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Una recente storia dei fascismo I. La recente ristampa in edizione economica della Storia del movimento e del regime fasci- sta di Enzo Santarelli costituisce senza dubbio un’occasione utile per aprire la discussione su un’opera che, al di là dei guidizi specifici che se ne danno, è a tutt’oggi la sintesi di più ampio respiro sull’Italia fascista, incomparabilmente più aperta e stimolante di un’opera chiaramente datata come la Storia d’Italia nel periodo fascista di Salvatorelli e Mira, non confrontabile, per la ricchezza di dati e informazioni che contiene, con la brevissima seppur felice Storia del fascismo di Giampiero Carocci. Il lavoro di Santarelli è anche la sola sintesi sul periodo che abbia prodotto (a parte il Ca- rocci e le pagine dedicate al fascismo dal Procacci nella sua Storia degli italiani) in quasi trent’anni la storiografia italiana d’indirizzo marxista e, come tale, merita particolare at- tenzione in sede di riesame critico di taluni dei molti problemi ancora aperti sulle origini, ma soprattutto sulla struttura del regime fascista. Recenti studi monografici, convegni, dibattiti storiografici hanno segnato un indubbio progresso rispetto agli anni in cui l’opera a cui mi riferisco venne concepita e stesa e non sarà privo d’interesse sottoporre anche in questo senso a una verifica l’impostazione e le conclusioni cui giunge Santarelli nella sua Storia ‘. Fermiamoci in primo luogo sul problema delle origini. A sottolineare il nesso fortissimo tra liberalismo e fascismo, l’autore dedica cento pagine all’Italia giolittiana e alla grande guerra, fermando la propria attenzione su quegli aspetti politici e sociali in grado di fornire indicazioni sulla nascita e sulle matrici essenziali del fenomeno fascista. Sono — né potrebbero essere altrimenti — rapide osservazioni su un periodo e su problemi che attendono ancora di essere indagati e ricostruiti in maniera approfondita sul piano scientifico. E mi limiterò a segnalare di questa parte alcuni punti nodali che meriterebbero, a mio avviso, una tratta- zione più problematica di quella dedicata ad essi dall’autore.1 1 La Storia del movimento e del regime fascista apparve in due volumi presso gli Editori Riuniti, Roma, nel 1967 ed è stata ripubblicata dalla medesima casa editrice nel 1973 senza modifiche, salvo l’aggiunta di una bibliografia essenziale. Le citazioni nel testo sono tratte dalla prima edizione. L ’opera di Santarelli usci dunque dopo tre opere di notevole rilievo sulla crisi dello stato liberale e le origini del fascismo: l’Italia neutrale di Brunello Vigezzi (Ricciardi, Milano, 1965), i primi due volumi del Mussolini di Renzo De Felice (Einaudi, Torino, 1965-1966) e II dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo vol. I di Roberto Viva- relli (Ricciardi, Milano-Napoli, 1967), dell’ultima della quale l’autore non ha potuto avva- lersi nella stesura della sua sintesi. Un discorso a parte dovrà farsi per l’Italia dalla dittatura alla democrazia (Lerici, Milano, 1962) di Franco Catalano, di cui non mi occupo in questa sede.

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Una recente storia dei fascismo

I. La recente ristampa in edizione economica della Storia del movimento e del regime fasci­sta di Enzo Santarelli costituisce senza dubbio un’occasione utile per aprire la discussione su un’opera che, al di là dei guidizi specifici che se ne danno, è a tutt’oggi la sintesi di più ampio respiro sull’Italia fascista, incomparabilmente più aperta e stimolante di un’opera chiaramente datata come la Storia d’Italia nel periodo fascista di Salvatorelli e Mira, non confrontabile, per la ricchezza di dati e informazioni che contiene, con la brevissima seppur felice Storia del fascismo di Giampiero Carocci.

Il lavoro di Santarelli è anche la sola sintesi sul periodo che abbia prodotto (a parte il Ca­rocci e le pagine dedicate al fascismo dal Procacci nella sua Storia degli italiani) in quasi trent’anni la storiografia italiana d’indirizzo marxista e, come tale, merita particolare at­tenzione in sede di riesame critico di taluni dei molti problemi ancora aperti sulle origini, ma soprattutto sulla struttura del regime fascista. Recenti studi monografici, convegni, dibattiti storiografici hanno segnato un indubbio progresso rispetto agli anni in cui l ’opera a cui mi riferisco venne concepita e stesa e non sarà privo d ’interesse sottoporre anche in questo senso a una verifica l’impostazione e le conclusioni cui giunge Santarelli nella sua Storia ‘ .

Fermiamoci in primo luogo sul problema delle origini. A sottolineare il nesso fortissimo tra liberalismo e fascismo, l’autore dedica cento pagine all’Italia giolittiana e alla grande guerra, fermando la propria attenzione su quegli aspetti politici e sociali in grado di fornire indicazioni sulla nascita e sulle matrici essenziali del fenomeno fascista. Sono — né potrebbero essere altrimenti — rapide osservazioni su un periodo e su problemi che attendono ancora di essere indagati e ricostruiti in maniera approfondita sul piano scientifico. E mi limiterò a segnalare di questa parte alcuni punti nodali che meriterebbero, a mio avviso, una tratta­zione più problematica di quella dedicata ad essi dall’autore. 1

1 La Storia del movimento e del regime fascista apparve in due volumi presso gli Editori Riuniti, Roma, nel 1967 ed è stata ripubblicata dalla medesima casa editrice nel 1973 senza modifiche, salvo l ’aggiunta di una bibliografia essenziale. Le citazioni nel testo sono tratte dalla prima edizione. L ’opera di Santarelli usci dunque dopo tre opere di notevole rilievo sulla crisi dello stato liberale e le origini del fascismo: l ’Italia neutrale di Brunello Vigezzi (Ricciardi, Milano, 1965), i primi due volumi del Mussolini di Renzo De Felice (Einaudi, Torino, 1965-1966) e II dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo vol. I di Roberto Viva- relli (Ricciardi, Milano-Napoli, 1967), dell’ultima della quale l ’autore non ha potuto avva­lersi nella stesura della sua sintesi. Un discorso a parte dovrà farsi per l’Italia dalla dittatura alla democrazia (Lerici, Milano, 1962) di Franco Catalano, di cui non mi occupo in questa sede.

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Anzitutto, la crisi di fine secolo in Italia. Santarelli non risparmia critiche giuste — e con­divise da chi scrive •—- all’esperimento riformistico giolittiano ma, sull’onda di una inter­pretazione largamente diffusa e abbracciata da scrittori di diverse tendenze, inclusa quella marxista (anche se non sono mancate negli ultimi tempi voci tendenti a una revisione radi­cale come C. Pinzani nella sua Crisi di fine secolo in Toscana), tende ad offrire degli anni che vanno dalla crisi di Adua all’avvento del ministero Zanardelli-Giolitti una visione troppo ottimistica, improntata a distinzioni troppo nette nell’ambito della classe politica liberale e, quindi, a una sopravvalutazione del ruolo « progressivo » esercitato dai giolittiani. Il che viene a trovarsi poi, più o meno implicitamente, in contrasto con un’analisi spregiudicata dei limiti gravissimi che caratterizzarono la politica giolittiana nella prima, e ancor di più, nella sua seconda fase, quella degli anni intorno al ’10, dell’impresa di Libia e delle avances discrete al movimento cattolico, da una parte, ai circoli nazionalisti dall’altra2. Una simile interpretazione del giolittismo, d ’altronde, non è la più adatta a cogliere il sorgere e l ’evol­versi di quell’ideologia corporativistica che impronterà di sé negli anni venti e trenta non solo il movimento fascista ma larghe zone e settori dell’intellettualità europea, anche se attestata all’opposizione nei confronti di Mussolini e del suo movimento, e che — io credo — non si spiega soltanto con il richiamo all’importanza e al peso, che pur vanno sottolineati più di quanto si sia fatto finora, dell’ideologia cattolica, dell’integralismo cattolico in particola­re, ma che va anche ricercata in un’analisi attenta, di tipo socio-istituzionale dell’Italia gio­littiana, come di recente si è incominciato a fare, sia pure in maniera ancora frammentaria e parziale 3.

Di fronte alla grande guerra, Santarelli ha pagine efficaci e nuove, soprattutto tenendo con­to degli anni in cui la sua opera nacque, e a ragione mette in luce le ragioni di fondo che permisero a Mussolini, una volta espulso dal Partito socialista per il suo inter­ventismo, di conservare — sia pure tra difficoltà — uno spazio politico. Meno convincente appare la deduzione che l ’autore ricava da questa impostazione a proposito del « rivoluziona- rismo » di Mussolini, su cui chi scrive ha già a lungo discusso in altra occasione, e che in ogni caso non riceve una decisiva conferma né dal fatto — innegabile — che il futuro « du­ce » intuì precocemente gli ostacoli esistenti in Italia per una rivoluzione con obiettivi socia­listi né dal fatto — altrettanto incontestabile — che egli si pose, prima e più chiaramente degli altri interventisti provenienti dalla sinistra, il problema della conquista del potere.

L ’una e l’altra osservazione, che si possono senz’altro accettare, mostrano piuttosto il so­stanziale opportunismo dell’uomo che la direzione del suo agire politico faceva dipendere dall’esistenza o meno di concrete possibilità di successo a breve scadenza e che di comune con chi era autenticamente rivoluzionario — penso a Bordiga o a Gramsci, per intenderci — aveva soltanto un dato superficiale, passibile di accogliere contenuti assai diversi: l ’obiettivo, cioè, di rovesciare l’equilibrio di potere esistente. Troppo poco, mi pare, per parlare d ’un Mussolini « rivoluzionario » e d ’una « rivoluzione fascista », se a tali espressioni si attribuisce, come è giusto, il significato originario: che è quello del mutamento delle basi sociali su cui si regge una classe dirigente, e non solo della sostituzione di essa con uomini legati nel complesso alle medesime classi sociali4. Occorre dire, peraltro, che Santarelli

2 Per i giudizi citati nel testo cfr. E. Santarelli, Storia cit., ed. vol. I, pp. 35-95.3 Sull’Italia giolittiana e i nuovi approcci socioistituzionali all’analisi di essa v. il mio II deperimento dello stato liberale in Italia ora in Dallo stato liberale al regime fascista (Feltri­nelli, Milano, 1973), pp. 34-52 e il fascicolo Stato e amministrazione nell’Italia liberale di Quaderni Storici, n. 18, dicembre 1971.4 E. Santarelli, Storia cit. vol. I, p. 95 e segg. Per la polemica sul « rivoluzionarismo ” di

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pare introduca le definizioni cui ci si riferiva più per una suggestione legata alla esigenza di superare certe interpretazioni moralistiche del primo postfascismo che ai fini di un’inter­pretazione generale del fenomeno. Del che la conferma migliore è offerta nelle pagine succes­sive dedicate alla nascita del movimento fascista.

Qui l ’analisi si fa più limpida e precisa. Dei fasci al loro sorgere, Santarelli scrive che si tratta di « leghe e associazioni a base piccolo-borghese, ma direttamente influenzate e talora coordinate dall’ideologia e dall’organizzazione della borghesia e tendenti a delineare l’espres­sione nazionale dell’Italia, o ad impedire l ’avvento del [...] » e poco più oltre nota: « L ’ori­ginalità del fascismo venne proprio dall’accostamento del quadro ex socialista ed ex sindaca­lista alle formazioni combattentistiche che andavano germinando nel paese. Quel quadro dava al movimento una facciata di « sinistra »; quelle organizzazioni gli davano una base oggettivamente di destra. Per la prima volta in Italia nascevano le cellule, apparivano i germi, ancora incerti e scarsamente vitali, di un movimento politico fondato su una massa combattentistica e militaresca » 5.

C ’è da chiedersi, a questo punto, se le ricerche successive abbiano contribuito a confermare o a cambiare i termini dehe definizioni suggerite dall’autore. Senza poter scendere a una ras­segna, sia pure rapida, di studi recenti, direi che si possono avanzare, in sede di prima ap­prossimazione, alcune osservazioni generali: anzitutto, che la comparsa di alcune ricerche a ca­rattere locale e regionale sulla fase iniziale del fascismo ha sostanzialmente confermato la inconsistenza di una tesi che insista su un autentico « sinistrismo » dei fasci, sia pure solo nei primi mesi di vita, e ha mostrato la costante ambiguità (e meglio ancora ambivalenza) del movimento che derivava dalle sue basi sociali non meno che dalla sua ideologia. In questo senso, un’interpretazione complessiva come quella di Santarelli o come quella offerta quasi contemporaneamente da Roberto Vivarelli nel primo volume de II dopoguerra in Italia e l ’avvento del fascismo, appare, a distanza di alcuni anni, la più valida e rispondente al suc­cessivo approfondimento analitico che si inizia ora6. Mentre quelle interpretazioni che (in parte come comprensibile reazione alle insufficienti schematizzazioni della II I Internazionale e dell’antifascismo post-1945, in parte come tentativo di rivalutazione del carattere « rivolu­zionario » del fascismo ai fini di un giudizio positivo dell’equilibrio di potere nato negli anni trenta e perpetuatosi, almeno in alcuni settori, anche dopo la Liberazione) hanno teso a porre troppo in seconda linea l’essenza reazionaria del movimento fascista fin dalla riunione di S. Sepolcro e dalle prime imprese del ’19, si rivelano sempre più il prodotto di un « revisio­nismo » storiografico destinato a perder terreno a mano a mano che dalla storia dehe idee si passa all’analisi deha struttura economico-sociale dei movimenti politici come deha società italiana in tutte le sue articolazioni.

La narrazione, nel complesso esauriente ed equilibrata, che Santarelli fa del primo dopo­guerra in Italia gli consente anche un’analisi persuasiva del periodo cruciale che va dalla marcia su Roma al discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925. All’autore, che rievoca le tappe di rafforzamento del potere fascista a partire dalla fine del 1922, il ’23 appare per più

Mussolini cfr. il mio Dalla neutralità italiana alle origini del fascismo: tendenze attuali della storiografia in Dallo stato liberale cit., pp. 53-98 e il saggio di R. Vivarelli, Benito Mussolini dal socialismo al fascismo in Rivista storica italiana n. 2, 1967, pp. 428-458.5 Per le frasi riportate nel testo v. E. Santarelli, Storia cit., vol. I, pp. 99 e 101.6 Per recenti contributi su scala regionale e locale si vedano tra gli altri i significativi studi di A. Roveri sul Ferrarese, di Sechi sulla Sardegna, deha Colarizi sulla Puglia.

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ragioni e avvenimenti (dalla legge sul Gran Consiglio alla creazione della MVSN, alla nascita di una vera dissidenza fascista e di una opposizione antifascista) un anno di svolta.

A parte un’affermazione che mi sembra ardua da dimostrare sull’atteggiamento della magi­stratura e sui motivi che spingono Mussolini a pensar di costituire tribunali speciali7, lo studioso avanza un’ipotesi che vale la pena di registrare. Con la primavera del ’23 egli dice, esclusi i popolari dal governo, « nello stesso tempo il partito fascista al governo rimpolpa e rinnova la sua classe dirigente che, da popolaresca che era, tende già a tra­sformarsi, negli elementi vecchi e nuovi (specie attraverso l’acquisizione e l ’assorbimento dei nuclei intellettuali del nazionalismo, al centro e in periferia, e non soltanto nel Mezzogiorno) in una vera e propria oligarchia. » (vol. I, p. 351).

Ora non c’è dubbio che ci sia del vero nell’affermazione di Santarelli, soprattutto riguardo all’influenza che la fusione con i nazionalisti ebbe nella composizione del gruppo dirigente e dei quadri del movimento fascista, ma è necessario prima di tutto osservare come l ’affer­mazione avrebbe avuto ben altra forza se l’autore avesse potuto fondarla su una ricerca spe­cifica, non impossibile da farsi, sulla composizione sociale del PNF prima e dopo il 1923 (è questo uno dei non molti casi in cui l’assenza di indagini archivistiche non giova all’o­pera di Santarelli) e poi come, in mancanza di tali ricerche e limitandosi a tener conto di altre fonti, si giunga, almeno per ora, a conclusioni e ipotesi di lavoro meno nette e assai più sfumate.

Non mi sembra, insomma, giustificato, alla luce delle fonti esistenti e utilizzate, fissare uno stacco netto tra il gruppo dirigente e i quadri del PNF prima e dopo il 1923: in essi ab­bondò fin dall’inizio la piccola borghesia agraria e intellettuale, come fu presente la media e alta borghesia degli affari, dopo il ’19 e la prima metà del ’20. Vi furono sicuramente, e su­bito, reduci sbandati e magari autentici sottoproletari, ma — salvo eccezioni non significa­tive — sempre in posizione subalterna o addirittura marginale. Se si guardano le cose da questo punto di vista, bisogna dunque sottolineare, fino a prova contraria, che lo stato d’animo piccolo-borghese risultò prevalente, con le sue contraddizioni e confusioni, fin dai primi manifesti, programmi e azioni dei fasci di combattimento.

Per Santarelli il ’25 segna, a livello istituzionale, una frattura decisiva. Con 1 provvedimenti maturati nel biennio ’24-25, « era tutta la struttura dello Stato che veniva mutata; e non solo come svolgimento autonomo di una linea autoritaria, eversiva dell’ordinamento demo­cratico-liberale, ma in risposta diretta alle manifestazioni dell’opposizione vecchia e nuova, costituzionale e proletaria» (I, p. 398). Ma a questo proposito sarà forse opportuno chiarire meglio il discorso. La valutazione del riformismo giolittiano come svolta effettiva, compiuta dall’autore nella prima parte dell’opera, lo porta probabilmente ad accentuare il distacco e la censura tra le istituzioni liberali e quelle fasciste già nel ’24-’25 ma — se è valida l ’in­terpretazione della crisi liberale proposta in altra sede da chi scrive — il discorso del 3 gen­naio segna sì una crescita quantitativa notevole dell’autoritarismo burocratico proprio dello Stato italiano, non ancora un salto di qualità. Lo Stato diviene più decisamente uno Stato di polizia, non è ancora il regime reazionario di massa che andrà configurandosi negli anni trenta. La posizione di Santarelli su questo problema appare invece nella Storia oscillante e ancora aperta a diverse soluzioni. Più tardi, in alcuni saggi successivi al lavoro di cui si

7 Su questo punto cfr. E. Santarelli, Storia cit., vol. I, p. 33 e le mie osservazioni sul rapporto tra magistratura ordinaria e magistratura speciale nello stato fascista in Politica e magistratura nell’Italia unita in Dallo stato liberale cit., pp. 155-185.

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parla, le tesi dell’autore si preciseranno in un senso che mi pare analogo a quello suggerito in questa nota 8.

2. Con il 1926, la « svolta » si va indubbiamente precisando — come anche Fa. osserva — almeno in due direzioni fondamentali: da una parte, con la legge del 30 aprile 1926 sui contratti collettivi e sull’istituzione della magistratura del lavoro, il gruppo dirigente fasci­sta affronta il problema di dare una forma e un’etichetta alle tirate demagogiche, ai fre­quenti appelli alle masse e alla partecipazione dei lavoratori al potere nei programmi del PNF come nei discorsi del « duce ». Il corporativismo costituisce una risposta adeguata, dal punto di vista ideologico e di organizzazione del consenso, a quelle esigenze poiché mentre si riallaccia alle elaborazioni confuse ma insistenti tra la fine del secolo e l’età giolittiana dell’integralismo cattolico come del sindacalismo soreliano, nello stesso tempo corrisponde alla necessità che ha la classe dominante nel sistema capitalistico italiano di stroncare la conflittualità operaia e di procedere in tempi abbastanza brevi a una riorganizzazione e in­tensificazione dell’attività produttiva. Non occorre dire, e Santarelli lo fa vedere bene, che questo processo non s ’aw ia in maniera così chiara e coerente come può apparire da rico­struzioni storiche successive ma si dipana in maniera disordinata e contraddittoria, ora pri­vilegiando l ’uno aspetto ora l’altro, con uno spreco considerevole di energie, pagato anche questo e pesantemente dalle classi soggette, da quella operaia in particolare.

L ’altra direzione prescelta riguarda l’ulteriore industrializzazione del paese, obiettivo che rappresenta la specificazione di quell’esigenza di riorganizzazione e crescita produttiva a cui prima ci si riferiva. Su questo punto, il dibattito storiografico ha registrato di recente nuo­ve indicazioni e prese di posizione su cui non è il caso di soffermarsi9.

Nel suo lavoro, Santarelli individua, a mio avviso, alcuni elementi fondamentali del pro­cesso: sia quando scrive che negli anni venti «non esiste una politica [...] organica di industrializzazione del paese secondo scelte più o meno definite. Esiste, piuttosto, una tendenza a sviluppare questo o quel settore dell’economia nazionale, a seconda delle esi­genze dei vari gruppi di pressione» (I, p. 417), sia quando sottolinea, contro un luogo comune di certe interpretazioni del fascismo, che « l’ideologia ufficiale è quella del ritorno alla terra, ma d ’altra parte l’Italia ha bisogno per l’equilibrio della bilancia commerciale di sviluppare al massimo l’esportazione di prodotti industriali; anche una politica “ rurale” ha bisogno della grande industria: gli industriali pongono avanti questa esigenza, ma pru­dentemente accettano come una garanzia dei profitti, la protezione politica del regime, la linea ufficiale del governo e del partito fascista » (ibid).

Ma su altri mi pare non richiami a sufficienza l ’attenzione del lettore. Anzitutto sui legami tra capitalismo italiano e capitalismo internazionale, e americano in particolare. Un tema questo che gli avrebbe consentito di spiegare assai meglio di quanto avvenga nel testo il significato della battaglia per la lira che è proprio del ’26 e delle decisioni assunte in proposito da Mussolini e che in definitiva — se opportunamente chiarito — avrebbe

8 Si veda per esempio E. Santarelli, Dittatura fascista e razionalizzazione capitalistica in Problemi del socialismo, n. 11-12 nuova serie, dicembre 1972, pp. 693-720. Concordano con quanto si afferma nel testo a proposito del ’25 anche R. De Felice, Mussolini il fascista tomo I La conquista del potere (1921-25), Einaudi, Torino, 1966, p. 9 e L. Paladin nella voce Fascismo (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, pp. 887 e sgg.9 Cfr. per tutti la recente rassegna di S. Natale, Recenti studi sulla politica economica fascista in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4, pp. 534-551.

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sgombrato il campo dagli equivoci in cui è caduta patte della storiografia a proposito della quota novanta e del rapporto regime-grande industria e finanza italiana. Ora che si hanno le prime indagini d ’archivio su questo problema, si è in grado di non veder più nel discorso di Pesaro e nelle misure di rivalutazione un colpo di testa del dittatore per ra­gioni di prestigio politico e personale contro gli interessi del capitale, e quindi di indivi­duare nel massiccio appoggio della finanza americana all’industria italiana, e prima ancora al governo fascista, in quel momento il frutto della convergenza di interessi determinatasi nei paesi capitalistici più sviluppati per il rafforzamento di regimi autoritari in grado di garan­tire, sul piano della politica economica, concessioni e manovre utili allo sviluppo del ca­pitalismo monopolistico e finanziario 10.

Una simile lacuna, che qui si fa notare soprattutto ai fini del più ampio dibattito storiogra­fico in corso, contrasta con il respiro internazionale che l’a. mostra in più occasioni di voler dare alla sua narrazione e che si esplica anche in tentativi di schematizzazione più generale, non privi di spunti assai stimolanti. Come quando Santarelli enumera, nelle pagine succes­sive a quelle citate, i fattori che, a suo avviso, hanno avuto un peso particolare nel favo­rire a livello europeo la diffusione e la vittoria del fascismo; « La diffusa paura della rivo­luzione sociale, le vene di autoritarismo già presenti anche nei paesi occidentali, in specie nei maggiori paesi cattolici del continente, i residui del vecchio militarismo, che si era rinnovato e rafforzato attraverso l ’esperienza di comando della guerra, il pullulare di nuovi poteri armati nella crisi dei vecchi stati e soprattutto le tendenze accentratrici del capitalismo industriale e finanziario — tutto ciò favoriva indubbiamente il fascismo su una scala che travalicava, fin dal principio, la sua affermazione e diffusione a sud delle Alpi » (I, p. 488).

E più oltre: « Di qui, anche, il particolare intreccio con la spinta verso una nuova strut­turazione dello stato, dei suoi servizi, delle sue amministrazioni e verso la regolamentazione dell’economia, già avviata nei paesi più evoluti prima della guerra, e verso la disciplina in­tensiva nelle industrie sperimentata nel corso della guerra, spinta che si traduceva nel peso sempre crescente delle organizzazioni professionali e dei sindacati di classe e nella tendenza nuova al partito unico, alla soppressione delle antiche autonomie, alla discrimina­zione legale delle opposizioni di sinistra e al rafforzamento del potere esecutivo » (ibid).

Osservazioni entrambe acute, soprattutto quest’ultima, ma che potrebbe forse essere ulte­riormente precisata. Il problema che si pone, infatti, a livello europeo e in relazione ai mutamenti strutturali e istituzionali degli stati nazionali — e in particolare di Italia e Germania — negli anni trenta, riguarda il rapporto tra regimi diversi di tipo fascista, tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco in primo luogo. Se è vero che esiste una notevole affinità tra i fattori che favorirono la vittoria di Mussolini nel 1922 e quella di Hitler undici anni dopo, e che l ’a. indica nel suo lavoro, è indubbio che le cose si complicano se si vuol rispondere ad altri quesiti strettamente collegati ai precedenti. Nel- l’impossibilità di analizzarli tutti, può essere utile fermar l’attenzione sul ruolo della piccola borghesia e della burocrazia statale e industriale, che nella prima trovava i suoi quadri, nella costruzione dello stato fascista: in maniera non contraddittoria rispetto a contributi più spe­cifici " , il racconto di Santarelli implicitamente conferma che ci fu una differenza fondamen-

“ Su questo aspetto cfr. G.G. Migone, La stabilizzazione della lira: la finanza americana e Mussolini in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 2, pp. 145-185, spec. pp. 148-49. 11 Cfr. A. Aquarone, L ‘organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965 e il mio Sulle istituzioni del regime fascista (1924-1935), in Dallo stato liberale, cit., pp. 128-152.

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tale su questo punto tra l ’esperienza fascista e quella nazionalsocialista, corrispondente — credo -— al differente grado di sviluppo economico-sociale dei due paesi.Nell’Italia fascista, infatti, il processo di burocratizzazione nello stato come nell’industria andò senza alcun dubbio notevolmente avanti rispetto all’Italia liberale grazie alla costruzione del mastodontico edificio corporativo, alla costituzione dell’IR I con quello che ciò significò ai fini della presenza dello stato nell’economia e della riorganizzazione dell’industria privata, al potenziamento di quegli strumenti repressivi e di controllo di cui ebbe via via bisogno un regime poliziesco che teorizzava l’espansione attraverso la conquista e la guerra. Ma, rispetto al caso tedesco, è possibile notare: 1) una più accentuata sopravvivenza di ordina­menti e strutture organizzative proprie di uno stato relativamente pluralista, in cui si affian­cano vari centri istituzionali di potere (chiesa, monarchia, esercito, etc.) secondo le carat­teristiche proprie dell’esempio italiano; 2) difficoltà molto maggiori nella formazione di un quadro burocratico omogeneo al servizio del grande capitale finanziario nella gestione d’uno stato che non può più ignorare la presenza di vaste masse lavoratrici ed ha il compito di ottenerne il consenso almeno passivo e di controllarne l’atteggiamento di fronte a chi detiene il potere; 3) come conseguenza di tutto ciò, una permanente inquietudine della piccola bor­ghesia che, nonostante vent’anni di dittatura, non diventa la classe-pilastro del regime, quella di cui il fascismo ha bisogno per stroncare le velleità di un proletariato scontento e raziona­lizzare, secondo le esigenze dei monopoli e dell’alta finanza, l’economia e la società.

11 processo si svolge invece compiutamente nell’esperienza nazionalsocialista dove esistevano le premesse strutturali ma anche sovrastrutturali, di tradizione ideologica e culturale, perchè la burocrazia gestisse, sia pure per conto d ’altri, l ’organizzazione economico-sociale nazionale e peserà in maniera assai sensibile anche dopo la caduta del regime nazista, nell’una e nel­l ’altra Germania, e sia pure in maniere assai differenti. In Italia, al contrario, gli ostacoli incontrati e non superati dal fascismo in questa direzione si sentiranno quando, dopo il ’36, si aprirà una crisi di fondo del regime e riappariranno, con altri tratti distintivi, anche alla caduta di Mussolini e successivamente al momento in cui si metterà in moto il processo di ricostruzione capitalistica.

Una simile ipotesi, naturalmente, deve ancora essere verificata, e quindi precisata, a livello di indagine sociostorica, attraverso il ritrovamento e l ’analisi di dati significativi riguardanti le vicende non tanto della classe politica ai suoi vertici (Camera, Senato, Gran Consiglio, etc.) quanto della burocrazia ministeriale e industriale, dei quadri medi della classe dirigente. Una .ricerca del genere è difficile ma non impossibile se ci si orienta verso una ricostruzione, per campioni, di carriere di burocrati prima, durante e dopo il ventennio concentrando l’atten­zione da una parte sulle vicende dell’epurazione nel campo dell’industria e della pubblica amministrazione, dall’altra su alcuni momenti di particolare importanza nel processo di mo­dernizzazione della struttura capitalistica italiana, a cominciare da quegli anni trenta ancora poco studiati dalla storiografia italiana del secondo dopoguerra.

3. Nell’ambito di una tesi centrale come quella fin qui descritta trovano una loro spiega­zione più convincente alcuni nodi problematici su cui opportunamente si ferma Santarelli nel suo libro. 12

12 Dello stesso Santarelli cfr. il saggio I fasci italiani all’estero (note e appunti) in Studi in onore di Leone Traverso, Argalia, Urbino, 1971, tomo III, pp. 1307-1328 e la tesi di laurea inedita discussa presso l’università di Torino nell’anno accademico 1972-1973 di L. Ber- teUo, I fasci negli U.S.A.: propaganda fascista e comunità italiane che apporta nuovi elementi documentari nel senso indicato dal Santarelli.

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Dopo un cenno interessante, che meriterebbe di esser ripreso e approfondito sulla propa­ganda fascista all’estero l2, l ’autore cerca di fornire una valutazione del ruolo giocato in Italia dall’opposizione antifascista a mano a mano che il regime si consolida, distinguendo oppor­tunamente tra l ’antifascismo del mondo operaio e contadino e l ’antifascismo intellettuale della borghesia più avanzata. Scompaginata e in grave difficoltà nella seconda metà degli anni venti, l ’opposizione è per Santarelli « assai più larga di quanto non riescano a testimoniare i dati della magistratura speciale » (I, p. 504) subito dopo la crisi del ’29. Ne fanno fede le no­tizie numerose su agitazioni, disordini, dimostrazioni avvenuti in varie parti d ’Italia nel biennio ’30-’31. Sulla base dei dati già noti, il giudizio è accettabile ma l ’antifascismo resta un campo d’indagine ancora da scavare e finora trascurato, in parte per difficoltà oggettive di fonti, in parte per mancanza di apposite (e pur effettuabili) ricerche archivistiche.

Quello che si può concludere già in questa fase è che il fascismo non ebbe mai in Italia il consenso attivo della maggioranza della classe lavoratrice, e neppure in foto quello della borghesia proprio per le ragioni di fondo a cui ci si è riferiti. Da questo a poter parlare di un’opposizione compatta e attiva contro il regime ce ne corre: fino alla crisi post-1936, gli antifascisti furono pochi e volti perlopiù a conservare in se stessi un patrimonio ideale in contrasto con l ’ideologia fascista, incapaci di creare collegamenti efficaci tra l’uno e l’altro gruppo di opposizione, in Italia e fuori. I movimenti come « Giustizia e Libertà » che mira­vano appunto a creare un collegamento non contingente tra differenti ceti sociali avversi al fascismo non ottennero in questa direzione, almeno fino alla seconda metà degli anni trenta, risultati apprezzabili. Proprio i rapporti di polizia e l ’azione della magistratura ordinaria — di cui Santarelli non tiene conto nel suo libro13 14 — consentono, a mio avviso, di cogliere i limiti notevoli di cui soffri in quegli anni l ’opposizione al fascismo, non paragonabili certo alla situazione assai più grave che venne a crearsi in Germania, ma importanti per compren­dere la compenetrazione verificatasi in Italia attraverso il fascismo tra l ’assetto borbonico e poliziesco del prefascismo e delle istituzioni tradizionali di potere e la nuova burocrazia legata alle fortune del regime. Da questo punto di vista sarebbero preziose maggiori indica­zioni sul ruolo e sulla struttura sociale del PNF, ma anche in questo settore gli studi sono stati pochi e ancora avari di spunti interpretativi di carattere generale

Più chiaro si rivela — e Santarelli lo coglie assai bene — il significato degli accordi del ’29 tra il regime mussoliniano e la Chiesa cattolica. Lo studioso li vede a ragione come momenti essenziali di un’involuzione conservatrice che investe stato e chiesa, mette in luce il nesso tra il Concordato e la politica estera del fascismo, critica le scelte del papato secondo una prospettiva di realismo politico prima ancora che di fedeltà a certi principi: « Pio XI e il cardinal Gasparri perseguivano, insomma, sopra ogni altra cosa, l’obiettivo di salvaguardare gli interessi della chiesa, ma con una visione particolaristica e con limiti che derivavano dal ri­flusso conservatore dominante sulla scena italiana e da un “complesso italiano” cui la curia tuttora soggiaceva, anche in conseguenza dell’ultima fase della questione romana » (I, p. 552).

13 A questo proposito occorre precisare che né le carte di polizia né le sentenze della magi­stratura ordinaria in alcuni settori particolarmente significativi forniscono un materiale docu­mentario direttamente utilizzabile da solo — come più d ’uno studioso ha ritenuto soprat­tutto per le prime di poter fare — ai fini della ricostruzione storica del ventennio ma che pure, se opportunamente confrontate con altre fonti come giornali, riviste, archivi locali e aziendali, possono offrire elementi non trascurabili: e di essi senza dubbio si sente talora la mancanza nell’opera di Santarelli.14 Un’eccezione è costituita dall’interessante saggio di E. Ragionieri sul Partito nazionale fascista in Toscana, ora in La Toscana nel regime fascista 1922-1939, Olschki, Firenze, 1971, Firenze, vol. I, p. 59 e sgg.

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Quanto al regime, i patti col Vaticano costituiscono, a mio avviso, un’ulteriore conferma di quanto si diceva in precedenza, dei limiti cioè d’una struttura statuale di potere che aspirava a diventar totalitaria, ma che per più ragioni doveva rassegnarsi a dividere il controllo delle masse con le istituzioni tradizionali dello stato prefascista, e con la chiesa in primo luogo.

Se questo è vero, l’operazione concordataria fu da parte di Mussolini, capo del fascismo prima che uomo di stato, un atto di realismo politico, sia pure con un prezzo assai alto. Sicché si può condividere il giudizio che ne dà Santarelli quando afferma che « il patto aveva luogo — scavalcando tutta la tradizione successiva al ’48 — direttamente con uno stato che si definiva e si presumeva cattolico, al quale il fascismo tornava con evidente regressione sto­rica » (I, p. 569), aggiungendo tuttavia che quella regressione ha nello stato fascista un significato ben diverso da quello che avrebbe avuto in uno stato a democrazia parlamentare e segna piuttosto, nella vicenda del regime, un ulteriore compromesso compiuto da Mussolini nel tentativo di rafforzare le basi sociali del suo dominio. Lo ricorda del resto lo stesso Santarelli quando poco più oltre scrive che « attraverso l’accordo con la chiesa, il fascismo lasciò la sua orma non certo indelebile o incancellabile, ma tuttavia tanto notevole quanto fortunata, sul volto della stessa Italia postfascista » (I, p. 575) e opportunamente annota che « la finanza vaticana, già strettamente intrecciata alla vita del grande capitale italiano, si indi­rizzò e si incanalò in nuovi e più dinamici settori della vita economica del paese » (I, p. 576).

Il successivo conflitto del ’31 tra il regime e il Vaticano, concluso con un compromesso di cui Mussolini aveva bisogno per non rischiare di favorire un’alleanza tra i cattolici ostili al fascismo e l’opposizione tradizionale delle sinistre che dalla crisi economica aveva tratto possibilità nuove di proselitismo, segnò l ’attestarsi dei rapporti tra la dittatura e la chiesa su una base instabile, suscettibile d ’esser messa in discussione con relativa facilità e tuttavia sufficiente ad assicurare al regime una lunga tregua nella fase di consolidamento del governo personale, di sconfitta delle residue illusioni alimentate dal corporativismo di « sinistra » — a proposito del quale Santarelli rileva giustamente come si trattasse pur sempre di un movi­mento tutto interno al sistema che criticava15 — di riorganizzazione della struttura produttiva della società. La tregua si trasformerà — come annota l’a. — in appoggio aperto e senza riserve qualche anno dopo, con la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero. In quegli anni la chiesa costituirà per il regime un vero supporto ideologico e istituzionale e, sia pure a torto, il gruppo dirigente fascista potrà illudersi d ’aver raggiunto con essa un rapporto nuovo, di averne messo in difficoltà l’autonomia. Si trattava invece, come gli avvenimenti suc­cessivi si sarebbero incaricati di mostrare, d’una convergenza temporanea, essenzialmente tattica e non destinata a resistere alla seconda guerra mondiale e alla crisi della dittatura.

4. Un discorso forse più esteso meriterebbe la politica economica del fascismo, di cui già si è accennato e su cui l ’a. ritorna più volte nella sua opera. Ma la presenza di studi e rassegne recenti mi inducono a limitare le mie osservazioni ad alcuni punti del racconto di S. su cui forse non è inutile richiamare l ’attenzione. Da una lettura attenta di tutta l ’opera16, si ricava l ’idea che Santarelli lasci in qualche modo aperto il problema centrale legato all’analisi della politica economica fascista. Da una parte nella Storia emerge la convinzione che, con­trariamente a quanto affermava la propaganda ufficiale durante il ventennio, « la politica

15 E. Santarelli, Storia cit., II , p. 61 e passim.16 E. Santarelli, op. cit., in particolare p. 588 e sgg. del I volume, pp. 282 e sgg, del II volume.

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economica del fascismo, attraverso la reintroduzione del dazio sul grano, venne precisando il suo volto e la sua finalità in un contesto che sostanzialmente rimaneva immutato, ed anzi ribadiva la posizione privilegiata della proprietà fondiaria, in alleanza con la grande indu­stria e il grande capitale sempre concentrato nel Nord. La politica di lavori pubblici — stra­de, acquedotti, ferrovie, etc. — si saldava all’espansione dell’industria dell’automobile, del cemento, del ferro, dell’elettricità: e dietro questo potenziamento dell’apparato industriale stava in effetti la spinta egemonica che spiegava il relativo successo delle maggiori realizza­zioni dei primi anni del regime ». (I, pp. 588-89). Dall’altra, la tesi che « fra capitalismo industriale ed agricoltura, fra città e campagna, fra Nord e Sud, il fascismo non si risolse insomma a una scelta netta » (ibidem). Proposizioni, come si può vedere, se non divergenti, almeno non del tutto armonizzabili tra loro. Nel senso che, dalle pagine citate come da altre in cui l’a. ritorna sull’argomento, non si è in grado di dedurre una diagnosi comples­siva abbastanza chiara sulla politica economica fascista. Fino a che punto (e con quali stru­menti), il regime perseguì una politica di ulteriore industrializzazione di alcune zone nel Nord, trascurando l ’evoluzione e la crescita di un’agricoltura moderna, soprattutto nel Mezzo­giorno? In particolare, se confrontato con lo sviluppo industriale e agricolo di altri paesi capitalistici tra le due guerre, quello italiano quali caratteristiche di arretratezza mostra, e in 'seguito a quali scelte di fondo? E, ancora, quale ruolo giocò, a livello di politica economica, l ’autarchia e il riarmo e quali ne furono le cause strutturali profonde accanto a quelle più strettamente ideologiche a cui l ’a. dedica prevalente attenzione? Non si poteva chiedere, naturalmente, a Santarelli di rispondere in modo compiuto a quesiti che spingono proprio in questi ultimi anni le nuove generazioni di studiosi a ricerche settoriali o locali di grande impegno e ancora per la gran parte in fieri ma piuttosto, con la sua sintesi, di indicare pos­sibili spunti di indagine in una direzione sufficientemente univoca.

Ma, in realtà, non si può dire che la Storia del movimento e del regime fascista abbia rag­giunto compiutamente tale risultato e questo, ritengo, per una certa sottovalutazione, se non dell’elemento, dell’analisi strutturale che si riscontra nell’opera: eredità e caratteristica, pe­raltro, di un indirizzo proprio di tutta la storiografia italiana nel secondo dopoguerra che non era agevole rovesciare proprio in un’opera generale come quella di cui si parla. Una maggior attenzione, tuttavia, avrebbe potuto esser dedicata, ad esempio, alla crisi del ’29, ai suoi effetti a livello internazionale e in Italia. Ciò avrebbe consentito, a mio avviso, all’au­tore di analizzare in maniera più puntuale la politica economica fascista negli anni cruciali che precedono l ’impresa d’Etiopia e la guerra di Spagna e che segnano lo spostamento del­l ’Italia da una posizione di relativo equilibrio in Europa all’avvicinamento alla Germania. Tale spostamento, infatti, se non si colloca in un quadro complesso che non è esclusivamente ideologico ma ha connessioni innegabili con fattori economici di grande portata, rischia di essere interpretato riduttivamente, in un’ottica che, con segno opposto, non è del tutto dis­simile da quella suggerita dagli stessi protagonisti di quegli eventi.

Ed è ciò che per fortuna soltanto in parte avviene nella Storia a proposito delle tappe essen­ziali della politica estera italiana.

L ’autore ha il merito non trascurabile, rispetto ad altri che si sono occupati del fascismo italiano di cercare, fin dall’inizio, di collocare il fenomeno in un ambito europeo e di sug­gerire in più occasioni spiegazioni che vanno oltre l’ambito nazionale e stabiliscono nessi significativi tra quello che succede in Italia e gli avvenimenti internazionali. L ’estendersi del fascismo negli anni trenta è giustamente sottolineato dall’a. che ne tenta un’interpretazione sociopolitica a livello generale. « In un mondo — egli scrive — in cui il problema della spartizione dei mercati è straordinariamente acutizzato dalla crisi, mentre le lotte nazionali

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e sociali si intensificano all’interno dei singoli stati, dando luogo a sviluppi rivoluzionari che sospingono all’emancipazione dei popoli coloniali, il tentativo di un incontro tra forze nazio­nali e forze sociali, l ’esperimento di una “ terza via” fra capitalismo e socialismo o comu­niSmo, sono fatti proprio da forze intellettuali e politiche che esprimono direttamente o indi­rettamente il travaglio di gruppi dominanti o marginali della borghesia capitalistica e delle sue tendenze imperialistiche » (vol. II, p. 119). Un discorso quello abbozzato da Santarelli e poi ripreso in altre pagine della sua Storia che non manca di interesse e in certe sue speci­ficazioni coglie bene il carattere internazionale del fascismo, ma che rischia di restare troppo generico nella misura in cui non si collega direttamente ai mutamenti del quadro strutturale che si verificano a cavallo degli anni trenta. Santarelli dedica l ’attenzione necessaria all’in- tensificarsi della spinta imperialistica italiana che si esprime con l ’impresa etiopica, ricostruisce con osservazioni stimolanti la politica delle grandi potenze nei confronti del fascismo, inquadra nei suoi termini reali l ’appoggio di Mussolini al franchismo nella guerra di Spagna.

Ma rimane in ombra nell’opera il fatto fondamentale che è dietro i mutamenti della politica estera fascista in quegli anni: vale a dire la crisi del ’29 e le sue conseguenze a livello di mercato di capitali, di merci, di uomini.

Avviene così che nella Storia si parli assai poco della politica estera italiana negli anni venti — che pure merita di essere indagata assai più di quanto si sia fatto finora e su cui abbiamo di rilevante quasi solo lo studio del Carocci — se non per richiamare l ’attenzione del lettore sugli elementi eversivi di quella politica, che appaiono preparatori rispetto alla dissociazione dell’Italia dalle potenze occidentali e all’alleanza con la Germania, e non si fornisca una spie­gazione convincente della successiva svolta. O meglio c’è un passo in cui l’a. sottolinea alcune cause strutturali, e non solo ideologiche, del mutamento rilevando la determinazione di Roma, Tokio e Berlino « di sostituirsi alla Gran Bretagna e parzialmente anche agli SU — nel Pacifico e nel Sud America — nel dominio di vaste zone dell’Asia, dell’Europa e delPAfrica » (vol. II, p. 256) ma senza spiegare perchè una simile determinazione sia sorta per ITtalia pro­prio in quegli anni e non prima e soprattutto perché fino alla metà degli anni trenta Mus­solini abbia perseguito una politica estera diversa, anch’essa non comprensibile solo alla luce di motivazioni ideologiche o di mera tattica. L ’insufficiente attenzione dedicata alla politica estera degli altri paesi capitalistici, e degli Stati Uniti in particolare, è alla base di tali lacune, ma ancor prima di ciò c’è forse un problema di metodo che interessa prima di tutto quegli studiosi del regime fascista che come Santarelli si richiamano a un indirizzo di ricerca marxista.

5. Tra le pagine migliori della Storia, infine, mi sembrano quelle che analizzano, a livello ideologico e culturale, la crisi del fascismo dopo l’Etiopia e la Spagna: l’a. sviluppa con lucidità spunti già contenuti in scritti precedenti sulla nascita d’una opposizione all’interno della stessa compagine fascista, segue accuratamente le vicende del PNF nel periodo prece­dente l’ingresso in guerra dellTtalia e mette in luce i sintomi fondamentali che precedono il crollo del regime. Anche questa parte del libro meriterebbe di essere discussa a fondo ma il discorso diverrebbe troppo lungo e analitico. Qui basti dire che, a mio avviso, gli spunti presenti nell’opera a proposito della crisi del fascismo, anche se non ne affrontano tutti gli aspetti, andrebbero ripresi e sviluppati in ricerche specifiche su quel periodo, anche alla luce di memorie e di studi particolari apparsi negli ultimi anni.

Quanto al ’43-’45, al di là di valutazioni su cui la discussione è più che mai aperta (in particolare mi riferisco ai giudizi sulla lotta politica nel regno del Sud e sul ruolo di To-

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gliatti nel ’44), la narrazione è molto sintetica ma essenziale e informata. Le numerose pub­blicazioni apparse di recente — basta pensare ai contributi di parte comunista (Secchia, Amendola, Longo) — pur senza cambiare il quadro nei suoi aspetti fondamentali, introducono novità e precisazioni di tale interesse da non poter essere trascurati in una nuova edizione dell’opera. A proposito della quale, vorrei ribadire che le critiche espresse fin qui non inten­dono affatto mettere in ombra l’importanza di una Storia del movimento e del regime fascista che resta tra le più nuove e stimolanti in questo campo, ma fornire un contributo alla discus­sione in corso sulle vicende essenziali dell’Italia durante il ventennio.

Nicola Tranfaglia