,

2005).

In altri studi ancora è stata addirittura rilevata, nei confronti dei prodotti locali, una

willingness to pay (disponibilità a pagare) più alta rispetto a prodotti Bio od OGM-free

(Louriero e Hine, 2002; Darby et al., 2006). Oltre alla garanzia di freschezza e genuinità

quindi va tenuta in forte considerazione la tendenza ad attribuire ai prodotti provenienti

dal proprio territorio un valore aggiunto importante, anche perché si sente di dare

sostegno alle aziende locali e per associazione all’economia del territorio al quale si

sente di appartenere (Carey et al., 2011).

Nel report dell’associazione inglese Friends of the Earth (2000) è stato condotto uno

studio qualitativo, monitorando diversi farmers’ market in territorio statunitense per un

periodo di quindici anni, essendo negli Stati Uniti, una realtà ben consolidata (Ibidem).

Emerge come si generino meccanismi virtuosi, ad esempio nel rafforzamento

dell’economia locale e nella sua diversificazione, generando occupazione ed

aumentando il volume delle spese circoscritte ad una precisa area geografica, inoltre si

ritiene che possa incrementare il flusso turistico data la naturale nota folcloristica che

contraddistingue questi eventi (Hilchey et al., 1995). È molto importante questo

contributo fornito alle aree rurali e periferiche in termini di occupazione e di slancio

economico. Ad esempio nell’area della Cornovaglia, dove sono spesi 500 milioni di

sterline all’anno nell’approvvigionamento del cibo, per il 75% esso è reperito al di fuori e

si calcola che se si riducesse questa percentuale dell’ 1% si registrerebbe un

investimento nell’economia locale pari a 5 milioni di sterline (Ross, 2000).

Dunque, il contadino trae giovamento da questo schema in quanto diventa di nuovo il

price maker del proprio prodotto e può rendersi competitivo in un mercato diverso da

quello globalizzato, nel quale altrimenti avrebbe un sottile margine di guadagno (Hilchey

et al., 1995) o forse non riuscirebbe a sopravvivere affatto. Un’altra caratteristica

importante dei FMs è quella, infatti, di permettere alle tante piccole imprese

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agroalimentari di continuare la propria attività, oltre che rappresentare, per quelle

aziende più grandi, un’utilissima occasione di extra profitti e diversificazione (Ibidem).

Un’altra ragione di virtuosismo, sempre più popolare, è legata all’impatto ambientale

contenuto che hanno i mercati contadini ed in generale tutte le forme di filiera corta di

approvvigionamento. Fondamentalmente la riduzione dell’impatto può essere ascritta

ad una minore produzione di rifiuti legati alla produzione, con particolare riferimento alla

fase finale del packaging (Festing, 1998), e soprattutto alla grande riduzione di kilometri

e quindi di CO2 emessa, che deve percorrere il cibo dal luogo di produzione alla tavola

(Ibidem). Questa distanza prende il nome di “food miles”, attorno a questo concetto

sono stati condotti numerosissimi studi ed in letteratura si è creato un acceso dibattito

sul ruolo delle food miles nella quantificazione dell’impatto ambientale di una filiera di

distribuzione. La domanda principale che ricorre in tantissimi studi è infatti se la

riduzione dei chilometri del cibo inneschino automaticamente una riduzione delle

emissioni totali. Prima di entrare nello specifico è opportuno definire più precisamente

cosa siano le Food Miles e come si inseriscono in questa discussione.

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17

1.3 Food Miles

Il tema delle food miles inizia ad acquistare importanza durante l’ultimo decennio del

secolo scorso, in un momento della nostra storia nel quale la sensibilità ambientale

comincia a perdere la connotazione puramente filosofica ed un po’ elitaria che prima la

distingueva, per diventare sempre più drammaticamente una seria necessità (WCED,

1987). L’autore più prolifico e teorico del concetto di food miles è senza dubbio Tim

Lang, che nell’articolo (ancora intriso di filosofia) scritto insieme ad Heasman, “Food

Wars” (Tim Lang & Michael Heasman, 2004), redige le 15 regole da seguire per un

consumo consapevole e sostenibile:

Tim Lang (2004)

� Mangia meno e meglio

� Mangia in modo semplice

� Mangia morigeratamente

� Mangia in modo solidale: non togliere il cibo da un’altra bocca!

� Adotta una dieta vegetariana e mangia carne con parsimonia, se proprio devi

� Apprezza la varietà; ricerca la biodiversità dal campo al tuo piatto; punta ad

assumere 20-30 specie diverse a settimana

� Pensa ai combustibili fossili; l’energia utilizzata per trasportare il cibo da te o te

al cibo = consumo di petrolio

� Mangia cibi stagionali se possibile

� Mangia in accordo ai principi di prossimità, nel modo più locale possibile;

supportando I produttori locali

� Impara a cucinare velocemente pasti semplici; limita il cibo ricercato alle

occasioni speciali

� Sii preparato a sopportare tutti i costi delle esternalità prodotte , se non lo farai

lo dovranno fare altri

� Bevi acqua, non bibite

� Stai attento agli ingredienti nascosti; controlla l’etichetta per individuare I Sali e

gli zuccheri non necessari; se ve ne sono, non comprare

� Educa te stesso senza diventare nevrotico!

� Goditi il cibo nel breve periodo, ma preoccupati del suo impatto nel lungo; sii

fiducioso. È il tuo cibo, il futuro dei tuoi figli!

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Successivamente, in un altro articolo nel 2005, definisce per la prima volta i chilometri

percorsi dal cibo, riflettendo sul loro ruolo nel totale dell’impatto ambientale, nello stesso

anno è stato infatti pubblicato il report del Department for Environment, Food & Rural

Affairs (DEFRA), il quale si è occupato soprattutto di stimare l’attendibilità dell’indicatore

delle food miles:

Tim Lang (2005)

Nell’articolo “locale/globale (food miles)” pubblicato dalla rivista Slow Food (Bra, Cuneo)

nel 2006, giustifica importanza crescente dei chilometri del cibo attraverso una

esperienza diretta di negoziazione con i policy makers del GATT (General Agreement

on Tariffs and Trade):

Tim Lang (2006)

“The idea behind food miles was and remains simple. We wanted people to think about where

their food came from, to reinject a cultural dimension into arcane environmental debates about

biodiversity in farms. The Defra report confirms that there is a real problem. Food miles have

rocketed in recent years. Between 1978 and 2002, the amount of food trucked by heavy goods

vehicles (HGVs) increased by 23%. And the distance for each trip increased by over 50%. (…)

But consumers also contribute to the food-miles problem. Car use for buying food in towns has

risen by 27% since 1992. (…)

So what can shoppers do? Simple: shop locally and buy local produce.”

“I chose to highlight this issue at that time, as I was writing and campaigning a lot about the

absurdity of food trade. I was working in a NGO, with others around the world, trying to

persuade policy-makers renegotiating the General Agreement on Tariffs and Trade (GATT, the

forerunner of the World Trade Organisation) to think about the public health and environmental

implications of their proposals to liberalise trade in agricultural products. Big food

manufacturers and traders, obviously, wanted to open up new markets. They saw

environmental, health and cultural critics as small-minded protectionists, against progress. My

colleagues and I took a different view. That what is meant by ‘progress’ is something to be

debated. Progress for whom? At what cost?”

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Inizia una vera e propria battaglia per le food miles perpetrata attraverso la

pubblicazione, con diversi team di scienziati del settore, di report sull’affidabilità di

questo concetto come indicatore dell’impatto ambientale delle filiere logistiche e di

sensibilizzazione in generale sul tema. Da un punto di vista strettamente scientifico

dunque, lo studio più sostanzioso è stato condotto nel 2005 da un team di scienziati

facenti riferimento al UK Department of Environment, Food & Rural Affairs (DEFRA) con

lo scopo di individuare un indicatore capace di riassumere adeguatamente i termini e le

cause dell’impatto ambientale legato all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le

conclusioni di questa ricerca si possono riassumere in quattro punti principali:

1. Si conclude che un singolo indicatore basato esclusivamente sui chilometri totali

percorsi dal cibo risulta limitativo, l’impatto legato al trasporto è infatti un fenomeno

complesso determinato dall’interagire di diverse variabili, per questo invece di un

singolo indicatore risulta opportuno integrare l’analisi con un insieme di questi, capaci di

interagire.

2. È stato possibile creare un database contenente, ad esempio, i fattori di emissione

per segmento logistico e per tipologia di trasporto (che si suddivide principalmente in

trasporto su gomma, su ferro, via mare e via aria), capace di aggiornare su base annua

un insieme significativo di indicatori.

3. Il trasporto del cibo registra un significativo incremento, solo nel Regno Unito ad

esempio arriva ad impiegare un quarto di tutti gli HGVs (heavy goods vehicles)

circolanti, i quali risultano essere i mezzi più inquinanti della categoria di trasporto su

gomma. I chilometri per tonnellata trasportata (t/vkm) percorsi sono aumentati del 36%

dal 1991 al 2002 e in riferimento ai chilometri percorsi in ambito urbano (comprendenti

anche agli spostamenti del consumatore) si registra per gli stessi anni un incremento

del 27%. È stato rilevato inoltre che il metodo di trasporto merci condotto via aria risulta

avere l’impatto maggiore in termini di emissioni di CO2. Esso contribuisce solo per lo

0.1% dei chilometri percorsi in totale, per il trasporto di cibo, mentre raggiunge l’11%

per il contributo fornito alle emissioni totali ed ha avuto un incremento di impiego del

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140%. Il grafico in figura 4 mostra la percentuale di emissioni associate al metodo di

trasporto, nel Regno Unito.

HGV UK33%

HGV UK to overseas

12%HGV overseas

12%

LGV UK6%

LGV overseas2%

Car13%

Rail0%

Sea12%

Air long haul10%

Air short haul0%

HGV UK33%

HGV UK to overseas

12%HGV overseas

12%

LGV UK6%

LGV overseas2%

Car13%

Rail0%

Sea12%

Air long haul10%

Air short haul0%

Fig. 4, DEFRA, 2005 p31.

4. Il costo socio-economico derivante dall’inquinamento e dalla congestione del

traffico è enorme ed è stato quantificato, con una metodologia che prende in

considerazione un elevato numero di variabili (come inquinamento atmosferico,

acustico, danni alle infrastrutture, incidenti, congestione del traffico ecc..), in 9 miliardi di

sterline ogni anno.

Le Food Miles hanno quindi una funzione molto importante negli studi volti a

considerare l’impatto ambientale delle filiere di approvvigionamento, ma come abbiamo

visto devono essere integrate da altri indicatori. I chilometri del cibo infatti risentono di

alcuni effetti che distorcono e annullano l’effetto distanza, è il caso ad esempio

dell’orticoltura intensiva, potrebbe infatti essere più conveniente in termini di dispendio

energetico ed impatto ambientale, importare determinate tipologie di prodotti da paesi

caldi a quelli freddi, piuttosto che coltivarli in territorio nazionale in serra. Uno studio

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svedese mostra infatti come il consumo di pomodori freschi provenienti dai paesi del

sud Europa generi meno emissioni di gas serra del consumo dello stesso bene,

prodotto localmente. Si evince infatti che il pomodoro coltivato in Svezia sotto serra

abbia bisogno di circa 10 volte l’energia utilizzata per coltivarlo in un campo di uno stato

mediterraneo (Carlssonn-Kanyama et al., 2003). Ancora, in un altro studio il “local is

good” viene messo in discussione, analizzando la produzione di mele del regno unito

stagionalmente e fuori stagione, si conclude che importando da paesi più caldi, prima

che inizi in Gran Bretagna la stagione delle mele, faccia aumentare l’efficienza

energetica e quindi riassorbire l’impatto ambientale ascrivibile al lungo trasporto (Milà i

Canals et al., 2007). Si riscontra inoltre che la riduzione dei chilometri del cibo

incrementerebbe il traffico locale generando conseguentemente sempre più frequenti

congestioni, incidenti e le altre esternalità negative legate al traffico e come puntualizza

Waye (2008), una mole di emissioni certamente maggiore rispetto ai lunghi trasporti

oceanici, ad esempio, o comunque ai trasporti operati con veicoli con grande capacità

di carico (load factor), capaci di diluire l’impatto per tonnellata trasportata.

Anche dopo una breve introduzione dell’argomento appare chiaro come l’utilizzo di un

indicatore capace di spiegare le dinamiche ambientali, sociali ed economiche di un

fenomeno sia un lavoro complesso. Nel prossimo capitolo dedicato alla scelta

metodologica, si cercherà di far luce sul problema esaminando alcuni risultati di

importanti studi e nel contempo, saranno commentati la moltitudine di approcci operativi

rilevati nei lavori onde giustificare l’approccio metodologico adottato per questa ricerca.

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22

2. ANALISI DELLA LETTERATURA

Per introdurre l’approccio metodologico scelto per questo lavoro si reputa necessario

prima di tutto avere una panoramica dei lavori svolti sull’argomento. Attraverso l’analisi

della letteratura sarà possibile delineare gli obiettivi e gli scopi principali delle ricerche e

stabilire quindi che linea operativa da adottare per perseguire i propri.

2.1 Panoramica degli studi sul genere

In questo capitolo verranno presentati, in ordine cronologico, alcuni dei lavori più

interessanti svolti sul tema del commercio di filiera corta (ciascuno ovviamente con un

focus di ricerca diverso) e sul comportamento del consumatore, che hanno apportato un

grande contributo agli studi in questo ambito.

Nel 1998 viene pubblicato il lavoro di Hanley (et al.). “Contingent valuation versus

choice experiments: estimating the benefits of environmentally sensitive areas in

Scotland”. Lo studio si occupa di operare un’indagine attraverso il Contingent Valuation

Method e il Choice Experimet per determinare la disponibilità a pagare (DAP o

willingness to pay) del consumatore per tipologie di prodotti che ridurrebbero l’impatto

ambientale in una Environmentally Sensitive Area (ESA) scozzese.

Lo studio non è quindi esattamente incentrato sulle filiere commerciali alternative, ma

comunque rappresenta uno dei primi studi nei quali vengono utilizzati strumenti

sociologici ed econometrici per far luce sull’impatto ambientale. Sono quindi chiariti

punti di forza e limiti del Contingent Valuation Method (CVM) e del Choice Experiment

(CE), giungendo alla conclusione che il CVM può essere più utile per la determinazione

di una policy generale, ma risente inevitabilmente delle distorsioni derivanti da dati

particolari, mentre nel CE c’è la possibilità di disaggregare molti risultati e valori

valutando singolarmente le caratteristiche fondamentali che compongono la policy. Le

potenzialità dell’individuazione di una DAP in relazione a questi beni, sono enormi.

Abbiamo già parlato di come studi sociologici abbiano rilevato come l’attributo “locale”

giochi un ruolo chiave nella scelta del prodotto, interessanti strategie di business

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potrebbero essere quindi realizzate se supportate nella fase preliminare da studi come

questo (Janssen, 2010; Gracia, 2012; Gracia, 2014; Kathryn A. Boys et al., 2014).

Lo studio di Pretty (et al.), “Farm costs and food miles: An assessment of the full cost of

the UK weekly food basket”, del 2005, si pone l’obiettivo di quantificare il costo totale

dei prodotti contenuti in un box ideale (box schemes) nel regno unito, segmentando il

percorso che il cibo percorre dal campo alla tavola. Viene adottata quindi una

metodologia improntata su costo marginale: si quantificano i costi dell’inquinamento in

base alle esternalità negative che si riflettono sul prodotto. Sulla base dei dati si giunge

quindi alla conclusione che il consumatore dovrebbe pagare il 3% in più se tutti questi

costi fossero cumulati nel prezzo finale del prodotto. Dallo studio appare anche come se

il prodotto avesse origine entro un raggio di 20 km dal punto di consumo, i costi

ambientali sarebbero ridotti del 90%, infine in linea con molti altri studi appare come il

cosiddetto ultimo chilometro (lo spostamento del consumatore) incida pesantemente nel

bilancio complessivo.

L’articolo “The ecology of scale: assessment of regional energy turnover and

comparison with global food” di Schlich (et al.) dello stesso anno, si pone come obiettivo

la quantificazione del dispendio energetico relativo alle filiere distributive degli alimenti

nel Regno Unito. Viene posta particolare attenzione nel confrontare l’impianto logistico

delle piccole compagnie e di quelle, che invece, operano a livello globale.

Sorprendentemente appare chiaro come l’efficienza energetica delle filiere logistiche sia

direttamente proporzionale alla grandezza delle imprese, nello specifico risulta come

una piccola/media impresa di trasporto (di frutta in questo caso) abbia un consumo di

energia che oscilla tra 0,5 - 0,8 kWh/l (valore relativo al litro di prodotto trasportato),

mentre a dispetto delle enormi distanze percorse, un’impresa di livello globale registra

un consumo compreso tra 0,1 – 0,3 kWh/l. Non è comunque possibile generalizzare in

quanto è stato registrato come anche piccole imprese riescano a competere con i

colossi globali. I risultati di questo studio mettono quindi in luce un aspetto

fondamentale del dispendio energetico legato al trasporto del cibo, quello della

grandissima attenzione dedicata all’assetto logistico da parte delle organizzazioni di

livello globale, supportata anche dall’enorme load factor dei veicoli impiegati, che

consentono una forte diluizione dell’impatto per tonnellata trasportata.

Lo studio di Schlich adotta in parte la linea operativa della valutazione del ciclo di vita

del prodotto (life cycle assessment o LCA), che come definito dalla norma ISO4 14040 e

4 International Organization for Standardization.

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14044, che standardizzano la procedura a livello internazionale, si occupa di indagare

come tutte le fasi di produzione del prodotto interagiscano con l’ambiente in termini di

impoverimento delle risorse, qualità dell’ecosistema, salute umana ed anche impatti di

carattere economico e sociale. Il Life Cycle Assessment viene dunque largamente

utilizzato anche in questi campi della ricerca ed è sovente integrato con strumenti

statistici, in altri studi ha messo in luce ad esempio come vi sia una scarsa correlazione

fra i diversi sistemi agricoli (integrato o organico) e gli impatti ambientali indicati nella

procedura, mentre risulta cruciale l’organizzazione che si da al sistema agricolo, nello

specifico la scelta di destinare una certa parte degli input di produzione a fattori rilevanti

sotto il punto di vista dell’impatto ambientale, come serre, pesticidi, fertilizzanti (Mouron

et al, 2006). In altri studi ancora, determinando il dispendio energetico (quantificato in

Mj/kg) per tutto il ciclo di produzione (coltivazione, stoccaggio, trasporto), si evince

come esso risulti minore per prodotti non importati anche se non stagionali (Milà i

Canals et al., 2007) e ancora, come la concezione filosofica positiva del local-food e

l’utilizzo delle food miles, come indicatore chiave dell’impatto ambientale, possano

essere fortemente riduttivi o addirittura errati (Ibidem).

Va però ricordato che non è possibile standardizzare questa affermazione, che è valida

per un determinato caso studio e può non esserlo affatto per un altro (Eduards-Jones et

al., 2008). Altri autori hanno invece fatto delle food miles il cardine dei loro studi,

integrando ovviamente con molti dei contributi forniti dalle ricerche LCA, come ad

esempio l’attenzione sul dispendio energetico in fase di produzione e in fase di

stoccaggio. Emerge come grandi ipermercati abbiano in proporzione un efficienza

logistica ed energetica maggiore di centri più piccoli, che è però compensata in negativo

dall’ultimo chilometro o spostamento del consumatore (Rizet et al., 2008). In altri casi

ancora, l’individuazione della DAP correlata, in questo caso, alla minore emissione di

CO2 ha evidenziato risultati interessanti. In uno studio condotto in Giappone realizzato

con la metodologia del Real Choice Experiment emerge come essa aumenti con

l’incremento della consapevolezza del consumatore nei confronti delle emissioni per le

varie fasi produttive. Un altro risultato interessante riguarda la composizione del

campione di indagine, un gruppo di giovani con un buon livello di istruzione saranno

disposti a pagare di più (0,417 yen per la riduzione di un grammo di CO2) e ancor più

volentieri di un campione generazionale diverso, per bassi livelli di emissioni totali

associati ad un prodotto. È auspicabile in futuro infatti, che l’etichettatura dei generi

alimentari (tutti e in tutto il mondo) mostri le informazioni relative all’impatto ambientale

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espresso in emissione di CO2 ovvero di dispendio energetico in modo da permettere la

diffusione di una cultura del consumo consapevole, ma anche perché, come dimostrato,

può essere economicamente profittevole (Aoki, 2009). Rimanendo sull’argomento,

nell’indagine condotta da Jerome K. Vanclay (et al., 2011), su un paniere di beni

eterogeneo venduti in un supermercato per un periodo di 3 mesi, si raggiungono

conclusioni simili. Nello specifico si ottengono risultati statisticamente rilevanti solo

quando il prodotto etichettato come migliore, in termini di “carbon footprint” è anche il

più economico e registra infatti un incremento di vendite del 20%.

Fig. 5 Eco-Label5, si possono notare il paese di provenienza e i chilometri percorsi.

In un altro studio condotto in Italia (Caputo, 2012) nel campo dell’agroalimentare,

attraverso l’utilizzo della metodologia dei modelli a scelta discreta, si giunge alla

conclusione che il consumatore sarebbe fortemente interessato ad avere informazioni

sul prodotto che riguardano principalmente i chilometri percorsi dal cibo e il suo tempo

di percorrenza. Il 55% del campione intervistato sostiene infatti che lunghe distanze e

tempi di percorrenza incidano negativamente sulla qualità e genuinità del prodotto,

mentre circa un terzo associa alle grandi distanza effetti negativi in termini di emissioni

di CO2. L’adozione di un sistema di etichettatura riportante informazioni sulle food miles

potrebbe ridurre l’asimmetria informativa esistente su questo tipo di prodotti

accrescendo l’utilità per una tipologia (sempre meno di nicchia) di consumatori

consapevoli. Va detto comunque, che per assecondare queste nuove esigenze di

5 Fonte: http://www.treehugger.com/green-food/far-foods-food-mile-labeling-lays-on-guilt-trip.html

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qualità e sostenibilità, pur non mostrando food miles o l’ammontare di dispendio

energetico, il tema dell’ecolabelling ha acquisito importanza, non solo per i classici beni

alimentari, ma per tutta un’altra gamma di prodotti, rappresentando un valore aggiunto

da sfoggiare sul mercato per spiccare sulla concorrenza. Ad esempio, in base al

regolamento CE n. 66/2010, è stata creata una Eco Label che attesta il basso impatto

ambientale dei prodotti nel loro intero ciclo di vita. Si riferisce ad un paniere ristretto di

beni che non hanno a che fare con le risorse e i prodotti alimentari (detersivi, saponi,

elettrodomestici ed apparecchiature elettroniche in generale, carta, accessori per la

casa e per il giardinaggio, abbigliamento, servizi turistici e lubrificanti) e l’assegnazione

di Eco Label ai prodotti italiani rappresenta più del 50% sul totale dei paesi europei (fig.

6).

9067

3839

1616

663

441

322

317

291

285

278

635

Italia

Francia

Regno Unito Paesi Bassi

Spagna

Svezia

Germania

Finlandia

DanimarcaUngheria

Altri

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317

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278

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Italia

Francia

Regno Unito Paesi Bassi

Spagna

Svezia

Germania

Finlandia

DanimarcaUngheria

Altri

Fig.6, Numero di licenze EU Eco Label rilasciate per paese (Gennaio 2012)6

In riferimento invece ad Eco Labels per prodotti alimentari, abbiamo tantissimi esempi di

certificazioni7, le quali godono di un buon indice di gradimento da parte dei consumatori,

che percepiscono la cosa come un possibile aumento di utilità economica come già

6 Fonte: http://ec.europa.eu/environment/index_en.htm

7 Indice delle maggiori certificazioni di qualità e sostenibilità ambientale:

http://www.ecolabelindex.com/ecolabels/?st=category,food

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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detto, ma anche ambientale, etica e salutare (Erskine et al., 1997; Walter e Smidt,

2008; A.N. Sarkar, 2012; Bradu et al., 2014). La sovrabbondanza di informazioni o di

marchi su un prodotto però possono generare confusione nel consumatore incidendo

sulla volontà d’acquisto, come dimostrato nel report della Commissione Europea

sull’ambiente del 2011, che comunque in generale concorda con la linea che sostiene

gli effetti positivi dell’ecolabelling. Sarebbe auspicabile in futuro assistere ad una

unificazione dell’etichettatura di questo tipo, stabilendo ad esempio standard ISO, come

è stato fatto nel caso della metodologia LCA (Brady e Noble, 2008).

Le filiere logistiche locali e il commercio a chilometro zero, che possono sembrare

tematiche non troppo complesse in prima analisi, si rivelano dunque tanto più difficili da

analizzare tanto più si allarga e si dettaglia il focus della ricerca. Il dibattito è più che mai

aperto e sempre più articoli godono dei contributi non solo di esperti di logista ed

impatto ambientale ma anche di economisti, sociologi e filosofi politici. È stata infatti

applicata a queste tematiche un’interessante metodologia di ricerca (impiegata di solito

per indagini di marketing e policy pubblica) capace di generare una sinergia tra gli

studiosi esperti in diversi campi, utile a trarre conclusioni sulla domanda di ricerca che ci

si pone, è il caso del Delphi Method. Attraverso la consultazione di un “panel” di esperti,

passando per varie fasi dette “round”, si cerca di far convergere le opinioni verso una

singola conclusione. Uno dei primi studi condotti in questo modo sull’argomento

dell’agroalimentare è italiano a cura dei professori dell’università Alma Mater Studiorum

di Bologna, Claudia Bazzani e Maurizio Canavari. Nell’articolo del 2013 “Forecasting a

scenario of the fresh tomato market in Italy and in Germany using the Delphi method”, è

svolta una ricerca qualitativa sul mercato del pomodoro fresco in Italia e in Germania ed

anche in questo caso si conclude che esso può essere fortemente influenzato da

certificazioni di qualità e tipicità sul prodotto.

Esistono diversi tipi di approcci metodologici allo studio delle filiere agroalimentari

alternative e come si può evincere da questa breve analisi della letteratura ognuna è

mirata allo studio di uno specifico fenomeno qualitativo o quantitativo. A questo punto è

evidente come l’individuazione di un area di ricerca precisa possa risultare cruciale per

il conseguimento degli obiettivi e può generare a volte risultati interessanti. Nel caso di

Marletto e Sillig (2014) si è rilevata una maggiore efficienza in termini di impatti

ambientali, ascrivibili alle tonnellate di output trasportate, di una media impresa rispetto

ad una di livello nazionale. In altri, ad esempio, lo studio di due mercati contadini, uno in

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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ambito urbano ed uno in periferia mostra come il farmers’ market cittadino abbia una

performance ambientale migliore, perché abbatte i tempi di viaggio (Mundler et al.,

2012). Il focus di ricerca scelto per uno studio è definito caso di studio (case study) e

prima di parlare di quello relativo a questa ricerca è opportuno definirne, nel prossimo

capitolo, l’impianto teorico.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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3. METODOLOGIA

Questa ricerca si pone come obiettivo la quantificazione dell’impatto ambientale di due

fenomeni simili, ma strutturalmente diversi: il commercio di filiera corta e quello

tradizionale di un supermercato. Come abbiamo visto, vi sono caratteristiche particolari

che contraddistinguono entrambi i casi e sicuramente la variabile logistica spicca per

importanza. Per questo motivo, dopo un’analisi letteraria è stata tratta maggiore

ispirazione dallo studio svolto dai prof. Gerardo Marletto e Cécile Sillig. Nel loro articolo

del 2014 “Environmental impact of Italian canned tomato logistics: national vs. regional

supply chains”, vengono prese in analisi le filiere relative alla distribuzione del

pomodoro in scatola di due diverse aziende produttrici, una che opera a livello

nazionale (CIRIO) e l’altra circoscritta alla sola Sardegna (CASAR). In questo studio

sono dettagliatamente analizzati tutti i segmenti della produzione, dalla raccolta alla

trasformazione infine alla tavola e si giunge alla conclusione che l’organizzazione

logistica del brand di livello nazionale sia meno efficiente di quella del produttore

regionale. Nello specifico si è osservato come le grandi distanze percorse non siano

assorbite dal maggiore load factor e da un ben strutturato impianto logistico,

diversamente dal produttore regionale, che risulta più organizzato sotto questo punto di

vista e conta molti punti vendita che possono essere raggiunti a piedi dal consumatore,

abbattendo così l’effetto negativo derivante dall’”ultimo chilometro”. Anche in questo

studio emerge infine come il reperimento dei prodotti da parte del consumatore incida

enormemente sull’ammontare di CO2 totale emessa, se si utilizza l’automobile.

Adattando questa struttura metodologica al presente lavoro è stato possibile anche in

questo caso suddividere le filiere distributive in segmenti logistici per poi calcolarne i

singoli impatti, distinguendo per stili di guida diversi 8 ed utilizzando lo stesso indicatore

usato in Marletto e Sillig. Per calcolare un impatto ambientale è essenziale definire le

qualità dell’indicatore da sfruttare in base agli obiettivi da perseguire, essendo il focus

della ricerca indirizzato appunto al peso ambientale delle filiere, ho scelto l’emissione di

CO2/km per tonnellata di prodotto trasportata, in modo da poter attribuire l’impatto

direttamente ai beni di riferimento in relazione ovviamente ai chilometri percorsi per il

loro trasporto. Nelle questioni ambientali l’indicatore principalmente usato sono le

8 Cfr. fig 14, cap. 4

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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emissioni di CO2, considerato il principale responsabile del surriscaldamento globale.

Per quanto riguarda il livello di impatto sulla salute umana invece viene spesso

utilizzato (come anche in Marletto e Sillig) l’indicatore generico PM10: ovvero Materia

Particolata dal diametro aerodinamico inferiore o uguale a 10 millesimi di millimetro, più

il particolato è sottile, più risulta nocivo (il PM1 arriva a danneggiare fino agli alveoli

polmonari). Occupandosi solo della quantificazione dell’impatto che incide

sull’ambiente, comunque, questa ricerca difetta purtroppo di un approfondimento sulla

relazione che intercorre fra trasporti e impatto sulla salute umana. Per la parte relativa

all’ultimo chilometro, oltre all’elaborazione dei dati reali, ho ipotizzato diversi scenari in

cui il consumatore seguisse un certo comportamento, per avere come in Marletto e

Sillig, un quadro finale completo delle interazioni fra le variabili principali.

3.1 Case Study Research

La ricerca tramite caso di studio è un’indagine empirica volta ad investigare un

fenomeno contemporaneo all’interno del suo contesto di riferimento per definirne le

dinamiche, le caratteristiche fondamentali e le interazioni con il contesto stesso (Yin,

1984). È una metodologia sfruttata in diverse aree della scienza e trova particolare

impiego nelle scienze sociali. Un panel di esperti del settore (R. E. Stake, H. Simons, R.

K. Yin) hanno elaborato le fasi di elaborazione ed impostazione della ricerca del Case

Study in questo modo:

I. Determinazione e definizione dei quesiti di ricerca

II. Selezione dei casi e determinazione della raccolta dei dati e delle tecniche di analisi

III. Preparazione alla raccolta dei dati

IV. Raccolta dei dati sul campo

V. Valutazione e analisi dei dati

VI. Preparazione della relazione

Come si può vedere dai punti chiave, la case study research presenta un impianto

teorico facilmente assimilabile da diverse discipline per i più diversi scopi, rendendola

una strategia di ricerca fra le più versatili e può essere integrata indifferentemente dalla

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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raccolta di dati qualitativi e quantitativi, a seconda dell’obiettivo di ricerca che ci si pone

(Yin, 1984). Le critiche poste a questo modello riguardano principalmente il numero di

casi studio da prendere in esame, si ritiene infatti che considerandone un piccolo

numero si potrebbero ottenere risultati non rappresentativi di un fenomeno e se al

contrario se ne analizzassero troppi, si registrerebbero risultati distortivi, giungendo a

conclusioni inesatte (Ibidem). È pur vero che se nelle ricerche che indagano su

questioni sociologiche, la numerosità del campione di riferimento gioca un ruolo

fondamentale, come attesta l’esistenza di tantissimi modelli statistici sull’indagine

campionaria, potrebbe non essere necessariamente vero per indagini ambientali

relative ad un contesto preciso.

Questo non vuol dire però che i risultati di questa ricerca vadano considerati come

attendibili in generale, la scelta di confrontare un solo mercato contadino ed un solo

supermercato infatti annulla il criterio di rappresentatività (su scala generale), che vi

sarebbe in un campione più esteso. Però, guardando al solo ambito dei castelli romani,

la ricerca fornisce un’interessante panoramica rispetto ai movimenti delle filiere dei

mercati e dei supermercati. La collocazione dei mercati e dei supermercati ai castelli

segue infatti schemi abbastanza ricorrenti, rispetto ai primi lo schema è ancor più

preciso in quanto sul territorio vi è una sola (o per lo meno la più grande ed attiva)

organizzazione che si occupa di organizzare questi mercati, i quali (principalmente per

ragioni di visibilità) vengono collocati nella quasi totalità dei casi all’interno o al di poco

fuori dal centro abitato. Per i supermercati (di medie dimensioni) il posizionamento

avviene nella maggior parte dei casi appena fuori il centro abitato e sorgono su strade

ad alta intensità di scorrimento. Per questi motivi quindi questa ricerca, se non

rappresentativa a livello generale, può esserlo segnatamente al contesto dei castelli

romani.

Page 32: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

32

3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani

Il mercato contadino dei Castelli Romani si evolve da un gruppo di acquisto solidale

(GAS), nato per volontà di un gruppo di consumatori di valorizzare e tutelare le

tradizioni contadine dei castelli romani, che abbraccia e fa propria la teoria dello “slow

food” per il consumo consapevole di prodotti buoni, puliti e giusti. I castelli romani sono

un territorio a sud di Roma che comprende le città di Frascati, Monte Porzio Catone,

Monte Compatri, Rocca Priora, Grottaferrata, Rocca di Papa, Marino, Castel Gandolfo,

Albano, Ariccia, Genzano, Nemi, Lanuvio, Velletri e Lariano.

Fig. 11 Illustrazione panoramica dei Castelli Romani9.

In questi paesi vi è una radicata identità culturale, forte di una tradizione secolare ed il

rapporto con il prodotto tipico e locale è ancora molto considerato e motivo di orgoglio.

Purtroppo negli ultimi anni molte aziende tradizionali sono scomparse e tante altre

stanno scomparendo a causa dello scarso interesse della nuova generazione di

investire in un settore dominato dalla competizione dei colossi della produzione a basso 9 Fonte: http://www.parcocastelliromani.it/

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

33

costo. Così un gruppo di consumatori decide di unirsi in un gruppo d’acquisto,

realmente solidale nella sostanza in quanto il motivo non era ascrivibile alla ricerca di

una facilitazione economica nella compera all’ingrosso (come si è visto in altri casi), ma

unicamente volto alla tutela delle aziende tradizionali e al reperimento di prodotti

genuini, freschi e a basso impatto ambientale.

Nel 2011 il GAS si trasforma nel primo Farmers’ Market dei castelli romani, sotto

l’associazione “km0”, inserita nel circuito “Coltivendo” iniziativa della provincia di Roma.

L’idea di valorizzare le aziende agroalimentari tradizionali riscuote da subito un grande

successo e il mercato contadino arriva a contare ad oggi circa cento aziende

collaboratrici. In soli tre anni l’associazione, per soddisfare i grandi volumi di richieste,

sia da parte dei produttori sia dei consumatori, si è estesa molto, arrivando a

organizzare mercati contadini nelle città di Ariccia, Albano (prossimamente anche

Genzano), Rocca di Papa, Grottaferrata, Frascati, Pavona ed anche a Roma nella zona

di Capannelle.

L’organizzazione di questi mercati persegue il principio della stagionalità del prodotto

generando una continua rotazione fra gli espositori del mercato i quali sono per altro

soggetti a controlli qualitativi scadenzati ad opera di Agrivol in collaborazione con il

ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

Oggi per assecondare le richieste di visibilità, l’associazione km0 si avvale dell’aiuto

delle amministrazioni locali per esortare il pubblico e le aziende locali a partecipare ai

mercati, inoltre è in previsione l’installazione di nuovi mercati soprattutto in zone

residenziali e centri storici di alcuni paesi per abbattere il contributo negativo dell’ultimo

chilometro.

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34

Fig. 12, Mercato contadino di Monte Gentile, Ariccia.10

Questo studio si focalizza sul Farmers’ Market di Monte Gentile ad Ariccia, che ricorre

tre volte la settimana, nel quale ho effettuato rilevazioni sull’azienda ortofrutticola a

conduzione familiare “Massimo Mancini” di Lanuvio e sugli spostamenti del

consumatore. Sono principalmente due le ragioni che mi hanno spinto a considerare

questo mercato in particolare, la prima è che essendo uno dei primi ad essere stato

sperimentato, ha raggiunto ormai una grande visibilità (specialmente nei paesi limitrofi),

qualità questa che mi ha permesso di ottenere un campione di consumatori abbastanza

eterogeneo e rappresentativo di un’area che trascende la sola Ariccia. In secondo

luogo, trovandosi a poco più di un chilometro (1,6 km) dal centro abitato non è quasi

mai raggiunto a piedi e questo mi ha permesso di quantificare meglio l’impatto del

consumatore che si sposta in automobile. Il periodo considerato è quello della prima

settimana di Agosto 2014, in questa settimana gli espositori di ortofrutta del mercato

contadino erano distribuiti geograficamente in modo eterogeneo. Si potevano osservare

infatti alcuni produttori provenienti dalla fertile vallata vulcanica che si apre ai piedi della

stessa Ariccia, come produttori provenienti da ben più lontano come Velletri, Lariano,

Monte Compatri o Frascati. Fissando quindi una fascia di distanza intermedia è stata

scelta l’azienda agricola a conduzione familiare “Massimo Mancini”, distante dal

mercato 9,5 km, inoltre grazie ai buoni volumi di vendita è stato possibile considerare il

viaggio di ritorno a carico vuoto. L’individuazione del produttore “tipo”, rappresentativo 10

Fonte: mio.

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35

dell’intera popolazione del caso di studio è stato un passaggio importante e

fortunatamente, viste le direttive degli organizzatori del mercato contadino, che

impongono agli espositori la vendita di prodotti ortofrutticoli di stagione, ho potuto

rilevare un paniere di beni in vendita pressoché identico in ogni banco. Un ulteriore

semplificazione è derivata dal fatto che nelle rilevazioni è emerso come la tipologia di

mezzo impiegato nel trasporto fosse omogenea (LCV, diesel < 3,5t), in primo luogo

perché il punto di vendita (parcheggio di un centro sportivo) è troppo piccolo per potervi

accedere con veicoli più grandi di un camioncino e in secondo luogo perché i volumi di

vendita non giustificherebbero un trasporto, nella maggior parte dei casi, maggiore di 4

quintali di merce.

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36

3.1.2 CONAD, Genzano di Roma

Fig. 13, CONAD Genzano di Roma, esterno.11

Il secondo caso di studio di questa ricerca è un supermercato CONAD. Questa azienda

è una cooperativa di associazioni (7 in tutto il territorio nazionale) che si occupano di

rifornire i mercati finali. Pac2000 è quella che fa riferimento alle regioni Umbria, Lazio,

Campania e Calabria. Il centro di distribuzione regionale (RDC) per il Lazio è nella

località di Fiano Romano a 35 chilometri da Roma. Il sistema di approvvigionamento del

supermercato finale è piuttosto efficiente, non effettuando magazzino si lavora solo sul

venduto, richiedendo in base alle necessità la merce al RDC che elabora l’ordine il

giorno stesso, completandolo nella prima mattina del giorno successivo. In casi di

necessità improvvisa vengono garantite consegne espresse, e le tipologie di veicoli

impiegati variano in relazione al tonnellaggio da trasportare. Per quanto concerne il

reparto ortofrutticolo il supermercato preso in analisi effettua ordini giornalieri, è rifornito

da una compagnia specializzata nell’approvvigionamento ortofrutticolo nel RDC di Fiano

Romano (CEDOF), che oltre ad elaborare i diversi ordini si occupa di far rispettare i

rigidi standard qualitativi richiesti da Pac2000 per conto di CONAD.

Nel supermercato di Genzano di Roma si può apprezzare nel reparto ortofrutta un’area

dedicata alla vendita prodotti stagionali, in ogni caso però per soddisfare un tipo di

domanda eterogenea si trovano numerosi tipi di prodotti (come arance, mandarini) che

11

Fonte: http://win.telecountrynews.it/CONAD.htm

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37

sarebbero impossibili da reperire nella stagione estiva (momento in cui è stata condotta

la ricerca) o addirittura esotici (noce di cocco, ananas, mango, avocado). Lo studio della

filiera logistica in questo caso si è focalizzato solo sul paniere di beni stagionali, reperiti

da CEDOF in Italia, per aver le stesse basi di confronto nella quantificazione delle food

miles del supermercato con quelle del mercato contadino (nello specifico: melanzane

tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo,

pomodoro rosso tondo/oblungo, pomodoro cuore di bue, pomodorini, pesche,

albicocche, meloni) Ho deciso di analizzare questo supermercato non solo perché

presenta pochi e organizzati segmenti logistici, ma anche perché la distanza dal primo

centro abitato è simile a quella del mercato contadino (1,9 km), caratteristica utile per il

confronto.

Page 38: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

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38

4. RISULTATI

Nell’analisi delle filiere logistiche verrà utilizzato, come già accennato, un approccio

simile a quello adottato nello studio di Marletto e Sillig. Tuttavia risulta difficile operare

un confronto, in quanto il livello di dettaglio in cui scende questa ricerca non è

paragonabile a quello dello studio a cui si ispira o ad altri, simili negli obiettivi. Nello

specifico questa indagine difetta di una quantificazione di dispendio energetico e di

emissioni di agenti inquinanti a monte, cioè nella fase iniziale della produzione dei beni

(dalla coltivazione al packaging), e non tiene conto inoltre dell’orario in cui si effettuano

le consegne, altra variabile che potrebbe incidere sull’impatto ambientale in modi diversi

se esse si effettuano di notte o nella prima mattinata piuttosto che nell’ora di punta, o al

fatto che il trasporto tramite veicoli refrigerati genera dispendio energetico (Marletto e

Sillig, 2014). Segnatamente ad altri studi questa ricerca avverte la mancanza di indagini

qualitative che potrebbero arricchire l’indagine quantitativa sulle emissioni fornendo

interessanti strategie di mercato o di marketing (Aoki, 2009; Caputo, 2012).

Personalmente considero le lacune della mia ricerca una causa fisiologica della scarsa

esperienza su un argomento così vasto e complesso ed esse sono lo stimolo per una

futura ricerca più dettagliata. I risultati ottenuti dovranno quindi essere referenziati

all’area geografica analizzata e riferiti al segmento finale delle filiere agroalimentari: la

distribuzione.

Per quantificare l’impatto ambientale mi sono affidato all’indicatore gCO2/km per

tonnellata trasportata12 che indica il quantitativo di emissioni di CO2 per tonnellata di

prodotto trasportata in relazione ai chilometri percorsi. Per gli specifici fattori di

emissione mi sono affidato alla banca dati del Sistema Informativo Nazionale

Ambientale (SINAnet), facente riferimento all’Istituto Superiore per la Protezione e la

Ricerca Ambientale (ISPRA13). Ho potuto quindi sfruttare un database aggiornato (al

12

I dati SINANET forniscono valori di emissioni per veicolo (gCO2/v-km), la formula utilizzata per

ottenere i dati di interesse è stata: Distanza * N.Veicoli/Tonnellate nette di ortofrutta trasportate * fattore

di emissione gCO2/v-km (Marletto, 2014) 13

L’archivio è consultabile al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia-ispra/fetransp/ ed è possibile

avere chiarimenti sulla nomenclatura utilizzata al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia-

ispra/fetransp/note-esplicative/at_download/file

Page 39: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

39

2013) e dettagliato14, tanto da poter distinguere i cicli di guida in urbano, extraurbano o

autostradale.

Fig. 14, Dati SINAnet 2013, relativi a Light Commercial Vehicles, Hig Commercial Vehicles (rigidi ed

autoarticolati) e Passenger Car, per cicli di guida Urbano, Extraurbano, Autostradale e Totale (ovvero una

media ponderata dei tre, per i casi di incertezza).

3.1 Le filiere dei produttori

In questo paragrafo verranno quantificati gli impatti ambientali delle filiere distributive

dei produttori del Mercato Contadino e del supermercato.

Ricostruendo a monte la catena di approvvigionamento del supermercato si sono

delineati due segmenti principali, il primo è quello che parte dal produttore per arrivare

al centro regionale di distribuzione di Fiano Romano, il secondo è quello che dal CRD

arriva al supermercato finale.

Nella settimana considerata nell’indagine è stato registrato, relativamente al primo

segmento, un volume di 9,5 tonnellate15 di prodotti ortofrutticoli trasportati al centro di

14

Le stime sono state elaborate sulla base dei dati di input italiani riguardanti il parco e la circolazione

dei veicoli (numerosità del parco, percorrenze e consumi medi, velocità per categoria veicolare), ed è

possibile scegliere il fattore di emissione su cui focalizzarsi da una dettagliata lista.

Impatto per ciclo di guida

Tipologia Veicolo gCO2/v-km

U gCO2/v-km

E gCO2/v-km

A

gCO2/v-km T

LCV Diesel, <3,5t 348,734 200,469 337,338 264,908949

HCV Rigid, 14 - 20 t 1011,046 612,799 575,35 632,026549

HCV Art, 20 - 38 t 1.198,17 720,30 648,78 725,177373

Pass. Car, Dies. 1.4 - 2.0 l 274,701 142,557 191,194 176,969552

Page 40: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

40

distribuzione. Il produttore si è avvalso per il trasporto di una motrice refrigerata con una

capacità di 18t, percorrendo in totale una distanza di 95 chilometri su tratto

autostradale. Il veicolo utilizzato registra segnatamente al ciclo di guida autostradale

una quantità di emissioni pari a 575,350 gCO2/v-km, ma grazie alla grande capacità di

carico il valore relativo all’impatto per tonnellata netta scende a 60,563 gCO2, facendo

registrare in questo primo segmento un totale di 11,507 kgCO216, che come vedremo

incidono solo per l’ 8% sul totale della filiera.

Nella stessa settimana, le rilevazioni sul secondo segmento distributivo hanno

quantificato un totale di 283 kg di merce trasportata giornalmente da CEDOF al

supermercato di Genzano. Questo trasporto giornaliero avviene per mezzo di un auto

articolato refrigerato da 22,5t il quale genera un quantitativo di emissioni pari a 720,302

gCO2/v-km per il ciclo di guida extraurbano e 648,782 gCO2/v-km per quello

autostradale. Il calcolo di questo segmento è stato più complicato rispetto agli altri in

quanto il mezzo di riferimento viene sfruttato anche dagli altri reparti del CDR di Fiano

Romano, consegnando oltre che ortofrutta, anche pesce fresco e carne. Nel grafico in

figura 15 possiamo vedere nello specifico la distribuzione del carico nella settimana

considerata.

15

Valore riferito ad un paniere di prodotti ortofrutticoli stagionali quali: melanzane

tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo, pomodoro rosso

oblungo, pomodoro cuore di bue, pesche, susine, albicocche, angurie, meloni. 16

I valori finali sono ottenuti calcolando il prodotto tra il valore gCO2 e il doppio della distanza, in

chilometri, percorsa. Viene considerata la doppia distanza in quanto si tiene conto del viaggio di ritorno a

carico vuoto. Non viene inoltre usata la specifica dicitura t-km per l’impatto filane per motivi di

chiarezza, in quanto tale dicitura viene adoperata per il carico massimo possibile e non quello effettivo

come in questo caso.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

41

Distribuzione del Carico

0,28316%

0,26515%

1,26069%

t quotidiane di Ortofrutta

t quotidiane di Pesce

t quotidiane di Carne

Distribuzione del Carico

0,28316%

0,26515%

1,26069%

t quotidiane di Ortofrutta

t quotidiane di Pesce

t quotidiane di Carne

Fig. 15 Mia elaborazione.

Conoscendo nello specifico il carico è stato possibile ponderare il totale dell’impatto

(ottenuto considerando il totale del carico e la distanza complessiva di 67 km percorsa

dall’autoarticolato) per la quota di ortofrutta trasportata ottenendo un emissione, per

0,283 tonnellate di output, di 7,932 kgCO2, valore che incide sul totale della filiera per il

5,5%.

Le indagini sul produttore del Farmers’ Market hanno individuato, come ci si poteva

aspettare, un solo segmento principale, quello che dall’azienda agricola porta

direttamente al mercato. Il produttore in questo caso si avvale di un LCV da 3,5 t il

quale è più che necessario per soddisfare la domanda giornaliera che ammonta a 4

quintali di merce, ma come già accennato la ridotta capacità di carico e quindi lo scarso

volume trasportato è il punto debole di questa catena distributiva. Percorrendo infatti

una distanza di 9,5 km in ambito urbano (dall’azienda al mercato), con un veicolo che

emette 348,734 gCO2/v-km, il totale di emissioni per tonnellata di output è di 16,565

kgCO2, il 69,47% in più del segmento Produttore – CRD, caratterizzato da una distanza

dieci volte maggiore. Tuttavia questo risultato non è affatto eclatante, per le ragioni già

spiegate, e sul totale di impatto della filiera corta rappresenta solamente il 7,64%. Più

avanti vedremo come in più scenari che ipotizzano comportamenti diversi del

consumatore, a parità di condizioni, i risultati possano essere ribaltati.

Page 42: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

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42

3.2 Il contributo dell’ultimo chilometro

Nella fase relativa all’indagine sugli spostamenti del consumatore, le ricerche sono state

finalizzate all’individuazione della distanza media percorsa per raggiungere il punto

vendita dalla propria abitazione e la tipologia di veicolo impiegato.

In altri studi relativamente a questa fase sono stati proposti ad esempio questionari

online volti a stimare tipologia di veicolo, distanza, tipo di acquisto e motivo di

spostamento. Relativamente all’ultima variabile, per definire precisamente quanta parte

dell’impatto ambientale è ascrivibile all’acquisto, occorre sapere se lo spostamento

avviene unicamente per la compera o è parte di un giro più lungo (Rizet et al., 2008). In

un altro caso, volto a chiarire attraverso un’indagine trasversale17 il motivo che spinge il

consumatore a rifornirsi da filiere alternative e locali, in Francia e nel Regno Unito, sono

stati inviati questionari per posta ad alcuni campioni di consumatori che aderissero ad

iniziative di Box Schemes (Brown et al., 2009).

In questa ricerca sono state intervistate 100 persone acquirenti di prodotti ortofrutticoli,

per entrambi i casi di studio, alle quali sono state sottoposte le domande circa:

• Distanza percorsa in chilometri dall’abitazione al punto vendita.

• Metodo di spostamento (a piedi/bicicletta, trasporto pubblico18, vettura privata)

• Nel caso dello spostamento in macchina è stato domandato di specificarne

alimentazione e cilindrata.

Queste rilevazioni sono state fatte in prima persona, era infatti essenziale intervistare

un campione di persone che stesse comperando o avesse intenzione di acquistare

prodotti ortofrutticoli, inoltre data la tipologia di informazioni richieste (piuttosto tecniche)

spesso si destava negli avventori curiosità o addirittura diffidenza, che era presto fugata

dalle mie spiegazioni. Si è creato velocemente (soprattutto nel mercato contadino) un

rapporto informale tra me e gli avventori, che sempre più incuriositi venivano ad offrire il

loro contributo spontaneamente ed in questo diverso clima ho potuto carpire

informazioni specifiche anche sul carico di spesa. È stato infatti importante quantificare

17

Per approfondire sulla metodologia Cross-Section, Brady et al., 2008. 18

Relativamente a questa voce è stato specificato autobus, navetta, treno, metropolitana, ma in entrambi i

campioni non si è ottenuto nemmeno un riscontro.

Page 43: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

43

il carico medio del consumatore tipo, in modo da poter stimare anche per l’ultimo

chilometro l’impatto di CO2 emessa per tonnellata trasportata. Dalle interviste è stato

quindi stimato un carico pari a 10,28 kg19 di spesa in ortofrutta, valore che è stato

adottato per il consumatore di entrambe le filiere.

Entrando nello specifico del mercato contadino, la distribuzione della distanza percorsa

dal consumatore (mostrata in fig. 16), ha registrato frequenze più alte per le zone di

provenienza limitrofe al mercato (fascia 0-2 km), diminuendo progressivamente con

l’aumentare della distanza, registrando però un nuovo picco nell’ultima classe 20(10+

km).

0

5

10

15

20

25

30

35

40

(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)0

5

10

15

20

25

30

35

40

(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)

Fig. 16, Distribuzione del consumatore per classe di distanza, mia elaborazione.

La distanza media percorsa è quindi risultata pari a 5,87 km ed il veicolo “tipo” è

risultato un’automobile diesel di 1,4 l di cilindrata. Per determinare un veicolo standard

mi sono affidato alla distribuzione dei consumatori arrivati in macchina, calcolando una

media ponderata per le cilindrate e considerando la distribuzione di frequenza, invece,

per le alimentazioni. In fig 17 troviamo il grafico relativo al metodo di raggiungimento e

all’alimentazione nel caso della vettura privata, da questo si evince come la maggior

parte (93%) degli intervistati utilizzi per gli spostamenti la propria macchina e solo il 4%

invece raggiunge il mercato a piedi. Il Mercato Contadino è infatti sicuramente troppo

19

Quantità riferita ad una spesa settimanale. 20

Relativamente alla classe (10+) è stata stabilita una distanza di 29,55 km, calcolando la media

ponderata della distribuzione degli undici avventori provenienti da più di 10 km di distanza.

Page 44: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

44

distante (1,6 km) dalla città di Ariccia per essere raggiunto a piedi e sicuramente la

bassa percentuale di avventori che si spostano in questo modo è spiegata da questa

variabile. Bisogna comunque considerare che il mercato sorge anche nelle immediate

vicinanze di un centro residenziale di medie dimensioni (circa 500 famiglie) e che quindi

non sarebbe un problema effettuare lo shopping a piedi per molti dei consumatori. Dalle

interviste emerge però la tendenza ad effettuare in un’unica spesa

l’approvvigionamento ortofrutticolo settimanale, caratteristica probabilmente anche

legata al fatto che il farmers’ market di riferimento non è giornaliero, bensì ricorre solo

tre volte la settimana21. Queste rilevazioni sono in linea comunque, con il quantitativo di

carico stimato mediamente per il consumatore (10,28 kg), che quindi è spinto a

percorrere in macchina anche distanze molto inferiori al chilometro.

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

A piedi/bicicletta

Motorino 50cc

Moto 100cc

Vettura privata

Diesel Benzina GPL Metano Ibrida

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

A piedi/bicicletta

Motorino 50cc

Moto 100cc

Vettura privata

Diesel Benzina GPL Metano Ibrida

Fig. 17 Metodo di raggiungimento del consumatore, mia elaborazione.

Il veicolo utilizzato dall’avventore ideale registra quindi un impatto pari a 176,970

gCO2/v-km, valore sicuramente inferiore a quelli generati dai veicoli dei produttori visti

in precedenza, ma il carico estremamente ridotto e la distanza piuttosto elevata (5,82

km) da percorrere portano ad un totale di 200,382 kgCO2 per tonnellata di output, che

sommati a quelli del segmento del produttore portano a 216,947 kgCO2 per l’intera

filiera. È il segmento meno efficiente in assoluto ed in questo caso specifico arriva ad

incidere per il 92,36% sull’ammontare totale di emissioni registrate per questa filiera.

21

Un appuntamento infrasettimanale il mercoledì, e nel fine settimana il sabato e la domenica.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

45

Impatto per segmento - Mercato

7,64%

92,36%

Produttore - Mercato Consumatore

Impatto per segmento - Mercato

7,64%

92,36%

Produttore - Mercato Consumatore

Fig. 18 Mia elaborazione.

Nel caso del supermercato Conad è stata rilevata una distribuzione di provenienza che

rispecchia lo standard di scelta del consumatore medio, che si muove alla ricerca di un

supermercato rispettando criteri di vicinanza (oltre che chiaramente economici)

0

5

10

15

20

25

30

35

40

(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)0

5

10

15

20

25

30

35

40

(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)

Fig. 19 Mia elaborazione.

In fig. 19 il grafico mostra quindi le fasce di provenienza del campione di 100

consumatori intervistati. Nel contesto del supermercato, ho incontrato, come

prevedibile, più difficoltà nello svolgere le mie interviste, che purtroppo non si sono

potute dilungare troppo costringendomi a carpire solamente le informazioni standard

richieste per la stima del consumatore medio. Ai clienti provenienti dai 6 chilometri in su

Page 46: Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

46

(i quali rappresentano il 19% della distribuzione), ho però domandato cosa li spingesse

a coprire una tale distanza per fare la spesa, e le ragioni addotte si riferiscono

principalmente alla grande varietà di prodotti reperibili22 in quel supermercato specifico

e alla fiducia nella qualità del marchio Conad. La media delle distanze percorse dai

consumatori è comunque inferiore a quella del mercato contadino, arrivando a 3,62 km.

Segnatamente al metodo di raggiungimento del centro è stato rilevato il 99%23 dei

consumatori arrivati in macchina ed in nessun caso è stato invece raggiunto a piedi.

Nonostante il supermercato sia frequentato anche da consumatori che non fanno spese

per rifornirsi per l’intera settimana e quindi potrebbe essere raggiunto agevolmente a

piedi da tale tipologia, la distanza di 1,9 chilometri scoraggia questi clienti imponendo

uno spostamento in macchina. Il veicolo standard è risultato uguale a quello rilevato nel

mercato contadino (diesel 1.4 l), ed il carico è stato assunto lo stesso per entrambe le

filiere (10,28 kg). In questo modo il totale di emissioni dell’ultimo chilometro relativo al

consumatore del supermercato è risultato pari a 124,636 kgCO2, che sommato ai

segmenti dei produttori, arriva ad un totale di 144,075 kgCO2, incidendo per l’ 86,5%

sull’insieme della filiera.

Impatto per segmento - Supermercato

8,0%

5,5%

86,5%

Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore

Impatto per segmento - Supermercato

8,0%

5,5%

86,5%

Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore

Fig. 20 Mia elaborazione

22

Bisogna tener presente che nella zona dei Landi (frazione di Genzano) o nelle campagne a nord della

città di Velletri, questo punto vendita rappresenta il primo vero grande supermercato che si trova nelle

loro vicinanze, nel quale poter trovare tipologie di prodotti più sofisticate rispetto all’ alimentari sotto

casa. 23

In un solo caso abbiamo uno spostamento con un quadri ciclo 50 cc.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

47

4. CONCLUSIONI

Sulla base dei dati raccolti possiamo concludere che in questo caso la catena

distributiva del farmers’ market generi risultati inferiori in termini di efficienza di impatto

ambientale.

Distribuzione degli impatti

0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240

Mercato contadino

Supermercato

kgCO2/t

Produttore CRD Consumatore

Distribuzione degli impatti

0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240

Mercato contadino

Supermercato

kgCO2/t

Produttore CRD Consumatore

Fig. 21 Mia elaborazione.

Nel grafico in fig. 21 sono riportate entrambe le filiere dettagliate per segmento logistico,

dal quale si può evincere come l’efficienza della catena distributiva del mercato

contadino sia penalizzata dal segmento dell’ultimo chilometro. Coerentemente con altri

studi, infatti, lo spostamento del consumatore rappresenta una parte fondamentale

dell’impatto sul totale della filiera (Rizet et al., 2008; Coley et al., 2009; Mundler et al.,

2012; Marletto e Sillig, 2014). Guardando alle emissioni relative agli spostamenti dei

produttori, possiamo vedere da un lato come la filiera industriale, dotata di mezzi

dall’elevata capacità di carico, assorba, grazie a questa qualità, gli impatti delle

relativamente lunghe distanze. Dall’altro come, nonostante il contadino-espositore si

sposti con veicoli leggeri ma a bassa capacità di carico, assorba anche egli questo

difetto grazie al ridotto tragitto.

Nel grafico in fig. 22 viene mostrato come il load factor incida sulla performance

ambientale in termini di emissione in relazione alla distanza percorsa. La forbice che si

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48

crea, progressivamente sempre più ampia, offre la percezione di come un maggior

carico diluisca enormemente gli impatti relativi ai chilometri di percorrenza.

Impatti progressivi dei produttori

0

20000

40000

60000

80000

100000

120000

1 20 40 60 80 100 120

Km

gC

O2/k

m p

er

ton

n.

Produttore mercato Produttore supermercato

Impatti progressivi dei produttori

0

20000

40000

60000

80000

100000

120000

1 20 40 60 80 100 120

Km

gC

O2/k

m p

er

ton

n.

Produttore mercato Produttore supermercato

Fig. 22 Mia elaborazione

Per ottenere risultati migliori, bisognerebbe fondamentalmente aumentare il carico del

produttore del mercato ad ogni viaggio ed ottimizzare al massimo la distanza fra

mercato e i produttori. D’altra parte un altro tipo di intervento sarebbe possibile (ed

anche di più agevole attuazione): la riduzione al massimo dei chilometri percorsi dal

consumatore. In questo caso di studio basterebbe diminuire la distanza media percorsa

dall’avventore del mercato a 3,7 km ad esempio, per registrare la stessa efficienza

ambientale della filiera industriale. Nello studio di D. Coley (2009) invece emerge come

il consumatore non debba effettuare tragitti più lunghi di 6,7 km, soglia oltre la quale la

distribuzione industriale (comprensiva di produzione, stoccaggio in condizioni

refrigerate, distribuzione a centri di smistamento e consegna porta a porta tramite

servizio box schemes) genera performances ambientali migliori. Analizzando le

distribuzioni secondo la provenienza dei campioni di consumatori intervistati, però,

emerge un dato interessante. La media di chilometri percorsa dall’avventore tipo per

raggiungere il mercato contadino risulta pari a 5,87 km con una deviazione standard di

8,731 , mentre la media percorsa dal cliente del supermercato è risultata pari a 3,62 km

registrando una deviazione standard nettamente minore di 2,976. Questo ci suggerisce

come il consumatore sia propenso a percorrere distanze maggiori per acquistare un

prodotto non tanto più conveniente dal punto di vista economico, quanto da quello

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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ambientale e soprattutto salutare e qualitativo, tale da giustificare, in alcuni casi, un

viaggio superiore ai 30 chilometri. In questo senso sarebbe molto interessante a mio

avviso eseguire un’indagine economica basata sulla willingness to pay verso i prodotti

biologici venduti nei mercati contadini di questa area. Come già accennato, altri studi

sono stati svolti sul tema generando risultati interessanti. Nello studio di Gracia (2012)

ad esempio si conclude che il consumatore attento non solo al proprio benessere (in

termini di qualità e salute), ma spinto a consumare locale anche da motivi etici, solidali

e culturali, sia più propenso a pagare di più per questi beni.

Inoltre il fenomeno è risultato più accentuato per la popolazione femminile (soprattutto

giovane e con un buon livello di istruzione). Questi dati possono essere utili per

sviluppare importanti linee di policy e marketing soprattutto dalle pubbliche

amministrazioni, che con interventi mirati a rafforzare il legame con il territorio,

potrebbero ottenere una rivalutazione e fornire un buono slancio al mercato dei prodotti

locali (Gracia et al., 2012). In tal senso un ottimo esempio è offerto dalle esperienze

americane delle “fattorie agricole supportate dalla comunità”24 nelle quali il forte livello di

integrazione economico e culturale fra comunità territoriale e agricoltura crea una

sinergia virtuosa in termini economici, sociali ed ambientali (B. Janssen et al., 2010).

Un altro studio della ricercatrice Gracia (2014), ha messo il punto sulla questione,

evidenziando come a parità di condizioni il consumatore sia disposto a pagare il 9% in

più del prezzo di mercato per il bene di riferimento (carne di agnello in quel caso), se

esponesse un marchio che ne attestasse le origini locali. Questo tipo di conclusione

offre interessanti spunti legati al marketing. Dalla stessa studiosa è infatti calcolato che

se in un ipotetico mercato composto unicamente da carne di agnello di una specifica

qualità venisse introdotto un prodotto identico tranne per il fatto che esponga

un’etichetta che ne attesti la provenienza locale, quel bene conquisterebbe il 18% del

mercato se venisse venduto a 3,5€ e il 10% se venisse venduto a 4€. Un altro

contributo simile è offerto dalla Boys (et al., 2014), che nella ricerca condotta sul

mercato agricolo dominicano25 conclude come il consumatore sarebbe disposto a

24

Iowa’s Community-Supported Agricolture (CSA). 25

Un utile metro di giudizio sull’importanza di implementare da parte delle amministrazioni, il mercato

del biologico e del local food, può essere fornito proprio dal caso dello stato insulare della Dominica

(Commonwealth of Dominica). Privo quasi del tutto delle classiche spiagge caraibiche, bianche e

cristalline, ma ricchissimo di paesaggi incontaminati, la Dominica si è specializzata nell’eco-turismo, il

quale sta acquistando crescente popolarità. Attraverso la manovra governativa “Organic Dominica” è in

previsione di riconvertire l’intera produzione agroalimentare al biologico entro il 2015, per fare di questo

piccolo stato un’eccellenza a livello mondiale nell’ambito dell’ “organic food” ed attrarre quindi ancor

più eco-viaggiatori. Inoltre dallo studio di Kathryn A. Boys (et al., 2014), si evidenziano anche una serie

di possibili effetti positivi a lungo termine che possono incidere sull’offerta di lavoro (in quanto le

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pagare il 17,5% in più per prodotti biologici e il 12% in più per quelli strettamente locali.

Anche in questo caso emerge una correlazione tra la propensione a pagare di più e le

caratteristiche anagrafiche, di genere e livello di educazione.

Per concludere la riflessione sui dati ottenuti potrebbe essere utile analizzare diversi

ipotetici scenari.

CONSUMATORE

2 KM CONSUMATOR

E 1 KM CONSUMATOR

E A PIEDI

FILIERA MERCATO

CONTADINO 85,425 50,995 16,565

kgCO2/km per t

FILIERA SUPERMERCATO

88,299 53,869 19,439 kgCO2/km

per t

Fig. 23, Tabella che mostra l’impatto di entrambe le filiere al variare della sola distanza del consumatore

secondo tre ipotetici scenari.

Nella tabella in fig. 23 viene mostrato come a parità di condizioni vari l’impatto sul totale

delle filiere al variare degli spostamenti del consumatore. In tutti i casi considerati si può

notare come seppure non di molto, la catena distributiva del mercato contadino registri

risultati migliori, generati principalmente dal fatto di avere un solo segmento distributivo

(Produttore – Mercato), rispetto ai due (Produttore – CDR, CDR – Supermercato) della

filiera industriale. L’ipotesi del consumatore a piedi risulta abbastanza improbabile per il

supermercato, in quanto anche se se ne trovasse uno all’interno di un centro abitato

facilmente raggiungibile a piedi da un’ampia popolazione di clienti, la tendenza del

consumatore di ottimizzare i propri spostamenti acquistando anche la spesa di una o

due settimane in una volta sola, annullerebbe l’effetto vicinanza. La stessa cosa però

può non essere vera per la filiera del mercato contadino. Come dimostrato nello studio

di Mundler (2012), la vendita diretta esercitata in ambito urbano comporta spostamenti

di molto inferiori rispetto a quella di ambito extraurbano, con una densità abitativa più

bassa, generando performances ambientali molto migliori. Il consumatore infatti

potrebbe raggiungere il mercato grazie ai mezzi pubblici o in bicicletta o semplicemente

a piedi, scoraggiato dalla quotidiana congestione della città si concederebbe una

coltivazioni biologiche sono “labour intensive” a differenza di quelle industriali estensive, che sono

“capital intensive”) e l’aumento del pil procapite.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

51

passeggiata per andare a fare la spesa, la quale non è più motivo di stress ma

addirittura, al contrario, potrebbe essere un momento di svago e socializzazione.

Inserire un mercato contadino all’interno del contesto urbano per assorbirne gli impatti

negativi derivanti dall’ultimo chilometro può quindi essere una soluzione vincente. In

altri studi (Handy e Yantis, 1997; Romm et al., 1999; Transport en Logistiek, 2000;

NERA, 2000; Browne et al., 2001; Hopkinson e James, 2001; Weijers, 2001;

Mokhtarian e Salomon, 2002) invece è stata analizzata un’altra possibile alternativa,

improntata sull’incremento della consegna porta a porta dei prodotti locali (sistema box

schemes). Come conclude il Cairns (2004) nella sua ricerca basata sull’analisi di alcuni

modelli di distribuzione nel Regno Unito (dove questa pratica è largamente utilizzata ed

apprezzata), la sostituzione del viaggio in macchina con il viaggio di un camioncino

ridurrebbe del 70% o più i chilometri percorsi. Ovviamente sono prese in considerazione

risposte comportamentali da parte del consumatore differenti (ad esempio un individuo

può comunque decidere di spostarsi in macchina per andare ad acquistare tipologie

differenti di beni non contemplate nel giro di consegna porta a porta annullando così

l’effetto benefico del viaggio unico), ma comunque le prove empiriche suggeriscono nel

complesso una riduzione dei chilometri totali. Inoltre le positività di questo metodo

potrebbero essere massimizzate attraverso l’uso di strutture di consegna efficienti e

strategicamente posizionate, da veicoli meno inquinanti (metano, GPL, ibrido), da una

migliore integrazione e cooperazione dei rivenditori oltre che all’adozione di misure di

sensibilizzazione verso il consumo di prodotti locali.

Dall’analisi dei dati e dall’ipotesi di diversi scenari si individua principalmente che lo

spostamento del consumatore risulti cruciale nella quantificazione dell’impatto

ambientale sul totale delle filiere. Le linee di policy, quindi, dovrebbero essere

sviluppate in questo senso.

Inoltre i risultati offrono uno spunto di riflessione interessante. Guardando alle fonti delle

emissioni di CO2 sulla filiera del farmers’ market, possiamo concludere

paradossalmente che il grande potere attrattivo che ha il mercato contadino è anche la

principale causa di impatto ambientale, in quanto i consumatori attenti, consapevoli ed

amanti del local food sono propensi a percorrere molti più chilometri per accaparrarsi

questi prodotti, rispetto ai consumatori di un qualsiasi supermercato. Ovviamente

questa non è una chiave di lettura univoca del fenomeno, ma si inserisce in una

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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discussione più complessa, della quale rappresenta un risultato che fa da corollario ad

una moltitudine di impulsi positivi, che sono salutari, economici, sociali e culturali.

Per concludere si ritiene utile citare un progetto dell’associazione Km0 perché si

inserisce bene fra le tematiche trattate finora e fornisce un chiaro esempio di quanto

potrebbe essere proficuo passare dalla teoria alla pratica. Il “Progetto Filiera Corta” del

Mercato Contadino dei Castelli Romani si articola principalmente in due punti, il primo,

quello principale, è volto a soddisfare i criteri di visibilità necessaria alla sopravvivenza

del Mercato. Grazie all’aiuto delle amministrazioni locali vengono contattate tutte le

aziende agricole per essere messe a conoscenza dell’esistenza dei mercati dei

contadini, in modo tale da rappresentare una utile strategia di diversificazione per alcuni

ed un totale svincolo dal giogo della grande distribuzione per altri. L’obiettivo principale

di questo progetto è anche, parallelamente, quello di consolidare la sinergia tra

amministrazione pubblica e l’organizzazione, in modo da massimizzare efficienza ed

utilità per tutti gli attori del sistema, consumatori e produttori prima di tutto. Il secondo

punto del progetto riguarda l’assegnazione di terreni agricoli di proprietà comunale a

giovani agricoltori interessati a creare aziende agricole, questa iniziativa è importante,

perché sostiene il fenomeno crescente del ritorno alla terra di una grande porzione di

giovani della popolazione, che nella gran parte dei casi non ha i mezzi per sostenere i

costi iniziali dell’attività. Il tutto deve essere però preceduto da un accurato censimento

delle aziende agricole presenti sul territorio, per avere da un lato la percezione della

dimensione del sistema di riferimento e dall’altro per filtrare le tante aziende agricole

“fake”, registrate come tali solamente per ragioni di speculazione edilizia.

Segnatamente al contesto di Genzano di Roma (Rm), sempre nell’area dei Castelli

Romani, dove questo fenomeno sta assumendo un forte sviluppo, il 1 novembre 2014 è

stato inaugurato il nuovo mercato contadino, posizionato all’interno del centro abitato, in

modo da soddisfare i criteri di visibilità e di minimizzare lo spostamento del

consumatore. Tutti questi progetti sono infatti stati accolti26 con entusiasmo

dall’amministrazione locale, che intravede nello sviluppo della filiera corta un grande

potenziale economico e culturale.

In questo ultimo caso citato, la scelta della location urbana è stata particolarmente

attenta a soddisfare i requisiti che possono rendere il mercato contadino una soluzione

a basso impatto ambientale, quanto a raggiungibilità da parte degli avventori. Infatti 26

Fonte: Delibera di Giunta n° 264, 9 Ottobre 2014, Genzano di Roma.

Disponibile a: http://pubblicazioni.saga.it/publishing/DD/docDetail.do?docId=48323

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l’area del mercato è stata identificata a ridosso di un’arteria di traffico urbano ad alta

densità, adiacente ed in posizione di grande visibilità rispetto all’asse stradale. È dotata

di un ampio parcheggio e, nelle vicinanze, sono ubicati i parcheggi del campo sportivo

che possono sopperire alla eventuale richiesta aggiuntiva di sosta.

L’essere situata lungo il principale percorso delle linee extraurbane è stato inoltre

considerato un fattore fondamentale, che collegano l’area sud dei Castelli (Lanuvio,

Nemi, Velletri), con i centri più a nord, disposti lungo l’Appia (Genzano stesso, Ariccia,

Albano, Castel Gandolfo). La fermata degli autobus è situata a distanza di cinquanta

metri.

Infine, nella determinazione della location, è stato assunto come prioritario l’obiettivo di

individuare un sito che fosse baricentrico non rispetto alla città storica consolidata,

secondo un’ottica “urbanocentrica”, ma rispetto al territorio cittadino nel suo complesso.

Considerata, perciò, la forma attuale che questa città, come quella di gran parte delle

città italiane hanno assunto nella contemporaneità, nel loro presentarsi multicentriche,

disperse su un’area territoriale più vasta.

La scelta di posizionare il mercato contadino all’ingresso sud della città, a cerniera con il

territorio extraurbano, oltre ad evitare la fisiologica congestione del traffico generata da

un maggiore volume di transito urbano, ha rappresentato una scelta socialmente gradita

ottenuta, in questo specifico caso, anche a seguito di una consultazione con i comitati di

quartiere delle frazioni periferiche, che nel caso di Genzano di Roma si trovano proprio

a sud della città.

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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.

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