Vita ecclesiale

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III VITA ECCLESIALE

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TAURINO CRISTIANO DEL QUARTO SECOLO

La lapide sepolcrale di Taurino, spezzata in tre frammenti, fu trovatanell’Ottocento. In un vecchio appunto il canonico Billi scrive che gliera stato detto che la lapide proveniva dalla località fanese (prossimaalla via Flaminia) detta di San Martino, ora prospiciente su viadell’Abbazia. È la zona dove, secondo la “Vita di San Paterniano”,sarebbe morto quel santo Vescovo; zona indicata dal distratto o igno-rante copista di Nonantola come Vicus Tanarum (Borgo delle Tane)anziché Vicus Christianorum. Dopo lo scempio del vialetto di cipressiconsumato qualche anno fa è rimasta sul posto la piccola cappella notacome “San Paternianino”. Là presumibilmente sorse la prima chiesacristiana di Fano, la prima Cattedrale che era anche chiesa cimiteriale.Ma dell’antico cimitero cristiano è emersa solo la lapide di Taurino, sealtre ce n’erano sono andate distrutte o disperse quando furono scava-te le fondazioni di nuove case: mi fu detto che vennero trovate molteossa umane. Cosa dice la nostra lapide? Il senso è questo: “Qui giace Taurino,ragazzo di anni diciotto figlio di Aurora, militante negli invitti senio-ri”; costoro costituivano un corpo militare ausiliario. L’iscrizione funeraria che risale al quarto secolo d.C. è un po’ rozzanella grafia e nella grammatica, essa si chiude col monogrammacostantiniano (“chrismon” a croce) e con due colombe che nel beccorecano un ramoscello d’olivo. Il monogramma costantiniano, che risul-ta dalle due prime lettere greche della parola Cristo, ha intorno all’astaverticale “omega” e “alfa”. Perché queste due lettere apocalittiche nonseguono il naturale ordine alfabetico che vuole prima l’alfa e poi l’o-mega, ultima lettera dell’alfabeto greco? La strana posizione è stata notata, ma non spiegata. Si tratta invece diuna ulteriore conferma della fede di Taurino e di chi gli pose la lapide.In definitiva quell’iscrizione rappresenta un totale rovesciamento reli-gioso rispetto alle concezioni pagane. Infatti per chi ha fede la fine,rappresentata dall’omega, è l’inizio della vera vita, rappresentata dal-l’alfa prima lettera dell’alfabeto greco. Quelle lettere così invertite

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sono in realtà un linguaggio mistico. La famosa archeologa MargheritaGuarducci le trovò nel dicembre 1953 sulla tomba di una certa Manianelle grotte vaticane perché, la Guarducci disse, “i primi cristiani sem-brano essere stati sensibili al gusto delle cose nascoste, al fascino del-l’arcano, e avidi del godimento che si prova quando, non senza unacerta fatica, si riusciva a comprendere ciò che a un primo aspetto erasembrato incomprensibile”.

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PATERNIANO UN SANTO PER I FANESI

Le notizie su San Paterniano risalgono al medioevo: certamente allorafu unire una serie di dati che erano stati tradizionalmente trasmessi dauna generazione all'altra. Si pensa che sia nato a Fano verso l'anno 275;però alcuni nostri storici del secolo XVII (Nolfi, Negusanti e altri)dicono che nacque nel Lazio, a Palestrina, nientemeno figlio di un con-sole, Ovinio Paterno. Quando nel 303 iniziò la persecuzione promossada Diocleziano e Galerio, il giovane Paterniano, già fervente cristiano,ebbe una visione che lo convinse a rifugiarsi fuori della città, in unbosco che (secondo la tradizione) si trovava a Sant'Angelo diCaminate. Lì fu raggiunto da altri cristiani. Sul luogo oggi possiamoancora vedere un'antica costruzione romana, un granaio sotterraneo(un antenato dei “silos”) come luogo in cui Paterniano si è rifugiato. E'la tradizione che lo dice e che addita, così, uno dei più antichi luoghidella pietà popolare di Fano e della Diocesi.Cessata la persecuzione, verso il 306, il giovane Paterniano fu quasi afuror di popolo creato Vescovo della città, essendo morto nel frattem-po il pastore della Chiesa fanese. Egli governò la Diocesi per circa 40anni; e poté godere della libertà che fu concessa alla Chiesa con ilfamoso editto di Milano che è del 313. Non è affatto verosimile chePaterni ano abbia distrutto i templi pagani e convertito tutti. Egli dovet-te molto lavorare e molto soffrire per diffondere il Vangelo in una cittàin cui il paganesimo era molto radicato; dobbiamo infatti ricordare checirca settant'anni dopo la sua morte era ancora in piedi il tempio dellaDea Fortuna; ce lo fa sapere il poeta Claudiano. In effetti Fanum era unsantuario pagano, e al santuario erano legati molti interessi. Che la tra-dizione pagana fosse assai radicata in città ce lo dice anche il fatto cheil nome Fanum (indicante un santuario o tempio pagano) rimase intat-to e non fu mai mutato. Paterniano acquistò fama di saggezza e santità anche nelle città e nelleregioni vicine: certamente svolse una lavoro enorme per l'affermazio-ne della Chiesa. Morì verso il 360, il 13 novembre, ed ebbe subitonome e culto di Santo persino fuori d'Italia.

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I fanesi attendono che il luogo dove egli morì e dove rimase sepolto perpiù di mille anni, cioè la chiesetta di San Martino detta anche SanPaternianino venga finalmente restaura e tolta allo squallore in cui l'in-sipienza di troppe persone, ecclesiastici e laici, l'hanno ridotta.

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CURIOSITÀ SU SAN PATERNIANO

S. Paterniano Vescovo fu onorato come patrono di Fano fin dalmedioevo; la sua effigie marmorea posta nel ‘300 sulla facciata delPalazzo del Podestà, in piazza, basta a farne piena fede. Ma sulla vitadel nostro patrono ci sono punti non chiari. Il fatto è che, mancandodocumenti d’epoca, la leggenda si è mescolata alla storia. Non vale a dare netti chiarimenti nemmeno la tarda “Vita di S.Paterniano” contenuta nel Codice Nonantolano donato nel XVI secolodal Vescovo Brentano al Capitolo della cattedrale. Quel codice contie-ne vite di santi, omelie ed altro. Duro è il giudizio che ne dà lo storicoGrégoire, per lui quelle pagine “non meritano alcun credito”. La “Vitadi S. Paterniano” fu elaborata nell’età di Carlo Magno e poi fu copia-ta male nel X e nell’XI secolo. Si pensi a questi fatti: nella “Vita” vienenominata la Pentapoli che viene almeno tre secoli dopo S. Paterniano;in quella “Vita” si parla molto spesso dei “monaci” compagni delSanto, quando sappiamo benissimo che il monachesimo era del tuttosconosciuto in Occidente nel tempo in cui si è soliti collocare le vicen-de di Paterniano. Poi, cosa strana, nella “Vita” del Santo non comparemai il nome della città di Fano! La urbs Fani viene trasformata dalmale accorto copista in Turi, Suri, Iuri! A fare un po’ di confusione ci si sono messi poi alcuni storici locali(ammesso che siano degni d’esser chiamati “storici”) che hanno indi-cato nella cosiddetta Grotta di S. Paterniano a Ferriano di Caminate (inrealtà un granaio, un antico silos) la prima catacomba delle Marche,luogo di rifugio del Santo, dimenticando che le catacombe erano cimi-teri di cui, si badi bene, non c’è traccia nella famigerata grotta. C’è invece una curiosità che merita d’essere notata. Adriano Negusantie Vincenzo Nolfi nel sec. XVII asserirono che il Santo era nato aPalestrina, nel Lazio, figlio del console Ovinio Paterno.Tutto ciò èpotuto sembrare, e forse è, un castello di supposizioni. Però è un fattoche quel Lucio Turcio Asterio figlio di Aproniano, che incide il suonome sull’Arco di Augusto per averlo forse restaurato, curando che nelfregio del loggiato venisse ricordato Costantino padre dei dominanti,

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quel Lucio Asterio - dicevo - da una lapide trovata a Roma nel 1780risulta marito di Ovinia Paterna. L’età in cui operò Lucio Turcio a Fano(circa il 339 d.C.) corrisponde a quella in cui tradizionalmente si situaS. Paterniano che potrebbe essere fratello di Ovinia Paterna, nato aPalestrina e poi venuto a Fano città non sconosciuta alla sorella. Qui,in una città senza Vescovo, potrebbe essere stato nominato lui dopo l’e-ditto con cui Costantino poneva il cristianesimo fra i culti ammessi. Ladimostrazione di questi eventi è difficile se non impossibile. Vale lapena di essere almeno curiosi.

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LA FESTA DI SAN PATERNIANOE LA BASILICA PROFUMATA

Allora (quanti anni fa?) ero un bambino e con i miei, la sera del 9luglio, andavo nelle basilica di San Paterniano per rendere omaggio alSanto Patrono nella vigilia della sua festa.Sotto un finissimo velo ricamato e trapunto anche da piccole madre-perle lucenti si vedeva intero lo scheletro del Santo sistemato e com-posto da uno scienziato: il Prof.Giacomo Cecconi. Mancavano pocheossa che secoli prima erano state inviate (l’ho imparato più tardi) aVenezia come reliquia nella chiesa là intitolata al nostro patrono.Qualcuno, però, cominciò a dire che lo scheletro di quel Santo (che eradi bassa statura) faceva paura ai bambini e bisognava pensare a qual-che altra sistemazione. A me, veramente, muoveva solo curiosità e nes-suna paura.Comunque, bene o male, nel 1960 fu trovata la soluzione. In un’urnafu posto un finto corpo vestito con abiti pontificali come anche oggivediamo. Sotto la maschera del volto (copiata dalla tela secentesca delTiarini posta sull’altare maggiore) furono e sono raccolte le venerateossa in una cassettina coperta di stoffa che fa da sottocuscino alla testa.Delle mie lontane visite (sono ormai trascorsi settant’anni) ricordo ilprofumo della chiesa che, in occasione di quella festa, aveva il pavi-mento di cotto cosparso con foglie di alloro: quel fresco sentore simescolava a un tenue odore d’incenso.Il tempo (è proprio vero) rende leggendarie anche le cose semplici!Del resto la stessa vita di San Paterniano, uno dei primi Vescovi diFano (ma non il primo, come erroneamente si sente dire) è intessuta dileggende, che forse racchiudono qualche verità; ma l’identità delnostro protettore è stata sempre piuttosto problematica.Il suo nome una volta era abbastanza diffuso nella Diocesi; poi, comequello di molti altri santi, è andato fuori moda e vive solo in certi vec-chi cognomi abbastanza frequenti nel nostro territorio quali Paternianie Patrignani. Schegge di storia; ma la pietà popolare, per grazia di Dio,è ancora viva.

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LA LEGGENDA DI SANT’ORSO

Sant’Orso era un tempo piccola frazione agricola di Fano alla sinistradel Canale Albani; oggi è un grosso quartiere periferico.Orso, nome ora non più usato, era un fanese che fu Vescovo della suacittà dal 625 al 639 all’incirca; ma su lui e sulla sua santità si hannopoche notizie; certo godette molta fama se fu addirittura annoverato trai quattro protettori di Fano (gli altri sono Paterniano, Eusebio,Fortunato). Il ricordo di Sant’Orso è giunto sino a noi legato ad unaleggenda scambiata da qualcuno per “storia vera”. Dunque si racconta che un 15 maggio (festa del Santo) tanti secoli faun contadino lavorava la terra con i buoi infischiandosi del giornofestivo. Ripreso da un conoscente che gli ricordò di non lavorare inquel giorno di festa, rispose con ironia e fastidio: “Se lui è un orso, iosono un cane”. E continuò a lavorare; ma a questo punto - dice la leg-genda - la terra si aprì e la voragine inghiottì, nella fossa di sant’Orsoappunto, il contadino, i buoi e tutto. È una leggenda che lascia un po’ perplessi perché non è tanto facile enaturale pensare a un Santo Vescovo così tremendamente vendicativo.Il fatto è che lungo i secoli la “fossa di Sant’Orso” venne sempre indi-cata come luogo di un prodigio che ammoniva a non prendere in giroi Santi. Lo storico Amiani ci dice che ai suoi tempi, cioè nel secoloXVIII, la “fossa” si vedeva e con ciò quello storico (a volte un po’ fan-tasioso) avvalorava la leggenda. Nel 1848 il Vescovo Carsidoni e ilGonfaloniere Rinalducci eressero sul luogo una edicola in mattoni avista: ora è all’incrocio di via Sant’Orso con via Galilei.Coll’andar del tempo la “fossa” si è riempita; noi pensiamo che la suaorigine sia tutt’altro che miracolosa. Quella fossa, molto probabilmen-te, era una fossa limitalis dell’antica centuriazione romana perfeziona-ta ai tempi di Augusto. La fossa che assicurava il regolare deflussodelle acque superficiali avviandole verso un fosso più grande rimase alsuo posto per moltissimi anni e non è escluso che qualcuno vi sia cadu-to dentro. Di qui la leggenda. Fatto sta che nella ricostruzione dellacenturiazione romana fatta da Cesare Selvelli e in quella, più esatta,

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disegnata da Nereo Alfieri il fosso di Sant’Orso cade proprio in paral-lelo col lato di un quadrato delle sopraddetta centuriazione. Non è fuordi luogo ipotizzare che quel fosso, o “fossa” come dicevano i fanesi,fosse col tempo indicato come segno di un vecchio prodigio ammoni-tore.

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SAN FRANCESCO SANA TRE INFERMI FANESI

Non risulta storicamente che San Francesco sia stato a Fano né che dalui, come si legge in un racconto del tutto favoloso, sia stata liberata daun grosso serpente la selva del Ponte Metauro.È certo, invece, che la città fu sempre devota al Poverello e ai suoi fratiche già nel 1235 ebbero in dono dalla comunità fanese l’ospizio di SanGiuliano, posto dove ora il Palazzo comunale fa angolo fra Via Nolfi evia San Francesco. Non era un convento, ma un luogo di sosta per ifrati che, numerosi, avevano occasione di transitare per Fano. Il vero eproprio convento cominciò ad essere fabbricato nel 1255, mentre lamonumentale chiesa di San Francesco fu costruita nel secolo seguentedai Malatesta; venne solennemente consacrata nel 1336 dal vescovoIacopo II, presenti i suoi confratelli di Fermo, Osimo, Senigallia,Macerata, Camerino, Cagli, Trivento.Fra Tommaso da Celano nella sua “Leggenda francescana” ricorda trefanesi miracolati dal Santo pochi anni dopo la sua morte: “Nella città diFano - scrive fra Tommaso - c’era un rattratto, le cui tibie ulcerate eranoripiegate e aderenti al corpo, e tale era il fetore delle piaghe che nessu-no voleva accoglierlo e tenerlo all’ospedale.Pei meriti del beatissimo padre nostro Francesco, del quale invocò lamisericordia fu guarito”. E continua: “V’era nella città di Fano un idro-pico con le membra orribilmente tumefatte; dal beato Francesco fuinteramente liberato”. Ed ecco il terzo caso: “Nella città di Fano ungiovane di nome Bonomo, dichiarato lebbroso e paralitico da tutti imedici, offerto dai genitori al beato Francesco, fu completamentemondato dalla lebbra e guarito dalla paralisi” (da Memorie francesca-ne fanesi).

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IL BEATO SANTE BRANCORSINI

L’agile volume che padre Giancarlo Mandolini ha dedicato a SanteBrancorsini, il Beato Sante, si legge con grande profitto, spirituale estorico.E’ veramente un atto di amore di un frate del 2000 verso un frate santovissuto nel 1300; non è un libro di dolciastra devozione né di archeo-logia per scoperte impossibili: è una sincera ricerca delle proprie radi-ci e, insieme, delle radici di quella religiosità popolare che fa partedella storia della nostra gente. Una religiosità nata dalla fiducia in chiha dato prove sicure della propria santità nell’umiltà, nel ritiro, nellapreghiera. Il Beato Brancorsini era nobile, era avviato alla carriera giu-ridica, ad un’alta posizione sociale. Un giorno, spinto da generosità,intervenne per sedare una rissa; ne fu invece coinvolto, suo malgrado,e finì con l’uccidere uno dei contendenti.Seguì un periodo di riflessione e di crisi che lo portò dalla natiaMontefabbri (a 14 chilometri da Urbino) a chiedere d’essere accoltocome fratello laico nel convento francescano di Scotaneto, oggi diMombaroccio.Non voglio togliere, a chi già conosce la vita del Beato Sante e a chi lavuol conoscere, il piacere di scorrere le pagine scritte da padreMandolini sul suo antico confratello.Mi soffermo, però, su un particolare che mi ha colpito. Il beato Sante (quia Fano el Biètsant) ci appare in stretta comunione di fraternità con la natu-ra, con le piante tanto che sono addirittura tre i prodigi che di lui narranocon un referente botanico: francescanamente con le “sorelle piante”.Nel 1888 cadde la famosa quercia del Beato Sante: era quella che, asuo tempo salvata e benedetta da Lui, produceva ghiande che avevanoincisa una piccola croce. C’è poi il miracolo delle ciliegie: era inverno e fra Sante era ammala-to. Pregò il frate infermiere di andare a raccogliere delle ciliegie nel-l’orto: e infatti le ciliegie c’erano! Quando nel 1769 si procedette allaricognizione della salma del Beato furono trovati entro la cassa trentanoccioli di ciliegia.

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Nel 1395, un anno dopo la sua morte, fra Lorenzo di Isola d’Urbinoandò a pregare di notte in chiesa. Scorse uno strano bagliore prove-niente dal sepolcro dei frati. Ebbe paura: si avvicinò e vide un candidogiglio “bello vigoroso, di soavissimo odore” che spuntava da quelsepolcro. Diede l’allarme (!); tutti scesero in chiesa e fu intonato il TeDeum. Vengono in mente i “Fioretti di San Francesco”!

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UN “ALBATO” PELLEGRINAGGIO

Stava per scadere il 1399 e l’entrata di un nuovo secolo, il ‘400, susci-tava sia profondi pensieri di penitenza sia devozioni che alcuni studio-si giudicano di tipo millenaristico come se la peste, che continuava afarsi vedere dopo il tragico 1348, le lotte infinite fra e dentro stati ecittà, la guerra dei 30 anni, lo scisma che vedeva un Papa a Roma e unaltro ad Avignone, il serio profilarsi della minaccia turca, fossero ilpauroso preludio della fine dei tempi. Dice lo storico Franco Cardini:“Da un po’ tutta l’Europa, ma soprattutto dall’Italia centro-settentrio-nale cominciarono a convergere verso Roma processioni di uomini edonne in vesti bianche munite di cappuccio e segnate da una croce. Ipellegrini si flagellavano ed entravano nelle città del tempo, soventesconvolte dalle guerre civili e dalle faide, invocando la pace e incitan-do al perdono reciproco e alla misericordia”.Fu in questo clima che le “devozioni” o “processioni” o “pellegrinag-gi” dei Bianchi percorsero alcune regioni a noi vicine, fu in questoclima che mi sembra di poter collocare, a fine settembre 1399, il pel-legrinaggio, la “cerchia” come allora si scrisse, che con intenzionipenitenziali e non millenaristiche, e col permesso del Vescovo, partì daRimini per Fano prevedendo il ritorno ancora a Rimini perFossombrone.Si mise dunque in cammino una folta compagnia di Bianchi o “Albati”- così narrano gli storici riminesi Tonini e Clementini - nel tardo set-tembre 1399 guidati da Carlo Malatesta (Signore di Rimini e fratellodi Pandolfo III Signore di Fano) con ottomila uomini e da IsabettaGonzaga, sua moglie, con cinquemila donne. Era con loro il marcheseFrancesco Gonzaga, cognato di Carlo, preoccupato sia per la sorte delsuo principato bisognoso dell’aiuto di Venezia contro Milano sia per laprecaria salute del figlioletto Gianfranco, sofferente di febbre terzana.Meta prescelta del pellegrinaggio penitenziario degli “Albati” fu ilSantuario di S. Maria del Ponte Metauro, un Santuario fondato dalBeato Cecco da Pesaro, terziario francescano, e già meta devozionalepopolare da una settantina d’anni.

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I pellegrini che (notiamolo subito, non erano “turisti”) procedevanoinvocando misericordia, cantavano lo Stabat Mater (canto che forseebbe origine proprio in quei tempi) e per penitenza dormivano in terrae digiunavano: non mangiavano né carne né uova; il sabato (ne capita-rono due in undici giorni di cammino) si nutrivano di pane e acqua.Bene intendevano il pellegrinaggio, essi e i loro Signori, come prova difede, come comunitaria manifestazione di penitenza: e il Santuariocome luogo privilegiato tra Dio e il suo popolo pellegrino nel tempo.

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Pellegrini in abito bianco in un affrescodel secolo XIV nella Pieve di Carpegna

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PANDOLFO III MUORE CONFORTATO DA SAN GIACOMO DELLA MARCA

Mentre si avvia alla conclusione l’intervento di ripulitura e restaurodelle tombe malatestiane e del portale della chiesa di San Francesco èstato appurato che il sepolcro di Pandolfo III, opera del 1460 ricondu-cibile al “cantiere” del tempio malatestiano di Rimini (L.B. Alberti?Matteo Pasti?), ancora custodisce i resti mummificati di Pandolfo, chefu Signore di Fano, Brescia e Bergamo, non di Rimini come è statoerroneamente scritto.L’esame della mummia potrebbe svelarci di che malattia morì PandolfoMalatesta; la ricognizione del sepolcro potrebbe restituire oggetti,monete, capsule con documenti, ammesso che non abbia subito la spo-liazione totale toccata alle vicine tombe di Paola Bianca e del medicoBonetto da Castelfranco.L’idea sussurrata da qualcuno di collocare la mummia di Pandolfo inun’urna di vetro a “…scopo turistico” è semplicemente orrenda!Sugli ultimi giorni di vita dell’antico signore di Fano ci è giunta unascarna, ma interessante notizia che forse pochi ricordano.Pandolfo si ammalò a fine settembre del 1427 mentre a Fano svolgevaun ciclo di prediche il francescano fra Giacomo da Monteprandone,poi canonizzato come San Giacomo della Marca. Più volte quel fratefu presente nella nostra città tanto che a lui si deve la fondazione delprimo convento fanese dei frati dell’Osservanza a Santa Maria delPonte Metauro, poi trasferito a Santa Maria Nuova in S. Lazzaro e,infine, dentro la città a S. Maria Nuova in S.Salvatore.Il santo predicatore più volte si recò a visitare e a confortare l’illustreammalato; il 3 ottobre, visto che Pandolfo era gravissimo, SanGiacomo con delicatezza, ma assai chiaramente, gli disse che era giun-to agli estremi e lo esortò a confessarsi e comunicarsi.Il principe, che pur aveva mostrato grandissimo coraggio in tanti frangen-ti di guerra, a sentire quelle parole si alterò in volto, tremò e quasi svenne.Poi, ripresosi, aiutato da San Giacomo si raccolse in preghiera, rice-vette i sacramenti e invitò il santo frate a pregare e a stargli vicino sinoalla fine; poco dopo spirò cristianamente tra le braccia del Santo.

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SAN GIACOMO DELLA MARCA TORNA TRA NOI

Ritorna tra il popolo e tra i Frati Minori di Fano, Pesaro e Urbino SanGiacomo della Marca. Ritorna perché più volte San Giacomo ha com-preso Fano, Pesaro, Urbino, Fossombrone, Urbania, ecc. nel suo inten-so pellegrinare come predicatore; un predicatore che affascinava anchequando fustigava. Sapeva unire la verità con la carità e, per questo,diceva pane al pane e vino al vino: non era un uomo dalle mezze misu-re o dai modi compromissori.Nelle chiese, nelle piazze, soprattutto, nelle case private, nei conventi,nelle corti dei Signori e dei Sovrani combatté una lunga battaglia anzi-tutto per l’integrità della fede: e fu questa vocazione, questa urgenza,che lo portò a vestire l’abito francescano, abbandonando una promet-tente carriera notarile. Nato nel 1393 a Monteprandone (AscoliPiceno), morì a Napoli nel 1476; fu chiamato “della Marca” non soloper essere nato nella nostra regione, ma perché questa fu - con tantealtre terre italiane e straniere - quella che più lo vide presente nei cen-tri grandi e piccoli. Fu anche in Dalmazia, in Bosnia, in Croazia, aRagusa, Sarajevo, Bistrica, Vukovar.A Fano fu tra i fondatori del convento dei Frati Minori a PonteMetauro, convento che poi si trasferì in San Lazzaro e, infine, a SantaMaria Nuova dove tutt’ora si trova. Il secolo in cui visse non fu tran-quillo né per la società civile né per la Chiesa (sono mai esistiti secolitranquilli?): prepotenza, miseria, pestilenze, intrighi, corruzione, scan-dali erano abbondantemente diffusi. La voce di San Giacomo si levòad ammonire, a consigliare, ad insegnare; ma, quando era necessario,anche a condannare.I temi su cui il frate Giacomo batteva e ribatteva erano il lusso smoda-to in contrasto con la pesante miseria di molti, la scostumatezza, l’u-sura, la bestemmia, la diffusa credenza nelle superstizioni e nelle pra-tiche magiche che giungevano fino alla profanazione dell’Ostia consa-crata (mescolata a intrugli e a talismani), gli antagonismi anche cruen-ti fra i Signori, per esempio fra i Malatesta e i Montefeltro, l’eresia pre-dicata dai falsi frati.

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E non solo predicava, ma interveniva rappacificando fazioni e signorie,riportando in onore i sacramenti, fondando conventi per l’assistenza el’istruzione del popolo, operando con efficacia per la diffusione deiMonti di Pietà al fine di combattere l’usura. Era molto efficace ancheperché, come il suo maestro Bernardino da Siena, predicava in linguacorrente per farsi intendere da tutti; e se la gente non andava in chiesalui andava a cercarla nella strada!A Fano attaccò ironicamente, ma lo fece anche in altre città, il lussofemminile e riuscì a convincere le donne a dismettere gli abiti col lungostrascico, la “coda”, e a ridurre la monumentale vistosità delle pettina-ture caratterizzate dai cosiddetti “circi” o ricci, che si addensavanocome una tenda sulla fronte e sugli occhi.Andava a predicare e a consigliare anche nei Consigli comunali cheerano onorati della sua presenza, e lo ascoltavano: fu più volte, comeattestano i documenti, nel Consiglio di Fano e di Pesaro. E Dio sa diquante prediche avrebbero bisogno oggi i nostri rappresentanti a tutti ilivelli! La santità e l’operosità di San Giacomo non sono dunque unafavola, ma sono quanto mai attuali e pertanto la sua presenza fra noi,oggi, deve essere per tutti occasione per un esame di coscienza.

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San Giacomo della Marcain una incisione del 1560

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CLEMENTE VIII NON FIORENTINO MA FANESE

Certamente è merito del revisionismo storico se l’autorevole AnnuarioPontificio nella edizione 2001 ha provveduto, per quanto riguarda l’e-lenco dei Papi, non solo ad aggiornare certe notizie secolari e direi tra-dizionali (San Damaso dato sempre per spagnolo risulta invece roma-no), ma ha anche riconosciuto l’esatto luogo di origine di certi ponte-fici moderni. Un vecchio detto asseriva che il luogo di nascita di unpersonaggio indica la sua vera patria (ortum patriam ducit) e cosìfinalmente Ippolito Aldobrandini, Papa Clemente VIII dal 1592 al1605, non è più indicato come “fiorentino”, ma di Fano. Il padreSilvestro, esule da Firenze, era Vicegovernatore di Fano nel 1536 quan-do nella casa di Antonio Nigosanti (probabilmente nell’attuale viaBoccaccio), gli nacque Ippolito che fu battezzato in Duomo così comericorda la lapide collocata solo qualche decennio fa sopra una portache dà su via Rainerio. La piazza che si estende davanti al Duomo porta il nome di ClementeVIII, ma non c’è nessuna spiegazione che possa aiutare a capire che iltitolare della piazza era Papa ed era nato a Fano: per molti quel nomee quella intitolazione restano un mistero.Non si può dire che Clemente VIII abbia fatto gran favori alla cittànativa, anzi è da ricordare che nel 1595 fece chiudere, come in tutto loStato pontificio, la locale prestigiosa zecca, attiva, con qualche inter-ruzione, per circa cinque secoli. Però ascoltò padre Gabrielli quandogli chiese di abolire la piccola parrocchia di S.Pietro in Valle ove eraprevista (oltre ad una nuova chiesa) la sede degli Oratoriani di SanFilippo Neri, il santo che era stato l’unico a pronosticare, molti anniprima, che il cardinale Aldobrandini sarebbe diventato Papa! Quando nel 1598 andò a Ferrara, recuperata allo Stato pontificio sinegladio, si fermò a Fano e fondò una Congregazione del Porto che, poi,fu costruito al tempo di Paolo V Borghese. Allora si parlò di un pro-getto da affidare all’architetto Giovanni Fontana, ma non se ne fecenulla e il porto di Fano cominciò la sua travagliata storia dopo che loimpiantò l’architetto Gerolamo Rainaldi.

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Molti furono gli avvenimenti successi durante il pontificato diClemente VIII, il più noto riguarda la condanna per eresia di GiordanoBruno e soprattutto il poco cristiano rogo su cui fu arso.Per finire diremo che l’Annuario Pontificio 2001 e il sano revisioni-smo da cui è animato, rendono giustizia anche ad un altro ponteficemarchigiano: si tratta di Leone XII (1823 - 29), Annibale della Genga,sempre indicato come umbro dei dintorni di Spoleto; invece è nato nelCastello della Genga, vicino a Fabriano. Solo qualche studioso mar-chigiano lo sapeva; molti altri, copiandosi a vicenda, lo davano nativodell’Umbria: sia dunque benvenuto il revisionismo storico quandoporta alla verità e alla esattezza.

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RICORDI MARCHIGIANI: IL GIUBILEO DEL 1600

In pieno clima controriformistico il Giubileo dell’anno 1600 fu unoscontro-incontro tra vecchio e nuovo. Il Pontefice, che in quel momen-to era ClementeVIII, nato a Fano da famiglia fiorentina, era ben deci-so ad applicare decreti e spirito del Concilio di Trento ed era anchesuggestionato dall’esempio di fervore religioso lasciato a Roma da SanCarlo Borromeo nel precedente Giubileo. Clemente VIII voleva natu-ralmente incrementare questo filone, ma doveva fare i conti con ilclima rinascimentale tutt’altro che cancellato e con la secolare chias-sosa abitudine celebrativa della gente. Il vecchio Cicerone giustamen-te aveva scritto consuetudo quasi altera natura: i costumi abituali for-mano nei popoli quasi una seconda natura.Conviene spiegare velocemente i fatti.Il rigido Clemente VIII animato da grande zelo per la buona riuscitadell’Anno Santo diede per primo ai pellegrini un alto esempio di umil-tà, di compunzione, di macerazione. Nonostante l’età e le non buonecondizioni di salute visitò settanta volte le Basiliche, per i romani laprescrizione era di trenta, quindici per i forestieri. Nelle domeniche ilPapa seguiva la pratica della Scala Santa; accompagnava le processio-ni a piedi nudi e soleva digiunare spesso; ai pellegrini lavava i piedi eli serviva perfino a tavola. Insomma, a dare il segno che la Chiesa post-conciliare doveva se non abbandonare almeno ridurre certe soliteridondanze impone a sé stesso e ai Cardinali l’osservanza di una stret-ta sobrietà evangelica in un’epoca di costumi poco severi.Ma dalle Marche, e precisamente dal piccolo comune di San Ginesio(Macerata) gli giunse il segnale che l’antica concezione trionfalisticaed estetizzante era ancora ben lontana dal cedere il passo.C’era insomma chi intendeva il Giubileo e la Chiesa in modo piuttostodiverso fatta salva, naturalmente, la buona fede e l’intenzione dimostrare piena adesione alla Chiesa Cattolica.Cosa fecero dunque i sanginesini? Organizzarono, applicandovi anni eanni di preparazione, una solenne e sontuosa processione (ma questo èil meno); di fatto diedero vita in costume, a piedi e financo su carri ad

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un colossale e ortodosso Trionfo di Santa Chiesa. La gente salì persi-no sui tetti per vedere la grande parata marchigiana e sanginesina.L’intimità e la riflessione lasciarono grande spazio alla meravigliosainvenzione. Fu giocoforza conoscere due aspetti della Chiesa. IlTrionfo partiva dalla creazione del mondo per giungere all’Ascensionedi Cristo. Ognuno al suo posto, ognuno col suo sfarzoso costume.Dopo gli uomini e le donne del Vecchio Testamento sfilarono Profeti,Sibille e Apostoli; e poi i Martiri con impressionanti strumenti delmartirio addosso, e poi Confessori, Vergini, Santi. Evidentemente laRiforma Cattolica non aveva trovato ancora autentico spazio nella cul-tura popolare. Tuttavia tutto si fermò ad esteriore luccichio.Contemporaneamente a San Ginesio si organizzarono molte opere dibeneficenza, sussidi, vitalizi, elargizioni a Monti di Pietà, fu aperta unafarmacia per i poveri, abbondarono i lasciti alle confraternite. Tempi ditrapasso; tempi difficili.

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IL GIUBILEO DELL’ANNO 1625

Che io sappia qui, a Fano, c’è una sola lapide dove, sia pure per dove-re di datazione, viene ricordato l’anno di un Giubileo: esattamentequello del 1625. La lapide (integra) è tuttora murata e leggibile nellafacciata interna dell’Arco (o Porta) d’Augusto. Essa non è dedicata al Giubileo ma al Cardinale S.R.E. (SanctaeRomanae Ecclesiae) Francesco Boncompagni che in quell’anno 1625era Vescovo di Fano. Avendo accettato di far parte della Confraternita di San Michele, que-sta volle ringraziarlo e lodarlo murando sull’Arco la lapide che ripro-duciamo in questo articolo e dove è facile leggere nell’ultima lineal’accenno all’anno giubilare: “Anno Iubilaei 1625”. Il Giubileo del 1625 (era Papa Urbano VIII, Barberini) si aprì inmodo piuttosto fortunoso, oltre a correre le solite voci di peste sitemeva che il Tevere facesse qualche brutto scherzo. Infatti nel gennaio una paurosa inondazione, che produsse danni rile-vanti, dette non pochi pensieri agli organi preposti all’accoglienza ealla sistemazione dei pellegrini.Il Papa dovette escludere dalle basiliche da visitare San Paolo fuori lemura, sostituendola con S. Maria in Trastevere. È da notare che l’alloggiare i pellegrini fu sempre un problema capitale ricorrente ad ogni Anno Santo. Nel 1625 funzionò assai bene l’Ospizio apostolico per Ecclesiastici che nel precedente AnnoSanto era stato eretto dal nostro Ippolito Aldobrandini (PapaClemente VIII).Un prodigio per quei tempi fece l’Istituto della Santissima Trinità chericoverò più di mezzo milione di pellegrini, mentre altri trentamilaerano accolti nella sede (non grandissima) dell’Arciconfraternita delGonfalone.Ma a Papa Urbano VIII, che era anche amico di poeti e artisti, toccòun’umiliazione: avrebbe voluto far vedere ai pellegrini il famoso bal-dacchino di bronzo nella Basilica di S. Pietro: ma il Bernini sul qualeconfidava tanto non poté accontentarlo. I pellegrini poterono però

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accostarsi con pietà ad una reliquia famosa (che ora sembra ritrovata inUmbria): il Volto Santo, il cosiddetto “lino della Veronica” con l’im-magine del Volto di Cristo.

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UNA PASQUA COL TERREMOTO

Tra le tradizioni pasquali della nostra città (pochi decenni durò la pro-cessione del Cristo Morto curata, nel Sei-Settecento, dai Gesuiti) horievocato (l’anno scorso, mi pare) le “Tre ore di agonia” che si teneva-no nel primo pomeriggio del Venerdì Santo nella chiesa del Suffragio,e “l’Incoronazione della Madonna Addolorata” coi due angioletti chescendevano lungo fili invisibili per deporre una corona sul capo dellaVergine vestita di nero nella chiesa di S. Pietro in Valle: forse ultimoricordo delle “rappresentazioni” eseguite un tempo dai padriOratoriani (Filippini) che custodirono fino al gennaio 1861 quellamagnifica chiesa.Quest’anno voglio invece rievocare un evento luttuoso legato alla tra-dizione della visita ai così detti “sepolcri”: ogni chiesa preparava il suoper il pomeriggio del Giovedì Santo, oggi liturgicamente e più corret-tamente sostituiti dalla Messa in Coena Domini.Cosa accadde il pomeriggio del Giovedì santo del 1672, il 15 aprile?Si sa che la nostra zona è un po’ “ballerina”, quel pomeriggio vi fu ungran terremoto. Erano circa le quattro pomeridiane; la gente era devo-tamente in preghiera nelle varie chiese davanti allo speciale “taberna-colo-sepolcro” circondato dai vasi tenuti in qualche oscura grotta incui il grano era germogliato in lunghi steli biancastri. Il significato diquella strana piantagione appare chiaro: il seme del cristianesimo nonpuò fiorire nell’oscurità, ma deve farsi visibile e presente come Cristoche, dopo il sepolcro, conobbe la gloria della Risurrezione.Nel nostro Duomo il sepolcro era allestito nella Cappella delSacramento. Il lungo tremare della terra causò il distacco della partesuperiore della torre (che fungeva da campanile) del Duomo stesso,detta “torre di Belisario”, che crollò proprio sopra la Cappella delSacramento causando venticinque morti e un gran numero di feriti,uomini e donne. La città subì danni gravissimi, crollarono (notano icronisti del tempo) molti comignoli e il vecchio campanile di S.Agostino ne uscì malconcio. Sotto le macerie del Duomo morironosette nobili; particolare pietà destò la fine immatura di due bambini,

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due fratelli, Vincenzo e Antonio Palazzi. Il terremoto di quel Giovedìsanto si fece sentire da Loreto a Forlì. A Fano fu preso con atteggia-mento molto fatalistico; nel verbale del Consiglio cittadino (che siriunì il giorno dopo) se ne parla con linguaggio estremamente laconi-co anche se, in apertura, il Gonfaloniere Bracci ricordò con parolecommosse le povere vittime.Nei giorni seguenti si decise di far celebrare Messe e di esporre ilSantissimo per tre giorni in S.Paterniano. Si pensò poi a dare qualchesollievo, in pane, ai più poveri. Il risarcimento dei danni? Oggi sisarebbe chiesto lo stato di calamità e l’intervento dello Stato, né man-cherebbe chi saprebbe trarre profitto dalla disgrazia comune falsandola gravità dei danni subiti.La Reverenda Camera Apostolica, a corto di soldi stabilì che un fortesussidio sarebbe stato dato solo a Rimini dove i danni erano stati gra-vissimi e molti i morti. E gli altri? Dovevano fare fronte ai danni coipropri mezzi...

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QUANDO PIO VII VENNE A PREGARE SULLA TOMBA DI GIOVANNA GHINI CHIARAMONTI

Abbiamo già letto su questo giornale che Pio VII (BarnabaChiaramonti) eletto Papa il 14 marzo 1800, a Venezia, venne a giugnoa Pesaro per via mare. Da Pesaro – proseguendo per Roma – raggiunse Fano ove desideravaraccogliersi in preghiera sulla tomba della madre, Giovanna Ghini che,rimasta vedova del conte Scipione Chiaramonti a 37 anni, aveva deci-so, dopo 9 anni, di farsi carmelitana, dato che ormai i figli non aveva-no più bisogno di lei.E così nel 1759 entrò, all’insaputa dei suoi e accompagnata solo daun’amica, nel monastero di Santa Teresa di Fano.Prese il nome di Suor Teresa Diletta di Gesù e Maria. Abituata ad unavita agiata seppe essere un’autentica figlia di Santa Teresa per umiltà,pietà, obbedienza. Fu maestra delle novizie che la considerarono sempre come una veramadre. Colpita da una lunga atroce malattia la sopportò senza lamentarsi espirò serenamente il 22 novembre 1777, all’età di 64 anni, in concettodi santità.Fu sepolta nella chiesa del Monastero e lì, dopo la elevazione alPontificato, venne a pregare il figlio che già, da Venezia, rispondendoalle congratulazioni delle monache fanesi, scriveva alla Priora: “…Con vero gradimento riceviamo le congratulazioni che da Lei ci sifanno con tutta la Sua Religiosa Comunità per l’esaltazione nostra alSommo Pontificato. Riguardando con singolare compiacimento code-sto loro monastero a cui ci lega il sacro pegno che in esso si conser-va…”.Il 20 giugno di quel 1800 Pio VII, dopo aver reso omaggio alla memo-ria della madre, rimase a lungo con le monache e non solo disse allaPriora: “Madre Priora, oggi è un giorno di letizia, chiedete quello che volete!”,ma le raccontò che un lontano giorno la madre, mentre lui bambino eraun po’ irrequieto in chiesa, lo rimproverò dicendogli:

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“Non è questo il modo di comportarsi per uno che deve salire molto inalto nel servizio alla Chiesa!”. Profezia di una mamma e simpatica confidenza di un Pontefice.

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GLI OCCHI DELLA MADONNA

Per celebrare il mese dedicato a Maria andiamo col ricordo ad un pro-digio che a Fano, come altrove, meravigliò e impensierì la gente. Era il1796: l’esercito del generale Napoleone Bonaparte, esattamente nelgiugno, varcò i confini dello Stato Pontificio. I soldati francesi furonovisti da molta parte del popolo come alfieri di uno spirito ferocemen-te anticattolico: qui, però, non vogliamo parlare né dei “patrioti” gia-cobini che ad essi plaudirono né delle “insorgenze” combattute controdi loro. Nell’inquieto clima suscitato dalla occupazione franceseaccadde un segno straordinario che riguardò molte città e molti paesidello Stato Pontificio: parecchie immagini della Vergine furono visteaprire e chiudere gli occhi. E oltre a Roma, dove il prodigio avvenne inpiù chiese il 9 luglio, dobbia mo ricordare Ancona, il 25 giugno,Urbania, Frascati, Frosinone, Todi ecc. ecc. e, naturalmente, ancheFano. Circa due anni fa Vittorio Messori e Rino Cammilleri descrissero nellibro Gli occhi di Maria gli eventi successi dal luglio 1796 al gennaio1797. Il Papa Pio VI ordinò un’inchiesta sia per raccogliere attendibilitestimonianze sia per stabilire la verità perché in un primo momento,c’è da immaginarselo, non si parlò di prodigio ma di suggestione.Certo è che quel prodigio (lo diciamo col senno di poi, pensando alletante apparizioni mariane) fu un severo monito per i cristiani e cioè checon la rivoluzione francese sarebbe cominciato un tempestoso periodoper la Chiesa. Ma veniamo a Fano. Nel diario di Tommaso Massarini viene notatoche il 6 luglio 1796, verso le cinque del pomeriggio “la Beata Vergineposta al cantone della chiesa di S. Giovanni si vide da molti visibil-mente aprire e chiudere gli occhi, ed io vidi poco dopo ecc. ecc.”. IlVescovo, mons. Antonio Gabriele Severoli, fu subito avvertito (ma idocumenti dell’archivio vescovile parlano del 7 luglio) che l’immagi-ne della Vergine della Consolazione posta in una nicchia sul muro dellachiesa di S. Giovanni Filiorum Hugonis (adesso c’è il negozio di cal-zature “Fiacconi”) aveva mosso gli occhi. Molta gente, e non solo da

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Fano, correva a vedere il prodigio che si ripeté per parecchi giorni. IlVescovo, allora, avviò una severa e vasta inchiesta e fece esaminare latavola di legno di pino su cui era dipinta la sacra immagine da due arti-sti fanesi, i pittori Giuseppe Luzi e Carlo Magini. Esiste la loro depo-sizione giurata nella quale dicono che nessun artificio risultava dallaloro minuta ispezione, il movimento degli occhi non era certamenteprovocato da alcun meccanismo o da movimenti del legno. Ci sono inarchivio molte testimonianze giurate e atti notarili che confermanoquanto fu detto dai due esperti pittori. L’immagine fu tolta dal muro e posta in una cappella interna. Poi colpassar del tempo la chiesa fu chiusa e trasformata. Dal 1918 l’imma-gine, attribuita a Sebastiano Ceccarini, si trova nella chiesa di S.Giovanni a Marotta.

2004

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QUANDO PADRE GEMELLI FU FISCHIATO A FANO

Sono passati cento anni da quando dopo una repentina conversione,scandalosa per gli anticlericali, il medico milanese Odoardo Gemelli,miscredente e focoso socialista, entrò nell’Ordine dei frati minori assu-mendo il nome di Agostino. Un giornale del tempo uscì in propositocol titolo “Il suicidio di un’intelligenza”! Ma non è che qui voglio par-lare della conversione del futuro fondatore e rettore dell’UniversitàCattolica.Ho trovato il testo di una conversazione che mio padre, nel 1953, tenneagli Uomini di Azione Cattolica del Duomo; egli era presente al Teatrodella Fortuna dove, approssimativamente nel maggio del 1907, padreGemelli aveva accettato di tenere una conferenza su “Le malattie pro-fessionali dei lavoratori”; un tema che non avrebbe dovuto urtare nes-suno; ma non bisogna dimenticare che l’anticlericalismo, protetto dalleautorità costituite, era diffuso anche a Fano e Gemelli per tanti era pursempre un traditore.Sentiamo cosa dice mio padre. “Il teatro era gremito: in numero rile-vante i nostri; assai più numerosi gli avversari. L’inizio andò bene epassò tranquillo; ma disgraziatamente la conferenza era a proiezioni, ea un dato momento lo spegnersi della luce segnò l’inizio della gazzar-ra: incominciarono i primi fischi e le prime grida ostili. Ne seguì unascena che non dimenticherò mai (…).Padre Gemelli non si dà per vinto; continua a parlare anche perché, daparte dei nostri, si delinea una certa reazione e gli applausi cercano dicoprire i fischi. A un certo punto, però per illustrare non so qualemalattia, viene proiettato un fascio di muscoli a grandezza superioredel naturale. Allora alcuni dei più fanatici, fingendosi scandalizzati,gridano “Le canne dell’organo; ci fa vedere le canne dell’organo, uh!uh! uh! E qui fischi a non finire. Il contrasto cresce, la confusione è alcolmo.Padre Gemelli tenta nuovamente di proseguire; ma alla fine, perduta lapazienza, scatta e con tono vibrato rivolto ai disturbatori dice più omeno “Il vostro contegno non disonora me; è un disonore per voi”. Ciò

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detto esce dal palcoscenico e lascia senz’altro il teatro.Il giorno dopo la conferenza viene ripetuta in ambiente chiuso, e perinvito, nella chiesa di S.Maria Nuova”.Mi fermo qui. Per dare un’idea dell’aria che allora si respirava bastaricordare che, nel 1899, un sindaco della nostra città aveva detto chesarebbe stato bene abbattere chiesa e convento di San Paterniano con-cludendo: “bene inteso, tutto radendo al suolo”. Per ironia della storianell’agosto del 1944 i soldati tedeschi, con le mine, rasero al suolo ilcampanile…!

2003

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Padre Agostino Gemelli (a sinistra)con Don Antonio Bravi (Fano 26 aprile 1934)

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COME RICOSTRUIRE LA STORIADEI MOVIMENTI CATTOLICI

Qualcuno dirà che ho voglia di scoprire l’acqua calda. C’è forse qual-che dubbio sull’utilità degli archivi, anche di quelli che possono appa-rire “minori” e “di poco conto”? Certamente no. Un tempo era cosaovvia “archiviare”; eppure oggi, sempre più spesso, mossi da varieoccasioni, si scopre la mancanza (a volte totale) dei dati archivistici inriferimento al sorgere, al vivere e, purtroppo, al morire di parecchienostre associazioni, unioni e società cattoliche diocesane o parrocchia-li. Mi chiedono: è vero che a Fano è esistita la cosiddetta “banca deipreti” e perché si chiamava così? Che ruolo ha svolto e che fine hafatto? Non saprei dove mettere le mani per rispondere.Dov’è l’archivio del glorioso Circolo cattolico cittadino di “S.Paterniano” (Sala Manzoni)? Non so; e non so nemmeno se più esiste.Sessant’anni fa c’era, lo vidi abbastanza ordinato in un piccolo arma-dio. Dov’è l’archivio del Seminario Vescovile? È possibile leggere lecarte o, almeno, qualche carta del primo Partito Popolare Fanese(1919)? È possibile costruire la biografia degli uomini e delle donnepiù rappresentativi? E l’Azione Cattolica? Molto si può ricostruireattraverso i Bollettini Diocesani, ma è assai difficile penetrare nell’in-timo delle varie associazioni: nei loro problemi, nelle difficoltà, nelledivergenze o convergenze. Oggi, poi, l’uso del telefono ha portato via una grossa fetta dellememorie, delle decisioni, dei dubbi, di tutto ciò che forse un tempopoteva finire in archivio.Molte carte e altre cose di carattere associativo interno sono rimaste erimangono presso i privati, che avevano ruolo di dirigenti, e moltospesso finiscono disperse alla loro morte o diventano patrimonio dichi, magari, pensa a ben altre cose.Allora scatta la “ricerca” fra i superstiti: essi raccontano, raccontano,ricordano, credono di ricordare. Non bisogna fidarsi troppo: la memoriafa brutti scherzi e difficilmente mette in luce con esattezza i punti salien-ti di un qualche problema, i ricordi, poi, sono come i sogni: vengonointerpretati! E non si sa che razza d’interpretazione a volte viene fuori.

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Ho fatto questa lamentazione (e potrei aggiungere qualche “meaculpa”) perché oggi non mancano ricercatori, studiosi, laureandi impe-gnati a ricostruire aspetti di vita del variegato “mondo cattolico”: ciòche ieri era cronaca, oggi è memoria storica.Sul nostro recente passato, per quel che ci riguarda, già ne abbiamosentite di cotte e di crude. Pare che abbiamo sbagliato tutto: o quasi…Invece abbiamo fatto molto.

1999

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LA SALA-TEATRINO “CONTARDO FERRINI”

Al tempo delle Sale e delle Filodrammatiche cattoliche che io ricordonegli anni 1930-1940 (ma c’erano anche prima) venne a volte allaribalta a Fano anche la Sala Contardo Ferrini (chi era costui?) dei fratiminori francescani di Santa Maria Nuova. Soprattutto le filodramma-tiche cattoliche erano un valido strumento per accostare, impegnare,educare i giovani al sacrificio e alla disponibilità. Volontariato cultura-le! La più importante e forse la più vecchia filodrammatica figuravaquella del Circolo di San Paterniano (El Circul), posta all’angolo di viaMontevecchio, con via Guido del Cassero: lì c’era la famosa SalaManzoni, un teatrino con piccola galleria. Ora c’è la Fondazione“Costanzo Micci” per l’assistenza al clero.Qui voglio solo ricordare (è memoria d’infanzia) un locale di cui aFano è pressoché perduta la memoria: la Sala, appunto, intitolata all’al-lora Venerabile Contardo Ferrini (1859-1902), beatificato nel 1947.Fra gli altri vi vidi recitare Bruno Tonucci con Savorani, e vi udii ipoeti dialettali Rino Bragadin e Luigi Pacassoni (Gigin). Era una sala,un teatrino che poteva contenere, come tante altre, un centinaio di per-sone. Il campanile di Santa Maria Nuova vi rovinò sopra quando nel-l’agosto del ‘44 i tedeschi lo abbatterono a mine. Sala, archivio, ricor-di, programmi andarono perduti e persino il nome di Contardo Ferrini,illustre giurista cattolico; uno dei pochi sopportato e onorato nelle lai-cissime università statali, e di cui il grande Federico Mommsen avevaaffermato che nel campo del diritto romano-bizantino non v’era alcu-no che lo superasse: persino quel nome famoso col passar delle gene-razioni laicali e fratesche finì nel dimenticatoio.Eppure anche quella, nel suo piccolo, era stata una delle tante cellulecattoliche che a Fano tradizionalmente avevano motivo di contare qual-cosa e di riscuotere prestigio e rispetto. Il tempo, il silenzio, l’indiffe-renza hanno veramente un potere distruttivo superiore alle mine: con-tro di loro vale solo la memoria che, in questo caso, deve limitarsi aregistrare una presenza.

1999

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NON BISOGNA FARE SCOMPARIRE I SEGNI DI PIETÀ POPOLARE

Nelle nostre strade di campagna non è difficile incontrare quelle edi-cole sacre dette popolarmente anche “cappelline” o “figurine”. Sonosegni, a volte secolari, della pietà popolare sorti o per iniziativa delleparrocchie o di singoli credenti.Vi si legge una dedica, una invocazione, un voto, la riconoscenza peruna grazia ricevuta. Questa pia tradizione non è affatto tramontata; difatti capita di imbat-tersi in edicole edificate da pochi anni o arricchite da lapidi che ricor-dano il recentissimo Anno Mariano (1988). Fiori e luci testimoniano, in altre, la devozione ancora viva. Devozionedi gente semplice, un modo di esprimere la propria fede: la supersti-zione non c’entra per niente.Accanto alle edicole “vive” non mancano casi di sconfortante abban-dono o casi di sfregio come quando, per racimolare quattro soldi, i soli-ti “ignoti” rubano statue, ornamenti, croci, i piccoli cancelli e persinoi mattoni che servono, poi, a costruire nicchie nelle pareti di casa permetterci il bar in bella vista! Dall’edicola di Sant’Anna, sulla strada di Roncosambaccio, hannostrappato il crocifisso e un teschio, entrambi di pietra arenaria. Eranolavori artigianali, ma ugualmente belli nella loro semplicità: quantoavranno fruttato al ladruncolo? Qualche migliaio di lire. Ma intanto è stato mutilato per sempre un secolare segno della pietàpopolare. Così pure l’edicola di Santa Maria degli Angeli non lontano da Fenile,è stata privata, in due riprese, delle statue poste nella nicchia da qual-che secolo, e della croce di ferro che la sovrastava. È poi stata ulte-riormente danneggiata dal movimento di terra per allargare la curva.Ora è là abbandonata, infestata dalle formiche, in attesa di crollare se,con un po’ di pietà, non si provvederà subito al restauro.Questa nostra età innalza lungo le strade principali tanti distributori dibenzina che, è vero, ci servono; ma certamente non hanno nulla di altroda dirci: sarà dunque bene non far scomparire le antiche “figurine”

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della pietà popolare, esse accompagnavano i viandanti nel loro cam-mino offrendogli il segno e il senso di una presenza sacra.

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Edicola mariana a Fenile di Fano

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VIVA VIVA LA PASQUELLA

Non sempre le rime o le risonanze correvano lisce perché i testi eranoaffidati solo alla memoria che si rinnovava di anno in anno, ma intempi ormai lontani (da ragazzo ne sentivo parlare come di un’usanzatramontata) era costume in campagna, nei paesi e anche nei centri piùo meno piccoli “cantare la Pasquella” nella vigilia dell’Epifania, laprima delle tre Pasque dell’anno.In primavera seguivano la Pasqua del Signore e la Pasqua rosa(Pentecoste).Nel passato, qui da noi, l’Epifania non aveva assunto le vesti della Befanaperché “la Vecchia” con i suoi doni (maritozzi, biscotti con l’anice, aran-ce, fichi secchi, carrube, rare cioccolate, rarissimi giocattoli) arrivava ilgiovedì di Mezza Quaresima, appunto “il giorno della Vecchia”.La vigilia dell’Epifania nutrite compagnie di giovani con rudimentalistrumenti e l’immancabile rustico organetto visitavano i casolari dicampagna, le abitazioni di amici e parenti cantando “la Pasquella”.Una cantilena che spesso variava nelle parole e anche nell’intonazionemusicale, ma che era sempre canto di festa e richiesta di un dono:

Buona gente a noi dilettache adunata voi qui sieteascoltate se voletela piacevole novella:Viva, viva la Pasquella!Nato già l’eterno Verbodel suo Padre unico figlionell’inferno gran scompiglioper ’na nuova così bella:Viva, viva la Pasquella!...Noi niente qui chiediamo,ma se date qualche cosasiamo gente non ritrosaprenderemo anche un’agnella…Viva, viva la Pasquella!

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In un gran canestro raccoglievano ciambelle, formaggi, salami, uovache servivano ad organizzare un banchetto che, in qualche parte delleMarche, era chiamato “satollaccio”.Il nostro Fabio Tombari inizia la Cronaca IV di “Tutta Frusaglia”facendo a gran voce cantare una Pasquella nella forma più diffusa inprovincia:

La Pasquella è già venutal’ha mandata il buon Signore,Padre, Figlio, Spirito, Amoree nel nome del Messia.Da lontano abbiam saputoche il porcel mazzato avetoqualche cosa ci dareto,o prosciutto o mortadellaViva, viva la Pasquella.

(Con la variante dialettale qualche cosa ci dareto o parsciut o murta-dèla ecc., ecc.). Certi cantori, immagina Tombari, “capitavano giù tutti gli anni perl’Epifania dalle Valli di Comacchio” e ripetevano l’augurio:

Salutiamo tutti quanti, salutiamo tutte e tutti,giovanotti belli e bruttinel gran nome del Messia.

Nel giorno dell’Epifania si usava gettare nel fuoco, che ardeva nell’a-rola, le foglie secche dell’olivo benedetto, chiamate le pasquelle, e dalmodo con cui bruciavano o saltavano o si attorcigliavano si deduceva-no pronostici di amore e di matrimonio.E sempre si concludeva: la Pasqua Epifania tutte le feste porta via!

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MEMORIA DI RITI PASQUALI

Più o meno a partire dagli anni del dopoguerra sono venuti meno aFano due tradizionali appuntamenti religiosi della Settimana Santarisalenti ad una consuetudine antica e popolare.Delle “tre ore di agonia” che si celebravano il venerdì santo nella chie-sa del Suffragio è ancora vivo il ricordo; meno nota e meno ricordataè invece l’incoronazione della Mater Dolorosa che il sabato santo,verso le undici del mattino aveva luogo nella chiesa di S. Pietro in Vallee che prevalentemente si rivolgeva a un pubblico di bambini e adole-scenti.Le tre ore di agonia già nell’Ottocento richiamavano molti fedeli. Fupersino raccolta e stampata, in seguito, una raccolta (rarissima) diStrofette che si cantavano al Suffragio in occasione della Tre ore diAgonia. Negli anni “trenta” abitavo a due passi dal Suffragio, ricordoche le “tre ore” si svolgevano nelle prime ore del pomeriggio ed eranoseguite da un pubblico prevalentemente femminile; tale impressioneforse è dovuta al fatto che già qualche ora prima dell’inizio vedevomolte donne, provenienti da ogni parte della città, che si avviavano inchiesa con in mano una sedia o uno sgabello, perché non tutti poteva-no restare in piedi tre ore dato che le panche della chiesa erano piutto-sto scarse. Un predicatore da un palco posto verso l’altare maggiorefaceva rivivere, con la retorica del tempo, i momenti della Passione: ipresenti partecipavano devotamente con preghiere e canti.Quest’anno la Confraternita del Suffragio il 21 aprile - venerdì santoalle 18,15 - farà rivivere ottimamente almeno il ricordo dell’antica fun-zione con una edizione speciale di musiche e testi del Settecento; pre-cisamente del musicista Giuseppe Giordani e del notissimo poetamelodrammatico Pietro Trapassi che grecamente si firmavaMetastasio. Si tratta di un laboratorio armonico vocale e strumentale insostituzione della tradizione che però era solo popolare.L’altra manifestazione religiosa di cui dicevo è sconosciuta a gran partedel pubblico odierno. Ultimamente me ne parlava uno degli ultimi raritestimoni: Leandro Castellani, regista.

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Per quel che ricordo (mia nonna non mi faceva mai mancare all'ap-puntamento) si trattava di questo: il cappellone dell'altare maggiore diS. Pietro in Valle veniva scenograficamente trasformato dal Rettoredella chiesa in una vasta pianura verde: in lontananza spiccava ilGolgota con le tre croci. In primo piano era la statua della Madonna,velata e vestita di nero, col cuore trafitto da sette piccole spade.Probabilmente questa specie di sacra rappresentazione (non sapreicome altrimenti chiamarla) risaliva ai tempi in cui la chiesa era offi-ciata dai padri oratoriani.Mentre dal bel pulpito secentesco un catechista intratteneva il foltopubblico di bambini, la scena improvvisamente si illuminava e, nelsilenzio meravigliosamente assoluto, due angioletti che reggevano unacorona d'argento calavano dalle volte della cupola (seguendo due sot-tilissimi invisibili fili di ferro), posavano la corona sul capo dellaVergine mentre noi, ansiosi temevamo che fallissero il bersaglio! Indi,adagio, adagio, risalivano verso il cielo. Era quello il momento in cui ibambini si scatenavano per correre a precipizio fuori della chiesa evedere ancora una volta gli angioletti ascendere in alto: ma essi nonc'erano più…

2000

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QUANDO L’ASCENSIONE ERA ANCHE LA FESTADI TUTTA LA NATURA

Una delle feste religiose fatte slittare nella domenica successiva alla suatradizionale scadenza è l’Ascensione. Un tempo (ormai quando si parladi queste cose sembra di raccontare favole) era molto sentita soprattut-to in campagna perché coincideva con il grande rigoglio della natura e,naturalmente, era accompagnata da quella ‘liturgia popolare’ attenta ascandire i tempi delle stagioni e le cadenze religiose vissute comemisterioso collegamento delle forze del cielo con quelle della terra.Sull’Ascensione, come sulle altre feste, fiorivano leggende, detti, pro-verbi, riti: tutto quello che assai sbrigativamente i “benpensanti” chia-mavano “superstizione”. Si trattava, invece, di religiosità popolare: ilmodo con cui la gente semplice si rapportava al sacro appropriandosi diantichissimi riti ed usanze che accompagnavano il ciclo delle stagioni,i rapporti di individui e gruppi col proprio lavoro e col trascendente: ritiche nel corso dei secoli il cristianesimo aveva purificato e “battezzato”.L’Ascensione del Signore che scandiva il prorompere della bella sta-gione, era - secondo lo storico cristiano Eusebio - giorno solenne,caratterizzato da cortei e canti e suppliche che a Gerusalemme si muo-vevano verso il Monte degli Ulivi, ad Antiochia verso la campagna, aRoma da San Pietro al Laterano. Fino alla prima metà di questo secolo nel Lazio si accendevano fuochi,si mettevano alla finestra lumi accesi e canestrini con dentro l’uovo; inmolti paesi delle Marche si esponeva sul davanzale delle finestre unalucerna accesa e si conservava l’olio residuo come unguento per leni-re ogni male.Era diffusa nella nostra regione l’usanza di conservare, in un luogobuio della casa, un uovo raccolto il giorno dell’Ascensione a protezio-ne contro il maltempo, i naufragi e le tempeste. Era diffusa la creden-za che in questo giorno gli uccelli non osassero lasciare il proprio nidoper non rovinare le uova deposte. In Romagna si facevano processionicon rami di gelso con l’intento di benedire tutte le piante. Erano espressioni di religiosità popolare: la religiosità di chi crede in Diosenza sapere di teologia. Una voce da aggiungere tra i “beni perduti”.

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LA PROCESSIONE NELLA FESTA DEL CORPUS DOMINI

Qualche anno fa, al TG 1 delle 13,30 l’annunciatore (ne sono testimo-ne auricolare) disse che nel pomeriggio di quella domenica del CorpusDomini in molte località ci sarebbero state le tradizionali processionicelebrandosi la ricorrenza dell’istituzione dell’Eucarestia: propriocosì!Io che da sempre ero convinto che quella sacra istituzione fosse avve-nuta il giovedì santo rimasi un po’ scandalizzato, un po’ interdetto. IlVangelo parla dell’ultima cena, e va bene, ma la Televisione (“lo hadetto anche la TV” - e quanti ci credono) assicurava seria seria cheinvece…È certo che se si facesse la processione della beata ignoranza la sfila-ta durerebbe un gran pezzo!Mutiam dolore, diceva un poeta languido e non celebre. Mutiam dolo-re: guardiamo un attimo le ultimissime edizioni della processione delCorpus Domini tenute qui a Fano. Il paragone con le processioni di untempo, molto scenografiche, non è da fare: su questo siamo tutti d’ac-cordo. E poi sono spesso assai noiose tutte le rievocazioni di un passa-to che non torna, non può tornare. Per non disturbare i bancarellari della fiera dell’antiquariato che laseconda domenica di giugno sono alle prese con le ultime ore di ven-dita, la processione educatamente deve saltare quella parte di viadell’Arco d’Augusto che dal Duomo immette nel Corso Matteotti. Unatto di cortesia non si nega a nessuno, e poi a cosa gioverebbe percor-rere cinquecento metri di più?La città è vuota, i ritmi della vita sono mutati, le finestre che danno suCorso Matteotti sono ben chiuse (tranne pochissime). Le case abitatesono rare: per il Corso ci sono soprattutto uffici. La domenica sonochiusi. Sparite da gran tempo le classiche sopracoperte di seta cheesposte sui davanzali allietavano il percorso, sono rimasti nove, otto,sette, tre stendardi damascati appesi ad alcune finestre. Non posso fare a meno di ripensare alla pioggia di petali di rose che untempo scendeva da quelle finestre dove si affacciavano le famiglie sia

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con gl’infanti sia coi vecchi pallidi e come moribondi che volevanovedere la processione. Oggi ciò non sarebbe nemmeno pensabile: orasi muore all’ospedale o nelle case di riposo. E quei petali si posavanonon solo sul selciato, ma anche sopra il bellissimo baldacchino di setaricamata (dove diavolo è andato a finire?) che copriva il Vescovo, ilquale passava con l’ostensorio: il più bello perché è giusto che il Corpodel Signore venga onorato dalle cose più belle che escono dalle manidell’uomo a ricordargli che quelle preziosità esteriori sono simbolo epromessa di tutto ciò che di più bello egli sa preparare al suo Creatore.La processione intanto avanza in mezzo ad una città vuota. Avanzanella strada principale deserta! È vero che nei partecipanti resta vival’intenzione di onorare il Santissimo e di riconsacrargli la città, èugualmente importante che i partecipanti trovino nella processione unodi quei momenti di identità e di fraternità che tanto giovano allo spiri-to di ognuno. Ma resta vero e necessario che la forma della processio-ne deve essere ripensata.Non è bene lasciare all’improvvisazione ogni atto liturgico o paralitur-gico che sia. La processione è un solenne atto esterno: troviamo la giu-sta misura di solennità.

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Processione del Corpus Domini con la partecipazionedi soldati polacchi (31 maggio 1945)

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LA FESTA DEGLI ANGELI CUSTODI

Venerdì 2 ottobre: il calendario liturgico ricorda gli Angeli custodi.Così come il 29 settembre cadeva, ricordo, la “festa” dei SantiMichele, Gabriele e Raffaele Arcangeli.In materia di commemorazioni angeliche il Concilio non ha operatomutamento alcuno.L’Angelo Custode a molti, a tutti noi richiama la bella, semplice e quo-tidiana preghiera appresa dalle labbra materne: Angelo di Dio che seiil mio custode, ecc.; per i più vecchi Angele Dei qui custos es mei, etc.Oggi gli Angeli non sono fra i dimenticati: anzi! Su di loro si scrivonodecine di libri; l’ultimo, mi sembra, è quello americano di Megan McKenna: Angeli: se non ci fossero bisognerebbe inventarli. Di essi par-lano e scrivono in molti; si direbbe che c’è addirittura un revivaldell’Angelo. Ma non sempre è salva e rispettata la loro figura cosìcome è presentata dalla Chiesa: custodi in nome di Dio, protettori inSuo nome, uniti a Lui senza confusione né separazione del divino dal-l’umano. Attraverso certi riti, sette e filosofie che oggi girano il mondo(s’è visto qualcosa anche in film) la figura dell’Angelo è a volte ambi-gua, ambigua e usurpatrice come ci ricorda Olivier Clement citando S.Paolo. Sono stati messi in giro Angeli ambigui che, ad esempio, aiutano l’uo-mo a sentirsi più sicuro di sé; in questo momento in cui “la sicurezzadel cittadino è il problema principale del nostro paese” (V. Andreoli suTempo) essi sono…gratis “l’ultima guardia del corpo” (Andreoli,Tempo 18 settembre)!Ma a parte dissacrazioni e scherzi, vengono presentati Angeli cosìamici e così protettori che possono darti la sicurezza (la superbia) checiò che tu pensi è senz’altro la verità: sono Angeli che si fanno amarema che fanno dimenticare Dio fonte di Verità e sorgente di Virtù e diFede. Con notevole spirito dialettico ha parlato di Angeli e di “Angelinecessari” anche chi li considera solo come ipotesi filosofica perammettere che c’è qualcosa di invisibile attorno a noi: un buco del pen-siero.

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Siamo lontani da ciò che recentemente scriveva l’americanoR.E.Brown: “L’angelo nella Bibbia è un semplice modo di descriverela presenza di Dio in mezzo agli uomini”.Per cui il fenomeno un po’ consumistico degli Angeli sui generis rein-ventati può diventare come scrive Padre Domenico Mucci su CiviltàCattolica (19 settembre 1998) “banale, balordo e pericoloso” quandolo si collega come fa il movimento New Age alla proposta “di un cri-stianesimo ridotto alla sua sola dimensione spirituale”: per sentirsitranquilli e felici di per se stessi.Ma noi continuiamo a vedere l’Angelo come strumento e aiuto versola salvezza.

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VARIA E LUNGA STORIA DELLE SEPOLTURE

Varia e lunga è la storia delle sepolture. Di essa mi limiterò ad un breveframmento che può interessare. Ognuno di noi entrando in qualche vecchia chiesa o in quelle dove nonè stato rifatto il pavimento può vedere pietre e lastre tombali poste, evi-dentemente, sopra qualche sepolcro. Oppure è facile imbattersi inqualche cappella, a volte di gran pregio artistico, con ben incisi nellelapidi nomi e titoli dei defunti ivi sepolti. Dunque un tempo, e fino aiprimi decenni del secolo scorso la morte aveva ospitalità negli edificiconsacrati. Ma non fu sempre così. Anticamente i decemviri romani nella legge delle dodici tavole (circa450 anni prima di Cristo) prescrissero (ma succedeva anche presso altripopoli) di non seppellire né cremare i cadaveri entro le mura cittadine:Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito. Ed ecco infatti, pervenire ad una realtà a noi vicina senza scomodare Roma o Pompei, isepolcreti impiantati a destra e a sinistra della via Flaminia fuori lemura di Fano.Nel medioevo, invece, la morte fu sempre vicina e familiare, fu - dicelo storico Ariès, laico - “addomesticata”, e ciò ebbe inizio presso i cri-stiani prima in Africa e poi a Roma. Finisce la ripugnanza per la vici-nanza dei morti, già ossessione per romani ed ebrei sia per la fede nellaresurrezione dei corpi sia per il culto reso ai martiri e alle loro tombe.Così i morti entrarono nelle città e la morte non fu espulsa dalla vita,non fu igienizzata ed estraniata come cominciò ad avvenire soprattut-to nella seconda metà dell’Ottocento e nei nostri giorni nei quali, conparecchia esagerazione, parlare della morte propria è poco corretto equasi morboso. Ammonisce Ariès: “Ciò che è davvero morboso non èparlare della morte, ma tacerne come oggi si fa”. Però dobbiamo dire che la morte degli altri ci viene mostrata giornal-mente con un certo distacco abitudinario, a volte cinico, nella stampae nella TV; ma senza mai aiutarci ad una religiosa meditazione su que-sto argomento che pur ci riguarda tutti. Nel medioevo la morte fu dun-que addomesticata; la sepoltura fuori dai recinti sacri delle chiese (ove

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venivano sepolti ecclesiastici e nobili soprattutto) o fuori dai cimiteriche le attorniavano, era riservata ai malvagi, ai condannati a morte, aicolpevoli non pentiti. L’attuale cimitero urbano di Fano, in via dellaGiustizia, ha origine dall’antico “campo della giustizia” dove veniva-no sepolti i delinquenti morti sul patibolo.La sepoltura, dentro o attorno alla chiesa, diventa il santo dormitorio(“cimitero” ha dal greco questo significato) in cui i morti sentono ilcalore dei vivi che frequentano gli stessi luoghi, che pensano e prega-no per loro. La morte così è un prolungamento della vita. Tutto ciòsenza dimenticare certe approssimazioni e trascuratezze di alcunicimiteri rurali, messe in luce anche dal clero.Dal rinascimento in poi, adagio adagio, cambia la mentalità fino agiungere alla ripulsa fosco liana degli “effigiati scheletri” nelle città,fino alle leggi dell’imperatore Giuseppe d’Asburgo e di Napoleoneche, ai motivi igienici, univano prese di posizione culturali ideologica-mente lontane dalla mentalità cristiana che sempre ha considerato lamorte uno “dei veri problemi della vita”.

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IL FANESE MONS. LUIGI FERRI VESCOVO DI MONTALTOE DI RIPATRANSONE

Un trafiletto apparso qualche mese fa su Avvenire (31.10.2002) ci hadato modo di ripensare (il “perché” apparirà di seguito) a mons. LuigiFerri (Fano, 1868 - 1952) Vescovo di Montalto (1911) e poi diRipatransone. Nel trafiletto in questione intitolato: “Vita comune deipreti, segno per il territorio”, si legge che i Vescovi della Basilicata,senza prendere iniziative ufficiali, hanno discusso della vita comunita-ria dei preti, indicando uno stile di vita che riunisca più sacerdoti sottoun unico tetto. “È l'unica via - dicono i componenti della ConferenzaEpiscopale della Basilicata - per una presenza significativa ed efficacedei sacerdoti nella vita religiosa e sociale della regione. Non si tratta divivere come monaci o frati. I preti devono organizzare esperienzeopportune di condivisione di vita materiale e di impegni pastorali”.Come si vede è solo una ipotesi, privilegiata quanto si vuole, ma soloipotesi che non desta scandalo nonostante le implicazioni pratiche eteologiche che comporta.Il Vescovo Luigi Ferri a cui opportunamente, dato che se ne perdeva lamemoria, hanno dedicato un libro Silvano Bracci, Vincenzo Catani ePietro Pompei, oltre ad essere ricordato per tutto quello che di nobile edi santo può fare un Vescovo è ricordato per l'attività spesa nel soste-nere i cosiddetti “cenacoli presbiterali”, un progetto di vita comune peri preti secolari, appunto, proposto da don Francesco Vittorio Massettie dall'urbinate don Ugo Bonazzoli, morto cappellano militare in Russianel 1943.L'entusiasmo di questi due sacerdoti si trasmise al Vescovo Ferri e ilprimo cenacolo nacque ufficialmente il 2 agosto 1943 a S. Benedettodel Tronto. Ma a qualcuno parve troppo spinto il coinvolgimento lai-cale, soprattutto femminile, all'interno del cenacolismo.Dal punto di vista teologico ci pare che venne notato che i cenacolistimettevano l'obbedienza alla carità al posto di ogni forma di obbedien-za alla autorità gerarchica.Il cenacolismo venne allora guardato con sospetto; intervenne il S.Ufficio e il 1° luglio 1945 il Vescovo Ferri emise il decreto di sciogli-

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mento del Movimento dei Cenacoli. Alla fine di quello stesso annomons. Ferri, che aveva 78 anni, chiese di essere sollevato dal governodelle diocesi di Montalto e di Ripatransone. Nominato Vescovo titola-re di Liviade si ritirò a Fano, presso la casa di suo fratello Augusto e lìmorì nel 1952.L'entusiasmo con cui aveva creduto di fare un nuovo servizio allaChiesa non fu sufficiente a preservarlo dal calice dell'amarezza e dellasolitudine. Ma, come abbiamo visto all'inizio di questa nota, il sensodelle sue idee è ora ripreso e discusso come ipotesi per dare slancioall'opera dei sacerdoti.

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Da sinistra: i vescovi Luigi Ferri, Vincenzo Del Signore,Oddo Bernacchia (Fano 24 ottobre 1937)

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NON VOLLE I SACRAMENTI

Il recente articolo di Silvano Bracci per ricordare monsignor VincenzoDel Signore mi ha fatto tornare in mente la prima volta che lo incon-trai. Fu in Duomo, durante gli anni trenta, quando gli servii la messavoluta, per grazia ricevuta, dalla celebre cantante lirica Toti Dal Monteche aveva avuto un incidente automobilistico ed era stata curata nelnostro ospedale. Durante la messa, con Duomo forse pieno più dicuriosi che di fedeli, il soprano eseguì parecchi brani adatti alla sacrafunzione. Su monsignor Del Signore, rettore del Seminario Regionale Pio XI, miraccontò Bruno Tonucci, che se qualcuno usciva di sera il rettore atten-deva e non andava a letto finché tutti non fossero rientrati: erano leconvinzioni di “un buon padre di famiglia” come diceva lui. Ma il ricordo più vivo e per me più commovente è un altro. Stava permorire una persona non credente; monsignor Del Signore, vescovo, loandò a visitare e cercò di pacificarlo con la Chiesa. Ottenne un rifiuto:la persona in questione fu gentile, ma ferma nelle sue convinzioni. Ilvescovo tornò in episcopio molto turbato. Qualcuno lo vide nella piaz-zetta del Duomo e gli domandò: “Cosa è successo, eccellenza?” Allorail vescovo raccontò tutto e disse che avrebbe dovuto pensarci prima ese quel tale si presentava davanti a Dio da miscredente era anche percolpa sua che non aveva fatto quello che doveva. Questo era monsignorDel Signore, uno che sentiva profondamente il senso di responsabilità.Per finire: negli ultimi mesi dell’occupazione tedesca di Fano ilcomandante germanico gli chiese di indicare una persona per fare ilpodestà della città. Naturalmente non si trovò nessuno. Allora si offrìlui, ma i tedeschi che non lo volevano si vendicarono. Prima di andar-sene minarono e buttarono giù sei campanili, recando gravi danni adaltrettante chiese. Per fortuna a San Pietro in Valle si limitarono a spa-racchiare contro gli angeli di stucco. Poi completarono la loro nefastaopera distruggendo torri e case civili. La scusa che i campanili poteva-no servire ai loro nemici per scrutare la zona verso Pesaro era del tuttofasulla: infatti gli alleati avevano molti e ben attrezzati velivoli da rico-

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gnizione e il nostro campanile più alto, quello di Monte Giove, non futoccato. È una storia che i fanesi più vecchi conoscono, ma giova ricor-darlo ogni tanto per pensare alla disumanità di quella guerra: autenti-co “suicidio dell’Europa”. Furono tre cattolici: De Gasperi, Adenauer,Shuman a volere e a lavorare per un’Europa unita che non cadesse piùnel baratro di altre guerre. I marxisti, anche quelli dei PCI italiano,furono naturalmente contrari. C’era da aspettarsi qualcosa di diverso?

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LA CAUSA DI BEATIFICAZIONE DEL VESCOVO PASSIONISTAFANESE BATTISTELLI

Il 19 novembre 2001 con una solenne funzione svoltasi nellaCattedrale di Teramo è stata trasmessa alla Congregazione dei Santi lacausa di Beatificazione del Servo di Dio mons. Amilcare StanislaoBattistelli.Il vescovo Amilcare Battistelli, che ormai pochi fanesi ricordano, nac-que a Fano, da famiglia fanese, il 28 settembre 1885 nella parrocchiadel Duomo. Rimasto orfano di padre (falegname) all'età di cinque anni,visse in povertà con la madre e con il fratello Carlo. Con l'aiuto dimons. Luigi Ferri, parroco, entrò nel seminario di Fano e nel 1900 rice-vette la tonsura. La lettura della biografia di San Paolo della Croce sti-molò in lui il desiderio di farsi passionista, contrastato in ciò sia daisuperiori sia dalla madre. Allora (3 giugno 1906) fuggì dal Seminarioe si rifugiò nel convento di Montescosso (Perugia) dove il padre-mae-stro lo accolse facendogli assumere il nome di Stanislao.Fu poi oratore efficace e forbito specie dopo due anni di studi teologi-ci a Roma. Scrisse una biografia stampata dieci volte; molte pagine civorrebbero per narrare la vita semplice, austera e illuminata dalla gra-zia che poi trascorse sia come superiore del convento di San Gabrieleal Gran Sasso sia come pastore di anime: come Vescovo di Sovana-Pitigliano, poi di Teramo e Atri. Molte furono le sue iniziative a favo-re dei fedeli e del clero, molto 1’affetto e la venerazione di cui fu cir-condato sempre e ovunque. Lasciata la Diocesi di Teramo per limiti dietà, ritornò al Convento di San Gabriele ove il 20 febbraio 1981 chiu-deva santamente la Sua lunga vita.Introdotta il 2 giugno 1988 la Causa di Beatificazione, ora si attende ladecisione della Congregazione dei Santi. Mons. Amilcare Battistellipiù volte venne a Fano, città sempre a Lui cara. È bene che i fanesi nonlo dimentichino e sperino che un giorno venga elevato agli onori deglialtari.

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IL FURTO A SAN PATERNIANO

Ripetendo il gesto di chi nel 1895 rubò nella Basilica di S.Paterniano lo Sposalizio della Vergine - splendida tela delGuercino, fortunosamente poi ritrovata anche se malconcia, i ladrirecentemente sono tornati nella Basilica sottraendo dalla sacrestia 7tele del ‘600 e del ‘700. tre di sicuro valore artistico: una attribui-bile al Guercino o alla sua scuola, due al Gennari; le altre di gran-de valore devozionale perché rappresentano S. Paterniano e laMadonna. Il furto è avvenuto mentre per iniziativa dei padri cap-puccini fervono i lavori di radicale e costoso restauro delle struttu-re architettoniche del cinquecentesco convento (chiostro e puteale),degli affreschi del Ragazzini nella cupola e nell’abside dellaBasilica, di numerose tavole e tele: una di quelle rubate era frescadi restauro. I malviventi, per ironia della sorte, o per calcolatanecessità di far presto, sono arrivati proprio mentre si stava inizian-do l’iter burocratico per dotare di apparecchiature di allarme laBasilica e il convento! Tale furto, che non è l’unico in questo perio-do, ripropone con nuova urgenza alla diocesi il problema, comunea tutta Italia, della tutela del patrimonio storico-artistico dellaChiesa.Premesso che nei musei diocesani allestiti un po’ ovunque, va col-locato ciò che artisticamente e storicamente è importante, ciò chenon serve più all’uso liturgico o apparteneva a chiese sconsacrate oabbandonate, o non può essere assolutamente difeso in loco, restadi tutta evidenza la necessità di custodire e difendere le opere che sidesidera mantenere nei luoghi per i quali sono nate e di cui fannoparte integrale.Il museo, per quanto bello e ricco, è privo di sacralità del luogo diculto: non mi è mai venuto in mente di dire una preghiera di frontea un quadro sacro esposto in una pinacoteca. La difesa dei beni arti-stici ecclesiastici presenta difficoltà di vario ordine, ma esse nondispensano nessuno dal dovere della loro difesa; è pertanto necessa-rio che alle difficoltà non si aggiunga colpevole indifferenza o super-

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ficialità come quelle che si manifestano nella alienazione delle suppel-lettili minori, dei mobili, ecc. di cui vediamo ampia esposizione nellebotteghe e nelle fiere degli antiquari. Di fronte alle difficoltà della dife-sa sta l’assalto crescente dei ladri stimolati dalla domanda del “merca-to” nazionale e internazionale, destinato a crescere (quest’ultimo) quan-do nel 1993 sarà liberalizzato il traffico tra i paesi della CEE, e staanche l’inadeguatezza dei sussidi dello Stato, prontissimo a porre vin-coli, ma lento a fornire strumenti di difesa e di conservazione.Tuttavia non sempre si è pronti ad usufruire delle provvidenze delloStato, della Regione, degli Organismi internazionali, perché mancanoattenzione, informazione e volontà. Su questo punto avremo occasionedi ritornare, anche perché il discorso che oggi ha preso le mosse dalfurto di quadri deve allargarsi agli edifici, ai mobili, agli archivi e allebiblioteche.Tutto ciò va guardato non solo come patrimonio di cultura, ma anchedi fede e di vita della Chiesa. Non dimentichiamo ciò che ha scritto laCEI: “La dignità dell’arte sacra è stata riaffermata dal ConcilioVaticano II per la sua natura di nobile attività dell’ingegno umano, perla realizzazione della bellezza divina e espressa nelle opere dell’uomoe per il contributo prestato alle menti degli uomini indirizzandole reli-giosamente a Dio”.

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IL SEMINARIO REGIONALE LASCIA FANO

È noto che i Vescovi marchigiani hanno decretato la fine della perma-nenza a Fano della sede del Seminario Regionale: la nuova sorgerà adAncona. Fano aveva fin dal 1909 solo il Seminario vescovile, intitola-to a S. Carlo; per tutto l’Ottocento quel seminario aveva goduto meri-tata fama di grande efficienza didattica e formativa nel campo cultura-le e spirituale: possedeva (vera eccezione per quei tempi) una bibliote-ca di circa 6.000 volumi. Nel 1909, in linea con le direttive della SantaSede, i Vescovi del Piceno Superiore (o Marca Settentrionale) scelseroFano, proprio per la sua rinomata serietà, a sede del SeminarioInterdiocesano per i Corsi di Teologia. Convennero qui, nella sede diS.Agostino in via Vitruvio, i seminaristi-teologi di Ancona, Urbino,Pesaro, Pennabilli, Fossombrone, Cagli, Pergola, Iesi, Osimo eCingoli, S. Angelo in Vado e Fano. Senigallia pur avendo dato il placetmai inviò i suoi seminaristi, mantenendosi in una posizione defilata(qualcuno diceva addirittura ostile) nei confronti di Fano.Primo rettore del nuovo seminario fu mons. Ettore Castelli, milanese.Intanto l’idea di concentrare le forze per dare vita a Seminari Teologicisempre più efficienti dal punto di vista formativo-culturale fece intra-vedere la possibilità, fin dal 1914, di trasformare l’IstitutoInterdiocesano di Fano in Seminario Regionale. Una prima offerta perrealizzare l’opera fu fatta direttamente al Papa Pio X da un sacerdotemilanese amico di Mons. Castelli, don Cavallotti, che versò 25.000lire, somma consistente per quei tempi. Nello stesso anno la SantaSede (era divenuto Papa Benedetto XV) decise di acquistare, concor-rendovi finanziariamente il Vescovo di Fano, il Convento deiCappuccini costruito, con la Chiesa di Santa Cristina, fuori città, sullavia Flaminia. Nel 1916 il Seminario ebbe anche i corsi liceali interni: così Fanodivenne un centro di grande importanza per il clero di molte diocesi.Non c’è bisogno di dire che disponendo il Seminario fin da allora dinumerosi ecclesiastici di grande levatura morale e culturale tutta lacittà ne ebbe un benefico effetto. Fu Pio XI (Papa Ratti) a promuove-

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re il Seminario Interdiocesano al rango di Seminario RegionaleMarchigiano che poi, meritatamente, fu a lui intitolato.L’apertura, nel 1924, avvenne nei locali progettati ex novo dall’ing.Giuseppe Momo che costruì un edificio arioso e assolutamente rispet-toso delle norme antisismiche allora in vigore, tanto che il grande ter-remoto del 1930 non recò alcun danno.Dopo settant’anni di feconda attività il Pio XI, presumibilmente nel1994, cesserà la sua funzione. Tutto ciò sarà indubbiamente per Fanouna grave perdita, un sicuro impoverimento.

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