IL MINISTERO EPISCOPALE NELLA COMUNIONE ECCLESIALE

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Montan Agostino IL MINISTERO EPISCOPALE NELLA COMUNIONE ECCLESIALE Corso 10472 Sussidio ad uso degli studenti Pontificia Università Lateranense Roma 2016

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Montan Agostino

IL MINISTERO EPISCOPALENELLA COMUNIONE ECCLESIALE

Corso 10472

Sussidio ad uso degli studenti

Pontificia Università LateranenseRoma2016

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IL MINISTERO EPISCOPALE NELLA COMUNIONE ECCLESIALE Aspetti teologici e canonici

Corso 10472

Anno Accademico 2015-16

Presentazione del corso

1. Punto di riferimento del nostro corso è il capitolo III della costituzione dogmatica Lumen gentium, che ha come argomento: «La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato». Studiato l’intero capitolo, saranno approfonditi alcuni temi, in particolare: - la recezione del cap. III della Lumen gentium nei documenti posteriori al concilio Vaticano II e nei Codici latino e orientale; - la collegialità episcopale (fondamenti biblici e attuazioni storiche); - questioni discusse; - la sinodalità.

2. Nello studio saranno messi in luce gli aspetti sia teologici sia giuridici dei temi trattati. I due aspetti, presenti nel capitolo III della Lumen gentium, ma anche nella costituzione Pastor aeternus del Vaticano I e nella tradizione della grande Chiesa sin dalle origini, sono inseparabilmente uniti. Sacramentalità e collegialità sono intimamente e saldamente connesse, indivisibili. Gli uffici di insegnare, di santificare e di governare costituiscono una sola realtà. La collegialità ha due radici: una sacramentale (la consacrazione episcopale), che inserisce il singolo in un tutto, in un’unità di ministero, e una che deriva dall’appartenenza del singolo vescovo al collegio dei vescovi, vale a dire dalla comunione effettiva col capo e con gli altri membri del collegio. Il concilio Vaticano II, in continuità con la teologia patristica e con quella del primo millennio, colloca in una luce nuova i concetti sia di sacramento dell’ordine sia di “giurisdizione” (gli antichi non usavano il termine “giurisdizione” nel nostro significato, ma l’espressione executio potestatis).

3. Gli argomenti sono studiati in prospettiva storica. L’orizzonte di riferimento è la Chiesa Cattolica, latina e orientale. Sarà nostro dovere serbare sempre la dovuta attenzione a ciò che è stato vissuto e si è consolidato sia nell’oriente ortodosso sia nelle Comunità che non sono in comunione con Roma. Oltre ai documenti emanati dalla Chiesa di Roma saranno presi in esame anche i documenti di altre Chiese o Comunità e le riflessioni dei teologi.

4. Non esiste un testo che tratti in forma unitaria e sistematica gli argomenti affrontati nel corso. Per lo studio personale sono offerte delle schede che contengono lo schema o i punti salienti delle lezioni. Il necessario rapporto tra le lezioni accademiche e le schede, giustifica la schematicità di queste ultime. È segnalata la bibliografia.

Roma 2 febbraio 2016 – Presentazione del Signore

------------------------------------------------------------------------------------ I materiali qui raccolti sono complementari alle lezioni accademiche.

Ad uso degli studenti. ------------------------------------------------------------------------------------

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INDICE DEGLI ARGOMENTI

Capitolo 1° - LA COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA Il capitolo 3° della Lumen gentium: storia, testo, commento

Capitolo 2° - LA RECEZIONE DEL CAPITOLO 3° DELLA LUMEN GENTIUM: nei documenti posteriori al concilio Vaticano II, nei Codici latino e orientale

Capitolo 3° - LA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: fondamenti biblici e sue attuazioni nella Chiesa antica

Capitolo 4° - ESPRESSIONI DELLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE LUNGO I SECOLI: nella tradizione latina - nella tradizione orientale

Capitolo 5° - QUESTIONI APERTE SULLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: IERI E OGGI - PROSPETTIVE

Capitolo 6° - LA SINODALITÀ.

APPENDICE – DOCUMENTI – TEMI DI APPROFONDIMENTO

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ORIENTAMENTO BIBLIOGRAFICO (ulteriore bibliografia nelle note e nel corpo del testo)

- A. ACERBI (a cura di), Il ministero del Papa in prospettiva ecumenica. Atti del colloquio, Milano. 16-18 aprile 1998, Vita e Pensiero, Milano, 1999. - A. ANTON, El misterio de la Iglesia. Evolucion historica de las ideas eclesiologicas. Vol. I-II, BAC maior, Madrid-Toledo, 1986-1987. - ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Dossier. Chiesa e sinodalità, G. Ancona [a cura di], Editrice Velar, Gorle [BG], 2005. - ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, (a cura di R. Battocchio e S. Noceti), Edizioni Glossa, Milano, 2007. - H. U. (VON) BALTHASAR, Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale, Editrice Queriniana, Brescia, 1974. - G. BARAUNA (ED.), La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze, 1968 (estratto: La costituzione gerarchica della Chiesa. Studi e commenti intorno al terzo capitolo della costituzione dogmatica “Lumen gentium”, Vallecchi editore, Firenze, 1968, pp. 271). - U. BETTI, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vatiano II. Il capitolo III della costituzione dommatica “Lumen gentium”, Pontificio Ateneo “Antonianum”, Roma, 1984. - IDEM, La costituzione dommatica «Pastor aeternus» del concilio Vaticano I, Pontificium Athenaeum Antonianum, Roma, 2000 (prima ristampa). - A. CELEGHIN, Origine e natura della potestà sacra. Posizioni postconciliari, Editrice Morcelliana, Brescia, 1987. - G. CERETI, Le Chiese cristiane di fronte al papato. Il ministero petrino del Vescovo di Roma nei documenti del dialogo ecumenico, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2006. - O. CLEMENT, Roma diversamente. Un ortodosso di fronte al papato, Jaca Book, Milano, 1998. - Collégialité (La) épiscopale. Histoire et théologie. Introduction de Y.M. Congar (Unam Sanctam 52), Les Éditions du Cerf, Paris, 1965. - D. COGONI, Il mistero della Chiesa e il primato del Vescovo di Roma nella prospettiva della teologia ortodossa della sobornost, LIEF, Vicenza, 2005. - Collegialità e primato. La suprema autorità della Chiesa, Edizione Dehoniane, Bologna, 1994. - C. COLOMBO, «Episcopato e primato pontificio nella vita della Chiesa», in La Scuola Cattolica, 88 (1960), pp. 401-434. - IDEM, «Il collegio episcopale e il primato del Romano Pontefice», in La Scuola Cattolica, 93 (1965), pp. 35-56. - IDEM, «Il significato della collegialità episcopale nella Chiesa secondo la «Lumen gentium», in Rassegna di Teologia 21 (1980), pp. 177-180. - J. COLSON, L’Épiscopat catholique. Collégialité et Primauté dans le trois premiers siècles de l’Église, (Unam Sanctam 43), Les Éditions du Cerf, Paris, 1963. - CONCILIUM (riv.): Collegialità (La) dei vescovi alla prova. Fascicolo monografico della rivista internazionale di teologia Concilium XXVI (1990), n. 4 [pp. 457-611]. - CONCILIUM (riv.): Per una strutturazione ecumenica delle Chiese. Fascicolo monografico della rivista internazionale di teologia Concilium XXXVII (2001), n. 3 [pp. 369-574]. - Concile (Le) et les conciles, Ed. du Cerf – de Chevetogne, 1960 (vers. it. : Il concilio e i concili. Contributo alla storia della vita conciliare della Chiesa, Edizioni Paoline, Roma, 1961). - CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa. Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede. Testo e commenti. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2002. - M. FABRI DOS ANJOS (ED.), Bispos para a esperança do mundo. Uma leitura critica sobre caminhos de Jgreja, Pia Sociedade Filhas de São Paulo, São Paulo Brasil, 2000 (vers. it.: Vescovi per la speranza del mondo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001).

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- M. FACCANI, Collegio e collegialità episcopali nel Sinodo 1969, Ed. Dehoniane, Bologna, 1991. - V. FAGIOLO, G. CONCETTI, La collegialità episcopale per il futuro della Chiesa, Editore Vallecchi, Firenze, 1969. - N. FILIPPI, Essenza e forma di esercizio del ministero petrino. Il magistero di Giovanni Paolo II e la riflessione ecclesiologica (Tesi Gregoriana, Teologia 112), EPUG, Roma, 2004. - D. GARCÍA-HERVAS, Régimen juridico de la colegialidad en el Código de Derecho Canónico, Universidad de Santiago de Compostela, Santiago de Compostela, 1990. - A. GARUTI, La collegialità oggi e domani, Edizioni Francescane, Bologna, 1982. - R. GIRALDO, Rapporto tra poteri papali e consacrazione episcopale. Editore LIEF, Vicenza, - IDEM, Il mistero della Chiesa. Manuale di ecclesiologia, Antonianum, Roma, 2004. - J. HAMER, «Note sur la collégialité épiscopale», in RSPhTh 44 (1960), pp. 40-50. - IDEM, «Le Corps Épiscopal uni au Pape, son autorité dans l’Église, d’après les documents du premier Concile du Vatican», in RSPhTh 45 (1961), pp. 21-31. - F. G. HELLÍN, Lumen gentium. Constitutio dogmatica de Ecclesia Concilii Vaticani II Synopsis in ordinem redigens schemata cum relationibus necnon patrum orationes atque animadversiones, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1996. - P. HÜNERMANN (hrsg.), Papsamt und Oekumene. Zum Petrusdienst and der Einheit aller Getaufen, Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 1997; vers. it.: Papato ed ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell’unità, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1999. - W. KASPER (ed.), Il ministero petrino. Cattolici e ortodossi in dialogo, Città Nuova Editrice, Roma, 2004. - LA DELFA R. (ED.), Primato e collegialità. «Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese», Città Nuova Editrice - Facoltà Teologica di Sicilia, Roma, 2008. - L’épiscopat et l’Église universelle, Les Éditions du Cerf, Paris, 1964. - J. LECUYER, Etudes sur la collégialité épiscopale, Mappus, Lyon, 1964. - H. LEGRAND ET C. THEOBALD (ED.), Le ministére des évêques au concile Vatican II et depuis, Hommage à Mgr Guy Herbulot, Les Éditions du Cerf, Paris, 2001. -H. LEGRAND E P. CODA, «Primato e collegialità per la comunione delle Chiese. 1. Le riforme di Francesco - 2. Coscienza sinodale del popolo di Dio. Rinnovamento a cinquant’anni dal Vaticano II», in Il Regno Attualità LIX (2014), pp. 419-434. - S. LUPU, La sinodalità e/o conciliarità espressione dell’unità e della cattolicità della Chiesa in Dumitru Ståniloae (1903-1993), Roma, 1999 (tesi di laurea – PUG 1999). - R. MAGNANI, La successione apostolica nella tradizione della Chiesa. Ricerca nel BEM e nei documenti del dialogo teologico bilaterale a livello internazionale, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1990. - G. MAZZONI, La collegialità episcopale. Tra teologia e diritto, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1986 - MICHAEL J. BUCKLEY, Papal Primacy and the Episcopate, Crossroad, New York, 1998. - M. MIELE, Dalla sinodalità alla collegialità nella codificazione Latina, CEDAM, Padova, 2004. - S. NOCETI E R. REPOLE (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II. 2. Lumen gentium, Edizioni Dehoniane Bologna, 2015. - Paolo VI e la collegialità episcopale, Edizioni Studium, Roma, 1995. - Papato e istanze ecumeniche, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1984. - R. PESCH, Simon Pietro. Storia e importanza storica del primo discepolo di Gesù Cristo, (GdT 331), Editrice Queriniana, Brescia, 2008 (originale tedesco 1979-1980). - G. PHILIPS, L’Église et son mystère, Desclée & Cie, Paris 1967, (vers. it. : La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen gentium, Jaca Book, Milano, 1982). - S. PIÉ-NINOT, Eclesiología. La sacramentalidad de la comunidad cristiana, Ediciones Sígueme, Salamanca 2006. Vers. it.: Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana, (BTC 138), Editrice Queriniana, Brescia, 2008.

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- H. J. POTTMEYER, Towards a Papacy in Communion. Perspectives from Vatican Councils I & II, Crossroad Publisching Company, New York, 1998: vers. it. Il ruolo del Papato nel terzo millennio, (GDT 285), Editrice Queriniana, Brescia, 2002. - Primato (Il) del successore di Pietro. Atti del simposio teologico (Roma, dicembre 1996), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998. - J. R. QUINN, The Reform of the Papacy. The costly call to Christian unity, The Crossroad Publishing Company, New York, 1999. Versione italiana: Per una riforma del Papato. L’impegnativo appello all’unità dei cristiani, (GDT 272), Editrice Queriniana, Brescia, 2000. - K. RAHNER – J. RATZINGER, Episcopato e primato. Editrice Morcelliana, Brescia, 2007 (ristampa). - J. RATZINGER, Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf, 1969. Vers. it.: Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Editrice Queriniana, Brescia 1971. - IDEM, Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1987. - D. SALACHAS, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orientali, EDB, Bologna 1993. - B. SESBOÜE, Pour une Théologie oecumenique, Les Éditions du Cerf, Paris, 1990. - D. SICARD, L’Église comprise comme communion, Les Éditions du Cerf, Paris, 1993. - Y. SPITERIS, Ecclesiologia ortodossa. Temi a confronto tra Oriente e Occidente. Presentazione di Luigi Sartori, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2003. - J.M. R. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Les Éditions du Cerf, Paris, 1995. - J.P. TORREL, La théologie de l’Épiscopat au premier Concile du Vatican, Coll. Unam Sanctam, 38, Les Éditions du Cerf, Paris 1961. - C. THEOBALD, La réception du concile Vatican II. I. Accéder à la source, Les Éditions du Cerf, Paris. 2009 ; vers. it. La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011. - J. R. VILLAR, El Collegio episcopal. Estructura teológica y pastoral, Ediciones RIALP, Madrid, 2004. - L. VILLEMIN, Pouvoir d’ordre et pouvoir de jurisdiction. Histoire théologique de leur distinction, Les Éditions du Cerf, Paris, 2003. - D. VITALI, Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2014. - I. ZIZIOULAS, L’essere ecclesiale, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI), 2007. Dizionari - CH. O’DONNELL, Ecclesia. A theological Enciclopedia of the Church, The Liturgical Press, Collegeville, 1996. - C. O’DONNELL – S. PIÉ-NINOT, Diccionario de eclesiologia, San Pablo, Madrid, 2001. - G. CALABRESE, PH. GOYRET, O.F. PIAZZA (a cura di), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova Editrice, Roma, 2010.

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Capitolo 1

LA COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA. IL CAPITOLO 3° DELLA LUMEN GENTIUM:

STORIA, TESTO, COMMENTO I. INDICAZIONI PER LA LETTURA DEL TESTO DELLA LUMEN GENTIUM 1. Preliminari1

“La lettura del testo conciliare non può essere staccata dalle vicende e dalle motivazioni che l’hanno fatto maturare. Approderebbe inevitabilmente ad una speculazione. (…) L’interpretazione del testo sarà teologicamente valida nella misura in cui sarà storicamente fondata” (BETTI, p. 331).

Gli studi storici rilevano che uno dei principali compiti dottrinali del Vaticano II, sarebbe stato quello di completare l’ecclesiologia del Vaticano I trattando la natura e il ruolo dell’episcopato nella Chiesa. Occorreva trattare della collegialità per instaurare tra il papa e i vescovi un nuovo equilibrio. Secondo Joseph Ratzinger, «il capitolo III della costituzione sulla Chiesa ha mandato ad effetto questo proposito prendendo come idea direttiva la nozione della struttura collegiale dell’ufficio episcopale»2.

Con le espressioni «collegialità» e «decentralizzazione collegiale», usate prima e durante il concilio, si esprimevano più richieste: adattamento missionario del messaggio cristiano alle culture (soprattutto della liturgia), valorizzazione delle conferenze episcopali, rivalutazione delle Chiese particolari anche in prospettiva ecumenica (AUBERT, pp. 240, 255-263; 283-288; 304-307; MELLONI E FRAMERÉE, in ALBERIGO, III/80-121, 133-175; sempre in ALBERIGO, vedi la voce «collegialità» nell’indice tematico cumulativo: V/741; PESCH, pp. 246-267)3. Nella lettura del testo vanno tenuti presenti due criteri esterni d’interpretazione: la dichiarazione sulla qualificazione teologica del testo conciliare4 e le delucidazioni contenute nella Nota explicativa praevia (abbr.: NEP)5. 1 Per la bibliografia degli autori citati nel corpo del nostro testo, vedi al termine del capitolo. 2 J. RATZINGER, «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», in La costituzione gerarchica della Chiesa, studi e commenti intorno al capitolo terzo della “Lumen gentium”, Vallecchi Editore, Firenze 1968, p. 39 (volume estratto dall’opera collettiva La Chiesa del Vaticano II, diretta da G. BARAÚNA, o.f.m., Vallecchi Editore, Firenze 1965 [anche in Il nuovo popolo di Dio, Editrice Queriniana, Brescia 1992 (4° ed.), p.187]). 3 Una buona informazione sullo stato della teologia dell’episcopato al momento della celebrazione del concilio Vaticano II si trova in: D. DUPUY, «La théologie de l’episcopat», in RSPhTh 49 (1965), pp. 288-343; Y.M. CONGAR – B.D. DUPUY (a cura di), L’episcopato e la Chiesa universale, Edizioni Paoline, Roma 1965 (si vedano, in particolare, gli studi di O. Rousseau, B.D. Dupuy e J. Lécuyer); CH. MOELLER, «Origine et dévoleppement du thème de la collégialité à Vatican II», in Euntes Docete 20 (1967), pp. 445-458 ; EDITORIALE, «La dottrina dell’episcopato prima e dopo la Lumen gentium», in La Civiltà Cattolica 136 (1985), pp. 313-324. 4 Per questo problema cf. lo studio di U. BETTI, «La qualificazione teologica della costituzione Lumen gentium», in: G. BARAÚNA, La Chiesa del Vaticano II, pp. 267-274 e lo studio di J. RATZINGER, «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», pp. 63-66 (in Il nuovo popolo di Dio, pp. 216-219); cf. anche T. CITRINI, «A proposito dell’indole pastorale del magistero», in Teologia 15 (1990), pp. 130-149. 5 I due testi (notificazioni fatte dal segretario generale del concilio nella 123° congregazione generale il 16 novembre 1964) nelle edizioni abituali della Lumen gentium, sono, di solito, riportati congiuntamente, al termine del testo conciliare (cf. ad es., EV 1/446-447, 448-456).

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Secondo il testo della Notificazione sulla qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa, è chiaro che una vera “definizione dogmatica” con la quale una proposizione viene dichiarata oggetto di fede divina e cattolica, si ha solo quando sia espressamente dichiarato. Questo non è mai il caso del capitolo III della costituzione sulla Chiesa, neppure nella proposizione che riguarda la sacramentalità dell’episcopato. Dunque, il cap. III non contiene alcuna “nuova definizione di fede” (non contiene alcun nuovo dogma). Ma ciò non esclude una certa misura di valenza dogmatica e di obbligatorietà.

Il grado concreto con il quale il concilio impegna la sua autorità si deduce dalla materia trattata e dal modo di esprimersi (per es.: docet Sacra Synodus; Haec Sacrosanta Synodus docet et declarat; Sacra Synodus firmiter credendum proponit…). Si applicano, dunque, le regole ordinarie d’interpretazione dei testi del magistero.

Per il p. BETTI, la dottrina dogmatica del Vaticano II sull’episcopato, in particolare le proposizioni basilari che investono la stessa struttura costituzionale della Chiesa (LG 19-22), pur non presentate come verità di fede mediante definizione com’era accaduto al Vaticano I per il primato del papa e per la sua infallibilità, sono da considerarsi irreformabili: nel senso che mai il magistero potrà proporre una dottrina contraria al suo contenuto. Si tratta di dottrina del supremo magistero (tutto l’episcopato con il Romano Pontefice), nella sua più alta espressione e manifestazione, in forma di concilio ecumenico. Sarebbe un controsenso aver qualificato la costituzione Lumen gentium come «dogmatica» se la dottrina in essa contenuta non avesse la stessa qualifica (BETTI, pp. 332-340, in particolare pp. 334.338-339).

Per l’allora giovane teologo JOSEPH RATZINGER il testo conciliare rappresenta la professione di fede di tutta la Chiesa cattolica adunata in concilio. Soprattutto nei nn. 19-22, tenuto conto del lavoro fatto dal concilio, si deve riconoscere che al testo spetta una “non piccola forma di obbligatorietà”, che sta molto al di là delle espressioni ordinarie del magistero del papa, ivi comprese le stesse encicliche. Ma aggiunge: “Questo non significa che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni, nelle linee direttrici del suo pensiero o nelle sue citazioni della Scrittura e dei santi padri. Ma significa che, nel complesso dei testi emanati dal magistero della Chiesa, nei tempi moderni, la presente costituzione occupa una posizione di preminente importanza che la fa essere come una specie di centro di interpretazione”6. Per quanto riguarda la NEP è pacifico che non sostituisce né supera il testo della Lumen gentium promulgato (BETTI, pp. 340-342). «Non è integrativa, ma illuminante» (P. FELICI)7. Va tenuto presente l’inizio della NEP: «Per mandato della superiore autorità viene poi comunicata ai padri una nota esplicativa previa ai Modi circa il capo terzo dello schema sulla Chiesa; secondo la mente e la sentenza di questa nota deve essere spiegata e intesa la dottrina esposta nello stesso capo terzo». Soggetto scrivente la NEP è stata la Commissione dottrinale del concilio, «per mandato dell’autorità superiore» (Paolo VI), che aveva chiesto di introdurre delle modifiche8. La NEP è stata letta nell’aula conciliare, senza essere né discussa, né votata dai padri. Il punto nevralgico sul quale la NEP interviene concerne la forma specifica della collegialità episcopale e quindi la correlazione del romano pontefice con il collegio episcopale e la sua collocazione all’interno (come capo) o al di sopra del collegium (in quanto vicario di Cristo). Secondo G. Philips la NEP, sul piano del contenuto, «non apporta alcun elemento nuovo al testo votato dal concilio»9, perciò va compresa come un aiuto all’interpretazione del testo alla luce dei modi, accolti e rifiutati dalla commissione. 6 «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», in La costituzione gerarchica della Chiesa, p. 65 (in Il nuovo popolo di Dio, p. 219). 7 V. CARBONE (ed.), Il “diario” conciliare di Monsignor Pericle Felici. A cura di Agostino Marchetto, LEV, Città del Vaticano, 2015, pp. 435-436. 8 Ivi, p. 435. 9 G. PHILIPS, «Note pour servir à l’histoire de la NPE (LG III)», in G. PHILIPS – J. GROOTAERS, Primauté et collégialité. Le dossier de Gérard Philps sur la Nota explicativa Praevia (Lumen gentium chap. III), Leuven University Press, Leuven 1986, p. 213.

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Vanno tenuti presenti le valutazioni e l’accoglienza del cap. III della Lumen gentium in campo ecumenico. Sono note le perplessità degli ortodossi, in particolare di P. Evdokimov, Panaghiotis Trembelas, I. Karmiris, I. Kallogirou, P. Rodopoulos, Nicos Nissiotis, …: le loro perplessità riguardano il permanere della figura del papa con le sue prerogative primaziali)10. 2. Contesto del capitolo III della costituzione sulla Chiesa La costituzione, dopo aver approfondito la correlazione esistente nella «Chiesa popolo di Dio», tra il «mistero» della Chiesa (cap. I) e il «soggetto storico» che lo realizza (cap. II), passa a descrivere l’organizzazione gerarchica del popolo di Dio (cap. III). Il popolo di Dio procede dall’alto, dal disegno di Dio, vale a dire dall’elezione, dall’alleanza e dalla missione. Sin dal suo apparire nella storia, il nuovo popolo di Dio appare strutturato attorno ai pastori che Gesù Cristo stesso gli ha scelto, costituendoli suoi apostoli e ponendo a loro guida Pietro: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo» (LG, n. 18). Dunque la comunità di Gesù è una comunità strutturata, dotata di un suo ordinamento peculiare, determinato da Dio e obbligante fin dall’inizio11. «Quella missione divina, affidata da Cristo agli apostoli, dovrà durare sino alla fine dei secoli, poiché il Vangelo che essi devono trasmettere è per la Chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di costituirsi dei successori» (LG, n. 20). La struttura interna della Chiesa non si deduce a forza di speculazioni filosofiche o sociologiche; invece, si definisce unicamente sulla testimonianza della Scrittura e della tradizione, garanti della dottrina e della volontà di Cristo, sotto la tutela dello Spirito Santo.

“Una dichiarazione del Vaticano II sul posto e la funzione dell’episcopato era attesa con una certa impazienza. Evidentemente, questo posto si trova all’interno, non all’esterno della comunità. Del resto, sarebbe paradossale parlare dei vescovi presi separatamente, senza alcun accenno al loro posto nei quadri gerarchici. Essi sono i pastori del popolo di Dio: ma uno di essi è stabilito pastore supremo di tutta la Chiesa, mentre dei ministri di grado inferiore, i presbiteri, e con essi i diaconi, li assistono nei loro compiti” (PHILIPS, p. 197).

La costituzione non dissocia la dottrina del primato e del magistero del romano pontefice, che essa ripropone, dalla dottrina concernente i vescovi successori degli apostoli. Il collegio dei vescovi, che succede a quello degli apostoli, manifesta insieme la varietà, l’universalità e l’unità del popolo di Dio.

Il capitolo III della Lumen gentium risulta così circoscritto a grandi linee e collocato con esattezza nell’insieme della costituzione. La collegialità, chiara nei suoi enunciati, è stata e continua ad essere oggetto di discussioni per le applicazioni concrete che essa può avere. Il Vaticano II ha equilibrato il Vaticano I, sul piano della dottrina, affermando che esiste nella Chiesa, oltre al potere petrino, un potere apostolico, con e sotto il successore di Pietro.

All’enunciazione di principio occorre far seguire le forme concrete di applicazione nella communio ecclesiarum. Il carattere collegiale dell’episcopato è stato uno dei temi più dibattuti dal concilio. Allo scopo di conoscere l’opinione dei Padri sinodali e di orientare in modo sicuro i successivi lavori del

10 Cf. Y. SPITERIS, «Le Chiese ortodosse», in FISICHELLA R. (a cura di) Il concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo (Comitato centrale del grande giubileo dell’anno 2000), Edizioni San Paolo , Cinisello Balsamo (MI), 2000, p. 396-398. L’intera comunicazione di Spiteris è di grande interesse per conoscere le reazioni dei teologi ortodossi al concilio Vaticano II. 11 Cf. R. SCHNACKENBURG, La Chiesa del Nuovo Testamento, Editrice Paideia, Brescia 1975, p. 37.

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concilio, in data 30 ottobre 1963, furono sottoposti a votazione indicativa cinque quesiti interlocutori su cinque questioni così formulate12: «I Padri sono invitati a dichiarare se desiderano che lo schema sia redatto in modo tale che si dica:

1. che la consacrazione episcopale costituisce il grado supremo dell’ordine; 2. che ogni vescovo legittimamente consacrato, in comunione con gli altri vescovi e con il papa che è il capo e il principio della loro unità, è membro del corpo dei vescovi; 3. che il corpo o collegio dei vescovi succede al collegio degli apostoli nella sua missione di evangelizzazione, di santificazione e di governo, e che il corpo in unione con il suo capo, il pontefice romano, e mai senza questo capo (il cui diritto primaziale resta intatto e completo su tutti i pastori e fedeli), possiede il potere plenario e supremo sulla Chiesa universale; 4. che questa autorità compete per diritto divino al collegio stesso dei vescovi unito al suo capo» (PHILIPS, p. 32; BETTI, pp. 182-197; MELLONI, in ALBERIGO III/90-96, 99-106, 114-124). La quinta questione poneva il problema dell’opportunità della restaurazione del diaconato come grado separato e permanente dell’ordine, secondo le necessità della Chiesa nei diversi paesi.

I quattro quesiti riproducono i punti dottrinali che sono come l’ossatura del capitolo sulla costituzione gerarchica della Chiesa. I consensi dei Padri ai quattro quesiti furono elevatissimi. Con quella votazione, si apriva la strada a un nuovo modo di intendere la “costituzione gerarchica della Chiesa”. Il concilio acquisiva una nuova parola con la quale esprimere una dimensione fondamentale dell’esperienza della Chiesa, la parola «collegialità».

Secondo Karl Rahner nel capitolo III della Lumen gentium si devono rilevare tre temi principali: «a) esistenza e funzione del collegio dei vescovi come tale (articoli 21 e s.), b) sacramentalità dell’ordinazione episcopale (articolo 21), c) connessione intrinseca dei diversi munera del vescovo e radicamento di tutti bell’ordinazione episcopale (articolo 21). Intorno a questi tre punti si svolsero in corrispondenza anche i dibattiti più importanti del concilio in relazione al III capitolo»13.

Secondo Gilles Routhier le idee portanti della Lumen gentium sono: la collegialità, la storia della salvezza, la Chiesa come sacramento di salvezza, il Popolo di Dio, i soggetti ecclesiali14. Va annotato che il dibattito sulla collegialità non è una novità assoluta del concilio Vaticano II. Il tema era già presente nella costituzione dogmatica 1° Pastor aeternus sulla Chiesa di Cristo, del concilio Vaticano I (1869-1870). Vi era trattato il tema dei diritti dei vescovi su due versanti: della potestà di ogni singolo vescovo sulla propria diocesi, del corpo episcopale sulla Chiesa universale (DH 3061). La costituzione Pastor aeternus affermava che il primato, lungi dal conculcare i diritti dei vescovi, piuttosto li garantiva. Negli Acta del Vaticano I si incontrano spesso termini come corpus o collegium episcoporum, corpus o coetus pastorum, che di fatto rimandano all’insieme dei vescovi come soggetto che agisce soprattutto quando è riunito in concilio ecumenico. Il criterio adottato dal Vaticano II per la recezione del Vaticano I è di riferirsi alla globalità dell’evento e non solo ai documenti ufficiali, che sono orientati prevalentemente sul ministero petrino. A conferma si vedano: la nota n. 27 di Lumen gentium 22 dove si rinvia alla Relatio officialis di Mons. Federico Maria Zinelli e alla nota n. 28, sempre di Lumen gentium 22, dove si rinvia allo Schema Const. dogm. II, De Ecclesia Christi, c. 4, alla Relatio di Joseph Kleutgen de schemate reformato, e alla declaratio di Mons. Federico Maria Zinelli che invitava a

12 Sui contrasti emersi sul sottoporre a votazione i quattro (poi cinque) punti cf. V. CARBONE (ed.), Il “diario” conciliare di Monsignor Pericle Felici. A cura di Agostino Marchetto, LEV, Città del Vaticano, 2015, pp. 356-358. 13 K. RAHNER, La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen gentium, Editrice Morcelliana, Brescia 2008, p. 15. 14 G. ROUTHIER, «Introduzione», in S. NOCETI E R. REPOLE (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II. 2. Lumen gentium, Edizioni Dehoniane Bologna, 2015, pp. 52-59.

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comprendere la funzione gerarchica facendo riferimento allo schema secundum de Ecclesia tametsi Deus, mai discusso in aula per la sospensione del concilio Vaticano I (NB.: la numerazione delle note è quella di AAS 57, 1965, p. 27). Le istanze collegiali presenti nel Vaticano I saranno dimenticate molto presto, sia dallo magistero sia dalla manualistica apparsa tra i due concili, insistendo maggiormente sulle prerogative della funzione petrina. L’attuazione del Vaticano I andava nella direzione del modello piramidale (o “gerarcologico”, come amava dire il P. Y. M. Congar), che riduceva i vescovi a funzionari del papa, e le diocesi a circoscrizioni territoriali a carattere amministrativo della Chiesa universale, di cui il papa era, in ultima analisi, il solo vescovo. È mia intenzione proporre una lettura puntuale del testo conciliare offrendo un commento teologico-sistematico che tenga conto della novità di prospettiva che la distanza temporale di cinquant’anni ormai permette. 3. Struttura interna del capitolo III La struttura del capitolo III della Lumen gentium è facilmente comprensibile:

«1) introduzione (“varia ministeria”), base di partenza (Vaticano I) e tema del capitolo: “doctrina de episcopis” (articolo 18); 2) la fondazione biblica della dottrina sull’episcopato; il gruppo degli Apostoli come “collegium” in unità con il ministero di Pietro (articolo 19); 3) la prosecuzione storica del gruppo degli Apostoli nell’episcopato e la “divina institutio” d’esso (articolo 20); 4) l’essenza dell’ufficio episcopale in generale e la fondazione sacramentale di tutte le funzioni (articolo 21); 5) il collegio episcopale come tale: esistenza, funzione nella Chiesa, rapporto col primato (articolo 22); 6) il rapporto del singolo vescovo con la Chiesa universale; “coetus episcopalis” (patriarcati, conferenze episcopali) – (articolo 23); 7) l’ufficio del singolo vescovo: a) in generale (articolo 24); b) l’ufficio magisteriale del vescovo, del collegio dei vescovi e del papa (articolo 25); c) le potestà sacramentali del vescovo (articolo 26); d) l’ufficio pastorale del vescovo (articolo 27)»15.

In sintesi: LG 18-20: successione apostolica; LG 21: sacra mentalità dell’episcopato; LG 22-23: collegialità; LG 24-27: tria munera del vescovo; LG 28-29: presbiteri e diaconi. 3.1 – Il proemio (LG, n. 18). Con due affermazioni distinte ma non separate, introduce all’oggetto specifico del capitolo: l’istituzione divina di vari ministeri, e, quindi, di altrettanti titolari dei medesimi, come elemento costitutivo e permanente della Chiesa. Passa poi a trattare degli stessi ministeri e dei ministri: in particolar modo dell’episcopato, per completare così la dottrina definita dal Vaticano I sul romano pontefice. LG, n. 18, nel secondo capoverso ripropone di nuovo e interamente la dottrina già definita dal Vaticano I sulla natura e il valore del primato del papa e del suo magistero infallibile, e dichiara di voler proseguire su questa linea pronunciandosi anche sulla dottrina dei vescovi, i quali sono chiamati a governare tutta la Chiesa, insieme con il successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile della Chiesa. Il testo dichiara l’intenzione del concilio: vuole ora occuparsi di quelle istituzioni permanenti, che sono dotate di potestà sacra. Esplicitamente il concilio afferma il carattere di istituzione divina della gerarchia (LG, n. 18b). Cosa sia la “potestas sacra” non viene spiegato in modo formale secondo la teologia del diritto e della costituzione ecclesiale, ma risulta dal contesto dell’intero capitolo.

15 RAHNER, La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen gentium, p. 17.

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3.2 – Prima sezione: l’origine dell’episcopato (LG, nn. 19, 20, 21). Istituzione del collegio dei dodici apostoli da parte di Cristo (l’elezione dei dodici; i dodici costituiti come collegio; Pietro e i dodici, fondamento della Chiesa); i vescovi succedono agli apostoli (la continuazione del ministero apostolico: successione del collegio episcopale al collegio apostolico); i vescovi sono integrati al corpo dei pastori mediante il rito della consacrazione episcopale, che conferisce la pienezza del sacramento dell’ordine. 3.3 – Seconda sezione: la collegialità episcopale (LG, nn. 22-23). I due articoli trattano della collegialità. Per il concilio il vescovo mediante la consacrazione è inserito in un Ordo o corpus, un gruppo circoscritto la cui direzione spetta al papa: il papa è dunque da considerare come il capo del collegio (n. 22). Dopo aver trattato il tema della collegialità nelle relazioni tra i suoi membri e il loro capo, il concilio analizza le relazioni dei membri del collegio tra loro. Gli aspetti dottrinali trattati sono quattro (n. 23). 3.4 – Terza sezione: l’autorità dei singoli vescovi e le loro funzioni (LG, nn. 24-27). La sezione è dedicata al ministero episcopale e propone una riflessione sulle funzioni dei vescovi, a partire da una presentazione generale del triplice ufficio affidato al vescovo, quello di insegnare, santificare e governare. 3.5 – Quarta sezione: gli altri ministri del sacramento dell’ordine (LG, nn. 28-29). Il n. 28 pone le premesse teologiche del tema del presbiterato che verrà sviluppato nel documento conciliare specifico Presbyterorum ordinis. Il n. 29 contiene una breve dissertazione sul diaconato. Il documento dichiara che esso fa parte del sacramento dell’ordine, è conferito con l’ordinazione e quindi si distingue essenzialmente dai ministeri laicali; è destinato non al sacerdozio, ma al ministero. Il PHILIPS, tracciando la storia redazionale del testo, mette in luce come la struttura e l’attività del collegio (seconda sezione) abbiano la precedenza sulla descrizione dei compiti dei singoli membri (terza sezione). Sempre secondo il PHILIPS questo nuovo ordinamento pone decisamente in primo piano l’aspetto collegiale. Commenta: “Benché quest’inversione (priorità del corpo sui membri) sia di natura tale da far aumentare la tensione nel dibattito intorno alla collegialità, nessuno dei documenti pubblicati porta la minima traccia di una discussione al riguardo. Comunque, la sua adozione proietta una luce notevolmente maggiore sul ministero episcopale” (p. 199)16.

*********** II. ESAME DEL TESTO 1. Proemio: articolo n. 18. 1.1 - Il primo capoverso dell’articolo, annuncia il contenuto del capitolo e definisce lo scopo che il concilio si è prefisso. Cristo ha istituito vari ministeri, tutti ordinati al bene di tutto il corpo. Ciò significa che deve essere rispettato un certo ordine (“gerarchia”) tra i ministeri, perché tutto abbia a svolgersi come servizio vicendevole per l’edificazione della comunità. “Dio, infatti, non vuole il disordine, ma la pace” (1 Cor 14,33). L’istituzione dei ministeri significa che sono necessarie alla Chiesa istituzioni durature, dotate di una potestà sacra (sacra protestate pollent) a servizio di tutti

16 Sulla storia redazionale del cap. III della LG, cf. S. NOCETI, «La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato», in S. NOCETI E R. REPOLE (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II. 2. Lumen gentium, pp. 209-214.

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coloro che appartengono al popolo di Dio. Il tema del servizio, qui evidenziato, occupa un posto centrale nella costituzione conciliare, soprattutto nei suoi primi cinque capitoli. Il tema si era in parte offuscato a seguito di una visione secolare troppo giuridica della gerarchia e dell’esercizio del potere nella Chiesa, e perciò risultava poco elaborato teologicamente.

“L’ordinamento ecclesiale è inteso esattamente solo se concepito come ordinamento di servizio” (LÖHRER, p. 699). L’ufficio della gerarchia secondo la costituzione è per il servizio, non in senso metaforico o spirituale, ma costitutivo: «Questo ufficio che il Signore ha affidato ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che le sacre Scritture chiamano significativamente “diaconia” o ministero (cf. Atti 1,17 e 25; 21, 19; Rom 11,13; 1 Tim 1,12)» (LG n. 24).

La costituzione pone in rilievo l’inserimento del servizio gerarchico in quello di tutta la Chiesa. La Chiesa è per sua essenza diaconia (LG, n. 8 e Fil 2,6). Compito dei ministri è promuovere la diaconia, la cooperazione libera e ordinata. Va precisato che il servizio ecclesiale non è un diritto o un dovere esclusivo della gerarchia. È compito proprio di tutti i membri della Chiesa. Dal punto di vista del servizio vige nella Chiesa un’essenziale uguaglianza di tutti i membri, in quanto tutti devono contribuire all’edificazione del Corpo di Cristo assolvendo ciascuno il compito affidatogli. Nel servizio reciproco dunque nessun membro può mettersi al di sopra degli altri. (LG n. 32). 1.2 - Il secondo capoverso, mostra la posizione del Vaticano II rispetto alla dottrina del Vaticano I. Dichiara l’intenzione dei padri del concilio Vaticano II di completare le definizioni del concilio Vaticano I. E’ noto che quest’ultimo, pur avendo definito l’infallibilità del papa ex cathedra, non poté sviluppare il progetto dogmatico sull’ecclesiologia. Così il Vaticano II intende integrare e continuare la linea del Vaticano I. Non è attenuato l’insegnamento sulle prerogative del pontefice, ma è inserito nel più ampio contesto della dottrina dell’episcopato. In particolare, i padri conciliari intendono radicare il loro pensiero sull’esplicita volontà di Cristo, che ha costruito la sua Chiesa sul fondamento degli apostoli e ha voluto che i loro successori, vale a dire i vescovi, fossero uniti e indivisi tra loro. Cristo stabilì in Pietro il principio e fondamento visibile dell’unità della fede e della carità ecclesiale. Il testo lascia trasparire la difficoltà di coniugare il dettato del Vaticano I con l’intuizione di nuove prospettive ecclesiologiche. 1.3 – Sono da segnalare i titoli del papa: «vicario di Cristo», «capo visibile di tutta la Chiesa». Il primo, «vicario di Cristo» è apparso all’inizio del III secolo ed era applicato ai vescovi. Il titolo fu riservato al papa nel concilio di Firenze del 1439. Il Vaticano I l’ha ripreso chiamando il papa il vero vicario di Cristo, ma senza sottrarre ai vescovi la loro dignità propria. Il secondo, «capo visibile di tutta la Chiesa», è un titolo che appartiene esclusivamente al Papa e ricorda implicitamente che i vescovi sono soggetti alla sua autorità. L’espressione «capo visibile» è equivalente a quella di «vicario», nel senso che il papa ha il compito di rendere visibile la presenza di Cristo pastore, e questo compito è stato stabilito da Cristo stesso. 2. L’origine dell’episcopato: l’istituzione dei dodici – articolo n. 19 2.1 – Il testo conciliare inaugura le sue affermazioni sull’episcopato con uno sguardo all’attività storica di Gesù. Nella sua azione sono obbligatoriamente fissati gli elementi dell’ufficio spirituale per tutti i secoli futuri. Nell’articolo 19, oggetto principale di trattazione è il modo d’istituzione dei dodici. L’idea fondamentale sulla quale si fonda tutto l’insegnamento successivo, è che la forma originata dall’ufficio dei dodici, come stabilito dal Signore, è collegiale (costituiscono un gruppo stabile o collegio, un coetus o ordo), anche se uno dei dodici (Pietro), ha una rilevanza particolare sugli altri, pur appartenendo egli stesso al collegio. I dodici agiscono e realizzano la missione non come somma di discepoli di Gesù, da lui inviati, ma come soggetto collettivo, “ad modum collegii”. Una tale soggettualità collettiva non comporta una negazione o sottovalutazione del ruolo e della funzione di Pietro, di cui il testo segnala sia la chiamata da parte di Gesù ex iisdem (Gv 21,15-17),

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sia la forma specifica di ministero, con il verbo praefecit. Il concilio non tratta e non risponde ad altre precise questioni: - la maniera precisa in cui il Gesù storico ha trasmesso agli apostoli una missione al di là d’Israele; - quali elementi di formazione della Chiesa possono risalire storicamente a Gesù; - in quale senso tutti gli apostoli siano “fondamento” (Ef 2,20, comparato con Mt 16,18) della Chiesa. Ne derivano conseguenze rilevanti in rapporto alla Chiesa. 2.2 - Si legge nel testo conciliare: «Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (Mc 3, 13-19; Mt 10,1-42); e questi li costituì apostoli (cf. Lc 6, 13) sotto forma di un collegio o di un gruppo stabile» (LG 19). I testi biblici: Mc 3,13-19 Mt 10,1-42 Lc 6,13 Gv 21,15-17 Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48; Gv 20-28-29. Mc 3,13-19 contiene la chiara indicazione che i dodici furono istituiti come gruppo indiviso (sono chiamati “gli apostoli”, vale a dire gli “inviati” a predicare il Regno di Dio). La forma spirituale che il Signore ha stabilito – i «dodici» - è collegiale. E’ un gruppo stabile permanente, associato alla missione di Gesù. Si tratta di una vera, libera chiamata al ministero, ossia dell’atto fondativo del loro ministero (Gv 15,16)17.

Gv 21,15-17 indica la struttura interna del gruppo: Cristo costituì Pietro pastore universale, ma in maniera tale che, anche in seguito, egli appartiene al collegio dei «dodici».

Sui due testi biblici di Mc 3,13-19 e Gv 21,15-17 poggia l’affermazione fondamentale: Cristo istituì gli apostoli “come collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro scelto tra loro”. Il ricorso al termine “collegio” era fortemente contestato, ma anche vigorosamente sostenuto dai Padri conciliari. Per alcuni, «collegio» aveva un significato sospetto e improprio (secondo la tradizione giuridica romana e canonica «formano un collegio coloro che posseggono un eguale potere»); per altri, il termine era antico e tradizionale, pienamente legittimo. La Commissione teologica ritenne di superare le difficoltà aggiungendo al termine “collegio” la designazione di “gruppo stabile”. Con il termine «collegio» il concilio voleva ribadire soltanto questo: i dodici furono istituiti da Cristo come entità inseparabile polarizzata intorno a Pietro, capo del gruppo ma insieme uno dei dodici, quindi come gli altri. Restano esclusi altri significati (NEP, n. 1). Con l’uso del termine collegio, il concilio traduce la verità della Scrittura nei concetti della teologia, dischiudendola a ulteriori elaborazioni. 2.3 - L’indole collegiale del gruppo apostolico si rivela, oltre che nell’istituzione del collegio dei dodici e nella sua struttura interna, nel modo di agire dei suoi membri. L’attività del gruppo, che ha destinazione universale, si svolge «per modum unius» sotto la guida del Signore: “Andate e ammaestrate tutte le genti…” (Mt 28,19-20). Sotto la presidenza di Pietro, gli altri apostoli agiscono insieme non soltanto nel cosiddetto “concilio di Gerusalemme”, ma anche in altre occasioni importanti per la Chiesa, come nell’elezione di Mattia e nell’istituzione dei diaconi (Atti 1,21-26; 6,2-6). Gli apostoli sono confermati nella comune missione dall’esperienza collegiale della discesa dello Spirito Santo (Atti 2,1-5 e 24). Quest’insieme di parole e di fatti, che sono ugualmente espressione autentica della stessa Rivelazione divina, dice che la Chiesa è nata dall’attività congiunta dei dodici (BETTI, pp. 350-352). Segue l’affermazione che la Chiesa è stata fondata da Cristo su Pietro (affermazione tradizionale, pacificamente accolta) e gli apostoli (affermazione contestata)

17 Sull’uso della Scrittura, del Padri e del Magistero nel concilio e nella Lumen gentium, cf. G. ROUTHIER, «Introduzione», in S. NOCETI E R. REPOLE (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II. 2. Lumen gentium, pp. 59-64.

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2.4 – Dalla dottrina che Cristo ha istituito gli apostoli con a capo Pietro ne consegue che la Chiesa è fondata non solo su Pietro, ma anche sugli altri apostoli: essa è «fondata sugli apostoli ed edificata sul beato Pietro loro capo» (LG, n. 19). Pietro (Mt 16,18) e gli apostoli (Apoc 21,14 e Ef 2,20) costituiscono il fondamento della Chiesa:

i dati biblici (Ef 2,20; Ap 21,14); l’apporto della liturgia (sacramentario gregoriano; lex orandi – lex credendi) e della teologia (Padri: Pastore di Erma, Ilario di Poitiers, Girolamo, Agostino: PHILIPS, pp.

208-210). 2.5 – «Collegio, ossia ceto stabile»: l’aggiunta «ceto stabile» non intende attenuare il carattere essenzialmente comunitario dell’ufficio apostolico, ma allontanare gli equivoci che potessero derivare dalla parola «collegio». Chiarisce la NEP: «1. Collegio non si intende in senso strettamente giuridico, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandato il loro potere al loro preside, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità devono essere dedotte dalla rivelazione». 2.6 - «Apostolicità»: due sono gli aspetti da considerare, l’apostolicità di dottrina e l’apostolicità di ministero. La prima è vissuta in tre grandi categorie: il sensus fidei/fidelium, i carismi e il sacerdozio battesimale. La seconda fa riferimento all’episcopato, al presbiterato e al diaconato. 3. I vescovi, successori degli apostoli - articolo n. 20 Affermata la realtà dell’istituzione del collegio degli apostoli, il Vaticano II tratta la questione della loro successione nel collegio episcopale: «Il sacro concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli apostoli, quali pastori della Chiesa» (LG, n. 20). 3.1 – Nell’art. 20 si afferma che la natura collegiale del gruppo apostolico conserva la sua stabilità originaria e perdura nei vescovi che, per volontà di Cristo, ne ereditano la missione e la portano a compimento. Tre i passaggi fondamentali: 1° continuazione del ministero apostolico dopo l’ascensione di Cristo al cielo; 2° effettiva trasmissione del ministero apostolico ai vescovi; 3° successione del collegio episcopale al collegio apostolico. Ad 1° – La continuazione del ministero apostolico ha come motivazione principale la perpetuità della Chiesa (la citazione di Mt 28,20 [«Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo»] è d’importanza fondamentale). Dovendo questa durare fino alla fine del mondo, anche la missione degli apostoli deve avere la stessa durata, perché su di loro Cristo l’ha fondata (BETTI, pp. 355-356). Si noti come il primo capoverso non proceda secondo un ragionamento a priori, deduttivo, ma facendo riferimento alle parole e alle azioni di Gesù. Anche se Gesù non ha mai parlato espressamente o direttamente di successione apostolica, tuttavia da alcuni brani del vangelo (cf. Mt 16,18; 20, 20; Gv 14, 16; 17,17) appare chiaramente che l’apostolato dei dodici è universale, destinato a tutti i popoli, di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La successione è scritta nella stessa missione affidata agli apostoli: c’è identità tra la Chiesa delle origini e la Chiesa di ogni età. Ad 2° – La costituzione procede alludendo allo sviluppo storico dell’istituzione dell’episcopato. Rimanendo ancorato agli scritti neo-testamentari, il testo accenna ai collaboratori degli apostoli nel ministero, che il Nuovo Testamento e poi la lettera di Clemente romano fanno apparire progressivamente come continuatori della loro missione, e finalmente come loro successori. Il concilio è consapevole dell’esistenza di una pluralità di ministeri, come è testificato dagli scritti neo-testamentari e immediatamente post-apostolici, ma rileva che tra tutti tiene il primo posto «l’ufficio dell’episcopato, per successione che decorre fin dall’origine» (n. 20b). Affermava Sant’Agostino: «Gli apostoli ti hanno generata: sono stati inviati, hanno predicato, essi, i tuoi padri.

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Ma perché non sono rimasti sempre corporalmente con noi? È abbandonata la Chiesa, ora, per il fatto della loro dipartita? No, davvero … In luogo degli apostoli ti sono nati dei figli, sono stati creati dei vescovi» (In ps. 44, 32: PL 36, 313; cf. BETTI, pp. 356-362; PHILIPS, pp. 212-217). Ad 3° – Nel terzo capoverso dello stesso articolo, si rende comprensibile lo scopo dell’istituzione dell’episcopato. I vescovi, con i loro collaboratori presbiteri e diaconi, sono chiamati ad assumere il servizio della comunità cristiana, e questo servizio si esplica propriamente come maestri della dottrina, sacerdoti del sacro culto e ministri del governo della Chiesa. A questo punto si espone in forma dottrinale il principio della successione apostolica con questa dichiarazione: «Come permane l’ufficio del Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli e da trasmettersi ai suoi successori, così permane l’ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei vescovi» (n. 20c). Infine, la conclusione rispecchia un carattere chiaramente dogmatico: «Perciò il sacro concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli apostoli, quali pastori della Chiesa» (ivi). “In locum apostolorum succedunt” deve intendersi nel senso che, gli uni dopo gli altri, essi subentrano ai dodici. L’espressione era già stata usata dal concilio di Trento (DHü 1768) e dal Vaticano I (DHü 3061). Altre volte è usata la formula: «successori degli apostoli» (cf. Leone XIII, nella lettera Est sane; Pio XII, nella Mystici corporis; ecc.). La successione avviene da collegio apostolico a collegio episcopale. Commenta K. Rahner: «La frase (LG n. 20c: citata qui sopra) assume una grande importanza: oggettivamente essa non dice soltanto che il ministero biblico petrino trova la sua continuazione legittima nel primato romano, e che la dignità apostolica biblica (dei Dodici) la trova nell’episcopato, ma essa presuppone senza restrizione che l’origine e la fondazione biblica nei due casi [ … ] è la stessa» (RAHNER, p. 25). 3.2 Nota – Nei nn. 18-20 della Lumen gentium il concilio Vaticano II riprende e conferma la concezione tradizionale secondo cui Gesù ha «fondato» la Chiesa. Questa concezione si basa su determinati passi biblici, in particolare Mt 16,18; 18,18; 28,16-20; Lc 22,17-20; Gv 20,23. In questi passi, la concezione tradizionale legge la «fondazione» (institutio) della Chiesa da parte del Gesù terreno e risorto. Secondo questa teoria Gesù ha posto in modo esplicito e formale determinati atti con i quali ha fondato la Chiesa come una società (societas) visibile, le cui strutture giuridiche essenziali sono determinate giuridicamente sulla base della sua volontà (gli atti di tale volontà sono l’istituzione del primato petrino / papale, la chiamata e la costituzione del collegio apostolico / episcopale, il conferimento della potestà agli apostoli e alla gerarchia, l’istituzione dei sacramenti, ecc.). La Commissione teologica internazionale nel suo documento Temi scelti di ecclesiologia (reso pubblico in occasione del XX° anniversario della conclusione del concilio ecumenico Vaticano II, datato Roma 8 ottobre 1985) afferma che «l’intera opera e tutta la vita di Gesù costituiscono in certo qual modo la radice e il fondamento della Chiesa, la quale è come il frutto di tutta la sua esistenza». Dunque, più che a singoli atti istitutivi della Chiesa, si deve fare attenzione all’intera opera e a tutta la vita di Gesù. Il testo così continua: «La fondazione della Chiesa presuppone l’insieme dell’opera salvifica di Gesù nella sua morte e risurrezione, come pure la missione dello Spirito. Per questo nell’agire di Gesù è possibile riconoscere elementi preparatori, sviluppi progressivi e tappe che conducono alla fondazione della Chiesa» (testo in La Civiltà Cattolica IV [1985], pp. 446-482, qui p. 450). L’esegesi e la teologia postconciliari hanno messo in questione la teoria tradizionale e molti autori l’hanno anche abbandonata. Si veda: KEHL, pp. 259 ss. Il nesso storico tra il Gesù terreno e la Chiesa che nasce nel periodo postpasquale, dagli autori è spiegato in vari modi. Ad esempio, il Kehl utilizza il concetto di continuità strutturale per indicare il legame tra le pre-forme della Chiesa nella vita del Gesù storico e la loro attualizzazione postpasquale. Questo significa che, in mutate condizioni storiche - dopo la morte e la resurrezione di Gesù, dopo l’invio dello Spirito e dopo il nuovo rifiuto di gran parte d’Israele - alcuni elementi strutturali centrali della Chiesa si possono spiegare come conseguenze legittime della storia di Gesù. L’Autore considera «segni generatori di comunità» su cui si fonda la continuità strutturale tra il

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Gesù storico e la Chiesa che si forma dopo la Pasqua: 1° l’aspetto comunitario della salvezza che si compie nella ‘ekklesia di Dio’; 2° il pasto comune (o banchetto) segno del «corpo di Cristo» (1 Cor 12,27; cf. Rom 12,5); 3° il «popolo di Dio» segno di salvezza per tutti i popoli; 4° la missione dei discepoli, degli apostoli, dei ‘pastori’, chiamati ad annunciare autorevolmente la parola di Dio nella comunità e di fronte ad essa (KEHL, pp. 269-305). 4. La sacramentalità dell’episcopato - articolo n. 21 Articolo fondamentale, indispensabile. Risponde alla domanda: come avviene il passaggio da un collegio ad un altro? Va tenuta presenta l’evoluzione dello schema. PHILIPS, p. 219. La solenne affermazione «Docet autem Sancta Synodus episcopali consecratione plenitudinem conferri sacramento Ordinis» costituisce il cuore del n. 21 di Lumen gentium ed è uno dei testi chiave della teologia del ministero ordinato del Vaticano II. «Sancisce una vera e propria svolta rispetto all’interpretazione del ministero del vescovo che ha segnato tutto il secondo millennio, con il superamento della separazione di potestas ordinis e iurisdictionis, che da Pietro Lombardo in poi è stata una delle matrici della visione ecclesiale e ministeriale della Chiesa d’Occidente e della Chiesa Cattolica in specie»18. 4.1 – La successione apostolica dei vescovi trova il suo fondamento dogmatico nella dottrina sulla sacramentalità dell’episcopato. I quattro paragrafi di LG, n. 21, si presuppongono e chiarificano a vicenda. 4.2 – LG, n. 21, § 1. Il paragrafo inizia descrivendo la relazione tra il Signore Gesù Cristo e i vescovi, mettendo in luce la presenza dinamica di Cristo risorto che si irradia in modo salvifico nella Chiesa in molteplici modi e quindi anche nella persona dei vescovi. Gli argomenti usati sono di natura eminentemente biblica (1 Cor 4,15), ma anche patristica.

L’episcopato è l’attuazione permanente della presenza salvatrice di Cristo. Mediante il ministero dei vescovi Cristo “annuncia la parola (…), amministra i sacramenti (…), incorpora al suo corpo (…), guida e orienta il popolo del Nuovo Testamento” (PHILIPS, pp. 220-223). Questa presenza attiva di Cristo nei vescovi esige un legame ontologico tra Cristo e i vescovi stessi: avviene attraverso il sacramento dell’ordine. 4.3 – LG, n. 21, § 2. Il testo inizia affermando che il dono dello Spirito Santo fatto agli apostoli è trasmesso ai collaboratori mediante l’imposizione delle mani. Esempio citato: 1 Tim 4,14 e 2 Tim 1,6-7. Lo stesso testo contiene una seconda affermazione: il dono dello Spirito continua e seguita ad essere trasmesso mediante la consacrazione episcopale. Tale consacrazione ha il carattere di sacramento. Valore del rimando al concilio di Trento: Sess. XXIII, cap. III (DHü 1766). La dottrina sulla sacramentalità dell’ordinazione episcopale, presuppone quella del Tridentino sulla sacramentalità dell’ordinazione sacerdotale in generale. L’imposizione delle mani continua a vivere proprio e soprattutto nell’ordinazione episcopale. La sacramentalità dell’ordinazione episcopale viene confermata con il richiamo alla liturgia e alla tradizione.

Insegnamento del concilio Vaticano II : mediante la consacrazione episcopale è conferita la pienezza del sacramento dell’ordine.

Il concilio Vaticano II abbandona, intenzionalmente, la concezione del sacramento dell’ordine conferito per gradi, secondo la quale si avrebbe un’amplificazione progressiva fino ad attingere il vertice nella consacrazione episcopale. Annota p. Betti: «Pienezza del sacramento dell’ordine: intesa non come addizione ai gradi inferiori dello stesso sacramento; ma come il

18 NOCETI, «La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato», in S. NOCETI E R. REPOLE (a cura di), Commentario ai documenti del Vaticano II. 2. Lumen gentium, pp. 240.

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principio fontale da cui ogni altro grado discende. Chi cioè è consacrato vescovo, sia o no antecedentemente ordinato sacerdote o diacono, riceve la pienezza del sacerdozio di Cristo nella misura in cui è comunicabile ad una creatura» (BETTI, p. 368). Questa pienezza sacerdotale porta con sé, per esigenza congenita, tutti i poteri ordinati al ministero della salvezza. Il vescovo rende presente Cristo come sacerdote, maestro e pastore.

Il ministero episcopale non è più compreso a partire dal semplice sacerdozio, come suo grado più alto, ma come la realizzazione primaria e completa dell’ordinazione sacramentale per il ministero. Tutti gli altri gradi sacramentali partecipano in modo limitato alla potestà del grado episcopale (K. Rahner). Un’ordinazione episcopale è valida anche senza previa ordinazione presbiterale. Lungo i secoli si è verificato frequentemente. 4.4 – LG, n. 21, § 3. «La consacrazione episcopale, insieme all’ufficio di santificare, conferisce anche gli uffici d’insegnare e di governare; questi però, per loro stessa natura, non possono essere esercitati se non in comunione gerarchica col capo e con i membri del collegio» («Episcopalis autem consecratio, cum munere sanctificandi, munere quoque confert docendi et regendi, quae tamen natura sua nonnisi in hierarchica communione cum Collegii Capite et membris exerceri possunt»).

Quest’affermazione del concilio segna uno dei progressi più notevoli e più attesi della teologia dell’episcopato. A partire dall’alto medioevo, si era introdotta una separazione tra il potere di ordine (conferito dall’ordinazione) e il potere di giurisdizione e di governo (conferito dalla bolla papale di nomina). In questa linea si tende a distinguere molto nettamente tra i due tipi di potere, l’uno sacramentale e l’altro giuridico. L’inciso “natura sua”, riferito al munus regendi et docendi, è stato introdotto, nella redazione finale, su richiesta di Paolo VI. Il testo va letto tenendo presente l’allocuzione pronunciata da Paolo VI il 14 settembre 1964, all’apertura del terzo periodo del concilio, dove distingue tra potestà di ordine ricevuta nella consacrazione e la potestà di governo che distingue il romano pontefice dai vescovi. L’esercizio dei munera di governo e di insegnamento è possibile solo «in comunione cum collegii capite et membris».

La dottrina della LG, riconducendo le due realtà alla loro radice comune, ha il merito di far apparire il concetto di sacramento e di giurisdizione in una luce nuova, o piuttosto ambedue riappaiono nella luce originaria della tradizione antica.

La consacrazione comprende il triplice ufficio della santificazione, dell’insegnamento e del governo: è dunque superata la distinzione tradizionale tra la potestas ordinis, conferita nella consacrazione, e la potestas iurisdictionis, conferita dal Papa. L’intero munus episcopale deriva – analogamente a quanto avviene nella vocazione degli apostoli - immediatamente da Gesù Cristo e dal dono dello Spirito. Tuttavia, come Gesù ha chiamato gli apostoli e li ha mandati con autorità solo come ‘collegio’, così anche il ministero episcopale «per sua natura può essere esercitato solo nella comunione gerarchica con il capo e i membri del collegio».

Il dato storico: PHILIPS, p. 225, 228. La motivazione teologica decisiva: anche le funzioni di magistero e di governo hanno valore santificante perciò devono essere conferite per via sacramentale (unità del munus, che ha aspetti diversi ma indivisibili l’uno dall’altro). Per il concilio, è chiara l’unità di tutte le potestà ministeriali nella Chiesa, il loro radicamento sacramentale e la loro natura pneumatologica (ivi compresa anche la potestà giuridica) di tutte le potestà. Il conferimento del munus episcopale mediante la consacrazione fa sì che questa sia il sacramento della successione apostolica: il mezzo indispensabile per entrare a far parte del collegio episcopale, che succede appunto a quello apostolico. A partire da questa prospettiva si dà fondamento teologico ai Vescovi titolari e emeriti. Pienezza di munus conferito e suo esercizio: i due momenti non coincidono. L’esercizio resta vincolato all’organismo ecclesiastico come Cristo l’ha istituito. Al romano pontefice compete assegnare i fedeli sui quali il vescovo esercita il munus. Tale assegnazione o di fedeli o di una particolare mansione nella Chiesa proviene dal capo del collegio, in ogni caso da norme da lui approvate. Il concetto è espresso con la formula “comunione gerarchica” (in hierarchica

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communione). La parola “gerarchica” indica, di per sé, esclusivamente la relazione tra il capo del collegio e i vescovi, che ne divengono membri in forza della consacrazione; è un uso improprio quello di indicare il rapporto tra l’uno e l’altro dei membri del collegio. La relazione tra il capo del collegio e i vescovi si esprime nella forma giuridica di vera e propria permanente dipendenza dei membri dal capo. Questa dipendenza è insita nel sacramento. Il conferimento del libero esercizio dei poteri costituisce un momento successivo. Sacramento e diritto sono compresi in modo nuovo. L’affermazione: “gli uffici di insegnare e governare non possono esser esercitati, per loro natura, se non in comunione gerarchica con il capo e con le membra del collegio”, è fondamentale. Infatti, se per un verso è vero che l’ufficio episcopale non è una creazione del papa, ma trae la sua origine in un atto sacramentale ed esprime un aspetto indistruttibile della Chiesa, per un altro verso la conditio sine qua non per esercitare quest’ufficio è la comunione gerarchica con il papa e con tutti gli altri membri del collegio episcopale. Problemi aperti dall’affermazione del Vaticano II. Che cosa pensare di uno eletto papa che non sia ancora stato consacrato vescovo? Che cosa pensare di uno eletto vescovo, che prima di essere consacrato partecipa al concilio ecumenico oppure esercita i poteri di insegnare e di governare? In riferimento all’eletto papa, ma privo del carattere episcopale, cf. c. 332, § 1. Cf. BETTI, pp. 371-373, 381-382; PHILIPS, 226-227. 4.5 – LG, n. 21, § 4. Le due parti dell’enunciato conclusivo:

- sacramentalità della consacrazione (accanto alla fondazione biblica viene adottata, per giustificare il carattere originariamente collegiale del ministero episcopale, la prassi della communio vigente nella Chiesa antica, la realtà dei concili e la liturgia di consacrazione che è compiuta collegialmente);

- potere sacramentale che compete ai vescovi in rapporto al sacramento che li ha costituiti. Sul secondo enunciato («è proprio dei vescovi assumere nuovi eletti nel corpo episcopale col sacramento dell’ordine»), secondo il p. BETTI “il concilio ha accusato un progressivo ripiegamento, conclusosi con una vera e propria ritirata. (…) E’ deludente” (p. 375). Doveva essere più esplicito e dire: chi non ha la pienezza dell’ordine nemmeno la può comunicare ad altri. Il peso della problematica storica sulla scelta conciliare: PHILIPS, pp. 233-237. Dal contesto complessivo di LG, n. 22 si può concludere che «la totalità dei vescovi e la loro potestà non è la somma successiva dei singoli vescovi e delle loro potestà, ma questa unità complessiva, come realtà di carattere morale-giuridico, fondata sacramentalmente (LG 21), dunque sorretta dallo Spirito Santo, precede (oggettivamente) il singolo vescovo in quanto tale …» (K. RAHNER, «Kommentar zu Lumen genitum 18-27», p. 218). La consacrazione inserisce il singolo in questo collegio, così che la potestà episcopale che gli è conferita personalmente mediante la consacrazione gli spetta solo in quanto membro di questo collegio. Conferimento personale dell’autorità per essere vescovo di una Chiesa locale e inserimento collegiale nell’organo di governo della Chiesa universale sono realizzati nella consacrazione in modo ugualmente originario così che essi si condizionano reciprocamente (KEHL, p. 358). Si faccia attenzione ad alcune importanti conseguenze. Esiste un rapporto mutuo e intrinseco tra il sacramento dell’ordine in quanto ordinato al servizio dell’Eucaristia e il potere che nella consacrazione episcopale è dato in riferimento all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. L’Eucaristia e la Chiesa sono ordinate l’una all’altra. Applicando questa riflessione all’episcopato, possiamo concludere che l’ufficio dei vescovi è ordinato all’edificazione della Chiesa, ma proprio per questo è legato in modo specifico con l’Eucaristia e con l’essenza del sacramento dell’ordine. Il ministero del vescovo, appunto perché deve servire l’unità della comunione nella Chiesa, mettendo in rapporto la singola Chiesa particolare con le altre Chiese particolari e, al vertice, con la Chiesa di Roma, esprime l’esigenza essenziale della comunione, soltanto quando essa è realizzata e conserva la sua legittimità intrinseca.

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Per questo motivo, l’ufficio episcopale deve essere costruito collegialmente, perché per sua natura deve adempiere al ministero dell’unità della Chiesa. La comunione gerarchica non appare come un elemento estrinseco al sacramento dell’ordine, ma come un suo sviluppo connaturale intrinseco (RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, pp. 191-199). 5. La collegialità episcopale: il collegio dei vescovi e il suo capo – articolo n. 22

La riscoperta del carattere collegiale dell’episcopato rappresenta uno degli elementi di novità del concilio Vaticano II. Il tema è affrontato ex professo in Lumen gentium 22. Per alcuni commentatori si ha qui il «centro di gravità del Vaticano II» (Wenger), «la spina dorsale del concilio» (Betti), «quasi il cuore del concilio Vaticano II» (Relatio, Parente). Il primo capoverso del n. 22 richiama la connessione tra collegio episcopale e collegio apostolico. Vengono poi indicate le condizioni di appartenenza al collegio. La parte centrale del n. 22 è dedicata alle relazioni tra il papa e il collegio. L’ultimo capoverso è dedicato all’esercizio della potestas da parte del collegio. L’affermazione sulla collegialità episcopale di Lumen gentium 22 è indubbiamente un «concetto centrale e fondamentale del Vaticano II»19. Permangono punti oscuri, dovuti a una mancata armonizzazione tra le diverse ecclesiologie presenti, quella universalistica e quella della communio ecclesiarum. 5.1 - L’art. 22 della LG non è dei più agevoli a leggersi. Ogni parola e ogni riga sono state pesate al fine di prevenire eccessi, dubbi e incertezze. “Uno degli obiettivi del testo era di fissare l’attenzione sulla funzione e il potere dell’ordine episcopale, non solo per situare con più equilibrio in una luce migliore le definizioni del 1870, ma anche per dare ai vescovi e ai cristiani orientali la garanzia che i diritti dell’episcopato sono pienamente riconosciuti, e con ciò favorire presso tutti una più esatta comprensione della dottrina cattolica in questa materia” (PHILIPS, p. 269). Va tenuto presente l’apporto complementare della NEP. La LG si muove nell’atmosfera della communio, la NEP si applica di più alle considerazioni giuridiche. Risultato: siamo di fronte a un testo sovraccarico e pesante. Il testo conciliare raccoglie quattro proposizioni che si incrociano tra loro. L’ordine logico può essere così costruito20: - fondamento biblico della relazione (Mt 16,18-19 e Gv 21,15 / Mt 28,16-20) - il collegio, soggetto di autorità (suprema e piena potestà sulla Chiesa) - il collegio esiste e opera solo con il suo capo, il papa (cf. NEP, n. 3-4) - il papa può sempre esercitare liberamente la sua potestà (cf. NEP, n. 3)21. 19 J. RIGAL, «Ccommunion ecclésiale et collégialité épiscopal», in Bullettin de Littérature ecclésiastique 107 (2006), pp. 67-100. 20 Si veda GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Ut unum sint, n. 95. 21 Il concilio Vaticano II ha presente i precedenti interventi di Pio VI (cf. Bolla Auctorem fidei [DHü 2602-2608]) e del concilio Vaticano I nei confronti di tesi, formulate nei secoli XVI-XVIII, che non potevano essere accolte: il gallicanesimo (rivendicava la libertà della Chiesa nazionale di Francia nei confronti del potere pontificio: cf. gli “articoli gallicani” del 1682, redatti da J. B. Bossuet), il conciliarismo (affermava la superiorità del concilio sul papa, confluito nei concili di Costanza e Basilea), il giuseppinismo o regalismo illuminato (si cercava, in modi diversi, di limitare il potere del papa: concezione diffusa negli ambienti accademici ed ecclesiastici del centro Europa, dal sec. XVII fino alla vigilia del Vaticano I). Gli esponenti più noti di quest’ultima corrente sono: - JOHANNES NIKOLAUS VON HONTHEIM (1701-1770), più noto sotto il pseudonimo “Febronius”, con il quale pubblicò l’opera: De statu ecclesiae et legittima potestate Romani Pontificis, de1763: sosteneva che il papa ha soltanto potestà di “ordine e di vigilanza” e non di “giurisdizione”: il papa è un primus inter pares ed è paragonabile al metropolita in rapporto ai vescovi suffraganei; - JOSEPH VALENTIN EYBEL (1741-1805), canonista di Vienna: sosteneva che il papa e i vescovi hanno uguali poteri e che il papa ha giurisdizione soltanto nella sua diocesi, può intervenire nelle altre diocesi solo nel caso straordinario di negligenza grave dei vescovi e dei metropoliti; - PIETRO TAMBURINI (1737-1827), giansenista italiano: sosteneva che la

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5.2 – LG, n. 22, § 1a. Descrive il rapporto Pietro / apostoli – romano pontefice / vescovi22. Il testo conciliare stabilisce l’esistenza del collegio episcopale: «Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano pontefice successore di Pietro e i vescovi successori degli apostoli sono congiunti fra di loro» (n. 22, § 1a). Sono da ricordare, preliminarmente, le difficoltà della minoranza dei padri sinodali su questa formula23: PHILIPS, p. 245. L’introduzione della formula “comunione gerarchica” e suo significato: cf. la NEP, n. 2. Il testo conciliare attribuisce l’istituzione del collegio apostolico allo stesso Signore: statuente Domino. Se Cristo affidò la Chiesa non a Pietro soltanto, ma anche agli altri apostoli, viene da sé che anche in seguito essa resti affidata, per volontà dello stesso Signore, non al successore di Pietro soltanto, ma anche agli altri vescovi a lui congiunti. Ciò non costituisce un attentato al primato papale né importa una minore dipendenza dei vescovi dal romano pontefice. E’ semplicemente esigenza della continuità della Chiesa nella sua identità originaria: il rapporto Pietro-apostoli deve avere riscontro nel rapporto successore di Pietro-successori degli apostoli. Tra collegio apostolico e collegio episcopale non c’è assoluta identità, ma giusta proporzionalità (il concilio non usa il termine “collegio” in ordine al rapporto papa-vescovi, ma una frase descrittiva: “inter se coniunguntur”). La relazione di Pietro con gli altri apostoli è analoga (somigliante: pari ratione) alla relazione che unisce il papa, successore di Pietro, con gli altri vescovi (cf. NEP, n. 1). Il collegio episcopale non eredita le prerogative straordinarie, e quindi non trasmissibili del collegio apostolico. E ciò si verifica tanto per il capo che per i membri del collegio stesso, sebbene in misura diversa. Detto in altri termini: il papa succede all’apostolo Pietro e riceve l’ufficio di Pietro per il servizio di unità nella Chiesa universale; il vescovo non succede ad un apostolo singolo, ma insieme e mediante il collegio dei vescovi, succede al collegio degli apostoli. Di conseguenza, possiamo dedurre che il vescovo è tale solo nell’inserimento nel tutto del collegio episcopale e l’ufficio ministeriale del vescovo deve essere precisato e determinato riguardo alla sua posizione nell’insieme. Il papa, pur stando all’interno del collegio, ma “in forza del suo ufficio, di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può essere esercitata liberamente” (n. 22b) (cf. POZZO, p. 117). 5.3 – Sempre in LG, n. 22, § 1b, viene descritta come si è concretamente attuata la collegialità episcopale. Sono individuati tre fatti storici:

- la comunicazione dei vescovi tra di loro (mediante lettere), - la celebrazione dei concili a tutti i livelli, in particolare dei concili ecumenici, - la presenza di più vescovi al rito di consacrazione di un nuovo eletto all’episcopato. La collegialità, iscritta nel fatto stesso dell’istituzione del collegio apostolico, si prolunga

nella Chiesa secondo diversi modi quale espressione della prassi apostolica.

“primazia non è altra cosa che un diritto d’ispezione e di vigilanza in tutta l’estensione della Chiesa”; secondo il Tamburini la primazia del papa non comporta una giurisdizione episcopale sulla Chiesa universale, ma è soltanto una giurisdizione mediata, è cioè sottomessa alla giurisdizione che i vescovi hanno nella propria diocesi: cf. l’opera Vera idea della Santa Sede (1784); - CARLO PASSAGLIA (1812-1887), sosteneva posizioni molto simili a quelle di Pietro Tamburini: il papa ha potestà episcopale nella sua diocesi, mentre in riferimento agli altri vescovi e ai fedeli ha soltanto potestà primaziale, che comporta una funzione di supplenza e di vigilanza nei loro confronti. 22 Cf. G. DEJAIFVE, «Le parallélisme entre le Collége apostolique et le Collége épiscopal», in Istina (1964), pp. 103-110. 23 Decisa l’opposizione di Mons. Luigi Maria Carli, Vescovo di Segni. Egli sosteneva che “collegio” era un termine inadeguato, pericoloso e non necessario, perché desunto dal diritto civile, perché estraneo al vangelo, perché nulla aggiunge all’unità ontologica del coetus apostolorum prima e del coetus episcoporum ora.

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5.4 – Il concilio affronta la questione dei requisiti per essere membri del collegio episcopale. Sono indicati in questa breve frase: «Uno è costituito membro del corpo episcopale, in forza della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica con il capo e i membri del collegio» («Membrum Corporis episcopalis aliquis constituitur vi sacramentalis consecrationis et hierarchica comunione cum Collegii Capite atque membris») (LG, n. 22, § 1c). Sono da richiamare le difficoltà della minoranza su questa formula: PHILIPS, p. 245.

L’affermazione: «Uno è costituito…» è strettamente collegata con quella che asserisce che «la consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare» (LG, n. 21). Commenta J. RATZINGER: “In queste due proposizioni si esprime un fatto di un’importanza tale che difficilmente può essere sopravvalutata. Il limite severo che da secoli si era introdotto, nel pensiero della maggior parte dei teologi occidentali, tra il potere di ordine e il potere di giurisdizione, si rende ora permeabile, e lo stretto incrocio delle due realtà che, in definitiva, ne costituiscono una sola, appare chiaro davanti allo sguardo”24. La separazione delle due potestà aveva portato a rifiutare il carattere sacramentale della consacrazione episcopale e oscurare sempre più l’idea stessa di collegialità.

Ora, invece, il testo della costituzione nomina due radici della collegialità: la consacrazione sacramentale e la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra.

Ciò significa: - una radice sacramentale nella stessa consacrazione episcopale, che è, per natura sua,

inserimento nella comunità del servizio episcopale; - lo sviluppo di questo dato nella comunione effettiva col capo e con gli altri membri di

questo collegio. Il collegio non è un elemento esterno al sacramento dell’ordine, ma come il suo sviluppo

connaturale. L’ufficio episcopale si compie nella mutua comunione. La stessa consacrazione sacramentale incorpora nel collegio episcopale tutti indistintamente

i vescovi, compreso il Romano Pontefice25. Commenta il p. BETTI: «Di conseguenza, dal momento della consacrazione ciascun vescovo unito al successore di Pietro è, appunto, in quanto membro del collegio, ordinato alla Chiesa universale. La potestà collegiale ha priorità ontologica rispetto a quella individuale, propria a ciascuno dell’ambito del suo particolare ministero; ed è la sorgente della sua attuazione concreta” (p. 380). L’incorporazione richiede:

- la consacrazione sacramentale, - la comunione col capo e con i membri del collegio.

I due requisiti, osserva il BETTI, non sono sullo stesso piano: il primo è causa efficiente (il testo dice: «in forza della consacrazione sacramentale»), il secondo è condizione indispensabile (il testo dice: «mediante la comunione»). Si ripete quanto accade nella consacrazione che conferisce la pienezza di munus, mentre la comunione è soltanto la condizione per il suo esercizio (p. 381).

E’ ormai chiaro che il collegio dei vescovi non è una creazione del papa, ma trae la sua origine da un atto sacramentale e rappresenta un dato insopprimibile della struttura della Chiesa. All’interno del collegio episcopale, che rappresenta la varietà e l’universalità del popolo di Dio, il vescovo di Roma, come costitutivo elemento intrinseco, impersona l’unità della Chiesa e del collegio. Esiste dunque nella Chiesa in modo ugualmente originario tanto la forma collegiale come quella primaziale della suprema autorità; l’una e l’altra possono essere esercitate insieme.

Questo legame reciproco non vale solo per il collegio episcopale ma, in maniera analoga, anche per il ministero petrino. Proprio in questo consiste la nuova ricezione da parte 24 «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», in La costituzione gerarchica della Chiesa, p. 43 (in Il nuovo popolo di Dio, p. 192). 25 Sul modo di intendere la relazione tra Pietro e i dodici, tra il successore di Pietro e il collegio dei vescovi, che succede ai dodici, cf. L. BOUYER, La Chiesa di Dio, Cittadella Editrice, Assisi 1971, pp. 448-450.

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del Vaticano II dei dogmi del Vaticano I sul papa. Le due modalità della suprema potestà hanno carattere ugualmente originario e tra loro sono reciprocamente legate. Come Pietro non è stato costituito pastore al di fuori del collegio apostolico, così anche il papa non può attuare il suo servizio primaziale per l’unità della Chiesa al di fuori o al di sopra del collegio episcopale

Ulteriore conseguenza: il concetto di sacramento e quello di giurisdizione entrano in una luce nuova, quella della teologia del primo millennio. L’ufficio episcopale non rappresenta semplicemente un incarico di organizzazione esterna, ma è compimento della stessa realtà sacramentale: «L’ordine nella Chiesa spunta fuori e si sviluppa dal sacramento, e il sacramento non appare più semplicemente come un dono fatto ai singoli, ma come un inserimento in un ‘Ordo’ (…). Inversamente, la giurisdizione è come il concreto svolgimento di ciò che è stato dato nel sacramento; svolgimento che deve essere legittimamente regolato con l’assegnazione positiva di determinati ambiti di giurisdizione»26. 5.5 – LG 22, § 2a. “Ma il collegio o corpo dei vescovi non ha autorità se non lo si comprende insieme col romano pontefice successore di Pietro come suo capo; questi conserva integra la potestà primaziale su tutti, sia pastori sia fedeli”. Il collegio episcopale comprende il romano pontefice come suo capo per esigenza intrinseca: tanto sul piano ontologico quanto su quello operativo. «Ciò non vuol dire che sia il romano pontefice a dare esistenza e autorità al collegio come dall’esterno. Al contrario: egli rimane all’interno come elemento costitutivo, perché congenito. Dalla congiunzione dei membri e del capo trae origine il collegio, e come tale sussiste in modo permanente. La relazione quindi papa-vescovi non è a senso unico, quasi che il corpo episcopale riceva tutto dal capo, e in definitiva si risolva in un ‘Petrus totus’. Agli effetti dell’esistenza e della permanenza del collegio tanto il capo che i membri sono simultaneamente, anche se diversamente, necessari» (BETTI, p. 383). Dunque: non il papa o i vescovi, ma il papa e i vescovi. La potestà suprema è unica, ma in forma collegiale e in forma primaziale. La presenza del papa nel collegio dei vescovi è simultanea a quella degli altri vescovi, ma è anche diversa: ciò è espresso dalla parola “capo”. 5.6 - LG 22, § 2ab. «Ma il collegio o corpo dei vescovi non ha autorità se non lo si comprende insieme col romano pontefice successore di Pietro come suo capo; questi conserva integra la potestà primaziale su tutti, sia pastori sia fedeli. In forza del suo ufficio di vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre liberamente esercitare. L’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo, anzi, che perpetua senza interruzioni il corpo apostolico, è pure, insieme col romano pontefice suo capo, e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può però esercitare se non col consenso del romano pontefice».

Due sono i punti dottrinali enunciati in questo testo: - il romano pontefice in forza del suo ufficio (vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa) ha

sulla Chiesa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre liberamente esercitare: in altre parole, egli mantiene integra la sua funzione primaziale;

- l’ordine dei vescovi è pure, insieme con il romano pontefice suo capo, e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa, ma il suo esercizio esige il consenso del romano pontefice. La potestà del romano pontefice è prerogativa personale perché ricevuta da Cristo (Pietro è

stato scelto tra i Dodici, non dai Dodici). Questa prerogativa, in quanto conferita ad un membro del

26 RATZINGER, «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», in La costituzione gerarchica della Chiesa, p. 46 (in Il nuovo popolo di Dio, p. 196).

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collegio nel momento in cui ne diventa capo, non è una potestà assolutamente nuova. “Consiste piuttosto nella concentrazione in lui di tutta la potestà inerente al collegio stesso. Di conseguenza: essa si distingue dai poteri ricevuti nella consacrazione non per natura, ma per estensione e intensità” (BETTI, p. 385). Il primato papale, insomma, radicalmente è e rimane una realtà sacramentale: cioè potestà “veramente episcopale” su tutta la Chiesa. Il collegio è soggetto della potestà piena e suprema in quanto non si può distinguere il romano pontefice dagli altri vescovi. La distinzione è tra il romano pontefice da solo e il romano pontefice insieme all’episcopato.

Esiste un coerente parallelismo tra la suprema potestà da Cristo concessa singolarmente a Pietro, di cui Mt 16,18-19, e la suprema potestà concessa da Gesù al collegio degli apostoli unito al suo capo, come risulta da Mt 18,18 e 28 ,16-20. La potestà posseduta dal capo da solo e quella posseduta dal collegio intero è una e identica. Ambedue le potestà, quella primaziale e la suprema potestà collegiale, stanno in un rapporto di immediatezza rispetto a Gesù Cristo. Per questo si sottolinea con insistenza, che il collegio può esercitare la sua potestà solo in comunione con il vescovo di Roma, il successore di Pietro, quale suo capo, che conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli. Il fatto che spetti al romano pontefice abilitare l’intero collegio all’esercizio della potestà che questo possiede non crea la potestà stessa; ne è soltanto l’attuazione concreta. La sua esistenza coincide con l’esistenza del collegio; è quindi anteriore e indipendente dall’esercizio. In una parola: «non perché il papa abilita il collegio all’esercizio, esso diventa soggetto della medesima; ma lo abilita ad esercitarla, perché ne è e rimane il soggetto” (p. 387-388).

Nota – La questione della potestà del collegio è ampiamente discussa tra i teologi e i canonisti. La suprema et plena potestas nella Chiesa non è divisa tra due «soggetti» distinti (benché inadeguatamente), cioè il collegio episcopale con il papa da una parte e il papa senza collegio dall’altra. Secondo il parere di molti teologi (es.: K. Rahner, O. Semmelroth, A. Grillmeier) esiste «solo un soggetto della suprema potestà nella Chiesa: il collegio strutturato sotto il papa come suo capo primaziale» (K. RAHNER; cf. anche MAZZONI; SINODO STRAORDINARIO DEI VESCOVI del 1985; KEHL, p. 360)27. Non è escluso che il papa possa esercitare l’unica suprema potestà di governo nella Chiesa anche «seorsim» (= separatamente, da solo: NEP, n. 3; cf. anche NEP, n. 4: il papa può esercitare la sua potestà “in ogni tempo a suo piacimento”). Il seorsim va interpretato correttamente. Non significa che il papa può esercitare il suo supremo ministero pastorale separato dalla Chiesa e dal collegio episcopale, agendo per così dire da persona privata che può fare e disfare tutto in maniera assolutistica. La clausola vuole mantenere aperta la possibilità per il papa di esercitare la suprema potestà nella Chiesa non sempre soltanto con atti strettamente collegiali, dunque in accordo esplicito con il collegio episcopale, ma anche con atti personali-individuali (ad esempio, per mezzo di encicliche). Anche quando pone atti personali-individuali il papa agisce sempre come successore di Pietro e quindi come «capo» del collegio episcopale. Ogni atto veramente primaziale del papa (che sia posto in modo espressamente collegiale oppure «da solo» in modo personale) per necessità teologica intrinseca è integrato nella communio della Chiesa e nel collegio dei vescovi. Il Codice di diritto canonico, al can. 333, § 2 afferma: «Il romano pontefice, nell’adempimento dell’ufficio di supremo pastore della Chiesa. è sempre congiunto nella comunione (communione… coniunctus) con gli altri vescovi e anzi con tutta la Chiesa; tuttavia egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio». 5.7 - LG 22, § 2c. Il brano spiega il significato ecclesiologico del collegio episcopale e riconosce ai vescovi una potestà propria, esercitata a vantaggio dei propri fedeli, anzi di tutta la Chiesa. Tale potestà è propria di tutti i vescovi indipendentemente dal governo di una Chiesa particolare. La

27 Ivi, p. 202-203.

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ragione è che non i singoli vescovi succedono ai singoli apostoli, ma è il collegio episcopale che succede al collegio apostolico. Uno entra nel collegio non con una potestà particolare, ma ciascuno diventa compartecipe della potestà del collegio, al quale è aggregato. L’esercizio della potestà deve avvenire nel rispetto del primato del capo e stare alle sue direttive.

La suprema potestà collegiale è esercitata in modo solenne in concilio ecumenico. Occorre precisare: a) il compito del romano pontefice in rapporto al concilio; b) chi possa partecipare al concilio.

Il testo afferma che la suprema potestà collegiale può essere esercitata anche in forme diverse da quella tipica del concilio ecumenico. La partecipazione del romano pontefice è graduale. Vanno segnalate alcune importanti conclusioni teologiche. Nel testo conciliare, osserva J. Ratzinger, si possono trovare due costruzioni teologiche della collegialità: la prima parte dalla Chiesa universale e dal collegio universale, ha preoccupazioni speculative e si sforza di comprendere la plena et suprema potestas del collegio sulla Chiesa in accordo con la plena et suprema potestas del papa sulla Chiesa; la seconda, orientata in senso patristico, si preoccupa di ristabilire l’organismo delle Chiese particolari nell’unità della Chiesa universale. La scelta dell’uno o dell’altro tipo di teologia ha rilevanti conseguenze nel modo di interpretare e costruire la collegialità28. Scrive C. Pozzo: «a) La dottrina del Vaticano II ha chiarito che la collegialità appartiene all’essenza del ministero episcopale, e può essere realizzata solo nell’inserimento di coloro che rappresentano l’unità del nuovo popolo di Dio, nella globalità dell’ordine episcopale. Risulta quindi sottolineata la dimensione cattolica del ministero episcopale, con l’implicazione decisiva, dal punto di vista teologico e pastorale, che l’essenza dell’ufficio episcopale del singolo vescovo non è prioritariamente la guida della singola Chiesa particolare, e secondariamente e derivatamene la partecipazione alla guida della Chiesa universale, ma, al contrario, è innanzitutto la partecipazione alla guida della Chiesa universale, che però si concretizza nella guida della Chiesa particolare. Infatti la Chiesa particolare è l’attuazione della Chiesa universale, ma la Chiesa universale è la realtà teologica che costituisce e penetra l’essere-Chiesa delle Chiese particolari. b) La collegialità, come formulata dalla Lumen gentium, non è da intendersi prioritariamente come figura giuridica, ma come realtà teologica, che anticipa e determina sia l’azione pastorale sia la configurazione giuridica e canonica. La forma giuridica che esprime più immediatamente il dato teologico della collegialità, è il concilio ecumenico (…), che presuppone la costituzione della Chiesa come communio, espressa anche nel principio di collegialità episcopale» (pp. 119-120). 6. La collegialità episcopale: le relazioni dei vescovi all’interno del collegio episcopale – Lumen gentium articolo n. 23 6.1 – Dopo aver trattato il tema della collegialità nelle relazioni tra i suoi membri e il loro capo e aver dato una fondazione dottrinale, il concilio analizza le relazioni dei membri del collegio tra loro. Gli aspetti dottrinali considerati sono quattro: § 1 – Nel collegio, il vescovo rappresenta l’unità della sua Chiesa particolare nell’insieme

della Chiesa universale. Il testo ha valore introduttivo (n. 23a). § 2 – Il vescovo contribuisce in molti modi al bene di tutta la Chiesa (n. 23b).

§ 3 – In particolare, questo si esprime nella diffusione della fede e nell’iniziativa missionaria (n. 23c).

§ 4 – I gruppi di Chiese, soprattutto i patriarcati storici, esprimono la multiformità dell’unica e indivisa Chiesa di Cristo. Le conferenze episcopali (n. 23d).

6.2 – Il pensiero più notevole di trova nel § 1 e riguarda quanto si afferma sulla struttura delle Chiese particolari in relazione alla struttura della Chiesa universale. Le Chiese particolari sono fatte

28 Ivi.

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ad immagine della Chiesa universale: nei due casi c’è un vescovo “principio visibile e fondamento dell’unità”29. Ciascuna Chiesa particolare ha un’esistenza propria, anche se non assoluta indipendenza. La Chiesa particolare non è il risultato di una divisione della Chiesa universale. Al contrario, la Chiesa universale è il risultato della comunione convergente delle Chiese particolari, non per addizionamento quantitativo, ma per incontro qualitativo. La Chiesa una e cattolica deriva la sua esistenza come tale dalle singole Chiese («ex quibus»), perché esiste in ciascuna di esse («in quibus»). La Chiesa universale ha la sua esistenza attraverso la mediazione di una Chiesa particolare. La presidenza della Chiesa universale si trova assicurata mediante la presidenza di una Chiesa particolare, quella del vescovo della Chiesa di Roma. Ciascun vescovo rappresenta la sua Chiesa particolare non come delegato, ma come suo pastore. La Chiesa universale (la Catholica) è rappresentata da tutti i vescovi con il romano pontefice. La Catholica è il “corpo delle Chiese” (LG, n. 23), è la communio ecclesiarum universale. Queste affermazioni vanno completate con LG , n. 26. Il testo di LG 23a è stato molto commentato: cf. PHILIPS, p. 271; BETTI, pp. 397-398; S. PIÉ-NINOT, Communio ecclesiarum: «in et ex quibus», in C. O’DONNELL – S. PIÉ-NINOT, pp. 183-187. Il padre H. DE LUBAC, nel suo libro Les Églises particulières dans l’Église universelle, così commenta il nostro passo:

«Tra la Chiesa particolare e l’universalità della Chiesa, ‘esiste come una mutua interiorità’ (Y. Congar). Nel cuore di ogni Chiesa (particolare) tutta la Chiesa (universale) è dunque presente in linea di principio. Sul piano qualitativo, ognuna è la Chiesa. […] Dal momento che esiste una mutua interiorità o inclusione, esiste una radicale correlazione, per cui non sarebbe sufficiente affermare che le Chiese particolari devono essere inserite nella Chiesa universale: lo sono per il fatto stesso che esistono. La Chiesa universale dal canto suo non è affatto una unità ‘federativa’, - come se le Chiese particolari potessero dapprima costituirsi ognuno allo stato separato, salvo poi a riunirsi: essa è la Sposa del Cristo. La sua unità è ‘organica e mistica’ (Ch. Journet). Il popolo di Dio è un solo popolo, ‘non perché si compone di numerose Chiese particolari, ma perché ogni comunità particolare da parte sua è solo una forma sotto la quale si presenta quest’unico popolo di Dio’ (H. Schlier). L’antica affermazione del simbolo romano, che pone l’accento sull’unità della Chiesa, è significativa».

Nota - A parere di molti teologi, la tradizione ortodossa tende a concepire la Chiesa universale in forma platonica come un modello frutto dello Spirito. Di conseguenza enfatizza l’”in quibus” e fonda l’unità della communio Ecclesiarum nel vincolo dello Spirito comune a tutte le Chiese autocefale. Al contrario, la tradizione protestante enfatizza l’”ex quibus”, ritenendo che esistano propriamente Chiese locali e non la Chiesa universale. L’unità delle Chiese locali è frutto di una soluzione volontaristica, secondo il modello federalista. Sul termine sobornost (l’equivalente italiano più vicino sembra essere “conciliarità” o “ecumenicità” o anche “cattolicità” o “collegialità”) e sulla sua ricchezza semantica, ma anche sulla sua problematica utilizzazione, cf. HACKEL, Sobornost, in Dizionario del movimento ecumenico, pp. 999-1000; FARRUGIA, Sobornost’, in Dizionario enciclopedico dell’Oriente Cristiano, pp. 714-715 (con bibl.).

Il teologo J. Ratzinger così spiega LG, n. 23a: «Nella Chiesa esiste una struttura collegiale perché essa vive nella comunione delle Chiese perché questa struttura comunitaria implica il collegium, i vescovi in quanto si appartengono a vicenda. Se così è, ossia se la Chiesa si edifica da dentro come un organismo di Chiese particolari, che fanno unità mediante il loro comunicare nella Parola e nel Corpo del Signore, allora è possibile trarre due regole pratiche fondamentali:

La necessità delle Chiese particolari come vitali forme fondamentali di vita ecclesiale deve essere vista come un presupposto di base e come uno scopo della costituzione della Chiesa. Questa

29 La formula unitatis principium et fundamentum viene dal concilio Vaticano I, Pastor aeternus (18 luglio 1870), in DH 3051.

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vitalità propria delle Chiese particolari deve essere certamente tale da non chiudersi in se stessa, ma da essere in se stessa “cattolica”, e quindi aperta alla totalità in tutte le sue manifestazioni vitali.

Essendo la Chiesa strutturata in questo modo, essa non viene governata da un parlamento centrale o da un senato aristocratico e neppure da un capo monarchico, bensì essa è affidata ai vescovi, i quali guidano la Chiesa cattolica nelle loro Chiese particolari e in esse la Chiesa universale, e perciò le Chiese particolari non sono in concorrenza l’una con l’altra, bensì sono l’una riferita all’altra e si muovono in direzione dell’unica cattolicità. L’organo di tutto questo convergere, ossia di questa unità di comunione di tutte le Chiese particolari nell’unica Chiesa, è, ancora una volta, il vescovo di una Chiesa particolare, quella di Roma, il quale rende l’unità visibile e la tiene in vigore.

Il Vaticano II ha formulato la dottrina seguente: “Reggendo (i vescovi) bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale, contribuiscono efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese”. In altre parole, l’atto “collegiale” primo e fondante consiste nel fatto che il vescovo guida bene la sua Chiesa conformemente alla responsabilità conferitagli nel sacramento, mantiene vitale quale buon pastore la sua porzione di chiesa universale, conducendola verso il Signore e in tal modo nell’unità reciproca del tutto. Se questa base delle Chiese particolari, che vivono ciascuna in sé e tutte nella reciprocità, viene indebolita o dissolta, si dissolve il fondamento della collegialità. (…) La guida delle Chiese locali è… partecipazione alla guida della Chiesa totale»30.

La collaborazione all’interno del collegio si realizza in varie forme. Il concilio considera, in

primo luogo, il governo stesso del vescovo nella sua Chiesa particolare – nella quale esercita la sua autorità ma solo sopra i fedeli della sua diocesi – come il modo abituale di collaborazione con il compito del collegio e di praticare la comunione con gli altri vescovi e con il papa. In secondo luogo, come ogni vescovo è membro del collegio, comune è a tutti la sollecitudine per la Chiesa universale. Lumen gentium, n. 23 espone ambedue questi aspetti. 6.3 – Di grande importanza è § 4 di LG, n. 23. Il patriarcato è la forma permanente più antica della collegialità episcopale. Realizza la comunione interecclesiale di Chiese pienamente costituite, ciascuna governata da un proprio vescovo, ma raggruppate intorno alla Chiesa madre dalla quale sono state generate. Il patriarcato non è di origine divina, ma è realizzazione di un disegno della divina Provvidenza. I patriarcati sono dotati di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio. La presenza dei patriarcati non compromette l’unità della fede, né l’unica costituzione divina della Chiesa universale. Alle conferenze episcopali sono dedicate poche righe, nelle quali si riconosce il valore per il contributo che possono dare alla vita della Chiesa intera e si indicano le finalità che le qualificano: essere luoghi nei quali concretizzare l’affectus collegialis. Certamente il post-concilio, soprattutto nella sua prima fase, fino alla metà degli anni ’80, vede lo sviluppo di alcuni istituti atti a garantire, promuovere, concretizzare la collegialità episcopale: sinodo dei vescovi (cann. 342.345; cf. anche CD 5), concili provinciali (can. 440; CD 35), concili plenari (can. 439), conferenze episcopali (cann. 447-459). Per tanti aspetti però questi istituti continuano a dipendere dal papa, mostrando la difficoltà a recepire la collegialità episcopale (Papa Francesco). 7. Il ministero dei vescovi: articoli nn. 24-27 (sintesi rapida) 7.1 – Questa sezione del capitolo III propone una riflessione sulle funzioni dei vescovi, a partire da una presentazione generale del triplice ufficio affidato al vescovo, quello di insegnare, santificare e governare: LG 24.

30 J. RATZINGER, Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1987, p. 58-59.

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Nel primo capoverso del n. 24, il concilio sottolinea che la missione dei vescovi deve essere della stessa natura di quella di Cristo, poiché da Lui deriva. Il ministero gerarchico non è un dominio ma un servizio. Cristo si è presentato come “servo”. Nel secondo capoverso, è indicato il modo in cui il ministero del vescovo diventa operante: mediante legittime consuetudini non revocate, mediante norme positive generali o deliberazioni dirette del romano pontefice. Il concilio non affronta la questione della validità dell’esercizio del ministero episcopale qualora mancasse, nell’ordinato, la comunione gerarchica. 7.2 – L’ufficio di insegnare: articolo n. 25 E’ considerato in tutta la sua estensione e in ogni sua manifestazione. Nel primo capoverso si afferma che uno dei principali uffici del vescovo è la predicazione del Vangelo. L’ufficio di insegnare è preminente (principale): 1° perché l’annuncio del Vangelo precede ogni altra attività ecclesiastica; 2° perché è universale; 3° perché esclusivo del vescovo (indelegabile). Ogni vescovo è investito della missione primordiale degli apostoli. Il vescovo trasmette ai fedeli la Parola di Dio autorevolmente. Al suo insegnamento si è tenuti ad aderire con il pensiero e con la vita. L’insegnamento del vescovo è autentico, cioè è esercitato in nome di Cristo e con l’autorità di Cristo. Ciò è riferito alle dichiarazioni dei vescovi che riguardano «la fede da credere e da applicare nella pratica della vita» (n. 25a). Se il vescovo ha i requisiti stabiliti (valida consacrazione, comunione con il romano pontefice e con gli altri membri), allora il suo insegnamento, sorretto dall’apostolicità e dalla cattolicità, deve essere da tutti venerato.

Nel primo capoverso di LG n. 25, si parla del magistero ordinario del papa e dei vescovi. In quanto questo magistero ordinario comunica la sostanza della fede per l’applicazione del vangelo alla vita vissuta, questo magistero esige l’ossequio dei fedeli, nel grado richiesto dal documento stesso (BETTI, p. 412).

Nel secondo e terzo capoverso si tratta del magistero nell’esercizio infallibile del suo insegnamento. Vengono approfonditi :

- il magistero ordinario del romano pontefice - il magistero ordinario infallibile di tutti i vescovi insieme al romano pontefice - il magistero infallibile del collegio episcopale in concilio ecumenico - l’estensione dell’oggetto dell’infallibilità - il magistero infallibile del romano pontefice - la relazione del magistero infallibile del romano pontefice e di tutto l’episcopato con la rivelazione e con la Chiesa.

La trattazione sulla funzione di insegnare dei vescovi è nuova, rispetto al Vaticano I, che aveva preso in esame soltanto il magistero del romano pontefice. Il Vaticano II insegna che i vescovi entrano nella successione apostolica in forza della consacrazione episcopale. Il potere d’insegnare, dunque, è nativamente e costituzionalmente un potere sacramentale non meno, anche se in settore diverso, del potere di santificare. L’origine e la natura sacramentale del magistero importano almeno tre conseguenze dottrinali e pratiche:

1° esso costituisce un potenziamento interiore del vescovo nella stessa linea della trasformazione ontologica operata dal sacramento. Questa trasformazione ontologica, essendo strettamente personale, fa del magistero una prerogativa altrettanto personale fino ad essere assolutamente indelegabile;

2° in secondo luogo, il magistero viene ad avere nei confronti degli altri fedeli una funzione autonoma, in grado di assicurare a Dio la libertà di parola che non cessa di indirizzare al suo popolo;

3° tutti i titolari del magistero sono legati tra loro da un vincolo di comunione sacramentale, che mette ciascuno in atteggiamento di mutuo rispetto ed apre ad effettiva e concorde

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collaborazione. Ciò si risolve nel rispetto e nella reale comunione del singolo vescovo con il vescovo di Roma e con gli altri vescovi, come pure del vescovo di Roma con tutti gli altri vescovi: non di dipendenza, ma come necessaria coesistenza, indispensabile all’adempimento dell’identica missione di salvezza affidata da Cristo al corpo apostolico in solido. Appare così che i maestri autentici sono posti in una relazione di servizio reciproco, in cui ciascuno è per l’altro e tutti insieme sono per la Chiesa intera. Il romano pontefice, dalla sua posizione unica di presidenza universale, esercita una diaconia primaziale a sostegno del magistero dei suoi fratelli nell’episcopato. La funzione magisteriale dei vescovi sostiene, a sua volta, quella del romano pontefice. Ambedue le funzioni sono inserite nel mistero del Cristo, venuto per servire e non per essere servito. Ultima annotazione: per il fatto stesso che il magistero è inserito nel mistero di Cristo è anche inserito nel mistero della Chiesa, depositaria di tutta la rivelazione divina compiutasi in Cristo. Il vescovo esercita la funzione di insegnare solo nella Chiesa, non al di fuori né al di sopra di essa. Egli non crea nessuna dottrina al di fuori di quanto trasmesso dalla Tradizione e dalla Scrittura. La funzione del magistero resta puramente ministeriale sia rispetto alla Rivelazione, sia rispetto alla Chiesa. 7.3 - L’ufficio di santificare dei vescovi: articolo n. 26 Sull’influsso dei teologi ortodossi su questo articolo, cf. Y. Spiteris. L’ufficio di santificare deriva, come quello di insegnare, dalla consacrazione sacramentale. Ha una destinazione meno universale dell’ufficio di insegnare. Titolare effettivo dell’ufficio non è il collegio episcopale in quanto tale, ma ciascun vescovo, che lo esercita, anche se non esclusivamente, nella sua Chiesa particolare. In quanto il vescovo riceve la pienezza del sacramento dell’ordine, a lui come “economo”, cioè come distributore della grazia del supremo sacerdozio, compete di diffondere la santità. Il mezzo principale per adempiere al suo ufficio è la celebrazione dell’eucaristia, presieduta personalmente o da un presbitero suo collaboratore in comunione con lui (celebrazione ‘legittima’). Se l’eucaristia fa la Chiesa, è anche vero che senza la Chiesa l’eucaristia non si può celebrare. La ragione ultima è che l’unico autore dell’eucaristia e della Chiesa è Cristo: lui è presente (vedi la bella conclusione del primo capoverso: «in queste comunità (le Chiese locali) sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo». La seconda parte dell’art. 26 tratta della funzione cultuale del vescovo: egli, nella Chiesa particolare, è ministro del culto, della parola e dei sacramenti. Si precisa in questo contesto che egli è ministro “originario” della confermazione, che è considerata un compimento del battesimo, ed è connessa al ministero episcopale in quanto è il vescovo a garantire l’ammissione di nuovi membri nella comunità. Inoltre il vescovo è, in linea generale, in ministro degli ordini sacri (n. 26b). È dovere del vescovo dare esempio di santità di vita. 7.4 – L’ufficio di governare: articolo n. 27 Questo ufficio, più ancora di quello di santificare, è circoscritto alla Chiesa particolare affidata alle cure del vescovo. I vescovi sono legati e vicari di Cristo nella propria Chiesa. Nel suo governo il vescovo deve essere imitatore del buon pastore. Nel primo capoverso sono indicati i mezzi con i quali il vescovo governa i suoi fedeli (consigli, suggerimenti, incoraggiamenti ed esempi), ma si menziona anche la sua autorità e la sua sacra potestà, da esercitare per promuovere il bene del gregge (n. 27a). Il secondo capoverso tratta dell’applicazione dei principi esposti, nominando la cura ordinaria e quotidiana del popolo cristiano (n. 27b).

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L’ultimo capoverso tratta dello spirito e dell’atteggiamento che deve presiedere al governo episcopale. Suscettibile di sviluppi ulteriori è la comprensione del vescovo come mandato dal Padre (la paternità del vescovo) (n. 27c). 8. Gli altri ministri del sacramento dell’ordine: articoli nn. 28-29 8.1 – Pur dedicando un decreto speciale al ministero e alla vita dei presbiteri, nell’art. 28 il concilio pone le premesse teologiche che verranno sviluppate nel documento specifico (Presbyterorum ordinis). I centri di interesse sono sostanzialmente quattro: - rapporto dei presbiteri con Cristo - rapporto dei presbiteri con il proprio vescovo - rapporto dei presbiteri tra loro - rapporto dei presbiteri con gli altri fedeli. 8.2 – Nella breve dissertazione sul diaconato (LG, n. 29), la costituzione dichiara che esso fa parte del sacramento dell’ordine, e quindi si distingue essenzialmente dai ministeri laicali. Punto qualificante è l’affermazione della sacramentalità del diaconato. D’altra parte i diaconi sono chiamati “non al sacerdozio, ma al ministero”. Gli uffici dei diaconi sono indicati prima in modo generale nel triplice campo dei servizi della liturgia, della parola e della carità, e poi in modo più caratteristico con gli “uffici della carità e dell’amministrazione”. L’esercizio della carità appartiene fin dall’inizio al ministero diaconale. ******** III. BILANCIO E PROSPETTIVE Le valutazioni del capitolo III della Lumen gentium tengono conto delle luci e delle ombre che lo caratterizzano.

Secondo JOANNES CORNELIS GROOT, il testo conciliare si occupa soprattutto degli aspetti di tipo organizzativo e giuridico attinenti alla costituzione gerarchica della Chiesa. Secondo questo autore, l’attenzione è rivolta ai rapporti giuridici esistenti fra il collegio e il suo capo e verso le questioni di competenza che questi rapporti comportano. Anche sul piano orizzontale, osserva sempre il Groot, il concilio si preoccupa prevalentemente di questioni organizzative: configurazione di un istituendo organismo supremo che partecipi al governo della Chiesa, competenze delle conferenze episcopali, determinazione delle attribuzioni e attività dei vescovi locali derivanti dalla nuova concezione della collegialità. Manca, secondo il Groot, una riflessione sistematica sul mistero che sta alla base della struttura collegiale del ministero ecclesiastico perché sacramento della presenza viva di Cristo nella sua Chiesa. Manca, da ultimo, il raccordo tra la communio episcoporum e la communio fidelium. Poco sviluppata è l’unità sacramentale tra vescovi, presbiteri e diaconi31.

Il testo porta i segni di una Chiesa in cammino, in ricerca, «in fieri»: si veda la serrata analisi di ANTONIO ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen gentium», Edizioni Dehoniane, Bologna1975, in particolare pp. 522-551 (l’analisi è assai aderente ai testi). Le tesi dell’Acerbi non sono da tutti condivise.

31 Cf. J. C. GROOT, «Aspetti orizzontali della collegialità», in La costituzione gerarchica della Chiesa, studi e commenti intorno al capitolo terzo della “Lumen gentium”, Vallecchi Editore, Firenze 1968, pp. 78-79 (volume estratto dall’opera collettiva La Chiesa del Vaticano II, diretta da G. BARAÚNA, o.f.m., Vallecchi Editore, Firenze 1965).

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E’ più “un fiore pieno di promesse” che “un frutto lentamente maturato” (G. DEJAIFVE). Non mancano ripetizioni, insistenze giuridiche per tranquillizzare i timori dei difensori del primato papale. Il concilio Vaticano II ha lasciato un “cantiere aperto” (HERMANN POTTMEYER).

GÉRARD PHILIPS definisce di “portata eccezionale” l’intero capitolo terzo della LG (p. 198). Il p. UMBERTO BETTI dice che si tratta di un “documento importantissimo” e che la dottrina

in esso contenuta “rimane la ‘magna charta’ della costituzione gerarchica della Chiesa” (p. 14). Sempre secondo il p. Umberto Betti il capitolo III della Lumen gentium rappresenta «la parte più importante…, la spina dorsale di tutto il concilio».

Per ROGER AUBERT il capitolo III è “il più innovatore sul piano dottrinale” (p. 349). JOSEPH RATZINGER mette in chiara luce come l’enunciato dogmatico della collegialità

“implichi” l’elemento pastorale, nel senso che l’enunciato si riferisce all’uomo, alla realtà della vita ecclesiale32. “Collegialità”, spiega Ratzinger, non è soltanto un enunciato sulla natura dell’ufficio episcopale, significa che l’unica Chiesa è costituita dalla comunione reciproca delle molte Chiese locali, e conseguentemente significa pure che l’unità ecclesiale implica necessariamente l’elemento della molteplicità e della pienezza. Questo enunciato va esteso fino alla vita quotidiana delle singole parrocchie33.

Ampiamente positivo anche il parere di HUBERT JEDIN: “La costituzione Lumen gentium pone termine al contrasto sul rapporto tra primato papale ed episcopato nel senso – spiega - di un organico legame dei due: il collegio episcopale, di cui il singolo vescovo entra a far parte con la consacrazione sacramentale ricevendo i carismi ed i pieni poteri per l’esercizio dell’ufficio apostolico, possiede in forza del diritto divino come successore dei Dodici suprema potestà e responsabilità su tutta la Chiesa, ma solo in comunione con il papa, che ne è membro e capo. Il successore di Pietro regola l’esercizio dei pieni poteri conferiti da Dio mediante l’assegnazione al vescovo di una diocesi determinata, che può essere negata o anche sottratta. Il vescovo così nominato guida la Chiesa locale con poteri e responsabilità propri (con potestas propria, ordinaria et immediata); il collegio episcopale è una comunità spirituale (communio), non un collegio nel senso del diritto romano. Esso può esercitare la sua attività sempre e soltanto insieme con il suo capo, col che rimane incerto in quali forme esso (senza possedere lo ius congubernii) può essere chiamato dal papa a partecipare al governo della Chiesa universale, e allo stesso modo, se il papa è la fonte di ogni effettivo potere di governo nella Chiesa o può intervenire solo in via sussidiaria nell’interesse dell’unità della Chiesa” (p. 140) La costituzione Lumen gentium, conclude lo Jedin, è il risultato di gran lunga più importante del concilio (ivi).

Merita attenzione il parere degli storici ROGER AUBERT E CLAUDE SOETENS. Sulla costituzione Lumen gentium in generale scrivono: «Considerata da molti la “Magna Charta” del concilio Vaticano II, la costituzione Lumen gentium presenta della Chiesa una visione d’insieme di una profondità e di una ricchezza mai raggiunte in un documento conciliare precedente, una sintesi che, grazie all’apporto della tradizione orientale e patristica, rinnova la problematica ecclesiologica, orientata nella Chiesa latina dopo il secolo XVI in una prospettiva sostanzialmente giuridica». In riferimento al capitolo III, i due storici annotano: «Questo popolo di Dio è strutturato: una gerarchia è al suo servizio. Di essa si parla nel terzo capitolo, il più nuovo dal punto di vista dottrinale. Se dedica un breve (troppo breve) passo ai preti e ripristina il diaconato permanente (…), il suo fine principale è di presentare – per la prima volta in modo ufficiale – la dottrina cattolica sull’episcopato per riequilibrare la prospettiva incentrata unilateralmente sul papa, prevalsa dopo il concilio Vaticano I. Vi si afferma che la consacrazione episcopale conferisce non solo un potere d’ordine, ma anche l’ufficio di insegnare e di governare il popolo di Dio e che, di conseguenza, il potere detto di giurisdizione è, anch’esso, d’ordine sacramentale (e non, come ha insegnato una scuola recente, conferito dal papa), anche se l’esercizio di questi poteri richiede determinazioni

32 J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Editrice Queriniana, Brescia 1992 (4° ed.), pp. 221-245, in particolare 233ss. 33 Ivi, p. 241.

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canoniche di competenza dell’autorità papale. Tale consacrazione episcopale costituisce di per se stessa i vescovi quali membri del corpo dei successori degli apostoli – il “collegio episcopale” – che ha, anch’esso, autorità intera (plena) e suprema sulla Chiesa, restando bene inteso che affinché un atto sia strettamente collegiale, il papa, che non è estraneo al collegio, deve esprime il suo accordo. È per precisare in qual senso – piuttosto ristretto – la collegialità episcopale viene presentata nel terzo capitolo che fu aggiunta in extremis, su richiesta del papa, la famosa Nota explicativa praevia che, come ha ben precisato il suo autore principale mons. Gérard Philips, non è che una introduzione al commento della commissione sugli emendamenti, tendente a tradurre in un linguaggio più accessibile alla scuola teologica – a cui faceva riferimento la minoranza – la dottrina esposta nel capitolo senza attenuarla in nulla, contrariamente a quanto hanno creduto alcuni allora e in seguito. La Nota explicativa praevia si limita a mettere i puntini sulle i a proposito delle restrizioni alla collegialità episcopale, che erano state introdotte nel testo per placare gli scrupoli di alcuni, ivi compresi quelli, in parte dello stesso Paolo VI»34.

Il concilio Vaticano II, nel cap. III della Lumen gentium, ci ha lasciato un cantiere aperto. I padri del Vaticano II si attendevano molto dalla collegialità, soprattutto in vista di un superamento della centralizzazione romana, ma anche in vista di una maggiore libertà di adattamento missionario alle culture e di un modo più collegiale di governare la Chiesa.

Dal capitolo III della Lumen gentium, si è partiti per rinnovare la pratica della collegialità episcopale, per ricomprendere il ruolo del papato nella Chiesa del terzo millennio e per ridefinire il ministero del vescovo.

A ormai cinquant’anni dal concilio Vaticano II sono numerose le riserve degli studiosi35, ma non mancano gli apprezzamenti positivi.

Considerata da alcuni come la spina dorsale del Vaticano II, la dottrina della collegialità, annota il p. Hervé Legrand, offre, oggi, la sua importanza e i suoi limiti36.

L’importanza, secondo il p. Legrand, sta nel fatto che la dottrina situa l’origine del potere di ordine e di giurisdizione dei vescovi nella loro ordinazione. Da qui derivano tre conseguenze: a) è superata ogni scissione tra ordine e giurisdizione e nei vescovi si devono intravedere i “vicari e ambasciatori di Gesù Cristo (…) e non i vicari del romano pontefice (LG, n. 27); b) sul piano dei principi canonici deriva una nuova organizzazione dei poteri tra il Papa e i vescovi: il primo non concede più loro i poteri, ma si riserva, per la sua supremazia, e per il bene comune della Chiesa, alcune prerogative che i vescovi potrebbero, per diritto, esercitare; c) alcune istituzioni permettono un’espressione più viva della comunione delle Chiese, in particolare le conferenze episcopali che contribuiscono in modo profondo affinché il sentimento collegiale (affectus collegialis) si realizzi concretamente (Sinodo del 1985; cost. ap. Apostolos suos).

Sempre secondo il p. Legrand, la collegialità soffre di una inefficacia e di un’ambiguità teorica che nasce nella sua definizione a partire dal potere primaziale. In pratica il collegio dei vescovi risulta insufficientemente articolato con la comunione tra le Chiese che i vescovi presiedono. Insufficiente articolazione si riscontra anche tra il collegio dei vescovi e il suo capo, il papa. Possibili sviluppi si avranno a partire dall’assioma più nuovo (ma tradizionale: vedi Cipriano, Ep. 36 e 55) del concilio Vaticano II: «La Chiesa cattolica una e unica esiste nelle Chiese particolari e a partire da esse» (LG 23). È una formula che ancora deve portare i suoi frutti. 34 Cf. R. AUBERT – C. SOETENS, «I risultati», in J.-M. MAYEUR, CH. E L. PIETRI, A. VAUCHEZ, M. VENARD, Storia del Cristianesimo. Vol. 13. Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla / Città Nuova Editrice, Roma 2002, pp. 90-91. 35 Cf. H. LEGRAND, «Primato e collegialità al Vaticano II. Valutazione ecumenica di una formulazione dottrinale incompiuta», in Il ministero del Papa in prospettiva ecumenica, a cura di A. Acerbi, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 211-231; IDEM, «Quarant’anni dopo, che ne è delle riforme ecclesiologiche prese in considerazione al Vaticano II?», in Concilium XLI (2005), fascicolo 4, pp. 76-95. 36 Cf. H. LEGRAND, «Collegialità», in J.-Y. LA COSTE (sotto la direzione di), Dizionario critico di teologia, edizione italiana a cura di Piero Coda, Borla – Città Nuova 2005, pp. 310-311.

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********** Nota – Il concilio Vaticano II, ha trattato dell’episcopato anche nel decreto Christus Dominus che ha come tema l’ufficio pastorale dei vescovi nella Chiesa37. Con questo documento, d’importanza fondamentale e pieno di novità, il concilio ha voluto “determinare più particolarmente il dovere pastorale dei vescovi” (n. 3). Il decreto Christus Dominus respira a pieni polmoni i contenuti della costituzione sulla Chiesa, in particolare del capitolo III sull’episcopato.

Il documento, al quale diede un importante contributo il canonista di Lovanio Mons. W. Onclin, si divide in tre parti: la prima tratta del vescovo al servizio della Chiesa universale, servizio che deve esercitarsi in unione con il Sommo Pontefice e sotto la sua autorità. La seconda parte riguarda il vescovo nella sua diocesi, definita non come territorio, ma come porzione di popolo di Dio, pur con la sua necessità di far sì che le dimensioni della diocesi siano convenientemente determinate in base alle esigenze dei fedeli. Il vescovo è essenzialmente pastore, egli esercita il triplice ministero di insegnare, santificare e governare il popolo di Dio nella più piena indipendenza dal potere civile e in stretta collaborazione con il suo clero: vescovi ausiliari, vicario generale, vicari episcopali, ministeri diocesani, sovraparrocchiali o specializzati, e parroci, ricorrendo ampiamente alla collaborazione dei religiosi e dei laici (grazie soprattutto alla creazione dei consigli pastorali). La terza parte tratta della cooperazione dei vescovi al bene comune di più diocesi, e contiene un richiamo alla tradizione dei concili provinciali, ma soprattutto all’importanza delle conferenze episcopali, assemblee permanenti dei vescovi riuniti per esercitare insieme i compiti pastorali.

Mentre la costituzione Lumen gentium contiene le grandi affermazioni dottrinali (sacramentalità, collegialità, triplice munus), il decreto Christus Dominus formalizza nel dettaglio i diversi aspetti della missione del vescovo. Ambedue i documenti vanno ugualmente tenuti presenti. Costituiscono una sorta di “centro di interpretazione” e ad essi si è fatto e si continua a fare riferimento dopo il concilio Vaticano II. *********

Bibliografia degli autori citati nel capitolo 1°

- A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Edizioni Dehoniane, Bologna 1975. - G. ALBERIGO (diretta da), Storia del concilio Vaticano II, 5 volumi, Società Editrice il Mulino, Bologna 1995-2001. - R. AUBERT, Il Concilio, in A. FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa. XXV/1. La Chiesa del Vaticano II (1958-1978), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Parte Prima, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1994, pp. 121-393. - G. BARAUNA [ed.], La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze, 1968. - U. BETTI, La dottrina sull’episcopato del concilio Vaticano II. Il capitolo III della costituzione dommatica Lumen gentium, Pontificio Ateneo “Antonianum”, Roma 1984. - Costituzione (La) gerarchica della Chiesa, Vallecchi Editore, Firenze 1968 - estratto dal volume: G. BARAUNA [ed.], La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze, 1968.

37 Cf. W. ONCLIN, «La genèse du Décret, le titre et la structure du Décret», in Vatican II. La charge pastorale des évêques. Texte, traduction et commentaires, Du Cerf, Paris 1969, pp. 73-83 ; J. GROOTAERS, Actes et acteur à Vatican II, Peters, Leuven 1998, pp. 420-455 ; M. FAGGIOLI, Il vescovo e il concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2005. Fra i commenti al Decreto, cf. quello di K. MÖRSDORF, in LThK, vol. XIII (1967), pp. 173-183.

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- H. DE LUBAC, Les Églises particulières dans l’Église universelle, Aubier, Paris 1971 (versione italiana: Pluralismo di Chiese o unità della Chiesa?, Morcelliana, Brescia 1973). - Dizionario del movimento ecumenico, Edizioni Dehoniane, Bologna 1994. - Dizionario enciclopedico dell’Oriente Cristiano, a cura di E. G. FARRUGIA, Pontificio Istituto Orientale, Roma, 2000. - M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1995. - H. JEDIN, Il concilio Vaticano II, in IDEM (ED.), Storia della Chiesa. X/1. La Chiesa nel ventesimo secolo (1914-1975), Jaca Book, Milano, 1980, pp.105-157. - M. LÖHRER, La gerarchia al servizio del popolo cristiano, in La costituzione gerarchica della Chiesa, Vallecchi Editore, Firenze 1968, pp. 5-18 (estratto dal volume: G. BARAUNA [ed.], La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze, 1968). - C. O’DONNELL – S. PIÉ-NINOT, Diccionario de Eclesiología, San Pablo, Madrid, 2001. - O. H. PESCH, Il concilio Vaticano II. Preistoria, svolgimento, risultati, storia post-conciliare, Queriniana Editrice, Brescia, 2005, pp. 246-282. - S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana, (BTC 138), Editrice Queriniana, Brescia 2008, pp. 391-453. - G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen gentium, Jaca Book, Milano, 1982. - G. POZZO, Lumen gentium. Costituzione dogmatica sulla Chiesa: introduzione e commento, Editrice PIEMME, Casale Monferrato (AL), 1988. - K. RAHNER, «Kommentar zu Lumen genitum 18-27», in Lexikon für Theologie und Kirche. Das Zweite Vatikanische Konzil, vol. I, Freiburg, 1966; vers. it.: La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen Gentium, Editrice Morcelliana, Brescia, 2008. - K. RAHNER – J. RATZINGER, Episcopato e primato, Morcelliana, Brescia, 1966. - J. RATZINGER, «La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare», in Costituzione (La) gerarchica della Chiesa, pp. 38-66. - IDEM, «La collegialità episcopale dopo il concilio Vaticano II», in IDEM, Il nuovo popolo di Dio, Editrice Queriniana, Brescia, 1992, pp. 187-220. - H. RIKHOF, «Il Vaticano II e la collegialità episcopale. Una analisi di Lumen gentium, 22 e 23», in Concilium XXVI (1990), fascicolo 4°, pp. 22-37.

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Capitolo 2

LA RECEZIONE DEL CAPITOLO III DELLA LUMEN GENTIUM

Recezione ufficiale – recezione pratica

Nel Capitolo 1° abbiamo approfondito la dottrina sull’episcopato, contenuta nel cap. III della costituzione dogmatica Lumen gentium del concilio Vaticano II.

È mia intenzione soffermarmi, ora, sul processo di recezione degli insegnamenti conciliari. Studieremo i documenti più importanti emanati dopo il concilio Vaticano II dalla Sede Apostolica, sia quelli riguardanti la collegialità episcopale, sia quelli attinenti al singolo vescovo. In quest’opera di messa in pratica dell’insegnamento conciliare da parte dei pastori, ha luogo il processo di recezione ufficiale o kerigmatica del concilio1. Nelle lezioni non sarà trascurata la recezione compiuta dalle comunità locali, vale a dire dai vari soggetti ricettori del concilio: i sinodi diocesani (Italia, Spagna, Francia, Messico, …), i sinodi continentali (cf. le conferenze generali dell’episcopato latino-americano - Medellin, Puebla, Santo Domingo, Aparecida -, le assemblee degli episcopati africani, asiatici, ecc.), gli altri sinodi particolari (come il «concilio pastorale» dei Paesi Bassi, il «Sinodo comune delle diocesi della Repubblica federale tedesca»), le conferenze episcopali, ecc. Non va trascurata la recezione dei temi conciliari da parte dei teologi e dei canonisti. Altro riferimento importante sono i dialoghi ecumenici e i documenti da essi emanati. Tutti questi soggetti non si sono limitati a una semplice «applicazione» passiva del concilio, in loro sono riscontrabili il cambiamento di mentalità e la progressiva trasformazione delle istituzioni.

Come si può notare l’argomento da studiare è complesso e i documenti sono numerosi2. Studiare la recezione del capitolo III della LG significa studiare la transizione tra il passato e

il presente delle istituzioni della Chiesa. I processi di adattamento, in genere richiedono tempo e devono compiersi nel rispetto delle persone e delle strutture interessate.

Per la nozione di comunione di particolare importanza è la lettera della Congregazione per la dottrina della fede Communionis notio (28.05.1992)3. Non è sempre facile, nei singoli documenti, enucleare l’ecclesiologia professata. Sono utili i proemi o preamboli dei documenti stessi. Si riscontra che sono tre le esigenze fondamentali presenti

1 G. ROUTHIER così definisce la recezione kerygmatica o ufficiale: «La recezione kerygmatica definisce l’insieme degli sforzi messi in atto dai pastori per far conoscere le decisioni di un concilio e per promuoverle efficacemente» (La réception d’un concile, Cerf, Paris 1993, p. 87). 2 I testi normativi, molto numerosi, sono di più categorie e non hanno la stessa autorità. Possono essere emanati dal Romano Pontefice o dai dicasteri della curia romana, può trattarsi di costituzioni apostoliche, di motu proprio, di lettere, di direttori, di istruzioni. Un posto a sé occupano i Codici, latino e orientale, e la costituzione apostolica Pastor bonus. 3 Dopo il concilio Vaticano II, i successori di Pietro hanno insistito sulla necessità di sviluppare sempre più la collegialità episcopale e, come risposta a questo postulato, sono state gradualmente adattate le istituzioni della Chiesa secondo moduli collegiali. Per una rapida analisi degli interventi di Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II sulla collegialità cf.: A. ANTON, «La collegialità nel sinodo dei vescovi», in J. TOMKO (a cura di), Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, pp. 61-65; A. DULLES, «Il “primato” come un aspetto della collegialità: Paolo VI e Giovanni Paolo II», in R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova Editrice – Facoltà Teologica di Sicilia, Roma, 2008, pp. 53-70.

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nei documenti che esamineremo: riconoscere la dignità dell’episcopato e del singolo vescovo, promuovere la communio episcoporum, custodire e affermare il primato del romano pontefice. Annotazioni preliminari: cosa intendere per «recezione»? Il termine recezione (dal latino recipěre: ricevere, accettare, mettere al sicuro, accogliere, assumere, adottare) ha significati molteplici. In termini generali, facendo riferimento al nostro tema, per recezione possiamo intendere un processo per il quale un gruppo ecclesiale (una comunità, un sinodo, una Chiesa particolare, la Chiesa universale) si appropria, comprende e assimila un bene spirituale che gli è offerto, integrandolo nella propria vita di fede fino a riconoscerlo come suo bene proprio e a farne una determinazione per la sua vita.

Per comprendere il senso e le difficoltà della recezione può essere utile ricordare qualche dato storico: il concilio di Nicea (325) provocò lunghi dibattiti e diverse polemiche prima di essere oggetto di recezione generale; il concilio di Costantinopoli (381) fu riconosciuto da Roma solo nel 519, mentre il concilio Niceno II (787) solo nel 1053; alcuni sinodi locali hanno assunto un ruolo ecclesiale universale proprio a causa della recezione (Antiochia del 269, contro Paolo di Samosata; Cartagine del 418, contro i Pelagiani; Orange del 529, sulla dottrina della grazia). Ci sono casi storici di recezione parziale e anche di non recezione da parte delle Chiese locali di decisioni conciliari o di indicazioni date dai papi. Casi di non recezione: Calcedonia, non è recepito dai monofisiti e dai nestoriani; il Filioque latino, è rifiutato dagli orientali; l’unione di Firenze è rifiutata dal popolo ortodosso; la costituzione Veterum sapientia di Giovanni XXIII, che prescriveva l’uso del latino nell’insegnamento dei chierici (1960), non ha trovato consenso; la dottrina di Humanae vitae (1968), è rigettata da una parte di cristiani e teologi cattolici. Nei cinquant’anni che ci separano dal concilio Vaticano II, in merito al concetto di recezione sono state fatte molte precisazioni. Esistono numerosi studi: si veda la bibliografia contenuta nell’opera di C. THEOBALD, La réception du concile Vatican II. I. Accéder à la source, Les Éditions du Cerf, Paris 2009 [vers. it.: C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011, pp. 709-713]. L’Autore traccia la storia dei dibattiti che si sono succeduti a partire dagli ’70 fino ad oggi e approfondisce la recezione pratica del concilio Vaticano II che si è avuta nelle Chiese locali (cf. vers. it. pp. 32-36, 390-428, 429-510).

Oltre quarant’anni fa il teologo domenicano Y. M. Congar, così descriveva il fenomeno della recezione:

«Per recezione intendiamo qui il processo mediante il quale un corpo ecclesiale fa veramente sua una decisione che non si è dato da sé, riconoscendo, nella misura promulgata, una regola adatta alla sua vita […] La recezione non consiste nella pura e semplice realizzazione del rapporto secundum sub et supra: essa comporta un proprio apporto di consenso, ed eventualmente di giudizio, in cui si esprime la vita di un corpo che esercita risorse spirituali originali»4.

Benedetto XVI, in un discorso alla Curia Romana divenuto celebre, ha chiarito cosa si

intenda oggi per recezione, in riferimento al concilio Vaticano II:

«Nessuno può negare che, in varie parti della Chiesa, la recezione del concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo tra l’altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere

4 Y. M. CONGAR, «La réception comme réalité ecclésiologique», in Revue de Sciences Philosophiques et Théologiques 56 (1972), pp. 369-403 [ripubblicato in ID., Eglise et papauté, Cerf, Paris 1994, pp. 299-266] (rapporto secundum sub et supra = rapporto di subordinazione e di supremazia). Cf. anche: G. ROUTHIER, La reception d’un concile, Cerf, Paris 1993; IDEM, Il concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2007; C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011.

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incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77: PG 32, 213 A; SCh 17bis, p. 524). Emerge la domanda: Perché la recezione del concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro»5.

Le due ermeneutiche di cui parla Benedetto XVI sono «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura» e «l’ermeneutica della riforma». (Nel Rapporto sulla fede, del 1985, Ratzinger parlava di «un’ermeneutica di continuità», nel discorso alla Curia diviene «l’ermeneutica della riforma»). L’intervento suscitò vaste discussioni, non ancora assopite. Il Prof. Dario Vitali così descrive il processo recettivo:

«Oggi la recezione sembra costituire la chiave di lettura più frequente del Vaticano II; molti esegeti del concilio insistono su questo principio allargando l’orizzonte all’assimilazione del concilio nella vita della Chiesa. [ … ] Essendo il popolo di Dio il soggetto, la recezione va compresa come una manifestazione del sensus fidelium, suscitata dallo Spirito santo che sempre conduce la Chiesa alla verità (Cf. Gv 16,13). Se si pensa che lo Spirito che guida i pastori in concilio e che suscita “il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo” (LG 12) è sempre l’unico e medesimo Spirito, si può comprendere quanto sia decisivo questo processo per pesare l’importanza di una decisione»6.

La recezione è un fenomeno assai complesso, che riguarda l’intero popolo di Dio, va considerata da diversi punti di vista, tra loro complementari. Facendo riferimento agli insegnamenti del concilio, in particolare della Lumen gentium possiamo distinguere: 1) la recezione e l’interpretazione operate dai pastori per promuovere e tradurre in pratica, in maniera fedele ed efficace, un insegnamento conciliare (recezione ufficiale o kerygmtica); 2) la recezione e l’interpretazione operate dalle Chiese locali per assimilare l’insegnamento conciliare trasmesso dai pastori [si vedano i sinodi continentali («le conferenze generali dell’episcopato latino-americano»), i sinodi delle Chiese locali (Germania, Francia, Olanda, Italia, ecc.), i documenti delle conferenze episcopali] (recezione pratica); 3) l’apporto dei teologi, dei canonisti, degli storici e commentatori alla recezione degli insegnamenti conciliari (si vedano la monumentale Storia del concilio Vaticano II curata dal gruppo di studiosi sotto la guida del prof. Alberigo del centro studi Giovanni XXIII di Bologna7 e il Commentario teologico del concilio Vaticano II di Tübingen, che ha come capofila il prof. Peter Hünermann)8.

Si possono distinguere, cronologicamente, tre fasi: una prima fase (1965-1980) appare segnata da un coinvolgimento dei pastori – Sede Apostolica, vescovi, episcopati nazionali, conferenze internazionali - nell’impegno di tradurre l’insegnamento del concilio nei diversi contesti ricorrendo a diversi strumenti o iniziative; una seconda fase (1980-1990) appare caratterizzata dal consolidamento di molte delle forme partecipative e ministeriali introdotte nella prima fase e dalla rivisitazione, da parte del magistero della Chiesa di Roma, di alcuni temi conciliari nodali (cf. Pastores dabo vobis del 1992, Communionis notio del 1992, Apostolos suos del 1998); una terza fase (2000-2015) è segnata da una verifica sul processo di recezione (intervento di Benedetto XVI

5 BENEDETTO XVI, Discorso Ai membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi (22 dicembre 2005). 6 D. VITALI, Verso la sinodalità, Ed. Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2014, p. 36. 7 Cf. G. ALBERIGO (diretta da), Storia del concilio Vaticano II, 5 volumi, Il Mulino, Bologna 1995-2001. 8 Cf. P. HÜNERMANN – B. J. HILBERATH (edd.), Herders theologische Kommentar zum zweiten vatikanischen Konzil [HThK Vaticanum II], 5 tomi, Herder, Freiburg 2005-2006.

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sull’ermeneutica del concilio), ma anche dalla ripresa dei temi conciliari della comunione, della collegialità e della sinodalità con l’intento di superare la parzialità delle realizzazioni compiute. Da parte della Sede Apostolica, sono almeno quattro le iniziative maggiori attraverso le quali si è attuata la recezione del concilio Vaticano II: 1° la riforma del Codice di diritto canonico per la Chiesa latina (annunciata nel 1959, si è conclusa con la promulgazione del Codice il 25 gennaio 1983 e la sua entrata in vigore nella prima domenica di Avvento dello stesso anno) e la promulgazione del Codice dei canoni delle Chiese Orientali (avvenuta il 18 ottobre 1990); 2° l’istituzione del Sinodo dei vescovi (settembre 1965); 3° la riforma della curia romana (iniziata da Paolo VI il 7 dicembre 1965 e proseguita fino al 1967; nuova riforma operata da Giovanni Paolo II nel 1988, cost. apost. Pastor bonus; nuova riforma voluta da Papa Francesco nel 2013, ancora in atto); 4° l’istituzione della Commissione teologica internazionale (su richiesta del sinodo del 1967), accanto alla Commissione biblica creata nel 1902, presso la Congregazione della dottrina della Fede. Vanno tenuti presenti i numerosi documenti emanati dagli organismi della Sede Apostolica, riguardanti i diversi aspetti della vita della Chiesa: la riforma liturgica, la riforma della formazione dei chierici e dei consacrati, la riforma della catechesi, ecc.

P. Congar traccia lo statuto ecclesiologico e giuridico della recezione, come da lui intesa. Fonda lo statuto ecclesiologico su una teologia che concepisce la Chiesa come strutturata localmente in Chiese particolari e su una pneumatologia che afferma che «i fedeli e le Chiese locali non sono inerti né puramente passivi nella recezione. Essi posseggono una facoltà di discernimento, di cooperazione alla determinazione delle loro forme di vita». Quanto allo statuto giuridico della recezione, P. Congar afferma che «la recezione non conferisce legittimità a una decisione conciliare o a un decreto autentico: essi ricevono il loro valore di obbligatorietà dalle autorità che li hanno trasmessi». Questo limite lascia però intatto l’altro piano, qualificato come organico: «La recezione non è costitutiva della qualità giuridica di una decisione. Essa verte non sull’aspetto formale dell’atto, ma sul contenuto. Non conferisce la validità, ma constata, riconosce attesta che risponde al bene della Chiesa; essa infatti concerne una decisione (dogma, canoni, regole etiche) che deve assumere il bene della Chiesa. È per questo che la recezione di un concilio in pratica si identifica con la sua efficacia». Una decisione non recepita, non significa che risulti falsa: «Essa significa semplicemente che tale decisione non risveglia alcuna energia vitale, e quindi non contribuisce all’edificazione».

Per ulteriori sviluppi del tema cf. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, pp. 394-396. A. LA RECEZIONE DEL CAPITOLO III DELLA LUMEN GENTIUM NEI DOCUMENTI MAGISTERIALI POSTERIORI AL CONCILIO VATICANO II I – FORME DELLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: «COLLEGIALITAS AFFECTIVA» E «COLLEGIALITAS EFFECTIVA» Nei documenti emanati dalla Chiesa di Roma, una volta affermato che è «esigenza divina che l’episcopato si esprima in modo collegiale», la collegialità del ministero episcopale è descritta, in primo luogo e fondamentalmente, come collegialità affettiva (collegialitas affectiva), che vige sempre tra i vescovi quale espressione della comunione dei vescovi / communio episcoporum tra di loro e con il romano pontefice e, in secondo luogo, come collegialità effettiva (collegialitas effectiva)9, che di fatto si esprime in alcuni atti soltanto, nei quali agisce il collegio episcopale in quanto tale, insieme al suo Capo, manifestando la sua potestà su tutta la Chiesa. Questa distinzione

9 È detta anche «collegialità in senso stretto».

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trova la sua formulazione più matura nell’esortazione Pastores gregis (cf. nn. 55d, 8e), ma è presente, più o meno esplicitamente, in tutti i documenti. La collegialità affettiva sta a fondamento della sollecitudine dei vescovi per le altre Chiese particolari e per tutta la Chiesa. È un concetto che si fonda sull’ordinazione episcopale e sulla comunione gerarchica e tocca in profondità l’essere di ogni vescovo. L’episcopato è un ministero da esercitarsi necessariamente in comunione con gli altri vescovi e con il Capo del collegio. La collegialità affettiva non è una questione di sentimento; i diversi gradi nei quali si concretizza sono espressione dell’esigenza divina che l’episcopato si esprima in modo collegiale. Giovanni Paolo II ha ripetutamente indicato come espressione di collegialità affettiva il sinodo dei vescovi presso il papa, i concili particolari, le conferenze dei vescovi, la curia romana, le visite ad limina, la collaborazione missionaria. L’elenco è seguito da un “ecc.”, segno che può essere ampliato.

Nell’esortazione postsinodale Pastores gregis, il papa così spiega l’affetto collegiale o collegialità affettiva che contraddistingue il ministero episcopale:

«L’unione collegiale tra i vescovi è fondata, insieme, sull’ordinazione episcopale e sulla comunione gerarchica; tocca pertanto la profondità dell’essere di ogni vescovo e appartiene alla struttura della Chiesa come essa è stata voluta da Gesù Cristo. Si è posti, infatti, nella pienezza del ministero episcopale in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col Capo del collegio e con i membri, cioè con il collegio che sempre co-intende il suo Capo. È così che si è membri del collegio episcopale, per cui le tre funzioni ricevute nell’ordinazione episcopale – di santificare, di insegnare e di governare – debbono essere esercitate nella comunione gerarchica, anche se, per la loro diversa finalità immediata, in modo distinto» (n. 8b).

In pratica, un vescovo, in forza della consacrazione episcopale, non è mai solo sia perché è unito al Padre per il Figlio nello Spirito Santo, sia perché è permanentemente con i suoi fratelli nell’episcopato e con colui che il Signore ha scelto come successore di Pietro, il romano pontefice. In modo pieno, però, l’affetto collegiale si attua e si esprime come collegialità effettiva solo nell’azione collegiale di tutti i vescovi insieme con il loro Capo, con il quale esercitano la potestà piena e suprema su tutta la Chiesa. Il grado massimo di esercizio di questa figura di collegialità si realizza nel concilio ecumenico. Qui il collegio dei vescovi appare come soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale. Si legge nell’esortazione Pastores gregis:

«In modo pieno, però, l’affetto collegiale si attua e si esprime solo nell’azione collegiale in senso stretto, cioè nell’azione di tutti i vescovi insieme con il loro Capo, con il quale esercitano la potestà piena e suprema su tutta la Chiesa» (n. 8d).

L’esigenza divina della collegialità episcopale è che l’episcopato si esprima in modo collegiale. I vari modi di attuazione della collegialità sono di ordine umano, nel senso che le determinazioni sono storiche e mutevoli, ma ciò che viene attuato scaturisce dalla natura collegiale del ministero episcopale voluta da Cristo stesso. Il Codice di diritto canonico al can. 337 §§ 1-2 indica le tre modalità di attuazione della potestà suprema e piena del collegio dei vescovi: il concilio ecumenico (§ 1), «l’azione congiunta dei vescovi sparsi nel mondo» (§ 2); ogni altra forma (come potrebbe essere, ad esempio, il sinodo), lasciata alla discrezione del romano pontefice (§ 3)10.

Altra testimonianza della collegialità episcopale e insieme della sinodalità delle Chiese sorelle di un territorio e cultura comuni, sono i sinodi o concili particolari, provinciali o nazionali. Si tratta di assemblee concentrate prevalentemente su questioni disciplinari, mediante l’esercizio

10 Ci si può chiedere se, nel contesto del can. 337 §§ 1-3, il collegio eserciti un potere proprio (can. 336), o piuttosto un potere che risulta delegato dal suo capo e quindi ridotto a una dimensione consultiva e l’esercizio della collegialità a pura discrezionalità. Nel can. 337 il concilio appare soltanto come una modalità tra le altre – pur se particolarmente solenne – dell’esercizio della collegialità episcopale. Manca l’attenzione alle Chiese particolari e alle aspirazioni ecumeniche: cf. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, p. 43.

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della potestà legislativa (can. 445). Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Pastores gregis (2003) fa un’importante affermazione sui concili particolari in rapporto alle conferenze episcopali:

«il posto dei concili particolari non può essere preso dalle conferenze episcopali (…). Le conferenze episcopali, invece, possono essere un valido strumento per la preparazione dei concili plenari».

La ragione addotta dal Papa è rilevante: «Nei concili particolari, proprio per la partecipazione in essi anche di presbiteri, diaconi,

religiosi, religiose e laici, sebbene solo con voto consultivo, è in modo immediato espressa non soltanto la comunione tra i vescovi, ma anche la comunione tra le Chiese» (n. 62: EV 22/909).

Le conferenze episcopali sono “corporative”, in quanto espressione dei soli vescovi, i concili

particolari, vista la loro composizione e le competenze ad essi attribuite, sono espressione di sinodalità.

Le due forme di collegialità – affettiva ed effettiva - non vanno disgiunte. Nell’esortazione Pastores gregis, l’unità tra le due è così descritta:

«L’affetto collegiale, pertanto, o collegialità affettiva (collegialitas affectiva), vige sempre tra i vescovi come communio episcoporum, ma solo in alcuni atti si esprime come collegialità effettiva (collegialitas effectiva). I vari modi di attuazione della collegialità affettiva in collegialità effettiva sono di ordine umano, ma in gradi diversi concretizzano l’esigenza divina che l’episcopato si esprima in modo collegiale. Nei concili ecumenici, poi, la suprema potestà del collegio su tutta la Chiesa viene esercitata in modo solenne» (n. 8e).

Passiamo ora allo studio dei documenti nei quali trova attuazione la collegialitas affectiva, l’affetto collegiale. La collegialità affettiva è più ampia della collegialità effettiva. 1. PAOLO VI, Motu proprio Apostolica sollicitudo. Istituzione del sinodo dei vescovi per la Chiesa universale (15.09.1965), in AAS 57 (1965), pp. 775-780: EV 2/444-457. Cenni storici: origine ed evoluzione del sinodo dei vescovi presso il papa – 1.1 – Cenni storici sulle origini del sinodo dei vescovi e sulla sua istituzione: - J. TOMKO (a cura di), Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1985. - A. INDELICATO, Il Sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), Società Editrice il Mulino, Bologna, 2008, pp. 23-100. - Nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi: Introduzione (Card. L. Baldisseri), Relazione commemorativa (Card. Christoph Schönborn), Comunicazioni (interventi in rappresentanza dei cinque continenti), 17 ottobre 2015, in L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, pp. 4-7. - Nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi: Discorso del Santo Padre Francesco, sabato 17 ottobre 2015, in L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, p. 4. 1.2 - Istituito durante il concilio Vaticano II dal papa Paolo VI, il sinodo dei vescovi, si legge nel motu proprio Apostolica sollicitudo, è una struttura voluta con l’intento di «rafforzare con più stretti vincoli la nostra (del Papa) unione con i vescovi, … affinché non ci venga a mancare il sollievo della loro presenza, l’aiuto della loro prudenza ed esperienza, la sicurezza del loro consiglio, l’appoggio della loro autorità», nonché «per dare ai medesimi la possibilità di prendere parte in maniera più evidente e più efficace alla nostra sollecitudine per la Chiesa universale” (AAS 57 [1965], p. 776 proemio: EV 2/444-445). Con l’istituzione del sinodo, Paolo VI intendeva rispondere all’esigenza di «adattare le vie e i metodi del sacro apostolato alle accresciute necessità dei nostri

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giorni ed alle mutate condizioni della società», esigenza che richiede di «ricorrere sempre più all’aiuto dei vescovi per il bene della Chiesa universale» (ivi).

Istituito il 15 settembre 1965, il sinodo dei vescovi ha potuto trovare accoglienza anche in due decreti votati nell’ultima sessione del Vaticano II, e cioè nel Decreto sui vescovi Christus Dominus, al n. 5 e in quello sulle missioni, Ad gentes, al n. 29. Da allora ad oggi si contano 27 assemblee sinodali: 14 assemblee generali ordinarie, 3 assemblee generali straordinarie, 10 assemblee speciali.

Sebbene il motu proprio Apostolica sollicitudo incominci presentando il sinodo dei vescovi come una risposta ai “segni dei tempi”, Paolo VI passa subito a indicare il fondamento teologico di questo nuovo organismo. È lo Spirito, afferma Paolo VI, che ha costituito i vescovi pastori per governare la Chiesa di Cristo (Atti, 20,28) e subito aggiunge che, nel massimo rispetto della pienezza dell’ufficio episcopale, intende associare più strettamente i vescovi a sé nella corresponsabilità del governo centrale della Chiesa.

Riprendendo quasi letteralmente il voto espresso nel Decreto Christus Dominus (num. 5). Paolo VI istituisce il sinodo come «consiglio permanente dei vescovi per la Chiesa universale», soggetto direttamente al papa e precisa la sua natura come «a) un’istituzione ecclesiastica centrale, b) rappresentante tutto l’episcopato cattolico (partes agens totius catolici episcopatus), c) per sua natura perpetua, ma che esercita i suoi compiti in modo temporaneo e occasionale» (Apostolica sollicitudo, art. I: EV 2/446). Le finalità sono descritte nell’art. II dell’ Apostolica sollicitudo: «Al sinodo dei vescovi spetta per sua natura il compito di dar informazioni e consigli. Potrà anche godere di potestà deliberativa, quando questa gli sia stata conferita dal romano pontefice, al quale spetta in tal caso ratificare le decisioni del sinodo» (EV 2/447). Negli altri articoli sono regolate la sottomissione diretta e immediata del sinodo all’autorità del papa, i diversi tipi di assemblea e la loro composizione (Apostolica sollicitudo, art. III-X: EV 2/448-455). I padri del concilio Vaticano II, nell’insieme fecero buona accoglienza alla nuova istituzione. La decisione del Papa dispensava ormai il concilio da ulteriori discussioni sulla collegialità e sulla natura del nuovo istituto. Anche coloro che volevano un sinodo rappresentativo dell’intero episcopato, che operasse collegialmente con il papa nel governo della Chiesa, quasi come un concilio ecumenico permanente, accettarono il nuovo istituto11. Furono, però, segnalati alcuni limiti: nel motu proprio mancava qualsiasi riferimento alla Lumen gentium e alla collegialità. Al governo centrale si aggiungeva un nuovo organo, tutto da esperimentare. 1.3 - L’esperienza del primo Sinodo celebrato nel 1967, positiva sul piano generale (INDELICATO, Il sinodo dei vescovi, pp. 109-136, 134), convinse Paolo VI a indire un nuovo sinodo per il 1969. Nel discorso al collegio cardinalizio ed alla curia romana, il 23 dicembre 1968, Paolo VI così motivava la sua deliberazione: “Abbiamo stabilito di convocare per il prossimo anno 1969 un’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi, che avrà inizio, a Dio piacendo, l’11 ottobre venturo e che avrà come scopo di esaminare le forme adatte ad assicurare una migliore cooperazione e più proficui contatti delle singole conferenze episcopali con la Santa Sede e fra di esse. L’importanza che noi annettiamo a questa possibilità di mutuo aiuto basato su un principio di collegiale collaborazione e di comune responsabilità, dal concilio ecumenico Vaticano II approvato e incoraggiato, ci ha indotto a questa deliberazione, che confidiamo, con l’aiuto di Dio, coronata di risultati di non poca utilità per la Chiesa” (riferito da CAPRILE, p. 23). Dunque compito del sinodo straordinario era di riflettere sulla natura della collegialità episcopale e in particolare sulla cooperazione delle singole conferenze episcopali con la Santa Sede e tra loro. Il dibattito fu vivo ed appassionato. Non vi fu nessun documento ufficiale conclusivo. 11 Non è del tutto chiarito l’iter redazionale del motu proprio Apostolica sollicitudo e quali teologi e canonisti abbiano dato il loro apporto. Notevole fu il contributo del canonista belga W. Onclin. Sembra che Paolo VI pensasse più a un certo numero di vescovi da convocare in maniera discontinua scelti in funzione dei problemi da trattare: cf. ALBERIGO, V/79-85; Paolo VI e la collegialità episcopale. Colloquio internazionale di studio, Brescia 25-26-27 settembre 1992, Brescia 1995.

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Apparve ad ogni modo che l’ampia problematica non era ancora decantata e assimilata nella Chiesa (sull’apporto di questo sinodo alla questione della collegialità, cf. l’opera di M. FACCANI). L’episodio più rilevante del sinodo del 1969 fu l’istituzione del consilium della segreteria (INDELICATO, Il sinodo dei vescovi, pp. 137-170, 171-181). Sulla natura e sul funzionamento del sinodo, nel 20° anniversario della sua costituzione, si è soffermato il “consiglio della segreteria generale del sinodo” nella riunione del 26-30 aprile 1983. Nella stessa riunione Giovanni Paolo II pronunciava un intenso discorso programmatico con il quale testimoniava la sua alta considerazione per la funzione del sinodo nel suo servizio alla Chiesa universale. Il papa vedeva nel sinodo «uno strumento della collegialità e un potente fattore di comunione» (AAS 75 [1983], p. 649). Il Sinodo dei vescovi e il concilio sono inseparabilmente uniti. Nel 1983 Giovanni Paolo II constatava: «Il Sinodo dei Vescovi ha contribuito in maniera notevolissima all’attuazione degli insegnamenti e degli orientamenti dottrinali e pastorali del concilio Vaticano II nella vita della Chiesa universale» (Discorso al Consiglio della segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, 30 aprile 1983). 1.4 - Il sinodo straordinario del 1985, convocato per la celebrazione del concilio a vent’anni dalla sua conclusione, ha voluto riflettere ulteriormente sulla collegialità. Nei documenti appare una terminologia che via via diviene sempre più corrente e sicura. Si parla di azione collegiale in senso stretto, riservata alla sola «attività di tutto il collegio, insieme al suo capo, su tutta la Chiesa. La sua massima espressione si ha nel concilio ecumenico» (Relazione finale, II, C, 4: EV 9/1803). Ma lo stesso sinodo rileva che «lo spirito collegiale è più ampio della collegialità effettiva intesa in modo esclusivamente giuridico» (ivi). Conseguentemente la stessa relazione afferma: «Da questa prima collegialità intesa in senso stretto, bisogna distinguere le diverse realizzazioni parziali, che sono autenticamente segno e strumento dello spirito collegiale: il sinodo dei vescovi, le conferenze episcopali, la curia romana, le visite ad limina, ecc. Tutte queste attuazioni non possono essere dedotte direttamente dal principio teologico della collegialità, ma sono regolate dal diritto ecclesiastico» (ivi) (cf. INDELICATO, Il sinodo dei vescovi, pp. 297-344). Due anni prima, nel 1983, il Codice di diritto canonico aveva introdotto rilevanti modifiche che avevano inciso profondamente sulla natura del sinodo dei vescovi. Il Codice non parlava più del sinodo come istituzione rappresentativa dell’intero episcopato, e stabiliva che si trattava di «un’assemblea di vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell’orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il romano pontefice e i vescovi stessi, e per prestare aiuto con il loro consiglio al romano pontefice … e inoltre per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo» (c. 342).

Sotto il profilo giuridico formale una tale descrizione configura il sinodo come un organo consultivo primaziale, mediante il quale l’episcopato aiuta il romano pontefice nell’adempimento delle sue (del papa) responsabilità. Quanto alla competenza, il c. 343 stabiliva: «Spetta al sinodo dei vescovi discutere sulle questioni proposte ed esprimere dei voti, non però dirimerle ed emanare decreti su tali questioni, a meno che in casi determinati il romano pontefice, cui spetta in questo caso ratificare le decisioni del sinodo, non gli abbia concesso potestà deliberativa».

Con il Codice diviene chiaro che i vescovi nel sinodo rappresentano l’episcopato cattolico soltanto in senso morale e manifestativo e il loro voto è per sé consultivo, potendo diventare deliberativo soltanto per delega del romano pontefice. Nel sinodo non agisce l’intero collegio dei vescovi e i suoi atti non sono atti da attribuire giuridicamente all’intero collegio. I vescovi delegati al sinodo non rappresentano la conferenza episcopale che li ha scelti, ma possono esprimere il loro parere personale e nella votazione votare seconda la propria scienza e coscienza. Il sinodo non ha potestà di governo ecclesiastico, né è titolare di potestà di governo delegata dal collegio dei vescovi o dai singoli vescovi (cf. LG, n. 23). Il sinodo ha il diritto di far conoscere al papa i suoi pareri, accettati secondo un modello collegiale. Il sinodo è un organismo di comunione di fede.

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1.5 - Durante il pontificato di Giovanni Paolo II la pratica del sinodo ha avuto un grande ruolo: le esortazioni apostoliche che egli ha pubblicato dopo ogni assemblea tengono conto delle proposizioni del sinodo e sono designate come «postsinodali», per rilevare la loro natura “collegiale”. Il sinodo dei vescovi rappresenta non solo un istituto giuridico originale nella Chiesa con funzioni consultive riguardo l’ufficio primaziale, ma, cosa ancor più rilevante, esso si è rivelato uno strumento idoneo per mettere in pratica un governo di comunione della Chiesa Cattolica, essendo utile al romano pontefice per compiere, quale capo del collegio dei vescovi, la sua specifica funzione di unità nei confronti dell’intero episcopato. Il Grotaers definisce il sinodo dei vescovi «esperienza unica di collegialità vissuta». 1.6 - L’esortazione postsinodale Pastores gregis (16.10.2003) dedica al sinodo dei vescovi l’art. 58. La valutazione del sinodo è ampiamente positiva. Dice il testo: «Gli anni trascorsi hanno mostrato come i vescovi, in unione di fede e di carità, possano prestare valido aiuto con il loro consiglio al romano pontefice nell’esercizio del suo ministero apostolico, sia per la salvaguardia della fede e dei costumi, che per l’osservanza della disciplina ecclesiastica. Lo scambio di notizie sulle Chiese particolari, infatti, facilitando la concordanza di sentenze anche su questioni dottrinali, è un modo valido per rafforzare la comunione» (n. 58c). In ogni assemblea generale del sinodo, aggiunge il papa, si ha una «forte esperienza ecclesiale, anche se nelle modalità delle sue procedure rimane sempre perfettibile» (n. 58d).

A chi obietta che il sinodo perde d’importanza e di efficacia perché scarsamente rappresentativo e privo di voto deliberativo Giovanni Paolo II risponde: «I vescovi riuniti nel sinodo rappresentano anzitutto le proprie Chiese, ma tengono presenti anche i contributi delle conferenze episcopali dalle quali sono designati e dei cui pareri circa le questioni da trattare si fanno portatori. Essi esprimono così il voto del corpo gerarchico della Chiesa e, in qualche modo, quello del popolo cristiano, del quale sono i pastori. […] Il fatto che il sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva non ne diminuisce l’importanza. Nella Chiesa, infatti, il fine di qualsiasi organo collegiale, consultivo o deliberativo che sia, è sempre la ricerca della verità o del bene della Chiesa. Quando poi si tratta della verifica della medesima fede, il consensus Ecclesiae non è dato dal computo dei voti, ma è frutto dell’azione dello Spirito, anima dell’unica Chiesa di Cristo» (n. 58e). Il sinodo dei vescovi, afferma ancora Giovanni Paolo II, è un evento in cui si rende particolarmente evidente che «il successore di Pietro, nell’adempimento del suo ufficio, è sempre congiunto nella comunione con gli altri vescovi e con tutta la Chiesa», mentre i vescovi, dal canto loro, «esprimono la partecipazione al governo della Chiesa universale» (n. 58ef). Nella commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi veniva ribadito quanto già affermato da Giovanni Paolo II nel 1983 e cioè che «il sinodo è uno dei luoghi di interpretazione e di applicazione delle riforme volute dal concilio» (Card. C. SCHÖNBORN, Torniamo a Gerusalemme, in L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, p. 7).

Meritano attenzione le di Papa Francesco pronunciate sabato 17 ottobre, durante la commemorazione del 50° anniversario del sinodo dei vescovi: «Fin dall’inizio del mio ministero come vescovo di Roma ho inteso valorizzare il sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il beato Paolo VI, il Sinodo dei vescovi doveva riproporre l’immagine del concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale “col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato”. A lui faceva eco, vent’anni più tardi, san Giovanni Paolo II, allorché affermava che “forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel sinodo ancor più pienamente”. Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo. Dobbiamo proseguire su questa strada. [ … ] Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, p. 4.

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Basi ecclesiologiche del sinodo dei vescovi 1.7 – Occorre chiedersi come si colloca l’istituzione del sinodo nella Chiesa, su quali basi teologiche ed in specie ecclesiologiche esso poggia. Paolo VI in Apostolica sollicitudo definisce il sinodo dei vescovi come «uno speciale consiglio permanente di sacri pastori» e parla genericamente della «viva unione (del papa) con i vescovi», sperimentata durante il concilio e che può portare anche dopo il concilio al popolo cristiano una larga «abbondanza di benefici» (Apostolica sollicitudo, introduzione). Paolo VI non parla di collegialità, all’epoca intesa soprattutto in senso giuridico, ma ne utilizza il senso profondo elaborato dal concilio. Giovanni Paolo II trova la fondazione teologica del sinodo dei vescovi, remotamente nell’unità della Chiesa che si esprime concretamente e dinamicamente nella vita di comunione tra le singole Chiese locali, e, direttamente, nella collegialità tra tutti i vescovi, incluso in particolare con quello della Chiesa di Roma. Le due realtà intimamente collegate, la comunione e la collegialità, tornano continuamente nei discorsi di Giovanni Paolo II sul sinodo. Con particolare vigore, nel discorso al consiglio della segreteria generale del sinodo del 30 aprile 1983, egli afferma:

«Il sinodo è lo strumento della collegialità ed un potente fattore della comunione … Si tratta di uno strumento efficace, agile, tempestivo, puntuale a servizio di tutte le Chiese locali e della collegialità» (AAS 75 [1983], p.649).

La “communio” ecclesiale, è per Giovanni Paolo II l’ultimo fondamento in cui si radica il

sinodo dei vescovi che sorge come un’esigenza dell’unità e della comunione. Ma allo stesso tempo il sinodo, una volta esistente e funzionante, diventa uno strumento che trova nell’unità e nella comunione ecclesiale la sua più profonda finalità. Attraverso la viva collegialità dei vescovi, compreso quello di Roma, il sinodo dei vescovi raggiunge la comunione dei fedeli tutti nelle Chiese particolari. Dunque, Giovanni Paolo II, muovendo dall’esigenza della comunione e affermata la nota dell’unità della Chiesa, individua in queste due coordinate le radici del nuovo organismo e la sua dinamica operativa, e pone come base immediata della “sinodalità” il “principio della collegialità” (Redemptor hominis, n. 5: AAS 71 [1979], pp. 2634-265).

Papa Francesco ribadisce il concetto di Chiesa sinodale: «Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola Sinodo. Camminare insieme – laici, pastori, vescovo di Roma». Il riferimento è al popolo di Dio, santo in ragione dell’unzione dello Spirito e infallibile “in credendo”. Una Chiesa sinodale, afferma il Papa, è una Chiesa dell’ascolto e il Sinodo è il punto di convergenza del dinamismo dell’ascolto, che deve essere sviluppato a tutti i livelli della Chiesa e che ha il suo culmine nel vescovo di Roma. «Chiesa e sinodo sono sinonimi»: ricordando questa espressione di san Giovanni Crisostomo, il Papa ha rilanciato la sinodalità «come dimensione costitutiva della Chiesa» (L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, p. 4). La natura giuridica del sinodo dei vescovi Sono state dibattute due questioni fondamentali: la rappresentatività e la potestà del sinodo. Abbiamo già visto che il can. 342 non dice più che il sinodo è «l’assemblea dei vescovi che rappresenta tutto l’episcopato cattolico», come si affermava nel decreto Christus Dominus, n. 5, ma afferma: «Il sinodo dei vescovi è un’assemblea di vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell’orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il romano pontefice e i vescovi stessi, e per prestare aiuto con il loro consiglio …, per studiare i problemi …».

I motivi addotti dal segretario della commissione per la revisione del Codice, Mons. Willy Onclin, per giustificare l’omissione di Christus Dominus, n. 5 sono fondamentalmente tre. Spiega il canonista di Lovanio:

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«L’espressione “rappresentante dell’episcopato cattolico” è “imprecisa giuridicamente”. Dal

punto di vita strettamente giuridico non si può dire che un vescovo abbia dei ruoli nelle altre Chiese, perché la stessa costituzione Lumen gentium dichiara che «i singoli vescovi, che sono a capo di Chiese particolari, esercitano il governo pastorale sulla porzione del popolo di Dio affidata loro, non sulle altre Chiese né su tutta la Chiesa» (n. 23). Teologicamente si può dire che i vescovi nel sinodo devono avere sollecitudine anche di quelle Chiese cui non presiedono, ma in senso giuridico “non si può dire che i vescovi nel sinodo dei vescovi rappresentano anche le altre Chiese o sono i delegati dalle stesse”;

se il sinodo dei vescovi rappresentasse veramente tutti i vescovi, sarebbe come il concilio ecumenico e dovrebbe avere voto deliberativo, cosa che il diritto canonico vigente non contempla: non si ha, quindi, rappresentanza;

delle diverse forme di assemblee sinodali che possono essere celebrate – ordinarie, particolari, speciali - oggi divengono sempre più frequenti quelle particolari e speciali e a queste partecipano soprattutto i vescovi scelti da quelle regioni per le quali il sinodo è stato convocato. Anche in questo caso non si può parlare di rappresentanza di tutto l’episcopato.

Il sinodo – conclude Mons. Onclin – non rappresenta tutto l’episcopato cattolico».12 Nel sinodo dei vescovi non agisce l’intero collegio dei vescovi, per cui i suoi atti non sono

atti da attribuire giuridicamente all’intero collegio. Ciò risulta dal confronto tra il can. 337 (forme dell’esercizio della suprema potestà del collegio dei vescovi) con il can. 343 (competenze attribuite al sinodo: “discutere sulle questioni proposte ed esprimere dei voti”).

Per quanto riguarda la potestà del sinodo già si è detto che il sinodo come tale non ha potestà di governo, né ordinaria né delegata. Esso ha il diritto di far conoscere al papa i suoi pareri che sono stati accettati secondo il modello collegiale, ma questo diritto non si configura come potestà di governo (can. 131). Il fatto che il sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva, non ne diminuisce l’importanza (Pastores gregis, n. 58).

In pratica, le modifiche introdotte con il Codice di diritto canonico rispetto al decreto Christus Dominus e al motu proprio di Paolo VI Apostolica sollicitudo, hanno da una parte attenuato fortemente il carattere di rappresentanza del sinodo come organo espressivo del collegio episcopale, dall’altra hanno accentuato l’interpretazione primaziale del sinodo: si tratta di un organismo di aiuto al papa. Il fatto che la segreteria del sinodo non faccia parte della curia romana, favorisce la sua comprensione come organismo espressivo dell’episcopato cattolico. Da più parti si auspica un potenziamento del sinodo dei vescovi come espressione privilegiata della collegialità episcopale13. Le obiezioni alla configurazione del sinodo dei vescovi: «Nel sinodo la collegialità è legata» (R. Laurentin); «I testi sono ambigui e Paolo VI li ha interpretati in senso papale» (J. Sanchez y Sanchez); «È un organo primaziale, non del collegio dei vescovi» (Acerbi); «La collegialità sospesa» (Indelicato); «Il sinodo è organo di consulenza, non deliberativo» e quindi non necessario e di secondaria importanza. Riflessioni e risposte: - ANTON, «La collegialità nel sinodo dei vescovi», in J. TOMKO (a cura di), Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1985, pp. 81-89, 91-106. Vedi anche le monografie di G.P. MILANO e J.I. ARRIETA. Si vedano inoltre l’epilogo (provvisorio) nell’opera di INDELICATO, Il sinodo dei vescovi, pp. 345-377 e il parere di A. DULLES nell’opera citata di R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, pp- 65-69. 12 J. TOMKO (a cura di), Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1985, pp. 180-181. 13 Cf. M. ALCALÀ, Sínodos, concilios, Iglesias, Madrid, 2000.

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1.8 – Conclusioni. La colleggialitas affectiva del sinodo dei vescovi è una collegialità vera ma parziale. La Commissione Teologica Internazionale, nel documento Temi scelti di ecclesiologia, afferma che il sinodo dei vescovi «può ritenersi espressione vera, benché parziale, della collegialità universale, perché “rappresentando tutto l’episcopato cattolico, insieme dimostra che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale” (CD 5; cf. LG 23)» (COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Documenti [1969-2004], Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, p. 306).

Giovanni Paolo II nell’esortazione Pastores gregis è esplicito nell’affermare il carattere collegiale del sinodo: «Mediante il nuovo organismo si poteva così esprimere più efficacemente l’affetto collegiale e la sollecitudine dei vescovi per il bene di tutta la Chiesa» (n. 58b). In esso, infatti, vede rappresentate non solo le singole Chiese, ma l’intero corpo gerarchico (n. 58d), per cui è evidente che nel sinodo «il successore di Pietro, nell’adempimento del suo ufficio, è sempre congiunto nella comunione con gli altri vescovi e con tutta la Chiesa» (n. 58c). Secondo Giovanni Paolo II tale carattere collegiale non è messo in questione dal fatto che normalmente il sinodo ha soltanto una funzione consultiva (n. 58f).

Secondo Papa Francesco «si possono e si devono cercare forme sempre più profonde e autentiche nell’esercizio della collegialità sinodale, per meglio realizzare la comunione ecclesiale e per promuovere la sua [della Chiesa] inesauribile missione». La ragione: «Non v’è dubbio che il vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza» (Lettera di Papa Francesco al Card. Baldisseri per il conferimento del carattere episcopale al sottosegretario, 1° aprile 2014). Bibliografia: - M. ALCALÁ, Historia del sinodo de los Obispos (de 1967 a 1995), BAC, Madrid, 1996; IDEM, Historia del sinodo de los Obispos (de 1997 a 2001), BAC, Madrid, 2002. - IDEM, Sínodos, concilios, Iglesias, BAC, Madrid, 1998. - A. ANTÓN, Primato y colegialidad, Madrid 1970. - IDEM, «La collegialità nel sinodo dei vescovi», in J. TOMKO [a cura di], Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, pp. 74-81). - J. I. ARRIETA, El Sínodo de los obispos, Pamplona, 1987. - IDEM, Lo sviluppo istituzionale del sinodo dei vescovi, in Ius Ecclesiae 4 (1992), pp. 189-213. - M.C. BRAVI, Il Sinodo dei Vescovi. Istituzione, fini e natura. Indagine teologico-giuridica, (Gregoriana - Tesi diritto canonico, 2), Editrice PUG, Roma, 1995. - A. CALVO ESPIGA, El ejercicio de la colegialidad en el gobierno de la Iglesia universal, in Lumen 32 (1983), pp. 300-320. - G. CAPRILE, Il Sinodo dei vescovi 1969, Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma, 1970. - F. DUPRE LA TOUR, Le Synode de Éveques dans le contexte de la collégialité, Rome, 2002. - Enchiridion del Sinodo dei Vescovi. 1 (1965-1988), 2 (1989-1995), 3 (1996-2007), Edizione bilingue, a cura della Segreteria generale del Sinodo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2005 ss. - M. FACCANI, Collegio e collegialità nel Sinodo 1969, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991. - V. FAGIOLO – G. CONCETTI (ED.), La collegialità episcopale per il futuro della Chiesa, Vallecchi Editore, Firenze, 1969. - A. INDELICATO, Il sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), Società Editrice il Mulino, Bologna, 2008. - R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova Editrice – Facoltà Teologica di Sicilia,Roma 2008. - R. LAURENTIN, Enjeu du 2.me Synode et contestation dans l’Eglise, Paris, 1969. - G.P. MILANO, Il Sinodo dei vescovi, Editore Giuffrè, Milano, 1985. - IDEM, Il Sinodo dei vescovi e la riforma della Curia romana, in FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa. XXV/1. La Chiesa del Vaticano II (1958-1978), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Parte Prima, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1994, pp. 551-558.

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- Sínodo de obispos, in C. O’DONNELL – S. PIÉ-NINOT, Diccionario de Eclesiologia, San Pablo, Madrid, 2001, pp. 992-996. - Synode (Le) permanent: naissance et avenir, Paris, 1970. - C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011. - J TOMKO (a cura di), Il Sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1985. - D. VITALI, Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnago (BI) 2014, pp. 40-44. - Sinodo 1985/ una valutazione: fascicolo monografico della rivista internazionale di teologia Concilium XXII (1986), pp. 827-1014. - Sui sinodi continentali (per l’Africa, per le Americhe, per l’Asia, per l’Europa e per l’Oceania) cfr. gli atti del seminario: L’evangelizzazione interpella le Chiese. Analisi e prospettive dei sinodi continentali, tenuto a Pesaro dal 27 al 30 settembre 1999 e pubblicati in un fascicolo monografico dalla rivista: Ad gentes. Teologia e antropologia della missione 4 (2000), pp. 3-177. - L’XI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata a Roma dal 2 al 23 ottobre 2005, nella congregazione generale di sabato 8 ottobre 2005, ha tenuto la commemorazione del quarantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi. Si vedano le due relazioni: J. TOMKO, «Il Sinodo dei vescovi ha 40 anni: aspetti teologici»; P. ERDÖ, «Quattro decenni di sviluppo istituzionale: aspetti giuridici», in L’osservatore romano, lunedì-martedì 10-11 ottobre 2005, pp. 4-6. - Nel 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi: Introduzione (Card. L. Baldisseri), Relazione commemorativa (Card. Christoph Schönborn), Comunicazioni (interventi in rappresentanza dei cinque continenti), 17 ottobre 2015, in L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, pp. 4-7. - Nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi: Discorso del Santo Padre Francesco, sabato 17 ottobre 2015, in L’Osservatore Romano, domenica 18 ottobre 2015, p. 4. 2. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per la visita «ad limina», 29 giugno 1988, in L’Osservatore Romano 2.7.1988, pp. 4 e 5: EV 11/1084-1132. Fonti normative 2.1 - La disciplina attuale della visita «ad limina» è contenuta nella Costituzione apostolica Pastor bonus di Giovanni Paolo II del 28 giugno 1988, artt. 28-32 (cf. AAS 80 [1988], pp. 841-912). Il testo della Pastor bonus presuppone i cc. 399-400 del Codice di diritto canonico. Vi è inoltre un Adnexum I, alla stessa Pastor bonus che tratta in modo specifico dell’importanza pastorale della visita (AAS 80 [1988], pp. 913-917). Il Direttorio è stato pubblicato con tre note: teologica (J. Ratzinger), spirituale-pastorale (L. Moreira-Neves) e storico-giuridica (V. Carcel Ortí): EV 11/1132-1189. L’esortazione postsinodale Pastores gregis (16.10.2003), alle visite «ad limina Apostolorum» dedica l’art. 57. Il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi (2004), tratta delle visite ad limina apostolorum, ai nn. 12, 15, 162. Natura teologia delle visite «ad limina». 2.2 – Le visite «ad limina», per Giovanni Paolo II sono una manifestazione e insieme un mezzo di comunione tra i vescovi e la Cattedra di Pietro (Pastoroes gregis, n. 57°). «La visita ad limina da parte di tutti i vescovi che presiedono nella carità e nel servizio alle Chiese particolari in ogni parte del mondo, in comunione con la Sede Apostolica, ha un preciso significato e cioè: il rafforzamento della loro responsabilità di successori degli apostoli e della comunione gerarchica con il successore di Pietro e il riferimento, nella visita a Roma, alle tombe dei ss. Pietro e Paolo, pastori e colonne della Chiesa romana. Essa rappresenta un momento centrale dell’esercizio del ministero pastorale del santo padre: in tale visita, infatti, il pastore supremo riceve i pastori delle Chiese particolari e tratta con essi questioni concernenti la loro missione ecclesiale» (Direttorio, premesse: EV 11/1084).

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La visita ad limina non è una procedura di ordine puramente amministrativo. Essa implica un’ecclesiologia e la traduce in atti concreti; essa è – in altre parole – un’ecclesiologia praticata. Nella Nota teologica si afferma che la visita ad limina è una conseguenza concreta della perichoresi tra Chiesa universale e Chiesa locale e il suo centro petrino nella liturgia eucaristica. La perichoresi tra Chiesa universale e Chiesa particolare implica: a) la perichoresi tra collegialità dei vescovi e primato del successore di Pietro; b) l’incontro tra esperienza attuale e confessione permanente della fede; c) l’incontro tra il principio personale e il principio comunitario nel governo della Chiesa (EV 11/1135-1142). Nella Nota spirituale-pastorale è approfondito il legame tra la visita ad limina e la collegialità episcopale. Conclude: «Non si può, rigorosamente parlando, definire la visita ad limina come un atto di collegialità: tale espressione è riservata al concilio, nonché all’azione concorde dei vescovi, pur sparsi per il mondo, se tale azione è approvata o almeno accolta dal medesimo capo (cf. LG 22). Si può dire, tuttavia, che la visitatio è un atto ispirato – derivato, se si vuole – dal principio di collegialità e specialmente dallo spirito di collegialità, grazie al quale i membri del collegio esprimono sempre il loro innato riferimento al capo dello stesso» (EV 11/1144-1150). Anche la Nota giuridica sottolinea la natura della visita ad limina, che è essenzialmente quella di manifestare e rafforzare l’unione dei vescovi con il papa, come anche di confermare la sollecitudine di tutti per la Chiesa di Cristo (EV 11/1189). 2.3 – L’esortazione postsinodale Pastores gregis considera le visite «ad limina Apostolorum» come «una manifestazione e insieme un evento di comunione tra i vescovi e la cattedra di Pietro». Richiama poi i tre momenti principali di tale avvenimento: anzitutto il pellegrinaggio ai sepolcri degli apostoli Pietro e Paolo, poi l’incontro con il successore di Pietro, in fine l’incontro con i responsabili dei dicasteri della curia romana. Merita attenzione la riflessione teologica sviluppata dal papa in riferimento al secondo momento: «Connesso con questo momento (pellegrinaggio ai sepolcri: n.d.r.) è l’incontro con il successore di Pietro. In occasione della visita ad limina, infatti, i vescovi si riuniscono attorno a lui e attuano, secondo il principio di cattolicità, una comunicazione di doni tra tutti quei beni che per opera dello Spirito si ritrovano nella Chiesa, sia a livello particolare e locale, sia a livello universale. Ciò che allora si attua non è semplicemente una reciproca informazione, ma soprattutto l’affermazione e il consolidamento della collegialità (collegialis confirmatio) nel corpo della Chiesa, per la quale si ha l’unità nella diversità, generando una specie di ‘perichoresis’ tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, che si può paragonare al movimento per il quale il sangue parte dal cuore verso le estremità del corpo e da queste torna al cuore. La linfa vitale che viene da Cristo, unisce tutte le parti, come la linfa della vite che va ai tralci (cf. Gv 15,5). Ciò si rende evidente, in particolare, nella celebrazione eucaristica dei vescovi con il papa. Ogni Eucaristia, infatti, è celebrata in comunione col vescovo proprio, col romano pontefice e col collegio dei vescovi e. mediante questi, con i fedeli della Chiesa particolare e di tutta la Chiesa, così che la Chiesa universale è presente in quella particolare e questa è inscritta, insieme con le altre Chiese particolari, nella comunione della Chiesa universale» (n. 57b)14. Il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi “Apostolorum successores” (2004), tratta della visita «ad limina» nel n. 15. Il testo sottolinea l’importanza della visita per la vita della Chiesa particolare e il suo significato per la Chiesa universale. 2.4 - Valutazioni conclusive. La finalità delle visite «ad limina Apostolorum»: manifestare sia la comunione cum Petro et sub Petro di tutti i vescovi nella carità, sia la collaborazione di tutti con il successore di Pietro, per il bene della Chiesa intera e quindi di ogni Chiesa particolare (Pastores gregis, n. 57c).

14 Cf. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi « Apostolorum successores », Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004, n.15.

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E’ alla luce della storia che si comprende l’importanza e il significato delle visite ad limina apostolorum. Bibliografia - V. CARCEL ORTÍ, Historia, derecho y diplomática de la visita «ad limina», Valencia 1990. - G. GHIRLANDA, La visita «ad limina apostolorum», in La Civiltà Cattolica II (1989), pp. 359-382. 3. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, ai vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione (28.05.1992), in AAS 85 (1993), pp. 838-850: EV 13/1714-1807 3.1 - Nel dibattito sviluppatosi dopo il concilio Vaticano II sulla collegialità episcopale, la dottrina ha progressivamente messo in luce che la “collegialità del vescovi” non può essere dissociata dalla “collegialità delle Chiese”15. Contemporaneamente si è andata sviluppando la riflessione sulla Chiesa come “comunione”. La lettera della Congregazione per la dottrina della fede, Communions notio, precisato il concetto di comunione, prende posizione sulla relazione tra Chiesa universale e Chiese particolari e affronta il tema dell’episcopato nella prospettiva di un’ecclesiologia eucaristica. 3.2 - Presento brevemente il documento, tenendo conto dell’introduzione contenuta nel testo.

La lettera Communionis notio reagisce davanti ad alcune visioni ecclesiologiche che rivelano una «insufficiente comprensione della Chiesa come mistero di comunione, poiché non armonizzano correttamente il concetto di comunione con i concetti di Popolo di Dio e di Corpo di Cristo, e assegnano un posto insufficiente al rapporto tra la Chiesa comunione e la Chiesa come sacramento». La reazione, però, cede il passo a una elaborazione positiva e sintetica del dato conciliare, in maniera deduttiva. Scopo del documento è mettere in luce il concetto corretto di ‘comunione’, nella linea del concilio Vaticano II e del sinodo straordinario dei vescovi del 1985, dove i pastori hanno sottolineato la centralità di questa categoria per una visione adeguata della Chiesa di Dio, in fedeltà all’insegnamento biblico e alla tradizione patristica (nn. 1 e 3).

Le fonti immediate del documento sono il concilio e il Sinodo del 1985, ma, si legge nell’introduzione, “i documenti magisteriali servono secondo la loro propria intenzione ad una lettura approfondita della Bibbia e dei Padri, e così anche ad un’interpretazione adeguata dei fatti ecclesiologici di oggi”. Il documento intende configurarsi come una’ecclesiologia fondamentale, che, pur rispettando le diverse metodologie di approccio e di elaborazione sistematica di una trattazione sulla Chiesa, deve essere accolta in un’ecclesiologia che intende essere cattolica (si tratta di “punti fermi”: introd., n. 1). Il concetto di comunione è precisato sotto tre aspetti fondamentali:

- in rapporto ad altre nozioni centrali dell’ecclesiologia, quali «popolo di Dio», «corpo di Cristo», «sacramento»;

- in rapporto all’eucaristia e all’episcopato, puntualizzando il significato dell’unità della Chiesa, che si esprime nella reciproca interiorità tra Chiesa universale e Chiese particolari;

- in rapporto al legame tra i vescovi, e tra loro e il successore di Pietro, che è il fondamento visibile dell’unità della Chiesa, tenendo presente l’attenzione e l’esigenza provenienti dalla prospettiva ecumenica.

15 «On ne peut dissocier la collégialité des évêques de la collégialité des Églises» : così scriveva il p. H. Legrand nel suo commento al decreto Christus Dominus : Vatican II. La charge pastoral des Évêques. Traduction et commentaires, Éditions du Cerf, Paris 1969, p. 115.

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Nel capitolo I: “La Chiesa, mistero di comunione”, il concetto di comunione, compreso alla luce delle fonti neotestamentarie, è riconosciuto come particolarmente adeguato per esprimere il nucleo profondo del mistero della Chiesa e quindi utilizzabile quale chiave di lettura per una rinnovata ecclesiologia cattolica (n. 1). La nozione di comunione comporta sia la dimensione verticale (comunione con Dio) e orizzontale (comunione tra gli uomini), sia la dimensione invisibile (comunione intima con la Santissima Trinità e con gli altri uomini) e visibile (comunione nella dottrina degli apostoli, nei sacramenti e nell’ordine gerarchico). Questa comunione non è quindi semplicemente di natura morale o psicologica, ma ontologica e soprannaturale, e implica una spirituale solidarietà tra i membri della Chiesa, perché sono membri di un unico corpo, cioè il Corpo di Cristo. Nel capitolo II: “Chiesa universale e Chiese particolari”, si considerano le espressioni concrete del mistero della Chiesa intesa come comunione. Innanzi tutto il concetto di comunione si applica alla realtà delle Chiese particolari, le quali sono veramente “Chiese” perché sono costituite ad immagine della Chiesa universale. Di conseguenza ogni Chiesa particolare è realmente Chiesa in quanto in essa è presente e agisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ciò significa che la Chiesa di Cristo non può essere concepita come una somma o federazione di Chiese particolari. A questo punto il documento fa un’importante affermazione che susciterà molto dibattito: nel suo essenziale mistero, la Chiesa universale precede «ontologicamente e temporalmente ogni singola Chiesa particolare» (n. 9), e queste prendono origine da quella. Il documento sottolinea questa duplice priorità della Chiesa universale nella linea della Scrittura e dei Padri e vede espressa la precedenza ideale della Chiesa unica, universale, nell’evento della Pentecoste (n. 9). Sempre in questo contesto il documento sottolinea il carattere universale, «cattolico», del battesimo, che incorpora nell’unico Corpo di Cristo (ivi). Nel capitolo III: “Comunione delle Chiese, eucaristia ed episcopato”, il concetto di comunione è messo in rapporto con l’unità della Chiesa da una parte, e l’eucaristia e l’episcopato dall’altra. La comunione tra le Chiese nell’unità della Chiesa universale è radicata nell’eucaristia, poiché la celebrazione del sacrificio eucaristico in una particolare o locale comunità, non è mai celebrazione di quella sola comunità: si diventa Chiesa accogliendo l’intero dono sacramentale di grazia e nella comunione con il corpo mistico. Così l’unità della Chiesa è pure radicata nell’unità dell’episcopato. Infatti come l’idea stessa di un corpo delle Chiese richiama l’esistenza di una Chiesa Capo delle Chiese, che è appunto la Chiesa di Roma, così l’unità dell’episcopato comporta l’esistenza di un vescovo capo del corpo o collegio dei vescovi, che è appunto il romano pontefice. Unità dell’eucaristia e unità dell’episcopato non sono realtà estrinseche o principi organizzativi rispetto all’unità della Chiesa, ma sono realtà teologiche reciprocamente vincolate e intrinseche al ministero della Chiesa stessa. Nel capitolo IV: “Unità e diversità nella comunione ecclesiale”, si afferma che l’unità della Chiesa come descritta, non ostacola la pluralità e la diversificazione relative alla diversità dei ministeri, dei carismi, delle varie forme di apostolato. La promozione dell’unità e della pluralità non solo non si oppongono, ma si arricchiscono vicendevolmente. Nel capitolo V: “Comunione ecclesiale ed ecumenismo”, il concetto ecclesiologico di comunione è visto nelle sue implicanze ecumeniche. Il capitolo non si comprende del tutto se non lo si colloca nel dibattito ecumenico degli anni ’90, in particolare con la comunione anglicana. Dalla logica del documento risulta che la successione nel ministero di Pietro, non è una realtà puramente organizzativa, esteriore alla vera essenza della comunione stessa, del suo essere la Chiesa del Signore. Il documento parla poi dei molteplici elementi della Chiesa di Cristo presenti nelle altre Chiese e comunità non cattoliche (n. 17). Trae la conseguenza che la situazione delle Chiese ortodosse, separate dalla comunione con il successore di Pietro, implica una ferita nel loro essere

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Chiesa particolare (n. 17). Questa ferita è ancor più profonda nelle comunità ecclesiali che non hanno conservato la successione apostolica, dalla quale dipende la validità dell’eucaristia (n. 17). Anche la Chiesa cattolica considera un ferita la situazione di divisione delle Chiese, in quanto ostacolo alla realizzazione piena della universalità nella storia. 3.3 – Di rilievo quanto si legge nel capitolo II. La Lettera si oppone a coloro che considerano la Chiesa universale come la somma delle Chiese particolari o come una loro federazione, ma introduce nel n. 9 tre precisazioni per stabilire in seguito «il vero senso dell’applicazione analogica del termine comunione all’insieme delle Chiese particolari». Il testo afferma anzitutto un peculiare rapporto di «mutua interiorità» tra le Chiese particolari e la Chiesa universale. Aggiunge poi – passaggio decisivo e fonte di discussioni – che «la Chiesa universale è, nel suo essenziale mistero (cf. il c. I), una realtà ontologicamente e temporalmente (= cronologicamente) previa a ogni singola Chiesa particolare» [(Ecclesia universalis) non est enim fructus communionis istarum, sed, pro essentiali suo mysterio, ontologice et temporaliter praecedit quamcumque Ecclesiam particularem]. Questa doppia affermazione fa riferimento ad alcuni padri della Chiesa, per i quali la Chiesa come mistero precede la creazione, sia a un’esegesi dell’inizio degli Atti degli Apostoli, che identifica la Chiesa del Cenacolo e della Pentecoste con la Chiesa universale, prima di aver dato vita alle diverse Chiese locali. La Lettera così continua: «Ontologicamente [ … ] la Chiesa una e unica [ … ] precede la creazione, e partorisce le Chiese particolari come figlie, si esprime in esse, è madre e non prodotto delle Chiese particolari. [ … ] Da essa, originata e manifestatasi universale, hanno preso origine le diverse Chiese locali, come realizzazioni particolari dell’una ed unica Chiesa di Gesù Cristo». Il terzo passaggio del ragionamento consiste nel trarre la conclusione:

«Perciò, la formula del concilio Vaticano II: La Chiesa nelle e a partire dalle Chiese (Ecclesia in et ex Ecclesiis), è inseparabile da quest’altra: Le Chiese nella e a partire dalla Chiesa (Ecclesiae in et ex Ecclesia). È evidente la natura misterica di questo rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, che non è paragonabile a quello tra il tutto e le parti in qualsiasi gruppo o società puramente umana».

La Lettera trae, da queste affermazioni ecclesiologiche, sviluppi orientati operativamente.

«Nella linea di una ecclesiologia eucaristica del corpo di Cristo, l’elemento di novità consiste anzitutto nel giungere a partire dalla nozione conciliare di “corpo delle Chiese” (LG 23), a quella di una «Chiesa capo delle Chiese, che è precisamente la Chiesa di Roma», e dall’unità dell’episcopato all’esistenza di un vescovo capo del corpo o collegio dei vescovi, che è il romano pontefice (lettera, n. 12). Su questa base, non solo si determina che per essere effettivamente “a immagine della Chiesa universale” (LG 23) la Chiesa particolare deve contenere «come elemento proprio» «l’autorità suprema della Chiesa, ovvero il collegio episcopale “con il romano pontefice, suo capo, e mai senza di lui”»; riprendendo il capitolo III della costituzione Pastor aeternus del Vaticano I, si arriva così a concludere che «il ministero di Pietro appartiene già all’essenza di ogni Chiesa particolare»: «L’essere il ministero del successore di Pietro interiore ad ogni Chiesa particolare è espressione necessaria di quella fondamentale mutua interiorità tra Chiesa particolare e Chiesa universale» (lettera, n. 13). Secondo un ragionamento discendente, il testo passa dalla prerogativa ontologica e cronologica della Chiesa universale, manifestata nel cenacolo e con la Pentecoste, alla prerogativa del capo per rapporto al corpo, manifestata in quella Chiesa capo che è la Chiesa di Roma e in quel «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità dell’episcopato e della Chiesa intera» che è il romano pontefice. La collegialità non è assente dall’argomentazione, ma è integrata in uno schema ontologico che la precede e la ingloba» (THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, p. 475-476). Le precisazioni dottrinali introdotte dalla Lettera Communionis notio trovano accoglienza e sviluppo come disciplina canonica in due testi apparsi nel 1996 e nel 1998. Si tratta dell’istruzione In constitutione apostolica sui sinodi diocesani del 19 marzo 1997, emanata dalla Congregazione

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per i vescovi e dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (si vedano i nn. I/3 e IV/4) e del motu proprio sulla natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali Apostolos suos del 21 maggio 1998 (si veda il n. 12, che riprende ampiamente Communionis notio, n. 9). In quest’ultimo documento la precedenza ontologica e temporale della Chiesa universale sulle Chiese particolari, viene estesa al collegio episcopale, soggetto teologico indivisibile, che precede e presiede ad ogni singolo membro. La potestà su tutta la Chiesa è una realtà anteriore a cui partecipano i singoli vescovi, i quali non possono agire su tutta la Chiesa se non collegialmente. Le spiegazioni fornite dal motu proprio servono a giustificare la presenza dei vescovi titolari nella Chiesa, che ormai superano, quantitativamente, i vescovi diocesani. 3.4 - La chiave ermeneutica del documento sta nell’affermazione della mutua interiorità fra la Chiesa universale e le Chiese particolari. Questa mutua interiorità, consente di comprendere il presupposto che la Chiesa particolare è soggetto in se stesso completo nella misura in cui possiede interiormente tutti i vincoli della comunione universale. Al nostro scopo, è da tenere in considerazione la riflessione sulla relazione tra eucaristia e ministero episcopale: la comunione con il collegio episcopale ed il suo capo non è elemento esterno alla celebrazione eucaristica e neppure all’essere stesso delle Chiese particolari, ma è una dimensione interna, un elemento interiore. Quest’affermazione risulta determinante in tutto il documento. La lettera non offre nuove interpretazioni della giurisdizione universale ed immediata del romano pontefice, ma offre uno schema per comprendere il rapporto fra collegio episcopale e papa, così come fra Chiesa universale e Chiese particolari. 3.4 - Valutazioni conclusive. Nella Lettera sono assai utili le precisazioni terminologiche e concettuali sulla nozione di comunione. La Lettera è servita ad arginare una deriva ecclesiologica, una estremizzazione sul versante della Chiesa locale, che rischiava di ignorare la dimensione universale della Chiesa. Nella Lettera prevale una teologia di conclusione, deduttiva, il cui obiettivo primario è dare una risposta alle tante formule del concilio Vaticano II rimaste aperte. Nella affermazione, giusta e utile, della “mutua interiorità” tra Chiesa universale e Chiesa particolare, la Lettera privilegia l’interiorità sacramentale o eucaristica, mentre ribadisce il potere autenticamente episcopale, supremo, plenario, universale e immediato su tutti, tanto sui pastori che sugli altri fedeli, del romano pontefice. Sullo sfondo ritroviamo la tensione tra ordine (sacramento) e giurisdizione, Nella Lettera permane la dottrina della precedenza ontologica e cronologica della Chiesa universale sulle Chiese particolari. Non viene menzionata la comunione tra i membri del collegio episcopale. Così il papa resta profondamente isolato e il singolo vescovo appare solitario nel suo rapporto con Roma. Bibliografia: - CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «Communions notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa comunione (28 maggio 1992. Testo e commenti, Libreria Editrice Vaticana, 1994. NB. Il testo si rivela utile per la comprensione del documento a partire dal Dicastero che l’ha emanato. Contiene una nota apparsa in L’Osservatore Romano in data 23 giugno 1993, pp. 1.4 (nel volume pp. 81-90). La nota, non firmata, e quindi particolarmente autorevole, si intitola: La Chiesa come comunione. A un anno dalla pubblicazione della Lettera «Communionis notio». La nota contiene alcune riflessioni sviluppate alla luce delle prime reazioni suscitate dalla Lettera. - M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo (GdT, 255), Queriniana Editrice, Brescia, 1998, pp. 110-113. - G. RUGGERI, «La sollicitudo omnium ecclesiarum tra universalismo e comunione» in R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità.“Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova Editrice – Facoltà Teologica di Sicilia, Roma 2008, pp. 27-52: 44-45.

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- D. SICARD, L’Église comprise comme communion. Lettre de la Congrégation pour la doctrine de la foi. Commentaires, Éditions du Cerf, Paris 1993 - B. SESBOÜE, «La réception officielle des énoncés de Vatican II sur l’épiscopat dans les documents du Saint-Siège depuis le nouveau Code (1983-1999)», in H. LEGRAND ET CH. THEOBALD (ED.), Le ministère des évêques au concile Vatican II et depuis. Hommage à Mgr Guy Herbulot, Les Éditions du Cerf, Paris, 2001, pp. 123-129 - C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011, in particolare pp. 474-478 e passim. - D. VITALI, Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2014, pp. 36-60. 4. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica m. p. Apostolos suos sulla natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali (21 maggio 1998), in AAS 90 (1998), pp. 641-658: EV 17/808-850 La riflessione sulle conferenze episcopali. Aspetti di un dibattito 4.1 – In aderenza ai documenti del concilio Vaticano II, la lettera apostolica Apostolos suos esplicita i principi basilari teologici e giuridici riguardo alle conferenze episcopali e offre una integrazione normativa complementare sulla loro funzione dottrinale (magistero autentico). Il documento contiene la riflessione più elaborata sull’unione ‘collegiale’ tra i vescovi e sulla gradualità del suo esercizio. Il concilio Vaticano II aveva dato uno statuto alle conferenze episcopali e aveva contribuito all’ulteriore loro diffusione. Le aveva iscritte nella grande tradizione della sinodalità della Chiesa e aveva affermato che avrebbero potuto dare un contributo molteplice e fecondo per l’applicazione concreta del senso della collegialità (LG 23). Nel decreto Christus Dominus, nn. 37-38, erano stabilite particolari norme riguardanti la composizione delle conferenze, la loro struttura e le competenze. Con successivi interventi legislativi Paolo VI dava alle conferenze quella fisionomia che sarà fatta propria dal Codice promulgato nel 1983 (cc. 447-459). Durante il concilio Vaticano II e negli anni successivi predominarono due questioni nei confronti delle conferenze episcopali: il fondamento teologico delle conferenze e la loro capacità di prendere decisioni vincolanti. 4.1.1 - Sulla natura teologica delle conferenze l’opinione prevalente prima della lettera apostolica Apostolos suos è riassunta da questo testo della Commissione Teologica Internazionale, dell’anno 1985:

“Istituzioni come le conferenze episcopali (e i loro raggruppamenti continentali) derivano dall’organizzazione o dalla forma concreta della Chiesa (iure ecclesiastico); l’uso, nei loro riguardi, dei termini ‘collegio’, ‘collegialità’, ‘collegiale’, è dunque solo in un senso analogo, teologicamente improprio” (Temi scelti di ecclesiologia: EV 9/1718).

Secondo lo stesso documento, l’azione congiunta dei vescovi riuniti in conferenza non può essere compresa nella categoria della ‘collegialità’ per il fatto che

“la collegialità episcopale, che ha il suo fondamento nella collegialità degli apostoli, è universale e, s’intende, rispetto all’insieme della Chiesa, della totalità del corpo episcopale in unione con il papa. Queste condizioni si verificano pienamente nel concilio ecumenico e si possono verificare nell’azione unitaria dei vescovi che risiedono nelle diverse parti del mondo secondo le indicazioni stabilite nel decreto Christus Dominus, n. 4. In certo qual modo possono verificarsi anche nel sinodo dei vescovi, che può ritenersi espressione vera, benché parziale, della collegialità universale” (ivi).

Le stesse condizioni non possono verificarsi nelle conferenze episcopali.

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4.1.2 - Il sinodo del 1985 così descrive la collegialità:

“Dalla collegialità intesa in senso stretto (attività di tutto il collegio, insieme al suo Capo, su tutta la Chiesa: n.d.r.), bisogna distinguere le diverse realizzazioni parziali, che sono autenticamente segno e strumento dello spirito collegiale (affectus collegialis): il sinodo dei vescovi, le conferenze episcopali, la curia romana, le visite ad limina, ecc. Tutte queste situazioni non possono essere dedotte direttamente dal principio teologico della collegialità; ma sono regolate dal diritto ecclesiastico” (La Chiesa celebra i misteri di Cristo, II, C, 4: EV 9/1804).

Lo stesso documento continua con queste parole:

“Lo spirito collegiale ha una sua applicazione concreta nelle conferenze episcopali (LG 23). Nessuno può dubitare della loro utilità pastorale, anzi della loro necessità nella situazione attuale. Nelle conferenze episcopali i vescovi di una nazione o di un territorio esercitano congiuntamente il loro servizio pastorale. Nelle conferenze episcopali i vescovi di una nazione o di un territorio esercitano congiuntamente il loro servizio pastorale (CD 38; CIC c. 447). Nel loro modo di procedere, le conferenze episcopali devono tener presente il bene della Chiesa, ossia il servizio dell’unità e la responsabilità inalienabile di ciascun vescovo nei confronti della Chiesa universale e della sua Chiesa particolare” (ivi, EV 9/1805).

Dunque la collegialità è più ampia del suo semplice aspetto giuridico. Lo spirito collegiale è più vasto della collegialità effettiva intesa in un senso esclusivamente giuridico. Lo spirito collegiale è l’anima della collaborazione dei vescovi sul piano regionale, nazionale e internazionale. Lo spirito collegiale trova applicazione concreta nelle conferenze episcopali. Nessuno può mettere in dubbio l’utilità delle conferenze episcopali e meno ancora la loro necessità nel momento attuale (vedi la sintesi dei lavori del Sinodo del 1985: La Documentation catholique 83 [1986], p. 40). Il dibattito all’epoca del Sinodo del 1985 prendeva in considerazione anche il “munus magisterii” in rapporto al singolo vescovo e alla conferenza episcopale. Molti autori negavano il munus magisterii alle conferenze episcopali (cf. G. Ghirlanda, J. P. Green, G. Mucci, A. Naud), altri lo affermavano (cf. A. Anton, A. Dulles, J. Manzanares, J. F. Urrutia, H. Legrand). 4.1.3 - L’Instrumentum laboris predisposto dalla Congregazione per i vescovi, in collaborazione con altre Congregazioni romane, e inviato alle conferenze episcopali e ai singoli vescovi chiedendo correzioni e proposte, così esprimeva il pensiero allora prevalente, almeno tra gli estensori del documento:

“Di questo munus magisterii non godono invece, propriamente parlando, le conferenze episcopali in quanto tali. Esse si prefiggono, per la loro stessa natura, mete operative, pastorali e non direttamente dottrinali (…). Le conferenze episcopali non costituiscono pertanto un’istanza dottrinale, non hanno competenza per stabilire contenuti dogmatici e morali” (EV 10/1888).

Questa posizione dottrinale non teneva conto del CIC, c. 753: «I vescovi che sono in comunione con il capo del collegio e con i membri, sia singolarmente sia riuniti nelle conferenze episcopali o nei concili particolari, anche se non godono dell’infallibilità nell’insegnamento, sono autentici dottori e maestri della fede per i fedeli affidati alla loro cura; al quale magistero autentico dei propri vescovi i fedeli sono tenuti ad aderire con religioso ossequio dell’animo». 4.1.4 - Il Codice del 1983 contiene 82 materie che sono oggetto dell’azione delle conferenze episcopali: cf. F.G. MORRISEY, Decisions of Episcopal Conferences in Implementino the New Law, in Studia Canonica 20 [1986], pp. 105-121; J. M. DE AGAR – L. NAVARRO, Legislazione delle Conferenze Episcopali complementare al C.I.C., Colletti a San Pietro, Roma 2009².

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E’ in questo contesto che il sinodo del 1985 chiede che “venga più ampiamente e profondamente esplicitato lo studio dello ‘status’ teologico e soprattutto il problema dell’autorità dottrinale delle conferenze episcopali” (EV 9/1809,b). Esame del testo 4.2 - La lettera apostolica Apostolos suos è una risposta a questi interrogativi e rappresenta un importante punto di riferimento sul tema delle conferenze episcopali. - L’introduzione (exordium) offre una bella sintesi storica dello sviluppo della ‘collegialità’ a partire dall’esperienza degli apostoli fino al concilio Vaticano II e all’affermarsi delle conferenze episcopali (Apostolos suos, nn. 1-7: EV 17/808-820). - Il capitolo II è intitolato: L’unione collegiale tra i vescovi (nn. 8-13). L’elaborazione è lineare, solida e coerente. Punto di partenza è l’unità della Chiesa, che trova il suo vertice nel corpo dei pastori, con a capo il romano pontefice (n. 8). Si esamina poi la collegialità a livello di collegio dei vescovi (n. 9). Il documento passa poi ad esaminare l’azione dei vescovi svolta a livello di singole Chiese particolari e dei loro raggruppamenti. Quest’azione, afferma il testo, non è come quella del collegio dei vescovi (n. 10). Per chiarire l’affermazione, il motu proprio riflette sul modo di rapportarsi dei singoli vescovi alla Chiesa universale. Si esprime sia con gli atti collegiali, in quanto i vescovi sono membri del collegio, ma si esprime anche con la sollecitudine per la Chiesa mediante l’esercizio del triplice munus (n. 11). Negli articoli 12-13 sono confrontati in maniera serrata gli atti del corpo episcopale che realizzano la collegialità in senso pieno e gli atti posti dai vescovi sia nella Chiesa particolare sia quando sono uniti in conferenza. Di questi secondi atti s’individua il fondamento (affectus collegialis) e l’efficacia vincolante (“deriva dal fatto che la Sede Apostolica ha costituito le conferenze episcopali e ha loro affidato, sulla base della sacra potestà dei singoli vescovi, precise competenze”: EV 17/832). Questa affermazione è nuova rispetto sia al concilio Vaticano II, sia al Codice del 1983. Resta ormai difficile comparare le conferenze episcopali con i concili locali e regionali antichi e medievali, oppure considerare le conferenze come uno sviluppo di tali concili (era questa l’idea del p. Y. Congar, Collège, primautè, confèrences épiscopales: quelques notes, in Esprit et vie, 3 juillet 1986, p. 388. Si veda anche l’opinione espressa da J. Ratzinger in Concilium 1 [1965], p. 53 e da J. Hamer in Nouvelle Revue Theologique 85 [1963], p. 969). - Il capitolo III tratta delle conferenze episcopali (nn. 14-24). É data la descrizione della conferenza episcopale (n. 14), sono indicati i temi sui quali i vescovi riuniti in conferenza possono collaborare per il bene comune delle loro Chiese particolari (n. 15). Si distinguono conferenze nazionali e sopranazionali (n. 16) e si precisa la composizione (n. 17). Ogni conferenza deve avere i propri statuti rivisti dalla Santa Sede (n. 18). L’autorità della conferenza è vista in stretto rapporto con l’autorità e l’azione del vescovo diocesano (n. 19). Nella conferenza episcopale i vescovi esercitano congiuntamente il ministero episcopale in favore dei fedeli del loro territorio, ma tale esercizio di potestà deve svolgersi in conformità a quanto stabilito dalla suprema autorità della Chiesa mediante la legge universale o speciali mandati (n. 20). L’esercizio congiunto del ministero episcopale concerne pure la funzione di insegnare, come già previsto dal Codice di diritto canonico sia in generale, sia in riferimento a competenze concrete (cc. 753; 775, § 2; 825). I vescovi sono esortati a seguire il magistero della Chiesa universale e di farlo opportunamente giungere al popolo loro affidato (n. 21). Nell’art. 22 è trattata la questione del magistero autentico dei vescovi riuniti in conferenza. Le dichiarazioni non hanno il carattere di un magistero universale e devono essere

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approvate all’unanimità, diversamente necessita la recognitio della Santa Sede (n. 22). Viene ricordato che solo l’assemblea dei vescovi in riunione plenaria può porre atti di magistero (n. 23). - Il capitolo IV contiene le norme complementari sul magistero autentico dei vescovi. 4.4 - La lettera apostolica Apostolos suos ribadisce il potere proprio di ciascun vescovo nella sua diocesi, di “diritto divino” (n. 10) e sottolinea che le conferenze episcopali esistono per aiutare i vescovi e non sostituirsi ad essi (n. 18). Nei nn. 9-12 è ripreso il linguaggio del Vaticano II, ma non in una apertura dinamica, bensì restrittiva. Il n. 13 è nuovo rispetto sia la Vaticano II sia al CIC del 1983. Non c’è legame tra le conferenze episcopali e i sinodi. 4.5 - Le obiezioni al motu proprio Apostolos suos: G. RUGGERI, «La sollicitudo omnium ecclesiarum tra universalismo e comunione» in R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità.“Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova Editrice – Facoltà Teologica di Sicilia, Roma 2008, pp. 27-52: 46-47. 4.6 - Le conferenze episcopali nella comunione e unità della Chiesa. Un’attuazione dinamica della collegialità. Le conferenze episcopali rappresentano una forma di realizzazione della collegialità in senso lato fondata sull’affectus collegiais. 4.7 – L’esortazione postsinodale Pastores gregis dedica alle conferenze episcopali l’art. 63. La valutazione è positiva: «Queste assemblee di vescovi sono oggi, come si esprimevano i Padri sinodali, un valido strumento per esprimere e portare a pratica attuazione lo spirito collegiale dei vescovi. Per questo – aggiunge l’esortazione – le conferenze episcopali sono da valorizzare ulteriormente in tutte le loro potenzialità» (n. 63b). Poco più avanti aggiunge: «La rilevanza delle conferenze episcopali appare dal contributo efficace che recano all’unità tra i vescovi, e quindi all’unità della Chiesa, rivelandosi uno strumento assai valido per rinsaldare la comunione ecclesiale» (ivi).

L’esortazione Pastores gregis, non contiene novità, sulle conferenze episcopali, rispetto alla costituzione apostolica Apostolos suos. Un passaggio merita particolare attenzione. Confrontando tra loro i concili particolari e le conferenze episcopali, l’esortazione così si esprime: «Poiché i membri delle conferenze episcopali sono solo i vescovi e tutti quelli che nel diritto sono equiparati ai vescovi diocesani, anche se non insigniti del carattere episcopale, il fondamento teologico di esse è, a differenza dei concili particolari, immediatamente la dimensione collegiale della responsabilità del governo episcopale. Solo indirettamente lo è la comunione tra le Chiese» (63c). Secondo l’esortazione, i concili particolari, poiché partecipano ad essi anche i presbiteri, i diaconi, i religiosi, le religiose e i laici, sono espressione della comunione tra le Chiese, mentre le conferenze episcopali esprimono in modo immediato la comunione tra i vescovi. Il posto dei concili particolari, perciò, non può essere preso dalle conferenze episcopali. Ne deriva che si dovrebbe operare per un diverso equilibrio tra concili particolari e conferenze episcopali. Nell’esortazione Pastores gregis, Giovanni Paolo II accenna anche agli organismi che riuniscono i vescovi a livello continentale, precisando però che “non assumono mai le competenze che sono riconosciute alle conferenze episcopali”, pur potendo essere “di grande aiuto per fomentare tra le conferenze episcopali delle diverse nazioni quella collaborazione che, in questo tempo di globalizzazione si rivela particolarmente necessaria per affrontare le sfide ed attuare una vera globalizzazione della solidarietà (Pastores gregis, n. 63f). Si tratta di strumenti per l’attuazione dello spirito collegiale che unisce i vescovi, da valorizzare secondo le loro specifiche potenzialità. 4.8 - Le questioni aperte: la conferenza agisce come un soggetto collettivo unitario e indiviso? Oppure ogni vescovo mantiene la sua individualità? Come interpretare il rapporto tra il vescovo

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diocesano e la conferenza episcopale? Può essere assimilato al rapporto che esiste tra il singolo vescovo e il collegio dei vescovi? 4.9 - Riflessioni conclusive. Il documento Apostolos suos è ben fondato teologicamente. Vuole essere interpretazione fedele del concilio Vaticano II. Secondo diversi teologi e canonisti, in Apostolos suos manca, del Vaticano II, la propulsione dinamica, per cui si registra una certa sfiducia nei confronti delle conferenze episcopali. Il documento tralascia il dato storico delle realtà intermedie tra il papa e il singolo vescovo diocesano. Bibliografia - A. ANTON, «La carta apostólica MP "Apostolos suos" de Juan Pablo II: se reafirman algunos puntos claves, mientras muchos otros quedam abiertos a la investigación teológica y canónica», in Gregorianum 80, 2(1999), pp. 263-297. - IDEM, «La lettera apostolica "Apostolos suos" di Giovanni Paolo II», in La Civiltà Cattolica I (1999), pp. 119-132. - A. BETTETINI, «Collegialità, unanimità e "potestas". Contributo per uno studio sulle conferenze episcopali alla luce del M.P. “Apostolos suos”», in Ius Ecclesiae 11 (1999), pp. 493-509. - «Conferenze episcopali e corresponsabilità dei vescovi» (editoriale), in La Civiltà Cattolica II (1985), pp. 418-429. - M. FAGIOLI, «Prassi e norme relative alle conferenze episcopali tra concilio Vaticano II e post-concilio (1959-1998)», in A. MELLONI , S. SCATENA (EDS.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact International Colloquium Bruges 2003, LIT Verlag, Münster, 2005, pp. 265-296. - J. FORNES, «Autoridad y competencias de la Conferencia episcopal. Un comentario al M.P. Apostolos suos de 21 de mayo de 1998», in Ius Canonicum 39 (1999), pp. 733-759. - H. LEGRAND, «Églises locales, Églises régionales et Église entière. Éclaircissements sue quelques débats au sein de l’Église catholique depuis Vatican II», in L’Église à venir. Mélanges offerts à Joseph Hoffmann, Les Éditions du Cerf, Paris, 1999, pp. 277-308. - H. LEGRAND, J. MANZANARES E A. GARCÍA Y GARCÍA (a cura di), Natura e futuro delle conferenze episcopali. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), Edizioni Dehoniane, Bologna, 1988. - A. MONTAN, «Il «munus magisterii» delle conferenze episcopali», in In Cristo nuova creatura. Scritti in onore del Card. C. Ruini, a cura di N. Reali e G. R. Alberti, Pul-Mursia, Roma 2001, pp. 147-160. - A. MONTAN, «Le Conferenze episcopali», in Credere oggi, XXXIV (2014), n. 2, 200, pp. 44-61. G. MUCCI, «Le conferenze episcopali e l’autorità di magistero», in La Civiltà Cattolica I (1987), pp. 327-337. - IDEM, «Concili particolari e conferenze episcopali», in La Civiltà Cattolica II (1987), pp. 340-348. - K. RAHNER, «Sulle conferenze episcopali», in IDEM, Nuovi saggi, Edizioni Paoline, Roma 1968, I, 599 ss. - B. SESBOÜE, «La réception officielle des énoncés de Vatican II sur l’épiscopat dans les documents du Saint-Siège depuis le nouveau Code (1983-1999)», in H. LEGRAND ET CH. THEOBALD (ED.), Le ministère des évêques au concile Vatican II et depuis. Hommage à Mgr Guy Herbulot, Les Éditions du Cerf, Paris 2001, pp. 139-144 5. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinodale PASTORES GREGIS sul vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 200316. 16 A commento cf.: A. MONTAN (ed.), Vescovi servitori del vangelo per la speranza del mondo. Studi e commenti sull’esortazione postsinodale Pastores gregis di Giovanni Paolo II, Lateran University Press, Roma 2005; A. CATTANEO (a cura di), L’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Riflessioni a partire dall’esortazione apostolica “Pastores gregis”, Atti del convegno di studio svolto a Venezia il 12 maggio 2004, Istituto di diritto canonico San Pio X, Venezia 2005.

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L’esortazione Pastores gregis illustra la figura del singolo vescovo «servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo», non propriamente nel contesto del collegio episcopale. Destinatario primo è «il vescovo inviato in nome di Cristo per la cura di una determinata porzione del popolo di Dio» (n. 43). Non mancano, tuttavia, nell’esortazione i riferimenti al carattere collegiale del ministero episcopale. Ne parlano soprattutto i nn. 8 e 55-65 dell’esortazione, già ampiamente richiamati. Il papa afferma l’esigenza divina che il ministero episcopale si realizzi in forma collegiale, elenca le diverse figure istituzionali di collegialità, ribadisce i risultati raggiunti dopo il Vaticano II e sottolinea la necessità di sviluppare ulteriormente gli ambiti e gli strumenti che servono ad assicurare e a garantire la comunione tra i vescovi e le loro Chiese. Di fatto, la Pastores gregis si limita ad auspicare che venga data nuova vitalità alle Province ecclesiastiche (n. 62), che riprenda vigore l’istituzione dei sinodi e dei concili particolari (ivi), che siano valorizzate le conferenze episcopali in tutte le loro potenzialità (n. 63) e che si proceda ad una maggiore decentrazione della curia romana. Di fatto, non si trovano concreti suggerimenti sul modo di realizzare tali auspici. Nota – Il dibattito sulla collegialità, effettiva – affettiva, lascia l’impressione di non avere vie d’uscita. Poco dopo la conclusione del concilio, l’allora teologo Joseph Ratzinger così rifletteva: «Un concetto di collegialità che si riduca esclusivamente alla collegialità dell’actus stricte collegialis sulla Chiesa universale, entra in un vicolo cieco. Poiché è difficile comprendere che cosa debba ancora positivamente significare una collegialità alla quale si può riconoscere la suprema e piena potestà solo perché, negandola, si metterebbe in pericolo la stessa suprema e piena potestà del papa. Il senso della collegialità non può, infatti, essere quello di mettere un parlamento al posto di una monarchia, ma di far valere e rendere nuovamente operose le Chiese nella Chiesa, e quindi, se così si vuole, di promuovere la “collegialità particolare” che, certo, proprio in quanto tale è di importanza centrale anche per l’insieme e rende viva la struttura conciliare della Chiesa, la quale può agire in tempi determinati, e diventa, nei concili ecumenici, la forma più alta di attività di collegiale nella Chiesa di Dio» (Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Editrice Queriniana, Brescia, 1992³, p. 215: 1° edizione 1969). Si tratta di «far valere e rendere nuovamente operose le Chiese nella Chiesa». In questo senso i concili particolari, il sinodo dei vescovi, le conferenze episcopali, sono espressioni operose delle Chiese nella Chiesa rendendo viva la sua struttura conciliare. II – RI-VALORIZZAZIONE DEL VESCOVO E DELLA SUA MISSIONE NELLA CHIESA PARTICOLARE La richiesta di una nuova valorizzazione del ministero dei vescovi è molto forte durante e dopo il concilio Vaticano II. Paolo VI interviene con diversi documenti che incidono profondamente sulla figura del vescovo. Con il pontificato di Giovanni Paolo II il tema viene sviluppato in continuità con il concilio, aperto ad un costante rinnovamento. Il sinodo dei vescovi del 2001 («Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo». Instrumentum laboris. Città del Vaticano 2001) con l’esortazione post-sinodale Pastores gregis (16 ottobre 2003) segna il punto più alto della riflessione 1. PAOLO VI, Motu proprio Pastorale munus con il quale si concedono facoltà e privilegi ai vescovi (30.11.1963), in AAS 56 (1964), pp. 5-12: EV 2/85-134. Questo primo documento, pubblicato al termine della seconda sessione del concilio Vaticano II, comincia a modificare profondamente lo statuto del vescovo allora detto “residenziale” (oggi “diocesano”) e delle altre figure (ausiliare, coadiutore, titolare). Al vescovo residenziale sono

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attribuite facoltà che d’ora in poi a lui competono per diritto, dice il testo, e sono acquisite nel momento in cui egli prende possesso della diocesi che gli è stata affidata. La formula testimonia che è in atto un nuovo modo di intendere la cura pastorale del vescovo. Si passa dal regime delle “facoltà concesse” (quinquennali) al pieno riconoscimento della potestà “ordinaria, propria e immediata” che compete al vescovo diocesano per l’esercizio del suo ufficio pastorale. E’ una conseguenza dell’affermazione dottrinale che il concilio Vaticano II ancora non aveva approvato, ma stava diventando convinzione comune tra i padri sinodali, per cui con la consacrazione episcopale i vescovi ricevono, con l’ufficio di santificare, anche gli uffici di insegnare e governare. Con il regime delle “facoltà concesse” il vescovo poteva compiere nella sua diocesi soltanto ciò che gli era stato concesso; nella nuova visione il vescovo nella diocesi può compiere tutto, fatta eccezione per quelle cause che dal diritto sono riservate al papa o ad altra autorità. La semplice lettura delle facoltà concesse, consente di misurare la situazione che, all’epoca del concilio Vaticano II, era propria di un pastore di una Chiesa particolare. Le facoltà concesse, che con il motu proprio diventano “di diritto”, riguardano la liturgia (cf. nn. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 18, 26, 27, 28…), le persone (cf. nn. 13, 14, 15, 16, 17, 19, 20, 21, 22, 23, 31, 35, …) e l’amministrazione dei beni (cf. nn. 25, 32…). Sono concessi ai vescovi anche otto privilegi. Nel Codice promulgato nel 1983 le “facoltà concesse” sono configurate come un insieme di obblighi e diritti propri dell’ufficio del vescovo diocesano. 2. PAOLO VI, Motu proprio De episcoporum muneribus con il quale vengono impartite norme ai vescovi nulla facoltà di dispensare (15.06.1966), in AAS 58 (1966), pp. 467-472: EV 2/707-738. Il documento, nel proemio, è presentato come un’applicazione del concilio Vaticano II. Due i principi guida: la dignità sacramentale dell’episcopato e la potestà del vescovo nella diocesi. In pratica il regime della concessione dei poteri ai vescovi da parte del papa, è sostituito con quello della riserva papale. Nel documento sono indicate le leggi generali la cui dispensa è riservata al papa. Le altre leggi possono essere dispensate dai vescovi, alle condizioni stabilite. Sul piano dei principi, il documento, dal punto di vista pastorale ed ecumenico, è di notevole rilievo. Ormai i vescovi hanno, nella diocesi a loro affidata, tutti i poteri richiesti per l’esercizio dell’ufficio, mentre il papa riserva a sé alcuni di tali poteri per il bene comune della Chiesa intera. L’esercizio della funzione episcopale locale è visto in relazione con il diritto universale. 3. PAOLO VI, Motu proprio Ecclesiae sanctae, contenente norme per l’applicazione di alcuni decreti del concilio Vaticano II (06.08.1966), in AAS 58 (1966), pp. 757-758; Normae: AAS 58 (1966), pp. 758-787: EV 2/752-913. Le norme emanate riguardano 4 documenti del concilio Vaticano II: Christus Dominus, Presbyterorum ordinis, Perfectae caritatis e Ad gentes divinitus. Il ministero del vescovo nella Chiesa diocesana è particolarmente valorizzato in rapporto sia al presbiterio sia alla vita consacrata. In seno alla Chiesa diocesana il vescovo è assistito da nuovi partners istituzionali: il consiglio presbiterale (n. 15) e il consiglio pastorale (n. 15). E’ fatto riferimento alle conferenze episcopali (n. 41). Sono posti i fondamenti di un nuovo rapporto con la vita consacrata (Mutuae relationes). La vita pastorale della diocesi deve svolgersi sotto l’autorità del vescovo diocesano. Il ruolo del vescovo è meglio definito anche in rapporto alla costituzione delle parrocchie, alle nomine di coloro che sono preposti agli uffici, all’organizzazione della diocesi, all’amministrazione dei suoi beni e alle scuole. Il vescovo è garante anche della responsabilità missionaria della diocesi. Sono meglio integrate nella diocesi le figure del vescovo coadiutore e dell’ausiliare (nn.13-14). E’ stabilito il limite di età nell’ufficio (n. 11). La figura del vescovo comincia a prendere la fisionomia indicata in LG 23: il vescovo è il principio visibile e il

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fondamento dell’unità della Chiesa particolare. Il Codice del 1983 farà sua, perfezionandola, la legislazione del motu proprio Ecclesiae sanctae. 4. PAOLO VI, Motu proprio Sacrum diaconatus ordinem, con il quale sono emanate norme sul diaconato permanente (18.06.1967), in AAS 59 (1967), pp. 697-704: EV 2/1368-1406. E’ compito del vescovo, nella Chiesa diocesana, “approvare e ordinare i candidati al diaconato permanente”. 5. PAOLO VI, Motu proprio Pro comperto sane con il quale si cooptano alcuni vescovi diocesani nella curia romana (06.08.1967), in AAS 59 (1967), pp. 881-884: EV 2/1518-1527. Anche con questo documento Paolo VI vuole dare attuazione al concilio Vaticano II là ove chiedeva che venissero assunti come membri dei dicasteri della curia romana “anche alcuni vescovi, specialmente diocesani che potessero in modo più completo far presenti al sommo pontefice la mentalità, i desideri e le necessità di tutte le Chiese” (CD 10). Non si tratta soltanto di rendere internazionale la curia romana. 6. SACRA CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio Ecclesiae imago per il ministero pastorale dei vescovi (22.02.1973), Libreria Editrice Vaticana 1973: EV 41945-2328. Nel direttorio si trova una sintesi della nuova immagine del vescovo. E’ il frutto maturo, sul piano pastorale e canonico, della recezione delle richieste del concilio Vaticano II relative al ministero del vescovo. Il vescovo è collocato nella sua diocesi, in relazione alla porzione del popolo di Dio, al presbitero, ai consacrati e ai fedeli laici, alle parrocchie, ai decanati, ai differenti consigli, al sinodo diocesano, ma è visto anche in rapporto agli altri vescovi nella conferenza episcopale, con il papa, il collegio, i sinodi o concili particolari. Da segnalare il capitolo relativo al sinodo diocesano. Qui si trova la novità che al sinodo partecipano anche i fedeli laici. La struttura del sinodo risponde a fondamentali esigenze ecclesiologiche, che il Codice accoglierà. Per la sua completezza e per la sua concretezza pratica nell’illustrazione della figura e del ministero del vescovo nella sua Chiesa particolare, il Direttorio ha avuto una penetrante efficacia.. Il Codice di diritto canonico del 1983 deve molto a questo documento. Dopo la pubblicazione dell’esortazione postsinodale Pastores gregis (16 ottobre 2003), il direttorio Ecclesiae imago è stato sostituito con un nuovo testo: CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi “Apostolorum successores” (17 ottobre 2003), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004. La figura del vescovo è delineata a partire dall’esortazione Pastores gregis. 7. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI E CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Istruzione I sinodi diocesani (19 marzo 1997), in AAS 89 (1997), pp. 706-727: EV 16/266-319. Dopo il concilio Vaticano II, l’istituto del sinodo diocesano ha conosciuto grande sviluppo. Molte Chiese diocesane hanno trovato nel Sinodo, ormai aperto alla partecipazione dei laici, un importante mezzo per l’attuazione del rinnovamento conciliare. I cc. 460-468 del Codice regolano efficacemente la celebrazione del sinodo.

Perché l’istruzione? L’istruzione intende sia rispondere alle richieste di molti vescovi di avere un fraterno aiuto nella celebrazione del sinodo diocesano, sia rimediare ad alcuni difetti e incongruenze che erano stati a volte rilevati. Ripetutamente l’istruzione sottolinea che il sinodo è

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contestualmente e inseparabilmente, atto di governo episcopale ed evento di comunione, esprimendo così l’indole gerarchica che appartiene alla natura profonda della Chiesa. Il sinodo diocesano manifesta e attua la comunione diocesana e concorre a “edificarla” con le sue dichiarazioni e i suoi decreti. L’istruzione entra nel merito di molte questioni (cf. appendice). Di rilievo il seguente passaggio: “Attesi i legami che uniscono la Chiesa particolare e il suo pastore con la Chiesa universale e il romano pontefice, il vescovo ha il dovere di escludere dalla discussione sinodale tesi o posizioni discordanti dalla perenne dottrina della Chiesa o dal magistero pontificio o riguardanti materie disciplinari riservate alla suprema o ad altra autorità ecclesiastica” (Istruzione, IV,4: EV 16/296). Fatto nuovo dal punto di vista storico: il vescovo, tramite il rappresentante pontificio, trasmetterà alle Congregazioni per i Vescovi e per l’Evangelizzazione dei popoli, copia della documentazione sinodale. Nota - Si veda la preziosa ricerca:- J. GALEA-CURMI, The Diocesan Synod as a pastoral event. A study of the post conciliar understanding of the Diiocesan Synod, Pontificia Università Lateranense, Roma 2005 (la tesi dottorale è del 1998). L’A. esamina oltre centocinquanta libri sinodali giungendo a conclusioni che mostrano una Chiesa più avanzata rispetto al documento pontificio. 8. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinodale PASTORES GREGIS sul vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 200317. 8.1 - L’esortazione post-sinodale Pastores gregis, è frutto della decima assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi svoltasi dal 30 settembre al 27 ottobre 2001 sul tema: «Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo». Il documento è articolato, tra l’introduzione e la conclusione, in sette capitoli. L’esortazione ha un impianto teologico ricco di stimoli e sviluppi; nell’esposizione della dottrina sull’episcopato ha grande influsso la liturgia dell’ordinazione episcopale. 8.2 - Il ministero del vescovo è approfondito in continuità con il concilio Vaticano II, in particolare con la costituzione Lumen gentium e il decreto Christus Dominus, e con i documenti pubblicati successivamente. L’inizio offre il tono del riferimento liturgico: «I pastori del gregge, nell’adempimento del loro ministero di vescovi, sanno di poter contare su una speciale grazia divina. Nel Pontificale Romano, durante la solenne preghiera di ordinazione, il vescovo ordinante principale, dopo aver invocato l’effusione dello Spirito che regge e guida, ripete le parole già presenti nell’antico testo della Tradizione apostolica: “Padre, che conosci i segreti dei cuori, concedi a questo tuo servo, da te eletto all’episcopato, di pascere il tuo santo gregge e di compiere in modo irreprensibile la missione del sommo sacerdozio” (Rito delle ordinazioni del vescovo, preghiera di ordinazione)» (n. 1). Il riferimento allo Spirito ritorna nella trattazione sul governo pastorale (n. 43). 8.3 - Il testo ricorda, subito dall’inizio, la sacramentalità dell’episcopato: l’ordinazione episcopale è sacramento dell’ordine nel suo grado più alto, conferisce la pienezza del sacerdozio ministeriale, da cui si distingue l’ordinazione presbiterale, che conferisce «il ministero del secondo grado sacerdotale», rende il vescovo sommo sacerdote; il sacramento dell’ordinazione episcopale dà l’aumento della grazia, cioè della santità personale, imprime il carattere che abilita all’esercizio dei tre compiti, rende il vescovo ministro di tutto l’organismo sacramentale della Chiesa, specificamente dei sacramenti della cresima, pienezza del sacerdozio regale, e del sacramento dell’ordine in tutti suoi gradi fino alla trasmissione dell’episcopato stesso e della successione

17 Per la bibliografia cf. la nota 8.

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apostolica. Da tale verità viene ricavata la dottrina sul «mistero e il ministero del vescovo» (cap. I, nn. 6-10). 8.4 - Il carattere collegiale del ministero episcopale è approfondito nel n. 8. La collegialità episcopale ha carattere sacramentale in quanto si fonda sull’ordinazione episcopale. «L’unione collegiale tra i vescovi è fondata, insieme, sull’ordinazione episcopale […]; tocca pertanto la profondità (essentiam) dell’essere di ogni vescovo […]. Si è posti, infatti, nella pienezza del ministero episcopale in virtù della consacrazione episcopale […]. È così che si è membri del collegio episcopale, per cui le tre funzioni (tria munera) ricevute nell’ordinazione episcopale – di santificare, di insegnare e di governare – devono essere esercitate nella comunione gerarchica» (n. 8, b). Il testo distingue poi tra collegialità affettiva o affetto collegiale e collegialità effettiva. L’affetto collegiale si attua e si esprime secondo gradi diversi in vari modi, ad esempio il Sinodo dei vescovi, i Concili particolari, le Conferenze dei vescovi, la Curia romana, le visite ad limina, la collaborazione missionaria. La collegialità effettiva ha la sua massima espressione nel Concilio ecumenico, dove la suprema potestà del Collegio viene esercitata in modo solenne. L’approfondimento continua prendendo in esame il carattere universale dell’episcopato, proprio grazie alla collegialità, visto in rapporto all’universalità della Chiesa. L’impostazione dottrinale del primo capitolo prospetta una presentazione piuttosto esigente del ministero episcopale, come di fatto accade sia in tutta l’esortazione nel suo insieme, sia, in particolare, nei tre capitoli dedicati alle funzioni dell’insegnamento, della santificazione e del governo e nei due ultimi capitoli riguardanti, rispettivamente l’esercizio del munus episcopale nella communio ecclesiarum e le sfide attuali. 8.5 – Dal capitolo secondo al capitolo quinto viene tracciato il profilo del vescovo dal punto di vista sia spirituale sia del triplice ufficio di maestro, sacerdote e pastore. Si tratta di una sintesi densa ed efficace di una dottrina ormai consolidata. Riprenderò più avanti il capitolo quinto: “Il governo pastorale del vescovo” (nn. 42-54). In esso, richiamato l’esempio di Cristo (n. 42), viene citato un testo liturgico che ricorda che «l’episcopato è il nome di un servizio, non di un onore, poiché al vescovo compete più il servire che il dominare, secondo il comandamento del Maestro» (n. 43). L’art. 44 tratta dello stile pastorale di governo in rapporto alla comunione diocesana. Si intrecciano responsabilità personale del vescovo e partecipazione di tutte le categorie di fedeli, in quanto corresponsabili del bene della Chiesa particolare che essi formano. Sono poi presi in esame i vari aspetti e momenti della vita della diocesi. 8.6 – Il capitolo sesto interessa in modo particolare il nostro studio. Si intitola: «Nella comunione delle Chiese». Il vescovo, in quanto membro del collegio episcopale, è tenuto ad estendere la sua sollecitudine a tutta la Chiesa. Di qui i diversi temi: - Il vescovo diocesano in relazione alla suprema autorità (n. 56); - Le visite «ad limina Apostolorum» (n. 57); - Il sinodo dei vescovi (n. 58); - La comunione tra i vescovi e tra le Chiese a livello locale (n. 59); - Le Chiese cattoliche orientali (n. 60); - Le Chiese patriarcali e il loro sinodo (n. 61); - L’organizzazione metropolitana e delle province ecclesiastiche (n. 62); - Le conferenze episcopali (n. 63); - L’unità della Chiesa e il dialogo ecumenico (n. 64); - La missionarietà nel ministero episcopale (n. 65). 8.7 - Infine si tratta del vescovo di fronte alle sfide attuali: la giustizia, la pace, il dialogo interreligioso e gli altri problemi che si affacciano con sempre nuova urgenza. 8.8 – Conclusione: l’esortazione delinea la fisionomia e i compiti del vescovo all’inizio del nuovo millennio. La dottrina si mantiene aderente al concilio Vaticano II e ai documenti posteriori. Alcune questioni particolari, dibattute prima del Sinodo (cf. Instrumentum laboris, nn. 75-77), restano marginali, in particolare la questione dell’elezione dei vescovi.

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8.9 – Strettamente collegato con l’esortazione postsinodale Pastores gregis è un testo che fornisce ai vescovi organici sussidi pastorali per un miglior svolgimento del loro ministero: CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi “Apostolorum successores” (17 ottobre2003), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004. Bibliografia - A. MONTAN (ed.), Vescovi servitori del Vangelo per la speranza del mondo. Studi e commenti sull’esortazione postsinodale Pastores gregis di Giovanni Paolo II, Pontificia Università Lateranense, Roma 2005. B. LA RECEZIONE DELLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE NEI CODICI LATINO E ORIENTALE Per ambedue i codici vanno tenute presenti le parole del papa: i due testi legislativi possono intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico l’ecclesiologia del concilio Vaticano II. Anche per questo i codici hanno carattere complementare rispetto al concilio, in particolare riguardo alle costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes. Ciò che costituisce la «novità» fondamentale del concilio Vaticano II, costituisce la «novità» del codice. Fra gli elementi che caratterizzano l’immagine vera e genuina della Chiesa il papa mette in rilievo: la dottrina, secondo la quale la Chiesa viene presentata come il popolo di Dio e l’autorità gerarchica viene proposta come servizio; la dottrina per cui la Chiesa è vista come comunione, e che, quindi, determina le relazioni che devono intercorrere fra le Chiese particolari e quella universale, e fra la collegialità e il primato; la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. Il Codice dei canoni delle Chiese orientali, inoltre, intende salvaguardare i riti che derivano dalle cinque grandi tradizioni, secondo quanto stabilito dal concilio Vaticano II [cf. GIOVANNI PAOLO II, Costituzioni apostoliche Sacrae disciplinae leges (25.01.1983) e Sacri canones (18.10.1990)]. 1. Codex Iuris Canonici, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus. Fontium annotatioen et indice analitico-alphabetico auctus, ed. Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici authentice interpretando, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1989 (promulgato il 25.01.03, entrato in vigore la prima domenica d’avvento dello stesso anno 1983). 1.1 - La sistematica del Codice latino è materialmente fedele al concilio Vaticano II che, nella Lumen gentium, tratta prima del popolo di Dio e poi esplicita ciò che è l’episcopato. Nel libro II (Il popolo di Dio) si trovano le norme che definiscono lo statuto del fedele cristiano, considerato nella varietà di vocazioni, ministeri e carismi (laici, ministri sacri, consacrati), e poi, nella seconda parte, le norme relative al potere supremo nella Chiesa. Dopo questa trattazione il Codice prende in esame le Chiese particolari, i loro raggruppamenti e la loro suddivisione interna. La parte III è dedicata agli istituti di vita consacrata e alle società di vita apostolica. Il titolo del capitolo 3° della Lumen gentium lo ritroviamo come titolo della parte II del Libro II del Codice: La costituzione gerarchica della Chiesa. La sezione prima tratta il tema: La suprema autorità della Chiesa, subito così specificata: Il romano pontefice e il collegio dei vescovi. Di conseguenza danno contenuto strutturale specifico alla Chiesa universale: a) il munus petrinum dell’ufficio primaziale, che è «fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione» (LG 18); b) il vincolo di collegialità episcopale esistente in forma permanente tra i membri dell’episcopato; c) la sollicitudo omnium Ecclesiarum del capo e dei membri del collegio episcopale. Seguono i canoni riguardanti gli organismi che coadiuvano il romano pontefice nel

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governo della Chiesa universale: il sinodo dei vescovi, i cardinali di santa romana Chiesa, la curia romana, i legati pontifici. 1.2 - La potestà di cui gode l’ufficio primaziale ha come caratteristiche quelle di essere ordinaria, suprema, piena, immediata e universale (can. 331). Il romano pontefice può sempre esercitare liberamente la propria potestà che, essendo di istituzione divina, ha carattere inderogabile, e non può essere limitata dalla volontà umana. Tuttavia, la potestà dell’ufficio primaziale è configurata con propri limiti di carattere oggettivo, derivanti alcuni dalla stessa natura della potestà ecclesiastica, altri dai restanti elementi integranti la costituzione divina della Chiesa. Tra i limiti oggettivi possono essere segnalati: a) innanzitutto, il fine istituzionale della Chiesa non consente di esercitare la potestà ecclesiastica al di fuori dei contenuti che sono oggetto della comunione della Chiesa e di ciò che riguarda il bene delle anime; b) inoltre, l’esistenza dell’episcopato, anch’esso di origine divina (LG 22), determina una necessaria attenzione verso le competenze costituzionali dei singoli pastori nelle rispettive diocesi loro affidate, ed anche verso le varie adunanze episcopali; c) infine, la necessità di governare «in vista dell’utilità della Chiesa e dei fedeli» (LG 27), esclude l’uso arbitrario della potestà, per rispettare gli ambiti di legittima autonomia dei fedeli18. Significativo è il can. 333 §§ 1-2. I due paragrafi vanno letti congiuntamente. 1.3 - Alla sezione prima, dedicata alla suprema autorità della Chiesa, segue la sezione seconda così intitolata: Le Chiese particolari e i loro raggruppamenti. Dunque l’attenzione è ora rivolta alle Chiese particolari in quanto tali. E’ all’interno della normativa riguardante le Chiese particolari che troviamo i canoni sui vescovi (diocesani, ausiliari, coadiutori, titolari, emeriti), sul governo della diocesi e sui raggruppamenti di Chiese particolari (province, regioni, conferenze episcopali). In continuità con i documenti visti sopra, il vescovo diocesano è presentato inserito nella Chiesa diocesana. Nel vescovo, unito al suo popolo, convergono i caratteri della comunione ecclesiale. Necessario atto della comunione è l’unione sacramentale del presbiterio attorno al suo vescovo. Luogo in cui si realizza tale comunione è il consiglio presbiterale, che, rappresentando il presbiterio, è il senato del vescovo e lo aiuta nel governo della diocesi. La normativa mette in luce la sollecitudine del vescovo per la vita consacrata e per i laici. Espressione della comunione diocesana è il consiglio pastorale diocesano. Tutto il governo del vescovo e degli organismi che lo coadiuvano (curia diocesana, amministrazione dei beni) deve essere animato dallo spirito di comunione. Il vescovo diocesano è il soggetto attivo centrale nel governo della Chiesa locale, e titolare dell’ufficio a capo della circoscrizione diocesana. 1.4 - Meritano attenzione i raggruppamenti di Chiese particolari. Sono istituzioni antiche nelle quali è sempre stato visto un modo concreto per favorire la comunione tra i vescovi e la solidarietà tra le Chiese. Sono: la provincia ecclesiastica (è l’unione di più diocesi vicine, tra le quali ha una posizione di supremazia la sede metropolitana), la regione ecclesiastica con il suo coetus episcoporum e le conferenze episcopali. Acquistano rilievo il concilio provinciale, nell’ambito della provincia ecclesiastica (can. 432, § 1) e il concilio plenario, nell’ambito corrispondente alle diocesi i cui vescovi appartengono alla stessa conferenza episcopale. Seguendo i desideri espressi dal concilio Vaticano II, queste due “venerande istituzioni” (CD 36) sono state ridefinite dal Codice di diritto canonico tenendo conto delle mutate circostanze istituzionali (sono sorte le conferenze episcopali) e dell’attuale contesto dottrinale19. Nei concili particolari (cann. 439-446), proprio per la partecipazione in essi anche di presbiteri, diaconi, religiosi, religiose e laici, sebbene solo con 18 Per ulteriori sviluppi cf. J. I. ARRIETA, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Giuffrè Editore, Milano 1997, pp. 224-232. 19 Cf. A. MONTAN, «Concili particolari», in G. CALABRESE – PH. GOYRET – O.F. PIAZZA (EDD.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, pp. 338-345.

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voto consultivo, è in modo immediato espressa non soltanto la comunione tra i vescovi, ma anche la comunione tra le Chiese. I concili particolari richiedono una riflessione accurata nella preparazione, che coinvolge tutte le categorie di fedeli. A tali concili è riconosciuta (non attribuita), in forza della tradizione, la capacità di stabilire norme comuni per varie Chiese, da adottare nell’insegnamento delle verità della fede e nel regolare la disciplina ecclesiastica (can. 445). Tale riconoscimento è estremamente rilevante nella determinazione dei ruoli specifici di questi istituti per quanto riguarda la funzione magisteriale ed il compito legislativo, così come per evidenziarne le differenze rispetto alle conferenze episcopali. 1.5 - Il Codice contiene le norme che regolano l’esercizio della collegialità effettiva. I canoni che qui interessano (cann. 336-341) sono collocati nella sezione intitolata “la suprema autorità della Chiesa”, vale a dire “il romano pontefice e il collegio dei vescovi”. Ciò dice che vanno letti e interpretati tenendo conto del preciso contesto che li inquadra: la collegialità dell’episcopato. Il Codice non definisce il concilio ecumenico. Riconosce che in esso il collegio dei vescovi esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa (can. 337, § 1). Nel can. 336 è ribadito lo stretto legame che esiste tra il collegio dei vescovi e il romano pontefice. La potestà che i vescovi esercitano nel concilio attraverso l’atto collegiale, a norma dei cann. 337 § 1 e 336, è una potestà piena e suprema (il Codice del 1917 la definiva solo suprema) e comprende le potestà di governare e di insegnare anche relativamente alla funzione di santificare. Per quanto attiene alla composizione e alla struttura del concilio, il can. 339 §1, tenendo conto di quanto stabilito nel decreto Christus Dominus, n. 4, asserisce che partecipano al concilio ecumenico con voto deliberativo «tutti e soli i vescovi che sono membri del collegio dei vescovi». Il precedente Codice prevedeva la partecipazione, con diritto di voto20, anche degli abati e prelati nullius, dell’abate primate, di abati superiori di congregazioni monastiche, di supremi moderatori di istituti religiosi clericali esenti. Potevano essere invitati, ma senza diritto di voto, i teologi e gli esperti nei sacri canoni (CIC 1917, can. 223, §§ 1-3). Il nuovo Codice recepisce la dottrina del concilio Vaticano II sulla sacramentalità dell’episcopato e perciò configura la composizione del concilio sulla base della composizione del collegio dei vescovi. È previsto, tuttavia, che possano essere chiamati al concilio ecumenico dall’autorità suprema della Chiesa (quindi dal romano pontefice e dal collegio dei vescovi) «alcuni, che non sono insigniti della dignità episcopale» (can. 339, § 2). Il canone aggiunge che spetta alla stessa suprema autorità determinare in concilio il ruolo di questi “chiamati al concilio”. La normativa è piuttosto aperta, ma è difficile pensare che agli invitati al concilio che non sono vescovi possa essere concesso, come in passato, il diritto di voto deliberativo. La collegialità conciliare in pratica viene a coincidere con la collegialità episcopale. È evidente che è mutata la fisionomia del concilio, ora esclusivamente episcopale. Può essere utile ricordare che al concilio Vaticano II hanno partecipato, in conformità alla legislazione allora vigente, con diritto di parola e di voto, i supremi moderatori di istituti religiosi e delle allora denominate società di vita comune. Vi hanno preso parte, senza diritto di voto, anche gli esperti consultori, sia teologi sia canonisti, e gli osservatori appartenenti a comunità non in comunione con la Chiesa cattolica. Il § 2 del can. 337, delinea una seconda modalità di esercizio della collegialità effettiva da parte del collegio dei vescovi: «(Il collegio dei vescovi) esercita la medesima potestà (sulla Chiesa universale) mediante l’azione congiunta dei vescovi sparsi nel mondo, se essa come tale è indetta o liberamente recepita dal romano pontefice, così che si realizzi un vero atto collegiale». A tale modalità si applicano il testo di Lumen gentium, n. 25b e il can. 749, § 1. La presenza dello Spirito è la garanzia dell’infallibilità del magistero. Affermava S. Agostino: «… in cathedra unitatis doctrinam posuit veritatis / la dottrina della verità è custodita nella cattedra dell’unità» (Ep. 105 ad Donatistas 16: PL 33,403). Gli atti del concilio sono sempre stati considerati anche come atti dello 20 Il canone affermava che erano chiamati al concilio con diritto di voto deliberativo: 1° i cardinali, anche non vescovi; 2° i patriarchi, i primati, gli arcivescovi, i vescovi residenziali, anche non consacrati; 3° gli abati e i prelati nullius; 4° l’abate primate, gli abati superiori di congregazioni monastiche e i moderatori supremi delle religioni clericali esenti; 5° i vescovi titolari, con diritto di voto salvo diversamente disposto (CIC 1917, can. 223, §§ 1-3).

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Spirito Santo. La formula di promulgazione delle decisioni conciliari usata nel Vaticano II recita: «E noi, in virtù della potestà apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai venerabili padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e stabiliamo; …»21. 1.6 - All’impostazione seguita dal Codice sono stati fatti gli stessi rilievi rivolti al capitolo 3° della Lumen gentium22. Prevale la concezione universalistica a scapito della visione della Chiesa come communio ecclesiarum. Il Codice tratta dei laici, dei chierici, del papa, del collegio dei vescovi, del sinodo dei vescovi, del collegio dei cardinali, della curia romana e dei legati pontifici prima di avere stabilito ciò che è una Chiesa diocesana e ciò che significa una comunione di Chiese. Del papa il Codice sottolinea più la funzione primaziale, che l’azione con i vescovi anzi con tutta la Chiesa (cf. can. 333 § 2). Nei cann. 331 e 336 l’attenzione prevalente è sui poteri del papa e il can. 336 è quasi interamente redatto in funzione delle prerogative del capo del collegio stesso. Sa di compromesso la relazione tra Chiesa diocesana e le realtà sovradiocesane (province, regioni, conferenze episcopali). Il vocabolario del Codice corre il rischio di introdurre, a volte, interpretazioni non corrette della Chiesa (cf. la critica all’introduzione dell’espressione «Chiesa particolare» e l’abbandono dell’espressione «Chiesa locale»). Il mancato uso dell’affermazione di Lumen gentium n. 27, che i vescovi sono «vicari e legati di Cristo» e che «non possono essere considerati come i vicari del romano pontefice», lascia intendere la situazione di subordinazione prevista nei cann. 333 § 3 e 337 § 3. Il can 337 configura il concilio (§ 1) come una delle modalità tra le altre dell’esercizio della collegialità episcopale (il § 2 tratta dell’azione congiunta dei vescovi sparsi per il mondo, il § 3 parla di altre forme). La conciliarità ecumenica risulta così fortemente relativizzata e, in fin dei conti, strumentalizzata al governo centrale della Chiesa (diversamente da LG 22). 1.7 - Il Codice registra la transizione. E’ fondamentale l’indicazione data da Giovanni Paolo II per l’interpretazione del Codice latino: «Se poi è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio canonistico l’immagine della Chiesa tuttavia a questa immagine il Codice deve sempre riferirsi, come a esempio primario, i cui lineamenti esso deve esprimere in se stesso, per quanto è possibile, per sua natura» (Sacrae disciplinae leges). 2. Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus. Fontium annotatione auctus, ed. Pontificium Consilium de Legum textibus interpretandis, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995 (promulgato il 18 ottobre 1990). Il Codice orientale procede per titoli. Dopo aver definito le Chiese di diritto proprio (Titolo II), passa a trattare della suprema autorità della Chiesa, vale a dire del romano pontefice e del collegio dei vescovi (Titolo III). Dunque tratta prima delle Chiese, poi dei ministri. Inoltre, le Chiese di diritto proprio (sui iuris), sono riconosciute nella loro legittimità prima che sia determinata l’autorità suprema. Quest’ultima, nella tradizione orientale, deve essere salvaguardata soprattutto nel caso di conflitto con lo Stato, ma non può essere il regime ordinario della comunione 21 Afferma San Tommaso: «Ecclesia universalis non potest errare, quia a Spiritu Sancto gubernatur, qui est Spiritus veritatis»: STh II II, q.1, a 9.c. Si veda anche la formula di promulgazione degli atti conciliari (quella utilizzata da Paolo VI: EV 1/445, 493, 572, …). 22 Cf. in particolare H. LEGRAND, «Primato e collegialità. Valutazione ecumenica di una formulazione dottrinale incompiuta», in A. ACERBI (a cura di), Il ministero del papa in prospettiva ecumenica, Milano 1999, pp. 217-218; IDEM, «Quarant’anni dopo, che ne è delle riforme ecclesiologiche prese in considerazione al vaticano II?», in Concilium XLI (2005), fascicolo 4, pp. 84-86; IDEM, «Primato e collegialità per la comunione delle Chiese. Le riforme di Francesco», in Il Regno attualità, LIX (2014) 419-428; C. THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011, pp. 41-44.

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delle Chiese. Il Codice orientale, inoltre, tratta del vescovo eparchiale (= diocesano) in stretta relazione con l’eparchia (= diocesi). Afferma che il vescovo regge l’eparchia «ut vicarius et legatus Christi» (can. 178 = LG 27). L’eparca, poi, è visto in relazione al patriarca il quale, a sua volta, presiede la Chiesa patriarcale «tamquam pater et caput» (can. 55). Le Chiese di diritto proprio (sui iuris) sono distinte in quattro classi23: le Chiese patriarcali: Tit. IV: cann. 55-150: il patriarca è eletto dal sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale e resta in carica per tutta la vita; la sua elezione è comunicata al papa; le Chiese arcivescovili maggiori: Tit. V, cann. 151-154: l’arcivescovo, una volta eletto, deve ottenere la conferma dal romano pontefice; le Chiese metropolitane sui iuris: Tit. VI, cann. 155-173: il metropolita è nominato dal romano pontefice; le altre Chiese sui iuris: Tit. VI, cann. 174-176, affidate ad un gerarca (ordinario). Può trattarsi di un’eparchia, o anche di un esarcato apostolico, dove l’esarca, non necessariamente insignito del carattere episcopale, la regge in nome del romano pontefice (cann. 311-321).

Le quattro classi corrispondono, in modo decrescente ai quattro gradi di autonomia ecclesiale da un punto di vista canonico (Chiesa sui iuris significa Chiesa autonoma). A capo di ognuna di queste Chiese c’è un solo gerarca24: a) un patriarca, b) un arcivescovo maggiore, c) un metropolita, d) un vescovo o esarca o vicario apostolico, ecc. a capo di una diocesi o di un esarcato, che non fa parte di nessuna delle tre chiese precedenti. a) Chiese patriarcali - Il patriarca, secondo il CCEO, dei tre poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – ha solo l’esecutico e, in vari casi, può esercitare questo potere solo dopo aver ottenuto il consenso o dopo aver sentito il parere di un sinodo e/o della Santa Sede. Il potere legislativo risiede esclusivamente nel sinodo episcopale della Chiesa patriarcale, che è composto da tutti i vescovi di tale Chiesa (can. 102), ed è l’espressione della loro corresponsabilità. A differenza del papa che può promulgare leggi motu proprio, cioè di sua iniziativa, il patriarca non è un legislatore. Ha potere legislativo in quanto membro del sinodo episcopale. Le leggi hanno forza vincolante solo per il territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non siano state approvate dalla sede romana. Le leggi non hanno bisogno dell’approvazione della Chiesa di Roma (can. 111 § 3). Il sinodo episcopale ha anche poteri giudiziali. Il sinodo episcopale della Chiesa patriarcale gode della potestà di magistero (can. 605). Il potere esecutivo o amministrativo è in gran parte nelle mani del patriarca (can. 110 § 4). La sede apostolica di Roma va consultata prima di dare esecuzione a diverse decisioni sinodali. Poiché il sinodo episcopale si raduna assai di rado, per il disbrigo degli affari correnti il Codice orientale prevede un altro organismo denominato sinodo permanente (in greco synodos endemusa): rappresenta il sinodo episcopale maggiore e, per suo mezzo, l’intera Chiesa patriarcale. Il patriarca ha bisogno del consenso del sinodo permanente per numerosi atti (venti) e deve sentire il parere per altri (quindici casi). Come si può notare le Chiese patriarcali godono di notevole autonomia rispetto all’autorità centrale della sede romana. I poteri di una Chiesa patriarcale nella comunione cattolica possono essere paragonati a quelli delle Chiese ortodosse autocefale. La differenza principale è che mentre per gli ortodossi la suprema autorità ecclesiale risiede solo nel concilio ecumenico, per i cattolici risiede anche nel romano pontefice.

23 Cf. M. BROGI, «Strutture delle Chiese orientali sui iuris secondo il CCEO», in Apollinaris 65 (1992), pp. 298-311; G. NEDUNGATT, «Sinodalità nelle Chiese cattoliche orientali secondo il nuovo Codice», in Concilium 28, fascicolo 5 (1992), pp. 90-111[796-817] (tengo presente lo studio del Nedungatt). 24 Il gerarca è un ecclesiastico investito di potere sacro (hierarchia), con rango di vescovo o con un rango superiore (CCEO can. 984); in genere equivale a ordinarius (CIC can. 134).

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Nella Chiesa patriarcale i laici partecipano solo all’assemblea patriarcale (cann. 140-145), che è un organismo consultivo e comprende tutta la gerarchia. Nella Chiesa patriarcale i vescovi sono designati mediante elezione canonica (can. 181 § 1). b) Chiese arcivescovili maggiori - Dopo la Chiesa patriarcale viene la Chiesa presieduta da un arcivescovo maggiore. L’unica Chiesa nella comunione cattolica di questo grado è oggi la Chiesa ucraina. Tale Chiesa ha la stessa struttura e quasi la stessa autonomia di una Chiesa patriarcale. La differenza principale sta nel fatto che l’elezione dell’arcivescovo maggiore deve essere confermata dal papa (can. 153), mentre quella del patriarca gli è solo comunicata, così come è tradizionalmente comunicata anche agli altri patriarchi (can. 76). Inoltre, il patriarca ha la precedenza sull’arcivescovo maggiore. Il sistema sinodale delle Chiese patriarcali si applica anche a queste Chiese (can. 152). c) Chiesa metropolitana sui iuris – Nel terzo grado di Chiese sui iuris, c’è minore autonomia ecclesiale, e quindi più dipendenza dalla suprema autorità. Tale Chiesa è come una provincia ecclesiastica. Spetta alla suprema autorità (in pratica al papa) erigerla, determinarne il territorio, assegnarle la sede, nominarne il metropolita o, se necessario, sopprimerla (can. 155). Inoltre, il metropolita così nominato deve chiedere e ottenere il pallio (CIC can. 437, § 1) dal romano pontefice, in segno di comunione gerarchica, prima di poter compiere alcuni atti amministrativi di maggiore importanza, come l’ordinazione dei vescovi (CCEO can. 156). Il governo della Chiesa metropolitana sui iuris è sinodale o conciliare. Molti dei poteri appartengono a un organismo gerarchico detto consiglio dei gerarchi composto da tutti i vescovi della Chiesa metropolitana sui iuris, (can. 164) e convocato e presieduto dal metropolita (can. 159, 2°). Questo consiglio, non il metropolita, esercita il potere legislativo. Le leggi approvate devono essere comunicate alla Santa Sede e occorre attendere la loro “accettazione” prima di poterle applicare (can. 167, § 2). Nonostante questa restrizione, il potere legislativo del consiglio dei gerarchi è di gran lunga superiore al potere del corrispondente organismo della Chiesa latina, le conferenze episcopali (CIC can. 455) o i concili particolari (CIC can. 446). Il potere amministrativo è diviso tra il metropolita e il consiglio dei gerarchi, così da assicurare un sano equilibrio o controllo. I poteri di una Chiesa metropolitana sui iuris e i loro limiti vanno intesi in relazione alla sua maturità ecclesiale. Si tratta di una Chiesa ancora in via di sviluppo. Anche in questa Chiesa, come in quella patriarcale, i laici non sono molto in vista. Il c. 172 prescrive la creazione di un organismo consultivo simile all’assemblea patriarcale (cann. 140-145). d) Le altre Chiese sui iuris – L’autonomia di queste Chiese è minima ed equivale in pratica a quella di qualsiasi eparchia orientale o diocesi latina. Questo grado può comprendere anche una sola diocesi o il suo equivalente (un esarcato: in territorio di missione). Esprime di solito lo stadio iniziale di una comunità evangelizzata di recente. Viene eretta canonicamente dal papa ed è soggetta direttamente alla Santa Sede. Non si può parlare di sinodalità, in quanto tutta la sua gerarchia si riduce a un solo gerarca. A livello eparchiale la struttura di potere nel CCEO è molto simile a quella che si trova a livello diocesano nel CIC. Il vescovo eparchiale governa la sua eparchia «come vicario e legato di Cristo. L’autorità, che egli esercita personalmente in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata», ma non piena e assoluta dal momento che «l’esercizio della potestà è in ultima analisi regolato e può essere in certa misura limitato dalla suprema autorità della Chiesa» (can. 178; LG 27). Con il consenso del sinodo episcopale, il patriarca può ridurre i poteri del vescovo diocesano, trasferendoli tutti o in parte a un vescovo coadiutore (can. 213). Il vescovo governa la sua eparchia con potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria. Egli detiene sempre il potere legislativo, mentre può delegare gli altri due (can. 191). I vari organismi eparchiali non hanno poteri loro propri, ma solo poteri delegati

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o di partecipazione, anche se talvolta il vescovo è tenuto a consultare o ad ottenere il consenso del consiglio dei presbiteri (cann. 264-270) o del collegio dei consultori (can. 271). Spetta solo al vescovo formulare in modo definitivo l’ordine del giorno dell’assemblea eparchiale (can. 240 § 1), che corrisponde al sinodo diocesano della Chiesa latina. Lo stesso vale per il consiglio pastorale (cann. 272-250), che può essere convocato per consigliare il vescovo su questioni pastorali. L’autonomia delle Chiese orientali riconosciuta dal loro Codice, costituisce il recupero dell’antica struttura sinodale del governo ecclesiale, che fu assorbita in occidente dall’estensione del primato romano. La partecipazione dei semplici battezzati resta alquanto modesta: è limitata all’assemblea patriarcale o organismi similari, di natura soltanto consultiva, priva di periodicità. Si veda anche: Esortazione postsinodale Pastores gregis (16.10.2003), nn. 60 (Le Chiese cattoliche orientali) e 61 (Le Chiese patriarcali e il loro sinodo). Conclusione del capitolo 2° 1) La collegialità episcopale: il cammino percorso dal concilio Vaticano II ad oggi. Il concilio ha aperto un capitolo, si è cominciato a scriverlo. E’ ancora attuale il parere del p. Y. Congar: la teologia delle relazioni ecclesiali non è ancora perfettamente approfondita. Giovanni Paolo II afferma: «Molto si è fatto dal concilio Vaticano II in poi … ma certamente molto resta da fare» (NMI, n. 44). Dello stesso parere è papa Francesco (EG n. 32). A cinquant’anni dal concilio Vaticano II siamo di fronte a una recezione parziale. 2) Il tema della collegialità è un tema aperto. In questione sono non tanto gli enunciati conciliari della collegialità (nozione di “collegio episcopale”; sacramentalità dell’ordinazione episcopale, che conferisce la pienezza di munus; il collegio dei vescovi è soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale), quanto le applicazioni concrete di cooperazione e corresponsabilità dei vescovi ai diversi livelli. Occorre “entrare” nella collegialità vissuta. 3) Sull’attuazione della collegialità, il teologo italiano SEVERINO DIANICH scrive: «È che la collegialità è vissuta solo nelle sue forme deboli: quella del sinodo episcopale e quella delle conferenze episcopali. Mancano le sue forme forti: quella del concilio ecumenico […], quella dell’esercizio ordinario, quasi sempre svuotato di importanza da un magistero professante consenso al magistero papale più che portatore di un insegnamento proprio e originale; quello dei concili particolari, quasi inesistenti, quello della sinodalità episcopale ordinaria, che si esercita solo nel diritto orientale intorno al metropolita e al patriarca»25. 4) Da più parti vengono indicati quali luoghi dove esercitare la collegialità: 1) la Chiesa particolare affidata al vescovo; 2) la provincia ecclesiastica, sotto la guida del metropolita; 3) la Chiesa nazionale, sotto la guida del primate; 4) il patriarcato, la cui suprema autorità è il patriarca; 5) il collegio episcopale. Il livello delle conferenze dovrebbe essere così articolato: 1) la conferenza episcopale regionale, coordinata da un presidente; 2) la conferenza episcopale nazionale, coordinata da un presidente. Si aggiunge: la conferenza episcopale continentale, coordinata da un presidente. 4) Altra forma di attuazione della collegialità può consistere nel donare una maggiore autonomia alle singole conferenze episcopali, non necessariamente nazionali, ma anche continentali – attualmente le continentali non sono classificate come conferenze episcopali ma come “assemblee”, 25 S. DIANICH, «È ancora possibile un concilio?», in Regno attualità 45 (2000), p. 296. Cf. anche J. R. QUINN, «Per una riforma del papato», in P. HÜNERMANN (a cura di), Papato ed ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell’unità, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, p. 89; S. DIANICH, Per una teologia del papato, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2010.

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“segretariati” o “consigli” – oppure rivalutare e rinnovare l’istituzione del sinodo dei vescovi, valorizzando anche i fedeli laici26. 5) Da più parti si chiede un approfondimento del «principio di sussidiarietà», sviluppato nella dottrina sociale della Chiesa, e una sua applicazione alle relazioni tra le Chiese27. Nella lettera enciclica Quadragesimo anno di Pio XI il principio di sussidiarietà è così formulato: «Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle» (AAS 23 [1931], p. 203). Il principio di sussidiarietà è enunciato tra i principi che la Commissione incaricata della revisione del Codice di diritto canonico doveva seguire nella riforma della legislazione28. L’obiezione più frequente è che tale principio ha valore per le società civili, mentre la Chiesa non è solo una società: è costituita da Cristo come comunità di fede, di speranza e di carità e come un organismo visibile; in essa l’elemento divino e l’elemento umano formano una sola complessa realtà, dove il secondo è ordinato al primo (Lumen gentium, n. 8). Pertanto, sostengono diversi autori, più che di “sussidiarietà”, si dovrebbe parlare di “giusta autonomia di vita” da riconoscere alle diverse entità ecclesiali in rapporto tra loro non nella forma inferiorità/superiorità come spiegato nella Quadragesimo anno, ma in un rapporto di comunione. Il “popolo di Dio” è “di Dio” e non può essere scordato che ha per capo Cristo, ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, ha per legge il nuovo precetto di amare, ha per fine il regno di Dio (Lumen gentium, n. 9). 6) È maturata una terminologia diventata comune nella dottrina e nei più recenti documenti del magistero, veicolo di concetti definiti e precisi:

- collegialità episcopale in senso stretto (si attua nel collegio episcopale, in varie forme), - affectus collegialis o spirito collegiale, radicato nel sacramento dell’ordine, - forme concrete di applicazione dello spirito collegiale29.

7) Verso forme collegiali o sinodali più articolate. Proposte: in riferimento al sinodo dei vescovi, alle conferenze episcopali, alla nomina dei vescovi. 8) GIOVANNI PAOLO II, Novo millennio ineunte, n. 44:

«Su questa base (una spiritualità di comunione: n.d.r.), il nuovo secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del concilio Vaticano II, servono ad assicurare e garantire la comunione. Come non pensare, innanzitutto, a quegli specifici servizi alla comunione che sono il

26 Cf. N. FILIPPI, Essenza e forma di esercizio del ministero petrino. Il magistero di Giovanni Paolo II e la riflessione ecclesiologica, (Tesi Gregoriana, Teologia 112), EPUG, Roma 2004, p. 154. 27 Cf. L. DAL LAGO, «Il principio di sussidiarietà anche nella Chiesa?», in Credere oggi XXXIV (2014), n. 2 – 200, pp. 74-84. 28 Cf. Communicationes 1(1969), pp. 77-85, n. 5 : EV 2/1699-1713 ; cf. anche Codice di diritto canonico. Prefazione, UELCI, Roma 1997 (3 edizione), pp. 47-49. 29 Cf. R. SOBANSKI, «L’uso del concetto di ‘collegialità’ nel contesto teologico degli enunciati ufficiali della Chiesa e le sue implicanze nel diritto canonico», in Concilium, XXVI (1990), fascicolo 4, pp. 63-75 [513-525].

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ministero petrino, e, in stretta relazione con esso, la collegialità episcopale? Si tratta di realtà che hanno il loro fondamento e la loro consistenza nel disegno stesso di Cristo sulla Chiesa, ma proprio per questo bisognose di una continua verifica che ne assicuri l’autentica ispirazione evangelica. Molto si è fatto dal concilio Vaticano II in poi anche per quanto riguarda la riforma della curia romana, l’organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle conferenze episcopali. Ma certamente molto resta da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di questi strumenti della comunione, oggi particolarmente necessari di fronte all’esigenza di rispondere con prontezza ed efficacia ai problemi che la Chiesa deve affrontare nei cambiamenti così rapidi del nostro tempo».

9) FRANCESCO, esortazione pastorale Evangelii gaudium, sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24.11.2013, n. 32:

«Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (Regno documenti, 21, 2013, 647) (corsivi miei).

Le parole di Papa Francesco sono rispettose, ma anche decisamente critiche. Alla domanda formulata da Paolo VI nell’esortazione Evangelii nuntiandi del 1975, «Dopo il concilio e grazie al concilio, che è stato per essa un’ora di Dio in questo momento cruciale della storia, la Chiesa si trova più adatta ad annunciare il Vangelo e a inserirlo nel cuore dell’uomo con convinzione, libertà di spirito ed efficacia?», probabilmente la risposta, per noi, oggi, rimane … problematica, esitante, dubbiosa. Abbiamo tracciato la recezione del concilio Vaticano II compiuta dal magistero della Chiesa di Roma esaminando alcuni importanti documenti. Non si può negare che sia emerso un quadro di riforme istituzionali sostanzialmente fedele agli orientamenti fondamentali del Vaticano II. Eppure la recezione del concilio ha avuto – e continua ad avere – uno sviluppo piuttosto difficile. Ne sono una prova l’intervento di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 (la querelle tra un’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» e un’«ermeneutica della riforma») e le parole di Papa Francesco tratte dall’esortazione Evangelii gaudium, n. 32. La problematica della recezione emerge in tutta la sua vivacità da quella che ho chiamato recezione pratica del Vaticano II, che parte dalle comunità locali o dalle tradizioni culturali delle Chiese particolari (i sinodi, le conferenze continentali, le opere degli studiosi, ecc.). Per l’approccio alla recezione pratica rinvio al testo di THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, pp. 429-510.

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Capitolo 3

LA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: FONDAMENTI SCRITTURISTICI

E ATTUAZIONI NELLA CHIESA ANTICA

I. FONDAMENTI SCRITTURISTICI

La Chiesa è stata istituita da Gesù in un modo tutto suo: essa è una comunione, che rivela tra i suoi membri una comunicazione di grazia comune a tutti e insieme una diversità di doni per il bene di tutti (cf. LG 32; 18; CIC, cann. 204 § 1; 208; 330). Occorre accostare questa realtà con grande libertà, rinunciando a schemi concettuali che potrebbero pregiudicare l’accesso al «mistero della Chiesa». Si tratta di esaminare come Gesù e la Chiesa apostolica hanno concepito e vissuto la “collegialità”1 degli apostoli tra loro e con il loro capo, Pietro. La costituzione Lumen gentium ai nn. 19 e 22 richiama alcuni testi della Sacra Scrittura, ma non li usa per provare delle “tesi” e nemmeno li estende oltre gli ambiti di corretta applicazione. Facendo tesoro di questa metodologia, esaminiamo i testi biblici che delineano la struttura della Chiesa delle origini, E’ chiaro che qui non si può offrire che un primo, rapido disegno. Molti testi che sono citati sollevano problemi che non possono essere risolti nelle nostre lezioni. Cercherò di assumere e di mantenere le posizioni condivise. Il dato originario può essere così riassunto: i dodici appaiono come un collegio. Non sono individui isolati che Gesù ha incontrato durante i suoi viaggi e poi ha lasciato sul posto. Li ha riuniti intorno a sé perché condividessero la sua vita. Il carattere collegiale del gruppo appare ancor più chiaramente se si nota che tra gli apostoli uno spicca come il primo: Simone – Cefa / Pietro. Pietro occupa certamente il primo posto nel gruppo dei dodici. Egli figura come capo e la sua presenza nel gruppo dei dodici accentua il carattere collegiale di questo gruppo. Questo collegio, così strutturato, deve continuare la sua opera dopo Gesù e dopo gli stessi dodici2. 1. I testi biblici citati dalla Lumen gentium, ai nn. 19 e 22

1 “Collegialità” è un neologismo e non ha un equivalente nella lingua del Nuovo Testamento. Deriva da collegium (cum – lego) e tra i significati di questo termine vi è quello di corpo di persone di uguale titolo e dignità, che hanno comuni funzioni. Nel diritto romano antico il collegium non era mai un organo di potestà e presupponeva un’istanza personale che eseguisse i suoi «decreta». L’organo di potestà poteva essere interno o esterno al collegio. Il collegio esercitava una collegialità d’autorità. Se l’organo di potestà fosse stato interno al collegio, allora quest’organo aveva una funzione d’autorità nel collegio e una funzione di potestà personale distinta dal collegio (era la situazione del Pontifex maximus in rapporto al collegium pontificum). Il diritto romano conosceva anche la collegialità nella potestà. Il concetto di collegialità usato in riferimento ai vescovi e al romano pontefice ha solo delle analogie con la collegialità del diritto romano. Cf. A. D’ORS, Tres estudios sobre la colegialidad episcopal, Eunsa, Pamplona Navarra 1965. 2 L’esegesi storico-critica ha reso difficile dimostrare che Gesù ha “fondato” o “istituito” la Chiesa in modo esplicito e formale con determinati atti. Mt 16,18, il testo su cui principalmente la dimostrazione si basava, è oggi giustamente ritenuto una composizione postpasquale. È convinzione diffusa che si riesce a pervenire a un risultato storicamente corretto solo se il rapporto tra Gesù e la Chiesa è pensato in categorie bibliche, cioè solo se il concetto di Chiesa non viene disgiunto da quello biblico di popolo di Dio. Cf.: COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «Temi scelti di ecclesiologia in occasione del XX anniversario della chiusura del concilio Vaticano II», in IDEM, Documenti 1969-2004, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, pp. 283-287; G. LOHFINK, «Gesù e la Chiesa», in W. KERN – H. J. POTTMEYER – M. SECKLER (EDD.), Corso di teologia fondamentale. 3. Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 1990, pp. 49-105; K. KERTELGE, «La realtà della Chiesa nel Nuovo Testamento», ivi, pp. 106-135.

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In Lumen gentium n. 19, è citato il loghion dei tre sinottici, che narra l’istituzione dei «dodici»: Mc 3,13-19; Mt 10,1-4; Lc 6,12-16. Marco dice che Gesù “ne costituì dodici, perché stessero con lui, e per mandarli a predicare col potere di cacciare i demoni” (vv. 14-15). Poi riprende con l’articolo: “Costituì, dunque i «dodici»” e ne fa seguire i nomi, cominciando da “Simone, al quale diede il nome di Pietro” (v. 16). Matteo precisa: “il primo, Simone, chiamato Pietro” (Mt 10,2). Se l’evangelista non avesse avuto un motivo di mettere Pietro avanti a tutti, sarebbe stato superfluo aggiungere prótos (primo), perché il lettore si sarebbe senz’altro accorto che cominciava l’enumerazione. I dodici formano un gruppo definito e stabile denominato «i dodici»3. Tale nome compare in Matteo (10,5; 20,17; 26,14.20…), in Marco (6,7; 10,32; 11,11; 14,17) e in Giovanni (6,67.70.71; 20,24), spesso in Luca (8,1; 9,12; 18,31). La collegialità dei «dodici» è messa in luce in numerosi testi. Insieme i «dodici» accompagnano il loro maestro (Mc 10,32; 11,11; 14,17; Lc 8,1 e ppll); insieme sono inviati (Mt 10,5); insieme agiscono (Lc 9,12; cf. Atti 6,2). In nome dei «dodici» e come loro rappresentante, Pietro risponde alle interrogazioni che il maestro rivolge non a lui, ma ai Dodici: “Ma voi, chi dite chi io sia? Rispose allora Simon Pietro…” (Mt 16,15-16). All’interno del gruppo dei «dodici» Simone (Cefa / Pietro) gode una posizione particolare: il dato è storico, cioè prepasquale (cf. Mt 10,2; Mc 8,29-32ss; 10,28; Gv 6,68….). Si vedano anche i seguenti testi: Gv 6,67-68.70-71; 20,24. Al «gruppo dei dodici» Gesù ha attribuito un duplice significato. In primo luogo esso è simbolo della volontà di Gesù di raccogliere di nuovo e definitivamente il popolo delle dodici tribù d’Israele (cf. Mt 19,28; Lc 22, 30). Con questa azione simbolica viene rappresentata visibilmente e realizzata anticipatamente la nuova e completa unità del popolo di Dio. In secondo luogo il «gruppo dei dodici» deve testimoniare di fronte all’intero popolo d’Israele l’annuncio di Gesù (Mc 6,7-13; Lc 10,1-12; 10,16). Dopo le apparizioni pasquali e l’invio dello Spirito, i «dodici» con a capo Pietro hanno assunto la responsabilità della guida della comunità di Gerusalemme come «apostoli» (cf. 1 Cor 15,5-9; Gal 1,17ss; Atti 13,1-3; 14,,4.14; per la concezione di Luca cf. Lc 1,2; 24,46-49; Atti 1,5.8; 2,1-36; …). Il collegio degli apostoli forma un’unità, il cui compito è di sostenere tutto l’edificio. A questo collegio, in quanto tale, Gesù ha conferito poteri particolari, dandogli contemporaneamente un capo nella persona di Pietro, che riceve di conseguenza una missione personale, a lui riservata, con poteri corrispondenti. In Lc 22,32, Pietro riceve la missione di confermare i propri fratelli e in Gv 21,15-17 riceve quella di pascere gli agnelli e le pecore. Le istruzioni date ai «dodici» in Mt 10,16-42, sorpassano di molto la breve missione raccontata in quel capitolo e mirano chiaramente al momento in cui gli apostoli dovranno continuare l’opera di Gesù. Agli undici Gesù risorto affida la missione di predicare il Vangelo: Mt 28,19-20. Il duplice fatto – primato conferito a Pietro e poteri conferiti ai «dodici» - è solidamente attestato, pur sotto forme diverse, in Matteo, Luca e Giovanni. 3 “Ci troviamo così di fronte alla seguente situazione: all’interno del discepolato, sopraffatto dalla vicinanza del regno dei cieli in Gesù e deciso a viverla, che è una comunità aperta, c’è la cerchia dei ‘dodici’, che sono stati scelti, chiamati, investiti di autorità e incaricati espressamente da Gesù, e che, come eponimi e capi del nuovo Israele, custodiscono responsabilmente, con la parola, con l’esempio e la sequela, la vicinanza del regno di Dio in Gesù e, in questo senso, si espongono di continuo all’incontro con il mondo ostile. All’interno dei dodici Simon Pietro è il primo, in quanto, pur con tutta la sua debolezza umana, rappresenta il fondamento del futuro discepolato che Gesù chiama ‘mia Chiesa’. Così questo discepolato con i dodici e Simon Pietro, per Mt., è la performazione della futura Chiesa. Essa, si può anche dire, nella sua struttura fondamentale è questa Chiesa nel mondo della promessa”: H. SCHLIER, Ecclesiologia del Nuovo Testamento, in MS /7, pp. 127-128.

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Testi a favore del primato: Mt 16,18-19; Lc 22,31-32; Gv 21,15-16.

Testi che testimoniano che la missione è conferita al collegio apostolico con poteri corrispondenti: Mt 18,18; 28,20; Lc 22,28-30 (24,45-46); Gv 21,23.

Non c’è antinomia tra le due serie di testi4.

Conclusione. Cf. Apostolos suos, nn. 1.3 (viene riassunto il dato neo-testamentario). Confronto con l’esegesi storico-critica. 2. I dati degli Atti degli Apostoli Gli Atti degli Apostoli offrono una testimonianza preziosa. Soprattutto nel cap. 15 è presentato un modello per decidere come Chiesa. Si può qui verificare com’è stata esercitata in concreto, fin dai primi giorni della Chiesa, la doppia autorità affidata da Gesù sia al collegio degli apostoli sia a Pietro. Gli Atti rivelano come i protagonisti delle origini hanno compreso, di fatto, le parole loro rivolte dal maestro e le hanno attuate, nella consapevolezza di essere fedeli al maestro. 2.1 - Gli Atti menzionano sempre gli apostoli, presentandoli come un gruppo che: istruisce (2,42), opera miracoli (2,43), rende testimonianza della resurrezione di Gesù (4,33), riceve il ricavato della vendita da coloro che possedevano terreni o case (4,35), è gettato in prigione (5,18-21), è flagellato con verghe (5, 40), si rallegra di essere stato giudicato degno di subire oltraggi per il nome di Gesù (5,41), continua ad annunciare la buona novella del Maestro (5,42). In questa situazione Pietro interviene, ma come portavoce del collegio (cf. 5,29 e 2,32). A Gerusalemme, sono gli apostoli ad accogliere Barnaba e Saulo (Atti, 9, 27). Molte decisioni sono prese in comune: (cf. istituzione dei sette: Atti 6,1-6; invio di Pietro e Giovanni in Samaria: Atti, 8,14). Nella conversione del centurione Cornelio, protagonista è Pietro (Atti 9, 32-10,48), ma il fatto interessa direttamente gli apostoli, e Pietro non giudica diminuita la sua autorità accettando di spiegare l’accaduto ai giudeo-cristiani scandalizzati per la sua condotta (11,2-18). 2.2 - In Atti 15 troviamo la soluzione di uno dei più gravi problemi affrontati dalla prima Chiesa e cioè se bisognasse imporre la circoncisione e di conseguenza la legge mosaica ai credenti non giudei. La soluzione è costruita in forma collegiale. Il problema sorge ad Antiochia (Atti 15, 1), ma poi viene portato a Gerusalemme, davanti agli «apostoli» e ai «presbiteri» (15,2). Questi si riuniscono con tutta la comunità e discutono: sono riportati o segnalati gli interventi di Pietro (15, 7-11), Barnaba, Paolo (15,12) e Giacomo (15,13-21). La decisione finale unanime (15,22-29) è comunicata alla Chiesa d’Antiochia tramite una lettera, portata da due persone stimate da tutti, Giuda e Sila (15,22), che avevano anche il dono della parola profetica (15,32). La riunione di Gerusalemme decise che i seguaci di Cristo sarebbero andati oltre il giudaismo per diventare una religione distinta che avrebbe raggiunto i confini della terra5. 2.3 - Di questa importante vicenda della Chiesa degli apostoli abbiamo due racconti, uno in Atti 15, l’altro in Gal 2. Stile e prospettive sono diverse6. In ogni caso Atti e Gal concordano che Pietro

4 Per l’interpretazione dei testi cf. l’esegesi (BENOIT, SCHLIER, LYONNET, CERFAUX, PESCH, SCHNEIDER, ROLOFF, DUPONT, BOISMARD, ecc.). I testi sono quelli citati in Lumen gentium, nn. 19 e 22. 5 Un’indagine completa sulla storia degli effetti del ‘concilio’ di Gerusalemme è in parte da scrivere. Per gli influssi nei primi secoli cf. R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, pp. 611-612 (orig. ted. 1987). 6 Cf. R.E. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Editrice Queriniana, Brescia 2001, pp. 422-426.

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(Giovanni) e Giacomo conservarono la koinonía con Paolo e le sue Chiese gentili. La strada era aperta per una libera ed efficace evangelizzazione fino ai confini della terra. 2.4 - In questo episodio sono coinvolte Chiese diverse: Antiochia, Chiese della Fenicia e della Samaria, Gerusalemme. La soluzione della controversia è presa da un’assemblea degli apostoli a Gerusalemme, benché questa Chiesa non sia direttamente interessata al problema. L’unità della Chiesa è il risultato di contatti umani sotto l’autorità degli apostoli e la luce dello Spirito Santo. L’insieme del racconto dimostra che l’autorità del capo è esercitata in comunione con il collegio degli apostoli, al quale è associato pure quello degli anziani (presbiteri). Anche le Chiese sono coinvolte in modi diversi. La struttura collegiale che troviamo a Gerusalemme, riguardante il governo della Chiesa nel suo insieme (= universale), perfettamente accordata con l’autorità affidata da Cristo a Pietro, si ritrova nelle Chiese locali ricordate negli Atti (Efeso (20, 17.28), comunità della Giudea (11, 30), comunità fondate da Paolo e Barnaba (14, 23), ecc)7. 2.5 - L’episodio di collegialità «conciliare» di Atti 15 è unico nel Nuovo Testamento. Le singole comunità, tuttavia, dovevano avere un esercizio ordinario di collegialità, che si esprimeva nella guida da parte del presbyterium8. Questa istituzione, ereditata dal giudaismo9, presente negli ordinamenti civili greci e romani, si diffonde rapidamente in tutte le Chiese. Anche le lettere paoline testimoniano questa struttura collegiale10. Per esempio: la lettera di Paolo ai Filippesi è indirizzata ai vescovi e ai diaconi (Fil 1,1); in 1 Tes 5,12 Paolo invita i suoi lettori al rispetto “per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono”. In 1 Cor 16,15-16 Paolo esorta a essere deferenti verso Stefana e la sua famiglia e quanti collaborano e si affaticano con loro. 2.6 - Gli Atti testimoniano che le strutture ministeriali collegiali sono messe in opera con gradualità: Atti 14,23 (gli anziani sono qui scelti non dalle comunità, ma dagli apostoli); cf. anche Tt 1,5 (Tito riceve l’incarico di completare la formazione delle comunità, costituendo in ogni città un collegio di presbiteri). Questa struttura collegiale appare come fondamentale ed essenziale per una Chiesa particolare. Se è vero che la figura del vescovo rende una Chiesa particolare completa, «cattolica», è anche vero che non si può concepire una Chiesa senza il presbyterium o consiglio dei presbiteri, anziani (senso etimologico) o notabili.

7 Sull’istituzionalizzazione del ministero pastorale nella Chiesa primitiva cf. M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995, pp. 298-302. 8 Per Gerusalemme cf. Atti 11,30; 15,2s; 21,18. Per le comunità della diaspora cf. Atti 14,23; 20,17; Tt 1,5; 1 Pt 5,1. 9 Nelle comunità giudaiche gli anziani erano capi locali, senza ricoprire incarichi sinagogali. Per l’antico Israele cf. Es 18,13s; Num 11,16; Gs 8,10; 1 Sam 16,4; Is 9,14; Ez 8,1.11; per il giudaismo cf. Esd 5,5; 10,14; Gdt 6,16; Lc 7,3; 22,66; At 4,5; Giuseppe Flavio, Filone, ecc. 10 L’espressione «anziani» ricorre nella tradizione giudaica. «episcopoi» «diakonoi» sono forme ellenistiche e appaiono nelle comunità di ex-pagani. Sull’ordinamento della Chiesa nel Nuovo Testamento cf. R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1966, pp. 25-40. Cf. anche: O. BUCCI, «Il Collegio dei vescovi nelle sue origini», in Ius Ecclesiarum Vehiculum caritatis, Atti del simposio internazionale per il decennale dell’entrata in vigore del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, Città del vaticano 19-23 novembre 2001, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 199-233; IDEM, Gesù il Legislatore, LEV, Città del Vaticano 2011.

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2.7 - La prassi conciliare della Chiesa ha le sue prime embrionali espressioni nelle riunioni del presbyterium locale11. A tali riunioni potevano prendere parte vescovi e presbiteri di passaggio, o chiamati appositamente, segno che le varie comunità si consideravano tutte appartenenti ad un’unica Chiesa. Le lettere di Ignazio di Antiochia, di Policarpo di Smirne, i frequenti scambi epistolari, specialmente con le grandi sedi, testimoniano la consapevolezza dei vescovi dei primi tempi di essere responsabili non soltanto della propria città, ma anche del bene delle altre Chiese12. Conclusione: Le Chiese e i vescovi dei primi secoli vedranno, nella vicenda narrata in Atti 15, un modello di quello che bisognava fare allorché si poneva per la Chiesa un problema grave. 3. Le Lettere di Paolo 3.1 - La visione paolina della Chiesa è una visione d’unità, che si oppone al disordine sia carismatico sia di rifiuto dell’autorità. Per il p. Jacques Dupont, S. Paolo è un «témoin de la collégialité apostolique et de la primauté de Saint Pierre»13. Sono molte le questioni da approfondire :

- in che senso Paolo può dirsi «Apostolo di Cristo» - la natura della «apostolicità» di Paolo - l’uso del termine «apostolo» e la sua estensione oltre i dodici - rapporto tra Paolo e i notabili di Gerusalemme - la posizione di Paolo in rapporto a Pietro - la posizione di Paolo in rapporto agli altri apostoli.

3.2 - Per il p. Stanislao Lyonnet «la testimonianza di Paolo non contraddice quella dei Vangeli e degli Atti: essa la conferma a suo modo e soprattutto lascia già intravedere come sia potuto avvenire il passaggio dal collegio dei dodici a quelli che dovevano loro succedere, senza doversi limitare alla cifra dei dodici. Infatti, il collegio stesso prosegue l’opera per la quale Cristo l’aveva stabilito, con la stessa struttura, collegiale e gerarchica insieme, che Cristo gli aveva dato. Ciò sarà più chiaramente provato dalla Tradizione»14.

11 Scrive H. Marot: «In sant’Ignazio, la collegialità è innanzitutto quella della Chiesa locale che sta al centro delle prospettive e basta praticamente a tutti i bisogni. Il vescovo locale, centro di unità, è la norma suprema. Per il vescovo di Antiochia, il collegio apostolico è il presbyterium locale. Tuttavia, alcuni vescovi indirizzeranno lettere pastorali ad altre cristianità, mostrando così di possedere già il senso della Chiesa cattolica: lo stesso Clemente Romano, Ignazio, e poi anche Dionigi di Corinto verso il 160; ma qui si tratta di esortazioni o di semplici richiami alla dottrina comune. Nel corso della lotta antignostica, furono le Chiese locali a lanciare le scomuniche (per esempio, contro Marcione). Infine bisogna ricordare l’argomento della successione addotto da sant’Ireneo, dopo Egesippo, nel suo Adversus haereses»: «Concili anteniceni e concili ecumenici», in Il Concilio e i concili, p. 49. 12 Cf. E. CATTANEO (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Paoline Editoriale Libri, Milano, 1997, pp. 99-101. 13 J. DUPONT, «Saint Paul, témoin de la collégialité apostolique et de la primauté de Saint Pierre», in La collégialité épiscopale. Histoire et théologie, (Unam Sanctam 52), Les Éditions du Cerf, Paris, 1965, pp. 11-39. Per una panoramica esegetica sul punto di vista di Paolo circa l’ordinamento e il governo della Chiesa, con un chiaro interesse sociologico, cf. R. BANKS, «Chiesa, ordinamento e governo della», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne – R.P. Martin – D.G. Reid, edizione italiana a cura di R. Penna, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1999, pp. 226-236 (e voci collegate); J.R.MICHAELS, «Pietro», ivi, pp. 1180-1183. Sull’’ecclesiologia paolina cf. J.N. ALETTI, Essai sur l’écclesiologie des lettres de Siant-Paul, Gabalda, Pendé (France), 2009.

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Nella prospettiva di Paolo la collegialità va compresa in rapporto al Vangelo, alla «verità del Vangelo» (Gal 2, 5-14). «L’apostolo, ogni apostolo, è inviato da Cristo per annunciare il Vangelo. Ogni apostolo è ad un tempo testimone e garante del Vangelo. L’accordo che deve esistere tra i membri del collegio apostolico non è questione di buon esempio, di carità condiscendente; è la condizione stessa dell’esercizio della missione apostolica: l’unità del Vangelo di Cristo affidato agli apostoli non può essere garantita che dall’unanimità della loro testimonianza. Manifestata e garantita dall’accordo degli apostoli, l’unità del Vangelo è nello stesso tempo la base e il principio di questo accordo, che si realizza nel possesso di uno stesso oggetto, nella comunione a una stessa realtà divina, nella comunicazione unanime di questa realtà divina unica»15. Si può chiedere: perché Paolo sente come un dovere andare a Gerusalemme, da coloro che erano gli apostoli prima di lui (Gal 1, 17) ed esporre ai notabili della Chiesa-madre di Gerusalemme il Vangelo che annuncia ai gentili (2,2)? Non si tratta di un dovere giuridico: a Paolo non era stato intimato di presentarsi a Gerusalemme. Paolo cerca un riconoscimento ufficiale della missione che gli è stata affidata da Dio, perché – sono parole sue – «non volevo che risultasse inutile il lavoro che avevo compiuto e che stavo facendo» (2,2). Il ministero apostolico di Paolo, nonostante la sua origine divina, perderebbe tutto il suo valore se non fosse compiuto nella koinonía apostolica. Scrive il p. Dupont: «A motivo dell’origine divina della sua missione, Paolo non cede per nulla ai notabili di Gerusalemme. Non può tuttavia dimenticare che è l’ultimo venuto tra gli apostoli. Per questo la necessità della comunione apostolica si è presentata concretamente a lui sotto la forma della necessità di ottenere il riconoscimento di Gerusalemme. Per ottenere questo scopo egli ha certamente parlato dei risultati della sua attività missionaria; ma in primo luogo e, soprattutto, egli ha esposto ai notabili il Vangelo che annuncia ai gentili… È il Vangelo, in effetti, che fonda l’unicità del collegio apostolico. L’unità di cui si tratta non è semplicemente un problema di mutua comprensione, di accomodamenti e compromessi umani; essa procede dalla “verità del Vangelo” e si realizza in una testimonianza concorde sull’insegnamento del Vangelo. Gli apostoli, essendo assieme i garanti del Vangelo, debbono necessariamente restare in mutuo accordo»16. «Al di fuori dell’unico Vangelo di Cristo, non c’è altro Vangelo (1,6.9); al di fuori dell’unità del collegio apostolico, che garantisce questo Vangelo di Cristo, non è possibile fare opera di Chiesa; perché non c’è che una sola Chiesa: la Chiesa di Cristo, la Chiesa del Vangelo, la Chiesa degli apostoli»17. 3.3 - Anche nelle Lettere, come in tutto il Nuovo Testamento, «l’ideale della Chiesa è quello di un corpo organizzato, nel quale gli apostoli occupano il primo posto, di un edificio le cui fondamenta sono costituite dal loro collegio»18.

14 S. LYONNET, «I fondamenti scritturistici della collegialità episcopale», in G. BARAUNA (a cura di), La costituzione gerarchica della Chiesa. Studi e commenti intorno al terzo capitolo della costituzione dommatica Lumen gentium, ed. it. a cura di S. Olivieri, Vallecchi Editore, Firenze, 1968, p. 115. 15 DUPONT, «Saint Paul, témoin de la collégialité apostolique et de la primauté de Saint Pierre», in La collégialité épiscopale, p. 35. 16 Ivi, pp. 26-27. 17 Ivi, p. 36. 18 B. BOTTE, «La collegialità nel Nuovo Testamento e nei Padri Apostolici», in Il Concilio e i concili. Contributo alla storia della vita conciliare della Chiesa, Edizioni Paoline, Roma 1961, p. 32.

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3.4 - Per quanto riguarda il primato di Pietro, l’atteggiamento di Paolo è così sintetizzato dal p. Jacques Dupont: «Paolo testimonia senza alcuna ambiguità la posizione assolutamente preponderante occupata da Pietro tra coloro che erano apostoli prima di lui»19. La comunione del collegio apostolico, così com’è concepita da Paolo, non è solamente orizzontale; è comunione nel possesso comune e nella trasmissione concorde dello stesso unico Vangelo. L’unità del collegio apostolico si fa sul Vangelo. In questa comunione del collegio apostolico, un ruolo tutto particolare e privilegiato appartiene a Pietro in ragione del suo primato. Pietro e il collegio si definiscono, l’uno e l’altro, in rapporto all’unico Vangelo, al dono che Dio vuole assicurare alla sua Chiesa. La Chiesa possiede questo dono divino mediante il collegio, la cui testimonianza concorde costituisce la garanzia del Vangelo; e lo possiede mediante Pietro, la cui testimonianza privilegiata costituisce la garanzia certa della verità dello stesso Vangelo. Centro della comunione del collegio apostolico, Pietro viene a trovarsi nello stesso tempo centro e garante dell’unità della Chiesa20. Nella prospettiva di Paolo il Vangelo diventa norma di ogni rapporto, preoccupazione per la fedeltà di ogni Chiesa alla “Verità del Vangelo”. Il Vangelo è più grande dei conflitti. Il conflitto tra Pietro e Paolo ad Antiochia (Gal 2,12), pur rimanendo aperto, non porta al disconoscimento del ministero di Paolo, né tanto meno di quello di Pietro.

II. ATTUAZIONI DELLA COLLEGIALITÀ NELLA CHIESA ANTICA 1. La tradizione21 Con la testimonianza delle Lettere, va ricordata la tradizione (parádosis; plurale: paradóseis): si tratta di insegnamenti trasmessi o della prassi comune delle Chiese (cf. 2 Tess 2,15; 1 Cor 11,3.16.23; 15,3). L’apostolo ha ricevuto queste tradizioni e le trasmette a sua volta; i cristiani devono conservarle. Nelle lettere pastorali la stessa idea è espressa con il termine deposito (parathéke). Timoteo è invitato a custodire questo deposito contro le vane e profane elucubrazioni e le opposizioni della pretesa gnosi22. Il mantenimento della parádosis incombe su coloro che sono, nella Chiesa, i depositari dell’autorità apostolica, vale a dire, a partire dal II secolo, i vescovi. Questa responsabilità nei confronti della tradizione degli apostoli, i vescovi hanno coscienza di portarla solidalmente.

19 DUPONT, «Saint Paul, témoin de la collégialité apostolique et de la primauté de Saint Pierre», in La collégialité épiscopale, p. 37. 20 Ivi, pp. 38-39. Cf. anche R.E. BROWN – K.P. DONFRIED – J. REUMANN, Pietro nel Nuovo Testamento. Un’indagine ricognitiva fatta in collaborazione da studiosi protestanti e cattolici, Editrice Borla, Roma 1988; R. PESCH, Simon Pietro. Storia e importanza storica del primo discepolo di Gesù Cristo, (GdT 331), Editrice Queriniana, Brescia 2008. 21 Quando si affronta lo studio della questione della tradizione nella Chiesa antica, è necessario ricordare che il canone degli scritti del Nuovo Testamento non si formò che alla fine del II secolo. Nell’intervallo di circa 200 anni, non si trova nessuna «Scrittura» a fianco della «tradizione, ma l’insieme della predicazione e dell’insegnamento che si riferiva a Gesù e agli apostoli costituiva «tradizione», parádosis. Ai tentativi della gnosi di introdurre nella tradizione elementi pseudo-apostolici si opporranno Ireneo, Tertulliano e Clemente Alessandrino. In seguito si ricorrerà al concilio quale istanza di decisione in materia dogmatica e disciplinare. In occidente il concetto di tradizione troverà una sua sistematizzazione definitiva in Vincenzo di Lerins (cf. la sua opera: Commonitorium). Sua è la definizione diventata celebre: Id teneamus, quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est (Commonitorium, 2,3). I tre criteri: universitas, antiquitas e consensio non vanno posti sullo stesso piano. 22 BOTTE, «La collegialità nel Nuovo Testamento e nei Padri Apostolici», in Il Concilio e i concili, pp. 33-34.

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Come, nella prospettiva di Paolo, la collegialità apostolica si definisce in rapporto al Vangelo, così anche i vescovi della Chiesa antica si sentono collegialmente solidali nella loro responsabilità nei confronti della tradizione degli apostoli. Con il consolidarsi dell’episcopato monarchico, la tradizione apostolica, garante della «regola di fede», è individuata nella successione dei vescovi sulle sedi fondate dagli apostoli. La tradizione apostolica precede e ingloba la successione apostolica. La successione designa i luoghi dove si perpetua la paradosis apostolica. Si può vedere in questo senso 1 Clemente, 42,1-2.4. Intervenendo nella Chiesa di Corinto, la Chiesa di Roma esercita l’episkopé una e indivisa, in continuazione dell’apostolicità istituita da Gesù. 2. Assemblee episcopali antecedenti il concilio di Nicea L’assemblea di Gerusalemme (Atti, 15) era nata per rispondere ai bisogni di varie Chiese23. La decisione unanime raggiunta, sotto la guida degli apostoli, fu comunicata alle altre comunità cristiane: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi» (Atti, 15,28). E’ l’intera Chiesa ad essere coinvolta. Nelle assemblee sinodali (sinodo: ricorre nelle fonti greche) o conciliari (concilio: ricorre nelle fonti latine) che sempre più verranno celebrate, la Chiesa mostrerà di avere coscienza dei principi impegnati nell’iniziativa. 2.1 - Nel secondo secolo abbiamo le prime testimonianze, storicamente documentate, di assemblee importanti realizzate da più Chiese. In Asia Minore e in Galazia si tengono assemblee per valutare il fenomeno della «nuova profezia» di Montano, tra gli anni 170-180. Ecco la testimonianza di Eusebio: «Recentemente mi recai ad Ancira di Galazia, dove trovai la Chiesa locale tutta turbata da questa ‘nuova profezia’, come essi la chiamano, ma che in realtà è una pseudo-profezia, come si dimostrerà. Secondo le mie capacità e con l’aiuto del Signore, per parecchi giorni discutemmo nella Chiesa su ciascuno di questi argomenti e di quelli proposti da loro. Il risultato fu che quella Chiesa ritrovò la gioia e si fortificò nella verità, mentre quelli che ci si opponevano furono allora respinti, pieni di tristezza. I presbiteri del luogo ci chiesero poi di lasciare un memoriale della discussione avuta contro gli avversari della parola di verità. Era presente anche il nostro compresbitero Zotino di Otris. Allora non fummo in grado di soddisfare quella richiesta, ma promettemmo che, con l’aiuto del Signore, avremmo scritto da qui [quel memoriale] e glielo avremmo mandato il più presto possibile»24. Lo stesso Eusebio racconta che le Chiese d’Asia «spesso e in più luoghi» fecero di queste riunioni, conclusesi tutte con «la condanna di quell’eresia, così che i suoi seguaci furono cacciati dalla Chiesa ed esclusi dalla comunione»25. Nel II secolo, le Chiese locali, dunque, agivano con il potere di giudicare una dottrina ed eventualmente escludere dalla Chiesa stessa quelli che aderivano all’errore26. E’ difficile spiegare la parte che possono avervi avuta i laici, presenti alle assemblee.

23 Sull’utilizzo e sull’influsso di Atti, 15 sulla prassi conciliare o sinodale della Chiesa antenicena cf. G. FERRARESE, “Beatum illud apostolorum concilium”. Atti 15,1-35 nei Padri Anteniceni, Lateran University Press, Roma 2003. 24 EUSEBIO, Storia ecclesiastica, 5,16,3-4. Tutta la comunità partecipa alla riunione, con il presbiterio e il vescovo locale (anche se non è nominato). La discussione però è condotta da un vescovo di passaggio (un anonimo antimontanista), presente anche un altro vescovo, chiamato compresbitero. 25 EUSEBIO, Storia ecclesiastica, 5,16,10. 26 Cf. CATTANEO (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, p. 162.

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2.2 - Altre riunioni sinodali, ma di natura diversa rispetto alle precedenti, si tennero in occasione della controversia sul giorno in cui celebrare la Pasqua, al tempo di papa Vittore (189-199). Eusebio parla di «sinodi e assemblee di vescovi» che si tennero contemporaneamente nel Ponto, in Asia Minore, Palestina, Osroene, come pure in Gallia e a Roma27. A questi sinodi si riferisce Tertulliano, quando scrive che nelle regioni orientali si riunivano «concili formati da tutte le Chiese nei quali si trattavano in comune le questioni più importanti» (De ieiunio 13,6). Pare che la richiesta di queste convocazioni sia partita proprio da Roma28. Tali sinodi si conclusero con delle lettere, che notificavano a tutti i fedeli «la norma (dogma) ecclesiastica»29. A proposito di questi sinodi dom Hilaire Marot osserva: «Vorrei far rilevare che già esiste una certa universalità nella collegialità dei sinodi locali, la quale acquista così un significato più che locale o anche regionale, in quanto si estende veramente alla Chiesa intera, sulla fine del II secolo»30. 2.3 - L’attività conciliare si sviluppa e si organizza meglio nel corso del terzo secolo. Lo sviluppo è anche in senso geografico. I primi sinodi sono celebrati in Oriente (Anatolia, Siria, Palestina) e in Italia. Nel terzo secolo vi si aggiungerà l’Africa. La Gallia resterà fuori del movimento: bisogna attendere quasi la metà del terzo secolo per vedere, accanto a Lione, la formazione di altre Chiese episcopali. Quanto alla Spagna, quantunque l’episcopato vi si sia stabilito abbastanza presto (soprattutto nell’Andalusia), essa resta assai isolata. I concili saranno ugualmente rari in Egitto, vista la preponderanza di Alessandria a danno degli altri vescovi. Perciò quando l’Oriente, Roma e l’Africa si metteranno in movimento, si potrà concludere che è, in certo modo, l’episcopato universale che entra in azione (H. Marot). E’ documentata la celebrazione di sinodi di carattere locale o regionale e a tema dottrinale, nei quali erano implicate singole persone, in una specie di processo ecclesiastico. Il sinodo più antico si svolse a Cartagine, sotto Agrippino, con la partecipazione di settanta vescovi africani. L’assemblea affrontò la questione degli adùlteri da ammettere alla penitenza e degli eretici che dovevano ricevere un secondo battesimo, data la nullità del primo. Il concilio si tenne verso il 220 Oltre che in Africa, il problema del battesimo degli eretici fu affrontato da assemblee conciliari in varie regioni. Eusebio, citando Dionigi di Alessandria, ricorda quelle che si svolsero «a Iconio, a Sinnada e in molti luoghi»31, ma le testimonianze più dettagliate provengono da una lettera di Firmiliano, vescovo di Cesarea di Cappadocia, inserita nell’epistolario di Cipriano (Ep. 75, 7, 19). Il concilio di Iconio aveva dichiarato invalido il battesimo conferito dagli eretici. Il sinodo fu celebrato verso il 230-235, quando Firmiliano era già vescovo di Cesarea. Probabilmente venne canonizzata la consuetudine più antica. Sono, ancora, da ricordare: - i due sinodi riuniti ad Alessandria per denunciare come irregolare l’ordinazione di Origene (da collocare tra l’elezione di Ponziano a vescovo di Roma [22.8.230] e la morte di Demetrio, avvenuta nel 232 o 233);

27 Sulla composizione dei sinodi e sullo svolgimento dei lavori cf. H. MAROT, «Concili anteniceni e concili ecumenici», in Il Concilio e i concili, pp. 53-54. 28 Cf. EUSEBIO, Storia ecclesiastica, 5,23,3-4. 29 Ivi, 5,23,2. 30 «Concili anteniceni e concili ecumenici», in Il Concilio e i concili, p. 55. 31 Cf. EUSEBIO, Storia ecclesiastica, 5,7,5.

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- il sinodo di Smirne, fine del II secolo, contro il vescovo Noeto (parlava dell’unità di Dio in modo tale che sembrava abolita ogni distinzione tra il Padre e il Figlio), espulso dalla Chiesa assieme a dieci seguaci; - il sinodo di Bostra (nell’attuale Giordania), tenuto nella stessa Bostra verso il 240, contro il vescovo Berillo, il quale, ascoltata l’esposizione del dogma fatta dall’esperto teologo Origene, che allora dipendeva dal vescovo di Cesarea, rimase convinto e aderì alla fede della grande Chiesa, con soddisfazione generale; - il sinodo di Arsinoe (Egitto), diretto da Dionigi di Alessandria (247-264), convocato verso il 255, per confutare il millenarismo di un vescovo defunto, Nepote, la cui dottrina si era diffusa nella regione. Dopo tre giorni di discussione, Dionigi ottenne dal loro maggior esponente la promessa di abiurare dall’errore; - il sinodo di Tura (Egitto), contro la dottrina del vescovo Eraclide, con l’intervento di Origene che espose la dottrina davanti al popolo, al presbiterio e ai vescovi locali; - i tre sinodi di Antiochia che si occuparono, tra il 264 e il 268, del monarchianismo e della moralità del vescovo del luogo, Paolo di Samosata, il quale fu poi deposto dall’ufficio episcopale32. La serie termina con un sinodo tenuto a Cartagine poco prima dell’ascesa di Cipriano all’episcopato. La riunione avvenne al tempo di Donato, suo immediato predecessore, contemporaneo del romano Fabiano (236-250). Furono presenti ottanta vescovi dell’Africa. In questa circostanza fu deposto un vecchio eretico di nome Privato, vescovo di Lambesi per lunghi anni, ancora vivo al tempo di Cipriano, e venne presa la decisione di proibire «ai chierici e ai ministri di Dio» di accettare di essere nominati per testamento tutori o curatori di questioni temporali. La procedura dei lavori dei sinodi può essere così ricostruita: 1) discussione tra i vescovi presenti e il vescovo sotto inchiesta; 2) un «esperto» espone le verità da credere e cerca di convincere l’accusato e di ricondurlo all’ortodossia; 3) stesura degli atti e loro firma con le eventuali decisioni o provvedimenti. Poteva essere scritta una lettera sinodale. Il tutto davanti alla comunità. In quest’epoca non esiste un diritto canonico formalizzato relativo alle assemblee delle Chiese, ma solo norme e tradizioni locali e regionali. I sinodi assomigliano più a delle sedute di scuola (si procede per domande e risposte) che di un’aula giudiziaria, ma con una conclusione propriamente giuridica. 2.4 - Oltre ai sinodi particolari, si prese l’abitudine tra le Chiese di celebrare sinodi regionali a scadenze regolari (annuali, semestrali). Ne parla Tertulliano, nel testo citato sopra con riferimento ai «paesi greci» (De ieiunio, 13, 6). Dopo la persecuzione di Decio, terminata nel 251, si tennero concili a Cartagine e a Roma, dove furono affrontate le questioni dei lapsi e dello scisma di Novaziano. Merita attenzione, innanzi tutto, il sinodo di Roma dell’autunno del 251, tenuto dopo lo scisma di Novaziano. L’elezione di Cornelio aveva deluso le speranze di Novaziano, che riuscì a farsi ordinare vescovo e a formare una setta che si diffuse rapidamente in Africa e in Oriente. Per contrastare lo scisma, con l’appoggio di Cipriano, Cornelio convocò a Roma, probabilmente nel mese d’ottobre, un concilio che riunì una sessantina di vescovi della penisola. Furono confermati i

32 Secondo Paolo di Samosata il Logos e lo Spirito Santo erano solo delle virtù del Padre e non vere e proprie persone. Gesù pertanto non era che uomo penetrato dall’azione del Logos. Firmiliano di Cesarea di Cappadocia fu chiamato a presiedere i primi due sinodi. Poiché non erano stati presi provvedimenti nei confronti di Paolo, si rese necessario un terzo sinodo che condannò il vescovo non solo per la sua dottrina ma anche per la sua moralità.

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decreti del concilio tenutosi a Cartagine dopo la Pasqua e Novaziano fu scomunicato. Le testimonianze al riguardo provengono da Cipriano e da Cornelio33. Per affrontare gli stessi problemi, furono convocati in Africa sette concili, a Cartagine, durante l’episcopato di Cipriano, dopo la Pasqua del 251, nel maggio del 252, nell’autunno del 253 e del 254, nel 255, nella primavera e il 1° settembre del 256. I Primi quattro trattarono la questione dei lapsi della persecuzione di Decio; gli ultimi tre del battesimo degli eretici. Non pare sia stato celebrato un ottavo concilio34. A proposito della figura di Cipriano, il prof. Saxer osserva: «La forte personalità di Cipriano contribuì a realizzare l’unità dell’episcopato non solo sul piano dottrinale e disciplinare, ma anche su quello istituzionale. L’istituzione conciliare africana esisteva già prima di lui, ma egli ne fece uno strumento di unificazione interecclesiale, i cui frutti si videro alla vigilia della persecuzione di Valeriano. Inizialmente la celebrazione era biennale. I vescovi provenivano da tutte le province dell’Africa. Lo stesso Cipriano ricordava a Cornelio di Roma che ‘alla nostra provincia (la Proconculare) sono unite la Numidia e la Mauritania’ (Ep. 48,3). Secondo quanto risulta dagli Atti, il concilio del 256 aveva riunito ‘la maggior parte dei vescovi delle province dell’Africa, della Numidia e della Mauritania, insieme ai presbiteri e ai diaconi, alla presenza di un gran numero di fedeli’. Gli assenti si erano fatti rappresentare. Era normale che il vescovo di Cartagine, storicamente, amministrativamente, economicamente più importante, esercitasse un ruolo particolare tra le Chiese d’Africa, tanto più che proprio da questa città si era sviluppata l’evangelizzazione del paese. Negli Atti del Sinodo del 256 la preminenza di Cartagine non è formalizzata. Cipriano pronunciò solo un discorso di apertura e chiuse l’assemblea (dato che non vi furono dibattiti) esponendo il suo parere. Anzi Cipriano affermava con chiarezza che tra i presenti ‘nessuno era costituito vescovo dei vescovi, né pretendeva ridurre i confratelli all’obbedienza con la tirannia e la paura’. Una dichiarazione che sembrerebbe voler dire che la sua era un’autorità di fatto e non di diritto, e che non aveva ricevuto la sanzione di una qualche legislazione»35. 2.5 - La procedura delle assemblee può essere così descritta: «In generale il vescovo della Chiesa-madre della regione dirigeva i lavori del sinodo, fissando l’agenda dei lavori. Sull’argomento in questione ogni vescovo esprimeva la sua posizione (sententia), cominciando dai più anziani, secondo la prassi in uso nel senato romano. Presbiteri e diaconi vi erano ammessi in quanto collaboratori dei vescovi. I presbiteri potevano anche prendervi parte attiva, come abbiamo visto, ma solo i vescovi firmavano il documento finale o gli atti del sinodo. Il documento finale, quando veniva emesso, consisteva generalmente in una lettera sinodale con la quale i vescovi riuniti informavano i loro colleghi e la cristianità intera sulle decisioni prese. Questa prassi fu seguita fin dai primi concili. I sinodi non si tenevano a porte chiuse, ma anche la comunità cristiana vi poteva assistere»36. 2.6 – Per quanto riguarda l’autorità effettiva di questi sinodi si può dire che in generale «il collegio dei vescovi si sentiva al di sopra dei singoli vescovi fino al punto di sentirsi autorizzato a giudicare, condannare e deporre il singolo vescovo»37. L’autorità di un sinodo non era solo morale. Prassi e 33 Cf. V. SAXER, «La missione: l’organizzazione della Chiesa nel III secolo», in Storia del cristianesimo, 2, La nascita di una cristianità (250-430), Editrici Borla/Città Nuova, Roma 2000, pp. 75-76. 34 Sullo svolgimento dei sette sinodi cf. ivi, pp. 76-77. 35 Ivi, pp. 77-78. 36 Cf. CATTANEO (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, pp. 166. 37 Cf. W. DE VRIES, Il collegio dei vescovi nei sinodi prima di Nicea, in Humanitas, n.s. 19 (1964), pp. 773-790.

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autorità dei sinodi si comprendono solo all’interno del concetto di koinonía. Il concetto è complesso: implica unità di fede e di disciplina, unità che passa per il mutuo riconoscimento delle Chiese e dei vescovi tra di loro e la sua manifestazione sacramentale nella comunione eucaristica38. L’autorità dei sinodi fa parte dell’aspetto giuridico della koinonía, poiché non si dà vera e reale koinonía senza un’autorità che possa stabilire chi vi appartenga e chi vi sia escluso. In questo contesto di collegialità episcopale va esaminato il posto tenuto dal successore di Pietro, il vescovo di Roma. 3. Il vescovo di Roma: autocoscienza del primato romano e sua recezione39 Il ruolo particolare del vescovo di Roma nei primi tre secoli viene fondato generalmente su alcuni fatti40. Vi è innanzitutto l’intervento di Clemente Romano, alla fine del I secolo, nelle questioni insorte nella Chiesa di Corinto. Vi è poi l’obbligo fatto da Vittore, alla fine del II secolo, alle Chiese dell’Asia, sotto minaccia di scomunica, di abbandonare il particolarismo quartodecimano e di seguire l’uso comune celebrando la Pasqua la prima domenica dopo il 14 di Nisan. «Nei due casi l’intervento aveva un carattere disciplinare, non faceva riferimento a questioni scritturistiche o teologiche, ma si fondava sul fatto che la Chiesa romana era stata consacrata dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo. La sua autorità era dunque più sentita che definita»41. La controversia sul battesimo, induce gli storici a distinguere, nel III secolo, due aspetti correlativi del primato: da un lato la consapevolezza che ne aveva la Chiesa di Roma, alla quale si cercava di dare un fondamento scritturistico; dall’altra, il modo con cui il primato era sentito, o meglio, recepito dalle altre sedi. Le posizioni non sono sempre convergenti. 3.1 – Per il Marot, se la controversia sul battesimo degli eretici non fa progredire il movimento conciliare, «ha però il merito di porre il problema delle relazioni tra la Chiesa romana, pienamente cosciente del suo primato, e i concili che non possiedono in se stessi un criterio assoluto»42. L’intervento del papa Stefano, dapprima respinto dal concilio di Cartagine, sotto la guida di Cipriano (1 settembre 256), viene poi accolto, grazie anche all’opera di Sisto II, «papa buono e

38 Cf. L. HERTLING, Communio. Chiesa e papato nell’antichità cristiana, Roma 1961, pp. 12-22, 48. 39 Cf. V. GROSSI, «Testimonianze patristiche su Pietro, vescovo della Chiesa di Roma. Coordinate di una lettura storico-teologica» in W. KASPER (ed.), Il ministero petrino. Cattolici e ortodossi in dialogo, Città Nuova, Roma 2004, pp. 93-130; V. PERI, «Il ruolo del vescovo di Roma nei concili ecumenici», ivi, pp. 133-169. Lo storico KLAUS SCHATZ, nel tracciare l’evoluzione del primato nei primi cinque secoli, così intitola i cinque capitoli nei quali affronta il problema: - Capitolo primo: L’impostazione del problema: come porre la questione in modo sensato? – Capitolo secondo: Rilevanza religiosa e spirituale della Chiesa romana. – Capitolo terzo: Roma, luogo di una tradizione privilegiata.- Capitolo quarto: Roma come centro della communio. – Capitolo quinto: Da centro della communio a guida della Chiesa universale (Il primato del papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1996, pp. 35-82). 40 Sulla posizione di Simone-Pietro nel Nuovo Testamento cf. R. PESCH, Was an Petrus sichbar war, ist in den primat eingegangen, in Il primato del successore di Pietro. Atti del simposio teologico (Roma, dicembre 1996), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 22-111. 41 SAXER, «La missione: l’organizzazione della Chiesa nel III secolo», in Storia del cristianesimo, 2, La nascita di una cristianità (250-430), p. 79. 42 «Concili anteniceni e concili ecumenici», in Il Concilio e i concili, p. 60.

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pacifico», che ristabilì immediatamente la pace tra le Chiese. Sempre secondo il Marot con questo episodio la collegialità della Chiesa fu messa a dura prova e la sua unità rischiò di offuscarsi43. Secondo il Saxer, la corrispondenza inviata da Roma a Cartagine, prima e dopo la vacanza della sede episcopale nel 250-251 (si tratta delle lettere 8, 30, 36, 49, 50 di Cipriano), alla quale è da aggiungere la lettera di papa Cornelio a Cartagine e a Fabio di Antiochia, contiene testimonianze che «sono ben lontane dall’esprimere la coscienza di un ruolo che la Chiesa di Roma svolgeva nei riguardi delle altre Chiese, ma in qualche modo la sottintendono»44. Occorre evitare di sopravvalutare testi estrapolandoli dal loro contesto. 3.2 – Per quanto riguarda la ricezione del primato romano, il Saxer afferma che «nel III secolo, piuttosto che di ricezione, occorre parlare di ignoranza e di contestazione del primato romano da parte di diverse sedi episcopali»45. Il primo a non riconoscere il primato romano è Tertulliano, prima e dopo essere diventato montanista. Sulle posizioni di Terrtulliano, in un primo momento, si colloca anche Cipriano. Quest’ultimo ebbe modo di precisare successivamente la sua ecclesiologia. 4. La comunione interecclesiale all’epoca prenicena Osservando dall’interno le comunità cristiane dei primi tre secoli, si riscontra che esse si sentivano legate tra di loro da un profondo senso di appartenenza ad una realtà unica, essenziale e costitutiva: è lo Spirito, il Dio Trinità, che fonda l’origine di tutte le Chiese e costituisce così il principio permanente della loro unità (H.-J. SIEBEN, in DS, VIII, 1751). Cipriano di Cartagine definisce la Chiesa «sacramento dell’unità» (De unitate, 4 e 7). Sul piano sociale e su quello dottrinale l’unità tra le comunità locali va realizzata nell’unità della fede, dei sacramenti e della disciplina ecclesiale. Lo strumento usuale, praticato intensamente già dai primi tempi, era mettersi e restare in contatto con le altre comunità cristiane, specialmente le più antiche e le più importanti, per verificare la propria fede e la prassi ecclesiale. Nel secondo secolo molti si recano a Roma; alcuni per diffondervi la loro dottrina; altri invece per coltivare il contatto con la Chiesa romana e confrontare il loro insegnamento. La sollicitudo omnium Ecclesiarum si manifesta in vari modi. E’ sollecitudine di Roma verso le altre Chiese, ma anche delle altre Chiese verso Roma e tra di loro. In questo contesto sorge la pentarchia. Progressivamente si delinea la Chiesa di Roma46. Conclusione: La collegialità episcopale nel periodo preniceno Assai numerose sono le testimonianze di vescovi locali che indirizzano la loro sollecitudine verso Chiese unite dalla stessa tradizione apostolica: Clemente di Roma, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Dionigi di Corinto. La solidarietà episcopale si concretizza nello scambio di

43 Cf. anche R. MINNERATH, «La tradition doctrinale de la primauté pétrinienne au premier millénaire», in Il primato del successore di Pietro, pp. 121-122. 44 SAXER, «La missione: l’organizzazione della Chiesa nel III secolo», in Storia del cristianesimo, 2, La nascita di una cristianità (250-430), p. 79. 45 Ivi, p. 80. 46 Cf. J. COLSON, «La communion interecclésiale à l’époque prénicéenne», in G. D’ERCOLE – A. M. STICKLER (a cura di), Comunione interecclesiale, collegialità, primato, ecumenismo. Acta conventus internationalis de historia sollicitudinis omnium Ecclesiarum, Roma 1967, (Collana Communio, 12), Roma 1972, pp. 205-219; A. DI BERARDINO, «Percorsi di Koinonía nei primi secoli cristiani», in Concilium 27 (2001), fascicolo 3 , pp. 67-85 [427-445].

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lettere e nel contatto personale e mira soprattutto a raccomandare la conservazione del deposito della fede apostolica, a mettere in guardia contro la contaminazione ereticale e insieme a far accettare consuetudini apostoliche differenti. Si tratta di collegialità apostolica. La collegialità troverà una crescente realizzazione nell’attività sinodale, prima locale, poi sempre più estesa (Oriente, Italia, Africa, Gallia, Spagna, Egitto) fino a sfociare nei grandi concili ecumenici. Le riunioni episcopali collegiali non sono acefale: riconoscono un presidente responsabile e un’autorità direttiva. Roma detiene un grado eminente, ma anche Alessandria e poi Cartagine, Antiochia, Gerusalemme, Cesarea di Palestina, Cesarea di Cappadocia, Bosra… Con il consolidarsi dei sinodi e dei concili, si sviluppano anche le prime elaborazioni dottrinali in Tertulliano, Cipriano, Origene47.

47 Cf. J. HAJJAR, «La collegialità episcopale nella tradizione orientale», in G. BARAUNA (a cura di), La costituzione gerarchica della Chiesa. Studi e commenti intorno al terzo capitolo della costituzione dommatica Lumen gentium, ed. it. a cura di S. Olivieri, Vallecchi Editore, Firenze 1968, pp.116-124; G. DEJAIFUE, «La collegialità episcopale nella tradizione latina», ivi, pp. 138-145; P. DUPREY, «La structure synodale de l’Église dans la théologie orientale», in Proche-Orient Chrétien, XX (1970), pp. 123.145 (con riferimento a dopo Nicea); IDEM, «Conciliarité e primautés», in Proche-Orient Chrétien, 39 (1989), pp. 225-236 (con riferimento a dopo Nicea).

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Capitolo 4

ESPRESSIONI DELLA COLLEGIALITÀ LUNGO I SECOLI:

NELLA TRADIZIONE LATINA E NELLA TRADIZIONE ORIENTALE1

(Schema)

P. Yves Congar, in una “conclusione” di un convegno sulla vita conciliare della Chiesa, definiva la collegialità una proprietà proveniente dalla natura stessa della Chiesa, che qualifica la sua vita. Ecco le sue parole:

«Che cosa significa “collegialità”? Non è facile darne una definizione, ma si può cercare di

precisarne lo statuto. La collegialità ci sembra una proprietà proveniente dalla natura della Chiesa e che qualifica la sua vita. Essa esprime la sua profonda natura come Comunione dei Santi. Vuole e fa che, nell’esercizio di questa vita tutti i membri siano presenti all’atto di un altro, in modo che nessuno possa agire da solo. Tutto questo trova la sua applicazione in tutta l’estensione della vita ecclesiale – nella preghiera per esempio, atto interiore e personale come nessun altro – ma in una maniera più speciale nell’esercizio dell’autorità. Diciamo bene: esercizio. L’autorità per sé può non essere collegiale; il suo esercizio deve, in qualche grado e in qualche modo, rispettare l’esigenza di collegialità, di comunione, e perciò, invece di escluderle, deve conglobare e assumere come corresponsabili, tutte le altre persone cristiane che fanno parte del medesimo corpo»2.

Queste parole rinviano ad una teologia della collegialità che in occidente è stata espressa,

annota sempre p. Congar, particolarmente da S. Pier Damiano (nell’opuscolo XI, Dominus vobiscum), dal quinto concilio ecumenico (Costantinopoli II, 535), da un contemporaneo di questo concilio il vescovo africano Facondo di Ermiane, mentre da parte ortodossa è stata formulata, come teologia della sobornost’, con maggiore profondità da Sergio Boulgakov e da B. Zenkovski3.

Ciò lascia intendere che la collegialità è una realtà che sorpassa le sue possibili traduzioni giuridiche o amministrative, nelle quali si cerca di esprimere una specie di senso democratico delle cose. E’ una realtà più profonda, che non si trova soltanto nei suoi elementi «democratici»; essa investe ciò che in essa è gerarchico: l’episcopato e il papato.

1 Cf. G. D’ERCOLE, Communio, Collegialità-Primato e Sollicitudo omnium Ecclesiarum, Roma 1964; J. HAIJAR, «La collegialità nella tradizione orientale», in La costituzione gerarchica della Chiesa, Vallecchi Editore, Firenze 1968, pp. 116-137; V. MONACHINO, «Communio e Primato nella controversia ariana», in Archvium Historiae Pontificiae 7 (1969), pp. 72. 22; J. HAMER, L’Eglise est une communion, Les Editions du Cerf, Paris 1962; Y. CONGAR, De la communion des Eglises à une écclésiologie de l’Eglise universelle, Les Editions du Cerf, Paris 1962; W. DE VRIES, «Le “Collegium Patriarcharum”», in Concilium, 1 (1965), fascicolo n. 8. La concezione della communio e l’esercizio di fatto della sollicitudo omnium ecclesiarum da parte sia del vescovo di Roma sia del collegio dei vescovi, è ancora presente nelle False Decretali del sec. IX: cf. A. MARCHETTO, Episcopato e Primato nelle decretali pseudo isidoriane. Ricerca storico-giuridica, Pontificia Università Lateranense, Roma 1971, pp. 145-178 (con ampie citazioni delle fonti). 2 Y. CONGAR, «Conclusione», in Il concilio e i concili. Contributo alla storia dalla vita conciliare della Chiesa, Edizioni Paoline 1961, pp. 422-423. 3 Ivi, p. 423, nota 23. Il russo sobor, della stessa radice di sobirat’, “radunare”, può designare: 1) una chiesa importante (cattedrale, collegiale, abbaziale); 2) una riunione ecclesiale (un concilio temporaneo, un consiglio permanente, la festa, detta normalmente “sinassi”, che segue a una solennità). Per derivazione da sobor gli slavofili hanno creato il neologismo sobornost’. Benché i termini sinod e sobor siano sinonimi, nella Chiesa russa si è imposto l’uso di riservare generalmente la parola sinod a un consiglio episcopale permanente, il “Santo Sinodo”.

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La collegialità è legata alla stessa natura della Chiesa e deve essere accolta nelle diverse maniere in cui si manifesta.

La costituzione Lumen gentium, dopo aver affermato la successione apostolica del corpo dei vescovi, stabilisce il carattere collegiale di questo corpo ricorrendo a quattro argomenti:

a) la comunione dei vescovi tra di loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità e della pace;

b) i sinodi particolari; c) i concili nei quali i vescovi si radunavano per deliberare di comune accordo su tutti gli

argomenti di maggiore importanza dopo aver maturata la decisione con l’apporto del parere di molti;

d) l’uso di convocare e far partecipare più vescovi quando un nuovo eletto era elevato al ministero del sommo sacerdozio (n. 22: EV 1/336). Esaminiamo brevemente le quattro espressioni di collegialità, prima nella tradizione latina, poi in quella orientale. La prospettiva è storica. 1. La collegialità episcopale nella tradizione latina

1.1 - La comunione dei vescovi tra di loro e con il romano pontefice. Nella Chiesa antica le relazioni tra le Chiese locali sono attestate tra l’altro da lettere (le lettere episcopali), tese a salvaguardare la purezza della dottrina e ad offrire al cristiano i criteri normativi per la preservazione della retta fede. E’ il caso dell’Epistola dello Ps. Barnaba, della Lettera a Diogneto, della Lettera a Flora dello gnostico Tolomeo. Nota è la Lettera della Chiesa di Lione e Vienne, scritta poco dopo la persecuzione del 177, indirizzata alle Chiese dell’Asia e di Frigia e che riporta un lungo racconto della passione dei martiri di Lione. Sembra che l’intento fosse di convincere le Chiese destinatarie ad usare clemenza verso i lapsi. Altri documenti ecclesiastici usati dai vescovi per comunicare tra loro erano le lettere di comunione, diversamente denominate, a seconda dei tipi: lettere formate, lettere di pace, lettere di raccomandazione, lettere sinodali. Il legame che teneva assieme i patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) era espresso dalle lettere solenni composte in Sinodo (da qui il nome lettere sinodali) da un patriarca neoeletto ai suoi colleghi, contenenti una legittima professione di fede, gli anatemi contro le eresie, e considerate come segno di comunione nella medesima fede. Se i destinatari le approvavano, il nome del neoeletto era scritto nei dittici, in caso contrario era la rottura dell’unità della fede. Le Lettere di pace erano la risposta del pontefice romano alla missiva di un vescovo sospettato di eresia, attraverso la quale attestava l’ortodossia dell’accusato. Le lettere formate erano autorizzazioni concesse dai metropoliti ai loro suffraganei di assentarsi dalle loro sedi. Le lettere sono l’espressione, sul piano dell’azione, della comunione che unisce le Chiese tra loro, per cui, pur disperse, le Chiese formano un solo corpo, che si edifica nel mondo incominciando da Cristo, in una medesima fedeltà alla tradizione apostolica. [Cf. Tertulliano, De praescriptione, 20, 7-9 (CChr 1, 202)]. Un segno della comunione tra le Chiese erano le liste dei vescovi: ogni vescovo aveva una lista dei vescovi con i quali la sua Chiesa era in comunione. Questa lista era continuamente aggiornata (ad esempio, dopo le elezioni dei nuovi vescovi). Chi stava su una lista nella quale comparivano la maggior parte dei vescovi e quelli più importanti apparteneva alla communio «cattolica». Le liste sono utilizzate per garantire la verità della tradizione apostolica dimostrando un’ininterrotta continuità tra gli apostoli e i vescovi attuali. Per questo le Chiese fondate dagli apostoli o le Chiese nelle quali gli apostoli avevano operato ed erano sepolti assunsero un’importanza particolare: esse sono chiamate sedes apostolicae (sedi apostoliche). Tra queste sedi sono da ricordare, ad esempio, Gerusalemme, Filippi, Corinto, Efeso, Tessalonica.

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Si manifesta, in questo modo, la responsabilità collegiale delle Chiese, un’ecclesiologia di ‘comunione’ tra le Chiese, tra le Chiese locali e la Chiesa universale4.

1.2 – Sinodi particolari. I ‘sinodi’ sono, fin dall’origine, l’espressione spontanea dell’unità delle Chiese locali. Le assemblee dei vescovi di una medesima regione costituiscono il segno dell’unità di «tutta la Chiesa cattolica diffusa su tutta la terra» (Martirio di Policarpo, 8). Al primo posto si deve collocare, dunque, il principio sinodale: quando insorgono dei conflitti che superano le possibilità della Chiesa locale, a partire dalla fine del II secolo, ci si riunisce in sinodi episcopali regionali (es.: per l’Africa del Nord, per l’Asia minore, ecc.) che prendono decisioni vincolanti in materia di dottrina, condannano eresie, compongono conflitti e comunicano queste decisioni alle altre Chiese, con la richiesta del loro assenso esplicito che conferisce ad esse maggiore peso.

«E’ impossibile applicare alla storia passata i criteri dell’odierno diritto canonico, quali, da un lato, la convocazione, la direzione e la conferma del concilio da parte del papa e, dall’altro, il diritto di partecipazione e l’invito esteso a tutti i vescovi (o ai vescovi diocesani). Nel caso dei concili del primo millennio non si può parlare né di convocazione del concilio da parte del papa, né di direzione papale dello stesso. Fu Costantino5 il primo ad avere l’idea di radunare tutti i vescovi dell’oikumene. Con ciò egli continua a esercitare la funzione di Pontifex Maximus che svolgeva nella religione romana, nonché la responsabilità di custodire l’unità della Chiesa come quella dell’Impero. I suoi successori fecero lo stesso»6.

Sulle assemblee episcopali antenicene si veda quanto detto alle pp. [69-73]. I sinodi particolari continuano per tutto il primo millennio. Queste assemblee si

autocomprendono come riunioni di vescovi, allo scopo di creare un consenso ad un tempo orizzontale (tra vescovi) e verticale (grazie all’azione dello Spirito Santo) su determinate questioni. Questi sinodi, che ad un certo punto registrano la partecipazione dell’imperatore o del re, sanno di poter intervenire su materie sia disciplinari sia dottrinali. Merita attenzione il modo di rapportarsi dei sinodi particolari con Roma e l’atteggiamento di Roma verso questi sinodi. A detta di Eusebio, papa Vittore (189?-198?) ha chiesto la celebrazione di sinodi ovunque, per decidere sulla data della pasqua. I papi Stefano I (254-257), Damaso (366-384), Siricio (384-399), Innocenzo I (402-417), Leone Magno (440-461), Nicolò I (858-867) nei loro interventi sui sinodi particolari, da loro favoriti e promossi, rivendicano sempre più chiaramente il diritto di porsi a guida della Chiesa universale. Ciò comporta poter esaminare e verificare gli atti sinodali, approvandoli. Non mancarono le tensioni7.

4 Sulla collegialità nelle False Decretali, cf. MARCHETTO, Episcopato e primato pontificio nelle decretali pseudo isidoriane, pp. 159-166, 166-177. 5 Nell’agosto del 314, il concilio di Arles, convocato “per volontà del piissimo imperatore Costantino”, raduna quarantasei vescovi di Gallia, Italia, Africa, Spagna, Bretagna (Londra, York, Lincoln), per regolare la questione donatista. Promulga inoltre, in materia disciplinare, canoni molto vicini a quelli di Elvira. Queste decisioni vengono comunicate, con molto rispetto, al vescovo di Roma, Silvestro: cf. I concili ecumenici, Editrice Queriniana, Brescia 2001, p. 8. Il concilio di Arles è particolare; ecumenico sarà il concilio di Nicea. 6 Ivi, p. 84. 7 Cf. H.J. SIEBEN, «Le conferenze episcopali alla luce dei concili particolari durante il primo millennio», in Natura e futuro delle Conferenze Episcopali. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), Edizioni Dehoniane Bologna, 1988, pp. 49-75.

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Nel secondo millennio, i sinodi particolari hanno caratteristiche comuni con quelli del primo millennio, ma i contesti sono profondamente mutati8.

Anche i sinodi particolari manifestano, nel modo loro specifico, la responsabilità collegiale delle Chiese, un’ecclesiologia di ‘comunione’ tra le Chiese, tra le Chiese locali e la Chiesa universale.

1.3 – Concili ecumenici9. I grandi concili del primo millennio sono tutti convocati ed approvati dall’imperatore, che dava forza legale e civile alle decisioni conciliari (sono i concili imperiali10). Giustiniano considera i canoni conciliari dei primi quattro concili ecumenici come fossero leggi imperiali (Novella 131, del 545). Inoltre il concilio di Nicea aggiunge che «due volte all’anno si celebri un sinodo, di modo che le questioni siano discusse da tutti i vescovi della stessa provincia riuniti insieme» (can. V – in COD, p. 8). La stessa norma è ripetuta dal concilio di Calcedonia del 451: «Il santo concilio stabilisce, in conformità ai canoni dei padri, che due volte all’anno i vescovi di ciascuna provincia si riuniscano nel luogo scelto dal vescovo metropolita e trattino le questioni in sospeso. I vescovi che non prenderanno parte alle riunioni, rimanendo nelle loro città pur essendo in buona salute e liberi da impegni urgenti e inderogabili, siano fraternamente ripresi» (can. XIX – COD, p. 96). Il concilio di Costantinopoli del 381 precisa e aggiunge: «I vescovi di una diocesi non intervengano nelle Chiese situate fuori dei suoi confini, né le gettino nel disordine; ma secondo i canoni, il vescovo d’Alessandria amministri solo ciò che riguarda l’Egitto, i vescovi dell’Oriente solo l’Oriente, salvi i privilegi della Chiesa d’Antiochia contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell’Asia amministrino solo l’Asia, quelli del Ponto solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia. A meno che vengano chiamati, i vescovi non escano dalla propria diocesi per ordinazioni e altri atti del ministero. Secondo questo canone è chiaro che le questioni di una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le decisioni di Nicea. Le Chiese di Dio fondate tra i popoli barbari siano governate secondo le consuetudini introdotte dai nostri padri» (can. II – COD, p. 31-32). Lo scopo dei concili provinciali e di quelli plenari (vale a dire di più province) era limitato, vale a dire di risolvere le controversie locali. Inoltre, secondo il principio della territorialità dell’autorità episcopale, si doveva evitare che un vescovo si intromettesse in altre comunità11. I concili particolari, assicuravano una comunione limitata. I concili ecumenici garantivano la comunione dell’orbis christianus. E’ al «grande e santo concilio di Nicea» (325) che verrà dato più tardi (Calcedonia) il titolo d’ecumenico, che rimarrà classico. Il termine ecumenico (‘universale’: l’oikumene è la terra abitata) ricorre per la prima volta, applicato al concilio di Calcedonia, nella lettera sinodale che annunciava al papa Leone il felice esito del concilio. Esso, come si è detto, applicava il termine al concilio di Nicea. I concili successivi si definiscono sempre come «il grande e santo concilio ecumenico». Questa ecumenicità era di fatto assai ristretta, perché alcune assemblee erano a stragrande maggioranza orientali (ed 8 Cf. A. GARCÍA Y GARCÍA, «Le conferenze episcopali alla luce dei concili particolari nel secondo millennio», ivi, pp. 77-88.

9 Per una essenziale bibliografia sistematica sui concili ecumenici cf. I concili ecumenici, pp. 456-459. Cf. inoltre: G. ALBERIGO (ED.), Storia dei concili ecumenici, Editrice Queriniana, Brescia 1990; K. SCHATZ, Storia dei concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1999 (orig, ted. 1997); NORMANN P. TANNER, I concili della Chiesa, Jaca Book, Milano 2007 (ristampa). Sulla “ecumenicità” dei concili del 2° millennio in rapporto a quelli del 1° millennio cf. la nota, non firmata: «Sulla pubblicazione dei “Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta” curata dal Prof. G. Alberito», in L’osservatore romano, domenica 3 giugno 2007, p. 4. 10 Così SCHATZ, Storia dei concili, pp. 13-14. 11 A. DI BERARDINO, «Percorsi di koinonia nei primi secoli cristiani», in Concilium 37 (2001), fascicolo n. 3, p. 76.

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anche bizantine); i soli occidentali presenti erano, a volte, i legati del vescovo di Roma, ma la loro presenza esprimeva l’unità di tutta la Chiesa, d’Oriente e d’Occidente. I criteri per stabilire l’ecumenicità di un concilio non sono uniformi, tra Oriente e Occidente, e hanno conosciuto una loro evoluzione. «Allo storico della Chiesa – conclude il prof. Klaus Schatz – non resta quindi altra definizione che questa: sono ‘ecumenici’ quei concili che hanno trovato una successiva conferma perlomeno nel processo recettivo della Chiesa cattolica romana»12. La presenza romana assicurava la comunione dell’Occidente latino con tutte le Chiese orientali. Attraverso Roma le definizioni conciliari e le prescrizioni canoniche dei concili ecumenici venivano recepite in Occidente. Era il vescovo di Roma che costituiva l’interlocutore con l’Oriente cristiano, sempre più lontano e in parte anche ignorato13. Queste ultime considerazioni mettono in luce il ruolo del papa nei concili ecumenici delle origini. All’inizio il vescovo di Roma invia al concilio dei legati che lo rappresentano (= «tengono la sua presenza»). Gli interventi dei legati non sono sempre di qualità. La cosa più importante però è che la presenza del papa attraverso i suoi legati garantisce l’ecumenicità del concilio. Il papa rappresenta tutta la Chiesa d’Occidente e quando approva o respinge le decisioni del concilio, lo fa «con l’autorità del beato apostolo Pietro» in veste di «custode della fede apostolica». Il papa è il segno dell’ecumenicità della Chiesa, nell’unità della fede degli Apostoli. Il papa Adriano II, approvando il concilio dell’869-870 (Costantinopoli IV), ne conferma l’ecumenicità. Si può pertanto affermare che questo concilio, l’ottavo nella serie dei concili, è il «quarto concilio ecumenico celebrato a Costantinopoli». «I sette grandi concili», tale è la formula familiare agli orientali. Ma H. Jedin parla di «otto concili ecumenici dell’antichità». Si tratta di sette o otto concili ecumenici? Il II concilio di Nicea (787) enumera i sei primi concili ecumenici e si pone in ordine dopo di essi. Nel 787, dunque, si contano sette concili ecumenici, ancora oggi riconosciuti in comune dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse. Il problema si pone per il quarto concilio di Costantinopoli (869-870), il concilio ‘ignaziano’ che condanna Fozio, riconosciuto dalla Chiesa Cattolica, e inserito nelle liste medievali che contano quindi otto concili. E’ questa la cifra ‘ufficiale’. La Chiesa greca non l’accetta. Al contrario il concilio ‘foziano’ (879-880) non è stato riconosciuto da Roma né è computato dagli ortodossi tra i concili ecumenici. I primi quattro concili ecumenici, dagli ortodossi sono privilegiati rispetto agli altri tre. Tra i quattro concili, poi, quello di Nicea è privilegiato in modo particolare. Questo apprezzamento si comprende per il fatto che i primi quattro concili rappresentano una specie di criterio normativo per tutti gli altri: è che essi hanno definito La Fede. Sono l’espressione stessa della fede, vissuta e formulata dalla Chiesa seguendo gli apostoli e il Vangelo, e nella cui professione il cristiano è battezzato, unito a Dio, salvato. Il concilio di Nicea è stato il primo a essere tutto questo14. I concili, anche senza esprimersi sempre con definizioni solenni, hanno insegnato con tutta l’autorità di Pietro la fede cattolica autentica. Non troviamo in essi nulla che riguardi l’ecclesiologia, i sacramenti, la grazia. All’epoca questi misteri non erano messi in discussione. Ma in materia di dottrina trinitaria, di cristologia, di pneumatologia la loro dottrina è stata definitiva. I concili ecumenici del primo millennio sono stati di fatto concili del solo Oriente, cui hanno partecipato sempre pochissimi rappresentanti dell’Occidente, per lo più i legati del vescovo di Roma. Ma in genere anche i vescovi orientali vi partecipavano solo in parte. Vengono celebrati tutti

12 SCHATZ, Storia dei concili, p. 11. 13 A. DI BERARDINO, «Percorsi di koinonia nei primi secoli cristiani», in Concilium 37 (2001), fascicolo 3, p. 77. 14 Y. CONGAR, «Il primato dei primi quattro concili ecumenici», in Il concilio e i concili. Contributo alla storia dalla vita conciliare della Chiesa, pp. 161-166.

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in Oriente, precisamente a Costantinopoli o nei suoi dintorni (Calcedonia, Nicea, Efeso). Gli imperatori vi svolgono un ruolo diverso nei singoli casi, ma per lo più dominante (l’autorità imperiale convoca il concilio, lo rende tecnicamente possibile, lo finanzia, promulga come leggi le sue conclusioni). I concili ecumenici del primo millennio conservano una posizione di grande autonomia nei confronti di Roma e delle sue direttive. I concili ecumenici del secondo millennio presentano caratteristiche diverse. Non regge alla critica storica l’affermazione che i concili del primo millennio sarebbero i concili della Chiesa indivisa, mentre i concili del secondo millennio sarebbero unicamente “concili generali” della Chiesa occidentale, per cui possederebbero una ecumenicità imperfetta e limitata. Occorre essere attenti a non idealizzare il primo millennio (l’ecumenicità dei concili del primo millennio è alquanto imperfetta; sono concili imperiali; l’equità e l’imparzialità non sono sempre garantite)15. Klaus Schatz, semplificando, afferma che si sono susseguiti tre tipi di concili: i concili imperiali, i concili medievali della cristianità occidentale e i concili della Chiesa confessionale cattolica dell’epoca moderna16.

Lo scisma del 1054 separa Roma e Costantinopoli, l’Occidente dall’Oriente17. Il papato si è adoperato a liberarsi dalla tutela dell’imperatore romano germanico e ha affermato, con Gregorio VII, che nessun sinodo generale può essere convocato senza l’ordine del pontefice romano (Dictatus papae del 1075). «Dopo la riforma gregoriana, quindi a partire dal sec. XII, vengono convocati, per iniziativa del papa, dei sinodi generali, riuniti innanzitutto per risolvere questioni disciplinari. I concili dei secc. XII e XIII (i quattro concili del Laterano e i due concili di Lione) sono in tal modo la testimonianza dell’ascesa del potere pontificio: devono sostenere l’azione riformatrice dei papi.

A partire dal sec. XIV il potere pontificio si scontra con nazioni sempre più saldamente costituite attorno ai loro sovrani. I concili dei secc. XIV e XV (Vienne, Costanza, Basilea-Firenze) manifestano l’ascesa del potere delle nazioni. Moltiplicando gli appelli al concilio e sviluppando le tesi conciliariste18, esse pesano sulla convocazione, sull’organizzazione nonché sulle decisioni e sulle conseguenze del concilio. La minaccia del concilio diventa un’arma politica, come avviene ancora nel sec. XVI. Vi si manifesta anche una volontà di riforma che, dopo il fallimento del Lateranense V, si realizzerà alla fine con il concilio di Trento.

Dopo un’interruzione dei concili durata tre secoli, il Vaticano I dà il colpo di grazia al conciliarismo e presenta un caso tanto più particolare in quanto viene rapidamente interrotto.

La sua interruzione stessa e l’evoluzione spettacolare del sec. XX esigevano naturalmente l’apertura di un nuovo concilio ecumenico»19: il concilio Vaticano II.

15 Cf. Y. CONGAR, «Notes sur le destin de l’idée de collégialité épiscopale en occident au moyen age (sec. VII-XVI)», in La collégialitè épiscopale. Histoire et théologie, (Unam sanctam 52), Les Editions du cerf, Paris 1965, pp. 99-129. 16 SCHATZ, Storia dei concili, p. 14-15. 17 La storia della separazione tra Oriente e Occidente non è riducibile all’episodio delle scomuniche del 1054. Lo scisma è frutto di un processo che ha radici più remote e molteplici elementi sostanziali di discordanza tra Chiese d’Oriente e Chiesa d’Occidente, alcuni di natura dogmatica (es. il Filioque e il primato del papa), altri di natura canonica (es. il celibato dei preti). Occorre fare attenzione a non presentare il primo millennio come una specie di età dell’oro per i rapporti tra le Chiese d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Durante il primo millennio la Chiesa ha affrontato eresie e deviazioni di ogni genere e i rapporti tra Oriente e Occidente non furono privi di tensioni, anche se perseveravano il vincolo della pace e l’unità della fede, almeno nelle questioni basilari. 18 Cf. CH. MOELLER, «La Collégialité au concile de Constance», in La collégialitè épiscopale. Histoire et théologie, (Unam sanctam 52), Les Editions du cerf, Paris 1965, pp. 131-149. 19 I concili ecumenici, pp. 93-94.

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La relazione fra il concilio e il papa, espressamente affrontata a partire dal concilio di Costanza e di Basilea, costituisce anche dal concilio di Trento al concilio Vaticano II la tela di fondo di vari conflitti e, nonostante il concilio Vaticano II, «attraversa come un problema irrisolto tutta la storia dei concili»20. Il concilio è l’espressione più alta della collegialità episcopale. Il concilio legifera e assume responsabilità di tutta la Chiesa in unione con il papa come capo. I padri del concilio di Calcedonia testimoniano esplicitamente nelle loro lettere questa convinzione. Anche S. Agostino, scrivendo al papa Bonifacio, esprime la stessa convinzione: «Essendo comune a tutti noi, che esercitiamo l’ufficio di vescovi, la vigilanza pastorale (benché tu in essa primeggi per più alta dignità)» (lettera al papa Bonifacio: PL 44, 551). Anche i concili medievali, nella misura in cui si richiamano all’antica tradizione, riaffermano il potere episcopale e realizzano la sua sollecitudine per la Chiesa universale. Ciò appare in maniera più evidente nei concili da Trento al Vaticano II.

1.4 – La partecipazione al rito della consacrazione episcopale. L’uso della consacrazione di un vescovo da parte di più vescovi suggerisce il carattere collegiale dell’episcopato, dice la Lumen gentium, al n. 22. S. Cipriano fa risalire questa antichissima usanza agli apostoli e ne afferma l’universalità (Epist. 67, 5). Non si tratta di semplice solennità esteriore. L’aspetto collegiale è espresso dal fatto che all’ordinazione del nuovo vescovo partecipano almeno tre vescovi, che impongono le mani e lo accolgono nella collegialità ministeriale. Anzi, è proprio attraverso l’inserimento nel collegio episcopale, che un vescovo è posto nella successione apostolica. La Tradizione apostolica, attribuita ad Ippolito, all’inizio del III secolo prescrive che l’elezione di un nuovo vescovo deve avvenire con la partecipazione del popolo della comunità locale: «Si riuniranno, di domenica, il popolo, il collegio dei sacerdoti e i vescovi presenti. Questi ultimi, con consenso di tutti, impongano le mani sull’eletto, mentre i sacerdoti assistano senza far nulla. Tutti tacciano, ma preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito Santo» (cap. 2). Il concilio di Nicea dà questa direttiva: «Si abbia la massima cura che un vescovo sia consacrato da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per motivi d’urgenza o per la distanz a, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo e con il consenso scritto degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto spetta in ciascuna provincia al vescovo metropolita» (can. IV – COD, p. 7). Secondo questo canone è tutta l’Eparchia che nomina il nuovo eletto e se tutti non possono essere presenti, i tre vescovi presenti non possono procedere all’imposizione delle mani se non dopo aver raccolto i suffragi degli assenti per mezzo di lettere. Inoltre, la conferma di questa scelta spetta di diritto al Metropolita, e questo dimostra ampiamente che il collegio in questione è un corpo gerarchico nel quale il nuovo eletto non può esser ammesso senza l’approvazione del capo del collegio e dei suoi membri. Non mancano significative eccezioni. Il vescovo di Alessandria aveva autorità su tutto l’Egitto, la Libia, la Cirenaica; in Numidia non esisteva un metropolita, ma un primate, il vescovo più anziano per ordinazione; in Siria dalla sede antiochena dipendevano i vescovi di più province. Il concilio di Calcedonia così precisa il criterio di ordinazione: «I metropoliti della diocesi del Ponto, dell’Asia e della Tracia, e questi soli, e i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima Chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della provincia, ordinare i vescovi della stessa provincia, come prescrivono i sacri canoni; i metropoliti delle diocesi

20 SCHATZ, Storia dei concili, p. 15. Sul conciliarismo, cf. ivi, pp. 138-154.

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che abbiamo sopra elencato, dovranno invece essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli dopo elezione concorde fatta secondo la prassi e a lui notificata» (can. XXVIII - COD, p. 100). L’ordinazione episcopale suggella e crea un rapporto di dipendenza tra Chiese e quindi una gerarchia di esse. Inoltre era proibita l’ordinazione di persone di altre comunità o la loro accettazione in altra diocesi senza il consenso del vescovo del candidato. «Se la tradizione orientale non sembra aver oltrepassato l’ambito della Eparchia (Provincia) per quanto riguarda la ratifica dell’elezione episcopale e il collegio che vi è ricordato, essa, per lo meno afferma chiaramente che la creazione di un vescovo non si fa soltanto con il rito sacramentale, ma presuppone una preliminare comunione con il collegio dei vescovi, comunione che non è solo di natura mistica ma anche giuridica e sancita dal diritto»21. Concludendo, si può affermare che la coscienza collegiale, profondamente radicata nella Chiesa antica, attraversa i due millenni. L’affermarsi del primato del papa nel secondo millennio, non oscura la collegialità dei vescovi. Tre fattori contribuiscono a tenerla desta: la celebrazione dei concili generali o ecumenici, le competenze ad essi attribuite dal diritto canonico in caso di carenza della funzione pontificia, l’insegnamento teologico sul diritto divino dell’episcopato. 2. La collegialità episcopale nella tradizione orientale I quattro argomenti che, secondo la Lumen gentium, n. 23, definiscono il carattere collegiale del corpo dei vescovi – la comunione dei vescovi tra loro e con il romano pontefice, i sinodi particolari, i concili ecumenici, il rito della consacrazione episcopale – trovano nell’Oriente la prima originale attuazione e uno sviluppo che costituisce un ricco patrimonio. Anche se la nostra attenzione si orienta soprattutto nella direzione delle Chiese orientali cattoliche, è indispensabile tener conto dell’ortodossia, della sua pratica storica della collegialità e della sua teologia. Un primo elemento da tenere presente è la centralità della Chiesa locale, intesa come comunità eucaristica. La Chiesa che esiste in un determinato luogo si manifesta come tale quando è «comunità», «assemblea» i cui beni sono determinati dal Nuovo Testamento: koinonia e martiría nella fede, nella speranza e nell’amore, koinonia e martiría nei sacramenti, koinonia e martiría nella diversità dei carismi, koinonia e martiría nella riconciliazione, koinonia e martiría nel ministero e nella sollicitudo omnium Ecclesiarum. Questa koinonia e martiría si attualizza per opera dello Spirito Santo. La Chiesa è pienamente tale quando è sinassi eucaristica (Unitatis redintegratio, n. 15). La Chiesa una e unica si identifica con la koinonia delle Chiese locali che celebrano l’eucaristia nell’ortodossia della fede e nella piena comunione ecclesiale gerarchica. Così la Chiesa universale è una koinonia articolata di diverse Chiese locali. Questa articolazione è resa possibile attraverso i “sacri canones”, che formano la disciplina della Chiesa. Debbono comporsi armonicamente, nella riflessione teologica, cristologica, ecclesiologica e pneumatologica.

Un secondo elemento riguarda il vescovo. Il primato strutturale delle Chiese locali è attualizzato e salvaguardato dal principio ecclesiologico e canonico, secondo il quale in ogni Chiesa locale vi è un solo vescovo (Sant’Ignazio, Agli Smirnesi, 8,1 e 2). Per mezzo dell’ordinazione, il vescovo è costituito ministro della sua Chiesa locale, Chiesa che egli rappresenta nella comunione universale. Nella sua Chiesa locale il vescovo è custode dell’ortodossia della Chiesa universale, è custode della comunione ecclesiale della propria Chiesa con la Chiesa universale. Un terzo elemento riguarda la sinodalità. Come la celebrazione eucaristica, nel suo insieme rende presente il mistero trinitario, così la Chiesa nelle sue istituzioni trova il suo modello, la sua origine e il suo compimento nel mistero di Dio uno in tre persone. L’eucaristia così compresa alla 21 G. DEJAIFVE, «La collegialità episcopale nella tradizione latina», in La costituzione gerarchica della Chiesa. Studi e commenti intorno al terzo capitolo della costituzione dommatica “Lumen gentium”, Vallecchi editore, Firenze 1968, p. 144.

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luce del mistero trinitario è il criterio del funzionamento di tutta quanta la vita ecclesiale. Gli elementi istituzionali debbono solo riflettere visibilmente la realtà del mistero trinitario. Così compresa alla luce del mistero trinitario, l’azione sinodale dei vescovi locali a diversi livelli è ad immagine del mistero trinitario e trova in esso il suo ultimo fondamento e modello. Come nel mistero trinitario le tre persone sono distinte senza che ciò significhi diminuzione o subordinazione, così tra le Chiese locali e i loro vescovi esiste un ordine che non tocca la loro natura. La relazione costitutiva unità-molteplicità pone la questione della relazione tra l’autorità inerente a ogni istituzione ecclesiale e la conciliarità, con la quale si esprime a tutti i livelli il mistero della Chiesa22. E’ alla luce di questa autocomprensione della Chiesa che vanno esaminate le svariate forme di esercizio della comunione tra i vescovi delle Chiese d’Oriente, tra cui gli scambi epistolari23 e le visite di una Chiesa ad un’altra24. In Oriente ha acquistato grande importanza la vita sinodale o conciliare. Nati spontaneamente, senza che fossero previsti da un progetto, i concili – influenzati anche dai modelli del Sinedrio ebraico e del Senato romano – sono una delle più interessanti e significative manifestazioni della dinamica di comunione a livello inter-ecclesiale. L’opinione più accreditata vede negli incontri dei vescovi di una stessa regione per sanzionare con la consacrazione la designazione di un nuovo vescovo da parte di una comunità locale il nucleo germinale della prassi sinodale, fiorente dal II secolo. Per la comprensione dell’istituzione patriarcale e sinodale in Oriente, fondamentale è il can. 34 dei Canoni Apostolici (fine III secolo). Ecco il testo:

«I vescovi di ciascuna nazione (éthnos) devono conoscere [chi è] il primo (protos) tra di loro

e prenderlo come il capo (kephalé) e non fare alcunché di importante senza il suo parere (gnome), e ciascuno solo quelle cose che riguardano la propria circoscrizione e i territori che ne dipendono; ma neppure quello [il primo o il capo] faccia qualcosa, senza il parere di tutti: così ci sarà concordia e sarà glorificato Dio, per mezzo di Cristo, nel Santo Spirito»25.

Il sinodo di Antiochia del 341 non farà più riferimento alla nazione, ma all’unità territoriale

ben definita, la provincia (eparchia); e non più a un generico primo da prendere come capo, ma allo specifico vescovo della metropolis, quale responsabile dell’intera provincia (cf. anche can. 6 di Nicea I). J. D. Zizioulas così commenta il can. 34 dei Canoni Apostolici:

22 Cf. D. SALACHAS, «La Chiesa locale nella comunione universale delle Chiese secondo la legislazione canonica antica», in Concilium 38 (2001), fascicolo 3, pp. 29-51 [389-411]; M. J. LE GUILLOU, «L’expérience orientale de la collégialité épiscopale et ses requêtes», in La collégialitè épiscopale. Histoire et théologie, (Unam sanctam 52), Les Editions du Cerf, Paris 1965, pp. 166-181; P. DUPREY, «La structure synodale de l’Église dans la théologie orientale», in Proche-Orient Chretien XX (1970), pp. 123-145; IDEM, «Conciliarité et primautès», in Proche-Orient Chrétien 39 (1989), pp. 225-236 ; J. MEYENDORF, Unité de l’Empire et division des Chrétiens, Les Editions du Cerf, Paris 1993 ; A. DE HALLEUX, «La collégialité dans l’Église ancienne», in Revue Théologique de Louvain 24 (1993), pp. 433-454. 23 Una preziosa testimonianza riguarda Dionigi, che governò la Chiesa di Corinto verso il 170. Secondo la testimonianza di Eusebio, questo vescovo estendeva la sua cura pastorale anche ad altri paesi, rendendosi utile a tutti con le sue lettere “cattoliche”, che componeva per le Chiese (Storia Ecclesiastica, IV, 23, 1-8). 24 Celebre la visita di Policarpo di Smirne ( metà del II secolo) al vescovo di Roma Aniceto (155-166) per patrocinare la causa delle Chiese dell’Asia sulla data della Pasqua (Storia Ecclesiastica,V, 24, 16).

25 D. SALACHAS, «La Chiesa locale nella comunione universale delle Chiese secondo la legislazione canonica antica», in Concilium 38 (2001), fascicolo n. 3, p. 39 [399].

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«Il suo significato è fondato su due principi fondamentali espressi da questo canone. Il primo principio è che in ogni provincia deve esserci un solo capo, - un’istituzione di unità. Non c’è possibilità di rotazione o di ministero collettivo, a sostituire questo capo unico. Le Chiese locali episcopali non possono far nulla senza la presenza di questo “uno”. D’altra parte lo stesso canone fornisce un secondo principio fondamentale, che cioè l’”uno” non può far nulla senza i “molti”. Non esiste nessun ministero o istituzione di unità che non sia espresso sotto forma di comunione. Non c’è un “uno” che non sia allo stesso tempo “molti”»26.

La concezione orientale della Chiesa richiede un’istituzione che esprima l’unicità della Chiesa, e non semplicemente la sua molteplicità. Ma la molteplicità non deve essere soggetta all’unità; è un elemento costitutivo di essa. Unità e molteplicità coincidono in un’istituzione che possiede un ministero con due aspetti: il ministero del protos e il ministero dei molti, cioè dei capi delle Chiese locali. Nei sinodi o concili si ha la concreta attuazione della collegialità27. Una serie di canoni conciliari mostra come la legislazione canonica regolava concretamente l’esercizio della collegialità. Sono da vedere:

- il c. V di Nicea [325] (COD, p. 8) - i cc. 11 e 19 del sinodo di Antiochia - i cc. II, III, VI del I concilio di Costantinopoli [381] (COD, pp. 31-33) - i cc. IX e XVII del concilio di Calcedonia [451] I diritti del primato provinciale del metropolita non si risolvono in una semplice presidenza

di onore; è presidenza autoritativa, ma non autorità di un capo “autocrate”; rientra nella categoria dell’autorità di un capo legato alle membra e centro coordinatore dell’attività del corpo28.

Assai significativa l’analisi del comportamento degli orientali nei concili ecumenici del primo millennio nei confronti delle pretese del vescovo di Roma per mezzo dei suoi legati. La tendenza romana era di imporre decisioni già prese, escludendo discussioni e dibattiti. In nome del principio collegiale i vescovi, sostenuti in ciò anche dall’imperatore, insistono perché le decisioni su questioni di fede e di affari disciplinari abbiano ad essere prese collegialmente. Ciò non significa che i vescovi neghino il primato e l’infallibilità del papa; si vuole ribadire che il principio collegiale della Chiesa significa un certo pluralismo. Il più delle volte le conclusioni dei concili vengono a coincidere con le disposizioni papali, ma il concilio vi è giunto seguendo una sua strada29.

La storia registra una nuova modalità sinodale a Costantinopoli, intorno all’arcivescovo della città e sotto la sua presidenza. Al concilio ecumenico di Calcedonia (451), questa nuova modalità sinodale si poteva considerare già un uso antico, e non un nuovo modo di procedere sinodale. Si trattava infatti del Sinodo, che poi si prese l’abitudine di chiamare Permanente (Synodus Permanens)30. Questa forma di sinodalità è già presente nella Chiesa bizantina e ortodossa

26 J.D. ZIZIOULAS, «Cristologia, pneumatologia e istituzioni ecclesiastiche», in Cristianesimo nella storia, II (1981), p. 121. 27 J. HAJJAR, «La collegialità episcopale nella tradizione orientale», in La costituzione gerarchica della Chiesa, Vallecchi Editore, Firenze 1968, p. 122.

28 Ivi, p. 125. 29 G. DE VRIES, «Elementi di tradizione ecclesiologica orientale e l’ecclesiologia del Vaticano II», in L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, Editrice la Scuola, Brescia, 1973, pp. 209-224. 30 Cf. J. HAJJAR, «Synode permanent et collégialité épiscopale dans l’Église byzantine au premier millénaire», in La collégialitè épiscopale. Histoire et théologie, (Unam sanctam 52), Les Editions du Cerf, Paris 1965, pp. 151-166.

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sotto il pontificato di S. Giovanni Crisostomo (398-406). Questa forma di sinodo troverà approvazione da parte del concilio ecumenico di Calcedonia. Questo concilio approva l’antico uso ecclesiastico, secondo cui i vescovi presenti occasionalmente a Costantinopoli o ivi dimoranti, sono invitati a riunirsi in sinodo, a deliberare sui problemi del momento e a prendere decisioni collegiali. Il Sinodo Permanente diveniva in tal modo una istituzione canonica, ufficiale e costituzionale, della collegialità episcopale nell’ambito della Chiesa bizantina, esercitando sotto la presidenza del primate bizantino, il patriarca di Costantinopoli, una funzione superiore e permanente di consiglio e di decisione, per vigilare sulla fede e applicare le norme disciplinari generali. Questa forma di collegialità episcopale non sostituiva l’istituzione tradizionale del Sinodo provinciale, che continuerà a esercitare la sua attività regolare e specifica31.

31 HAJJAR, «La collegialità episcopale nella tradizione orientale», in La costituzione gerarchica della Chiesa, p. 128.

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Capitolo 5

LA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: QUESTIONI DISCUSSE E PROSPETTIVE

La ricerca sin qui svolta dice, con chiara evidenza, che la collegialità episcopale, nel suo insieme, è «un grappolo di problemi» storici, teologici, giuridici, oltre che pratici. Nelle pagine che seguono non saranno offerte le soluzioni dei problemi, ma, più semplicemente, sarà proposto lo status quaestionis, al fine di far emergere i dati acquisiti e le problematiche tuttora non risolte. Saranno accostate tra loro affermazioni pacifiche e accolte da tutti con affermazioni non condivise o diversamente interpretate. Nelle intenzioni, il confronto dovrebbe aprire la strada a nuovi approfondimenti. Dal punto di vista metodologico, richiamando i dati biblici, terremo presenti i criteri fondamentali relativi alla loro interpretazione1. Sempre dal punto di vista metodologico, è importante non confondere dottrina di fede e teologia. E’ di fede affermare che a Gesù è stato dato ogni potere e che lui lo ha comunicato agli apostoli (Mt 28,18-20; Lc 10,16). E’ teologia – del secondo millennio, non del primo - affermare che il potere di governo e d’insegnamento viene conferito ai vescovi direttamente dal romano pontefice, mentre il potere d’ordine viene dal Signore tramite la consacrazione episcopale.

La distinzione tra dottrina di fede e teologia è importante, per almeno due buone ragioni. In primo luogo, perché la distinzione obbliga a porre su piani diversi l’immutabile dal mutevole e a non identificare ciò che muta con ciò che non muta. In secondo luogo, la distinzione introduce, nel concreto realizzarsi storico delle istituzioni, il principio dell’adattamento. I progressi sono possibili solo se si tengono uniti tradizione e rinnovamento. In pratica, facendo riferimento al nostro argomento: occorre comporre armonicamente ministero primaziale e ministero episcopale collegiale nella comunione delle Chiese, salvaguardando le imprescindibili prerogative del primo ma senza oscurare i compiti del secondo. In tutto questo ha un compito fondamentale il diritto al quale occorre dare una corretta fondazione ecclesiologica di natura sacramentale e non solo sociologica. 1. Principio di collegialità e ecclesiologia di comunione La concezione della Chiesa cattolica come comunione di Chiese locali (= corpus Ecclesiarum: LG 23)2 non ha trovato, nei documenti del concilio Vaticano II, uno sviluppo sistematico così com’è avvenuto per la collegialità episcopale. Nei testi del concilio ci sono, tuttavia, orientamenti dottrinali e indicazioni pratiche che fanno della comunione delle Chiese un quadro necessario per la comprensione della collegialità dei vescovi. E’ sufficiente ricordare due

1 Cf. PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15.04.1993), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993, nn. 98-103: EV 13/3078-3093. 2 Cf. M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, (GdT 255), Queriniana, Brescia, 1998, p. 92. Secondo il Kehl, con il concilio Vaticano II il plurale ‘le Chiese’ ottiene finalmente di nuovo il suo diritto teologico di cittadinanza all’interno della Chiesa cattolica e nell’ecumene. In primo piano resta sempre il singolare ‘la Chiesa’ che comprende tutti, ma è ugualmente vero che le Chiese locali e particolari ottengono il medesimo rango teologico della Chiesa intera.

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testi: 1° l’affermazione dottrinale secondo la quale «la Chiesa cattolica, una e unica, esiste nelle e a partire dalle Chiese particolari» (LG 23a); 2° il riconoscimento teologico e canonico della varietà di raggruppamenti di Chiese locali nella comunione, varietà che evidenzia la cattolicità della Chiesa indivisa (LG 23c). La prima formula, una delle più importanti del Vaticano II, si trova, in senso equivalente o esplicativo, in altri testi del concilio: - Christus Dominus, n. 11: «In ogni Chiesa particolare (ecclesia particularis) è veramente presente e opera (vere inest et operatur) la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica»; - Sacrosanctum concilium, n. 41: «Tutti debbono essere convinti che la principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia»; - Lumen gentium, n. 26: «(Questa) Chiesa di Cristo è veramente presente (vere adest) in tutte le legittime assemblee locali di fedeli, le quali, aderendo ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento». Molto si è discusso sul rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale. Vi è convergenza nel ritenere che la verità si trova nella mutua interiorità delle Chiese tra loro, vale a dire nella loro reciproca comunione. Tanto la Chiesa universale, quanto le molte Chiese locali e particolari nelle quali, in modo legittimo, si compiono gli atti ecclesiali fondamentali della martyría, della liturgia e della diakonía sono in senso pieno Chiesa; invero sono tali, solo se stanno tra di loro in una relazione reciproca tale da formare insieme la ‘communio ecclesiarum’, la ‘comunione delle Chiese’ vincolata alla Chiesa di Roma3.

Non pare che la questione della collegialità, specialmente per quanto concerne i rapporti tra il vescovo e la suprema autorità, tra il vescovo e la curia romana, possa essere trattata alla luce del principio di sussidiarietà4. Ad escluderlo è stata la decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi del 2001 (propositio, n. 20), la cui posizione è stata fatta propria da Giovanni Paolo II nell’esortazione postsinodale Pastore gregis, n. 56bc. Scrive il papa: «Come si sa, il principio di sussidiarietà fu formulato dal mio predecessore di v.m. Pio XI per la società civile (Quadragesimo anno [15.05.1931], in AAS 23 [1931], p. 203). Il concilio Vaticano II, che non ha mai usato il termine ‘sussidiarietà’, ha però incoraggiato la condivisione tra gli organismi della Chiesa, avviando una nuova riflessione sulla teologia dell’episcopato, che sta dando i suoi frutti nella concreta applicazione del principio della collegialità alla comunione ecclesiale. I Padri sinodali hanno tuttavia ritenuto, per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità episcopale, che il concetto di sussidiarietà risulti ambiguo e hanno insistito di approfondire teologicamente la natura dell’autorità episcopale alla luce del principio di comunione» (Pastores gregis, n. 56c).

Chi proponeva l’applicazione del principio di sussidiarietà5 chiedeva una maggiore decentralizzazione delle competenze attribuite alla curia romana. L’istanza non va trascurata, ma è sui principi della «giusta autonomia» e della «comunione» che va sviluppata la questione della collegialità e delle competenze.

Molti autori, pur percorrendo vie diverse, hanno impostato la loro riflessione sulla collegialità a partire dall’ecclesiologia di comunione. Si tratta di una comunione organica, che si ispira all’immagine del Corpo di Cristo, di cui parla l’apostolo Paolo quando sottolinea le funzioni di complementarietà e mutuo aiuto tra le diverse membra nell’unico corpo (cf. 1 Cor 12, 12-31).

a) P. Congar trova nella categoria di comunione il supporto ecclesiologico della collegialità.

3 Ivi, p. 93. Cf. anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Communionis notio. Lettera e commenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 82-85. 4 L. DAL LAGO, «Il principio di sussidiarietà anche nella Chiesa?», in Credere oggi, XXXIV (2014), pp. 74-84. 5 Scrive il prof. HERMANN J. POTTMEYER: «Dovendo intervenire in una Chiesa particolare, il papa dovrebbe seguire il principio di sussidiarietà»: «Il primato nella comunione», in Il Regno attualità XLV (2000), p. 636.

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Egli invita «à mieux dégager l’ontologie et l’anthropologie de communion qui constituent les soubassements de la collégialité ou conciliarité profonde de l’Eglise»6. In p. Congar sono operanti la tradizione patristica, la storia delle istituzioni, la vita liturgica, la spiritualità e la teologia delle Chiese d’Oriente. Un problema da chiarire è il rapporto tra la funzione del vescovo nella Chiesa particolare, di cui è pastore, e nella Chiesa universale, perché membro del collegio dei vescovi. La questione, afferma il p. Congar, va risolta facendo riferimento al rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale. La Chiesa particolare non costituisce una parte rispetto al tutto, ma è la presenza dell’unica Chiesa in un determinato luogo. Pertanto, conclude il p. Congar, il vescovo, costituito per la consacrazione episcopale pastore di una Chiesa particolare, è tale perché esprime localmente la realtà dell’unico episcopato mandato per l’unica Chiesa. La missione del vescovo è contemporaneamente universale per scopo e vocazione, ma è esercitata ordinariamente in una Chiesa particolare. Ciò è meno evidente quando le ordinazioni sono assolute. Profondamente unitaria è la visione che p. Congar ha della collegialità episcopale, considerata “forma” della successione apostolica. La successione apostolica si realizza sia per la consacrazione episcopale sia per la comunione dei vescovi nella dottrina apostolica professata dalla Chiesa. La formalità della successione è costituita dalla conservazione della dottrina trasmessa dal tempo degli apostoli, poiché l’identità della Chiesa consiste essenzialmente nell’identità di fede. L’insegnamento dei vescovi è normativo per i fedeli nella misura in cui avviene nella fedeltà alla tradizione degli apostoli. Criterio dell’ortodossia è l’accordo con le altre Chiese e principalmente con la Chiesa di Roma, che rappresenta la concentrazione della cattolicità. In questa direzione è compreso il ruolo ecclesiale del primato del romano pontefice: la successione apostolica non si riferisce solo a Pietro, ma al collegio apostolico di cui Pietro è il corifeo. Di conseguenza, conclude Congar, l’autorità del romano pontefice non è solamente autorità sul collegio episcopale, ma nel collegio episcopale. b) La visione ecclesiologica di J. Ratzinger, si radica nella Scrittura e nella tradizione, nell’eucaristia e nell’ufficio ecclesiastico visto come elemento costitutivo della Chiesa e continuazione della missione di Cristo7. È sulle basi di una Chiesa che si autocomprende come comunione di comunità eucaristiche e come fraternità che si sviluppa la riflessione sulla collegialità. La realtà collegiale dell’episcopato è fondata da Ratzinger su due dati storici: il carattere collegiale dell’ufficio originario dei “dodici” e la prassi collegiale del ministero episcopale nella Chiesa antica8. Sono sufficienti questi elementi, sostiene Ratzinger, per dover considerare la collegialità come struttura fondamentale della Chiesa9. Ratzinger pone in stretta connessione collegialità episcopale e sacramentalità dell’episcopato, radicando la collegialità nella sacramentalità. Ciò consente di superare definitivamente la distinzione fra potere di ordine e potere di giurisdizione: la 6 Y. CONGAR, «Introduction», in La collégialité épiscopale. Histoire et théologie (Unam Sanctam, 52), Les Éditions du Cerf, Paris, 1965, pp. 7-8. 7 Cf. G. MAZZONI, La collegialità episcopale tra teologia e diritto. Edizioni Dehoniane, Bologna, 1986, pp. 20-35; H. POTTMEYER, «Primato – collegialità episcopale nella ecclesiologia eucaristica di Joseph Ratzinger», in R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Editrice Città Nuova – Facoltà Teologica di Sicilia, Roma, 2008, pp. 71-90. 8 Cf. J. RATZINGER, «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi», in Concilium I (1965), fascicolo 1, pp. 44-56. 9 Il termine ‘collegium’, per designare sia l’unione di tutti i vescovi, sia anche unioni particolari entro l’episcopato, fa la sua apparizione a partire dal secolo terzo (Cipriano, Ep. 68, 3-4; Ottato di Milevi, Contra Parm., ad es. I,4; ecc.); ma accanto ad esso troviamo anche altre espressioni come ordo, corpus, fraternitas. Questa molteplicità di termini e di concetti sottesi è importante, perché dimostra che nessuna delle categorie, che il diritto romano o anche la filosofia contemporanea offrivano, era sufficiente per esprimere in modo adeguato la realtà presentata dal carattere comunitario dell’ufficio episcopale (RATZINGER, «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi», p. 52).

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collegialità di sviluppa dal di dentro della sacramentalità episcopale e porta il sacramento dell’ordine al suo pieno significato. L’oscuramento che si è avuto nel corso dei secoli dell’idea di collegialità è dovuto, sostiene Ratzinger, alla separazione fra potere di ordine e potere di giurisdizione e, a monte, all’attenuarsi della dimensione sacramentale dell’episcopato. Nel momento in cui l’episcopato viene sottratto ad un contesto sacramentale, diviene inevitabile che la dimensione collegiale venga considerata unicamente come creazione ed emanazione positiva del potere pontificio.

Altro elemento sul quale torna con insistenza il teologo Ratzinger è la fraternità dei membri della Chiesa: costituisce un fattore irrinunciabile per l’intelligenza della stessa figura del vescovo e per il concetto di “rappresentanza” della Chiesa da parte del collegio episcopale. «La ‘collegialità’ non può sviluppare la sua piena fecondità pastorale se non appare riferita al dato fondamentale di coloro che, in base al ‘Primogenito del Padre’, son diventati tra loro fratelli»10.

La dottrina della collegialità così intesa, non elimina il primato, ma lo fa apparire nel suo valore teologico centrale.

c) L’approfondimento del tema della collegialità episcopale nella prospettiva della mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare e dell’ecclesiologia eucaristica è proprio di altri autori: A. Anton11, H. Legrand12, E. Lanne, J. M. R. Tillard e W. Kasper13.

Il p. H. Legrand non si limita a mettere in luce gli aspetti positivi della concezione della Chiesa come comunione14. Vanno rilevati, osserva, anche i limiti di questa concezione della Chiesa.

Un primo limite è ravvisato nel mancato approfondimento, da parte del concilio Vaticano II, della relazione del vescovo con la sua Chiesa particolare. Il vescovo, osserva il p. Legrand, è posto di fronte alla Chiesa particolare, sono descritti i suoi obblighi verso di essa, ma non si approfondisce teologicamente come il vescovo è incluso nella sua Chiesa. È sottolineata più l’asimmetria (“per voi sono vescovo”) che la reciprocità (“con voi sono cristiano”).

Un secondo limite, osserva sempre il p. Legrand, è riscontrabile nel concetto di collegialità dei vescovi adottato dal concilio: la collegialità è pensata in modo disgiunto dalla comunione delle Chiese. Il testo di Lumen gentium n. 22, dopo aver affermato che con la consacrazione episcopale il nuovo consacrato è inserito nel collegio dei vescovi, nulla dice sulla relazione del neo-consacrato con la Chiesa particolare. Ne deriva che si può essere vescovi in sé e per sé, senza esserlo per una Chiesa. Il collegio dei vescovi, in questa prospettiva, rischia di apparire come un organismo direttivo supremo della Chiesa universale, al quale appartiene chi svolge una qualche funzione di governo.

Questa dissociazione tra communio ecclesiarum e collegium episcoporum, produce, osserva sempre il p. Legrand, altre disaggregazioni a catena: «La catholicité y devient universalisme et trés logiquement l’ordination absolue se voit instaurée en modèle matriciel pour comprendre l’épiscopat qui se retrouve, de ce fait, comme un corps flottant au-dessus de l’Eglise; la succession apostolique

10 Ivi, pp. 54-56. 11 A. ANTON, Primado y colegialidad. Sus relaciones a la luz del primer Sinodo extraordinario, Bac minor 15, Madrid 1970, pp. 27-94. 12 H. LEGRAND, «La realizzazione della Chiesa in un luogo», in B. LAURET – F. REFOULÉ (EDD.), Iniziazione alla pratica della teologia, 3/II. Editrice Queriniana, Brescia 1986, pp. 147-356. 13 Cf. J.M. TILLARD, Il vescovo di Roma, Editrice Queriniana, Brescia 1989; IDEM, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Editrice Queriniana, Brescia 1989; IDEM, L’Église locale. Écclésiologie de communion et catholicité, Les Éditions du Cerf, Paris 1995. 14 Cf. H. LEGRAND, «Collegialité des Évêques et communion des Églises dans la réception de Vatican II», in RSPhTh. 75 (1991), pp. 556-560.

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est dès lors comprise comme une qualification propre à certains individus ou à un groupe, sans que l’on articule la succession en Eglise, en doctrine et en ministre, brouillant le débat avec la Réforme. L’épiscopat, volens nolens, risque de se retrouver modelé sur le corps des administrateurs de la haute fonction publique»15.

Secondo il p. Legrand, la visione conciliare per cui il collegio dei vescovi costituisce una realtà universale, che precede le Chiese particolari e l’ordinazione dice innanzitutto riferimento alla Chiesa universale, permane anche nel Codice di diritto canonico del 1983, che non riesce ad articolare il collegium episcoporum e la communio ecclesiarum (cc. 330-341). Ne deriva una concezione molto rigida di collegialità, difficilmente praticabile, che ripropone ultimamente la figura centralizzata assunta dalla Chiesa cattolica dopo il Vaticano I16. Secondo il p. Legrand è questo il difetto più grande della concezione di collegialità elaborata dal concilio Vaticano II, ne spiega ampiamente la non-recezione ecumenica17. 2. Fondazione sacramentale della collegialità episcopale Il concilio Vaticano II afferma chiaramente il fatto della sacramentalità dell’episcopato (LG 21). Insegna inoltre che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine e, con l’ufficio di santificare, sono conferiti anche gli uffici di insegnare e di governare (unità della potestas sacra). Le interpretazioni del testo conciliare non sono sempre convergenti. Le spiegazioni della Nota esplicativa previa, n. 2, non hanno contribuito a creare l’unanimità.

Numerosi autori – tra questi il prof. G. Ghirlanda, nella linea di pensiero già elaborata da Ch. Journet, D. Staffa e A. Gutierrez – sostengono che il potere di insegnare e il potere di governare o di giurisdizione sono conferiti al vescovo direttamente dal romano pontefice18. Riallacciandosi a un filone di pensiero che risale al secolo XII, questi autori, con sviluppi diversi, sostengono che il sacramento, per quanto riguarda il piano giurisdizionale, attribuisce solamente una capacità attitudinale, senza alcun contenuto19. Per Staffa, in particolare, la consacrazione non fa che rendere il consacrato più idoneo di altri al conferimento della giurisdizione episcopale20.

Gli argomenti addotti a sostegno dell’opinione appena illustrata, non sono ritenuti convincenti da W. Bertrams, U. Betti, C. Colombo e G. Philips. Anche il card. Hamer e il p. Congar, che in un primo momento avevano abbracciato l’opinione dell’origine umana della potestà

15 H. LEGRAND, «Les Évêques, les Églises locales et l’Église entière», in RSPhTh. 85 (2001), p. 467. 16 Ivi, pp. 210-211. 17 Cf. H. LEGRAND, «Il ministero del papa. Primato e collegialità al Vaticano II», in M. FABRI DOS ANJOS (A CURA DI), Vescovi per la speranza del mondo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, p. 84. Il prof. YANNIS SPITERIS riferisce il dibattito tra il card. J. Ratzinger e il card. W. Kasper sulla questione della priorità ontologica e temporale della Chiesa universale sulle Chiese particolari: Ecclesiologia ortodossa. Temi a confronto tra Oriente e Occidente, Edizioni Dehoninae, Bologna 2003, pp. 184-189. Cf. anche SOLANGE LEFEBVRE, «Il “conflitto delle interpretazioni” del concilio. Il dibattito fra Ratzinger e Kasper», in Concilium, 42 (2006), fascicolo 1. 18 Cf. G. GHIRLANDA, Hierarchica communio. Significato della formula nella Lumen gentium, PUG, Roma 1980. 19 Sulla storia teologica della distinzione tra potere di ordine e potere di giurisdizione cf. L. VILLEMIN, Pouvoir d’ordre et pouvoir de jurisdiction. Histoire théologique de leur distinction, Les Éditions du Cerf, Paris 2003 (bibl. pp. 465-498) ; A. CELEGHIN, Origine e natura della potestà sacra. Posizioni postconciliairi, Morcelliana editrice, Brescia 1987. 20 Cf. D. STAFFA, «De collegiali episcopatus ratione, I-III», in Divinitas 8 (1964), pp. 1-61; A. GUTIERREZ, «Collegium episcopale tamquam subiectum plenae et supremae potestatis in universam Ecclesiam», ivi, 9 (1965), pp. 421-446; IDEM, «El Collegio episcopal es de istitución divina o eclésiastica?», in Lex Ecclesiae, Estudios en honor del Dr. Cabreros de Anta, Salamanca 1972, pp. 267-309.

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di giurisdizione, trovano prive di fondamento le conclusioni del prof. Ghirlanda. Il problema consiste nel fondare e coordinare debitamente fra loro, nel ministero episcopale, potere di ordine e potere di giurisdizione o ‘pastorale’. Va rilevato che i poteri sacramentali del vescovo sono una ‘struttura’ di Chiesa anche perché sono un segno strutturale di quella dimensione essenziale, della Chiesa e nella Chiesa, che è il servizio.

Il problema è metodologico: occorre individuare le fonti originanti la giurisdizione, vale a dire se siano metafisiche, sociologiche, giuridiche, teologiche o che cosa ancora. Per il p. Congar sono teologiche. Si tratta della consacrazione, che conferisce il dono dello Spirito mediante il quale il consacrato è costituito in autorità nel popolo di Dio e della comunione, che garantisce l’identità della fede e la genuinità della dottrina trasmessa dagli apostoli. Secondo il prof. Giampietro Mazzoni, all’impostazione del p. Congar si avvicina quella del p. W. Bertrams21. Ancora più vicina al pensiero di Bertrams sembra essere – sempre secondo il prof. G. Mazzoni - l’impostazione di Ratzinger il quale, per quanto riguarda il rapporto fra consacrazione e comunione gerarchica in ordine al conferimento del potere episcopale, attribuisce alla prima il carattere di radice, alla seconda il carattere di condizione, ambedue costituenti un’unità inseparabile nel senso che la comunione gerarchica non è un elemento estraneo alla dinamica sacramentale, ma il suo sviluppo naturale, l’espressione del suo pieno significato22. 3. Comunione e diritto nel principio collegialità episcopale Ci chiediamo: la consacrazione episcopale rende il vescovo prima membro del collegio episcopale e poi, per questo, capo di una Chiesa particolare, oppure prima capo di una Chiesa particolare e poi, per questo, membro del collegio episcopale? A detta del prof. D. Valentini, dopo il concilio Vaticano II, tre sono le risposte. «La prima è quella di coloro che, come E. Schillebeeckx, U. Betti, W. Onclin, H. de Lubac, e lo stesso K. Rahner nonostante la sua posizione di difesa della Chiesa locale, affermano la priorità del collegio episcopale sulla Chiesa particolare: si danno, infatti, vescovi che non sono vescovi di una diocesi. Come seconda ipotesi proponiamo quella di L. Bouyer, che sembra aderire alla soluzione degli orientali i quali sostengono la priorità della Chiesa particolare sul collegio. La terza posizione è quella di H. Legrand e, ci pare in definitiva, di Y. Congar: essi escludono che il discorso sulla priorità fra collegio episcopale e Chiesa particolare sia teologicamente fondato, e ciò per la speciale ‘mutua presenza’ della Chiesa particolare nella Chiesa totale e viceversa, secondo la ecclesiologia di comunione»23. E’ condivisibile la preferenza data dal Valentini all’opinione del p. Legrand24. Un problema non facile è quello di individuare le forme migliori per l’equilibrio, nel collegio episcopale, fra principio primaziale e principio collegiale. All’interno della comunione ecclesiale, l’equilibrio tra i poteri non è una questione marginale. Gli autori sono orientati fondamentalmente a proporre e sostenere, fra il papa e gli altri membri del collegio, un reciproco sforzo di comunione e compartecipazione. Il Codice di diritto canonico nel can 333, dopo aver affermato nel § 1 che il romano pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro 21 Per W. BERTRAMS il potere episcopale è costituito dal sacramento e dalla comunione gerarchica: cf. De relatione inter episcopatum et primatum, PUG, Roma 1963. 22 Cf. MAZZONI, La collegialità episcopale. Tra teologia e diritto canonico, pp. 178-182. 23 D. VALENTINI, «Panorama delle posizioni teologiche. Esame delle opere principali e attuale stato della questione», in Concilium XXVI (1998), fascicolo 4, p. 57 [507]. 24 La questione è discussa anche da G. TANGORRA, «La sollecitudine per tutte le Chiese», in A. MONTAN (ed.), Vescovi servitori del Vangelo per la speranza del mondo, Studi e commenti sull’esortazione postsinodale Pastores gregis di Giovanni Paolo II, Lateran University Press, Roma 2005, pp. 268-276.

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raggruppamenti, nel § 2 subito aggiunge: «Il romano pontefice, nell’adempimento dell’ufficio di supremo pastore della Chiesa, è sempre congiunto nella comunione con gli altri vescovi e anzi con tutta la Chiesa». Ciò non toglie che il romano pontefice abbia il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio. Non trova unanime risposta la questione se il primato del vescovo di Roma si fondi sulla sua qualità di capo del collegio o su quella di capo della Chiesa e di vicario di Cristo. Un dato è certo: per il bene della Chiesa bisogna ipotizzare realmente anche spazi di libero e pronto intervento ‘personale’ da parte del romano pontefice. Tale servizio non potrà prescindere dall’apporto di un’organizzazione efficiente e insieme rispettosa della cattolicità. 4. Autorità suprema e suoi soggetti

Un altro problema riguarda il soggetto dell’autorità suprema nella Chiesa. È di diritto divino che il vescovo della Chiesa di Roma, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente. È ugualmente di diritto divino che il collegio dei vescovi, il cui capo è il romano pontefice e i cui membri sono i vescovi in forza della consacrazione sacramentale e della comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio, insieme con il suo capo e mai senza il suo capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale.

Né il concilio Vaticano II né il Sinodo dei vescovi del 1969 hanno inteso dirimere la questione della derivazione immediata o mediata da Cristo della piena e suprema potestà del collegio sull’intera Chiesa, oppure se si tratta di un unico soggetto di tale potestà.

Esistono al riguardo varie opinioni. Va ricordato un dato preliminare: l’autorità suprema non può essere che una. In un’unica

realtà sociale due autorità supreme sono inconcepibili. Quanto ai soggetti dell’autorità suprema nella Chiesa, si danno, teologicamente, posizioni diverse25. Secondo una prima opinione il vescovo della Chiesa di Roma, quale vicario di Cristo, è unico depositario del potere supremo nella Chiesa e lo conferisce caso per caso al collegio. Questa posizione è detta papalista o curialista. Per molti autori si tratta di una posizione insostenibile. Una variante a questa posizione è la seguente: il romano pontefice è il soggetto principale del potere supremo, che annette a sé il collegio come soggetto secondario, rendendolo partecipe della sua potestà. Insostenibile è una seconda opinione, detta conciliarista: nella Chiesa l’autorità suprema visibile risiede nell’insieme dei vescovi, radunati in concilio e lo stesso papa vi è sottomesso26. Una terza opinione propone la seguente soluzione: la suprema et plena potestas nella Chiesa non è divisa tra due «soggetti» distinti (benché inadeguatamente), cioè il collegio episcopale con il papa da una parte e il papa senza collegio episcopale dall’altra. Secondo questa concezione, invece, esiste «solo un soggetto della suprema potestà nella Chiesa: il collegio strutturato sotto il papa come suo capo primaziale» (K. Rahner). Il solo soggetto della suprema potestà, esercita la sua autorità suprema in due modi: o attraverso il collegio, ossia il papa e i vescovi, o attraverso il papa in quanto formalmente capo del collegio, pertanto – rilevano gli autori – con un atto che in qualche modo è

25 Cf. A. MARRANZINI, «Sinodo dei vescovi e collegialità», in J. TOMKO (ED.), Il Sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1985, p. 114. 26 Cf. A. LANDI, Le radici del conciliarismo, Claudiana Editrice, Torino 2001. L’A. sostiene che l’idea di Chiesa-comunità propria della Chiesa antica e realizzata nei grandi concili dei primi secoli scompare con l’affermarsi di una Chiesa soggetta a un capo, il papa, con poteri assoluti. Nella canonistica medievale, sostiene l’A., è presente quel ‘conciliarismo’ che sarà poi sconfitto dall’assolutismo papale.

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ancora un atto collegiale27. E’ importante ribadire che il romano pontefice non può essere mai condizionato dal collegio dei vescovi. Una quarta opinione sostiene che il romano pontefice e il collegio dei vescovi, che lo include, detengono il potere supremo in forma diversa come due soggetti inadeguatamente distinti. Si avrebbe il romano pontefice da una parte, e il romano pontefice e gli altri membri del collegio episcopale dall’altra28. 5. Forme della collegialità episcopale Non si può negare che l’esercizio della collegialità episcopale costituisce uno dei luoghi più significativi per la verifica della modalità di recezione del concilio Vaticano II. Al tema è stato dedicato l’argomento 2: La recezione del capitolo terzo della Lumen gentium: a) nei documenti posteriori al concilio Vaticano II; b) nei Codici latino e orientale. I modi e gradi di attuazione dell’azione collegiale sono molteplici.

- Azione collegiale in senso proprio: La corresponsabilità pastorale dell’intero episcopato trova la massima espressione

nell’azione strettamente collegiale: a) nel concilio ecumenico, deciso o almeno accettato dal successore di Pietro, che ha il

potere di convocare, presiedere i concili ecumenici, approvarne e promulgarne i decreti; b) con un atto collegiale, che i vescovi sparsi nel mondo sono chiamati dal papa a compiere

insieme con lui o almeno quando il papa approva o liberamente accetta l’azione congiunta dei vescovi dispersi nel mondo, così da risultare un vero atto collegiale.

- Espressioni dell’affectus collegialis: a) «Espressione particolarmente fruttuosa e strumento della collegialità episcopale» è il

Sinodo dei vescovi (Discorso del card. Wojtila del 15 ottobre 1969: Karol Wojtyla e il Sinodo dei vescovi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1980, p. 162). Secondo Giovanni Paolo II, al sinodo i vescovi rappresentano, non in senso giuridico ma soltanto teologico: 1° le loro Chiese particolari, di cui sono principio e fondamento di unità; 2° le conferenze episcopali che li hanno eletti, per essere portatori delle loro esperienze ed aspirazioni; 3° l’intero corpo gerarchico della Chiesa cattolica, il quale a sua volta rappresenta Cristo Signore, unico sommo capo invisibile della Chiesa; 4° in certo senso tutto il popolo cristiano, non perché derivino da questo il loro mandato, ma perché come rappresentanti di Cristo presso il popolo stesso, sono i suoi solleciti pastori. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione postsinodale Pastores gregis, n. 61.

b) Forma concreta di applicazione dello spirito collegiale sono le conferenze episcopali29. Quando i vescovi di un territorio esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali per il bene dei loro fedeli, tale esercizio congiunto del ministero episcopale è realizzazione dello spirito collegiale

27 Rappresentanti di questa teoria sono: K. Rahner, G. Thils, A. Anton, O. Semmelroth, E. Schillebeeckx, Ch. Duquoc, C. Butleer, P. Rusch, H. Legrand, B. Gherardini e altri. In questo modo non si esclude affatto che il papa anche seorsim (da solo) possa esercitare l’unica potestà di governo nella Chiesa (cf. NEP, n. 3). Seorsim non significa che il papa può esercitare il suo ministero come persona privata, separata dalla Chiesa e dal collegio dei vescovi; la clausola significa che, accanto agli atti strettamente collegiali posti dai vescovi con il papa, sono possibili anche atti personali-individuali posti dal papa (es. un’enciclica). Anche in questo caso il papa agisce come successore di Pietro e capo del collegio episcopale. 28 Rappresentanti di questa opinione sono: W. Bertrams, J. Hamer, U. Betti, A. Auer, K. Mörsdorf e F. Frost. 29 Nelle Chiese cattoliche orientali, istituzioni analoghe alle conferenze episcopali sono le assemblee dei gerarchi di diverse Chiese sui iuris: cf. CCEO can. 322.

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(affectus collegialis), ma non assume la natura collegiale caratteristica degli atti dell’ordine dei vescovi in quanto soggetto della suprema potestà su tutta la Chiesa (Apostolos suos, n. 12). Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione postsinodale Pastores gregis, n. 63.

c) Altre forme concrete di attuazione dell’affectus collegialis sono l’azione del collegio cardinalizio, l’attività della curia romana e le visite ad limina. L’affectus collegialis è come il cuore anche di quella forma pastorale che sono i viaggi apostolici del vescovo di Roma. All’affectus collegialis è affidato il futuro della collegialità episcopale. Segnalo la proposta del canonista Ladislas Örsy di elaborare una visione teologica rinnovata delle conferenze episcopali con l’intento di offrire una nuova normativa30. Al motu proprio Apostolos suos il prof. Örsy pone una serie di interrogativi bisognosi di risposta: - Perchè il documento non riconosce potere collegiale effettivo alle conferenze? – Perché l’Apostolos suos non accetta un’affinità analogica tra sinodi particolari e conferenze episcopali? – Perché il motu proprio mantiene il silenzio rispetto a qualsiasi analogia tra le conferenze nella Chiesa latina e il governo tradizionale nelle Chiese orientali, di tipo sinodale? – La Apostolos suos nega alle conferenze episcopali il potere (la capacità) di un “magistero autentico” laddove non si esprimano con parere unanime o il loro parere non sia stato approvato dalla Santa Sede. Questa misura favorisce o rende difficile l’evangelizzazione? – Conclude il prof. Örsy: Ecco la domanda cruciale: secondo l’Apostolos suos quale è la fonte diretta del potere collettivo delle conferenze episcopali? È il sacramento dell’ordine o il papato? Il prof. Örsy, insoddisfatto delle risposte dell’Apostolos suos, propone una visione teologica che chiama “rinnovata”, “nuova”. Riproposto il tema che la Chiesa è comunione, afferma che anche il corpo episcopale è comunione. «I vescovi – afferma – non possono essere considerati semplicemente come individui giustapposti uno accanto all’altro: sono già parte di un corpo organico sostenuto dallo Spirito Santo. Sono molte persone in una Persona animate da un’unica vitalità» (p. 641). E conclude: «Tutto ciò che in qualche modo lasci intendere che i vescovi, riuniti in sinodi, concili o conferenze, sono delegati della Santa Sede, dovrebbe essere soppresso; le strutture e le norme che tutelano e promuovono il loro potere collettivo dovrebbero essere messe in pratica» (ivi). Secondo Örsy le conferenze non dovrebbero essere considerate soltanto delle entità giuridiche create dalla Santa Sede; occorre ristabilire l’autonomia legittima dei vescovi, diritto che scaturisce dalla loro ordinazione. 6. Collegialità episcopale e primato del romano pontefice Nelle riflessioni che precedono non abbiamo trattato direttamente del papa, ma abbiamo avvertito che non si può parlare della collegialità episcopale senza parlare del papa. Nella struttura costituzionale della Chiesa trovano posto, per diritto divino, il papato e il corpo episcopale. L’episcopato e il primato sono reciprocamente connessi e inseparabili. La dottrina della collegialità non elimina la dottrina del primato, ma fa apparire quest’ultima nel suo valore teologico centrale. Entro la rete delle Chiese che cono in comunione tra loro e da cui è costituita l’unica Chiesa di Dio, c’è la sedes romana, su cui deve orientarsi l’unità della fede e della comunione. Tale centro focale obbligatorio della collegialità dei vescovi non esiste per utilità umana, ma perché questa è stata la volontà del Signore. Dopo l’enciclica Ut unum sint, il tema del ministero papale è all’ordine del giorno della riflessione teologica. Afferma Giovanni Paolo II: «Lo Spirito Santo ci doni la sua luce e illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre Chiese, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio d’amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (n. 95). Per questo il papa propone che si indaghi circa «una forma del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova»

30 L. ÖRSY, «Collegialità e forza dello Spirito», in Regno attualità XLV (2000), pp. 638-643.

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(ivi). Per Giovanni Paolo II non sono in questione, dunque, né l’esistenza, né il fondamento biblico tradizionale, né la funzione del primato, bensì la sua forma storica. E’ compito delle Chiese, in particolare della Chiesa cattolica, che mantiene il ministero del romano pontefice, approfondire le proprie tradizioni teologiche e canoniche secondo le richieste di Giovanni Paolo II. Il grappolo di questioni che convergono sul tema del ministero petrino, è studiato in altri corsi della specializzazione in ecclesiologia. Mi limito a poche considerazioni, in connessione all’argomento della collegialità episcopale, studiato in questo capitolo. Sono del parere che il contesto per poter individuare una nuova forma di esercizio del “servizio d’amore” che il successore di Pietro è chiamato ad attuare nella Chiesa, debba essere quello della comunione fra le Chiese e della collegialità episcopale31. Del resto, questo è quanto sta avvenendo nei rapporti tra papato ed episcopato dopo il concilio Vaticano II: gli scambi e gli influssi reciproci fra Roma e gli episcopati sono manifesti e in continuo sviluppo. Si pensi alle diverse forme di manifestazione dell’affectus collegialis esaminate sopra. Si potrà essere soddisfatti oppure no di quanto è proposto e realizzato, ma il dato non può essere negato32. In riferimento alla situazione delineata dal concilio Vaticano II relativamente alla suprema autorità della Chiesa (il romano pontefice e il collegio dei vescovi), qualche autore parla di “collegialità strutturata”. Scrive Giuseppe Colombo: «È evidente che nel quadro della ecclesiologia del Vaticano II, caratterizzata nel senso della “collegialità strutturata”, la “collegialità” debba costituire un principio direttivo fondamentale nel ripensamento/”aggiornamento” dell’esercizio del ministero petrino»33. La collegialità è, dunque, un imperativo da attuare. Lo stesso teologo, afferma che «occorre creare le condizioni per rendere effettivamente possibile ai vescovi l’esercizio della loro nativa e inalienabile vocazione/responsabilità sulla Chiesa “universale”. In conclusione, la collegialità deve determinare “la (nuova) forma normale della vita ordinata della Chiesa”»34. Come passare dalla forma Chiesa/“monarchia”, come amavano definire la Chiesa molti teologi e canonisti prima del Vaticano II35, alla Chiesa/“collegialità strutturata”, come tende a dire qualche teologo oggi, senza compromettere l’ufficio primaziale, e senza far apparire la “collegialità strutturata” come un limite posto alla giurisdizione papale definita dal Vaticano I?

* A me sembra che una prima esigenza sia quella di non affermare i due principi – ufficio primaziale ed episcopato - in maniera assoluta unilaterale, fino a considerarli indipendenti l’uno dall’altro e a vedere nell’uno soltanto il «limite» dell’altro. I due principi esistono all’interno del quadro costituzionale della Chiesa e hanno vigore solo al suo interno. Occorre comprenderne la

31 Cf. A. ACERBI, «Per una nuova forma del ministero petrino», in M. FABRI DOS ANJOS (A CURA DI), Vescovi per la speranza del mondo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, p. 116. 32 L’indicazione che i papi dovrebbero esercitare la loro autorità «con particolare attenzione al mistero della Chiesa come corpus ecclesiarum» appare in apertura del documento intitolato: «Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa. Considerazioni della Congregazione per la dottrina della Fede», in Il primato del successore di Pietro. Atti del Simposio teologico, Roma 2-4 dicembre 1996, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 493-503. 33 G. COLOMBO, «Tesi per la revisione del ministero petrino», in Teologia 21 (1996), p. 335. 34 Ivi, p. 335. 35 Sull’uso della categoria ‘monarchia’ applicata alla Chiesa nella teologia e canonistica antecedenti il Vaticano II cf. L. BILLOT, Tractatus de Ecclesia Christi, t. III, Roma 1900, pp. 38-40; M. DE LUCA, Institutiones Juris Publici Ecclesiastici, II, Roma-Ratisbona-New York, 1901, pp. 36-41; F. CAVAGNIS, Institutiones Juris Publici Ecclesiastici. II, Roma 1883, p. 23; A. OTTAVIANI, Institutiones Iuris Publici Ecclesiastici, I, (editio quarta emendata et aucta adiuvante prof. I. Damizia), Typis Poliglottis Vaticanis, 1958, pp. 355-356. Sul potere del papa dopo il Vaticano I (può essere accostato al concetto costituzionale di ‘assolutismo’) cf. K. SCHATZ, Il primato del papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni. Editrice Queriniana, Brescia, 1996, p. 220.

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mutua relazione. L’unica potestà suprema si attua in forma collegiale e primaziale36.

* Una seconda esigenza è quella di concepire il collegio dei vescovi (e la collegialità episcopale) non solo con riferimento al binomio papa/vescovi (capo/corpo episcopale), ma come rappresentante della comunione delle Chiese da cui i vescovi provengono, dando spazio al dispiegamento dei processi di ricezione delle decisioni37.

* Una terza esigenza consiste nel sottoporre a una rinnovata interpretazione gli enunciati dommatici relativi al primato e all’episcopato tenendo conto sia del loro contesto storico sia del contesto determinato dai successivi sviluppi teologici e culturali38. Ciò può portare a formulazioni più compiute e rinnovate, senza cadere nel relativismo dommatico39.

Al riguardo, il documento della CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE Considerazioni sul primato di Pietro (citato alla nota 26) offre due interessanti riflessioni.

La prima: con riferimento al principio canonico «prima sedes a nemine iudicatur» il documento osserva: «Ciò non significa che il papa abbia un potere assoluto. Ascoltare la voce delle Chiese è, infatti, un contrassegno del ministero dell’unità, una conseguenza anche dell’unità del corpo episcopale e del sensus fidei dell’intero popolo di Dio» (Considerazioni, n. 5).

La seconda: facendo un passo per certi aspetti sorprendente, il documento riconosce che la modalità dell’esercizio del primato è storicamente condizionata ed è modificabile. Spiega: «La Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo (LG 48). Anche per questo, l’immutabile natura del primato del successore di Pietro si è espressa storicamente attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole». E aggiunge: «Perciò, il fatto che un determinato compito sia stato svolto dal primato in una certa epoca non significa da solo che tale compito debba necessariamente essere sempre riservato al romano pontefice; e, viceversa, il solo fatto che una determinata funzione non sia stata esercitata in precedenza dal papa non autorizza concludere che tale funzione non possa in alcun modo esercitarsi in futuro come competenza del primato. In ogni caso è fondamentale affermare che il discernimento circa la congruenza tra la natura del ministero petrino e le eventuali modalità del suo esercizio è un discernimento da compiersi in ecclesia, ossia sotto l’assistenza dello Spirito Santo e in dialogo fraterno del romano pontefice con gli altri vescovi secondo le esigenze concrete della Chiesa» (Considerazioni, nn. 12-13). Si tratta di considerazioni veramente nuove, che, se accolte, potrebbero determinare incisivi mutamenti. Ciò che si auspica è che il ministero petrino abbia a operare in comunione.

* Merita attenzione il recente sviluppo dell’esercizio dell’ufficio primaziale. Con Giovanni Paolo II si è venuto progressivamente configurando uno stile itinerante del servizio petrino. Scrive al riguardo Giuseppe Alberigo: «Malgrado le riserve critiche sulle modalità dei viaggi (stile, trionfalismo, pre-confezione dei discorsi, eccessiva rapidità e selezione degli incontri), non sembra possibile negarne l’importanza come embrionale superamento del centralismo romano. E’ un 36 ACERBI, «Per una nuova forma del ministero petrino», in M. FABRI DOS ANJOS (A CURA DI), Vescovi per la speranza del mondo, p. 123. Il vescovo di Roma appartiene al collegio dei vescovi e i vescovi sono i suoi fratelli nel ministero. 37 Cf. H. LEGRAND, «Églises locales, Églises regionales et Église entière. Éclaircissements sur quelques débats au sein de l’Église catholique depuis Vatican II», in L’Église à venir. Melanges offerts à Joseph Hoffmann, Les Éditions du Cerf, Paris 1999, pp. 297-302. 38 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Mysterium Ecclesiae (24.06.1973), n. 5: EV 4/2576-2581. 39 Cf. le ipotesi avanzate da ACERBI, «Per una nuova forma del ministero petrino», in M. FABRI DOS ANJOS (A CURA DI), Vescovi per la speranza del mondo, p. 123-131.

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riconoscimento, implicito ma trasparente, della perspicuità delle singole situazioni ecclesiali, della fecondità di un confronto con esse e con le culture ad esse sottese, della irrinunciabilità del dialogo rispettoso del successore di Pietro con i vescovi sulla base delle loro effettive responsabilità pastorali»40. Giovanni Paolo II vedeva nei viaggi dei momenti privilegiati ed unici della collegialità episcopale vissuta a fianco dei vescovi nei loro propri paesi.

* Un rilievo complementare con lo “stile itinerante” ha lo sviluppo delle visite ad limina dei vescovi a Roma, organizzate sulla base delle conferenze episcopali (nazionali o regionali), superando la loro tradizionale impostazione individuale. Infine anche le periodiche sessioni del sinodo dei vescovi e le assemblee speciali continentali di tale sinodo, quelle celebrate sulla soglia dell’anno giubilare (2000), hanno costituito una novità significativa per l’esercizio della collegialità.

Il ricupero della forma comunionale del ministero petrino è ben più di un semplice compito organizzativo; è anche una sfida spirituale che richiede una conversione di tutti i fedeli, una riscoperta della Chiesa come mistero.

Non è facile intravedere nuove forme collegiali di esercizio del primato. Esse devono

sempre rapportare tra loro l’autorità del romano pontefice, quella del collegio dei vescovi e l’autorità dei singoli vescovi. Aveva ragione Giovanni Paolo II a dire: “Molto resta da fare, per esprimere meglio le potenzialità degli strumenti della comunione” (Novo millennio ineunte, n. 59). 7. Collegialità episcopale ed ecumenismo Nei documenti ecumenici il tema della collegialità non occupa molto spazio41. Un riferimento si trova nel documento della Commissione FEDE E COSTITUZIONE del Consiglio Ecumenico delle Chiese Battesimo, eucaristia, ministero (BEM: Lima, gennaio 1982), al n. 26: «Il ministero ordinato dovrebbe essere esercitato in un modo personale, collegiale e comunitario. Personale in quanto la presenza di Cristo in mezzo al suo popolo può essere segnalata nel modo più efficace da una persona ordinata per proclamare l’Evangelo e per chiamare la comunità a servire il Signore nell’unità della vita e della testimonianza. Collegiale, perché c’è bisogno di un collegio di ministri ordinati che condivida il compito comune di far presenti le preoccupazioni della comunità. Infine, la stretta relazione tra il ministero ordinato e la comunità deve trovare la sua espressione in una dimensione comunitaria, nel senso che l’esercizio del ministero ordinato deve essere radicato nella vita della comunità ed esige l’effettiva partecipazione della comunità nella scoperta della volontà di Dio e della guida dello Spirito» (EO 1/3144)42. Le tre dimensioni del ministero episcopale, personale, collegiale e sinodale, non sono

40 G. ALBERIGO, «Il ministero petrino come servizio alle Chiese ‘pellegrine’», in Concilium 37 (2001), fascicolo 3, p. 192 [552]. 41 Per una articolata riflessione sul ministero e sui ministeri nel dialogo ecumenico, cf. B. SESBOÜÉ, Pour une Théologie oecuménique, (Cogitatio fidei, n. 160), Les Éditions du Cerf, Paris 1990, pp. 255-374. Si vedano i documenti del GRUPPO DI DOMBES, «Per una riconciliazione dei ministeri. Elementi di accordo tra cattolici e protestanti», 1973, in EO 2/720-775; IDEM, «Il ministero dell’episkopé. Riflessioni e proposte sul ministero di vigilanza e d’unità nella Chiesa particolare», 1976: EO 2/776-855; IDEM, «Il ministero di comunione nella Chiesa universale», 1985: EO 2/1002-1174. Il tema dei ministeri è presente anche nei documenti dell’ARCIC. Cf. H. LEGRAND, «La collegialità dal Vaticano II in poi. Analisi ecumenica d’una elaborazione dottrinale occidentale», in R. LA DELFA (ED.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Editrice Città Nuova – Facoltà Teologica di Sicilia, Roma, 2008, pp. 91-121. Si tenga presente anche: W. KASPER, Harvesting the fruits. Basic aspects of Christian faith in ecumenical dialogue, Continuum, London, 2009 – vers. it.: «Raccogliere i frutti», in Regno documenti 54 (2009), pp. 585-664. 42 Cf. EO 1/3145.

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considerate tre realtà distinte, bensì tre aspetti intrinsecamente collegati e richiamatesi a vicenda. Si tratta di responsabilità personale e di mutua interdipendenza. Il BEM non parla del ministero petrino.

L’aspetto collegiale è espresso, nei documenti ecumenici, dal fatto che all’ordinazione del nuovo vescovo partecipano almeno tre vescovi, che impongono le mani e lo accolgono nella collegialità ministeriale. Anzi, è proprio attraverso l’inserimento nel collegio episcopale, che un vescovo è posto nella successione apostolica.

Nel dialogo tra cattolici e ortodossi, questo legame è marcatamente sottolineato. L’aspetto collegiale dell’episcopato porta a valorizzare il carattere sinodale dell’esercizio della episcopé43. NB. Non resta estraneo al nostro tema il recente documento sull’istituzione di Ordinariati Personali per gli Anglicani che intendono entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica: BENEDETTO XVI, Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, 4 novembre 2009, circa l’istituzione di Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, in L’Osservatore Romano, lunedì-martedì 9-10 novembre 2009. 8. La figura del vescovo e il suo ministero pastorale La costituzione Lumen gentium e il decreto Christus Dominus segnano un profondo mutamento, circa la figura del vescovo di cui ha bisogno la Chiesa oggi. Si passa da un approccio sociologico-canonistico e da una prospettiva gerarchica, caratteristici della dottrina e della prassi antecedenti il Vaticano II, ad un approccio ecclesiologico e ad una prospettiva comunionale del ministero episcopale44. Il proemio di Christus Dominus si pone ormai nella nuova linea ricordando che il ministero episcopale, ricevuto per mezzo della consacrazione episcopale, viene esercitato dai vescovi sia in comunione con gli altri vescovi e con il sommo pontefice portando nel cuore la sollecitudine per tutte le Chiese sparse sulla terra, sia come singoli, nei riguardi della porzione del gregge del Signore a loro assegnata, ciascuno avendo cura della Chiesa particolare a lui affidata (nn. 1-3). Nell’esortazione Pastores gregis è tracciata in modo qualificato la dimensione particolare della missione episcopale. In continuità con i documenti emanati a partire dal concilio Vaticano II, il vescovo è presentato come «il pastore» della diocesi, impegnato in un cammino di santità che egli deve percorrere insieme alla sua Chiesa particolare. Il compito della comunione appare subito in primo piano: egli deve farsi ministro di comunione per la speranza del mondo (n. 13). Sul piano teologico, la natura sacramentale dell’episcopato fa del vescovo il rappresentante qualificato non del papa, ma di Cristo: «i vescovi – si legge nell’esortazione Pastores gregis – reggono le Chiese particolari a loro affidate, come vicari e delegati di Cristo» (n. 43). Da ciò deriva una nuova definizione dell’autorità episcopale nella diocesi. Al vescovo «spetta di per sé tutta la potestà ordinaria, propria e immediata, necessaria all’esercizio del suo ministero pastorale, ferma restando in ogni campo al romano pontefice, in forza del suo ministero, la potestà di riservare alcune cause a se stesso o ad altra autorità» (Christus Dominus, n. 8a; Pastores gregis, n. 44e). Il Vaticano II supera lo scoglio del rapporto tra poteri dei vescovi e «facoltà» concesse dal papa. Merito del concilio Vaticano II è stata la creazione di organi collettivi diocesani (il senato

43 Cf. COMMISSIONE INTERNAZIONALE ANGLICANA – CATTOLICA ROMANA, Dichiarazione concordata sull’autorità nella Chiesa, la sua natura, il suo esercizio e le sue conseguenze. I. Venezia, settembre 1976: EO 1/64-94. Per altri documenti di interesse ecumenico sulla collegialità e sul primato del papa cf. A. MONTAN, «I servizi specifici della comunione: il ministero petrino e la collegialità episcopale», in Orientamenti pastorali, 10/2002, pp. 48-49, note 23-24. 44 Cf. M. FAGIOLI, Il vescovo e il concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II, , Società Editrice il Mulino, Bologna 2005. Cf. anche W. ONCLIN, «Le pouvoir de l’évêque et le principe de la collègialité», in AA.VV., La Chiesa dopo il Concilio. Atti del Congresso Internazionale di Diritto Canonico, vol. I, Giuffrè editore, Milano 1972.

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presbiterale, il consiglio pastorale diocesano) necessari alla vita pastorale in una società complessa e pluralista. Il vescovo deve guidare la Chiesa diocesana con il contributo dei presbiteri, dei consacrati e dei laici, all’interno di appositi consigli. Nel decreto Christus Dominus manca un approfondimento specifico sul rapporto del vescovo con le componenti della porzione di popolo di Dio che forma la diocesi, sul suo ruolo sociale e culturale nei confronti della Chiesa particolare che vive in un luogo, dei cristiani non cattolici, delle minoranze religiose. L’esortazione Pastoroes gregis solo in parte affronta questa problematica, fondamentale per la recezione del concilio Vaticano II e per dare al vescovo una più precisa identità. L’immagine del vescovo che risalta dai documenti esaminati nel capitolo secondo, ha una solida impostazione teologica fedele alla collegialità e alla teologia dell’episcopato del capitolo III della costituzione Lumen gentium. Non tutti i problemi sono risolti. Jean Guitton aveva parlato dei vescovi come di «specialisti dell’insieme», ed è, osserva Massimo Faggioli, «una definizione che si attaglia con una certa adeguatezza al modello di vescovo del Vaticano II: all’interno di una ecclesiologia di comunione, è un vescovo che contribuisce alla guida della Chiesa universale col magistero e nelle occasioni offerte dal primato tramite il sinodo dei vescovi; che guida la Chiesa diocesana col contributo di preti, religiosi e laici all’interno di appositi consigli; assieme ai confratelli in conferenza episcopale discute e guida le Chiese cattoliche nelle varie nazioni. Ma all’interno di una visione che, nonostante la sconfitta dei testi preparatori, è rimasta fino alla fine in buona parte sociologica e volontaristica»45. Un testo della Conferenza episcopale italiana, così sintetizza la missione pastorale del vescovo:

«La grazia propria del vescovo non è di essere la sintesi dei ministeri come si poteva pensare in passato ma è il ministero della sintesi, della armonizzazione di tutti i ministeri volti all’edificazione della comunità. Per questa grazia il vescovo, in forza del dono ricevuto, diventa efficace segno, e principio visibile e fondamentale di unità per la Chiesa particolare a lui affidata. La Chiesa infatti non si raduna per virtù di carne e sangue ma perché suscitata dall’umile servizio dell’Agnello, visibilizzato dal vescovo»46.

L’alto profilo del vescovo è di essere, secondo l’indicazione di Giovanni Paolo II, servitore del Vangelo per la speranza del mondo47.

45 Ivi, pp. 449-450. 46 Evangelizzazione e ministeri (15.08.1977), n. 54: EC 2/2807. 47 L’Église à venir. Melanges offerts à Joseph Hoffmann, Les Éditions du Cerf, Paris 1999 ; PH. GOYRET (a cura di), I vescovi e il loro ministero, Libreria Editrice Vaticana, Città del vaticano, 2000; M. FABRI DOS ANJOS (A CURA DI), Vescovi per la speranza del mondo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001; A. CATTANEO (a cura di), L’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Riflessioni a partire dall’esortazione apostolica “Pastores gregis”, Atti del Convegno di studio svolto a Venezia il 12 maggio 2004, Istituto di diritto canonico San Pio X, Venezia 2005; A. MONTAN (ed.), Vescovi servitori del Vangelo per la speranza del mondo, Studi e commenti sull’esortazione postsinodale Pastores gregis di Giovanni Paolo II, Lateran University Press, Roma 2005; S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana, (BTC 138), Editrice Queriniana, Brescia 2008.

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Argomento 6

LA SINODALITÀ

«Sinodalità» è un neologismo astratto. Deriva dal termine «sinodo», che a sua volta deriva dal greco e si compone di due parole greche: syn (con, insieme) e odòs (via, strada, cammino): synodòs è dunque un cammino da compiere insieme. Da questo termine deriva il neologismo astratto sinodalità, il quale nel senso più generale vuole esprimere che il cammino insieme è il modo di essere della Chiesa. La Chiesa è il popolo di Dio “in via”, il popolo peregrinante. La Chiesa è nella sua natura un “cammino insieme”. Sinodalità dice che camminare insieme, incontrarsi, essere insieme, condividere l’uno con l’altro, è il modo in cui vive la Chiesa. Nel senso proprio e più tecnico la sinodalità esprime un aspetto essenziale della costituzione della Chiesa e dell’episcopato (W. Kasper).

Sinodalità è una parola che racchiude una tematica ampia quanto la Chiesa. La Chiesa, infatti, è comunione e, pertanto, tutte le sue attività debbono essere segnate dalla sinodalità. Il termine synodia dai cristiani delle origini era usato per indicare l’assemblea liturgica e soprattutto la Chiesa stessa. É così che Ireneo parla della “synodia dei fratelli”, Giulio Africano saluta la “synodia secondo lo Spirito”, la liturgia di san Giacomo prega per la “synodia in Cristo”, per la “synodia degli ortodossi” e san Giovanni Crisostomo usa quest’espressione paradigmatica: “Ecclesia enim est nomen conventus et congregationis”(La Chiesa è nome di convocazione e riunione)1. Per questo l’esistenza e lo sviluppo della sinodalità è il frutto normale di una Chiesa-comunione, che è una fraternità in Cristo, secondo le espressive definizioni dei Padri2.

«Sinodalità» rinvia a precise premesse teologiche (convergenza della pluralità nell’unità, accoglienza della molteplicità, dinamica fraterna nelle relazioni, consapevolezza dei vescovi di appartenere e rappresentare una realtà fondata sull’identità del sacramento, sull’unicità della Parola, sulla comunione esistente fra le Chiese particolari, ecc.), ma indica anche gli strumenti giuridici che ne consentono la realizzazione. La nostra, più che una ricerca esaustiva, sarà una ricognizione delle questioni di maggior rilievo attinenti la sinodalità. 1. Le radici bibliche della sinodalità L’assemblea conciliare di Gerusalemme, narrata da Luca in Atti 15, 1-35 (cf. anche la versione di Paolo in Gal 2,1-10), è indicata come la base della prima teologia della sinodalità3. 1 Exp. In Psalm., 149, 1: PG 55, 493. Della vasta bibliografia sull’argomento segnalo pochi titoli, corredati da buone bibliografie: - A. MODA, «Sulla sinodalità. Per un percorso bibliografico», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Dossier. Chiesa e sinodalità, a cura di G. Ancona, Editrice Velar, Gorle (BG) 2005, pp. 205-329 (il volume raccoglie saggi sulla sinodalità con interventi di Angelini, Aime, Dianich, Coccopalmerio, Nazzillo, Torcivia, Pio Zuppa, Mastantuono); - ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, a cura di R. Battocchio e S. Noceti, Editrice Glossa, Milano 2007 (atti del Congresso del 2005, interventi di Angelini, Barbaglio, Legrand, Gassmann, Ruggieri, Toniolo, Lanfranchi); - S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia. La sacramentalità della comunità cristiana, (BTC 138), Editrice Queriniana, 2008, pp. 602-612. 2 Cf. G. RUGGERI, «La riappropriazione dell’essere Chiesa come fraternità evangelica», in Concilium, 17(1981), fascicolo 6, pp. 48-62; M. DUJARIER, «La tradizione sinodale africana», in Concilium, 28 (1992), fascicolo 1, pp. 22-37. 3 Benché sia spesso chiamato il «concilio» di Gerusalemme, questo non deve essere confuso né con i successivi concili

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Il testo va studiato con attenzione4. - Struttura letteraria esterna e interna. - I fatti: ad Antiochia sono accolti i pagani “giustificati mediante la fede in Gesù Cristo”

(Gal 2,16), senza imporre la circoncisione. La prassi si diffonde in altre Chiese. Le reazioni.

- Ad Antiochia, «alcuni», venuti dalla Giudea (v. 1), provocano la controversia: «Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete essere salvi». Non essendo stato raggiunto l’accordo, si decide di ricorrere a Gerusalemme. La comunità approva la linea di Paolo e Barnaba e scorta i due nel loro viaggio. Anche altre Chiese appoggiano la commissione antiochena (vv. 1-3).

- A Gerusalemme si svolge l’assemblea: - riunione assembleare e contestazione di alcuni (vv. 4-5); - riunione e discussione degli apostoli e presbiteri: discorso di Pietro (rileva il primato della fede e dello Spirito, per la salvezza: vv. 7b-11), intermezzo di Paolo e Barnaba (v. 12), discorso di Giacomo (pone l’accento sulla necessità di mantenere alcune osservanze: vv. 13-21); - accordo siglato da documento scritto e confermato da rappresentanti ufficiali (vv. 22-29).

- Ad Antiochia: gioia, consolazione e nuovo slancio apostolico (vv. 30-39). L’accordo sancito a Gerusalemme non chiariva il problema ecclesiologico che stava

all’origine e che si rendeva concreto nelle differenti posizioni di Giacomo e di Paolo. Giacomo pensava che, oltre ad Israele, riunito e restaurato nell’epoca escatologica, Dio si fosse scelto un popolo associato tra i pagani (vv. 14-18). Paolo, dal canto suo, riteneva che accanto all’Israele kata sarka (secondo la carne: 1 Cor 10,18), esistesse l’ekklesia formata da ebrei e pagani. Per il primo i pagano-cristiani dovevano vivere alla maniera dei giudei; per il secondo ebrei e pagani potevano stare a mensa insieme e realizzare una completa comunione di vita.

Gli studi più recenti vedono nel cosiddetto «concilio di Gerusalemme» l’avvenimento più importante nella storia della Chiesa delle origini, il modello primordiale e fondamentale della sinodalità, che continua a portare frutti. Luca ha disposto il materiale delle sue fonti (siamo al centro del libro degli Atti) in un ordine che gli ha permesso di mettere in risalto alcuni fondamentali aspetti storici, come la riconosciuta autorità della primitiva comunità di Gerusalemme con gli apostoli, Giacomo e i presbiteri al suo vertice, la fondamentale lotta per l’unità ecclesiastica, spostando in secondo piano, in vista di un loro superamento, i difficili conflitti sorti al momento della missione ai pagani. La riunione di Gerusalemme conservò la Koinonia riguardo all’essenziale per la conversione: i gentili non devono diventare giudei.

Particolare rilevanza ha la pratica del discernimento congiunto con lo Spirito santo: «Lo Spirito santo e noi abbiamo deciso…» (v. 28)5. La formulazione della decisione presuppone che, attraverso l’assemblea concorde della comunità e per bocca delle loro guide responsabili, parli lo Spirito santo. E’ Lui, che permette di interpretare la storia come azione di Dio, è Lui, che permette di capire come l’evento che è avvenuto, concordi con la testimonianza della scrittura (da Lui ispirata). In tal modo la decisione è al tempo stesso decisione dello Spirito santo e dell’assemblea, è

ecumenici della Chiesa (Nicea, Costantinopoli, ecc.), né con i sinodi più recenti. Anche se è difficile provare quanto si riteneva in passato e cioè che il cosiddetto «concilio di Gerusalemme» costituisce il modello al quale si sarebbero ispirate le successive forme conciliari e sinodali, non si può negare che l’istituto sinodale – che ha la sua radice nella «sinodalità» propria della costituzione della Chiesa -, trova nel «concilio di Gerusalemme» il suo inizio, il modello originario che continua a portare i suoi frutti. 4 Cf. R.E. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Editrice Queriniana, Brescia 2001, pp. 422-426. Cf. anche C. SCHÖNBORN, «Torniamo a Gerusalemme», relazione commemorativa tenuta dall’arcivescovo di Vienna in occasione della celebrazione dei 50 anni del Sinodo dei vescovi, in L’Osservatore Romano, 18 ottobre 2015, p. 6. 5 La formula ha l’intonazione tipica delle decisioni solenni proprie delle istituzioni religiose. Si trova anche in Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, XVI, 163) e in una lettera di rabbi Gamaliele ai suoi colleghi della diaspora: “…è piaciuto a noi e ai nostri colleghi…” (G. DALMAN, Aramäische Dialektproblem, Darmstadt 1960, p. 3).

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radicata quindi nel sinergismo divino-umano di un unanime comportamento ecclesiastico, corrispondente alla natura della Chiesa6. Atti 15, 1-35 è una forma concreta di «sinodalità» e traduce la necessità che nella comunità certe decisioni siano prese insieme7. Nel periodo anteniceno l’utilizzo del testo procede parallelamente allo sviluppo dei sinodi o concili. Rifletteranno su Atti 15,1-35: Clemente Alessandrino, Origene8, Metodio Olimpo, Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano9; e poi ancora S. Giovanni Crisostomo10, S. Agostino11 e in particolare Teodoro Abu-Qurra (+ 820/5), vescovo melchita d’Haran, discepolo di S. Giovanni Damasceno12. Anche se il nesso diretto tra Atti 15, 1-35 e i concili della Chiesa antica sarà stabilito relativamente tardi (ampiamente, per la prima volta, in Giovanni Crisostomo), tuttavia, sul piano della storia della Chiesa nel suo complesso, il «concilio apostolico» può essere ritenuto come il primo caso di un sinodo, il “sinodo d’origine”, il modello originario dei sinodi. In effetti in Atti 15, 1-35 si trovano quegli elementi che sono costitutivi per le successive assemblee ecclesiastiche:

- si radunano apostoli e anziani, vale a dire i capi delle Chiese; - emettono una delibera con carattere vincolante, che riguarda la fede o l’ordinamento

comunitario (preceduta da una vera discussione, da uno scambio d’opinioni); - Pietro svolge un ruolo fondamentale; - la decisione è comunicata alla Chiesa. E’ importante inoltre che durante il raduno si sia ben consapevoli della responsabilità

comune e del sostegno attivo dello Spirito Santo13. L’uso di riunioni di vescovi diventerà, in seguito, una prassi costante. «Riunitevi spesso cercando ciò che conviene alle vostre anime», raccomanda la Didachè, 16,2. «Le adunanze siano molto frequenti», suggerisce il vescovo Ignazio al suo collega di Smirne, Policarpo (Polic. 4,2). Le prime comunità cristiane hanno fatto l’esperienza di quella che oggi chiamiamo la «sinodalità», parola che traduce la necessità di camminare insieme, di operare insieme, di prendere insieme delle decisioni. Coloro che fanno parte della comunità si riuniscono con gli apostoli sotto lo sguardo di Cristo e sollecitano l’aiuto dello Spirito santo. Insieme discutono i problemi posti alla Chiesa, insieme decidono, insieme gioiscono per il progresso del Vangelo. 6 Cf. R. PESCH, Gli Atti degli apostoli, Cittadella Editrice, Assisi, 1992, p. 601. 7 Gesù stesso aveva stabilito per i suoi seguaci il ricorso alla comunità quale ultima istanza per regolare certe difficoltà (Mt 18. 15-18). Anche Paolo demanda all’assemblea della Chiesa di Corinto di regolare l’affare dello scandalo pubblico derivato dalla presenza dell’incestuoso (1 Cor 5, 3-5). Negli Atti diverse questioni sono trattate dalla comunità in forma collegiale (elezione di Mattia: 1, 14-15; scelta di coloro che dovranno servire alle mense: 6, 1-6). 8 Non senza una venatura di nostalgia delle origini (della apostolicità?), Origene definisce “beatum” il concilio di Gerusalemme: “Beatum illud apostolorum concilium” (Commentarii in Romanos, 2,13) [PG 14, 903-906]. 9 Vedi l’interessnate ricerca di G. FERRARESE, “Beatum illud apostolorum concilium” (Act. 15,1-35) nei Padri Antiniceni, Tesi dottorale, PUL 2002. 10 Il Crisostomo parla di Atti 15 nelle omelie XXXII e XXXIII: cf. PG 60, 233-246. 11 Cf. PLS I, 844. 12 Teodoro d’Haran mostra che in Atti 15 non si trova soltanto un modello da tenere presente nella celebrazione di tutti i sinodi episcopali, ma che il concilio apostolico è la giustificazione teologica della stessa istituzione conciliare. 13 Cf. H. WAGNER, «Sinodo / Concilio», in P. EICHER (a cura di), Enciclopedia teologica, Queriniana Editrice, Brescia, 1989, p. 964.

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2. Sviluppi posteriori

La sinodalità, dimensione ontologica della costituzione della Chiesa, si è concretata, lungo i secoli, in varie forme. Occupano un posto preminente i sinodi o concili, soprattutto quelli ecumenici: rappresentano una qualificata forma istituzionale di sollicitudo dei vescovi verso le altre Chiese e verso la communio Ecclesiarum.

La sinodalità, tuttavia, non si esaurisce solo nell’attività dei concili e, aggiungo, non riguarda solo i vescovi. Espressione di sinodalità sono i raggruppamenti di Chiese particolari (province ecclesiastiche, regioni ecclesiastiche), e le relative riunioni di vescovi (concili provinciali, plenari, ecc.), il magistero ordinario dei vescovi. Forme più recenti di sinodalità sono il Sinodo dei vescovi e le conferenze episcopali. Secondo il parere di numerosi teologi e canonisti, nella Chiesa diocesana sono realizzazione della sinodalità il sinodo diocesano, gli organismi di partecipazione (consiglio presbiterale, consiglio pastorale, consiglio per gli affari economici), i raggruppamenti di parrocchie (decanati o vicariati foranei, unità pastorali), i consigli parrocchiali.

Sulla possibilità o meno di estendere il concetto di sinodalità alla Chiesa particolare tornerò più avanti (n. 3). E’ opportuno precisare ulteriormente lo sviluppo della sinodalità lungo i secoli.

2.1 - Concili e sinodi – Si tenga presente quanto già detto in altra parte del corso (cf. argomenti 3 e 4). Sono utili alcune precisazioni terminologiche.

«I termini ‘sinodo’ e ‘concilio’ sono usati come sinonimi e indicano la stessa realtà: trovarsi insieme a percorrere la stessa strada, il raccogliersi insieme. Talvolta sýnodos indica anche il luogo dell’assemblea. Si tratta dunque di concetti neutrali. Come termine tecnico del linguaggio della Chiesa greca sýnodos ricorre in Eusebio (che lo tramanda per il periodo di Dionigi d’Alessandria); concilium invece, in senso ecclesiastico, si trova in Tertulliano. Sono detti sinodi o concili eventi molto diversi della storia della Chiesa, che hanno però tutti in comune il fatto che si tratta di riunioni dei rappresentanti della Chiesa, nelle quali questa è manifestata come comunità di fede e durante le quali sono trattate questioni importanti riguardanti per lo più la dottrina e l’ordinamento ecclesiastico. Concilium ed ecclesia sono etimologicamente imparentati. Concilium deriva da con-calare e significa ‘assemblea’. Ekklesia deriva dal greco kaleo (che corrisponde al latino calo) e significa l’assemblea convocata, la comunione del nuovo popolo di Dio. In ciò si enuncia che la struttura sinodale o conciliare appartiene all’essere stesso della Chiesa. Chi parla di sinodo o di concilio dice qualcosa sulla struttura della Chiesa, nonché sulla sua costituzione interna (non soltanto esterna)»14.

Sin dalle origini, il principio sinodale è la concrezione giuridica caratteristica della communio ecclesiarum. In esso si esprime la consapevolezza di una comune responsabilità per la Chiesa e per la difesa della sua autentica tradizione di fede, responsabilità che va oltre la Chiesa locale. Tale responsabilità non può essere assunta concretamente che dai vescovi. Le prime orme strutturate della sinodalità sono i sinodi apostolici. In seguito i sinodi si affermano con l’emergere dell’autorità del vescovo in seno alla comunità.

Per la Chiesa antica la riunione sinodale dei vescovi che rendeva concretamente visibile la communio ecclesiarum, non era ritenuta una faccenda esclusiva dei vescovi. I “laici” – vale a dire i membri della comunità – si sentivano in eguale misura impegnati a fare quanto era in loro potere per la tutela e il ristabilimento della communio ecclesiale.

I concili non sono la Chiesa, non realizzano totalmente la sua essenza, né rappresentano

14 Ivi, p. 963. Il termine synodus, in ambito ecclesiale, fa la sua apparizione nella lettera di Potamio di Lisbona a Sant’Atanasio dopo l’anno 352 (cf. A. LAMPE, «Zur Geschhichte der Wörter Concilium und Synodus in der antiken christilichen Latinität», in AHC 2 [1970], p. 4).

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l’insieme della sua costituzione, ma corrispondono alla Chiesa secondo la sua essenza e fanno parte della sua realtà vitale. Il modello storico potrà variare, ma la collegialità / sinodalità non potrà venir meno. 2.2 - Il vescovo: sinodalità nell’elezione e nel governo pastorale – Nei tempi della Chiesa antica, a livello locale la comunità era coinvolta nella scelta del vescovo. Preziosa la testimonianza della Traditio apostolica: “Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, purché sia irreprensibile. Si farà il nome del prescelto e, se esso incontrerà unanimità di consensi, si riuniranno, di domenica, il popolo, il collegio dei sacerdoti e i vescovi presenti. Questi ultimi, con consenso di tutti, impongano le mani sull’eletto, mentre i sacerdoti assistano senza far nulla. Tutti tacciano, ma preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito santo. Poi uno dei vescovi, a richiesta di tutti, imponga la mano su colui che riceve l’ordinazione episcopale e preghi (…)” (c. 2)15. Anche i canoni di Nicea confermano che l’iter della scelta del vescovo doveva avere natura collegiale fino alla sua consacrazione (cann. 4-6).

Il vescovo era tenuto a riflettere e agire insieme alla sua Chiesa. Cipriano, «ai presbiteri e ai diaconi» scriveva che il suo desiderio era «studiare in comune quanto il governo della Chiesa esigeva e, dopo averlo esaminato tutti insieme, decidere in modo esatto». A proposito di un problema sottoposto ad alcuni preti aggiungeva: «Non ho potuto rispondere da solo, perché all’inizio del mio episcopato mi sono fatto una regola di non decidere nulla secondo la mia opinione personale senza il vostro consiglio e senza il suffragio del popolo»16. Lo spirito sinodale animava tutta l’azione di Cipriano.

A livello di Chiesa locale, il principio sinodale si concretava, dunque, nella cooperazione e con-decisione quasi istituzionalizzata della comunità e dei suoi organismi. Insieme si rifletteva sulla comune fede, si denunziavano le deviazioni, si compivano delle scelte e si progettava il cammino. 2.3 - La sinodalità nella legislazione vigente – L’architettura teologica e giuridica del concilio ecumenico nella Chiesa cattolica è delineata nel vigente Codice ai cann. 337-341. Il Codice di diritto canonico del 1917 aveva una sezione propria riguardante Il concilio ecumenico (cann. 222-229). Nel Codice in vigore tale sezione è entrata a far parte del capitolo: «La suprema autorità della Chiesa: il romano pontefice e il collegio dei vescovi» (cann. 330-348). Da un lato si può deplorare che in tal modo la rilevanza ecclesiologica del concilio non risulti chiara in tutto il suo peso. D’altro canto, esso trova logica collocazione là dove si parla di primato e di collegialità.

Per il Codice, il concilio ecumenico è una solenne riunione di tutti i vescovi della Chiesa cattolica, con il loro capo visibile, il vescovo della Chiesa di Roma, per trattare problemi di fede e di costumi, riguardanti tutta la comunità cattolica sparsa nel mondo. Spetta al romano pontefice convocare, presiedere direttamente o attraverso suoi delegati il concilio, fissare i temi e l’ordine del giorno, trasferire o sciogliere il concilio. Solo i vescovi sono membri di diritto del concilio ecumenico con voto deliberativo. Se al papa spetta la presidenza normativa del collegio, ai vescovi spetta la partecipazione attiva, non semplicemente consultiva, come può essere quella dei teologi e dei canonisti. La potestà ordinaria dei vescovi trova nel concilio ecumenico la sua piena manifestazione collegiale, assumendo portata universale. Il valore ecumenico delle deliberazioni conciliari dipende unicamente dall’approvazione e dalla loro promulgazione da parte del romano pontefice. In buona sostanza, sono due gli elementi costitutivi e irrinunciabili di un legittimo concilio ecumenico: 1° l’esercizio della collegialità episcopale; 2° l’accettazione papale delle

15 La norma stabilita dalla Traditio apostolica non può essere trasferita, così come suona, in altri ambienti e in altre epoche. Per noi, oggi, non può essere ignorata la complessa evoluzione che la designazione dei vescovi ha conosciuto lungo i secoli e i problemi che, di volta in volta, si sono dovuti affrontare (per la trattazione della questione, vedi il corso sulla Chiesa particolare). 16 Ep. 14, 1,2.4. Cf. M. DUJARIER, L’Église – Fraternité, Paris 1991.

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deliberazioni17. Altra forma sinodale regolata dal vigente Codice è il Sinodo dei vescovi (cann. 342-348).

Con questo nuovo istituto, il principio sinodale ha ottenuto nella Chiesa una nuova forma di attuazione, anche in termini giuridici. Nell’orizzonte della sinodalità sono da collocare le Conferenze episcopali sia nazionali sia sopranazionali, come pure le Conferenze episcopali continentali.

Come nel precedente Codice, così nell’attuale i concili plenari e provinciali18, come pure i sinodi diocesani, sono possibili e auspicati. In riferimento al sinodo diocesano, il Codice del 1983, prescrive ai vescovi di chiamarvi «dei fedeli laici come pure membri di Istituti consacrati» e addirittura prevede la presenza di membri di Chiese che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica (can. 463, § 1,5; § 2,3). 2.4 – La sinodalità nelle Chiese d’Oriente (ortodosse) e nelle altre Comunità cristiane che non hanno comunione piena con la Chiesa di Roma - La locuzione sinodalità ricorre nel n. 61 dell’esortazione Pastores gregis, ma con un significato preciso e delimitato: si tratta della sinodalità propria delle Chiese d’Oriente, sviluppata sulla base stabilita già in antico nei Canoni degli apostoli e praticata da queste Chiese19. La ‘vita sinodale’ nelle Chiese patriarcali d’Oriente è un’attuazione effettiva della dimensione collegiale del ministero episcopale con a capo il patriarca; il sinodo patriarcale ha una vera potestà di governo, in quanto elegge il patriarca e i vescovi per gli uffici entro il territorio della Chiesa patriarcale, nonché i candidati all’episcopato per gli uffici fuori dai confini della Chiesa patriarcale da proporre per la nomina al Romano Pontefice (CCEO, cann. 11°, § 3 e 149). Al sinodo patriarcale spetta inoltre emanare leggi, che hanno il loro vigore entro i confini della Chiesa patriarcale (CCEO, can. 110, § 1 e 150, §§ 2-3) e fungere da tribunale superiore (CCEO, cann. 110, § 2 e 1062), restando salva la competenza della Sede Apostolica. Per taluni affari, opera l’Assemblea patriarcale, che il patriarca è tenuto a convocare almeno ogni cinque anni (CCEO, cann. 140-143).

Anche fuori dell’ambito confessionale cattolico, il concetto di sinodo-sinodalità indica realtà molteplici e tra loro diverse. Nell’ambito riformato il sistema sinodale è sorto a partire dal calvinismo francese del XVI secolo e ha ben presto trovato le prime realizzazioni in parecchie Chiese locali scaturite dalla Riforma (Paesi Bassi e Scozia), poi ulteriormente sviluppate, nei secoli XIX e XX, sotto il profilo giuridico. Nelle Chiese ortodosse i sinodi sono della massima importanza. Esistono a diversi livelli e in diverse forme. In gradi diversi essi esprimono, in maniera palpabile quale evento, l’ecclesiologia pneumatologica ed eucaristica della Chiesa orientale. Nell’ortodossia, le decisioni dei sinodi devono coincidere con la coscienza di fede delle varie comunità ecclesiali (diocesi, regioni, grande sinodo di tutte le Chiese), e pertanto sono da essa confermate o respinte, aprendo a nuovi temi quale il rapporto tra magistero dei vescovi, sensus fidelium e recezione20.

17 Di conseguenza il concilio ecumenico non è un parlamento democratico della Chiesa (la potestà del papa e dei vescovi non viene dal popolo ma da Dio), non è un’assemblea con poteri costituenti (la costituzione della Chiesa è di origine divina), non è un congresso dove si stipulano trattati, non è un’assemblea di capi delle diverse Chiese cristiane, tanto meno è un’assemblea di vescovi di un territorio delimitato e particolare (provincia ecclesiastica, conferenza episcopale). La definizione del concilio deve prendere l’avvio dalla peculiare costituzione della Chiesa. 18 Cf. A. MONTAN, «Concili particolari», in G. CALABRESE – PH. GOYRET – O. F. PIAZZA (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, pp. 338-345. 19 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinodale Pastores greis, 16 ottobre 2003, n. 61, in L’osservatore romano, 17 ottobre 2003. 20 Cf. E. LANNE, «Sinodo della Chiesa ortodossa», in Dizionario del concilio ecumenico Vaticano II, UNEDI, Roma 1969, coll. 1837-1850; D.V. POSPELOVSKIJ, G. SCHULZ, V. CYPIN, H. LEGRAND E AA.VV., Il concilio di Mosca, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI), 2004 (in particolare i contributi di M. Stavrou, pp. 329-366 e H. Legrand, pp. 367-394). Cf. anche: M. DORTEL – CLAUDOT, «L’éveque et la synodalyté dans le nouveau Code de Droit

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L’uso del termine sinodalità è vasto e non indica realtà concettualmente sempre comparabili. Una così complessa esperienza sinodale obbliga a trattare l’argomento con la dovuta cautela. 3. La sinodalità nel dibattito teologico e canonistico 3.1 - Eugenio Corecco – Il canonista Eugenio Corecco (1931-1995) fu uno dei primi a trattare in maniera sistematica il tema della sinodalità. La voce «sinodalità» apparsa nel Nuovo dizionario di teologia (a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Edizioni Paoline, 1977, pp. 1466-1495) e altri scritti specifici21, hanno contribuito a far dibattere e approfondire la questione, non solo tra i canonisti. La sinodalità, afferma Corecco, è una dimensione ontologica del ministero episcopale e, prima ancora, della costituzione della Chiesa in quanto tale. Si esprime nell’attività dei concili, sia ecumenici sia minori, ma anche in altri fenomeni, come per esempio quello del magistero ordinario dei vescovi. In ogni caso, per avere valenza teologica e giuridica all’interno della communio Ecclesiae et Ecclesiarum, la sinodalità non ha bisogno di esprimersi necessariamente attraverso forme istituzionali specifiche.

Il luogo teologico centrale della sinodalità è la communio ecclesiarum attorno all’ufficio primaziale del romano pontefice.

Il prof. Corecco studia a lungo l’attuazione dell’elemento sinodale nell’attività dei concili e vede nella vicenda storica del concilio provinciale e delle norme che ne hanno regolato la frequenza, gli sviluppi e le involuzioni della sinodalità nella vita della Chiesa. I concili provinciali, osserva ancora il Corecco, hanno contribuito a stabilizzare la Chiesa nella sua organizzazione territoriale. Il Codice del 1917, annota sempre il Corecco, allargando il termine della convocazione del concilio provinciale a una sola volta ogni venti anni22 - laddove il concilio di Nicea ne aveva chiesto la convocazione due volte all’anno (c. 5) – ha praticamente eliminato sia dalla costituzione sia dalla prassi ecclesiale ogni possibile incidenza di tale concilio.

Per il prof. Corecco, il concilio Vaticano II non è riuscito ad affrontare il problema della sinodalità in termini dottrinalmente esaurienti. La ragione ultima sta probabilmente nel fatto che non seppe sviluppare un discorso teologico esplicito dalla categoria centrale della communio. Sintomo di quest’imbarazzo è il mancato uso di sostantivi astratti quali “sinodalità”, “conciliarità” e “collegialità”. Ha preferito un aggettivo – collegiale – che con la sua valenza tecnico-giuridica, era la voce meno adatta per esprimere l’idea di sinodalità23.

Il Corecco si chiede in che misura sia possibile parlare di sinodalità a livello di Chiesa particolare con riferimento alla partecipazione dei presbiteri e dei laici. La risposta è precisa: «La sinodalità, essendo la dimensione operativa della communio ecclesiarum, si realizza in senso proprio solo nell’esercizio del ministero episcopale. Si esprime in modo pieno e supremo, valido per canonique», in Nouvelle Révue Théologique 106 (1984), pp. 641-657 ; J. FONTBONA I MISSE, Comunión y sinodalidad. La eclesiologia eucaristica después de N. Afanasiev en I. Zizioulas y J.M.R. Tillard (dissertatio ad doctoratum), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1994; S. LUPU, La sinodalità e / o conciliarità, espressione dell’unità e della cattolicità della Chiesa in Dumitru Staniloe (1903-1993), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1999; P. ŽÜREK, Indagine sulla sinodalità. La riflessione cattolica dopo il concilio Vaticano II con alcuni risvolti ecumenici, (dissertatio ad doctoratum), Pontificia Università Lateranense, Roma 2002. 21 Cf. E. CORECCO, «Articolazione della sinodalità nelle Chiese particolari», in Ius et Communio. Scritti di diritto canonico, 2 voll, Lugano – Casale Monferrato, 1997: II/130-139; IDEM, «Sinodalità e partecipazione nell’esercizio della potestas sacra», ivi, II/120-129; IDEM, «Struttura sinodale o democratica della Chiesa particolare?», ivi, II/9-38; IDEM, «Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale», in Communio 1(1972), pp. 32-44. 22 Cf. CIC 1917, can. 283. Il CIC 1983, can. 440, § 1 stabilisce che il concilio provinciale per le diverse Chiese particolari della medesima provincia ecclesiastica può essere celebrato “ogni volta che risulti opportuno a giudizio della maggioranza dei vescovi diocesani della provincia”. 23 Di qui la proposta, di qualche autore, di sostituire la voce “collegialità” (collegiale), con “sinodalità” (sinodale)

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tutta la Chiesa, nell’attività ordinaria o collegiale del coetus episcoporum e si realizza con valore vincolante, limitato ad un raggruppamento di Chiese particolari, nei concili minori e nelle conferenze episcopali. A livello della Chiesa particolare essa si esprime, come partecipazione qualitativamente diversa della sinodalità episcopale, nell’attività dei presbiteri all’interno del presbiterio e come esperienza solo analogica, nell’attività dei laici all’interno della strutture sinodali proprie della comunità eucaristica»24. Mons. Corecco così spiega questa sua posizione: la Chiesa particolare è una realtà fondamentalmente monistica. Non è data dalla somma delle parrocchie e non si può affermare che essa è formata “da esse “ e che “in esse” sussiste. La relazione Chiesa particolare / parrocchia non è assimilabile alla relazione Chiesa universale / Chiesa particolare. Il presbitero, poi, riceve il proprio ministero come partecipazione a quello del vescovo e forma con lui un’unità sacramentale. La relazione tra vescovo e presbitero non è assimilabile a quella che si realizza tra il vescovo e il collegio dei vescovi con il romano pontefice. La partecipazione dei laici all’attività della Chiesa non può essere considerata come una forma di partecipazione alla sinodalità specifica del collegio episcopale. Il laico partecipa del sacerdozio, del magistero e della regalità di Cristo “suo modo et pro sua parte”.

La partecipazione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi al sacerdozio di Cristo è qualitativamente diversa rispetto a quella dei laici (LG 10). Per questo la partecipazione dei laici alla sinodalità dei vescovi può essere solo analogica. Il laico per vivere la communio a livello di operatività responsabile, non deve necessariamente partecipare ad eventuali forme sinodali istituzionalizzate. 3.2 - Winfried Aymans – Per il canonista tedesco W. Aymans, la communio Ecclesiarum è uno dei concetti fondamentali dell’ecclesiologia del concilio Vaticano II. La communio Ecclesiarum, afferma, è il luogo teologico dell’attività sinodale della Chiesa, in particolar dell’attività sinodale dei concili. Il sinodo rende visibile la comunione delle molte Chiese particolari e la integra nella unità della Chiesa universale25. Per il canonista tedesco, i sinodi / concili sono istituti della collegialità episcopale. In essi si attua la potestà episcopale, che nel caso del concilio ecumenico, è suprema e piena. Le decisioni possono riguardare questioni di fede (e perciò si richiede l’unanimità morale) o di disciplina (qui trova applicazione il principio maggioritario). Aymans indica quali forme sinodali moderne il Sinodo dei vescovi e le Conferenze episcopali. Anche Aymans affronta il problema della partecipazione di membri del popolo di Dio (laici, consacrati) al sistema sinodale, che per sua natura è espressione dell’elemento collegiale vescovile. Tale partecipazione, dice Aymans, non può avere che valore consultivo. A conferma, Aymans ricorda che anche il concilio Vaticano II si è limitato ad attribuire carattere soltanto consultivo a tutti gli organi infradiocesani di partecipazione all’ufficio di governo, istituiti o proposti da esso. Si tratta di forme di consultazione, nelle quali si manifesta la partecipazione attiva al munus regendi.

Ecco come si esprime il canonista tedesco: «Il sinodo è il luogo dell’accertamento della fede comune delle Chiese particolari e della decisione su un comune cammino per il mantenimento di questa comunione»26. Subito aggiunge: «Quando ‘sinodo’ è indicato come istituzione per la comunione delle Chiese vescovili tra loro, allora la Chiesa particolare in sé non può essere luogo teologico della sinodalità, né possono, organi interni a ciascuna Chiesa vescovile, rivestire senz’altro carattere sinodale. La tradizione latina conosce l’istituzione del sinodo diocesano, che,

24 CORECCO, «Sinodalità», p. 1493. 25 Cf. W. AYMANS, Diritto canonico e comunione ecclesiale. Saggi di diritto canonico in prospettiva teologica, Giappichelli Editore, Torino 1993. 26 W. AYMANS,«Sinodalità: forma di governo ordinaria o straordinaria nella Chiesa», in AYMANS, Diritto canonico e comunione ecclesiale. Saggi di diritto canonico in prospettiva teologica, p. 40.

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però, proprio con questa denominazione è distinto chiaramente dalle istituzioni sinodali che collegano le Chiese particolari, le quali, secondo la tradizione latina, si chiamano concili»27. L’applicazione del principio consultivo, afferma Aymans, mette i vescovi in grado di adottare decisioni esemplari per la vita della Chiesa, non soltanto grazie al richiamo alla loro autorità formale, ma in relazione altresì alla loro elaborazione sinodale28.

Conclude Aymans: «Per la chiarezza dei concetti ecclesiologici e ad un tempo per onestà intellettuale, non si dovrebbe estendere la nozione della sinodalità all’ambito del principio consultivo. Si correrebbe altrimenti il rischio di fare ultimamente riferimento – senza parametri ecclesiologici - ai modelli secolari e si trovarsi nuovamente dinanzi ad una costituzionalizzazione parlamentare dell’ufficio vescovile, oppure addirittura ad un mero parlamentarismo ecclesiale. Se sinodalità, intesa in senso stretto, indica solo i sinodi o concili classici, in senso più ampio dovrebbe allora ricomprendere soltanto le istituzioni, che non sono chiamate così e che però posseggono oggettivamente gli elementi costitutivi essenziali di un sinodo»29.

Dopo aver accuratamente distinto sinodalità e principio consultivo, Aymans afferma che la distinzione non significa che un elemento è indipendente dall’altro. Il principio consultivo rappresenta un valore a sé, che il diritto canonico esprime prevedendo la partecipazione ai sinodi di gruppi il cui compito esclusivo consiste nella partecipazione consultiva.

Né la sinodalità né il principio consultivo, conclude Aymans, sono costitutivi per la Chiesa, nel senso che non ci sarebbe la Chiesa là dove non fossero applicate queste forme. Certo, sono forme costitutive di quelle realtà ecclesiologiche, che, come la communio ecclesiarum o la communio fidelium, appartengono alla natura inderogabile della Chiesa30. 3.3 - Hervé Legrand – Da tempo, nei suoi scritti, il teologo domenicano p. Hervé Legrand tratta le fondamentali questioni del primato del papa e della collegialità dei vescovi, della Chiesa universale e della Chiesa ‘locale’ (termine preferito a Chiesa ‘particolare’ perché, quest’ultimo, secondo il p. Legrand, crea una visione distorta di Chiesa), della comunione tra le Chiese.

In riferimento al tema della sinodalità, il p. Legrand introduce due elementi specifici: la democratizzazione nella Chiesa e la sinodalità a livello di Chiesa particolare31. In riferimento alla democratizzazione nella Chiesa è da rilevare, preliminarmente, che il tema è oggetto di riflessione dagli anni immediatamente successivi al concilio Vaticano II. Il dibattito, iniziato dai teologi di lingua tedesca, è stato in seguito ripreso dai teologi di lingua francese, inglese, italiana e spagnola assumendo peculiarità specifiche nei diversi ambienti culturali32. ‘Democrazia’ è un termine politico dai significati differenti. Prima di affermare l’incompatibilità tra democrazia e natura della Chiesa occorre, ovviamente, precisare il significato

27 Ivi, p. 40. Aymans osserva che la differenziazione delle istituzioni intraeccelsiali trova rispondenza nel diritto delle Chiese cattoliche orientali, dove con la voce ‘synodus’ viene indicato quello che nella legislazione latina è denominato ‘concilium’, e quello che la legislazione latina chiama ‘sinodus dioecesana’ nella legislazione orientale prende il nome di ‘convestus eparchialis’. 28 Ivi, p. 53. La formula delle decisioni, usata prima della riforma tridentina della curia, connotava la relazione tra papa e concistoro: “Ex auctoritate nostra et de fratrum nostrorum consilio”. 29 Ivi, p. 57. 30 Ivi, p. 58. 31 Cf. H. LEGRAND, «Democrazia o sinodalità per la Chiesa? Convergenze reali e divergenze profonde», in Ricerca 5 e 6 (1996), pp. 4-5 e 5-9; IDEM, «Implicanze teologiche della rivalorizzazione delle Chiese locali», in Concilium VII (1972), fasciolo 1, pp. 71-85; IDEM, «La realizzazione della Chiesa in un luogo», in B. LAURET - F. REFOULÉ (a cura di), Iniziazione alla pratica della teologia. 3. Dogmatica II, Queriniana Editrice, Brescia 1986, pp. 181-185. 32 Si vedano i fascicoli monografici sulla “democratizzazione nella Chiesa” della rivista Concilium 3/19771 e 5/1992; J. RATZINGER – H. MAIER, Demokratie in der Kirche. Möglichkeiten, Grenzen, Gefahren, Limburg 1970; vers. it.: Democrazia nella Chiesa. Possibilità e limiti (GdT, 312), Editrice Queriniana, Brescia 2005.

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dei termini. Della democrazia trattano i documenti del magistero sociale dei papi, i quali insistono sulla necessità che le legislazioni degli Stati abbiano a riconoscere e accogliere i principi democratici, fondamentali per una pacifica convivenza. Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, indica alcuni di tali principi, là dove scrive: «La Chiesa apprezza il sistema della democrazia in quanto esso assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche, garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere sia di chiedere conto a coloro che li governano, e di sostituirli con mezzi pacifici quando ciò risulti opportuno (…). La democrazia autentica (…) esige (…) strutture di partecipazione e la condivisione di responsabilità» (n. 46). Una democrazia riconosce i “diritti umani”, li afferma e li tutela favorendone lo sviluppo. Le “regole” della democrazia sono il suffragio universale, il governo della maggioranza, il rispetto delle minoranze, la possibilità dell’alternanza. Alla base della democrazia vi stanno il principio d’uguaglianza, il diritto alla libertà dell’informazione, il diritto di associazione e di riunione, il diritto al rispetto dell’intimità personale, ecc.

Tra dimensioni costitutive della democrazia e aspetti centrali del messaggio cristiano vi sono molteplici elementi di contatto sia a livello dottrinale sia a livello pratico. La fondamentale uguaglianza nella Chiesa come comunione e missione istituisce un fondamento per l’applicazione di vari principi democratici. Nel Codice vigente sono presenti canoni che regolano il diritto al dialogo e all’informazione, il diritto a manifestare il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa (can. 212, §§ 2-3; 1287, § 2), il diritto di associarsi (can. 215), il diritto-dovere di rendere conto del proprio operato, il diritto-dovere alla consultazione (can. 127; cf. competenze del consiglio presbiterale, del collegio dei consultori, dei consigli pastorali, dei consigli per gli affari economici, ecc.)33. Il Codice, in conformità al concilio Vaticano II, obbliga il vescovo a costituire il consiglio presbiterale (can. 495, § 1), auspica la creazione dei consigli pastorali (cann. 511; 536), favorisce la reviviscenza dei concili provinciali o plenari (cann. 439-446) e dei sinodi diocesani (can. 460-468).

Facendo suo il pensiero di W. Kasper, il p. Legrand fa notare come nella Chiesa ci sia, oggi più di ieri, un forte bisogno di più collegialità, di più corresponsabilità, di prese di parola responsabili, di una maggiore circolazione delle informazioni e di più trasparenza nel processo decisionale. La ricezione del concilio Vaticano II, osserva, è solo agli inizi. Anche dal versante ecumenico viene un forte appello a un esercizio non solo personale, ma anche collegiale e comunitario del ministero e della potestà.

Conclude il p. Legrand: l’applicazione seria del concilio Vaticano II comporterà l’accoglienza di principi e valori che, prima di essere ‘democratici’, sono profondamente radicati nella natura della Chiesa.

In riferimento alla sinodalità, il p. Legrand non teme di affermare che «la realizzazione privilegiata della Chiesa locale è sinodale»34. Senza confondere la sinodalità che si realizza in vari modi come espressione della collegialità episcopale, p. Legrand ribadisce che la Chiesa in un luogo non può realizzarsi se la comunicazione tra persone e gruppi non è istituzionalizzata attraverso sinodi e consigli a scala diocesana, ma anche decanale e parrocchiale. Simili consigli, continua il p. Legrand, non sono luoghi di decisione – il loro statuto è generalmente consultivo -, quanto luoghi di circolazione dell’informazione, di riflessione comune, di gestione dei conflitti e di elaborazione delle scelte pastorali. Queste ultime avranno tanta maggiore probabilità di giungere a buon esito, quanto maggiore sarà stata la partecipazione di quelli stessi, che dovranno metterle in opera. L’istituzionalizzazione delle forme di partecipazione sinodale è richiesta dalla comunione. Comunione e istituzione, osserva p. Legrand, si richiamano a vicenda. Diversamente la comunione resterebbe un tema omiletico relativamente astratto e la Chiesa non riuscirebbe ad inserirsi nel suo 33 Cf. J. PROVOST, «Prospettive per una Chiesa più “democratizzata», in Concilium 28 (1992), fascicolo 5, pp. 172-188. 34 LEGRAND, La realizzazione della Chiesa in un luogo, in B. LAURET - F. REFOULÉ (a cura di), Iniziazione alla pratica della teologia. 3. Dogmatica II, p. 181-185.

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contesto umano con sufficiente realismo e sufficiente efficacia35. 3.4 - Gilles Routhier – Per G. Routhier – teologo/canonista canadese, professore nella Facoltà di Teologia dell’Università di Laval nel Québec – la sinodalità non si riferisce soltanto alla communio Ecclesiarum in funzione della potestà dei vescovi, ma si estende a tutta la vita della Chiesa ed è un suo elemento costitutivo36. La sinodalità, afferma il Routhier, è la concretizzazione della comunione che esiste, di diritto e di fatto, in teoria e in pratica, tra tutti i membri dell’unico popolo di Dio. La riflessione del Routhier è orientata soprattutto alla sinodalità della Chiesa particolare.

Nel governo di una Chiesa locale (anche questo autore preferisce l’espressione ‘Chiesa locale’ per indicare la Chiesa presieduta da un vescovo, al posto del termine ‘Chiesa particolare’), il principio gerarchico e il principio comunitario sono indissociabili. Vanno articolati insieme così come occorre articolare cristologia e pneumatologia.

Il Routhier si richiama volentieri al can. 34 delle Costituzioni apostoliche vedendo in esso gli elementi propri della sinodalità: azione comune, ricerca del consenso, carattere organico e strutturato delle relazioni tra persone, diversità delle funzioni. Ecco il testo del canone:

«Occorre che i vescovi d’ogni nazione sappiano chi tra loro è il primo e che lo

considerino come loro testa. Essi non debbono fare nulla senza il suo assenso, anche se spetta a ciascuno di sbrigare gli affari concernenti la propria diocesi ed i territori che gli sono sottomessi. Ma neppure lui (cioè il capo dei vescovi della regione: n.d.r.) dovrà fare alcunché senza l’assenso di tutti gli altri. Così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato mediante Cristo nello Spirito Santo».

La sinodalità, sottolinea il Routhier, non è una semplice tecnica di governo ecclesiale, un

modello di organizzazione particolare; è comunione vissuta, che fa entrare il cristiano nel cuore del mistero ecclesiale. La sinodalità è attuazione del diritto che è proprio della comunione. La vita sinodale, nelle sue intenzioni, nei suoi mezzi e procedure, nei suoi rapporti specifici, è attuazione dell’Ekklesia come assemblea di persone con funzioni diversificate, ma sempre nella comunione e quale frutto della condivisione e dell’ascolto della Parola di Dio. In questo senso la sinodalità è una realtà costitutiva della Chiesa, una proprietà che scaturisce dalla sua natura. Da questa nozione di sinodalità, il Routhier tratta frequentemente, nei suoi scritti, la questione della riorganizzazione delle Chiese locali. 3.5 - Yves Marie Congar e il principio della sobornost’ - Il p. Congar non ha trattato in forma sistematica della sinodalità. Gli apporti sono molteplici, ma su singoli aspetti. Qui preme ricordare l’attenzione del p. Congar alla categoria teologica della sobornost’, tema fondamentale della teologia russo-ortodossa. Nei Jalons pour une théologie du laicat (Paris, 1954) l’illustre ecclesiologo fa riferimento alla sobornost’, termine che egli trova difficoltà a tradurre. Scrive: «Il ne faut pas à traduire sobornost’ par ‘collégialité’ ou ‘principe collégial’: cela englobe conciliarité, le

35 Cf. H. LEGRAND, «Synodes et concils de l’après concile», in Nouvelle Revue Theologique 108 (1976), pp. 193-216. 36 Cf. G. ROUTHIER, Le défi de la communion. Une relecture de Vatican II, Montreal 1994 ; IDEM, «La synodalitè de l’Eglise locale», in Studia Canonica 26 (1992), pp. 111-161; IDEM, Le synode diocésain. Le comprendre, le vivre, le célebrer, Montreal 1995; IDEM, Les pouvoirs dans l’Église. Étude du gouvernement d’une Église locale : l’Église de Québec, Montreal 1993. La proposta pastorale del Routhier va compresa nel contesto della vicenda della Chiesa del Canada, in particolare della provincia del Quebec (cf. l’opera ultima citata). Per una prima informazione su quella Chiesa cf. G. BAUM, «Il rapporto Dumont», in Concilium 28 (1992), fascicolo 5, pp. 142-152. L’articolo del Baum termina con queste parole (il riferimento è alle diocesi della provincia del Quebec): “Il tentativo di democratizzare le istituzioni cattoliche è fallito” (p. 152). Del ROUTHIER cf. «Marcher ensemble et vivre la synodalité», in G. ROUTHIER ET M. VIAU (sous la direction de), Précis de théologie pratique, Novalis, Lumen vitae, Bruxelles, 2004, pp. 651-664.

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‘principe synodal’, mais davantage encore» (p. 391). Elenca anche i termini latini che considera equivalenti o affini: collectio, congregatio, coetus, communio, comunitas, corpus, societas. Dunque sobornost’ dice collegialità, principio collegiale, ma anche conciliarità, principio sinodale e altro ancora37. Il P. Congar ha il merito di avere aperto la strada dell’incontro della teologia cattolica con la teologia ortodossa.

La teologia cattolica occidentale è, oggi, molto attenta alle elaborazioni dei teologi ortodossi in tema di sinodalità, siano essi greco-bizzantini o russi38. In effetti, a tutti i livelli della vita ecclesiale l’ortodossia appare come sinodale, conciliare, o – se la parola non si prestasse ad interpretazioni ambigue – collegiale. Scrive E. Lanne: «Dall’ultimo secolo i teologi della scuola slalvofila hanno insistito molto su questa conciliarità della vita della loro Chiesa, ponendo l’accento sul fatto che le decisioni prese collegialmente dovevano essere ‘accettate’ poi dall’insieme della Chiesa. E’ nota la teoria della sobornost’, che in A. S. Khomjakof (1804-1860) ha trovato il suo primo e principale teorico. Anche se questa teoria, elaborata al modo dei teologi russi, è lungi dall’avere ottenuto il consenso unanime dell’insieme dell’ortodossia, non resta meno vero che non c’è un solo teologo o canonista ortodosso che non metta al primo posto delle manifestazioni della vita della Chiesa questa nota di conciliarità»39. P. Lanne continua rilevando che non deve sorprendere il fatto che dopo il sec. 8° la Chiesa ortodossa non abbia più accettato un nuovo concilio ecumenico.

La conciliarità è di fatto praticata nelle Chiese ortodosse, anche se la figura giuridica di questa conciliarità a tutti i livelli della vita della Chiesa appare, secondo i tempi, i luoghi e le persone, un po’ imprecisa e fluttuante.

Il can. 34 delle Costituzioni degli Apostoli gode nel pensiero ortodosso un ruolo di primaria importanza, per fondare il principio della collegialità. Il canone è stato a lungo commentato dagli autori ortodossi. Nella sua apparente chiarezza il canone indica: a) che c’è un primo tra i vescovi, al quale gli altri debbono riferirsi per gli affari che superano la giurisdizione del proprio territorio; b) che tuttavia questo primo tra i vescovi non può agire senza il consenso degli altri. Per ogni questione che interessi parecchie Chiese particolari di una stessa nazione, la decisione deve dunque essere collegiale, sinodale. Il frammento finale del canone (“così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato mediante Cristo nello Spirito Santo”), sembra porre un vincolo tra la concordia che deve esistere tra i vescovi e la glorificazione di Dio nella Trinità40. Il principio della conciliarità è così inserito nella teologia trinitaria. Il can. 34 degli Apostoli continua a essere considerato come una delle norme fondamentali della vita ecclesiale, sia dal punto di vista teologico sia da quello canonico. Il regime conciliare non è considerato come una delle possibili forme di governo della Chiesa, ma come il principio di base che risale alla tradizione apostolica ed è radicato in ciò che la teologia può insegnare di più profondo sulla natura della Chiesa: la sua vita ad immagine della vita trinitaria stessa, la comunione dei santi in Cristo per opera dello Spirito Santo. Il regime sinodale permanente che si ritrova ai diversi livelli della vita della Chiesa d’Oriente ha un’altra caratteristica, quella di manifestare in modo continuo il carattere collegiale dell’esercizio del ministero episcopale. E’ un modo diverso, commenta p. Lanne, di considerare la 37 Sul significato di sobornost’ cf. E.G. FARRUGIA, «Sobornost’», in Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, a cura di E.G. Farrugia, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000, pp. 714-715. 38 Vedi la tesi dottorale di P. ŽŮREK, Indagine sulla sinodalità. La riflessione cattolica dopo il concilio Vaticano II con alcuni risvolti ecumenici, PUL 2001. 39 E. LANNE, «Sinodo della Chiesa ortodossa», in Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, a cura di S. Garofalo, UNEDI, Roma 1969, col. 1842. Cf. anche O. CLÉMENT, Roma diversamente. Un ortodosso di fronte al papato, Jaca Book, Milano 1998, pp. 63-77. 40 Y. CONGAR, «La conscience ecclésiologique en Orient et en Occident du VI° au XI° siècle», in Istina (1959) II; cf. anche Le Concile et les Conciles, Chevetogne-Paris 1960: vers. it. Il concilio e i concili, Contributo alla storia dalla vita conciliare della Chiesa, Edizioni Paoline, 1961, pp. 399-467: 428-439.

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vita ecclesiale41. Come mette in luce Unitatis redintegratio n. 15, la radice teologica del regime sinodale ortodosso è la concelebrazione eucaristica. Il testo, nel suo contenuto sostanziale, non è lontano dal can. 34 degli Apostoli. P. Lanne conclude mettendo in luce alcune peculiarità della concezione ortodossa della sinodalità: 1° per l’ortodossia la vita sinodale è anzitutto un fatto vissuto in modo continuo a tutti i livelli della vita ecclesiale; per l’occidente è uno dei mezzi di manifestazione della cattolicità; 2° per l’ortodossia il rapporto della sinodalità con il primato del papa si pone in termini molto semplici: si tratta di Chiese sorelle che debbono operare solo nell’accordo sinodale; per l’occidente la questione è problematica e resta non risolta42. A detta di p. Lanne il laicato nel regime sinodale ortodosso ha un ruolo vitale, anche se concretamente la partecipazione del laicato e del basso clero è spesso rimasta, a livello canonico, una pura teoria43.

Gli autori ortodossi oggi più studiati in tema di sinodalità sono44: A. S. Khomjakof (1804-860)45, S. N. Bulgakov (1871-1944)46, P. Florovskij (1893-1979), N. Afanas’iev (1893-1966), I. Zizioulas47, P. N. Endokimov (1901-1970)48.

Non è facile, per la teologia latina, comprendere l’idea di sobornost’. La versione del termine con l’espressione “conciliarità” non risulta del tutto soddisfacente e può dare adito a equivoci. Sergej Bulgakov, in un intervento alla conferenza di Fede e costituzione del 1927 affermava: “La teologia russa esprime l’essenza fondamentale dell’unità della Chiesa nel termine sobornost’ per il quale non esiste equivalente in nessun’altra lingua”. Sobornost’ esprime la collaborazione amorosa dei fedeli e della gerarchia nella loro vita, nella loro fede e nel loro culto; corrisponde alla collegialità di tutti i membri della Chiesa49. Il termine evoca più gli aspetti ontologici spirituali che l’emergenza formale a livello di esercizio del potere ecclesiale. Il rapporto tra gerarchia, clero e popolo deve essere caratterizzato dall’armonia, dall’amore fraterno fra i diversi membri e dalla collaborazione tra tutti nelle diverse funzioni. Si tratta di un’unità vitale

41 LANNE, «Sinodo della Chiesa ortodossa», in Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, col 1845. 42 Ivi, col. 1848-1849. 43 Ivi, col. 1849. 44 Cf. G. CIOFFARI, La sobornost’ nella teologia russa. La visione della Chiesa negli scrittori ecclesiastici della prima metà del XIX secolo, Bari 1978 (cf. anche Nicolaus, 5, 1997, pp. 259-324); L. PEANO, La Chiesa nel pensiero russo slavofilo, Brescia 1964; J. BUJAK, Il ministero ordinato, la collegialità/conciliarità e il primato del vescovo di Roma nei documenti della Commissione mista internazionale del dialogo cattolico-ortodosso, Roma 1999. 45 E’ considerato il padre del concetto di sobornost’ e colui che lo ha meglio delineato. Cf. G. CIOFFARI, «A. S. Khomijakof e l’itinerario filosofico della Sobornost’», in Nicolaus 6 (1978), pp. 87-127; E. CH. SUTTNER, Offenbarung, Gnade und Kirche bei A. S. Khomijakof, Würzburg 1967. 46 S. BULGAKOV, L’ortodoxie, Lausanne 1970. 47 Cf. J. FONTBONA I MISSÉ, Comunion y sinodalidad. La eclesiologia eucaristica después de N. Afanasiev en I. Zizioulas y J.M.R. Tillard, Roma 1994. 48 P. N. ENDOKIMOV, L’ortodossia, Bologna 1981 (con importante introduzione di E. Lanne). 49 Cf. D. O’COLLINS, E. G. FARRUGIA, «Sobornost’», in Dizionario sintetico di teologia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, p. 349.

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fondata sulla fede e sull’amore50. 4. Il contributo del concilio Vaticano II Il concilio Vaticano II non tratta della sinodalità in modo diretto e sistematico. Il termine è assente, ma non è assente la cosa. Si affaccia nei «voti» dei Padri, nelle richieste di riforme istituzionali. I testi conciliari contengono affermazioni sparse, che, opportunamente raccolte e rielaborate, possono favorire una riflessione unitaria. La «comunione» è la radice di ogni «sinodalità» e «collegialità» nella Chiesa. E’ risaputo che il concilio ha incentrato la teologia del mistero della Chiesa nel concetto di comunione. a) Innanzitutto la Chiesa è una communio fidelium, il popolo santo «adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4). Ciò che unisce i fedeli sono: 1° i doni interiori ricevuti dallo Spirito (comunione di vita, di carità e di verità; fede, speranza e carità, ecc.: LG 9; 11; …); 2° le realtà esterne o sociali (la professione di una medesima fede, i sacramenti, il ministero gerarchico), che uniscono i credenti nello Spirito comunicato da Cristo (LG 14). Ogni fedele è inserito nella communio attraverso il battesimo, sacramento della rigenerazione cristiana, comune a tutti battezzati. Il battesimo è il fondamento ultimo della sinodalità, che si estende a tutti i membri della communio fidelium e di questa è espressione e strumento.

b) La communio fidelium è, per divina istituzione, organizzata e diretta con una mirabile varietà (LG 32). I fedeli partecipano, a modo loro, dell’unico sacerdozio di Cristo e possiedono i carismi dello Spirito per il bene della comunità. I ministri sono eletti/consacrati e inviati da Cristo, mediatore nel suo Spirito, per esercitare, in modo permanente, il sacro ministero della Chiesa, organicamente strutturata. Nella communio ministeriorum, si distingue il ministero di coloro che sono costituiti nell’episcopé. La Chiesa è costituita gerarchicamente in modo che il Signore invisibile sia rappresentato/reso presente visibilmente nella Chiesa universale dal successore di Pietro, capo del collegio episcopale, e nelle Chiese particolari dai rispettivi vescovi. Come Pietro e i dodici formavano un solo collegio, in modo analogo (pari ratione) i vescovi, uniti tra loro con il romano pontefice, formano un solo collegio. Si ha così la communio hierarchica, ordinata a comunicare i doni della redenzione ai fedeli cristiani. Se è vero che la communio fidelium precede la communio hierarchica (i pastori sono innanzitutto dei fedeli: S. Agostino diceva «sono cristiano con voi»), è anche vero che la communio hierarchica precede la communio fidelium, essendo ordinata a comunicare i beni della salvezza (S. Agostino diceva: «Sono vescovo per voi»).

c) Oltre che come communio fidelium e communio hierarchica, la Chiesa si realizza anche come communio ecclesiarum. Il concilio Vaticano II ha approfondito poco quest’ultimo aspetto, rimanendo centrato nella realtà della Chiesa universale, limitandosi ad affermare che nelle Chiese particolari e a partire da esse esiste la sola e unica Chiesa cattolica (LG 23). In questo modo risulta poco valorizzato il principio della varietà e della pluriformità e conseguentemente della «sinodalità» come arricchimento dell’unità. In quest’ultima prospettiva la sinodalità appare come l’espressione istituzionale della communio, finalizzata a conferire una dimensione più vasta e più perfetta alle Chiese in funzione dell’unità ecclesiale.

d) Il concilio Vaticano II per esprimere la dimensione sinodale della Chiesa ha usato prevalentemente l’aggettivo “collegiale” in senso tecnico, con riferimento all’attività dei vescovi riuniti in concilio. Ma la «collegialità» non è che una dei modi di esercizio della sinodalità. Usando un’espressione di Paolo VI, si può dire che la collegialità è «la comunione ecclesiale che assurge a collegialità nel ceto dei vescovi»51. Accanto, poi, alla collegialità in senso stretto, il corpo dei vescovi realizza, in forza dell’«affectus collegialis», altre forme di collaborazione, che si attuano in

50 Si veda: CHIESA ORTODOSSA RUSSA, I rapporti con le altre confessioni. Principi basilari dell’atteggiamento della Chiesa ortodossa russa verso le altre confessioni cristiane, in Regno documenti 46(2001), pp. 188-195. 51 PAOLO VI, Discorso all’udienza generale del 12 novembre 1969, in L’Osservatore Romano, 13 novembre 1969.

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vari modi. e) Oltre alla sinodalità del ministero episcopale, che ha il suo luogo teologico nella

communio episcoporum, strutturata in modo gerarchico attorno all’ufficio del romano pontefice, storicamente si sono affermate altre forme di sinodalità, come, ad esempio, quella espressa dal «sinodo diocesano», intendendo con questo termine la riunione del vescovo diocesano, «principio visibile e fondamento dell’unità della sua Chiesa particolare» (LG 23), con il presbiterio e la porzione di popolo di Dio a lui affidata. Si ha così la sinodalità della Chiesa particolare, chiamata a realizzarsi a tutti i livelli.

f) Il legame che intercorre tra il vescovo e i presbiteri della diocesi e dei presbiteri tra loro, stà a fondamento della «sinodalità presbiterale». Secondo i testi più antichi della tradizione, come quelli di Ignazio di Antiochia, il presbiterio è parte essenziale della Chiesa. Fra il vescovo e i presbiteri esiste la communio sacramentalis nel sacerdozio ministeriale o gerarchico, partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo e pertanto, anche se in grado diverso, nell’unico ministero ecclesiale ordinato e nell’unica missione apostolica. Al presbiterio della diocesi appartengono anche tutti i presbiteri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica. In questo modo le Chiese particolari possono essere arricchite a livello carismatico “ad immagine” della Chiesa universale, alla quale fanno riferimento come istituzioni sovradiocesane. La relazione sacramentale gerarchica si traduce nella ricerca costantemente coltivata, di una comunione reale del vescovo con i membri del suo presbiterio. La sinodalità che si realizza a questo livello non è della stessa natura della collegialità episcopale. Si situa soltanto nella Chiesa particolare ed è manifestazione dell’appartenenza di tutti ad un unico presbiterio (PO 8).

g) La communio che investe tutta l’esperienza ecclesiale e che a livello di vescovi e di presbiteri si concreta in forme peculiari («collegialità episcopale», «sinodalità presbiterale»), interessa anche l’esercizio della corresponsabilità laicale, dal concilio Vaticano II presentata in modo strettamente connesso con la corresponsabilità del ministero pastorale (LG 10; 32-33; 37; PO 7). Se la sinodalità è l’emergenza istituzionale della communio che investe tutta l’esperienza ecclesiale, quella dei pastori e quella dei presbiteri, essa investe analogicamente anche l’esercizio della responsabilità laicale. E’ sulla base di quest’analogia che si afferma la capacità e il diritto di tutti i fedeli di partecipare al sinodo della loro Chiesa particolare. La communio fa sì che i fedeli laici si ritrovino radunati nell’unico popolo di Dio e costituiti nell’unico corpo di Cristo sotto un solo capo, chiamati come membra vive a contribuire con tutte le loro forze all’incremento della Chiesa e alla sua ininterrotta santificazione (LG 33). In quest’ambito, acquista rilevanza anche il sensus fidei dei fedeli (LG 12), ai quali va riconosciuto il diritto di collaborare con i pastori al servizio della Chiesa, il diritto a far conoscere ciò che riguarda il bene della Chiesa (LG 37)52.

Si può usare l’espressione «sinodalità laicale», per indicare la partecipazione responsabile dei laici al sinodo diocesano e alla vita della Chiesa, in tutte le sue forme?

Se le categorie da cui si deve muovere per fornire una risposta sono la communio e la fraternità dei cristiani tra loro in forza del battesimo, la risposta non può essere che affermativa, a condizione che siano sempre salvaguardate le differenze concettuali e qualitative tra le diverse forme della sinodalità53.

Nello schema che segue è rappresentata la tipologia della sinodalità:

52 Qualche autore vede connesso il diritto dei laici di essere consultati in vista del nuovo vescovo, il che, tuttavia, non significa che uno abbia il diritto di diventare elettore: cf. L. BORDIGNON, «Che cos’è la sinodalità?», in Credere oggi XIII (1993/4), fascicolo n. 76, p. 83. 53 Cf. G. ALBERIGO, «La sinodalità dopo il Vaticano II», in M. FABRI DOS ANJOS (a cura di), Vescovi per la speranza del mondo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, pp. 99-113.

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del ministero episcopale:

- collegialità in senso stretto (concilio ecumenico, ecc.) - forme di collaborazione fondate sull’affectus collegialis: sinodo dei vescovi, province e regioni ecclesiastiche, conferenze episcopali, visite ad limina, concistoro, ecc.

Communio sinodalità del vescovo - con il presbiterio (fidelium, (sobornost’) - presbiterio ecclesiarum, - consiglio presbiterale hierarchica) nella Chiesa particolare con i consacrati e i laici

- consiglio pastorale - organismi di partecipazione

5. Sinodalità della Chiesa particolare: il ministero del vescovo Sinodalità e collegialità sono due concetti distinti e non vanno confusi tra loro. Sinodalità significa la comunione della Chiesa e l’esercizio del sacerdozio comune principalmente nella Chiesa particolare; collegialità è la comunione dei vescovi tra loro e il suo esercizio nella episcopé. Il concilio Vaticano II ha trattato della collegialità, non della sinodalità, se non indirettamente. Ci soffermiamo brevemente sulla sinodalità della Chiesa particolare, prendendo in esame la figura del vescovo. a) Le premesse teologiche dalle quali muove la riflessione sono quelle già più volte accennate. Va tenuto presente che la Chiesa procede dalla Trinità e lo stile ecclesiale non potrà essere che uno stile trinitario, comunionale, sinodale. Dalla communicatio caritatis con Dio scaturisce la communicatio caritatis dei cristiani che operano nella comunione. Anima di tale communicatio è lo Spirito donato dal Padre alla Chiesa. Lo Spirito Santo guida la Chiesa verso la verità tutta intera, la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, con i quali la dirige, la abbellisce dei suoi frutti. Con la sua forza lo Spirito fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce all’unione con Lo Sposo. Così la Chiesa si presenta come un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG 4). La teologia più recente indica in Maria l’icona e il principio per la vita sinodale della Chiesa. Non a caso il concilio Vaticano II ha inserito il capitolo su Maria all’interno della costituzione dogmatica sulla Chiesa. Il principio mariano realizza un più profondo riconoscimento del mistero della Chiesa. b) Il compito specifico del ministero episcopale acquista una sua particolare valenza e concretezza nella Chiesa particolare per la quale il vescovo diocesano è eletto e consacrato. Il ministero del vescovo è tutto relativo alla sua Chiesa, che comprende lui stesso, e rappresenta una serie di elementi di comunione e di unità nella Chiesa universale. Ciò era espresso da queste parole di Cipriano: “Devi sapere che il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel vescovo, e se uno non sta con il vescovo non è neppure nella Chiesa” (Ep. 69,8: PL 4, 418-419). La Chiesa particolare deve essere pensata con riferimento al suo pastore. La Chiesa particolare si può spiegare a partire dal triplice ufficio episcopale della santificazione, del magistero e del governo, che si intreccia con la dimensione profetica, sacerdotale e regale del popolo di Dio (LG 9-13). c) Nell’esortazione postsinodale Pastores gregis è proposto un nuovo stile di governo della diocesi che può essere definito sinodale. Il vescovo deve portare uno stile pastorale sempre più aperto alla collaborazione di tutti. Si legge nel testo: «Vi è una sorta di circolarità tra quanto il vescovo è chiamato a decidere con responsabilità personale per il bene della Chiesa affidata alla sua cura e l’apporto che i fedeli gli possono offrire attraverso gli organi consultivi, quali il sinodo diocesano, il consiglio presbiterale, il consiglio episcopale, il consiglio pastorale» (n. 44a).

Per spiegare questo stile di governo, l’esortazione richiama innanzitutto il principio di uguaglianza che sta alla base del popolo di Dio: «La Chiesa particolare – scrive il papa – non dice

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riferimento soltanto al triplice ministero episcopale (munus episcopale), m anche alla triplice funzione profetica, sacerdotale e regale dell’intero popolo di Dio. Tutti i fedeli, in virtù del battesimo, partecipano, nel modo ad essi proprio, al triplice munus di Cristo. La loro reale uguaglianza nella dignità e nell’agire fa sì che tutti siano chiamatia cooperare all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi ad attuare la missione che Dio ha affidato alla Chiesa nel mondo, ciascuno secondo la propria condizione e i propri compiti» (n. b).

In secondo luogo l’esortazione illustra la posizione ontologico-funzionale del vescovo che sta «di fronte» agli altri fedeli sulla base della pienezza del sacramento dell’ordine che ha ricevuto. Questa posizione implica un inequivocabile diritto-dovere di governo. Il testo così continua:

«La comunione ecclesiale nella sua organicità chiama in causa la responsabilità personale del vescovo, ma suppone anche la partecipazione di tutte le categorie di fedeli, in quanto corresponsabili del bene della Chiesa particolare che essi stessi formano. Ciò che garantisce l’autenticità di tale comunione organica è l’azione dello Spirito, il quale opera sia nella responsabilità personale del vescovo, sia nella partecipazione ad essa dei fedeli. È lo Spirito infatti che, fondando l’uguaglianza battesimale di tutti i fedeli come anche la diversità carismatica e ministeriale di ciascuno, è in grado di attuare efficacemente la comunione. Sulla base di questi principi si reggono i sinodi diocesani (cann. 460-468) […]. Alla sostanza di tali norme dovranno attenersi le altre assemblee diocesane, che il vescovo presiederà non abdicando mai alla sua specifica responsabilità» (n. 44f).

La sinodalità implica un nuovo stile di esercizio dell’autorità; esercizio che non deve essere fondato su «rivendicazioni» né su alterazioni teologiche del corretto rapporto tra Vescovo e porzione di popolo di Dio, ossia tra ministero ordinato e sacerdozio comune. Lo sviluppo della sinodalità non deve avvenire a scapito dell’autorità del vescovo ma nemmeno della partecipazione di tutte le categorie di fedeli. d) Nella Chiesa particolare la comunione e la missione del vescovo va vista il rapporto al presbiterio, alla vita consacrata e ai laici. Nel territorio, la Chiesa particolare si rende presente soprattutto con le parrocchie. Altre strutture di comunione sono le foranie, i decanati, le prefetture o strutture simili per il coordinamento delle parrocchie. Occupa un posto centrale, nel servizio pastorale, la famiglia, che rispecchia in sé la realtà di una Chiesa domestica, dove si rende viva la presenza di Cristo. Anche movimenti e aggregazioni trovano nel vescovo la loro relazione concreta che li fa essere Chiesa. (Nota : i nn. 6-9 che seguono, sono stati elaborati in un seminario interdisciplinare che aveva come tema “la sinodalità oggi”. Sono riportati integralmente per coglierne l’unità di sviluppo. Il testo è pubblicato nel volume: S. MAGGIANI – P. CIARDELLA (a cura di), La comunicazione della fede: il Vangelo, la Chiesa e la cultura, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006). 6. Partecipazione, collaborazione, corresponsabilità nelle società umane

La sinodalità ha a che fare con il governo della Chiesa e sottolinea, in questo ambito, la partecipazione, la collaborazione e la corresponsabilità. L’incarnazione storica della Chiesa e l’inculturazione richiedono un confronto con le esperienze di partecipazione, collaborazione e corresponsabilità che si riscontrano nelle società umane in riferimento all’esercizio del potere. Il confronto è problematico54. 54 La ricezione teologica della democrazia è stata tardiva e ridotta. La riflessione appare limitata alle questioni storiche e filosofiche, poco attenta alla democrazia esistente. Quando si parla oggi di democrazia non ci si riferisce ad un ‘valore’, ma ad una pluralità di elementi che ruotano attorno ad un centro: la legittimazione dell’esercizio del potere. La democrazia moderna, afferma un noto studioso della democrazia, è «un sistema pluripartitico nel quale la maggioranza espressa dall’elezione governa nel rispetto dei diritti delle minoranze»; e ancora: la democrazia è «la procedura e/o il meccanismo che a) genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale b) attribuisce potere al popolo e c) specificamente impone la rispondenza degli eletti nei confronti degli elettori» (G. SARTORI, «Democrazia», in ISTITUTO PER L’ENCICLOPEDIA ITALIANA, Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1993, pp. 742-750). La

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Negli Stati contemporanei la sovranità appartiene al popolo, è esercitata attraverso la rappresentanza e la delega, l’appartenenza è necessaria. Partecipazione e corresponsabilità sono delegate ai politici, che nelle periodiche consultazioni elettorali sono sottoposti a verifica.

Nella Chiesa precede l’elezione da parte di Dio, l’uomo risponde a Dio credendo volontariamente, Dio stesso stabilisce gli assi portanti del suo popolo (Lumen gentium, n. 9). Parola di Dio e sacramenti sono i beni fondamentali ai quali i fedeli hanno diritto di accedere. È compito dei pastori trasmettere tali beni. Partecipazione e corresponsabilità si concretizzano nella condivisione dei beni della salvezza affidati da Cristo alla sua Chiesa. Il ministero pastorale non è affidato attraverso il ‘suffragio popolare’, ma per partecipazione sacramentale, attraverso l’imposizione delle mani, al ministero salvifico di Cristo stesso.

In quest’ottica la dimensione sinodale risalta in tutta la sua funzionalità al discernimento che nella Chiesa non può mai mancare. La carta costituzionale della Chiesa non è riducibile alle carte costituzionali dei popoli e degli Stati.

Nel periodo successivo al concilio Vaticano II si è discussa la questione se vi sia affinità tra la Chiesa e la democrazia, se siano presenti valori democratici nella costituzione della Chiesa. Il dibattito fu ampio e vivace, non privo di punte polemiche55. Fu Karl Rahner a sottolineare che la Chiesa mostra nei confronti della democrazia un’affinità radicale, addirittura più forte di quella presente nella società civile56.

Anche la presenza di valori democratici nella costituzione della Chiesa ha trovato solide conferme. Nella Chiesa hanno una patria naturale le «strutture antropologiche di base» sulle quali si fonda e fa leva lo spirito democratico.

Il Nuovo Testamento mostra ampiamente che la vita comunitaria in esso annunciata e promossa è indissolubilmente legata a valori di partecipazione e solidarietà, i quali costituiscono l’anima più vera di ogni democrazia57. Sono tali la libertà (Gal 5,1; Gc 1,25; 2,12), l’uguaglianza, basata sul fondamento della filiazione divina (Mt 28,8-9; Gal 3,28) e la fraternità, intesa come esercizio attivo dell’essenza più intima che ci fa uomini58. È da segnalare, poi il principio che democrazia oggi si presenta come strumento di tutela dei singoli nei confronti dello strapotere assunto dallo stato moderno. La controllabilità del potere è realizzata attraverso l’esercizio del voto. 55 Si veda: K. RAHNER, «Democrazia nella Chiesa», in La grazia come libertà, Paoline, Roma 1970, pp. 129-159 (originale tedesco, in Stimmen der Zeit 182, 1968, p. 1ss).; J. RATZINGER – H. MAIER, Democrazia nella Chiesa. Possibilità e limiti, (GdT 312), Editrice Queriniana, Brescia 2005 (originale tedesco 1970, nuove edizioni 2000, 2005²). Si vedano le riletture proposte dai due autori, trent’anni dopo (pp. 92-109, 110-117). A volte la democrazia è scambiata con uno degli strumenti della sua attuazione e identificata in pratica con l’applicazione del principio di maggioranza, quale elemento della formazione della decisione. Un altro principio fondamentale della democrazia è la divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), che sottrae il campo giudiziario al principio di maggioranza: il giudice sottostà unicamente al criterio del diritto e le sue sentenze sono sottratte ai partiti. Nell’occidente è principio democratico riconosciuto il diritto dei cittadini di costituire libere associazioni, il diritto delle confessioni religiose di godere di propri spazi di autonomia interna ed esterna. La democrazia nel suo complesso è come un sistema di libertà che si limitano e si sostengono a vicenda, libertà che da un lato si preoccupano di tutelare il diritto e la dignità dei singoli, ma che nello stesso tempo rendono possibile una cooperazione di tutti utile al bene comune. A volte, tra i teologi, la democrazia appare come una promessa escatologica; va considerata, invece, come un processo storico, sociologico e filosofico, già in atto, con luci e ombre. 56 Infatti, sosteneva Rahner, le persone appartengono alla società civile, per il puro fatto della nascita; invece «la Chiesa, intesa come complesso sociale, si fonda unicamente sulla libera fede dei suoi membri». Così che «mentre (…) tutto ciò che è democratico nella società statale appare un movimento in contrapposizione all’appartenenza obbligata come dato previo, nella Chiesa la libera associazione non è solo un obiettivo, ma anche il presupposto della società ecclesiale. Il senso e l’obiettivo ultimi di ogni democrazia sono, quindi, un presupposto della Chiesa» (La grazia come libertà, pp. 129.115). 57 Cf. R. PESCH, «Fondamenti neotestamentari per una forma democratica di vita ecclesiale», in Concilium, n. 3/1971. 58 Cf. J. RATZINGER, La fraternità cristiana, (GdT 311), Queriniana editrice, Brescia 2005.

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l’unico comportamento legittimo, da parte di chi detiene un comando o un ufficio, è sempre quello dell’umile servizio e di una profonda comunione nel comune lavoro (Gv 13,12-15).

Una forma peculiare di partecipazione nella Chiesa è quella espressa dalla celebre formula di Cipriano, accolta dalla tradizione: niente senza il vescovo, niente senza il vostro (del presbiterio) consiglio, niente senza il consenso del popolo («nihil sine episcopo, nihil sine consilio vestro, nihil sine consensu plebis»)59.

Queste considerazioni vanno comprese nella loro verità radicale e irrinunciabile. Anche se il vissuto ecclesiale le può oscurare, esse costituiscono norma e criterio di giudizio e di rinnovamento.

Va preso in esame l’influsso del contesto culturale partecipativo sui fedeli cristiani, sulle comunità, sulle Chiese. Occorre chiedersi, con realismo, a quali condizioni sia possibile il confronto con le esperienze di partecipazione che si riscontrano nelle società umane in riferimento al governo.

La funzione di governare che è attuata nella Chiesa presenta tratti analoghi alla funzione di governare degli Stati. La Chiesa può trarre vantaggio dalle istituzioni e dai modi di governare propri delle società civili (Gaudium et spes, n.44). Le scienze sociali, come pure la scienza politica, le scienze della gestione e dell’organizzazione possono offrire utili aiuti alla complessa vita ecclesiale.

Tuttavia, c’è un enunciato di natura teologica che non può essere mai dimenticato o sostituito: Cristo sta all’origine della Chiesa. La carta costituzionale della Chiesa è fissata in modo scultoreo dal concilio Vaticano II con queste parole: «Questo popolo messianico ha per capo Cristo […], ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio […], ha per legge il nuovo precetto d’amare come lo stesso Cristo ci ha amati […], ha per fine il regno di Dio» (Lumen gentium, n. 9). Ciò è frutto dei sacramenti, in particolare dell’Eucaristia. È l’insegnamento di San Paolo: «Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi» (1 Cor 12,13); «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (ivi, 10,17); «Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (ivi, 12,27). Di nessuno Stato si può affermare che i cittadini hanno tra loro un legame sacramentale-ontologico di natura trascendente come avviene nella Chiesa.

Poste le premesse per un corretto confronto, possiamo ora entrare in dialogo sugli aspetti concreti dell’organizzazione della Chiesa. 7. Origine e fondamento della sinodalità

In prospettiva ecclesiale, la sinodalità esprime l’attitudine di tutti i fedeli a partecipare, in

forza del loro battesimo, alla vita attiva della Chiesa, all’edificazione del suo Corpo. Sinodalità significa che ogni battezzato, essendo membro della comunità ecclesiale, si sente parte in causa nell’attuazione del bene comune fondamentale della Chiesa, la vita nuova in Cristo e la comunione.

La lista degli organi consultivi istituiti dal diritto canonico dopo il concilio Vaticano II è ragguardevole: si tratta di consigli presbiterali (can. 495), pastorali (cann. 511; 536), economici (cann. 492; 537), del sinodo diocesano (can. 460), del collegio dei consultori (can. 502). Tutte queste istituzioni hanno favorito l’inserimento del vescovo nella sua diocesi e hanno permesso l’esercizio della sinodalità al maggior numero di persone. Hanno contribuito a dare attuazione all’auspicio che si legge nella costituzione Lumen gentium: «Questi (= i sacri pastori ossia i vescovi), aiutati dall’esperienza dei laici, possono dare un giudizio più chiaro e più opportuno sia in materia spirituale che temporale; cosicché la Chiesa intera, fortificata da tutti i suoi membri, possa svolgere con maggior efficacia la sua missione per la vita del mondo» (n. 37d). Il Codice di diritto canonico del 1983 riconosce ai fedeli il diritto/dovere di partecipare in pienezza alla missione della

59 «A quello che mi hanno scritto i nostri presbiteri Donato, Fortunato, Novato e Gordio non ho potuto rispondere da solo, dal momento che ho stabilito fin dall’inizio dell’episcopato di non fare nulla privatamente di testa mia senza il vostro consiglio e senza il consenso del popolo» (Ep. 14,4); - «Per cui devi sapere che il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel vescovo e che se uno non è con il vescovo non è nella Chiesa» (Ep. 66,8): SAN CIPRIANO, Opere, UTET, Torino 1980, pp. 472, 659.

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Chiesa (can. 211) e di dare il proprio apporto, anche qualificato e competente, ai pastori (can. 212, § 3)60.

In molte Chiese particolari si sono fatti sforzi importanti per tendere a una vita sinodale più intensa. Ciò ha condotto alla creazione di nuove pratiche sinodali, accanto a quelle più antiche e già codificate61. Si possono indicare alcuni principi che stanno all’origine e a fondamento della sinodalità:

- la reale uguaglianza e unità dei battezzati tra loro (can. 208); - il principio trinitario: «La Chiesa intera appare come il popolo adunato nell’unità del

Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium, n. 4); - il principio della comunione: nella sua dimensione più intima, (la Chiesa) è un mistero

di comunione nella Trinità (Unitatis Redintegratio, n. 15). La comunione sta nel cuore dell’autocoscienza della Chiesa ed è il legame che la esprime come realtà umana, come comunità dei Santi e come corpo di Chiese; la comunione infatti esprime anche la realtà della Chiesa particolare;

- il principio della partecipazione: tutti i cristiani, sia singolarmente sia associati tra loro, hanno il diritto e il dovere di collaborare, ciascuno secondo la propria vocazione particolare e secondo i doni ricevuti dallo Spirito Santo, alla missione che Cristo ha affidato alla Chiesa (cf. cann. 211; 216; 225, § 1; 227).

Il principio trinitario ha una particolare rilevanza tra i principi che fondano la sinodalità. La

riflessione sul mistero della Trinità e sul mistero di Cristo illumina e penetra le relazioni a-simmetriche nella Chiesa comunione.

I principi enunciati e l’accezione ampia di sinodalità accolta dalla teologia e dalla canonistica, trovano fondamento e sviluppo in due documenti recenti correlati tra loro:

- GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinod ale Pastores gregis (16.10.2003), nn. 43-44; - CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi

Apostolorum successores, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, cap. IV, nn. 55 ss.

8. Un esempio di vita sinodale: Pastores gregis, nn. 43-44

Ci soffermiamo su un testo che, a nostra avviso, intende ridare vita alla sinodalità nella

Chiesa particolare, riscoprendo il legame che esiste fra i fedeli e il vescovo, in forza del battesimo. Facciamo riferimento all’esortazione post-sinodale di Giovanni Paolo II Pastores gregis, nn.43-44. Si legge al n. 44:

«La comunione ecclesiale vissuta porterà il vescovo ad uno stile pastorale sempre più aperto

alla collaborazione di tutti. Vi è una sorta di circolarità tra quanto il vescovo è chiamato a decidere con responsabilità personale per il bene della Chiesa affidata alla sua cura e l’apporto che i fedeli gli possono offrire attraverso gli organi consultivi (…). La Chiesa particolare, infatti, non dice riferimento soltanto al triplice ministero episcopale (munus episcopale), ma anche alla triplice funzione profetica, sacerdotale e regale dell’intero popolo di Dio. (…) Il vescovo è responsabile della realizzazione di questa unità nella diversità, favorendo (…) la sinergia di diversi operatori, così

60 «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa». 61 Cf. B. FRANCK, Actualité nouvelle des synodes: le Synode commun des diocèses allemands (1971-1975), Paris 1980; IDEM, «Esperienze sinodali nazionali postconciliari in Europa», in Concilium 5 (1980), pp. 112-131. Merita attenzione l’annotazione di J. Ratzinger: «La democratizzazione nella Chiesa – di questo sono fermamente convinto – non può consistere nell’istituire un numero ancora maggiore di organi in cui si vota, ma consiste piuttosto nel concedere più spazio a ciò che è vivo e alla sua multiformità» (J. RATZINGER – H. MAIER, Democrazia nella Chiesa. Possibilità e limiti, (GdT 312), Editrice Queriniana, Brescia 2005, p. 109).

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che sia possibile percorrere insieme il comune cammino di fede e di missione. (…) La comunione ecclesiale nella sua organicità chiama in causa la responsabilità personale del vescovo, ma suppone anche la partecipazione di tutte le categorie di fedeli, in quanto corresponsabili del bene della Chiesa particolare che essi stessi formano» (n. 44).

Secondo il testo citato, la comunione ecclesiale nella sua organicità chiama in causa sia la

responsabilità personale del vescovo, sia la partecipazione di tutte le categorie di fedeli, in quanto corresponsabili del bene della Chiesa particolare che essi stessi formano. Non c’è solo la responsabilità del vescovo, afferma l’esortazione post-sinodale, c’è anche la responsabilità dei fedeli. Anch’essi sono chiamati a cooperare all’edificazione del Corpo di Cristo e ad attuare la missione che Dio ha affidato da compiere nel mondo. I fedeli sono parte in causa nell’attuazione del bene comune ecclesiale fondamentale che è la comunione dell’uomo con Dio e degli uomini tra di loro. A questo livello, vescovo e fedeli vengono a trovarsi in una sorta di circolarità, che non elimina le peculiarità che sono esclusive del vescovo (in particolare non elimina il munus episcopale che comporta la sacra potestas ), ma esalta l’uguaglianza nella dignità e nella missione (Lumen gentium, n. 32; cann. 204, § 1; 208). Non è senza significato che l’esortazione Pastores gregis abbia voluto iniziare la riflessione sullo “stile pastorale di governo” e sulla “comunione diocesana” (n. 44), con l’approfondimento sulla necessaria correlazione tra ministero ordinato ed esercizio del sacerdozio comune dei fedeli a partire dal battesimo, quindi dalla reale uguaglianza e unità dei battezzati tra loro. Siamo così abituati a sottolineare la responsabilità personale del vescovo nel governo della diocesi, in particolare la sua responsabilità decisionale, che corriamo il rischio di dimenticare quella dei fedeli o di privarla del suo peso effettivo. Va anche aggiunto che richiamare la responsabilità dei fedeli non significa mettere in questione quella peculiare del vescovo o imporre nella Chiesa i criteri della democrazia pluripartitica e maggioritaria. Qui si tratta di “stile comunionale” di governo del vescovo, non di “governo democratico”. Il governo pastorale della diocesi avrà uno «stile comunionale» nella misura in cui si realizza la «circolarità tra la responsabilità personale del vescovo riguardo al bene della Chiesa a lui affidata e la corresponsabilità di tutti i fedeli rispetto al bene della stessa» (Pastores gregis, n. 10).

In breve: i cristiani e i loro pastori sono dei fratelli, uguali in dignità, diversi in quanto a funzioni, solidali nella responsabilità. Deve essere impegno di tutti ricuperare l’interdipendenza tra ministri ordinati e la porzione di popolo di Dio che costituisce la Chiesa particolare, vale a dire mettere in opera la sinodalità fondamentale della Chiesa.

9. Sinodalità come stile di azione

Sinodalità è un concetto che investe l’intera azione ecclesiale. Significa «camminare

insieme» nella comunione nell’attuazione delle funzioni di insegnare, santificare e governare. Una comunione sinodale si costruisce nella continuità. Significa progettare e discernere insieme, verificare i risultati ottenuti per quanto deciso e realizzato, ri-orientare i metodi, gli strumenti, la direzione del cammino. Significa non considerare i soggetti come puramente strumentali agli obiettivi prefissati. Si tratta di ripensare continuamente i modi di camminare, di organizzare, di decidere.

Il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi «Apostolorum successores» elenca alcuni principi dai quali il vescovo si lascerà guidare nel governo della diocesi. Si tratta del «principio del rispetto delle competenze»62, «del principio della persona giusta al posto giusto»63, «del principio di

62 «Il vescovo, nel guidare la Chiesa particolare, attuerà il principio secondo il quale ciò che altri possono svolgere bene il vescovo ordinariamente non lo accentra nelle sue mani; anzi, si mostra rispettoso delle legittime competenze altrui, concede ai collaboratori le opportune facoltà e favorisce le giuste iniziative, sia individuali sia associate, dei fedeli. Il vescovo ritenga suo dovere non solo stimolare, incoraggiare e accrescere le forze che operano nella diocesi, ma anche coordinarle tra loro, salvi sempre la libertà e i diritti legittimi dei fedeli; così si evitano dannose dispersioni, inutili

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giustizia e di legalità»64. Tutto ciò sarà possibile se il vescovo avrà della diocesi una conoscenza approfondita e continuamente aggiornata.

Coordinare e far partecipare tutte le forze diocesane alla missione della Chiesa richiede, da parte del vescovo, riflessione intensa e confronto ‘sinodale’. Sarà dovere del vescovo impegnarsi perché non manchino i luoghi d’incontro, da attuare nella comunione in conformità alla disciplina della Chiesa. «Il vescovo – conclude il n. 44 dell’esortazione Pastores gregis – si sforzerà di suscitare nella sua Chiesa particolare strutture di comunione e di partecipazione, che consentano di ascoltare lo Spirito che vive e parla nei fedeli, per poi orientarli a porre in atto quanto lo stesso Spirito suggerisce in ordine al vero bene della Chiesa».

Per raggiungere gli scopi illustrati, il vescovo dovrà sempre meglio valorizzare gli organismi di partecipazione, come i consigli presbiterali, pastorali e per gli affari economici. Essi non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano in via consultiva e non deliberativa; non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza65. È questo un punto d’equilibrio assai delicato e pienamente comprensibile solo all’interno della logica ecclesiale della comunione. Tra pastori e fedeli deve realizzarsi un ascolto reciproco e veritiero. La collaborazione dei fedeli, soprattutto dei laici e dei consacrati preparati e competenti, va promossa con convinzione. La consultività non può ridursi ad una formale richiesta di pareri da parte di un’autorità (il vescovo) che è libero, poi, di agire come meglio crede. Per quanto il vescovo non sia formalmente obbligato ad accedere al parere espresso dai membri del consiglio, egli non può discostarsi dal loro punto di vista, specialmente se concorde, se non in presenza di una ragione prevalente66.

Governare la Chiesa è ben diverso dal governare un’azienda, un’impresa, un partito, uno Stato67. doppioni, deleterie discordie»: CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi «Apostolorum successores», n. 60. 63 «Nel conferire gli uffici all’interno della diocesi, il vescovo sia guidato unicamente da criteri soprannaturali e dal solo bene pastorale della Chiesa particolare. Perciò egli guardi anzitutto al bene delle anime, rispetti la dignità delle persone e ne utilizzi le capacità, nel modo più idoneo e utile possibile, a servizio della comunità, assegnando sempre la persona giusto al posto giusto»: ivi, n. 61. 64 «Il vescovo nel guidare la diocesi si atterrà al principio di giustizia e di legalità, sapendo che il rispetto dei diritti di tutti nella Chiesa esige la sottomissione di tutti, incluso egli stesso, alle leggi canoniche. I fedeli infatti hanno il diritto di essere guidati tenendo presenti i diritti fondamentali della persona, quelli dei fedeli e la disciplina comune della Chiesa, a tutela del bene comune e di quello dei singoli battezzati. Tale esempio del vescovo condurrà i fedeli ad assolvere meglio i doveri di ciascuno nei confronti degli altri e della stessa Chiesa. Egli eviterà di governare secondo visioni e schemi personalistici riguardanti la realtà ecclesiale»: ivi, n. 62. 65 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte al termine del grande giubileo dell’anno duemila (6 gennaio 2001), n. 45, in AAS 93 (2001), pp. 266-309: EV 20/88. 66 Cf. cann. 212, § 3 ; 127, § 2,2. 67 Cf. G. ROUTHIER, «Gouverner en Église : entre gestion pastorale et gouvernement spirituel», Précis de théologie pratique, sous la direction de Gilles Routhier et Marcel Viau, Novalis - Lumen Vitae, Montréal – Bruxelles, 2004, pp. 637-649, 651-664 ; J.-M. R. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Les Éditions du Cerf, Paris 1995.

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APPENDICE

DOCUMENTI - Marco 3,13-19; Matteo 10,1-4; Luca 6, 12-16 (sinossi) - GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica motu proprio Apostolos suos sulla natura teologica e giuridica delle Conferenze episcopali (21 maggio 1998), in AAS 90 (1998), pp. 641-658. - CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione (28 maggio 1992), in AAS 85 (1993), pp. 839-850, n. 9. - CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa. Considerazioni (31 ottobre 1998). - COMMISSIONE MISTA CATTOLICI-ORTODOSSI, Il documento di Ravenna: Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità (Ravenna 13 ottobre 2007), in Il Regno documenti 52 (2007), pp. 708-714 (originale in lingua inglese: Ecclesiological and canonical consequences of the sacramental nature of the Church. Ecclesial communion, conciliarity and authority, Ravenna 13 october 2007).

La sinodalità nel magistero e nella prassi pastorale di Papa Francesco - FRANCESCO, Discorso pronunciato sabato 17 ottobre, durante la commemorazione del cinquantesimo anniversario del Sinodo dei Vescovi, Mentre è in pieno svolgimento l’Assemblea generale ordinaria, in L’Osservatore romano, domenica 18 ottobre 2016, pp. 4-5. - L. FORESTIER, «Le pape François et la synodalité. Evangelii gaudium, nouvelle étape dans la réception de Vatican II», in Nouvelle Revue Theologique 137 (2015) 597-614. - A. BORRAS, «Trois expressions de la synodalité depuis Vatican II», in Ephemerides Theologicae Lovanienses 90/4 (2014) 643-666.

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TEMI DI APPROFONDIMENTO

1) Primato e collegialità episcopale nella ecclesiologia di Joseph Ratzinger. Lettura di base: H. POTTMEYER, «Primato – collegialità episcopale nella ecclesiologia eucaristica di Joseph Ratzinger», in R. LA DELFA (ed.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova, Roma 2008, pp. 71-90.

2) Il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare: in quibus et ex quibus.

Lettura di base: D. VITALI, Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnago (BI), 2014, pp. 20-27, 45-52; oppure: R. Repole. «Natura ed esercizio collegiale dell’autorità episcopale: per quale Chiesa? Il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare: in quibus et ex quibus», in Credere oggi, XXXIV (2014), n. 2 – 200, pp. 7-17.

3) Collegialità episcopale ed ecumenismo: processi – la situazione.

Lettura di base: H. LEGRAND, «La collegialità dal Vaticano II in poi. Analisi ecumenica dell’elaborazione dottrinale occidentale», in R. LA DELFA (ed.), Primato e collegialità. “Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese”, Città Nuova, Roma 2008, pp. 91-120. Oppure: A. MAFFEIS, La sinodalità come opportunità ecumenica (8.02.2016). Lettura suggerita: G. GASSMANN,, «La sinodalità e il cammino ecumenico delle Chiese», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, Edizioni Glossa, Milano 2007, pp. 129-162.

4) Chiese particolari e Chiesa universale: la discussione prima e dopo la Lettera

Communionis notio (1992). Conclusioni. Lettura di base: E. CASTELLUCCI, La famiglia di Dio nel mondo. Manuale di ecclesiologia, Cittadella Editrice, Assisi, 2008, pp. 474-485; A. MILTOS, «Le Chiese locali e la Chiesa universale», in Il Regno documenti, n. 17, 2013, pp. 568-576 (rilettura ortodossa della disputa tra Kasper e Ratzinger):

5) La sinodalità dopo il Vaticano II.

Lettura di base: G. ALBERIGO, «La sinodalità dopo il Vaticano II», in M. FABRI DOS ANJOS, Vescovi per la speranza del mondo, EDB, Bologna 2001, pp. 99-113. Lettura suggerita: P. CODA, «Coscienza sinodale del popolo di Dio. Rinnovamento a cinquant’anni dal concilio Vaticano II», in Il Regno attualità LIX (2014), pp. 429-434.

6) … … … … … …

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INDICE Presentazione del corso 10472 – Orientamento bibliografico 1-7 Capitolo 1° - LA COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA Il capitolo 3° della Lumen gentium: storia, testo, commento 8-34 Capitolo 2° - LA RECEZIONE DEL CAPITOLO 3° DELLA LUMEN GENTIUM: nei documenti posteriori al concilio Vaticano II, nei Codici latino e orientale 35-71 Capitolo 3° - LA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: fondamenti biblici e sue attuazioni nella Chiesa antica 72-85 Capitolo 4° - ESPRESSIONI DELLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE LUNGO I SECOLI: nella tradizione latina - nella tradizione orientale 86-96 Capitolo 5° - QUESTIONI APERTE SULLA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE: IERI E OGGI – PROSPETTIVE 97-111 Capitolo 6° - LA SINODALITÀ. 112-133 APPENDICE – DOCUMENTI – TEMI DI APPROFONDIMENTO 134-135 INDICE 136