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RASSEGNA STAMPA di venerdì 25 maggio 2018

SOMMARIO

“Un curriculum non è solo uno strumento di lavoro - osserva Pierluigi Battista sul Corriere della Sera -. È anche uno specchio di chi sei o, meglio ancora, di chi vorresti

essere. Si presenta come un arido e indigesto elenco di incarichi e lavori, ma è soprattutto il romanzo autobiografico che confessa aspirazioni, vanità, progetti di vita, riconoscimenti di chi stila con meticolosa completezza ogni frammento della

propria vita pubblica. Nel curriculum del premier designato Giuseppe Conte ci saranno pure inesattezze, per così dire, o edulcorazioni, ampliamenti, super-dimensionamenti che rischiano, come pare acquisito, di non reggere a puntali e puntigliose inchieste di verifica. Ma sicuramente in quella sterminata successione che accumula per pagine e

pagine ogni piega della vita professionale e accademica del professor Conte si rispecchia la smania di riconoscimento di un ceto dirigente che vuole farsi bello e

internazionale, cosmopolita e plurilingue pur di accedere all’empireo sognato dell’establishment, avendo cura di strappare via ogni minima traccia della propria

origine provinciale. Il curriculum di chi aspira a un ruolo da ottimato della Repubblica Internazionale dei supertitolati contempla degli schemi a cui attenersi con scrupolosa

obbedienza. Anche per chi dovrebbe guidare un governo che della guerra all’establishment ha fatto un proprio vessillo. Ma il dente duole sempre lì: farsi

accettare, acquisire uno status, entrare nel grande club. Il curriculum del professor Conte, a una lettura attenta delle sue pagine, sembra interamente dentro questo schema. Il curriculum come testimone di un’ascesa di status. Ecco la maniacale

ossessione nell’elencare corsi di Banking Law, compiaciute appartenenze all’Association de la culture juridique française, la galleria di incarichi presso qualche

Board, meglio ancora Board of Trustes, di atenei sparsi nel mondo civilizzato, ma anche del Cardinal Tonini Charitable Trust con sede a Pittsburgh, Pennsylvania. Molte

le «relazioni culturali» con università tipo quella di Dayton, Ohio, e poi il capitolo controverso di soggiorni di studio e perfezionamento, «per periodi non inferiori a un mese», a New York e in giro per il mondo accademico accreditato. Ci si perde nella miriade di partecipazioni all’European Contract Group e al Social Justice Group, nei

seminari come intellectual partner nel progetto della World Bank, del Global Forum in Law, Justice and Development. Senza contare le innumerevoli partecipazioni negli Editorial Board, conferenze alla John Cabot University e in chissà quante altre. E si possono forse trascurare con superficialità le tantissime partecipazioni, pagine e

pagine, del professor Giuseppe Conte come relatore a convegni sulle più disparate articolazioni del sapere giuridico internazionale. Ci sono anche numerosi «è

intervenuto», cioè anche un intervento a una tavola rotonda entra trionfalmente a far parte del profilo curriculare. Ci sono anche «presentatore del volume», e giù un elenco di volumi presentati, a cominciare da «Class Action. Prime valutazioni e

procedure di applicazione». Senza trascurare il fatto che «è stato invitato a parlare alla conferenza internazionale dal titolo Implications for Growth and Policy

organizzato a Roma dal Progressive Policy Institute di Washington». Per finire con un sontuoso elenco di «principali pubblicazioni», che per il fatto di essere umilmente

«principali» coprono soltanto un centinaio di titoli. Tutto vero? Molto ritoccato, insomma abbellito, come sembra. Ma conta il desiderio spasmodico di accumulare qualunque più piccola tessera di un mosaico professionale e personale per dare

l’impressione di essere tra i primi, di camminare a testa alta nella provincia da cui si è venuti, per scalare le vette della grande e luminosa élite cosmopolita. Il film «Smetto

quando voglio» racconta comicamente un paradosso: i giovani protagonisti, tutti straordinariamente colti e preparati, per farsi accettare da chi potrebbe assumerli ma

solo con livelli retributivi umilianti, sradicano dai loro curriculum alcuni titoli di merito. Devono apparire peggiori e più incolti di quanto non siano e due ragazzi

vengono licenziati presso un distributore di benzina perché sorpresi a usare

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proditoriamente una citazione in latino. Pare che succeda spesso, nella realtà: il curriculum ritoccato al contrario, in senso peggiorativo, per non spaventare chi assume. Ma per chi invece usa il curriculum come biglietto di ingresso nel dorato

mondo di chi si reputa possa far parte dell’establishment, l’esigenza di elencare tutti quei titoli, anche i più banali come la partecipazione a una tavola rotonda purché

siano adoperate espressioni in inglese, diventa un imperativo tirannico. Ecco la radice delle possibili gaffes in cui il grande architetto del curriculum può imbattersi. E non

può nemmeno smettere quando vuole” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO A Santa Marta il Pontefice offre la messa per il nobile popolo cinese E all’omelia ribadisce che sfruttare i lavoratori è peccato mortale AVVENIRE Pag 3 Puglisi, il dono di un uomo mite di Vincenzo Bertolone A 5 anni dalla beatificazione del prete palermitano Pag 9 Il cardinale Bassetti al nuovo governo: “Vigilanti sui principi irrinunciabili” di Mimmo Muolo Il presidente della Cei: stella polare è il nuovo impegno dei cattolici. Ridurre le diocesi? Sarà un processo lungo Pag 10 Cei, “per guidare un Paese si deve conoscerlo da vicino” I vescovi: simpatia critica verso i nuovi media Pag 23 Quando i Pontefici “tornano” nelle loro terre di Marco Roncalli IL FOGLIO Pag 3 Cattolici in politica, fatevi avanti Cei e Vaticano danno la sveglia: “Il contributo sia organico, non individuale” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Ora le nascite aumentano solo dove c’è più ricchezza di Massimo Calvi Reddito, tempo, welfare: se lo sviluppo porta fecondità Pag 21 Ecco i millennials, tutti cuore & paure di Matteo Marcelli Stimano il volontariato e la famiglia. Temono futuro, criminali e terroristi CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Liti in casa, una tutela per i figli di Vittorio Filippi Separazioni e violenze 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI I numeri da record dell’Ulss unica di Alvise Sperandio Il 2017 è stato il primo anno della fusione delle tre aziende di Venezia, Dolo-Mirano e Chioggia: una “macchina” sanitaria davvero imponente. Ammontano a quasi 2,5 milioni all’anno le prestazioni totali 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA AVVENIRE Pag 13 Biennale, il sacro in un parco di Alessandro Beltrami

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Alla rassegna di architettura presente per la prima volta il padiglione vaticano: dieci cappelle sull’isola di San Giorgio affidate ad altrettanti progettisti IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag 17 Si svelano le chiesette del Vaticano Biennale Architettura a Venezia. Oggi l’apertura del Padiglione della Santa Sede a San Giorgio con il cardinale Ravasi LA NUOVA Pagg 14 – 15 Il modello Biennale per “salvare” Venezia di Enrico Tantucci Il presidente Baratta: recuperare gli spazi vuoti invitando altre istituzioni. Caserme, cantieri: ecco i luoghi da recuperare. Case e negozi gratis per il ripopolamento CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mini Mose di Alberto Zorzi Partono i lavori per tenere all’asciutto il nartece della Basilica di San Marco. Spesi due milioni, passerelle per fedeli e turisti … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli strappi di troppo di Aldo Cazzullo Pag 1 Il fattore mondo di Franco Venturini Pag 6 Dietro al curriculum sterminato la smania di essere riconosciuti di Pierluigi Battista AVVENIRE Pag 1 La necessaria giusta rotta di Leonardo Becchetti Governo politico e società generativa Pag 2 La privacy spiegata dall’Europa di Francesco Ognibene I segnali del regolamento che entra in vigore oggi Pag 21 Francavilla, quei funerali sull’orlo dell’abisso di Umberto Folenha Il prete: Dio raggiunge nel baratro IL GAZZETTINO Pag 1 La resistenza delle ex élites contro gli eletti del popolo di Mario Ajello LA NUOVA Pag 1 Il popolo e il partito del nuovo di Pier Aldo Rovatti

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO A Santa Marta il Pontefice offre la messa per il nobile popolo cinese E all’omelia ribadisce che sfruttare i lavoratori è peccato mortale L’«ingiustizia di sfruttare il lavoro è peccato mortale e questo non lo dico io, lo dice Gesù!». Con parole forti Papa Francesco ha denunciato che «anche oggi per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro». E si è rivolto direttamente a quanti sono attaccati alle ricchezze: «Guai a voi che sfruttate la gente, che sfruttate il lavoro, che pagate in nero, che non pagate il contributo per la pensione, che non date le vacanze»,

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perché non siete «in grazia di Dio» ha affermato il Pontefice, giovedì 24 maggio, nella messa a Santa Marta. Invitando a «pregare e fare penitenza» non per i poveri ma proprio per i ricchi schiavi di questa idolatria. Una celebrazione che il Papa ha voluto offrire in particolare «per il nobile popolo cinese» ricordando, all’inizio del rito, che «oggi la Chiesa fa memoria di Maria Ausiliatrice e a Shanghai si celebra la festa della Madonna di Sheshan, di Maria Ausiliatrice». Per la sua riflessione sulla questione dell’ingiustizia sociale - non si tratta di essere comunisti o sindacalisti ma di seguire il Vangelo ha detto - Francesco ha preso spunto direttamente dalla «lettera di Giacomo (5, 1-6), che abbiamo sentito nella prima lettura: parla delle ricchezze, di come un cristiano deve agire davanti alle ricchezze o con le ricchezze». E l’apostolo «va deciso - ha spiegato Francesco - non usa mezze parole, dice le cose con forza: “Ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle terme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!”». È un testo, ha fatto presente il Papa, «molto forte, molto forte e pure duro». Del resto «Gesù non aveva detto di meno: “Guai a voi ricchi!”, nella prima invettiva dopo le Beatitudini nella versione di Luca». Dunque «guai a voi ricchi!» ma, ha affermato Francesco, «se uno oggi facesse una predica così sui giornali, il giorno dopo», si leggerebbe che «quel prete è comunista!». Invece «la povertà è al centro del Vangelo» ha rilanciato il Pontefice, e «la predica sulla povertà è al centro della predica di Gesù». Tanto che «“beati i poveri” è la prima delle Beatitudini». Anzi, ha insistito il Papa, «la carta d’identità, la carta identitaria con la quale si presenta Gesù quando torna al suo villaggio, a Nazareth, nella sinagoga, è “lo Spirito è su di me, sono stato inviato ad annunciare il Vangelo, la Buona Novella, ai poveri, il lieto annunzio ai poveri”». «Sempre nella storia - ha riconosciuto Francesco - abbiamo avuto questa debolezza di cercare di togliere questa predica sulla povertà credendo che è una cosa sociale, politica. No! È Vangelo puro, è Vangelo puro». È importante chiedersi, ha proseguito, «perché questa predica così dura contro le ricchezze», tanto che Gesù dice «guai a voi ricchi!». Le ricchezze, ha spiegato il Papa, «sono pure un dono di Dio, ma i ricchi, quelli che sono attaccati ai soldi, il Signore castiga come dice oggi Giacomo» nel passo della lettera proposto dalla liturgia. «Prima di tutto, perché le ricchezze sono un’idolatria» ha spiegato il Pontefice. E «Gesù stesso dice che non si può servire due signori: o tu servi Dio o tu servi le ricchezze». La ricchezza, dunque, ha la categoria di «signore». Così la domanda diretta è: «tu sei fedele a Dio o sei fedele a quest’altro signore?». Ma «questo non si può - ha spiegato Francesco - perché la ricchezza è “signorile” nel senso che ti prende e non ti lascia e va contro il primo comandamento. È un’idolatria». Tanto che «una volta, ho sentito un missionario che, quando parlava di queste cose, diceva nella predica: “Tutti gli idoli sono di oro”». Sì, ha aggiunto il Papa, «è un’esagerazione ma vedeva giusto: è la seduzione delle ricchezze, l’idolatria». E riguardo all’«idolatria, quando Mosè era nel Sinai per ricevere la Legge di Dio, cosa ha fatto il popolo? Ha fatto un vitello d’oro per adorarla». «Le ricchezze danno sicurezze» ha riconosciuto il Pontefice. Così qualcuno potrebbe dire di preferirle rispetto a «questo Dio che non si sa cosa farà domani. Oggi parla, domani è zitto, sta zitto e non sappiamo come è Dio con noi». Insomma «le ricchezze sono il “dio” che noi abbiamo alla mano per vivere tranquilli». Ecco che, primo punto, «Gesù, e anche Giacomo, castiga le ricchezze perché sono un’idolatria e si capisce che indica le persone che sono attaccate alle ricchezze, che si lasciano dominare da loro». Secondo punto: le ricchezze «sono un’idolatria ma anche vanno contro il secondo comandamento perché distruggono il rapporto armonioso fra noi uomini» ha affermato il Papa. E nella sua lettera «Giacomo parla di questo e dice ai ricchi: “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre”». Ascoltando queste parole, ha proseguito Francesco, «qualcuno potrà dirmi “ma padre questo non è l’apostolo Giacomo, questo è un sindacalista!”. No, è l’apostolo Giacomo che parla sotto l’ispirazione dello Spirito Santo». Il Papa ha riletto le parole della lettera: «Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida - questo salario grida - e le proteste dei mietitori sono giunte all’orecchio del Signore onnipotente”». Tutto questo, ha chiarito, «distrugge l’armonia, il rapporto fra noi fratelli, va contro il secondo comandamento: per questo le ricchezze rovinano la vita, rovinano l’anima». «Essere attaccato alle ricchezze» è sbagliato, ha rilanciato il Pontefice. Invitando a pensare a «quella parabola di Gesù» che

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racconta la storia del ricco e del povero Lazzaro: «Quel ricco si dava alla buona vita, feste, buona vita, vesti lussuose, e lì c’era uno che non aveva nulla; erano i cani a leccare le ferite di quel pover’uomo». Ma «al ricco non interessava; sapeva chi era lui, si vede nella parabola del Vangelo, ma era lì con i suoi amici, festeggiava, attaccato alle feste, alle ricchezze». perché, ha ribadito Francesco, «le ricchezze ci portano via dall’armonia con i fratelli, dall’amore al prossimo, ci fanno egoisti». Oltretutto, quello «che dice oggi Giacomo lo aveva detto il profeta Isaia quando parlava dei sacrifici che voleva Dio: “Giustizia, questo è il sacrificio che io voglio, giustizia con i vostri servi”». E Giacomo gli fa eco: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre». «Sembra una cosa di oggi, questo» argomento, ha proseguito il Pontefice. «Anche qui, in Italia, per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro». Un modo di fare che «va contro il secondo comandamento» e a «chi fa questo» va detto «guai a voi!». Ma a dirlo, ha insistito il Papa, «non sono io, è Gesù». Sì, «guai a voi che sfruttate la gente, che sfruttate il lavoro, che pagate in nero, che non pagate il contributo per la pensione, che non date le vacanze. Guai a voi!». Perché «fare “sconti”, fare truffe su quello che si deve pagare, sullo stipendio, è peccato, è peccato». E serve a poco dire «padre, io vado a messa tutte le domeniche e vado a quell’associazione cattolica e sono molto cattolico e faccio la novena di questo» se «non paghi» il giusto ai lavoratori. E «questa ingiustizia è peccato mortale, non sei in grazia di Dio: non lo dico io - ha ripetuto Francesco - lo dice Gesù, lo dice l’apostolo Giacomo». E «per questo le ricchezze ti allontanano dal secondo comandamento, dall’amore al prossimo». Dunque «le ricchezze ci allontanano dal primo comandamento, come quell’uomo ricco che soltanto pensava ad allargare i suoi magazzini perché aveva tante cose e non sapeva dove metterle». Ma pure «ci allontanano dal secondo comandamento, come il ricco: feste tutti i giorni, ma non si interessava di quelli che erano fuori o come quelli che non pagano il giusto». Però, ha aggiunto, c’è anche una «terza cosa che voglio dire: le ricchezze hanno una capacità di sedurre tale che ci convertono in schiavi». Così «tu non sei libero davanti alle ricchezze; tu per essere libero davanti alle ricchezze devi prendere distanza e pregare il Signore». Consapevole che «se il Signore ti ha dato ricchezza è per darla agli altri, per fare a nome suo tante cose di bene per gli altri». Ma «le ricchezze hanno questa capacità di sedurre noi e in questa seduzione noi cadiamo, siamo schiavi delle ricchezze». «Oggi credo che a tutti noi, a cui il Signore ha dato la grazia di celebrare l’Eucaristia insieme, farà bene fare un po’ più di preghiera e un po’ più di penitenza ma non per i poveri, per i ricchi» ha concluso Francesco. Sì, «per i ricchi che non sono liberi, per i ricchi schiavi, perché il ricco libero è generoso, sa che le ricchezze le ha date Dio per dare agli altri e questo è un grande». Ma «i ricchi schiavi, quelli che hanno fino a qui e domani vogliono più e più e più e pagano il prezzo anche di sfruttare il prossimo e pagano il prezzo anche di adorare un idolo, sono schiavi». Dunque «pregare e fare penitenza per i ricchi ci farà tanto bene». AVVENIRE Pag 3 Puglisi, il dono di un uomo mite di Vincenzo Bertolone A 5 anni dalla beatificazione del prete palermitano Il laico Norberto Bobbio, scrivendo di mitezza all’interno di una riflessione politica ( Elogio della mitezza, 1993), osservava che quando la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza e a sua volta crea divisioni, al mite si aprono due strade: o perseverare, nella mitezza, rischiando di essere sopraffatto dalla violenza; oppure combatterla e con essa i violenti. La prima opzione è quella della speranza, virtù del credente: è la speranza nella Provvidenza divina che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male. In entrambi i casi, però, la vittoria dei miti sui violenti, di Abele su Caino, sarebbe assicurata, secondo la promessa evangelica. Anche Givone e Bodei (Beati i miti perché avranno in eredità la terra, 2013) ripresero il tema, evidenziando come essa sia spesso assimilata alla passività, alla debolezza, alla viltà, un comportamento del tutto inadeguato ad affrontare la durezza della realtà. Da prospettive diverse, ma complementari, una religiosa e l’altra laica, viene comunque rivalutato il valore etico, politico e sociale della mitezza. Ora, un saggio sulla mitezza si può sempre scrivere. Ma forse il libro migliore, che tutti leggono, è quello di un’esistenza mite, come quella condotta da Pino Puglisi. I testimoni al processo canonico hanno attestato più volte il suo

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temperamento mite, tanto da paragonarlo ad Abele: «Certamente, per Puglisi non deve essere stato semplice imitare Cristo e assumere su di sé il compito, urgente e necessario di porsi a capo del suo piccolo gregge impaurito... Prima di affidargli una così importante fatica storica, il Signore lo ha munito delle nobili risorse necessarie: gratuità, umiltà, temperanza, penitenza e capacità di perdonare» (Padre Pino Puglisi profeta e martire. Beato, 2013). E tanta, tanta mitezza. La mitezza, sul piano generale, trova il punto più alto di espressione nel Cristo sulla croce. Frère Christian, priore della comunità di Tibhirine in Algeria, uno dei sette monaci uccisi nel 1996 dai fondamentalisti islamici, in Più forti dell’odio riferisce di un colloquio tra lui e un suo amico musulmano, in relazione alla croce di Cristo. Emerge che ci sono due croci: quella di legno dove Gesù è inchiodato e quella del Suo corpo con le braccia distese. La croce di legno è la croce offerta dall’empietà, dall’ingiustizia, dal bacio ingannevole, dai falsi testimoni; è la croce scaturita dall’accordo tra i poteri, purché Gesù venga tolto di mezzo. Ma vi è anche l’altra croce, quella del corpo di Gesù, la croce delle braccia distese sul legno per un atto di libero amore. Il crocifisso è il mite che ama fino all’estremo, che si lascia inchiodare dal male, ma continua a fare il bene. È risaputo: nelle città ci sono i profeti, come l’inascoltato Battista, ma ci sono anche quelli che non vogliono sentire. E noi, preferiremo un’esistenza lontana dal Signore, prona al potere del mondo, oppure al suo giogo (Mt 21,30)? È un interrogativo di don Pino. «Un altro dei valori emergenti – disse una volta 3P – è il potere, visto non come servizio verso gli altri, ma come mezzo per procurarsi il piacere. Ma non è così. Il piacere non dà gioia. Cristo ci chiama a un cammino alternativo, controcorrente: 'Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e le altre cose vi saranno date in più'». Nel discorso della montagna, nella terza beatitudine, sono chiamati beati coloro i quali allo stile della violenza e del sopruso preferiscono – anzi oppongono – il temperamento dolce, disposto alla pazienza e alla misericordia. Costoro, non i potenti, né gli affaristi, erediteranno la terra, perché la mitezza non è solo una virtù etica, ma è un dono divino, che fiorisce nel cuore del credente capace d’amore per l’altro e di perdono. La mitezza richiede più forza della violenza. È l’eroismo del bene. Un dato emblematico: nel corso della riunione (nel gennaio 2015) della Commissione regionale antimafia nel Centro palermitano Padre nostro, il presidente del Centro chiarì: «È un atto di solidarietà al nostro ente, dopo gli atti vandalici subiti negli ultimi tre mesi». E i ragazzi, nella loro lettera alla Commissione, scrissero: «Oggi con il martirio e la beatificazione di padre Puglisi si associa Brancaccio a speranza. Il suo esempio ci ha insegnato a opporci alla violenza, all’ingiustizia e alla prepotenza, ci ha insegnato l’amore per la nostra terra, abitata anche da uomini onesti. Noi vogliamo ribellarci alla mentalità mafiosa, vogliamo vivere la nostra cittadinanza in maniera attiva». È il dono di un uomo mite, ucciso per il suo amore per Cristo, ma che ancora parla e sorride al mondo e resta orizzonte al quale tendere, cammino da imitare, speranza che non muore. Pag 9 Il cardinale Bassetti al nuovo governo: “Vigilanti sui principi irrinunciabili” di Mimmo Muolo Il presidente della Cei: stella polare è il nuovo impegno dei cattolici. Ridurre le diocesi? Sarà un processo lungo Roma. Vigilanti, pur senza precomprensioni. Collaborativi se del caso, ma non collaterali. E soprattutto intransigenti su alcuni «principi irrinunciabili che sono tutti contenuti nella Dottrina sociale della Chiesa ». In sostanza, ribadisce il cardinale Gualtiero Bassetti, «saremo voce critica». Poi auspica una nuova stagione di impegno dei cattolici in politica. Più chiaro di così il presidente della Cei non poteva essere nelle risposte date ieri ai giornalisti che gli chiedevano di spiegare la posizione della Chiesa italiana nei confronti del governo in formazione. Il porporato, precisando che le stesse cose le avrebbe dette nei confronti di qualunque esecutivo, mette però alcuni paletti: «Tutto quello che è buono lo apprezzeremo, ma su tutto quello che è contro la famiglia, la persona, i migranti, noi saremo voce critica». Gli auguri a Conte. La conferenza stampa si svolge come di consueto nell’androne dell’Aula Paolo VI. Quasi in contemporanea con l’inizio delle consultazioni del professor Giuseppe Conte a Montecitorio. E proprio sul presidente del Consiglio incaricato arrivano alcune domande. «Gli faccio i miei auguri – risponde Bassetti, ricordando le sue origini fiorentine – E in particolare che, stando a

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Firenze, abbia assorbito con profondità l’umanesimo fiorentino». Quindi fa i nomi di La Pira, Bargellini, Mucci, Arpioni, Bernabei, Gozzini. «Uomini che hanno vissuto l’umanesimo integrale cristiano – sottolinea – e che sono diventati punti di riferimento». I principi irrinunciabili. Il punto di riferimento dei vescovi è sempre il Vangelo, aggiunge il cardinale. «Non vogliamo essere fumo ma fuoco, come ci ha chiesto il Papa: e il fuoco riscalda, e se necessario brucia anche». Un riferimento neanche troppo velato al ruolo di coscienza critica, evidenziato poco prima. In particolare Bassetti tiene a precisare i paletti «che sono principi irrinunciabili». «La centralità della persona – elenca il presidente della Cei –, il lavoro come mezzo fondante della personalità umana; l’attuazione sul piano concreto della Costituzione; la scelta chiara per la democrazia e per l’Europa». «La stella polare – prosegue quindi – è il rinnovato impegno dei cattolici, alla cui base sta la giustizia sociale secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa». E tali principi sono: «Il lavoro da garantire attraverso la piena occupazione; il giusto salario; la previdenza; l’assistenza sociale e sanitaria; l’istruzione». C’è anche un riferimento più o meno diretto alla “flat tax” nelle parole del porporato, quando ricorda che tra questi principi è da annoverare pure «la progressività fiscale» con «una maggiore tassazione sulle attività speculative». Poi l’elenco si arricchisce con «la lotta contro ogni forma di illegalità; l’inclusione di quanti vivono ai margini della società; la partecipazione alla cittadinanza della vita politica e sociale». Ognuno di questi principi irrinunciabili, ricorda ancora il presidente della Cei, è contenuto «nel contesto della dottrina sociale della Chiesa. Non li ha inventati la Cei. Come c’è un catechismo per le verità di fede, c’è anche un catechismo per la vita sociale». Prima di tutto i problemi del Paese. Una cosa è certa. Da ora in poi bisognerà metter mano seriamente alla soluzione dei problemi del Paese. Con «la lunga vacanza della legislatura, che è durata quasi tre mesi – fa notare il cardinale –, i problemi del Paese si sono moltiplicati e accentuati». «Chiediamo ora a chi si assumerà una magistratura così alta di sapere dare prova di maturità e di affrontare i problemi di cui questo Paese ha bisogno. La politica deve essere saggia, incisiva e giusta». I cattolici in politica: terza fase. I giornalisti pongono anche alcune domande sulla collocazione dei cattolici in politica, prendendo spunto, anche in questo caso dal passaggio dell’Introduzione in cui, martedì scorso, Bassetti aveva citato l’Appello ai Liberi e Forti di don Sturzo, di cui proprio quest’anno ricorre il centenario. Bassetti parla sempre di partito unico, non di partito dei cattolici ricordando ad esempio che anche lo stesso Sturzo non lo voleva. «Il partito unico – spiega infatti – ebbe la sua stagione e le sue motivazioni, poi le cose si sono evolute e siamo arrivati all’inserimento dei cattolici nei vari partiti», che però «non ha portato gran frutto ». In particolare, fa notare il cardinale, «non avendo una coesione, i cattolici impegnati in politica non sono stati sempre una voce concorde sui principi della Chiesa e del Vangelo». Ma anche questa fase è superata. E se ne apre una nuova. Il cardinale non intende entrare nello specifico, ma traccia una sorta di orizzonte. «Ora è importante che i cattolici abbiano la fantasia e la libertà di vivere insieme questi valori e di vedere come esprimerli - risponde alla domanda di un giornalista –. Nella società di oggi è necessaria anche la presenza dei cattolici, e se non trovano una forma per dirlo insieme, si rischia di essere inefficaci ». Tuttavia, quale sia la forma (ritorno al partito unico o altro modo) «non sta a me dirlo», aggiunge. Tuttavia è chiaro quale sarà il ruolo della Cei. Secondo il porporato sarà quello di «mettere più impegno nella formazione», attraverso la creazione di scuole della Dottrina sociale della Chiesa e di percorsi di avviamento alla politica. La legge sull’aborto. L’ultima domanda riguarda la legge 194, a quarant’anni dalla sua emanazione: «Non possiamo dire che sia una buona legge. Come Chiesa ne abbiamo visti sempre i limiti ma è comunque una normativa che pone dei limiti rispetto al relativismo totale sull’embrione e sulla vita». Roma. Riduzione del numero delle diocesi, trasparenza nell’uso del denaro e crisi delle vocazioni. Ritornano anche nella conferenza stampa conclusiva le tre «preoccupazioni» espresse dal Papa in apertura dei lavori della 71ª Assemblea generale dei vescovi. Il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti assicura la massima attenzione dei vescovi su tutti e tre i fronti. Riduzione delle diocesi. Per quanto riguarda ad esempio la riduzione del numero delle diocesi, il porporato ha precisato che «sarà un processo lungo, perché non basta una matita per cancellare». In sostanza occorrerà procedere per gradi. «Si possono seguire

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vie intermedie – ha detto infatti – come l’accorpamento di più diocesi che si mettono insieme e formano una metropolia, mettendo le strutture in comune ma senza smantellare la struttura delle diocesi». Il compito dei vescovi, dunque, sarà quello di mettere in atto «accorgimenti intelligenti», che «nel rispetto della sensibilità della gente, portino un po’ alla volta a questo cambiamento». Trasparenza. Anche per quanto riguarda la trasparenza nell’uso del denaro, non si parte certo da zero ma si può fare sempre di più. Ci deve essere una «pedagogia della trasparenza », ha sottolineato Bassetti. Il quale ha poi spiegato il senso del richiamo del Papa. Oggi, ha ricordato, ci sono criteri di trasparenza che nel passato non c’erano. «Il parroco era un pater familiasche teneva tut- to lui il patrimonio, lo amministrava da solo e lo distribuiva secondo le necessità». Nelle comunità odierne, invece, la trasparenza passa anche attraverso organi come il consiglio per gli affari economici, che deve essere presente in ogni parrocchia. «Non ci manca nulla per fare un buon bilancio – ha concluso il presidente della Cei sull’argomento – e per distinguere ciò che va per lo stipendio del prete e ciò che deve andare per la parrocchia. Il Papa ci ha detto: continuate così e non tornate al passato». Vocazioni. Il presidente della Cei si è soffermato anche sul tema della scarsità di vocazioni. «Questo problema ci fa riflettere anche sulla capacità della Chiesa di generarle. Forse c’è una crisi di paternità in noi». Ma c’è pure una questione di clima culturale. «Il problema è la cultura del provvisorio, del relativismo, che si basa su denaro e sesso – dice l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve – Anche gli scandali possono avere influito». Di qui l’invito del Santo Padre ad attuare uno scambio all’interno del-l’Italia sul modello di quello dei sacerdoti fidei donum inviati in missione. Bassetti ha anche risposto a una domanda sull’omosessualità. «Se c’è acqua sporca va tolta». Tuttavia il porporato ha aggiunto: «Nei seminari c’è anche tanto di buono: preti e ragazzi che vogliono dare la vita per Dio e per gli altri. Sono stato 40 anni in seminario, 10 da allievo, 22 da rettore e altri 11 da vistatore dei seminari: posso dire che se c’è del male va estirpato, ma c’è anche tanto bene». I giovani e il Sinodo. Inoltre il cardinale si è detto felice per l’ottima risposta delle diocesi italiane in vista dell’incontro dei giovani con il Papa, l’11 e 12 agosto, in preparazione al Sinodo. «Dopo una serie di pellegrinaggi in cui non visiteranno solo monumenti ma soprattutto incontreranno persone, almeno 100mila giovani invaderanno Roma con la loro gioia e capacità di testimoniare Cristo». Infine l’ 8xmille. Nel corso della conferenza stampa è stata resa nota la ripartizione e assegnazione delle somme relative al 2018, come riportiamo nel grafico qui a fianco. I dati sono relativi alla dichiarazione dei reditti del 2015 e indicano che la percentuale delle scelte a favore della Chiesa cattolica è stata pari all’81,22 per cento. Pag 10 Cei, “per guidare un Paese si deve conoscerlo da vicino” I vescovi: simpatia critica verso i nuovi media Un incontro prolungato di riflessione e dialogo tra il Santo Padre e i vescovi ha aperto la 71ª Assemblea Generale della Conferenza episcopale italiana, riunita nell’Aula del Sinodo della Città del Vaticano da lunedì 21 a giovedì 24 maggio 2018, sotto la guida del cardinale presidente, Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. L’intervento con cui quest’ultimo ha introdotto i lavori ha offerto ai pastori spunti per il confronto e l’approfondimento sulla situazione del Paese, nella volontà di rilanciare l’apporto della Dottrina sociale della Chiesa, quale strumento formativo per un autentico servizio al bene comune. Il tema principale dell’Assemblea ruotava attorno alla questione: Quale presenza ecclesiale nell’attuale contesto comunicativo. I contenuti, affidati a una relazione centrale, sono stati approfonditi nei gruppi di lavoro - che hanno sottolineato l’importanza di percorsi educativi e formativi per abitare da credenti questo tempo - e condivisi nella restituzione e nel dibattito conclusivo. Nel corso dei lavori assembleari si è fatto il punto sui contenuti e le iniziative della Chiesa italiana nel cammino verso la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicato a I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (Roma, 3 - 28 ottobre 2018). Sono stati eletti i rappresentanti della Cei, chiamati a prendervi parte. L’Assemblea Generale ha approvato un aggiornamento del Decreto generale Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza. Tale aggiornamento ha ottenuto la necessaria recognitio della Santa Sede. Si è dato spazio ad alcuni

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adempimenti di carattere amministrativo: l’approvazione del bilancio consuntivo della Cei per l’anno 2017; l’approvazione della ripartizione e dell’assegnazione delle somme derivanti dall’otto per mille per l’anno 2018; la presentazione del bilancio consuntivo, relativo al 2017, dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero. Sono state aggiornate le Disposizioni concernenti la concessione di contributi finanziari della Cei per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto. L’Assemblea ha eletto i presidenti della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi e della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali. Distinte comunicazioni hanno riguardato la verifica e le prospettive del Progetto Policoro; un aggiornamento circa la riforma del regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale; la situazione dei media Cei; la Giornata per la carità del Papa (24 giugno 2018) e la Giornata missionaria mondiale (21 ottobre 2018). È stato presentato il calendario delle attività della Cei per il prossimo anno pastorale. Hanno preso parte ai lavori 233 membri, 39 vescovi emeriti, il nunzio apostolico in Italia monsignor Emil Paul Tscherrig - 22 delegati di Conferenze episcopali estere, 24 rappresentanti di religiosi, consacrati e della Consulta nazionale per le aggregazioni laicali. Tra i momenti significativi vi è stata la concelebrazione eucaristica, presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti, nella Basilica di San Pietro. A TU PER TU CON IL SUCCESSORE DI PIETRO - Tre preoccupazioni papa Francesco ha condiviso ai vescovi nell’intervento con cui ha aperto i lavori della 71ª Assemblea generale. Innanzitutto, quella per la crisi delle vocazioni. Al riguardo, il Papa ha parlato di «emorragia», riconducendola al «frutto avvelenato» della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, oltre che alla diminuzione delle nascite, agli scandali e alla tiepidezza della testimonianza. Ha, quindi, suggerito «una più concreta e generosa condivisione fidei donum tra le diocesi italiane». Una seconda preoccupazione concerne la gestione dei beni della Chiesa. Dopo aver riconosciuto che «nella Cei si è fatto molto negli ultimi anni sulla via della povertà e della trasparenza», ha riaffermato il dovere di una testimonianza esemplare anche in questo ambito. Infine, una terza preoccupazione è relativa alla questione della riduzione delle diocesi italiane, «argomento datato e attuale». Su questo argomento, come sui molti sollevati dalle domande dei vescovi, il confronto con il Santo Padre è proseguito a porte chiuse per un paio d’ore. FEDELTÀ AL TERRITORIO E RESPIRO EUROPEO - Negli interventi dei vescovi - seguiti all’Introduzione ai lavori, offerta dal cardinale presidente - ha preso volto un Paese segnato da pesanti difficoltà. Sono frutto della crisi economica decennale - con la mancanza di sicurezza lavorativa e mala-occupazione - e di un clima di smarrimento culturale e morale, che mina la coscienza e l’impegno solidale. Non si fatica a rinvenirne traccia nel sentimento d’indifferenza per le sorti altrui e nelle tensioni che incidono sulla qualità della proposta politica e sulla stessa tenuta sociale. Al riguardo, i vescovi hanno sottolineato che la debolezza della partecipazione politica dei cattolici è espressione anche di una comunità cristiana poco consapevole della ricchezza della Dottrina sociale e, quindi, poco attiva nell’impegno pre-politico. Di qui la volontà di una conversione culturale - sulla scia dell’esperienza delle Settimane sociali - che sappia dare continuità alla storia del cattolicesimo politico italiano, testimoniata da figure alte per intelligenza e dedizione. In particolare, è stata ricordata l’attualità del beato Giuseppe Toniolo che - in un’analoga situazione sociopolitica - seppe farsi promotore di cultura cristiana, di un’etica economica rispettosa della persona, della famiglia e dei corpi sociali intermedi. Con la disponibilità a riscoprire e “abitare” un patrimonio di documenti che testimoniano la particolare sensibilità della Chiesa italiana per l’aspetto politico dell’evangelizzazione, i vescovi si sono impegnati ad aiutare quanti sentono che la loro fede, senza il servizio al bene comune, non è piena. La ricostruzione - è stato evidenziato - parte da un’attenzione a quanti, a livello locale, con onestà e competenza amministrano la cosa pubblica, senza smarrire uno sguardo ampio e una cornice europea. A tale duplice fedeltà i pastori hanno richiamato anche i protagonisti dell’attuale stagione politica, ricordando loro che per guidare davvero il Paese è necessario conoscerlo da vicino e rispettarne la storia, la tradizione e l’identità. Anche la proposta, presentata dal cardinale presidente, di un Incontro di riflessione e spiritualità per la pace nel Mediterraneo, è stata condivisa in maniera convinta dall’Assemblea generale. Nelle

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parole dei vescovi è emersa la preoccupazione per tante situazioni di instabilità politica e di criticità dal punto di vista umanitario, a fronte delle quali come Chiesa si avverte l’importanza di porre segni che alimentino la riconciliazione e il dialogo. È stata espressa la volontà di costituire a breve un Comitato operativo, che valorizzi quanto già in essere e consideri con attenzione l’incontro che papa Francesco vivrà a Bari il prossimo 7 luglio. DA CREDENTI NEL CONTINENTE DIGITALE - Di fronte allo scenario creato dai new media l’atteggiamento espresso dai vescovi è di simpatia critica, intuendone sia i rischi che le opportunità. Approfondendo i contenuti della relazione principale - Quale presenza ecclesiale nell’attuale contesto comunicativo, affidata al professor Pier Cesare Rivoltella - e nella consapevolezza di quanto la comunicazione interpelli la pastorale ordinaria, i gruppi di studio sono stati animati dall’esigenza educativa, nell’intento di verificare come sia possibile articolare la comunicazione della e nella Chiesa ricavandone spunti per la riflessione teologica, l’attitudine educativa e la progettazione pastorale. I pastori hanno evidenziato come non si debba pensare che il problema della comunicazione del Vangelo nell’odierna società sia rappresentato dal mezzo, dal linguaggio, dalla capacità di utilizzo delle più moderne tecnologie, perdendo di vista l’essenziale, cioè l’esperienza evangelica. C’è bisogno di ascolto - è stato sottolineato - come condizione permanente; c’è bisogno di raccontare la vita, le storie delle persone attraverso le quali passa il messaggio: oggi più di ieri è il tempo dei testimoni. Sicuramente nella missione della Chiesa, che resta nel tempo immutata nel suo nucleo di fedeltà al Vangelo, è necessario comprendere come colmare il divario tra l’accelerazione della tecnologia e la capacità di afferrarne il senso profondo: le forme della liturgia della catechesi e più in generale della pedagogia della fede si trovano oggi di fronte a una dimensione antropologica nuova e, pertanto, presuppongono un’adeguata inculturazione della fede. Tra le proposte emerse, l’investimento in una formazione progressiva, sostenuta con la realizzazione di contenuti digitali di qualità e materiale didattico. Un’ipotesi percorribile concerne l’opportunità di valorizzare, integrandolo saggiamente, il Direttorio Comunicazione e missione. Il cinema e il teatro, le sale di comunità, sono considerate come veicolo di cultura e di possibile formazione. È stato anche suggerito di potenziare i servizi di collegamento e condivisione tra le parrocchie e le diocesi, creando gradualmente le condizioni per una nuova cultura della comunicazione nel servizio pastorale. Un’opportunità in tal senso potrà essere rappresentata dalla collaborazione tra gli Uffici della Cei e l’Università Cattolica nell’ambito della formazione. In questa direzione alcune iniziative sono già in atto e altre sono in fase di progettazione per una sensibilizzazione delle comunità sul tema dell’educazione digitale. In sintesi, dai vescovi è emersa la necessità e la fiducia di saper individuare in questo contesto nuove prospettive per essere comunità cristiana viva e attrattiva. CON IL VANGELO SUL PASSO DEI GIOVANI - L’Assemblea generale ha fatto il punto sul cammino della Chiesa italiana verso il Sinodo dei vescovi, che si terrà a Roma in ottobre, dedicato a I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Nel confermare la centralità dell’impegno educativo, i Pastori avvertono la responsabilità di testimoniare ai giovani ragioni di vita, coinvolgendoli nell’esperienza cristiana; di curare legami ed affetti, qualificandoli con l’appartenenza ecclesiale; di favorire la crescita e la maturazione dei ragazzi aiutandoli a scoprire la ricchezza del servizio agli altri. In particolare, sulla scorta del Documento preparatorio e del Questionario, l’anno 2017 ha visto le diocesi promuovere un discernimento pastorale, relativo alle pratiche educative presenti nel tessuto ecclesiale. Una seconda tappa si è focalizzata maggiormente sull’ascolto delle nuove generazioni, anche attraverso un portale dedicato (www.velodicoio. it). A tale attenzione ha dato un contributo essenziale la riunione presinodale, convocata a Roma dal Santo Padre nei giorni precedenti la Domenica delle Palme di quest’anno. Mentre a giugno è atteso l’Instrumentum laboris, 183 diocesi hanno accolto la proposta del Servizio Nazionale per la pastorale giovani di organizzare pellegrinaggi a piedi, lungo itinerari che valorizzano la tradizione e la spiritualità locale. L’esperienza culminerà a Roma nell’incontro con papa Francesco e i rispettivi pastori (11 - 12 agosto 2018). L’Assemblea generale ha eletto quattro vescovi membri effettivi e due vescovi membri supplenti in qualità di suoi rappresentanti alla XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (Roma, 3 - 28 ottobre 2018). ADEMPIMENTI DI CARATTERE GIURIDICO-AMMINISTRATIVO - L’Assemblea generale ha approvato un aggiornamento del Decreto generale Disposizioni per la tutela del diritto

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alla buona fama e alla riservatezza, risalente al 1999. Il passaggio era necessario per rendere tale testo conforme - nel rispetto dell’autonomia della Chiesa e della peculiare natura dei suoi enti e delle sue attività - al Regolamento dell’Unione Europea in materia di protezione dei dati personali, che diventa applicabile in tutti i Paesi membri a partire dal 25 maggio di quest’anno. L’aggiornamento votato ha prontamente ottenuto la necessaria recognitio della Santa Sede. Come ogni anno, i vescovi hanno provveduto ad alcuni adempimenti di carattere giuridico-amministrativo: l’approvazione del bilancio consuntivo della CEI per l’anno 2017; l’approvazione della ripartizione e dell’assegnazione delle somme derivanti dall’otto per mille per l’anno 2018; la presentazione del bilancio consuntivo dell’Istituto Centrale per il sostentamento del clero, relativo al 2017. Sono state aggiornate le nuove Disposizioni concernenti la concessione di contributi finanziari della Cei per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, che mirano a disciplinare in modo uniforme i contributi finanziari concessi dalla Cei per la tutela dei beni culturali ecclesiastici, gli interventi sugli edifici esistenti e la nuova edilizia di culto. COMUNICAZIONI E INFORMAZIONI - Una prima comunicazione si è concentrata sul Progetto Policoro, rispetto al quale il Consiglio permanente nei mesi scorsi ha avviato una verifica per individuare le prospettive con cui proseguirlo. Tra gli elementi positivi sono emersi: la possibilità, con tale strumento, di raggiungere giovani spesso “lontani” con il volto di una Chiesa attenta ai bisogni reali e coinvolta nelle storie di vita; la qualità del livello formativo; la generatività - sulla scorta anche del mandato della Settimana sociale di Cagliari - attraverso l’accompagnamento alla creazione di impresa e la nascita di gesti concreti. Un’altra comunicazione ha riguardato i media della Conferenza episcopale Italiana, che quest’anno celebrano anniversari significativi: i cinquant’anni di Avvenire, i trenta dell’Agenzia Sir, i venti di Tv2000e del Circuito radiofonico In-Blu. Come sottolineava il cardinale presidente nell’udienza che all’inizio di maggio papa Francesco ha concesso alla famiglia di Avvenire, «in un momento di repentine trasformazioni, queste tappe sono un richiamo a far sempre più nostre le indicazioni del Santo Padre a ricercare e promuovere una maggiore sinergia tra i nostri media, per una presenza qualificata e significativa, capace di informare e di formare». Di questa volontà è segno il nuovo portale www.ceinews.it, online dallo scorso 10 maggio. Promosso e realizzato dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali con il supporto del Servizio informatico - oltre a produrre alcuni contenuti mirati, fa soprattutto sistema di quelli prodotti dalle testate della Cei. Il portale nasce soprattutto per rispondere all’esigenza di approfondire la posizione della Chiesa italiana su tematiche legate al dibattito pubblico, quali la vita, la famiglia, il lavoro. L’obiettivo è quello di partire dalla notizia per andare oltre la notizia e offrire percorsi di senso, aggregando contenuti in base a una linea editoriale. All’Assemblea è stato fornito un aggiornamento circa la riforma del regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale. Un’informazione ha riguardato la Giornata per la carità del Papa, che si celebra domenica 24 giugno 2018, quale segno concreto di partecipazione alla sollecitudine del vescovo di Roma a fronte di molteplici forme di povertà. I dati relativi alla raccolta italiana relativa al 2017 ammontano a euro 2.303.925,26 - comprensivi di euro 371,300,04 presentati dalla Cei come offerta per l’Ucraina - a cui vanno ad aggiungersi i contributi devoluti ai sensi del can. 1271 del Codice di Diritto Canonico: si tratta di euro 4.020.300,00 (4 milioni dalla Cei e 20.300,00 dall’arcidiocesi di Genova). I media ecclesiali - dalle testate della CeiI ai settimanali diocesani associati alla Fisc sosterranno con impegno l’iniziativa. Il quotidiano Avvenire, in particolare, vi devolverà anche il ricavato delle vendite di quella giornata. Domenica 21 ottobre 2018 si celebra la Giornata missionaria mondiale. Nella comunicazione offerta all’Assemblea generale, si sottolinea come sia il momento in cui ogni Chiesa particolare rinnova la consapevolezza del proprio impegno nei confronti dell’evangelizzazione universale. Ne è parte anche l’adesione alla Colletta - da chiedere a tutte le parrocchie - quale manifestazione di concreta solidarietà nei confronti delle Chiese di missione, attraverso la partecipazione al Fondo universale di solidarietà delle Pontificie opere missionarie. Lo scorso ottobre la somma raccolta è stata di 6.281.436,50 euro. All’Assemblea generale è stato, infine, presentato il calendario delle attività della Cei per l’anno pastorale 2018 - 2019.

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Nel corso dei lavori l’Assemblea generale ha provveduto alle seguenti nomine: – presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi: monsignor Erio Castellucci, arcivescovo abate di Modena-Nonantola. – presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali: monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti. Il Consiglio episcopale permanente, nella sessione straordinaria del 23 maggio, ha provveduto alle seguenti nomine: – presidente del Comitato per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo mondo: monsignor Alfonso Badini Confalonieri, vescovo di Susa. – presidente del Comitato per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica: monsignor Donato Negro, vescovo di Otranto. – direttore dell’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese: don Valentino Sguotti (Padova). – assistente ecclesiastico centrale dell’Azione cattolica ragazzi (Acr): don Marco Ghiazza (Torino). – presidente nazionale maschile della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci): Pietro Giorcelli (Massa Carrara-Pontremoli). – assistente ecclesiastico nazionale del Movimento apostolico ciechi (Mac): don Alfonso Giorgio (Bari-Bitonto). Inoltre la Presidenza, nella riunione del 21 maggio, ha proceduto alla nomina di un membro del Consiglio nazionale della scuola cattolica: cav. Michele Dimiddio, segretario nazionale Agesc. Pag 23 Quando i Pontefici “tornano” nelle loro terre di Marco Roncalli Sono due i precedenti che hanno visto il provvisorio ritorno nella terra natale delle spoglie di Pontefici saliti agli altari: san Pio X a Venezia nel 1959 e il beato Pio IX a Senigallia nel 2001. Nel 1954, dopo la canonizzazione di papa Sarto, era stato l’allora patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli. Sa chiedere a Pio XII che le «sacre spoglie» di san Pio X potessero passare «attraverso i punti principali della regione veneta». Accolta favorevolmente la sua richiesta, Roncalli il 24 giugno annunciava come certo il ritorno di Pio X per settembre. In realtà, sopraggiunte alcune difficoltà insormontabili, quella peregrinazione fu possibile solo cinque anni dopo, concessa dallo stesso Roncalli nel frattempo eletto Papa. Pio X manteneva così la promessa fatta alla partenza per il Conclave quando aveva detto: 'O«vivo o morto ritornerò». Le sue spoglie furono collocate sotto la cupola grande della Basilica d’Oro a Venezia dal 12 aprile al 10 maggio 1959, oggetto di venerazione «in mezzo alla sua gente umile e generosa, che gli restò sempre nel cuore», come scrisse Giovanni XXIII il 21 aprile ’59 nell’esortazione apostolica indirizzata all’episcopato e al clero veneto spiegando che «la maestà della morte e la conclamata celeste glorificazione conferiscono una significazione speciale all’insegnamento di questo grande, di questo santo insigne» e indicando «tre punti» ancorati al suo richiamo: la «dignità sacerdotale», l’«amore alla Santa Chiesa», la «saggezza umana e cristiana». A tutti i fedeli delle Tre Venezie oranti davanti all’urna, Giovanni XXIII avrebbe invece rivolto un radiomessaggio alla conclusione della peregrinatio, arrivando a dire: «Qualcosa di soprannaturale si è fatto sentire sopra le nostre teste e nelle intimità dei cuori». E «forse mai nella storia di Venezia fu dato constatare un fenomeno di così alto e sincero fervore religioso». Oltre trentamila in un mese i pellegrini recatisi in San Marco da ogni parte del Triveneto e non solo. Memorabili le sequenze – filmate – dell’arrivo nella Laguna con un corteo di gondole lungo il Canal Grande e del ritorno a Roma, con un altro corteo lungo le vie della Capitale. Il ricordo di quelle giornate emerge anche dal carteggio fra l’allora patriarca di Venezia Giovanni Urbani e Giovanni XXIII. In una lettera del 15 aprile Urbani definisce «consolante » la presenza dei pellegrini in San Marco specie «alla Messa e alla Comunione». Si entusiasma per i «confessori in lavoro per cinque o sei ore al giorno» e la «folla composta e devota che passa dietro l’urna del santo e la tocca con riverenza e prega». E conclude: «Sacerdoti di tutte le diocesi e popolo popolo popolo. In tutti la stessa fortunata e commossa impressione: veramente un santo affascina ancora gli uomini del nostro tempo e li richiama a serietà di vita». L’altra peregrinatio riguardante un Papa salito agli altari è quella del beato Mastai Ferretti, accolto a Senigallia, città da lui amata

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e beneficata, dal 2 febbraio al 9 febbraio 2001. Le sue reliquie, composte in un’urna nella Basilica romana di San Lorenzo al Verano dov’era sepolto, furono portate nella terra natale dal vescovo emerito Odo Fusi Pecci con alcuni membri del Comitato diocesano Pio IX e accolte dalla popolazione insieme al vescovo Giuseppe Orlandoni e al sindaco Luana Angeloni davanti la chiesa di Santa Maria del Porto. Da lì l’itinerario verso la chiesa di Santa Maria Maddalena (il Duomo era indisponibile per i lavori dovuti al terremoto del 1997). Un cammino in comunione con Pio IX non più quale «sovrano temporale», né «vivente pastore della Chiesa universale», si disse, ma come «beato». Nel ricordo del suo magistero, in un clima di preghiera, con una certa commozione mentre il suo corpo passava dinanzi a palazzo Mastai Ferretti, la sua casa. «Le giornate seguenti sino al 9 febbraio sono state caratterizzate da un continuo afflusso di devoti provenienti dall’intera diocesi, sia singolarmente sia in pellegrinaggi comunitari promossi da ciascuna delle sei vicarie della diocesi alla sera di ogni giorno», si può leggere nella “Relazione inviata alla Santa Sede dal Custos Portitor della diocesi di Senigallia”. Odo Fusi Pecci, dato conto dell’alternarsi di silenzi di preghiera e memorie del messaggio di Pio IX, ricordate le presenze illustri all’avvenimento, così concludeva: «Senigallia e l’intera regione marchigiana hanno vissuto incontri di ascolto e di riflessione attraverso i quali è apparsa nella sua autenticità la persona e l’opera di questo grande figlio della nostra terra [….]. Sono stati incontri nei quali i cuori si sono ritrovati in uno spirito di profonda comunione crescendo nella conoscenza di quel mistero di Cristo che Pio IX pose al centro dei suoi trentadue anni di pontificato». Un ritorno anche il suo «nella povertà delle spoglie mortali, ma allo stesso tempo rivestito dell’aureola di chi vede Dio faccia a faccia», disse in quell’occasione il vescovo Orlandoni, aggiungendo: «Papa Mastai non viene a suscitare nostalgie per tempi ormai definitivamente tramontati. Viene nel nome del Signore come modello di santità e intercessore». Come san Pio X e il beato Pio IX, ora è san Giovanni XXIII a tornare a casa. Circa cinquantamila le presenze già “prenotate” a Sotto il Monte che raggiungerà dopo pochi giorni a Bergamo e dintorni. Per guardare il suo volto nella chiesa di Santa Maria della Pace, cuore del paese diventato santuario a cielo aperto. Per guardarlo. E lasciarsi guardare da lui. IL FOGLIO Pag 3 Cattolici in politica, fatevi avanti Cei e Vaticano danno la sveglia: “Il contributo sia organico, non individuale”

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Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Ora le nascite aumentano solo dove c’è più ricchezza di Massimo Calvi Reddito, tempo, welfare: se lo sviluppo porta fecondità Per decenni gli esperti di demografia e di economia della famiglia hanno analizzato le dinamiche della popolazione alla luce di una regola solidissima: nei paesi più ricchi si fanno meno figli. La questione è stata studiata, approfondita, dibattuta, ma questa norma ha sempre resistito. Ora invece, stando a una ricerca appena pubblicata sull’European Journal of population (tinyurl.com/y7lh4wtl), la teoria della transizione demografica secondo la quale l’avanzata dello sviluppo porta inevitabilmente un calo della fecondità, starebbe vacillando. Le prove sulla possibilità di invertire il declino delle nascite con l’aumentare del benessere dicono che anche le previsioni demografiche disastrose relative all’Europa potrebbero dover essere riscritte. Forse è presto per parlare di rivoluzione copernicana, ma la scoperta apre un ampio ventaglio di riflessioni sull’evoluzione della famiglia nelle economie avanzate. «A sorpresa i risultati della nostra ricerca indicano che lo sviluppo non agisce più come un contraccettivo nelle regioni sviluppate, ma potenzialmente potrebbe promuovere una maggiore fecondità», ha spiegato Sebastian Kluesener, che firma lo studio insieme a Mikko Myrskyla, direttore dell’istituto Max Planck per la ricerca demografica, e a Jonathan Fox dell’Università

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Libera di Berlino. Ma a cosa si deve questa inversione di tendenza? Analizzando 250 regioni di 20 paesi europei i ricercatori hanno trovato che nei territori più sviluppati si è incominciato a registrare un chiaro aumento del numero di figli per donna al crescere del reddito. Nel 1992 il rapporto tra fecondità e retribuzioni non mostrava differenze sostanziali al variare della ricchezza. Vent’anni dopo, nel 2012, ecco invece un trend in decisa crescita: più benessere, più bambini. La tendenza riguarda in realtà i contesti più evoluti. Il reddito, cioè, diventa una forza trainante per la fecondità quando persone con buoni livelli di retribuzione hanno la fortuna di vivere in una regione in cui sono diffusi i servizi per la cura dei figli, dove le aziende consentono congedi parentali generosi e margini di flessibilità e gestione del tempo che favoriscono la conciliazione tra il lavoro e la vita familiare. A lla conclusione che nei contesti più avanzati tassi di sviluppo ulteriori possono invertire il declino della fecondità era già arrivata qualche anno fa una ricerca condotta da Francesco Billari, docente di demografia alla Bocconi, insieme sempre a Mikko Myrskyla, e pubblicata su Nature (tinyurl.com/ybof6pf3). Se si pensa all’Italia è avvenuto proprio questo: a differenza del passato i tassi di fecondità sono ormai più alti nel Nord sviluppato che al Sud. Oggi la conferma a questa intuizione è ancora più solida e indica che la fecondità può crescere ulteriormente se lo sviluppo aumenta. In un Continente sempre più vecchio l’analisi ha anche un valore 'storico'. Nell’antichità e nella società agricola il numero di figli e le risorse disponibili hanno di fatto sempre avuto una relazione positiva. Con l’avvento della rivoluzione industriale il discorso si è fatto più complicato: dal XIX° secolo le transizioni demografiche hanno insegnato che lo sviluppo riduce sempre la taglia della famiglia. Un 'paradosso' cui sono state date molte spiegazioni: economiche, sociali, culturali, religiose. Se ci si limita a uno sguardo economico sulla persona umana, la teoria insegna che lo sviluppo fa salire i costi opportunità dei figli e spinge le persone ad averne meno. L’ingresso delle donne nel mercato del lavoro ha accentuato questo processo. Ora non è più così. Ma cosa serve per sostenere la fecondità nei paesi ricchi, in particolare nelle regioni più depresse di questi? Le misure in grado di incidere sulla natalità sono molte e note. Un primo gruppo di aiuti prevede incentivi monetari alle famiglie, sussidi o detrazioni fiscali elargiti in base ai figli. Quando sono ben calibrati funzionano, come insegna l’esempio francese, tuttavia si è visto che questo tipo di misure avvantaggia chi vive nelle aree meno 'avanzate'. Dove invece il contesto è più competitivo, come le grandi città o le regioni più innovative, ecco che funzionano meglio altri interventi. Nelle famiglie in cui l’istruzione è alta ed entrambi i genitori lavorano, la fecondità è sostenuta da una precisa combinazione di fattori: divisione paritaria dei compiti tra padre e madre, disponibilità di servizi pubblici di assistenza all’infanzia, congedi parentali estesi, possibilità di rientrare al lavoro dopo la nascita dei figli senza penalizzazioni di carriera, accordi di lavoro flessibili che consentono di conciliare il lavoro e la cura della prole. Internet e le tecnologie digitali rappresentano un altro elemento positivo, perché riavvicinano il lavoro alla casa, un po’ come era nella società agricola, e favoriscono una migliore gestione del tempo da parte dei genitori. I territori più avanzati, inoltre, attirano migranti e giovani, circostanza che si accompagna a un aumento delle nascite e della popolazione. Francia, Belgio, Svezia, Norvegia, Austria sono i paesi in cui questi processi appaiono più evidenti. L a scoperta che i tassi di natalità possono riprendere vigore anche nel mondo più sviluppato è una buona notizia. Ed è significativo che a fare la differenza sia un aumento del 'benessere' inteso come ricchezza di lavoro, di reddito, ma anche di tempo, servizi, qualità della vita e relazioni. Tuttavia ci sono alcuni elementi critici da considerare. Intanto il rialzo della fecondità registrato nelle aree più attive resta contenuto, quasi sempre sotto il tasso di sostituzione dei 2,1 figli per donna. Dunque stiamo parlando di una ripresina. Inoltre, se abbiamo trovato il modo per favorire le nascite nel mondo ricco, è anche vero che le condizioni ideali non sono facili da raggiungere, e questo può premiare le élites, generando nuove disuguaglianze e ulteriori tensioni tra i 'centri' più progrediti e le 'periferie' dello sviluppo. Il rischio, insomma, è che i figli diventino un privilegio. «In un Paese che al suo interno ha tassi di sviluppo molto diversi – spiega Billari – servirebbe un mix di politiche con interventi come il reddito garantito per i minori, a beneficio soprattutto dei contesti più poveri, e maggiori servizi quando è necessario favorire la conciliazione». Al di là di tutto, le ricerche dimostrano che dove la ricchezza e il benessere sembrano avere dato tutto alle persone, il desiderio di figli e di famiglia non si spegne, ma continua a essere forte e, appena

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trova lo spazio, riemerge con tutta la potenza del messaggio di gioia e speranza che porta con sé. Pag 21 Ecco i millennials, tutti cuore & paure di Matteo Marcelli Stimano il volontariato e la famiglia. Temono futuro, criminali e terroristi Non è l’interesse nella politica a mancare, piuttosto il senso di appartenenza a un’ideologia definita. I nostri giovani, infatti, vanno a votare in massa e ritengono che farlo sia un dovere civico. D’altro canto, però, non si sentono rappresentati da alcun partito o movimento. È questo il dato che emerge dal sesto rapporto dell’Osservatorio Generazione Proteo, presentato ieri alla Link Campus University di Roma. Un segnale che il voto del 4 marzo scorso, al netto delle promesse populiste e dell’insofferenza per la vecchia classe dirigente, può essere letto come la manifestazione di un cambiamento che l’establishment fatica ancora a comprendere. «Quella alla quale stiamo assistendo è una rivoluzione, un rovesciamento dei ruoli – spiega Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio –. I giovani diventano influencer di una società follower, in cui loro stessi stanno ridefinendo ciò in cui credono, la realtà in cui crescono e i diversi mondi che creano. Di questo cambiamento, gli adulti e le stesse istituzioni sono sovente spettatori passivi». Dei 20mila studenti italiani intervistati (tra i 17 e 19 anni), circa l’80% dichiara di essersi recato alle urne (o di avere intenzione di farlo) e di averlo fatto dopo essersi confrontati in famiglia (33,3%) o dopo aver cercato informazioni sui giornali (28,1%). Se poi si domanda loro cosa chiedono ai politici, il 26,9% risponde onestà, mentre il 24,3% ritiene che sia la competenza a caratterizzare un buon parlamentare. Ma di cosa dovrebbe occuparsi la politica secondo loro? Anche in questo caso i risultati sono piuttosto eloquenti; la criminalità, ad esempio, spaventa più del terrorismo (26,8% contro 25,4%), ma il 21,1% crede che la minaccia più pericolosa sia quella ambientale. Altro mito da sfatare è l’assenza di schemi valoriali, che invece conti- nuano ad esistere pur modificandosi nel loro modo di manifestarsi. I ragazzi chiedono pari opportunità (23,4%) come condizione indispensabile per costruire una società giusta. Il 38% di loro fa volontariato e oltre il 30% vorrebbe farlo. Per di più, il cittadino ideale è per loro colui che non discrimina per etnia, religione o orientamento sessuale. La famiglia è ancora un punto di riferimento e più di un terzo degli intervistati ritiene che il suo compito principale sia quello di trasmettere valori. Il 41,4% del campione crede inoltre che la pena di morte non sia ammissibile per il fatto che nessuno può privare gli altri della vita. «Mai come in questo momento le rivoluzioni sono nient’altro che rivelazioni di qualcosa che esiste da tempo – ragiona Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus –. Sono processi che vengono da lontano ai quali si fatica ad adattarsi. Il mondo della scuola e dell’università ha bisogno di capire prima di parlare. Ecco perché questo rapporto è stato prodotto coinvolgendo i giovani anche nella fase di analisi e discussione dei dati emersi». «Questi ragazzi hanno bisogno di capire cosa dà loro gusto, mentre invece oggi si insegna il metodo a scapito del contenuto – è il pensiero di monsignor Andrea Lonardo dell’Ufficio Pastorale Universitaria della diocesi di Roma –. Abbiamo vissuto un periodo in cui sembrava che l’unica cosa interessante fosse rompere gli schemi, differenziarsi. Ma questa generazione ha una richiesta di qualcosa di durevole, di non effimero». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Liti in casa, una tutela per i figli di Vittorio Filippi Separazioni e violenze Partiamo da due numeri. Lo scorso anno si sono separate in Italia circa 92 mila coppie, 6.600 in Veneto. In realtà le rotture coniugali sono di più, dato che dovremmo aggiungere anche le separazioni di fatto. E pure andrebbero comprese le dissoluzioni delle coppie non sposate. Comunque in circa la metà dei casi di separazione vi sono figli minori. E’ facile – purtroppo – immaginare che questi ultimi abbiano assistito alle tensioni e ai litigi che spesso e quasi fisiologicamente accompagnano i processi di rottura del matrimonio. Ebbene, il litigare con veemenza davanti ai figli minori è divenuto un reato. Lo ha affermato una recente sentenza della Corte di Cassazione: perché litigare in continuazione, hanno detto i supremi giudici, crea un danno psicologico ai bambini che si

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riverbera sulla loro crescita. I minori devono essere protetti da ogni forma di brutalità e maltrattamenti e i litigi tra marito e moglie sono una violenza sui figli che addirittura configura il reato di maltrattamenti in famiglia, punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Insomma con questa sentenza della il concetto di maltrattamento viene ampliato: non è necessario che il bersaglio dell’aggressione sia il bimbo, basta che assista ad una scena violenta – la lite genitoriale appunto, in cui si può trascendere almeno verbalmente - per essere vittima di violenza passiva e quindi «maltrattato». È curioso rilevare come la famiglia – le relazioni affettive – conosca nel tempo un rapporto a fisarmonica con il diritto. Perché da un lato l’amore e la famiglia si privatizzano, si intimiz-zano sfuggendo alla regolazione giuridica. Ad esempio evitando il matri-monio e limitandosi alla convivenza. O addirittura saltando anche questa ultima creando la cosid-detta famiglia a distanza, in cui i due partner vivono ciascuno a casa propria (solitarismo, viene detto in Francia). Dall’altro, paradossal-mente, più la coppia si privatizza, più il diritto la insegue, in nome dell’eguaglianza tra i membri e della protezione dei figli (che in un caso su tre nascono fuori del matrimonio) e della parte più debole. L’ultimo esempio è offerto da una sentenza della Corte di Cassazione di quest’anno che ha affermato che si può essere conviventi, e quindi una famiglia, anche se non si vive sotto lo stesso tetto. Perché la convivenza è un «legame affettivo stabile e duraturo» tra due persone che hanno spontanea-mente assunto «reciproci impegni di assistenza morale e materiale» a prescindere da un’effettiva «coabitazione» della coppia. Malgrado si concepisca la relazione familiare in modo sempre più privato e soggettivo, il diritto tenta di entrare nelle pieghe delle intimità domestiche più impensate o scontate. Come il litigare davanti ai figli piccoli: un evento che oggi può interessare perfino il codice penale. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI I numeri da record dell’Ulss unica di Alvise Sperandio Il 2017 è stato il primo anno della fusione delle tre aziende di Venezia, Dolo-Mirano e Chioggia: una “macchina” sanitaria davvero imponente. Ammontano a quasi 2,5 milioni all’anno le prestazioni totali Quasi due milioni e mezzo in un anno. Tante sono le prestazioni sanitarie specialistiche che l'Ulss 3 Serenissima ha erogato ai cittadini lo scorso anno, il primo di piena operatività dell'azienda unica frutto della fusione tra le ex Ulss 12 (Venezia), 13 (Dolo-Mirano) e 14 (Chioggia). Un numero imponente, che peraltro riguarda solo i servizi dati in esterno, cioè senza tenere conto nel calcolo sia del Laboratorio analisi che degli esami effettuati ai pazienti ricoverati negli ospedali. Dal bilancio emerge un numero complessivamente in linea, se non in crescita in alcune zone (come al Lido) rispetto a quanto veniva fatto negli anni scorsi. Dal calcolo risulta che due terzi delle 2.352.447 prestazioni totali, per la precisione 1.665.773, sono state effettuate dal pubblico e le rimanenti 686.674 da strutture e istituti privati accreditati. I DISTRETTI - Prendendo a riferimento la suddivisione per aree, risulta che nel distretto del veneziano (ex Ulss 12) è stata erogata la fetta più elevata di prestazioni specialistiche: 1.161.095 prestazioni, che sono circa la metà delle totali erogate dall'azienda sanitaria (865.329 dal pubblico e 295.766 dal privato); segue il distretto di Mirano-Dolo (ex Ulss 13), con 888.079 prestazioni specialistiche (665.898 dal pubblico e 222.181 dal privato); chiude il distretto di Chioggia (ex Ulss 14), dove sono state erogate 303.273 prestazioni specialistiche (134.546 dal pubblico e 168.727 dal privato, che dunque supera il pubblico). Se si considerano, invece, i sei ospedali pubblici, al primo posto si colloca l'Angelo, che ha funzione di hub per la provincia, con 379.570 prestazioni erogate; segue Dolo, con 289.139; Mirano, con 223.587; il Civile di Venezia, con 210.125; Noale, con 142.344; e Chioggia, con 120.655. Quanto alle sedi distrettuali, in testa c'è il Lido, con 82.085; seguito da via Cappuccina, con 69.727; Favaro, con 45.310; l'ex Giustinian di Venezia, con 43.059; Marghera, con 20294; Chioggia, con 10.762; e Cavarzere, con 3.129.

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LE SPECIALITÁ - Venendo alla distinzione per specialità, il primato spetta alla Medicina Fisica e Riabilitativa con un totale di 688.006 prestazioni, di cui 302.002 erogate dal pubblico e 386.004 dal privato. Al secondo posto c'è la Radiologia diagnostica, con 337.176, di cui 213.421 erogate dal pubblico e 123.775 dal privato accreditato. La Cardiologia è al terzo con 138.836 prestazioni, di cui 100.881 erogate dal pubblico e 37.955 dal privato. Segue Dermatologia, con 127.231 prestazioni, di cui 116.812 erogate dal pubblico e 10.419 dal privato mentre al quinto c'è Oculistica con 125.396 prestazioni erogate, di cui 109.967 erogate dal pubblico e 15.429 dal privato. «UN ENORME LAVORO» - «Le prestazioni ambulatoriali erogate nel 2017 rappresentano un volume impressionante di lavoro svolto per i cittadini, che andrebbe sempre tenuto in considerazione: un giudizio sul singolo ritardo, o sulla singola attesa, va dato anche alla luce di questi due milioni e mezzo di prestazioni specialistiche erogate nei tempi previsti e con soddisfazione dell'utente» sottolinea il direttore generale dell'Ulss 3, Giuseppe Dal Ben. Nel processo di riunificazione, l'obiettivo dell'Ulss 3 è di collegare meglio territori che si trovano al confine (ad esempio, ora Pellestrina può fare riferimento a Chioggia), ma anche di creare poli nuovi che servano anche gli altri territori: è di pochi giorni fa, ad esempio, l'annuncio che Noale sarà il punto di riferimento di tutta l'azienda unica quanto all'alta specializzazione del test cardiopolmonare. «Essersi riuniti in una grande e unica azienda ricorda Dal Ben ci ha permesso di mettere in rete le varie professionalità. A Noale la Medicina dello Sport può vantare un servizio talmente ben predisposto sia in apparecchiature che in personale adeguatamente formato per il test cardiopolmonare, che può eseguirlo efficientemente per tutta l'Ulss 3». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA AVVENIRE Pag 13 Biennale, il sacro in un parco di Alessandro Beltrami Alla rassegna di architettura presente per la prima volta il padiglione vaticano: dieci cappelle sull’isola di San Giorgio affidate ad altrettanti progettisti Venezia. Dopo due esperienze nelle Arti visive, la Santa Sede da domani approda alla Biennale Architettura. Lo fa con un progetto importante, presentando dieci cappelle nel parco che occupa parte dell’isola di San Giorgio. Vatican Chapels (fino al 25 novembre) è dunque una tappa storica: ma non del dialogo tra Chiesa e contemporaneità. Questa è un’espressione che sottende un equivoco, ossia che le due siano enti separati chiamati a incontrarsi. Pare più giusto invece parlare di dichiarazione e presa di coscienza di come il cattolicesimo sia parte integrante e attiva della modernità. Come spunto il curatore Francesco Dal Co ha proposto al Pontificio Consiglio della Cultura, e quindi a dieci architetti di tutto il mondo, la Skogskapellet, la Cappella nel bosco realizzata da Erik Gunnar Asplund tra 1918 e 1921 nel cimitero di Stoccolma. Capolavoro di misura ed essenzialità, fonde in sé il sentimento romantico della natura proprio del Nord Europa e una riflessione sulle radici dell’architettura classica, attraverso il rapporto primitivo tra tempio e capanna. Si tratta di una cappella funeraria e luterana, e quindi dotata di proprio e preciso spirito. Ma ciò che conta per Dal Co è il rapporto dell’architettura con lo spazio naturale, «un dialogo sottile e complesso» nel segno della contiguità fisica e spirituale, «un luogo di orientamento, incontro, meditazione» all’interno di un bosco come «evocazione del labirintico percorso della vita e del peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro ». Una dimensione simbolica ben rievocata nell’allestimento nel bosco di San Giorgio, dove l’esiguità della superficie è compensata dall’estensione metafisica della laguna. Gli architetti sono Andrew Berman (Usa), Francesco Cellini (Italia), Javier Corvalán (Paraguay), Eva Prats e Ricardo Flores (Spagna), Norman Foster (Regno Unito), Teronobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juaçaba (Brasile), Smiljan Radic (Cile), Eduardo Souto de Moura (Portogallo). Lasciati liberi davanti al tema, la maggior parte ha esplorato il rapporto con l’ambiente aperto tralasciando la cappella di Asplund per guardare invece a esempi vicini, più spesso nel segno della presenza forte (Zumthor, Botta...) che della fusione con la natura. Il catalogo Electa presenta per ogni cappella un testo dell’architetto, schizzi e bozzetti, le tavole del

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progetto, la documentazione fotografica del montaggio e dell’edificio costruito. Gianfranco Ravasi in catalogo spiega che «cappella è una chiesa piccola, riservata a un ristretto numero di fedeli, con eventuale apparato rituale comprendente altare e ambone». Non tutte le dieci cappelle però si conformano in toto a questa definizione. In altre proprio l’introduzione di un altare le completerebbe in maniera essenziale: è il caso di Javier Corvalán, che propone un grande cerchio sospeso su cui si libra una croce tridimensionale. È uno spazio ricco di potenziale ma astratto: una mensa, centro non fisico ma teologico, ne attiverebbe tutta la forza simbolica. In alcune bisogna dire che sorprende l’assenza di un segno religioso in favore di una visione piuttosto lata della spiritualità. Andrew Berman crea uno spazio estremamente concentrato, ma il piccolo altare in legno nel buio su cui scende una luce è rimando a una presenza tanto flebile da sembrare dispersa. Norman Foster, che pure evoca le croci, realizza una struttura tecnicamente spettacolare in legno e acciaio: ma il percorso, nonostante la bella idea del mutamento di direzione, non ha una conclusione, la cappella si disperde nel paesaggio e quello che pare essere l’altare è un oggetto inaccessibile. Molte altre cappelle invece colgono perfettamente nel segno, dimostrando una riflessione sulla specificità spirituale dello spazio cristiano. La cappella di Fujimori è uno degli apici del percorso. La sua è una capanna, un luogo tranquillo. Vi si entra per una porta strettissima. L’interno è bianco, un’impalcatura in legno regge una semplice falda. Ma proprio nell’elemento strutturale Fujmori innesta la croce, fatta emergere all’incontro tra traversa e pilastro da piccole foglie d’oro e tre chiodi. La parete di fondo è cosparsa da pezzi di carbone, assenti dietro la croce così da creare un alone luminoso. Se la croce è struttura dello spazio, su di lei converge il silenzio. Anche Juaçaba chiama la croce a dare corpo al luogo. Due grandi croci in acciaio, una verticale e una parallela al terreno con funzione di seduta, nascono da un punto comune e definiscono le coordinate. Non ci sono muri. La natura sacralizzata si riflette nella superficie lucida. Come nella cappella nel bosco realizzata da Paolo Zermani sull’Appennino parmense nel 2012, non c’è altare ma non importa: è un luogo per la preghiera, sosta nel mezzo di un lungo cammino. La cappella di Godsell trasforma lo spazio attorno a sé connotandolo come liturgico. È un alto parallelepipedo in acciaio: le parti inferiori si alzano formando una croce e rivelando all’interno un altare. Un piccolo leggio pieghevole è ancorato alla struttura. La parte interna del volume, una sorta di alto tiburio aperto alla sommità, è di colore dorato così da gettare sul sacerdote una luce di qualità differente. Grazie alla forza centripeta della cappella, la natura circostante, luogo dell’assemblea celebrante, diventa parte stessa dell’architettura. Souto De Moura offre un capolavoro commovente. Un recinto in blocchi modulari di pietra di Vicenza, in parte coperto da due lastre monolitiche. È un luogo caldo e rigoroso, austero e famigliare. Uno sbalzo corre tutto attorno al perimetro interno, come una seduta che avvolge un semplice altare, essenziale a creare il luogo. Una croce è incisa sul fondo. Precede l’ingresso un piccolo vano quadrato, memoria di un nartece. Qui il tempo rallenta, si entra in uno spazio altro e insieme concreto. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag 17 Si svelano le chiesette del Vaticano Biennale Architettura a Venezia. Oggi l’apertura del Padiglione della Santa Sede a San Giorgio con il cardinale Ravasi Il grande giorno del Padiglione Vaticano è arrivato. Oggi, alle 18, le dieci cappelle realizzate nel bosco dell'isola di San Giorgio, nel parco della Fondazione Cini saranno finalmente svelate al grande pubblico. Nel tardo pomeriggio sarà il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, taglierà simbolicamente il nastro dell'inaugurazione consentendo a tutti di visitare The Vatican Chapels, i tempietti che, immersi nel verde, consentiranno a tutti un proprio viaggio nella spiritualità. Il curatore del Padiglione è l'architetto Francesco Dal Co. ZINTEK E GODSELL - Per l'occasione, al di là dei progetti realizzati da dieci professionisti, giova rilevare anche l'impegno delle aziende che, con le loro maestranze e i loro materiali, hanno consentito che il Padiglione vaticano prendesse forma. E tra queste imprese alcune hanno solide radici venete e hanno il loro quartier generale nella nostra regione. Basti pensare alla ditta Zintek srl che ha visto valorizzata la propria attività imprenditoriale con la partecipazione al progetto dell'architetto australiano Sean

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Godsell che ha realizzato una torre con i lati che si aprono rilevando un altare e che vista da diversa angolazione consente di leggere una croce. «Come realtà profondamente radicata nel territorio - sottolinea l'amministratore unico di Zintek srl, Gianni Schiavon - siamo stati onorati di partecipare ad un progetto così importante e siamo orgogliosi di dire che i risultati sono stati all'altezza della situazione». Per l'occasione la Zintek srl ha anche stampato una brochure per raccontare il progetto. Anche altre aziende come Saint Gobain e anche Moretti Costruzioni spa di Erbusco (Bs) hanno voluto sottolineare il loro impegno per il Padiglione della Santa Sede. Infine la casa editrice Electa presenterà oggi Vatican Chapels, un volume che racconterà nel dettaglio l'intero progetto BARATTA E LE CURATRICI - «Questa è la mia settima biennale di architettura, altrettanti capitoli di una catena di una stessa storia. Esordisce in questo modo il presidente Paolo Baratta, ieri, alla conferenza stampa di presentazione della mostra. Con una precisazione. «Nelle prime quattro edizioni siamo stati un po' distratti a causa della spettacolarità imposta dagli archistar. Ora abbiamo capito come l'organizzazione dello spazio, anche solo a livello di progetto, nasce da un atto di generosità che alimenta il nostro desiderio senza il quale saremmo tutti più poveri. Il concetto di abitare include quello del benessere e della sicurezza personale e, allo stesso tempo, ci rende partecipi di una comunità e ci rende orgogliosi come cittadini. Che hanno ciascuno il diritto di avere una casa da inserire all'interno dello spazio libero, free space, titolo della manifestazione». Sono poi intervenute le due curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara. «Ci rendiamo conto che abitiamo in un mondo fragile per il quale occorre una grande responsabilità. In questo momento ci sentiamo dei contadini nell'ora del raccolto». Precisando, poi, che il tempo dell'architettura è a spirale, con continui ritorni e che la nozione di spazio varia a seconda delle culture». LA NUOVA Pagg 14 – 15 Il modello Biennale per “salvare” Venezia di Enrico Tantucci Il presidente Baratta: recuperare gli spazi vuoti invitando altre istituzioni. Caserme, cantieri: ecco i luoghi da recuperare. Case e negozi gratis per il ripopolamento Il modello Biennale per «salvare» Venezia dalla monocultura turistica che la sta soffocando. Lo indica lo stesso presidente della fondazione Paolo Baratta, che ha colto, ieri, durante la presentazione ufficiale della Mostra Internazionale di Architettura, l'occasione di una domanda su Venezia di una giornalista statunitense per lanciare la sua proposta. «La vostra Biennale si intitola "Free Space", Spazio Libero» ha detto la giornalista rivolta a Baratta e alle due curatrici della Mostra Yvonne Farrell e Shelley Mc Namara «ma questa città ormai, con l'invasione turistica in corso, non è invece quasi più accessibile per i veneziani. Che ne pensate? ». E se le due curatrici irlandesi si sono chiamate fuori, dicendo che non conoscono bene il problema, Baratta è invece andato direttamente al punto. «Il problema di Venezia non è solo la gestione del turismo» ha esordito il presidente della Biennale, «e il modo di evitare l'uso eccessivo della città o il passaggio delle grandi navi. Il problema è cosa portare di nuovo a questa città oltre al turismo. Io ho molto amato un libro come "Le pietre di Venezia" di John Ruskin, ma se oggi dovessi scrivere un libro su di essa, lo intitolerei "Le vene di Venezia", perché c'è un urgente bisogno di una trasfusione di sangue dall'esterno per questa città. Noi come Biennale lo stiamo facendo, e se oggi voi siete qui non è per le pietre di Venezia, ma per il "sangue" che siamo riusciti a immettere in questa istituzione allargandolo al resto della città. La Biennale ha dimostrato in questi anni che si può fare, che è possibile gestire a Venezia un'istituzione culturale facendola crescere in rapporto con la città. Una città che ha spazi incredibili lasciati dalla Repubblica Serenissima, molti dei quali sono vuoti. Noi abbiamo recuperato circa 40 mila metri quadrati di spazi all'Arsenale e 30 mila al Lido. Per questo ci proponiamo come un modello da seguire anche per altre istituzioni che possono prendere casa a Venezia. Il tema è anche immaginare quali attività si possono inserire in una città come questa. Venezia è una città internazionale, perfetta per tutte le istituzioni che hanno come scopo il dialogo con il mondo. Le vene di Venezia devono essere riempite di nuovo sangue. La Biennale è l'esempio che questo si può fare e con successo. E questo è importante anche per darsi un goccio di speranza in queste discussioni su Venezia sempre condizionate dal pessimismo». Baratta, il cui lungo mandato alla guida della Biennale scadrà il prossimo anno, si è posto, in qualche modo,

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anche al servizio di questo possibile scenario di sviluppo alternativo alla monocultura turistica a Venezia, legato all'arrivo di nuove istituzioni e al riuso per esse di spazi oggi abbandonati. «Siamo disponibili ad aprire un discorso complessivo sul riuso degli spazi in città» ha detto Baratta, «ai fini di insediamento di nuove istituzioni». Un discorso molto concreto e operativo quello dell'ingegner Baratta, che anche negli ultimi anni ha continuato a «recuperare» spazi dismessi per le attività della sua fondazione. A cominciare dall'Arsenale, dove ogni edizione della Biennale Arti Visive o Architettura vede la «conquista» di nuovi spazi, come ora le Sale d'Armi, dopo Corderie, Artiglierie, Gaggiandre, Tese, Bombarde, fino al Giardino delle Vergini. Ma continuando con il recupero in corso dell'ex Casinò del Lido, dopo la ristrutturazione del Palazzo del Cinema. E l'«acquisizione» parziale dell'isola del Lazzaretto Vecchio, per ospitare la sezione della Mostra dedicata alla realtà virtuale. Fino all'ultima «conquista», quella dell'ex Caserma Pepe del Lido, con una mostra sul tema della rigenerazione urbana, collegata anche al tema del Padiglione della Francia in corso alla Biennale Architettura, in attesa che il magnifico spazio di proprietà del Demanio possa in futuro diventare sede di uffici pubblici. Non è del resto la prima volta che Baratta «lavora» per portare nuove istituzioni a Venezia, come tentò di fare alcuni anni fa, per portare nell'ex Caserma Manin, diventata poi un centro di residenza studentesca, l'Ufficio Europeo dei Brevetti. Un tentativo che allora non andò a buon fine, ma ora anche per altre istituzioni, molte cose potrebbero essere mutate. Prove tecniche di ripopolamento di città turistiche, come Venezia. È il singolare progetto-proposta che presenta in questa edizione della Biennale Architettura il Padiglione della Repubblica Ceca e Slovacca, ai Giardini. Ironizzando sul ruolo dell'Unesco nella diversa dei siti a rischio come Venezia, il Padiglione Ceco si chiama appunto «Unes-co», immaginando la sede espositiva come sede di una compagnia con questo nome che si porrebbe come obiettivo quello di far tornare una vita normale nelle città storiche - come Venezia - "desertificate" dall'ondata turistica. Il progetto della curatrice Katerina Seda mette al centro del la sua proposta la cittadina di Cesky Krumlov, nel sud della Repubblica Ceca, accogliente città storica di soli tredicimila abitanti visitata però annualmente da più di un milione di turisti, che hanno portato - come a Venezia - il trasloco graduale dai residenti fuori dal centro, snaturando le sue caratteristiche urbane.Il progetto del Padiglione ceco, prova sperimentalmente a invertire questo «trend».Sono state infatti selezionate, tra molte che hanno aderito alla proposta, quindici famiglie ceche che andranno a vivere per tre mesi a Cesky Krumlov, in case messe a disposizione gratuitamente dal Comune e ricevendo anche uno stipendio per potersi mantenere nella città per tutta la durata del periodo. Un «soggiorno» che partirà proprio in questi giorni e nel Padiglione è infatti possibile in tempo reale vedere le immagini della vita nelle strade della cittadina del Paese dell'Europa Orientale. «Le case nelle quali non vive nessuno. I negozi i quali non servono a nessuno» spiega Katerina Seda. «Le vie nelle quali la gente non si incontra ma si evita a vicenda. Questa può essere la caratteristica dei posti socialmente esclusi, ma anche la caratteristica dei posti più belli al mondo iscritti sulla lista del patrimonio umanità dell'Unesco, come Venezia. Queste somiglianze e uguaglianze dei posti diametralmente differenti mi hanno ispirato per il progetto che si occupa dei problemi connessi all'aumento del turismo». Katerina Seda ha vinto lo scorso anno anche il premio prestigioso «Architetto dell'anno della Repubblica Ceca» e nei suoi progetti sociali punta appunto ad innestare processi di cambiamento. Come nel caso del tentativo di ripopolamento di Cesky Krumlov, che potrebbe essere anche di ispirazione per il caso Venezia, visti i problemi analoghi di spopolamento e la mancanza ancora di politiche efficaci in grado di contrastarle. L'Arsenale, la Marittima, la Giudecca, il Lido, le stesse isole della laguna. E, guardando alla terraferma, Forte Marghera. C'è un «universo» di spazi dismessi a Venezia e intorno ad essa che attendono di essere recuperati a nuove funzioni e a cui il presidente della Biennale Paolo Baratta evidentemente allude quando parla di essi, come ha fatto ieri, come possibili sedi di nuove istituzioni che potrebbero sbarcare a Venezia per offrire, con la loro attività, un'alternativa alla monocultura turistica dominante. Spazi generalmente di uso pubblico, per restare al tema di «Freespace», la Biennale Architettura che si inaugura domani, ma sparsi tra molti soggetti che in genere molto poco fanno per

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recuperarli. A cominciare proprio dal Comune, ma proseguendo, ad esempio, con la Marina Militare e con la stessa Autorità Portuale, che ha un'ampia disponibilità di spazi alla Marittima, che però usa solo in parte e che affitta parzialmente come quelli nell'area di San Basilio messi a disposizione di Ca' Foscari, che qui aprirà presto la sua Science Gallery, e dell'Iuav. Ma innanzitutto c'è appunto l'Arsenale, che Baratta conosce molto bene, essendo stato in parte l'artefice del suo riuso, parziale, e avendo in questi anni recuperato oltre 30 mila metri quadrati di spazi per le manifestazioni della Biennale. Per quanto riguarda il Comune, la parte immediatamente utilizzabile è quella delle Tese a Nord, gli scoperti e le aree dei bacini di carenaggio, occupate fino a qualche anno fa dalla manutenzione navale, oggi abbandonate. Spazi come le Tese di San Cristoforo, ad esempio, sono utilizzati solo parzialmente per mostre. Anche la Marina tiene oggi bloccati spazi enormi come quelli delle tese della parte sud. L'idea di insediare qui nuove istituzioni o società non è di fatto mai decollata in modo serio, anche perché lo stesso Arsenale, ora di proprietà del Comune, non ha un vero organismo di gestione. Per quanto riguarda la Marittima restano oggi inutilizzati ad esempio tutti gli spazi su cui avrebbe dovuto essere realizzato dall'Autorità Portuale il nuovo garage multipiano oggi bloccatosi. Sempre intorno alla Biennale aree importanti come quelle della Celestia e di Sant'Elena attendono da anni un serio progetto di recupero. C'è poi il capitolo Giudecca. Grandi contenitori come gli ex Cantieri Cnomv o l'area ex Herion risultano oggi essere in larga parte inutilizzati, nonostante qualche tentativo del Comune. C'è poi il capitolo del Lido e delle sue adiacenze, con la stessa Biennale che è già intervenuta per un primo parziale recupero dell'isola del Lazzaretto Vecchio - destinato nelle intenzioni iniziali a museo dell'archeologia lagunare - e dell'ex Caserma Pepe, altro splendido "contenitore" storico dalle grandi potenzialità. Ma molti altri spazi sull'isola, anche importanti, come l'ex Forte di Malamocco, non hanno oggi alcun tipo di possibilità di essere recuperati. C'è poi il capitolo allargato delle isole lagunari, dove gli unici progetti che hanno «marciato» in questi anni - con l'eccezione del recupero di quella di San Servolo - sono stati quelli di carattere alberghiero. C'è poi il capitolo dei palazzi e degli edifici dismessi del centro storico, anche qui, fino ad oggi, solo con possibile destinazione alberghiera. Buona parte di essi fanno riferimento naturalmente ai privati, ma c'è anche una quota importante di patrimonio pubblico che potrebbe essere ancora recuperato ad altre funzioni e che oggi è semplicemente dismesso o sottoutilizzato. Nessuno fino ad oggi ha fatto un vero piano complessivo di riuso degli spazi inutilizzati con le possibili funzioni, come quello che propone ora Baratta. CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mini Mose di Alberto Zorzi Partono i lavori per tenere all’asciutto il nartece della Basilica di San Marco. Spesi due milioni, passerelle per fedeli e turisti Venezia. Immaginate una grande vasca, solo che al posto della ceramica di un bagno qualsiasi ci sono mosaici e marmi preziosissimi. Una vasca che, fino agli anni Sessanta, quando pioveva tanto e arrivavano quelle alte maree che ancora allagano l’intera piazza San Marco per la gioia di bambini e turisti con gli stivali (o, d’estate, a piedi scalzi), si riempiva di un'acqua che poi ristagnava e doveva essere rimossa con le pompe. La soluzione trovata all’epoca, quella di creare un sistema di scolo, in realtà non ha funzionato bene, perché quelle canalette diventano anche la via di risalita della stessa acqua alta che preme da sotto. Ma ora, dopo anni di discussioni, lunedì sono iniziati davanti alla Basilica di San Marco i lavori per chiudere quelle canalette con cinque valvole che, fatte le dovute proporzioni, impediranno all’acqua della laguna di entrare, così come faranno le paratoie del Mose con quella del mare. Un’opera che era ormai diventata urgente, perché il nartece, cioè la parte all’ingresso della Basilica, che è anche una delle più basse di tutta la città storica, andata sotto acqua circa 350 volte l’anno. La quota è infatti di 62 centimetri sul livello del medio mare, circa 22 meno della piazza (che è a 84) e ben 48 meno di quel livello di 110 centimetri per cui è previsto l’innalzamento delle paratoie del Mose. Il nartece dunque si allagava anche con acque alte tutt’altro che eccezionali e questo però creava un forte danno a mosaici e marmi. Con questo intervento – realizzato dalla Ecf di Roma (per la parte impiantistica) e dalla Rossi Renzo Costruzioni (per le opere civili), sotto la direzione lavori di Thetis – nell’arco

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di sei mesi dovrebbe tenere il nartece all’asciutto, perlomeno fino a quando l’acqua non entri dalla piazza: ma secondo i calcoli fatti, su circa 900 ore di allagamenti annui, ne verranno cancellate il 70 per cento. Il concetto che sta alla base dell’intervento – che nasce da un progetto pensato dai due procuratori di San Marco Pierpaolo Campostrini (direttore del Corila) e Mario Piana (architetto e docente Iuav) e poi regalato al Provveditorato alle opere pubbliche e al Consorzio Venezia Nuova – prevede appunto la chiusura con le valvole di 5 dei cosiddetti «gatoli», cioè i cunicoli che si trovano attorno alla basilica e servono per scaricare l’acqua piovana nel bacino di San Marco. Al di sotto dei mosaici era infatti stata installata una rete collegata a 22 forine di scolo, collegate a un cunicolo di circa 200 metri che corre lungo il perimetro della Basilica e che serve a raccogliere anche le acque piovane. Ovviamente, al contrario, quando arriva l’alta marea, l’acqua risale attraverso i gatoli stessi, ed è per questo che verranno chiusi. Grazie ad alcune pompe, infine, in caso di un mix tra alta marea e pioggia torrenziale, l’acqua defluirà comunque. Verrà inoltre rialzata una parte della pavimentazione antistante a San Marco, oggi troppo bassa, e nel campanile ci sarà la «centrale operativa», con gli apparecchi di comando e le pompe. L’opera costerà complessivamente un paio di milioni di euro. «Abbiamo fatto un’accurata valutazione delle interferenze tra questi lavori e l’operatività della basilica - dice Piana - e non dovrebbero esserci grossi problemi. In alcune fasi del cantiere sarà solo necessario collocare una passerella per l’ingresso dei turisti e per quello dei fedeli». Una parte dei lavori sarà infatti il restauro dei cunicoli. In questo momento in Basilica sono in corso anche i lavori di restauro delle balaustre della Loggia dei cavalli e di alcuni mosaici. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli strappi di troppo di Aldo Cazzullo Un governo che nasce con un programma impossibile da realizzare, tra lo scetticismo delle istituzioni e dei mercati internazionali, con un premier sconosciuto eppure già discusso, avrebbe tutto l’interesse a rispettare le regole e le prassi costituzionali. Una maggioranza anomala, che somma promesse elettorali diverse e seggi ottenuti da diverse coalizioni, che prima ancora di andare al potere ha già cominciato a far danni, avrebbe necessità di costruire un rapporto sereno e corretto con il Quirinale. E la maggioranza grilloleghista dovrebbe guardarsi dal delegittimare una leadership non esattamente saldissima come quella del misterioso professor Conte. Invece in questi giorni le pressioni su Mattarella sono state fortissime, se è vero che - con una prassi inusuale in assoluto, e in particolare per lui - il capo dello Stato ha lasciato filtrare la propria irritazione, denunciando «diktat», imposizioni, cui non intende sottostare. Anche nell’interesse del premier Conte, cui spetta proporre i ministri che il presidente della Repubblica nomina. I Cinque Stelle possono aver sbagliato qualche passo; ma i diktat arrivano soprattutto dalla Lega. È strano che persino un moderato come Giorgetti insista nel ripetere che il ministro dell’Economia deve essere e sarà Paolo Savona: economista di buona scuola - Ciampi, Carli -, di cui onestamente in questi ultimi decenni si erano perse le tracce. E riscoperto come paladino anti euro. La valutazione va lasciata comunque al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio. Non al vicesegretario di un partito che si era conquistato la guida del centrodestra, ma dopo aver rotto la coalizione si ritrova adesso a rappresentare non più del 17% degli elettori. C’è un punto da chiarire. Si nota la tendenza a presentare le critiche alla nuova era come nostalgia dell’antico regime. Si tratta di un ricatto morale inaccettabile. Non c’è molto da rimpiangere di governi bocciati severamente dagli italiani. La vittoria dei populisti nasce dalla sconfitta dei vecchi partiti. Gentiloni esce ora di scena senza che sia ricordata una sua parola, una sua scelta; forse perché in un anno e mezzo di ordinaria amministrazione non ha detto o fatto molto di memorabile. Dei suoi ministri, forse solo Minniti ha lasciato un segno. Di alcuni dicasteri-chiave, tipo Esteri e Lavoro, si sono perse le tracce. Un ricambio era indispensabile, e da cittadini tutti ci auguriamo che i successori facciano meglio. Ma se Gentiloni aveva scalato le classifiche di popolarità, che

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vedono Berlusconi e Renzi in fondo, è proprio per il suo stile e per il rapporto di correttezza che aveva instaurato con il presidente della Repubblica. Ora tocca a Conte. C’è da sperare e anche da credere che riuscirà a collaborare con Mattarella, nell’interesse della sua maggioranza e degli italiani. Ma la logica delle imposizioni, gli atteggiamenti da «uomo forte» non aiutano. I capipartito che pretendono di scegliere i ministri lavorano contro il premier faticosamente designato.È un atteggiamento muscolare, quello di Salvini, che vedremo senz’altro anche al Viminale, dove si gioca una partita decisiva per il governo. Una stretta su immigrazione clandestina e sicurezza è necessaria, e godrà di vasto consenso. Ma eventuali abusi ed eccessi verbali, come quelli che accompagnarono gli spari di Traini, avranno come conseguenza reazioni altrettanto violente, che a volte purtroppo non si limiteranno alle parole. Già si sono visti cortei impropriamente definiti «antifascisti», in realtà composti da delinquenti che hanno aggredito poliziotti e carabinieri. Simili reazioni sarebbero carburante per la propaganda di Salvini, ma a lungo andare creerebbero un clima di contrapposizione frontale che non farebbe bene al Paese. Il leader leghista è giovane. In questa avventura rischia meno dei Cinque Stelle, che si giocano tutto. Salvini ha una carta di riserva: la ricomposizione del centrodestra. Se si tornasse a votare, sarebbe oggi l’unico sicuro di crescere ancora. C’è da augurarsi che si muova come una forza tranquilla. E che capisca una cosa fondamentale: il ruolo di arbitro, di moderatore, di garante presso l’Unione europea che naturaliter spetta a Mattarella può giovare anche a lui. La fuga in avanti su Putin ieri, il diktat su Savona oggi, gli scontri di piazza domani potranno valergli sul momento qualche altro punto nei sondaggi; ma alla lunga ridimensionerebbero la sua statura di aspirante leader. Pag 1 Il fattore mondo di Franco Venturini L’enfasi posta da Luigi Di Maio e da Matteo Salvini sulla difesa degli interessi nazionali italiani, cui finalmente provvederà il nuovo governo, non è soltanto una implicita offesa ai governi precedenti che di questi interessi non si sarebbero troppo occupati. È, anche e soprattutto, la prova di una errata valutazione storica delle scelte compiute dall’Italia democratica dopo la Seconda guerra mondiale. Scelte che conservano una loro utilità in un mondo che sembra talvolta rimpiangere le certezze del Muro di Berlino. Può darsi, anzi è probabile, che il «Fattore M» (mondo, appunto) interessi poco gli elettori della Lega e di 5Stelle. Ma il provincialismo della base, particolarmente accentuato in una cultura italiana da sempre ben disposta verso la propaganda, dovrebbe trovare maggiore consapevolezza quando i candidati vengono eletti e diventano decisori. Rispondono a questo auspicio, il programma e la struttura funzionale del prossimo governo? Il meno che si possa dire, in attesa della prova dei fatti, è che i motivi di preoccupazione sono molteplici. Cominciamo dall’Europa, come è giusto che sia. Nell’ultima versione del «contratto» programmatico sottoscritto da Di Maio e Salvini alcuni temerari salti nel vuoto sono spariti, ma altri resistono. Va bene chiedere alla Commissione di Bruxelles lo scorporo degli investimenti pubblici produttivi dal deficit corrente di bilancio (peraltro sarà difficile ottenerlo), ma quando si pensa di «ridiscutere i Trattati dell’Ue» con la chiara intenzione di smontare il rigore di ispirazione tedesca, si scivola nel mondo dei sogni. Peggio, non ci si rende conto dell’effetto anti-italiano che la lunga trattativa per il governo e l’enunciazione di propositi forse popolari ma del tutto irrealistici sta già provocando. Il nemico è il rigore, e si dimentica che abbiamo un debito pubblico a livello record? Ebbene il risultato, ancor prima che la partita cominci, è che in Germania e in Europa del nord eventuali concessioni di flessibilità all’Italia vengono escluse più che mai. È che la trattativa mai completata sull’unione bancaria (Merkel intendeva comunque tenerla in frigorifero, è vero) ora viene più facilmente archiviata o rinviata a causa della «situazione in Italia». È insomma che si disegna sin d’ora l’isolamento dell’Italia nella Ue, proprio quando la discussione sul nuovo bilancio comunitario e il confronto franco-tedesco sulla riforma dell’eurozona ci offrivano l’occasione di salire in tolda, di dire la nostra opinione ed eventualmente di opporsi a quella altrui. In Europa gli interessi nazionali italiani si difendono prendendo iniziative, negoziando alleanze, provocando dibattiti su aspetti cruciali, non annunciando una crociata che si vuole correttiva senza averne i mezzi e senza conoscerne i risvolti (non è forse vero che per «ridiscutere i Trattati» ci vorrebbero diversi anni nel migliore dei casi?). La nostra piccola

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«Italy First», se si andrà avanti di questo passo, rischia di diventare una grande «Italy Out» (nel senso dell’isolamento, che ha sempre pesanti conseguenze economiche e finanziarie). Invece di imitare Trump dimenticando che non siamo l’America (e peraltro Trump ha provocato non pochi problemi, suoi e nostri) sarebbe stato interessante capire quali siano le intenzioni di Salvini e di Di Maio sulla missione militare in Afghanistan (Di Maio aveva ripetutamente annunciato il ritiro unilaterale, ma da qualche tempo tace), oppure su quella per ora sospesa in Niger (da recuperare con l’appoggio di Francia, Usa e Germania che hanno interesse ad averci lì, mentre noi abbiamo interesse a controllare le correnti migratorie). Sarebbe stato interessante leggere una sola parola sulla Libia, in cattive acque e cruciale per i nostri interessi nazionali. Oppure sul Medio Oriente e sull’Iran, sul patto nucleare con Teheran, sull’Ucraina, sulla Turchia, sui Balcani, sulla cyber sicurezza. Pazienza, aspetteremo. Ma di una cosa il «contratto» parla chiaramente: l’appartenenza alla Nato è confermata, gli Stati Uniti sono il nostro alleato privilegiato. Con una piccola aggiunta: è opportuno il ritiro delle sanzioni contro la Russia decise dopo l’annessione della Crimea nel 2014, e il Cremlino deve essere riabilitato come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali. E ancora, la Russia non costituisce una minaccia militare, è anzi un potenziale partner per la Nato e per l’Ue. Chi scrive considera inefficaci le sanzioni contro Mosca, vorrebbe uno sblocco negoziato della crisi ucraina, e da europeo preferisce la Russia partner alla Russia nemica in una nuova guerra fredda. Ma Salvini e Di Maio sanno che i tempi odierni sono assai diversi da quelli di Pratica di Mare, che peraltro fu Berlusconi ad interpretare? Sanno che queste loro posizioni, se trasformate in politica, comporterebbero uno scontro con l’America e aspri contrasti all’interno della Nato? Sanno che il vertice europeo di fine giugno, oltre a discutere di migrazioni e di riforme dell’eurozona, prevede il rinnovo per altri sei mesi delle sanzioni alla Russia? E che a luglio ci sarà un vertice Nato, tra l’altro con una richiesta ultimativa di aumento delle spese militari? E che dal primo giugno potrebbero (forse) scattare i dazi commerciali americani? Tanti silenzi e tanti interrogativi pongono, in realtà, un problema determinante: quanta capacità decisionale avrà il Presidente del Consiglio? E quanta autonomia avrà il ministro degli Esteri? La nomina di Giampiero Massolo alla Farnesina sarebbe tale da offrire risposte rassicuranti ai nostri dubbi, ma i ministri, e prima di loro il Premier, non possono essere semplici «esecutori» dei capi dei partiti che formano la maggioranza parlamentare. Il «Fattore M» pesa già sul domani dell’Italia. L’interesse nazionale, quello vero, è che non debba entrare in azione, e sancire un fallimento che non auspichiamo. Pag 6 Dietro al curriculum sterminato la smania di essere riconosciuti di Pierluigi Battista Un curriculum non è solo uno strumento di lavoro. È anche uno specchio di chi sei o, meglio ancora, di chi vorresti essere. Si presenta come un arido e indigesto elenco di incarichi e lavori, ma è soprattutto il romanzo autobiografico che confessa aspirazioni, vanità, progetti di vita, riconoscimenti di chi stila con meticolosa completezza ogni frammento della propria vita pubblica. Nel curriculum del premier designato Giuseppe Conte ci saranno pure inesattezze, per così dire, o edulcorazioni, ampliamenti, super-dimensionamenti che rischiano, come pare acquisito, di non reggere a puntali e puntigliose inchieste di verifica. Ma sicuramente in quella sterminata successione che accumula per pagine e pagine ogni piega della vita professionale e accademica del professor Conte si rispecchia la smania di riconoscimento di un ceto dirigente che vuole farsi bello e internazionale, cosmopolita e plurilingue pur di accedere all’empireo sognato dell’establishment, avendo cura di strappare via ogni minima traccia della propria origine provinciale. Il curriculum di chi aspira a un ruolo da ottimato della Repubblica Internazionale dei supertitolati contempla degli schemi a cui attenersi con scrupolosa obbedienza. Anche per chi dovrebbe guidare un governo che della guerra all’establishment ha fatto un proprio vessillo. Ma il dente duole sempre lì: farsi accettare, acquisire uno status, entrare nel grande club. Il curriculum del professor Conte, a una lettura attenta delle sue pagine, sembra interamente dentro questo schema. Il curriculum come testimone di un’ascesa di status. Ecco la maniacale ossessione nell’elencare corsi di Banking Law, compiaciute appartenenze all’Association de la culture

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juridique française, la galleria di incarichi presso qualche Board, meglio ancora Board of Trustes, di atenei sparsi nel mondo civilizzato, ma anche del Cardinal Tonini Charitable Trust con sede a Pittsburgh, Pennsylvania. Molte le «relazioni culturali» con università tipo quella di Dayton, Ohio, e poi il capitolo controverso di soggiorni di studio e perfezionamento, «per periodi non inferiori a un mese», a New York e in giro per il mondo accademico accreditato. Ci si perde nella miriade di partecipazioni all’European Contract Group e al Social Justice Group, nei seminari come intellectual partner nel progetto della World Bank, del Global Forum in Law, Justice and Development. Senza contare le innumerevoli partecipazioni negli Editorial Board, conferenze alla John Cabot University e in chissà quante altre. E si possono forse trascurare con superficialità le tantissime partecipazioni, pagine e pagine, del professor Giuseppe Conte come relatore a convegni sulle più disparate articolazioni del sapere giuridico internazionale. Ci sono anche numerosi «è intervenuto», cioè anche un intervento a una tavola rotonda entra trionfalmente a far parte del profilo curriculare. Ci sono anche «presentatore del volume», e giù un elenco di volumi presentati, a cominciare da «Class Action. Prime valutazioni e procedure di applicazione». Senza trascurare il fatto che «è stato invitato a parlare alla conferenza internazionale dal titolo Implications for Growth and Policy organizzato a Roma dal Progressive Policy Institute di Washington». Per finire con un sontuoso elenco di «principali pubblicazioni», che per il fatto di essere umilmente «principali» coprono soltanto un centinaio di titoli. Tutto vero? Molto ritoccato, insomma abbellito, come sembra. Ma conta il desiderio spasmodico di accumulare qualunque più piccola tessera di un mosaico professionale e personale per dare l’impressione di essere tra i primi, di camminare a testa alta nella provincia da cui si è venuti, per scalare le vette della grande e luminosa élite cosmopolita. Il film «Smetto quando voglio» racconta comicamente un paradosso: i giovani protagonisti, tutti straordinariamente colti e preparati, per farsi accettare da chi potrebbe assumerli ma solo con livelli retributivi umilianti, sradicano dai loro curriculum alcuni titoli di merito. Devono apparire peggiori e più incolti di quanto non siano e due ragazzi vengono licenziati presso un distributore di benzina perché sorpresi a usare proditoriamente una citazione in latino. Pare che succeda spesso, nella realtà: il curriculum ritoccato al contrario, in senso peggiorativo, per non spaventare chi assume. Ma per chi invece usa il curriculum come biglietto di ingresso nel dorato mondo di chi si reputa possa far parte dell’establishment, l’esigenza di elencare tutti quei titoli, anche i più banali come la partecipazione a una tavola rotonda purché siano adoperate espressioni in inglese, diventa un imperativo tirannico. Ecco la radice delle possibili gaffes in cui il grande architetto del curriculum può imbattersi. E non può nemmeno smettere quando vuole. AVVENIRE Pag 1 La necessaria giusta rotta di Leonardo Becchetti Governo politico e società generativa Esiste un orizzonte sociale ideale verso cui muovere, dal quale con la nuova situazione politica italiana non dobbiamo correre il rischio di allontanarci pericolosamente. In un’ottica di ben-vivere vorremmo delle società dove tutti i cittadini possano essere generativi coerentemente con il grande ideale dell’art. 3 della Costituzione che parla di bene comune e di rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione della persona. La generatività dipende dalla concomitanza di tre fattori. Il primo riguarda le potenzialità personali (il nobel Amarthya Sen le chiamerebbe capabilities) rappresentate essenzialmente da capacità reddituale, salute e istruzione. Il secondo è identificabile nelle condizioni sociali che rendono possibile la generatività personale (libertà di iniziativa, assenza di lacci e lacciuoli) e dunque riguarda molte variabili relative alla qualità del sistema Paese (burocrazia, giustizia civile, pari opportunità). Il terzo – e decisivo – è la generatività in atto, ovvero la capacità delle persone di tradurre queste potenzialità personali e sociali in una realizzazione di vita dove il nostro essere e agire contribuisce positivamente alla vita degli altri realizzando anche la nostra (creare famiglie e relazioni stabili di successo, imprese, organizzazioni sociali, partecipare e assumere responsabilità nella vita associativa, politica, religiosa). Nella società globale ai tempi della rivoluzione digitale accanto a opportunità enormi esistono formidabili ostacoli e insidie alla generatività. Se consideriamo la popolazione sotto la soglia di povertà,

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l’area ancora più vasta che include il lavoro precario, in nero e sottopagato e se mettiamo in conto i limiti del sistema Paese e la presenza della criminalità organizzata, gli italiani che possono vivere una condizione di piena generatività non sono certo la totalità (né la maggioranza) della popolazione. In un recente rapporto della Fondazione Hume si parlava di un terzo di cittadini in età da lavoro con occupazione stabile, contro due terzi che si battono tra disoccupazione, mancata partecipazione o lavoro precario o a forte rischio. Tutto questo ha prodotto una domanda politica di rendita pubblica nelle regioni del Sud dove la disoccupazione morde di più e una domanda di liberazione dagli ostacoli sociali alla generatività (meno tasse, sistema Paese più efficiente) nelle regioni del Nord dove il problema è la difficoltà di vita e sopravvivenza della piccola impresa. Il rischio enorme che stiamo correndo è che questa domanda di liberazione si traduca in realtà in una doppia droga che uccide ancor più le prospettive di generatività futura. Sul primo fronte (il reddito di cittadinanza) la rete di protezione degli ultimi, se non è effettivamente finalizzata all’inclusione sociale e lavorativa rischia di diventare l’«oppio dei poveri», qualcosa che, nei casi peggiori, alimenta passività e dipendenze. Il padre conciliare Jean Danielou diceva paradossalmente «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio», perché dignità e realizzazione personale dipendono dalla propria capacità di dare agli altri e non dal ricevere un obolo. Sul secondo fronte la liberazione macroeconomica dai vincoli comunitari europei che alcuni evocano illude che basti stampare moneta per risolvere i nostri problemi e rischia di precipitarci in un mondo che avevamo abbandonato, fatto di svalutazioni, inflazione e ripetute crisi finanziarie. La storia economica è piena di Paesi sovrani che vanno oltre le proprie possibilità, precipitano in crisi finanziarie e hanno bisogno di salvataggi internazionali. I saggi e misuratissimi colpi di freno e di volante di questi giorni del presidente Mattarella sono dipesi dalla preoccupazione di evitare errori che potrebbero innescare una deriva argentino-venezuelana che precipiterebbe l’Italia in un eterno conflitto tra partigiani dell’ultraliberismo e “peronisti”. Per questi motivi mai come oggi è opportuno ribadire con forza le ragioni dell’ideale di una società pienamente generativa promuovendo con forza politiche che garantiscano le condizioni personali e sociali di questa condizione, ma tenendo la barra dritta verso gli elementi che consentono di porla in atto concretamente. Opportunità per creare famiglie e relazioni sociali stabili, partecipazione politica e associativa, creazione di impresa e organizzazione sociale sono dunque gli obiettivi ultimi che le politiche economiche devono perseguire evitando di cadere nella tentazione (o illusione o incubo) di società fatte di cittadini passivi che vivono della dipendenza da sussidi e illusioni di pietre filosofali macroeconomiche. Pag 2 La privacy spiegata dall’Europa di Francesco Ognibene I segnali del regolamento che entra in vigore oggi Il primo effetto del nuovo regolamento Ue in materia di protezione dei dati personali, che entra in vigore oggi dopo una lunga gestazione, è probabilmente già stato sperimentato da molti di noi. Caselle di email e siti Web infatti si popolano in questi giorni di annunci che ci chiedono di sottoscrivere l’applicazione delle nuove regole europee a protezione della nostra privacy, sintetizzate in un acronimo – 'Gdpr', ovvero General data protection regulation – col quale faremo bene a familiarizzare senza liquidarlo come l’ennesima richiesta di un distratto 'ok' per procedere con la lettura o la navigazione. Ormai dovrebbe essere chiaro che i nostri dati personali sono il primo alimento per l’economia digitale, che attribuisce loro uno straordinario valore contando sul fatto che i legittimi detentori non si rendono conto di quale tesoro consegnino sbadatamente cliccando su qualunque domanda di consenso gli venga sottoposta. Dettando norme più stringenti per ottenere e usare informazioni anagrafiche come su abitudini e consumi, l’Europa richiama i suoi cittadini a considerarsi tali e non solo consumatori impegnati in un instancabile baratto di dati. Un invito a essere più consapevoli e responsabili, ad aver più cura di quel che i nostri figli fanno e cedono di sé online e a vigilare su chi entra in possesso di informazioni sulla nostra vita, anche perché non le rivenda ad altri. Ma col nuovo regolamento l’Europa manda anche un secondo e non meno importante messaggio, diretto ai protagonisti del mercato dell’informazione digitale, cresciuti senza controllo proprio grazie alla raccolta di massa e all’uso scientifico della materia prima offerta dai loro utenti volentieri e senza batter ciglio. All’economia

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globale arriva oggi il segnale di un’istituzione che, a nome di 500 milioni di cittadini, ha il coraggio di dettare regole su una materia che ne avverte l’allergia. Lo fa perché ancora ricorda che la persona umana conta più di ciò che consuma. Che l’Europa al mondo frettoloso e vorace del 2018 sappia dire che non si fa mercato di ciò che siamo, stendendo a nostra tutela una serie di norme più severe delle precedenti, ci fa essere orgogliosi di questa comune appartenenza oltre le frontiere nazionali. Sempre che adesso impariamo a custodire i nostri clic. Pag 21 Francavilla, quei funerali sull’orlo dell’abisso di Umberto Folenha Il prete: Dio raggiunge nel baratro Come sarà mai un funerale celebrato sull’orlo dell’abisso? Scrutando quell’abisso e domandandosi che cosa ci sia là in fondo, se Dio vi sia presente, e in quale modo, e perché? Bisognava essere ieri alla chiesa dello Spirito Santo di Pescara, dove si sono celebrati i funerali di Fausto Filippone. Proprio lui: l’uomo, il marito, il padre, il nostro fratello che domenica scorsa dall’alto del viadotto sull’A14, a Francavilla, ha scrutato a lungo l’abisso che gli si apriva sotto i piedi, rivolgendo poi lo sguardo all’abisso che da tempo si era spalancato nella sua anima; aveva vagato da un abisso all’altro a lungo; e alla fine si era tuffato, proprio come aveva costretto a fare a moglie e figlia: giù nell’abisso, in quell’ignoto ritenuto più accettabile di una realtà nota ma così dolorosa e insostenibile da indurlo a saltare dall’altra parte. Funerali in forma strettamente privata, nella chiesa dello Spirito Santo. Tutto discreto e misurato. A cominciare dai fiori, pochi, semplici e candidi, i fiori degli 'Amici di sempre'. Per continuare con le parole, mai come ieri asciutte, del parroco don Giorgio Campilii, che evocava proprio l’abisso: «Dio – diceva durante l’omelia, che immaginiamo sia stata tra le più sofferte e ardue – ci raggiunge nella profondità del baratro della nostra esistenza per riprenderci e, certamente, potrà farlo anche con il nostro fratello Fausto». In circostanze come quella di ieri nella chiesa pescarese dello Spirito Santo, comunicano più i gesti delle parole. E la carezza di don Giorgio ad Antonella, la sorella di Fausto, vale più dell’omelia più profonda e brillante, forse perché muta, priva di quelle parole che ieri suonavano tutte un poco di troppo. Una carezza e un abbraccio. E un altro abbraccio, più lungo, per Antonio, il padre di Fausto, che nei mesi scorsi aveva dovuto scrutare l’abisso della morte della moglie, al termine di una lunga malattia degenerativa, di quelle che rendono impossibile non confrontarsi con il senso del dolore, della sofferenza, della morte. Don Giorgio sembrava quasi sostenere Antonella, come se non potesse stare in piedi da sola, schiantata sotto il peso del dolore. Da parte sua Antonio, il papà, non riusciva ad alzarsi e rimaneva seduto. Gli amici gli si avvicinavano, gli sussurravano qualche rara parola all’orecchio, si allontanavano. Non andavano molto distante. Restavano sul sagrato in attesa della bara che, prima di essere accompagnata fuori, era accarezzata e baciata da Antonio, stavolta sorretto dalla figlia. Poche, pochissime parole. Per fortuna. Laconica, in Procura, era anche il pm di Chieti, Anna Lucia Campo, titolare dell’inchiesta sulla disgrazia di domenica: «Scusate, ma non riesco a parlare della tragedia». Una spiegazione arrivava invece da Massimo Di Giannantonio, direttore del Dipartimento salute mentale della Asl Lanciano-Vasto-Chieti, colui che domenica parlò con Filippone sul viadotto, invano. Tema: la richiesta del porto d’armi a uso sportivo avanzata da Filippone: «Ai test finali era stato perfetto in ogni risposta: senza ansietà, o tono di cambio d’umore, senza alcun segnale di paranoie o disturbi». Così gli era stato rilasciato il certificato, anche se la pratica della richiesta del porto d’armi non era stata portata a termine. IL GAZZETTINO Pag 1 La resistenza delle ex élites contro gli eletti del popolo di Mario Ajello Quello del «popolo contro le élites», che secondo Matteo Salvini dev'essere la nuova dicotomia al posto della vecchia e superata destra-sinistra, è un concetto discutibile. Ma quello delle pseudo-élites - i giri giusti della sinistra, i salotti intellettuali, quel che resta delle macerie democrat e delle loro grancasse mediatiche - che si scagliano contro gli eletti del popolo più che discutibile è un concetto, anzi una pratica o meglio un tic, risibile. Eppure, ci risiamo. Un tempo c'era l'anti-berlusconismo, e adesso, prima ancora

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che il nuovo governo cominci e quando ancora non si è aperta la nuova fase italiana, è subito entrato in scena l'anti-grilloleghismo. Categorie accomunate da una aggressività politico-culturale derivante da uno choc: ossia dalla vittoria degli altri. Subito degradati a fascisti - nel 94 quando vinse Forza Italia Umberto Eco stroncò l'Italia come patria del «fascismo eterno» e ora se fosse vivo direbbe più o meno la stessa cosa - o a sfascisti o a barbari o a riprova che il popolino o il popolaccio seleziona sempre i peggiori. Questa impostazione illiberale ha aiutato il berlusconismo, vittimizzandolo, e invece di abbatterlo lo ha perpetuato. Adesso sembra di vivere in un replay. E ieri, nel cortile di Montecitorio, un gruppetto di leghisti tra cui Giancarlo Giorgetti, notavano soddisfatti: «Speriamo che continuino ad attaccarci e a dire che siamo dei bifolchi». Dare del bifolco all'eletto significa dare del bifolco all'elettore, e non è affatto bello. Soprattutto è autolesionistico. Ma non solo. La mostrificazione e la ridicolizzazione dell'avversario - per cui oggi Conte non è un premier ma un «premierino», non uno vero ma uno descritto come Ambra quando era telecomandata via auricolare da Boncompagni in tivvù - sono il mezzo per nascondere le proprie incapacità, per mascherare l'orror vacui, per evitare la fatica di definirsi in positivo. Stroncare il Nemico, ribattezzato anche l'Accozzaglia (copyright Erri De Luca, celebrato scrittore), per non ripensare se stessi. E l'Italia non è più Italia: è Populandia. «Continuiamo così, facciamoci del male», è la celebre battuta di Nanni Moretti sul masochismo-narcisismo di sinistra. Quello che adesso ha solo sostituito i bersagli, restando uguale a se stesso. Con un'aggravante. Se Berlusconi era considerato soltanto il pessimo frutto del popolo teleguidato e plastificato che aveva puntato su di lui, stavolta il grillo-leghismo è anche il frutto delle scelte di una parte degli elettori di sinistra che per abbattere Renzi si sono rivolti a Di Maio finendo (anche) nelle mani di Salvini. E questo indispettisce ancora di più chi è stato parte attiva di questa situazione paradossale e che invece di leccarsi le ferite si scaglia contro il mondo lamentandosi alla maniera dei vecchi conservatori: o tempora, o mores... Quanti alti lai. Che non provengono - questa è una novità - soltanto da sinistra, ma in questo caso anche da quella destra che il Salvimaio lo ritiene un mostro a due teste e magari rimpiange il Renzusconi. In questo clima da «Aspettando i barbari» (il romanzo di gran lunga più bello di J.M. Coeetze), non siamo ancora agli appelli degli intellettuali del 94: emigriamo! Oppure: andiamo in montagna come i partigiani! E tuttavia, soffia la malinconia per il mondo di prima. Adriano Sofri l'altro giorno è arrivato addirittura a scomodare Ovidio, per illustrare il suo spaesamento all'epoca del penta-leghismo. Per l'attualità, ha citato i versi dall'esilio di Tristia: «E' lontana la bellezza di Roma. Vicini, invece, il volgo formato di Sciti e la folla dei Geti vestiti di braghe. Così mi affligge sia ciò che vedo sia ciò che non vedo». Con i paraocchi, naturalmente, non si vede niente. LA NUOVA Pag 1 Il popolo e il partito del nuovo di Pier Aldo Rovatti Le parole che hanno trainato l'attuale scena pubblica sono essenzialmente due, "cambiamento" e "nuovo". "Adesso si cambia", dicono i leader politici usciti vincitori dalle elezioni di marzo. A questo monito corrisponde un desiderio di "nuovo" che si allarga ben oltre le specifiche case politiche: qualcosa che forse può essere meglio caratterizzato come un "empito", uno slancio spontaneo, un impulso quasi liberatorio da parte di una massa di persone che esprimono così la loro stanchezza di restare in una situazione bloccata. Vorrei qui tentare di rappresentare meglio tale atteggiamento guardandolo con gli occhi di chi non si considera né un militante dei Cinquestelle né un militante della Lega. Non penso alla posizione ingenua e distratta di coloro che si chiamano fuori, una sorta di popolo disinformato o semplicemente stufo. C'è infatti un altro popolo più consistente, al quale appartengono moltissimi italiani, che sembra avere abbandonato demotivazione e disfattismo per abbracciare una speranza di rinnovamento e identificarla proprio nell'inedita forma di governo che ora si annuncia. Credo che tale anelito o speranza non verrà subito ripagata e vorrei aggiungere "purtroppo", ma il punto significativo che mi interessa è proprio il fatto che si sia creato e diffuso un simile desiderio. Osservo, en passant, che ha unificato, per una volta, il cosiddetto uomo della strada con una certa élite intellettuale anche di sinistra, tutti d'accordo nell'affidarsi all'ipotesi del nuovo e alle promesse che potrebbe contenere. Quasi si sia andata formando una vasta opinione popolare, una specie di "partito del nuovo" che agglutina le

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tante voglie di farla finita con governi che stazionano nei piani alti, sopra la testa della gente, a costruire maneggi di potere e a distribuirsi privilegi e prebende. Quasi si fosse resa finalmente disponibile una chance di democrazia e bisognasse prenderla al volo. Potremmo pensare che i recenti risultati elettorali, già come tali, testimoniano di questo desiderio diffuso. Tuttavia, non è solo una questione di voti e di percentuali: il fenomeno è assai più vasto e si configura come una tendenza dominante nella stessa opinione pubblica. Il termine populismo ha tante facce e si è usurato da solo diventando - a mio parere - sempre meno decisivo per capire dove siamo. Risulta troppo schematico, troppo ideologizzato, ciascuno lo tira dalla sua parte e si corre inevitabilmente il rischio che diventi una parola equivoca e infine vuota. Il cittadino qualunque, se dici "populismo" non ti capisce. Continua però ad afferrare con facilità la parola "popolo". L' "empito del nuovo", quindi, anche se sembra agevolmente smontabile come un impulso emotivo destinato a essere smentito e deluso, porta alla superficie un bisogno tutt'altro che vago e inconsistente. Con una novità importante che non ci deve sfuggire: l'alimentarsi di una rinnovata fiducia - velleitaria quanto si vuole - nella possibilità di essere governati decentemente, cioè con un minimo di democrazia reale. Proprio nel momento in cui la sinistra istituzionale dà segnali di sgretolamento e dovrebbe allora aprirsi un buco di credibilità nella cultura che le corrisponde, la débacle elettorale ha paradossalmente aperto uno spazio di relativo ottimismo civile, certo tutto da verificare. Potrebbe accadere che la voglia di nuovo venga presto frustrata, ma non credo che l'apertura di credito - per dir così - che la produce possa riassorbirsi tanto in fretta. Se ci lamentavamo, ancora ieri, di una generale demotivazione politica che toccava spesso le soglie dell'astensionismo, non c'è dubbio che adesso si registri piuttosto un clima di attesa. E allora mi pare difficile pensare che tutto venga cancellato in cinque minuti e che il "popolo", quello reale costituito da soggetti concreti, dopo essere stato tanto evocato e blandito da un'infinita campagna elettorale, esca di scena in silenzio. E quella voglia, quell'empito, quel desiderio di nuovo - una volta accesi, anche se con molta retorica - potrebbero non spegnersi e produrre effetti virtuosi non prevedibili. Torna al sommario