Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo · Note e discussioni L'Italia nella...

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Note e discussioni L'Italia nella storiografia degli altri paesi Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo Maria Sophia Quine L’interesse per l'Italia contemporanea ha una lunga tradizione in Gran Bretagna: risale in- fatti almeno alfinizio dell’Ottocento allorché diplomatici, intellettuali e aristocratici bri- tannici furono testimoni diretti del processo risorgimentale e, simpatizzando con la lotta nazionale, la descrissero in termini epici nei loro scritti. Avendo imparato ad amare le isole e la penisola grazie alle vacanze estive e ai lunghi soggiorni, la classe media colta britannica una volta in patria si dimostrò in- teressata alle notizie su Cavour, su Garibaldi e sui loro eroici tentativi di liberare la nazio- ne. L’interesse per l’Italia era inoltre mante- nuto vivo da resoconti giornalistici e racconti di viaggio. Questo approccio emotivo ai ten- tativi politici di uno stato-nazione emergente fu sostituito, nel ventesimo secolo, dal rigo- roso studio accademico della storia della nuova Italia. Lo sguardo si volse alle cause della debolezza dell'ordinamento liberale e dell’origine del fascismo. Dopo la caduta del fascismo, in particolare, lo studio dell’Ita- lia contemporanea ha vissuto in Gran Breta- gna un’epoca d’oro, che si è estesa grosso modo dalla fine degli anni cinquanta agli an- ni settanta. In questo periodo, lo studio del- l’Italia contemporanea ha coinciso con la carriera di alcuni storici insigni. Vecchi mae- stri della storia dell’Italia contemporanea e della storiografia, come Christopher Seton- Watson, Denis Mack Smith e Adrian Lyttel- ton, hanno raggiunto la fama pubblicando opere importanti, insegnando la storia dell’I- talia contemporanea a livello universitario e incoraggiando giovani studiosi a continuare la ricerca su argomenti specialistici. Quelli fra noi che si sono accostati alla storia italia- na negli anni ottanta hanno un profondo de- bito di riconoscenza nei confronti di questi studiosi che in un modo o nell’altro, indivi- dualmente o collettivamente, hanno influito sul nostro lavoro. Con il ritiro dalla professione di alcune fi- gure chiave come Christopher Seton-Watson e Denis Mack Smith e con la partenza di altre come Adrian Lyttelton e John Davis, lo stu- dio dell’Italia contemporanea ha vissuto in Gran Bretagna un periodo di incertezza. Stu- diosi più giovani, che si erano dedicati alla ri- cerca post-laurea negli anni ottanta, rimasero senza guida, dato che nelle università britan- niche non vi erano più centri importanti per lo studio dell’argomento. Malgrado l’eccel- lente lavoro svolto dall’Association for thè Study of Modern Italy nei convegni che in quest’ultimo decennio si sono svolti quasi ogni anno, la mancanza di seminari a caden- za settimanale come quelli che Christopher Seton-Watson teneva un tempo all’Oriel Col- lege di Oxford ha significato che gli studiosi non hanno avuto alcuna occasione di contat- ti regolari con i loro colleghi e di conseguenza hanno dovuto portare avanti le loro ricerche per lo più in solitudine. Il modo in cui viene promossa la ricerca sull’Italia è l’insegna- mento post-laurea nelle università. All’Uni- versità di Oxford, Raymond Carr ha richia- Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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Note e discussioni

L'Italia nella storiografia degli altri paesi

Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo

Maria Sophia Quine

L’interesse per l'Italia contemporanea ha una lunga tradizione in Gran Bretagna: risale in­fatti almeno alfinizio dell’Ottocento allorché diplomatici, intellettuali e aristocratici bri­tannici furono testimoni diretti del processo risorgimentale e, simpatizzando con la lotta nazionale, la descrissero in termini epici nei loro scritti. Avendo imparato ad amare le isole e la penisola grazie alle vacanze estive e ai lunghi soggiorni, la classe media colta britannica una volta in patria si dimostrò in­teressata alle notizie su Cavour, su Garibaldi e sui loro eroici tentativi di liberare la nazio­ne. L’interesse per l’Italia era inoltre mante­nuto vivo da resoconti giornalistici e racconti di viaggio. Questo approccio emotivo ai ten­tativi politici di uno stato-nazione emergente fu sostituito, nel ventesimo secolo, dal rigo­roso studio accademico della storia della nuova Italia. Lo sguardo si volse alle cause della debolezza dell'ordinamento liberale e dell’origine del fascismo. Dopo la caduta del fascismo, in particolare, lo studio dell’Ita­lia contemporanea ha vissuto in Gran Breta­gna un’epoca d’oro, che si è estesa grosso modo dalla fine degli anni cinquanta agli an­ni settanta. In questo periodo, lo studio del­l’Italia contemporanea ha coinciso con la carriera di alcuni storici insigni. Vecchi mae­stri della storia dell’Italia contemporanea e della storiografia, come Christopher Seton- Watson, Denis Mack Smith e Adrian Lyttel­ton, hanno raggiunto la fama pubblicando opere importanti, insegnando la storia dell’I­

talia contemporanea a livello universitario e incoraggiando giovani studiosi a continuare la ricerca su argomenti specialistici. Quelli fra noi che si sono accostati alla storia italia­na negli anni ottanta hanno un profondo de­bito di riconoscenza nei confronti di questi studiosi che in un modo o nell’altro, indivi­dualmente o collettivamente, hanno influito sul nostro lavoro.

Con il ritiro dalla professione di alcune fi­gure chiave come Christopher Seton-Watson e Denis Mack Smith e con la partenza di altre come Adrian Lyttelton e John Davis, lo stu­dio dell’Italia contemporanea ha vissuto in Gran Bretagna un periodo di incertezza. Stu­diosi più giovani, che si erano dedicati alla ri­cerca post-laurea negli anni ottanta, rimasero senza guida, dato che nelle università britan­niche non vi erano più centri importanti per lo studio dell’argomento. Malgrado l’eccel­lente lavoro svolto dall’Association for thè Study of Modern Italy nei convegni che in quest’ultimo decennio si sono svolti quasi ogni anno, la mancanza di seminari a caden­za settimanale come quelli che Christopher Seton-Watson teneva un tempo all’Oriel Col­lege di Oxford ha significato che gli studiosi non hanno avuto alcuna occasione di contat­ti regolari con i loro colleghi e di conseguenza hanno dovuto portare avanti le loro ricerche per lo più in solitudine. Il modo in cui viene promossa la ricerca sull’Italia è l’insegna­mento post-laurea nelle università. All’Uni­versità di Oxford, Raymond Carr ha richia-

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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mato una generazione dopo l’altra di giovani studiosi della storia della Spagna che deside­ravano lavorare sotto la sua supervisione e alFUniversità di Londra Paul Preston ha og­gi una nutrita schiera di laureati che, una vol­ta completati gli studi per il conseguimento del dottorato (Ph.D), troveranno lavoro in varie università britanniche. Ma non essendo rimasta alcuna figura guida sopra i quaran- t’anni in nessun dipartimento universitario di storia del nostro paese, lo studio dell’Italia contemporanea non è riuscito a tenere il pas­so con quello della Spagna contemporanea. La frammentazione della comunità degli stu­diosi che lavoravano sull’Italia contempora­nea negli anni ottanta ha impedito che, negli anni novanta, emergessero tendenze storio­grafiche dominanti. Verso la fine degli anni settanta una generazione di giovani studiosi, fra cui Anthony Cardoza, Paul Corner, Frank Snowden e Alice Kelikian, hanno svolto un’attività di ricerca che nel suo insie­me costituisce un importante corpus di storia italiana locale. Ma oggi né “scuole” di pen­siero degne di nota, né una sola tematica o un singolo indirizzo metodologico hanno da­to forma o unità ai lavori pubblicati di recen­te in Gran Bretagna. Per lo più, quelli pro­dotti negli ultimi anni sono stati influenzati dalle nuove interpretazioni fornite dai vari ambiti della contemporanea storia sociale, economica, politica e delle idee e dalle più re­centi tendenze della ricerca in Italia. In que­sto saggio verranno esaminate alcune delle questioni poste negli ultimi studi pubblicati, allo scopo di lumeggiare gli ambiti in cui gli studiosi hanno fornito contributi e di indica­re futuri percorsi di ricerca.

E opportuno iniziare la rassegna con una breve disamina di Society and Politics in thè Age o f thè Risorgimento: Essays in Honour of Denis Mack Smith, una raccolta di saggi curata da John Davis e Paul Ginsborg1. Per

decenni Denis Mack Smith ha dominato gli studi sull’Italia contemporanea in Gran Bre­tagna. Le sue numerose opere di carattere scientifico e quelle più divulgative su Cavour, Garibaldi, Mussolini e la monarchia italiana hanno influito sul modo in cui sia gli accade­mici sia il vasto pubblico considerano l’Italia. Gli autori dei contributi raccolti nel volume, sebbene motivati dal desiderio di rendere omaggio all’insigne storico, si mostrano tut­tavia fortemente impegnati in un programma di revisione critica che tenta di spostare l’at­tenzione dai fondamentali interessi che han­no improntato il lavoro di Mack Smith. Il vo­lume illustra due tendenze emergenti nella storiografia britannica, ma anche americana, sull’Italia contemporanea, tendenze che a pa­rere di chi scrive diventeranno ancora più vi­sibili in futuro. La prima è costituita dall’evi­dente spostamento dalla storia politica a quella sociale: un solo saggio, quello di De- rek Beales sulla visita di Garibaldi in Inghil­terra nel 1864, concentra l’attenzione sulla singola personalità storica, uno dei principali ambiti di interesse di Mack Smith, e condivi­de la sua attrazione per la sfera dell’alta poli­tica. Tutti gli altri saggi cercano di esplorare il tema del Risorgimento dal punto di vista della storia sociale. Molti fra gli autori dei contributi che compongono questa raccolta si sono inoltre sforzati di liberare la storia ita­liana dal suo precedente isolamento, collo­cando gli eventi italiani in un più ampio qua­dro comparativo. Ritengo che questo tentati­vo di guardare oltre le evidenti “peculiarità” dell’Italia e di collocare la storia della nazio­ne in un contesto europeo porterà a interpre­tazioni storiche più raffinate e sfumate. L’e­same di un piccolo campione degli articoli presentati in questo eccellente volume dimo­stra la volontà degli autori di esplorare tema­tiche proprie della nuova storia sociale delle donne, dello stato sociale, della cultura e del-

John A. Davis, Paul Ginsborg (a cura di), Society and Politics in the Age of the Risorgimento. Essays in Honour of Denis Mack Smith, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1991.

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la famiglia e ad aggiungere alla storia dell’I­talia una dimensione comparativa della quale si sentiva molto bisogno.

Society and Politics in thè Age of thè Risor­gimento contiene un saggio di Stuart Joseph Woolf sui sussidi ai poveri durante il periodo della Restaurazione. In esso viene approfon­dito il paragone fra l’Italia e il resto del con­tinente già svolto dall’autore in un preceden­te lavoro2. Woolf spiega che, a causa dell’at­tivo e secolare coinvolgimento della Chiesa nelle opere di carità, gli stati dell'Italia setten­trionale e centrale erano dotati di molte isti­tuzioni deputate all’assistenza ai poveri. Nel loro insieme queste istituzioni detenevano vaste ricchezze, sottoposte al controllo della Chiesa e in gran parte sottratte a quello delle autorità di governo. Il controllo esercitato dalla Chiesa sulle elemosine divenne oggetto di attacchi sempre più frequenti da parte dei riformatori, i quali intendevano sostituire le opere di carità con un sistema di assistenza razionale, scientifico e diretto dallo Stato. In­fluenzati dai pensatori illuministi inglesi e francesi, i riformatori italiani sostennero la necessità di una regolamentazione pubblica del sussidio ai poveri al fine di sradicare il pauperismo mediante la restrizione dell’assi­stenza ai più “meritevoli”. Il saggio di Woolf mostra che l’Italia partecipava a una generale tendenza europea, che prese seriamente avvio nell’Ottocento, verso la modernizzazione del­le opere di carità gestita dalla Chiesa e alla lo­ro trasformazione in “pubblica assistenza” . Esso mette inoltre in luce il paradosso per cui il graduale emergere del moderno welfare state ebbe come risultato la fine dell’umani­tarismo cristiano e della pratica dell'elemosi­na e il sorgere di un approccio alla pubblica responsabilità verso i bisognosi mirato a dra­stici risparmi, burocratizzato e pragmatico.

In un altro saggio, che spicca per l’ampiez­za della prospettiva, Adrian Lyttelton s’im­pegna nell’esame di un tema importante nella storia dell’Italia contemporanea — il falli­mento del liberalismo — considerando il ruo­lo che la classe media del regno ebbe nella vi­ta pubblica. Ispirati da storici come Silvio Lanaro, recenti studi in Italia hanno inco­minciato a focalizzare con più attenzione il problema della cultura, dei valori, della poli­tica della borghesia dopo l’unificazione. Lyt­telton contribuisce a questo corpus crescente di lavori significativi con un saggio in cui so­stiene, in modo persuasivo e autorevole, che il “senso di identità corporativa” delle classi medie, la coscienza civica e la “capacità di azione collettiva” erano considerevolmente più deboli in Italia che non in Francia o in Germania. Le classi medie non seppero forni­re una leadership efficace allo stato-nazione da poco unificato in parte perché la difformi­tà nello sviluppo economico delle diverse re­gioni impedi il sorgere di una “borghesia in­dustriale nazionale”. Ma, fatto più rilevante, le classi medie erano “viziate” , “apatiche”, “con una mentalità da parrocchia” e “pro­vinciali”, prive di qualsiasi senso del dovere nei confronti dello stato e della nazione3. Il loro malessere non fece che approfondirsi al­lorché, dopo gli anni ottanta, aumentarono moltissimo i rischi di disoccupazione nelle li­bere professioni e nel pubblico impiego. È possibile, ci riferisce l’autore, che più della metà di tutti i nuovi medici non siano riusci­ti a trovare un impiego adeguato nel primo decennio del Novecento. Anche nelle altre professioni i laureati incontrarono difficoltà nell’assicurarsi una posizione. La borghesia delle professioni languiva in uno stato carat­terizzato dalla perenne sottoccupazione e dallo spreco delle capacità acquisite, mentre

2 Stuart Joseph Woolf, The Poor in Western Europe in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, London and New York, Methuen, 1986 (Porca miseria. Poveri e assistenza nell'età moderna, tr. di Paola Querci, Anna Woolf. Roma-Bari, La- terza, 1988).3 Adrian Lyttleton, The Middle Classes in Libera! Italy, in Society and Politics in the Age of the Risorgimento, cit., pp. 230-232.

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i più urgenti problemi dell'Italia rimanevano irrisolti.

Society and Politics in thè Age of thè Risor­gimento contiene anche scritti di storici italia­ni che mettono ulteriormente in rilievo l’im­portanza della storia sociale nei nuovi pro­getti di studio degli storici. In un testo sul matrimonio e la famiglia in Italia all’inizio del diciannovesimo secolo Marzio Barbagli mette in discussione il mito, tuttora persi­stente, secondo il quale la maggioranza della popolazione in passato viveva in famiglie multiple, allargate e comprendenti più gene­razioni. Il lavoro arricchisce il corpus crescen­te di ricerche svolte da storici della demogra­fia italiani, britannici e americani4 impegnati a verificare, mediante la diligente raccolta di dati nelle località italiane, alcune delle nostre predilette “verità” riguardo alla famiglia. Grazie a istituzioni come il Cambridge Group for thè Study of Population e la Well­come Foundation, possiamo aspettarci in fu­turo una quantità sempre maggiore di lavori sulla famiglia e su questioni demografiche. Siamo però ancora in attesa, per quanto ri­guarda la storia dell’Italia, di un lavoro im­portante in lingua inglese sul mondo relativa­mente sconosciuto del sesso, della sessualità e del genere. Il volume presenta — ed è uno tra i suoi meriti — i risultati di ricerche recenti fi­nora in gran parte non disponibili in lingua inglese. I lettori italiani non si sorprenderan­no del fatto che la maggior parte dei testi di riferimento in lingua inglese sulla storia eco­nomica dell’Italia, come quelli di Shepard B. Clough, John S. Cohen e altri, abbiano igno­rato il ruolo delle donne neH’industrializza- zione, nella modernizzazione e nello svilup­po. Al di fuori della piccola comunità di stu­diosi che in Gran Bretagna lavorano sull’Ita­lia contemporanea, pochi saranno al corrente

del lavoro di Chiara Saraceno e di altri stu­diosi che hanno riconosciuto la centralità delle donne per lo studio della società e dell’e­conomia italiane. Ma nel suo contributo a Society and Politics in thè Age of thè Risorgi­mento Simonetta Ortaggi Cammarosano pre­senta una panoramica meditata dei mutevoli modelli e della natura complessa del lavoro femminile nell’agricoltura e nell’industria a partire dal Settecento. Viene esaminata la grande varietà del lavoro femminile nei con­testi urbani e rurali, al fine di sottolinearne l’importanza nelle trasformazioni economi­che. Le donne hanno contribuito al reddito familiare, hanno fornito a capitalisti e pro­prietari terrieri una “riserva pressoché ine­sauribile di lavoro a basso costo” e hanno at­tutito “le ripercussioni sociali delle crisi indu­striali”5. Un’altra area in crescita nella storia dell’Italia contemporanea, al pari della storia sociale delle donne e della famiglia, è la storia sociale della medicina, anch’essa rappresen­tata nel volume. Opportunamente i curatori vi hanno incluso uno scritto di Franco Della Peruta, in cui si sostiene che la principale causa di morte dei soldati italiani durante il periodo napoleonico furono le malattie, più che la guerra. Questa raccolta di saggi riesce a selezionare alcuni dei migliori esempi del nuovo revisionismo in Italia e all’estero e a rendere la storia sociale italiana accessibile a tutti gli storici dell’Europa contemporanea: un risultato non da poco.

Anche altre raccolte hanno diffuso l’inte­resse per la storia dell’Italia contemporanea e corretto lo squilibrio in direzione della tra­dizionale storia politica che caratterizzava la storiografia britannica sull’Italia. Gisela Bock e Pat Thane, ad esempio, hanno recen­temente pubblicato Maternity and Gender Policies. Women and thè Rise o f thè European

4 Si veda ad esempio Piero Melograni (a cura di, con la collaborazione di Lucetta Scaraffia), La famiglia italiana dal­l'Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1988; David 1. Kertzer, Richard P. Sailer (a cura di), The Family in Italy from Antiquity to the Present, New Haven and London, Yale University Press, 1991.

Simonetta Ortaggi Cammarosano, Labouring Women in Northern and Central Italy in the Nineteenth Century, in So­ciety and Politics in the Age of the Risorgimento, cit., p. 153.

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Welfare States, 1880s-1950s, un libro che as­segna all’Italia un ruolo centrale nella costru­zione del welfare state europeo6. Fino a poco tempo fa, libri che si pretendevano di storia “europea” avrebbero centrato l’attenzione esclusivamente sulla Germania e sulla Fran­cia, ignorando l’esperienza di paesi “minori” come la Spagna e l’Italia. Persino ampie rico­gnizioni di carattere economico o sociale sul­la storia dell’Europa contemporanea che am­bivano all’esaustività spesso omettevano completamente ogni riferimento all’Italia. Molti di questi lavori sono tuttora in uso co­me testi di riferimento nell’insegnamento universitario. Fortunatamente le curatrici di Maternity and Gender Policies non hanno commesso questo errore: il volume presenta anzi lavori che esaminano l’impatto del mo­vimento italiano delle donne sulla politica so­ciale. I due testi sull’Italia compresi in questa raccolta sono però opera di studiosi italiani, il che non è necessariamente un male, ma in­dica che importanti aree di ricerca nella sto­ria d’Italia non vengono ancora esplorate da­gli storici di lingua inglese. Nella fattispecie, l’importantissimo tema del femminismo ita­liano prima del 1945 è rimasto escluso dalla gamma d’interessi della storiografia anglo­americana7. Gli studi sulla formazione e sulle diverse tipologie del femminismo britannico, francese e tedesco sono numerosi, ma non c’è neanche un libro in inglese sulla storia del movimento italiano delle donne. La viva con­sapevolezza di questi persistenti ritardi nella

nostra conoscenza della storia sociale dell'I­talia contemporanea ha spinto alcuni storici, me compresa, a svolgere una quantità cre­scente di lavoro orientato secondo queste li­nee di ricerca8.

In una prospettiva del tutto diversa, Denis Mack Smith ha pubblicato di recente la sua attesa biografia di Mazzini, che completa la trilogia sui tre grandi artefici deH’unificazio- ne italiana da lui iniziata più di trent’anni fa9. Per quanto ci è dato prevedere questo nuovo lavoro, al pari dei libri su Garibaldi e Cavour, sarà la biografia definitiva di Maz­zini. Si tratta in gran parte di una biografia politica che esamina il processo dell’unifica­zione italiana attraverso la vita di una singola personalità. Vi è però una generazione più giovane di studiosi che hanno scelto di esami­nare il processo di unificazione nazionale sot­to una diversa angolatura.

Steven C. Hughes fornisce una nuova, si­gnificativa prospettiva sulla politica del Ri­sorgimento in Crime, Disorder and thè Risor­gimento. The Politics of Policing in Bologna, un libro sulla polizia pontificia10. Anziché guardare al Risorgimento come risultato del­l’opera di personalità chiave, della diffusione delle idee nazionali oppure delle ambizioni dinastiche di Casa Savoia, Hughes accentua l’importanza cruciale della mancata riforma istituzionale per la comprensione delle cause soggiacenti al crollo dell’Italia della Restau­razione. Il libro di Hughes, che è uno studio di storia locale, chiarisce alcune delle ragioni

6 Gisela Bock, Pat Thane (a cura di), Maternity and Gender Policies. Women and the Rise of the European Welfare Sta­tes, 1880s-1950s, London and New York, Routledge, 1991.7 La “nuova ondata” del femminismo italiano dagli anni settanta è stata recentemente esplorata in un’eccellente rac­colta che mette per la prima volta a disposizione di un pubblico di lingua inglese alcuni documenti chiave (cfr. Paola Bono, Sandra Kemp (a cura di), Italian Feminist Thought. A Reader, Oxford, Basii Blackwell, 1991).8 Si veda il mio The Fascist Social Revolution. The Welfare State in Italy 1871-1945, Oxford, Oxford University Press, di prossima pubblicazione, basato sulla mia tesi di dottorato “From Malthus to Mussolini. The Italian Eugenics Move­ment and Fascist Population Policy 1890-1938”, University of London, 1990. Sto inoltre lavorando a una ricerca dal titolo Social and Economie History of Fascist Italy che verrà pubblicata da Macmillan Press nel 1999.9 Denis Mack Smith, Mazzini, New Haven London, Yale University Press, 1994 (Mazzini, tr. di Bettino Betti, Milano, Rizzoli, 1993).10 Steven C. Hughes, Crime, Disorder and the Risorgimento. The Politics of Policing in Bologna, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1994.

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per cui nella città e nella provincia di Bolo­gna le élites finirono per aderire al progetto piemontese di unificazione nazionale. Il libro descrive i falliti tentativi del governo pontifi­cio per mantenere e potenziare l’apparato centralizzato di polizia introdotto dai france­si durante il periodo napoleonico. L’autore sostiene che la polizia funzionò non tanto co­me “strumento di controllo sociale” o di “pubblica sicurezza”, quanto come un mezzo per consolidare “l’assoluta autorità del Papa sui suoi possedimenti temporali” 11. Se è vero che la Francia ha introdotto in Italia impor­tanti innovazioni istituzionali, come la prima “moderna” forza di polizia, ha anche però la­sciato in eredità un declino economico che ha reso difficile ai regimi della Restaurazione mantenere la legge e l’ordine. Hughes sostie­ne che i Francesi diedero avvio nella città a un processo di “deindustrializzazione” il cui esito fu povertà diffusa e disoccupazione tra gli artigiani. Agli effetti deleteri della deca­denza urbana si aggiunse una crisi nelle cam­pagne , allorché la vendita delle terre imposta dai francesi determinò un’ulteriore concen­trazione della proprietà e impoverì notevol­mente i contadini. La cospirazione politica attrasse reclute in una società che appariva a molti del tutto incapace di affrontare effica­cemente l’aumento della criminalità di strada ad opera di torme di mendicanti e di briganti.

Hughes dimostra che la pretesa di potere assoluto da parte del papato contrastava con l’incapacità del regime di esercitare un ef­ficace controllo poliziesco. Nel corso di un ventennio contrassegnato dalla totale man­canza di una riforma del sistema centralizza­

to di polizia, l’amministrazione pontificia fu ripetutamente costretta a cedere la responsa­bilità dell’ordine pubblico alle élites bologne­si, che nel 1828 e nel 1846 si armarono come “pattuglie civiche” di “vigilantes” . La diffu­sa percezione di uno stato di illegalità e di anarchia non fece che rafforzare l’opposizio­ne all’inerzia burocratica e aH’immobilismo istituzionale che caratterizzavano l’Italia del­la Restaurazione. Dopo che l’apparato di pubblica sicurezza registrò un nuovo, com­pleto fiasco nel 1848, un papato sempre più reazionario si dimostrò a sua volta incapace di realizzare quella necessaria modernizza­zione delle istituzioni che avrebbe potuto contenere il diffondersi del malcontento e permettere al governo di evitare il collasso. Il libro di Hughes, basato su ampie ricerche d’archivio, fornisce solide prove empiriche che suffragano quanto sostiene John Davis nel suo studio di carattere più generale11 12, e cioè che l’Italia postnapoleonica fu investita da una profonda crisi sociale ed economica che portò i notabili del regno a rivoltarsi con­tro gli obsoleti regimi assolutisti della Re­staurazione. Il libro getta poi luce su quelli che Adrian Lyttelton ha definito “ i limiti del liberalismo” 13. Come Hughes dimostra con competenza, le élites italiane furono at­tratte da una concezione liberale che promet­teva di salvaguardare la proprietà privata e l’ordine pubblico, anche a spese della demo­crazia e delle libertà politiche.

Il libro di Hughes sposta inoltre l’attenzio­ne dai tradizionali nodi della storia del Risor­gimento — la diplomazia e la guerra14 — alla questione delle riforme istituzionali negli sta-

11 Steven C. Hughes, Crime, Disorder and the Risorgimento, cit., p. 12.J. A. Davis, Conflict and Control. Law and Order in Nineteenth Century Italy, Houndmills, Basingstoke, Macmillan

Education, 1988 (Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell'800, tr. di Giampaolo Garavaglia, Milano, Angeli, 1989).13 Adrian Lyttelton, Landlords, Peasants and the Limits of Liberalism, in J. Davis (a cura di), Gramsci and Italy’s Pas­sive Revolution, London, Croom Helm, 1979, pp. 104-135.1-1 Si veda per esempio S. Woolf, A History of Italy 1700-1860. The Social Constraints of Political Change, London and New York, Routledge, 1991 (prima edizione 1979) e Frank J. Coppa, The Origins of the Italian Wars of Independence, London, Longman, 1992.

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ti preunitari. Il testo accresce la conoscenza che già possediamo di argomenti analoghi, quali la natura del governo austriaco nel Lombardo-Veneto. Altri studiosi che lavora­no in questo campo, come Lucy Riall e David Laven, entrambi appartenenti a università britanniche, si sono uniti ai colleghi italiani, americani e tedeschi attivamente impegnati nella revisione storiografica del Risorgimen­to. Il loro lavoro collettivo porterà a una più approfondita comprensione degli ele­menti di continuità e delle dinamiche del cambiamento nella storia italiana a partire dall’ancien régime e favorirà il diffondersi di un nuovo approccio che tenta di integrare storia economica, storia sociale, storia della cultura e storia politica.

Nei prossimi anni saranno senza dubbio pubblicate altre reinterpretazioni del Risorgi­mento, ma la storiografia britannica sull’Ita­lia è all’avanguardia anche nell’esplorazione di temi di storia italiana completamente inediti. The Political Economy o f Shopkee­ping in Milan, 1866-1922 di Jonathan Morris, ad esempio, è il primo studio sulla piccola borghesia in Italia mai apparso in lingua ita­liana o inglese1". È singolare che nessuno stu­dioso dell’Italia contemporanea abbia sinora scritto la storia dello strato inferiore del ceto medio tradizionale, visto che a questo strato sociale, come l’autore stesso spiega, i marxisti hanno addossato una quantità di colpe poli­tiche, fra cui conservatorismo sociale, avver­sione per la modernità, invidia di classe, odio nei confronti del proletariato, autoritarismo e appoggio al fascismo. A partire dagli anni venti, la sinistra ha sostenuto che questi sog­getti “perdenti” nel gioco del moderno capi­talismo industriale sono stati volentieri com­plici nella distruzione, perpertrata dal fasci­smo, dell’eroica classe operaia. Fino agli anni settanta, tuttavia, non è stato fatto alcun ten­tativo di esaminare la “vecchia” classe media 15

dei negozianti e degli artigiani e gli studi pub­blicati sull’argomento hanno focalizzato l’at­tenzione esclusivamente sulla piccola borghe­sia francese e tedesca. Morris tenta di correg­gere questo squilibrio in un lavoro il cui pun­to di forza è la ricchezza di dettagli sull’eco­nomia del piccolo commercio nel milanese a partire dagli anni ottanta.

L’autore raggiunge i risultati migliori quan­do descrive l’organizzazione economica e la geografia del settore della vendita al minuto a Milano. Molta attenzione è dedicata all’ana­lisi delle attività e dell’interazione dei vari stra­ti che costituivano questo gruppo diversifica­to: droghieri, macellai, proprietari di alberghi, ristoratori, venditori di sale, tabaccai, parruc­chieri e altri. Viene inoltre presentata una grande quantità di informazioni statistiche di supporto, attinte da censimenti e da altre fon­ti, che gettano luce sulle caratteristiche sociali e le fortune economiche dei commercianti al dettaglio. Il tema della rottura del tradizionale stretto rapporto fra negoziante e cliente è trat­tato in un’ottica attenta all’impatto distrutti­vo della modernità sulle comunità, sulle iden­tità e sui legami di fedeltà consolidati. Poiché l’ondata della trasformazione economica si muoveva in una direzione a loro avversa, nel corso degli anni ottanta vari gruppi di nego­zianti incominciarono ad organizzarsi per proteggere i propri interessi. In capo al 1888 queste differenti associazioni si erano organiz­zate nella Federazione generale dei negozianti milanesi, una libera unione nata allo scopo di premere sul governo per ottenere concessioni in materia fiscale, di creare un senso di solida­rietà collettiva e di distruggere le cooperative di consumatori che minacciavano l’esistenza dei negozianti . Durante il lungo periodo di forte recessione nel commercio al dettaglio che si verificò fra il 1889 e il 1897, questo mo­vimento ampiamente radicato fece il suo in­gresso nell’arena della politica comunale.

15 Jonathan Morris, The Political Economy of Shopkeeping in Milan 1886-1922, Cambridge (England), Cambridge Uni­versity Press, 1993.

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Morris spiega che, mentre durante gli anni ot­tanta il movimento si alleò con le forze demo­cratiche della sinistra, nel 1905 appariva spo­stato verso il centro, anzi verso la sua ala de­stra. Con l’allargamento del diritto di voto nel 1912 e il conseguente successo dei socialisti nelle elezioni locali, nel programma politico degli esercenti comparvero un antisocialismo e un antisindacalismo militanti a carattere di­fensivo. Dato che il movimento socialista mi­rava all’abolizione dell’impresa e del commer­cio privati, nell’Italia giolittiana non era possi­bile alcuna alleanza fra negozianti e operai.

Ma la piccola borghesia costituiva per questo una forza politica di destra in Italia, come hanno a lungo sostenuto i marxisti? Morris non fornisce risposte conclusive a questa domanda cruciale. Egli non riesce a rendere i suoi personaggi storici autentica­mente umani e ce li mostra unicamente come agenti in cicli economici, che reagiscono mec­canicamente alle fluttuazioni dei prezzi o ai cambiamenti nelle proprie fortune. Ad essere giusti, questo limite può essere in parte spie­gato con la scarsità di fonti adeguate. In alcu­ni passaggi del testo, Morris solleva in effetti il problema della limitatezza dei dati a dispo­sizione, accennando per esempio al fatto di non aver potuto quantificare con precisione l’entità del crescente disagio economico pati­to dai negozianti durante il periodo liberale non essendo disponibili i documenti dei tri­bunali fallimentari. D’altra parte però egli non riesce sempre a interrogare in modo pe­netrante il materiale da lui pure raccolto. La sua disamina delle mutevoli simpatie poli­tiche degli esercenti sembra confermare la vecchia interpretazione marxista secondo cui la condotta politica di questa classe era determinata unicamente da meschini interes­si economici. Ma il libro non ci mette in gra­do di prendere posizione al riguardo, in quanto non restituisce il senso dell’impegno 16

ideologico o sociale dei piccoli borghesi: la loro vita quotidiana, l’organizzazione dome­stica, le loro angosce circa la propria condi­zione, i timori per il futuro, lo stile di vita e altri elementi della loro esistenza che certo ne hanno plasmato gli atteggiamenti e in­fluenzato il comportamento non vengono esplorati. Riguardo poi al rapporto fra il fa­scismo e il ceto degli esercenti, l’argomenta­zione dell’autore è particolarmente debole. Morris insiste sulla tesi secondo la quale do­po la prima guerra mondiale i negozianti era­no “scontenti” della destra radicale quanto lo erano stati della sinistra rivoluzionaria. Ma in un capitolo finale, che avrebbe dovuto essere più ampio, non presenta alcuna prova empirica a sostegno di questa curiosa conclu­sione, né trae completamente alla luce le im­plicazioni teoriche dell’esauriente ricerca condotta. Nella conclusione, non ritorna sul­le questioni teoriche sollevate nell’introdu­zione sicché la sua posizione nel dibattito de­gli anni settanta sul Mittelstand resta inespli­citata. Sembrava che i negozianti avessero in­cominciato, a partire dagli anni ottanta, una ininterrotta marcia verso la destra, ma poi l’autore sostiene che per tutto il periodo da lui indagato essi hanno goduto di una note­vole autonomia politica rispetto a tutti i par­titi. Sarà compito di altri studiosi, partendo dall’enorme lavoro già svolto da Morris a proposito di Milano, dare inizio a ulteiori ri­cerche storiche sulle classi medie italiane.

Altri studiosi hanno rivolto la loro atten­zione alla decisiva, ma almeno in Gran Breta­gna relativamente poco esplorata, età giolit­tiana. Douglas J. Forsyth ha recentemente pubblicato un libro che stimola gli studiosi a ripensare le cause del crollo della democra­zia liberale in Italia dopo la prima guerra mondiale. The Crisis o f Liberal Italy. Mone- tary and Financial Policy'6 si chiede perché i governi di coalizione (sostenuti da liberali,

16 Douglas J. Forsyth, The Crisis of Liberal Italy. Monetary and Financial Policy 1914-1922, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1993.

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democratici e Partito popolare) che si avvi­cendarono dopo la guerra furono incapaci di continuare la tradizione del riformismo de­mocratico ideato e gestito da Giolitti negli anni 1901-1914. La tesi di Forsyth è che la vi­sione giolittiana di un governo nazionale al­largato e illuminato poggiava su fondamenta economiche e fmaziarie alquanto precarie. Il grande riformatore liberale riuscì nella sua “grande strategia” a condurre Fltalia nel ventesimo secolo dispiegando sagacia politi­ca e sottigliezza nel conciliare finalità appa­rentemente incompatibili. Giolitti cercò di accelerare lo sviluppo industriale mediante un attivo intervento pubblico nell’economia, di favorire un miglioramento del tenore di vi­ta per mezzo di riforme sociali che garantisse­ro alle masse rappresentanza sindacale e nuo­vi diritti previdenziali e di allargare la base politica dello stato nazione trasformando il suffragio ristretto in suffragio universale ma­schile e cercando di coinvolgere socialisti e cattolici in un blocco di potere parlamentare dominato dai liberali.

Secondo l’autore, questo ambizioso tenta­tivo di modernizzazione e di democratizza­zione fallì a causa dell’ambizione politica dei governanti italiani. Giovanni Giolitti e i suoi seguaci rimasero legati all’obiettivo ot­tocentesco di trasformare il regno da poco unificato da potenza imperialistica ed euro­pea di trascurabile rilievo ad attore di primo piano nelle questioni mondiali. La spinta verso l’affermazione internazionale e la po- 1

tenza imperialistica rese la politica interna subordinata agli imperativi di una politica estera espansionista e vincolò la politica eco­nomica al perseguimento di interessi strate­gici e militari17.

Il fatto che l’industrializzazione italiana presentasse alcune debolezze di fondo perché lo stato poco saviamente aveva favorito lo sviluppo dell’industria pesante legata agli ar­mamenti, e cioè l’industria del ferro e dell’ac­ciaio, della cantieristica e della produzione di materiali bellici in un paese privo di depositi di carbone trasformabile in coke, è una tesi ben nota. A partire dai primi anni sessanta Alexander Gerschenkron, Rostow e coloro che ne seguirono le orme hanno esaminato l’apparentemente “distorto” processo di svi­luppo industriale ed economico nell’Italia contemporanea. Recentemente, ad esempio, Giovanni Federico e Gianni Toniolo hanno pubblicato un breve riesame della strategia e dei risultati dell’economia italiana durante gli anni cruciali che vanno dal 1881 al 191418. Questo ed altri lavori19 hanno sotto­posto all’attenzione del pubblico di lingua in­glese le idee che sottendono le più significati­ve ricerche recentemente svolte dagli studiosi italiani di storia economica. Forsyth insiste sul fatto che il nazionalismo economico, o il “germanesimo” economico come qualcuno lo ha definito, essendo basato sull’eccessiva protezione che lo Stato e il sistema bancario accordavano a industrie chiave mediante ta­riffe protezionistiche, contratti, sussidi e ope-

1 ' In Industrial Imperialista in Italy 1908-1915, Berkeley, University of California Press, 1975 (L ’imperialismo industriale italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo, tr. di Mariangela Chiabrando, Torino, Einaudi, 1974), Richard A. Webster sottolinea il convergere di politica economica e politica estera dopo il 1907 allorché gli imprenditori, organizzati in una potente lobby, iniziarono a condizionare un sistema parlamentare che andava degenerando. La crisi cronica del capi­talismo industriale italiano, in particolare la tendenza alla sovrapproduzione nel settore strategico, trovò secondo Web­ster il suo logico sbocco nel perseguimento di un’aggressiva politica imperialistica. Forsyth d’altra parte sostiene che la politica estera era prioritaria rispetto alla politica economica e nell’Ottocento determinò il corso dell’industrializzazio­ne. Nel mettere a fuoco, sebbene da angolature differenti, le debolezze dell’Italia liberale, entrambi gli studiosi sottoli­neano tuttavia le cause istituzionali e a lungo termine del collasso della democrazia che sarebbe avvenuto alcuni decenni dopo nel periodo fra le due guerre.18 Giovanni Federico, Gianni Toniolo, Italy, in Richard Sylla, Gianni Toniolo (a cura di), Patterns of European Industrialization: thè Nineteenth Century, London, Routledge, 1992, pp. 197-218.19 Si veda ad es. G. Toniolo, Storia economica dell'Italia liberale 1850-1918, Bologna, Il Mulino, 1988.

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razioni di salvataggio, ebbe come risultato la formazione di un’economia squilibrata e di­pendente che non poteva dar luogo a quella prosperità continua dalla quale dipendeva l’esito favorevole del progetto riformatore dei liberali.

L’autore fonda questa tesi su un’indagine della politica economica e finanziaria dell’età giolittiana. Il costante attivo nel bilancio del­lo Stato negli anni dal 1899 al 1909, risultato dei livelli di crescita senza precedenti realiz­zatisi durante il grande “balzo” industriale degli anni 1896-1906 — rese possibile un’a­zione di governo coraggiosa e il riformismo democratico. Ma dietro la facciata del boom economico e dell’innovazione politica, l’Ita­lia di Giolitti era tormentata da problemi ir­risolti che, rimasti tali anche nell’era postbel­lica, avrebbero costituito ostacoli insormon­tabili per la sopravvivenza del parlamentari­smo liberale. Le principali debolezze del si­stema economico dell’Italia prebellica erano la mancata riforma fiscale e bancaria, oltre al persistente deficit nella bilancia dei paga­menti. Misure fiscali e politiche economiche venivano decise a livello nazionale, e proprio le aree in cui più stretta era l’interconnessione fra azione di governo, affari e interessi finan­ziari vengono esaminate da Forsyth in pro­fondità. Molta attenzione è dedicata agli ef­fetti nocivi che l’introduzione di un sistema bancario di tipo tedesco in Italia negli anni novanta ebbe sulle prospettive di stabilità fi­nanziaria della nazione. Attingendo dalla ri­cerche di Franco Bonelli e Antonio Confalo- nieri, Forsyth sostiene che, se è vero che isti­tuzioni di deposito come la Banca Commer­ciale e il Credito Italiano hanno promosso l’industrializzazione, hanno però realizzato tale risultato perseguendo una strategia di investimenti ad alto rischio che sacrificava la stabilità a lungo termine a favore di rapidi profitti. Le banche puntellarono l’industria non competitiva, legarono le proprie fortune a quelle dei loro clienti e resero l’intero siste­ma finanziario e industriale altamente vulne­

rabile alle minime fluttuazioni di mercato. Secondo l'autore, la crisi finanziaria del 1907 portò alla luce i limiti dell’impresa gio­littiana annunziando una nuova epoca di sviluppo economico lento e il ritorno a una politica governativa strangolata dai forti de­ficit di bilancio. Il 1907, cosi sembra suggeri­re Forsyth, segnò la vera conclusione dell’e- sperimento liberale volto a costruire la de­mocrazia assicurandone le fondamenta eco­nomiche.

L’Italia continuò a percorrere il disastroso cammino verso la totale rovina economica e finanziaria che infine culminò nel collasso del parlamentarismo liberale. Secondo l’au­tore, l’incapacità in materia finanziaria era cosi radicata fra i politici al potere che l’Italia non riusci neanche a negoziare condizioni fa­vorevoli per il suo ingresso nel primo conflit­to mondiale. Prevedendone erroneamente una rapida conclusione, le autorità ottennero dalla Gran Bretagna e dall’America prestiti relativamente esigui a condizioni particolar­mente gravose. Anziché limitare la spesa pubblica mediante un’assennata pianificazio­ne, il governo italiano si dimostrò per l’intera durata delle ostilità sorprendentemente inca­pace di dirigere con efficienza la politica fi­nanziaria ed economica. Le autorità cercaro­no di utilizzare la guerra come mezzo per au­mentare le capacità produttive dell’industria nazionale e perciò erano riluttanti all’idea di regolamentare il settore privato mediante controlli sui prezzi e sugli investimenti. Di conseguenza, la mobilitazione procedette in modo frammentario e caotico e i grandi affa­risti, avidi di sfruttare l’incompetenza del go­verno a proprio vantaggio, si diedero a inve­stimenti e speculazioni frenetiche senza pen­sare al futuro. Quando il governo nel 1915 decise di imporre forti tasse sui profitti di guerra, non lo fece in base a un piano presta­bilito. Gli industriali non ebbero difficoltà a scaricare nuovamente i costi sullo Stato au­mentando i prezzi dei manufatti venduti al personale governativo preposto all’approvvi­

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gionamento delle armi e delle munizioni. Di conseguenza, l’enorme aumento della spesa pubblica durante la guerra era compensato solo in parte dall’incremento delle entrate fornito dalle tasse.

Secondo Forsyth, questa difficile situazio­ne non fece che peggiorare durante il dopo­guerra, quando l’Italia, stretta nella morsa di agitazioni politiche e inquietudini sociali, necessitava di una leadership efficace per su­perare la crisi che sarebbe poi culminata nella conquista del potere da parte dei fascisti. L’autore descrive nel dettaglio come la cessa­zione degli aiuti economici americani e bri­tannici sotto forma di crediti nell’ultimo tri­mestre del 1919, unita alle paralizzanti perdi­te nel settore commerciale legate alla guerra e a una profonda recessione dopo il 1920, ab­bia provocato un’ulteriore ascesa della spesa pubblica malgrado la smobilitazione e limita­to la capacità del governo di ricostruire l’eco­nomia. L’aspetto di gran lunga più contro­verso della trattazione della crisi del liberali­smo condotta da Forsyth è il tentativo di di­mostrare 1’esistenza di un legame causale di­retto fra politica economica e finanziaria e collasso politico negli anni che vanno dal 1918 al 1922.

Lo studioso basa la sua tesi su numerose recenti ricerche che esaminano le crisi banca­rie, l’andamento sfavorevole della bilancia dei pagamenti e i deficit di bilancio che erano al centro delle preoccupazioni dei leader po­litici del dopoguerra. Forsyth dedica scarsa attenzione a Orlando, ma si concentra parti­colarmente sulle figure di Nitti e di Giolitti e mette utilmente a confronto il modo in cui questi statisti così diversi fra loro gestirono la crisi del dopoguerra. Egli sostiene che Nitti fu effettivamente estromesso dal potere nel giugno del 1920 a causa della sua incapacità di procurarsi i prestiti stranieri e di controlla­re la finanza pubblica quando l’Italia fu col­pita dai peggiori effetti della recessione inter­nazionale. Mettendo in atto una politica di austerità e di tagli nelle spese statali, Giolitti

fece qualche progresso verso la stabilizzazio­ne finanziaria necessaria per dare all’econo­mia solide basi. Propose però consistenti ri­forme fiscali che turbarono la comunità degli uomini d’affari, la quale ne favorì la caduta. Secondo il nostro autore, la prolungata crisi bancaria limitò l’efficacia delle ultime due amministrazioni italiane democraticamente elette e contribui in modo decisivo al crollo del governo liberale. Forsyth esamina a fon­do il modo in cui la riorganizzazione della produzione dell’acciaio e delle costruzioni meccaniche attraverso i nuovi compiti affida­ti all’Ilva, la gestione della crisi dell’Ansaldo e il crollo della Banca italiana di sconto mi­narono il ministero Bonomi e conclude soste­nendo che anche Facta fu prigioniero dell’in­gente debito pubblico, di mercati finanziari sfavorevoli, di un’industria pesante e di un si­stema bancario oppressi dalla crisi. Anch’egli si dimostrò incapace di mantenere la promes­sa del riformismo dell’anteguerra varando un programma di lavori pubblici e di ricostru­zione economica che a parere dell’autore avrebbe potuto fornire al governo liberale il sostegno di quell’ampia base sociale di cui aveva bisogno per evitare il collasso.

I critici imputeranno a Forsyth di oscillare fra la tesi secondo cui l’economia, in quanto insieme di fattori fra altri, incise profonda­mente sull’esito della crisi politica e sociale postbellica, e quella secondo cui le scelte eco­nomiche, concepite come fattori determinan­ti, furono le cause vere e proprie del crollo della democrazia italiana. Ma la forza del suo approccio sta nell’accurata ricerca che getta nuova luce sulla situazione economica dell’Italia liberale. La sua disamina dell’in­differenza dei governi e dei banchieri in Gran Bretagna e in America di fronte alle richieste italiane di prestiti per favorire la ripresa del dopoguerra pone ad esempio questioni im­portanti su ciò che sarebbe potuto accadere se lo Stato italiano fosse stato meglio in gra­do di dirigere la ricostruzione economica. Istruttiva è poi la sua analisi della codardia

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delle amministrazioni liberali di fronte alla necessità di riforme fiscali che, se attuate, avrebbero potuto alienare loro gli elettori della classe media. Il suo elogio della legisla­zione fiscale socialmente regressiva del primo governo di Mussolini suona a volte curioso, ma la sottolineatura del fallimento del libera­lismo nell’assicurarsi la sopravvivenza crean­do una burocrazia, un governo e un sistema di finanza pubblica efficienti è comunque as­sai significativa.

Il lavoro di Forsyth dovrebbe essere consi­derato nel contesto delle nuove ricerche che tentano di ripensare le questioni centrali del­la storia dell’Italia contemporanea. Utiliz­zando una metodologia di stampo weberia- no, l’autore esamina la natura dello Stato li­berale valutando il modo in cui esso disimpe­gno una delle sue funzioni principali, vale a dire l’organizzazione e l’intervento nell’eco­nomia. Il libro concentra l’attenzione sulle insufficienze strutturali e istituzionali di lun­go periodo che impedirono la riuscita del processo di modernizzazione e di democratiz­zazione. Come l’autore riconosce apertamen­te, il suo studio dell’interazione fra politica ed economia al livello del governo centrale non piacerà a coloro che, conducendo la ri­cerca in ambito provinciale, preferiscono lo­calizzare le cause primarie del crollo del libe­ralismo in quella mobilitazione fascista nelle campagne che precedette l’assalto allo stato ad opera del Pnf. Il libro è comunque un utile contributo alle numerose ricerche che defini­scono la crisi del dopoguerra principalmente come una lotta fra partiti politici vinta dai fa­scisti, e riesce a esserlo in quanto evita la de­finizione alquanto ristretta di politica che li­mita molta storiografia britannica allo studio

delle relazioni diplomatiche e della distribu­zione del potere in parlamento. John A. Da­vis ha recentemente sostenuto che i nuovi la­vori di storici italiani che cercano di riconsi­derare il tema della transizione italiana alla modernità non hanno prodotto alcun “con­senso attorno a un’ipotesi revisionista”20. Analogamente, il massimo che si possa dire delle recenti ricerche di studiosi di lingua in­glese è che sollevano nuove domande su pro­blemi vecchi.

Altri studi recenti creeranno certo più po­lemiche che consensi. Benché esuli dagli stret­ti limiti di questo saggio, il lavoro di Zeev Sternhell non può essere escluso, perché ha già esercitato un influsso sugli studiosi bri­tannici dell'Italia. Quando fu pubblicata per la prima volta, la sua ricerca sulle origini del fascismo in Francia fece montare su tutte le furie gli altri esperti del settore e, in una ce­lebre causa legale che provocò l’ultima appa­rizione in pubblico di Raymond Aron prima della morte, condusse a un procedimento le­gale nei confronti dell’autore21. Le ragioni erano evidenti. Nella visione di Sternhell, la definizione del fascismo si riduce a una for­mula di ingannevole semplicità, ma assai pro­vocatoria: “nazionalismo + socialismo = fa­scismo”. L’audacia di Sternhell consiste nel vedere il fascismo come un prodotto della tradizione rivoluzionaria socialista, un’inter­pretazione inaccettabile per molti storici le cui incrollabili convinzioni politiche e scienti­fiche portano a una sola conclusione, e cioè che il fascismo è stato un fenomeno esclusiva- mente di destra, reazionario e controrivolu­zionario. Sternhell urta anche la sensibilità degli empiristi irriducibili, in quanto sembra adottare un approccio antistorico e determi-

20 J.A. Davis, Remapping Italy’s Path to the Twentieth Century, “Journal of Modern History”, 1994, n. 66, pp. 291-320.21 Zeev Sternhell, La Droite révolutionnaire. Les Origines françaises du Fascisme, Paris, Editions du Seuil, 1978 e Ni droite, Ni gauche. L'idéologie fasciste en France, Paris, Editions du Seuil, 1983. Si vedano inoltre A. Costa Pinto, Fascist Ideology Revisited: Zeev Sternhell and His Critics, “European History Quarterly”, 1986, n. 16, pp. 465-483 e Robert J. Soucy, French Fascism and the Croix de Feu. A Dissenting Interpretation, “Journal of Contemporary History”, 1991, n. 26, pp. 159-188.

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nistico nelle sue analisi delle radici intellet­tuali del fascismo. Quando usa termini cari­chi di significati come “proto-fascista” (di­rettamente preso a prestito dagli ormai de­funti dibattiti dei politologi negli anni sessan­ta e settanta) per descrivere il pensiero sociale precedente il 1918 e sostiene che il fascismo esisteva già prima che venissero inventati la parola per designarlo o il movimento stesso, suscita una comprensibile, fiera opposizione da parte dei suoi colleghi22.

Il suo più recente lavoro scritto in collabo- razione con altri inizia ad esempio con l’ardi­ta affermazione secondo la quale “prima di diventare una forza politica, il fascismo è sta­to un fenomeno culturale”23. Sternhell, come Ernst Nolte, Eugen Weber e altri prima di lui, rintraccia le origini del fascismo nelle crisi so­ciali, culturali e politiche del tardo Ottocen­to. Benché Lyttelton abbia una volta osserva­to che il fascismo è figlio della prima guerra mondiale e non della Rivoluzione francese o del secolo della borghesia, altri studiosi hanno scelto di concentrare l’attenzione sulla lunga durata24. La vecchia teoria del Sonder- weg e il dibattito sulla continuità storica han­no dimostrato per la Germania che studiosi come Mosse e Stern, i quali sono andati in cerca degli antenati intellettuali del fascismo, hanno spesso scoperto che quanto sulle pri­me era considerato come pensiero peculiar­mente “fascista” aveva in buona parte dei precedenti storici. Sternhell ribadisce che pensatori politici francesi, soprattutto Geor­ges Sorel, giocarono un ruolo importante nello sviluppo di una dottrina che faceva de­gli eroi, del mito, dell’azione, della teatralità,

della propaganda, del rituale e della violenza gli elementi costitutivi di una specie inusitata e innovativa di moderna politica. Il suo lavo­ro prende a oggetto gli anni novanta, visti co­me il decennio in cui venne costruita un’al­leanza fra quello che egli definisce un sociali­smo “non marxista” , “antimarxista” o già “post marxista” e un nazionalismo di tipo militante e violento. Il nazionalismo che cre­sceva nell’ambito di questo revisionismo so­cialista non era naturalmente l’eroico pa­triottismo del 1789 o del 1848. Era semmai il nazionalismo nato dalFamara delusione nei confronti delle realizzazioni della società borghese nell’Ottocento, il nazionalismo che generava disprezzo per le istituzioni della de­mocrazia parlamentare così come per gli ideali di giustizia, fraternità ed eguaglianza. Nei primi decenni del Novecento, i futuri componenti delle truppe d’assalto fasciste stavano già reclutando proseliti fra la gente attratta da una nuova ideologia che nel suo programma proponeva valori sociali presi a prestito dalla sinistra e obiettivi politici mu­tuati dalla destra.

Comunque si valutino i meriti del lavoro di Sternhell e dei suoi colleghi, si deve dire che egli ha reso un grande servizio alla comunità accademica interessata allo studio del fasci­smo. Era dagli ultimi anni sessanta e dai pri­mi anni settanta che nell’accademia britanni­ca e in quella americana non si assisteva a di­battiti accesi e a discussioni ininterrotte sulla natura del fascismo come “categoria genera­le” . Da allora sono state pubblicate alcune ottime monografie, ma sembrava oramai fi­nito il tempo delle grandi nuove teorie del fa-

22 Z. Sternhell, Strands of French Fascism, in Stein Ugelvik Larsen, Bernt Hagtvet, Jan Petter Myklebust (a cura di), Who were the Fascists. Social Roots of European Fascism, Bergen-Oslo, Universitetsforlaget, 1980. p. 479. L’autore cosi prosegue: “In Francia il reale, autentico fascismo nacque sempre da sinistra, mai da destra. Questo vale per il protofa­scismo e resta vero per il periodo fra le due guerre” (p. 486). Per una visione opposta, si veda R. Soucy, French Fascism. The First Wave 1924-1933, New Haven and London, Yale University Press, 1986.23 Z. Sternhell, Mario Sznajder, Maia Asheri, Naissance de /'idéologie fasciste, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1989 (Nascita dell’ideologia fascista, tr. di Gianluca Mori, Milano, Baldini & Castoldi, 1993).24 A. Lyttelton, Italian Fascism, in Walter Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide, Aldershot, Scholar Press, 1991 (prima edizione 1976), pp. 125-150.

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seismo, quelle che spingevano seguaci e critici a riempire le riviste specialistiche di pagine ricche di appassionanti repliche e argomenta­zioni a difesa. Il compianto Tim Mason, autore di quello che va certamente considera­to come uno degli articoli di più ampia porta­ta e più teoricamente densi mai scritti sul fa­scismo25, pubblicò addirittura, nel 1988, uno dei suoi ultimi testi in cui sembrava ritrattare alcune delle sue precedenti dichiarazioni cir­ca la possibilità di paragonare fra loro i di­versi movimenti fascisti e sollecitava gli stu­diosi ad abbandonare le ossessioni teoriche e a scrivere storie del fascismo nelle singole nazioni26. Ma alcuni recenti sviluppi nella storiografia britannica indicano ora una ri­nascita delfinteresse per i modelli e i costrutti teorici finalizzati a spiegare la complessità e l’eterogeneità del fascismo.

Alexander De Grand ha recentemente pubblicato un breve studio che mette a con­fronto le dittature fasciste in Italia e in Ger­mania27. Questo lavoro non incontrerà il fa­vore di coloro che credono nell’assoluta uni­cità e incomparabilità del nazismo28, ma sti­molerà un rinnovato interesse per il fascismo come categoria generale. Nella medesima collana, anch’io ho scritto un modesto studio sulle politiche demografiche delle dittature fasciste europee e delle democrazie liberali nel periodo fra le due guerre che mette in di­scussione la presunta eccezionalità del fasci­smo nel suo complesso29. Anche Paul Broo- ker ha recentemente interrotto la tendenza eurocentrica di molte ricerche sul fascismo

nel suo libro sui regimi “fratelli” che gover­navano la Germania, l'Italia e il Giappone durante la seconda guerra mondiale. In uno studio basato principalmente su fonti secon­darie, egli analizza in una prospettiva compa­rativa i numerosi meccanismi istituzionali e sociali mediante i quali le tre dittature tenta­rono di promuovere l’unità nazionale e la coesione sociale in un’epoca di grande crisi. L’autore sostiene che nessun regime seppe meglio di quello giapponese mobilitare forze in sostegno della propria politica, inculcare un sentimento di lealtà nella popolazione e rafforzare la società per fronteggiare la mi­naccia dNla guerra totale. Persino la Germa­nia nazista fu a suo parere meno “totalitaria” per quanto riguarda la capacità di risvegliare lo spirito delle masse, di cancellare l’autono­mia dell’individuo e di legare il cittadino allo Stato. Malgrado l’assenza di un grande parti­to fascista o di uno stato fascista vero e pro­prio, i leader politici giapponesi poterono contare sulle tradizioni nazionaliste, sul siste­ma imperiale e sulla religione per rafforzare comportamenti conformistici30.

Studiosi più chiaramente orientati in senso teorico hanno già pubblicato nuovi impor­tanti lavori i cui ambiziosi programmi ricor­dano quelli di due decenni fa. Una figura gui­da in questo settore in crescita è Roger Grif- fin, che ha pubblicato The Nature o f Fascism e, più recentemente, Fascism31. Il primo lavo­ro è uscito come parte di una nuova collana sull’ideologia e la politica di destra, nella quale sono già comparsi libri come Right-

25 Tim Mason, The Primacy of Politics. Politics and Economics in National Socialist Germany, in S. J. Woolf (a cura di), The Nature of Fascism. London, Weidenfeld and Nicholson, 1968, pp. 165-196.26 T. Mason, Fascism and Modernization. A Montage, “History Workshop Journal”, 1988, n. 25. pp. 110-147.2 Alexander J. De Grand, Fascist Italy and Nazi Germany. The “Fascist" Style of Rule, London, Routledge, 1995.28 Si veda per esempio la conclusione di Michael Burleigh, Wolfgang Wippermann, The Racial State. Germany 1933- 1945, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1991 (Lo stato razziale. Germania 1933-1945, tr. di Orsola Fenghi, Milano, Rizzoli, 1992).29 Maria Sophia Quine, Population Politics in the Twentieth Century. Fascist Dictatorship and Liberal Democracies, London, Routledge, 1995.311 Paul Brooker, The Faces of Fraternalism. Nazi Germany, Fascist Italy, and Imperial Japan, Oxford, Clarendon Press, 1991.

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Wing Military Government di Robert Pink- ney e The Politicai Economy of thè New Righi di Graham Thompson31 32. Il secondo è un’an­tologia di scritti di fascisti, di loro critici e di loro precursori dall’Ottocento ad oggi. Al pari di Sternhell, Griffin rifiuta di vedere il fascismo come un’accozzaglia di idee prese a prestito e mal digerite e, come già James A. Gregor, ravvisa nel pensiero e nella prati­ca fasciste coerenza, serietà e determinazio­ne. Inoltre, Griffin respinge l’idea che il fasci­smo possa essere descritto come propaganda priva di sostanza o come “pura chiacchiera”, secondo la famosa accusa di Hans Momm- sen. Sternhell, da un lato, vede il fascismo co­me una critica penetrante delle manchevolez­ze del marxismo classico e a volte sembra do­tare i “protofascisti” dell’anteguerra di una capacità di previsione davvero notevole per cui essi, unici fra tutti, avrebbero compreso che l’appello alla rivoluzione non sarebbe riuscito a catturare il cuore e la mente delle masse desiderose di qualcosa che desse loro un senso di appartenenza, e che non poteva consistere nelle sterili idee della lotta di clas­se, bensì doveva incarnarsi nell’ideale della comunità nazionale. Questi protofascisti li­quidarono Marx e si misero a venerare Sorel, nel loro lessico politico sostituirono la nazio­ne alla classe, ma conservarono gran parte del bagaglio collettivistico dell’obsoleta tra­dizione socialista. Griffin, dall’altro lato, sot­tolinea non la natura apparentemente deriva­ta del fascismo, bensì la sua sorprendente e creativa originalità.

In The Nature o f Fascism, Griffith propo­ne una nuova definizione del fascismo come categoria generale, descrivendolo come “un genere di ideologia politica il cui nucleo miti­

co nelle sue varie trasformazioni è una forma palingenetica di populismo ultranazionali­sta”3'’. Questa interpretazione riesce ad evita­re alcune delle principali trappole in cui ca­dono quanti definiscono il fascismo solo in riferimento a ciò a cui esso si opponeva, anzi­ché a ciò per cui si batteva. In quella che è probabilmente una delle più lunghe defini­zioni del fascismo che siano state mai scritte, Juan Linz sottolinea per esempio il carattere oppositivo o negativo del fascismo come for­ma politica in genere. Egli lo definisce “un movimento antiparlamentare, antiliberale, anticomunista, populista e perciò antiprole­tario, in parte anticapitalista e antiborghese, anticlericale o, almeno, non clericale”34. Qualificata e prudente, questa sorta di analisi multidimensionale probabilmente coglie la specificità del fascismo e, fatto altrettanto importante, riesce a metterne in rilievo l’uni­tà essenziale e l’eterogeneità. Essa priva però il fascismo di qualsiasi autonomia, lo riduce a mera negazione storica del passato e lo vede unicamente come forza reattiva. Anche altri teorici non sono riusciti a fornire una tipolo­gia praticabile, che oltrepassi una descrizione dei dogmi ideologici del fascismo in direzione di un’analisi del suo funzionamento dopo la conquista del potere. Il contributo di Griffin comunque è importante in quanto tenta di definire il fascismo non solo come movimen­to ma anche come regime. Egli si riferisce in­fatti al fascismo come un insieme di “miti fondamentali” , fra cui i principali erano il mito della rigenerazione nazionale'e quello dell’uomo nuovo, incarnati entrambi nell’af­fannosa ricerca di una “terza via” fra comu­niSmo e capitalismo che avrebbe permesso ai suoi leader di distruggere il degenerato e cor-

31 Roger Griffin, The Nature of Fascism, London, Pinter Publishers, 1991; una raccolta di fonti primarie e invece Fa­scism. A Reader’s Guide, Oxford, Oxford University Press, 1995.33 Robert Pinkney, Right-Wing Military Government, London, Pinter Publishers, 1990; Graham Thompson, The Poli­tical Economy of the New Right, London, Pinter Publishers, 1993.33 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 26.34 Juan J. Linz, Some Notes Towards a Comparative Study of Fascism in Sociological Perspective, in Fascism, cit., p. 12.

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rotto sistema democratico e di creare un au­tentico Ordine nuovo. Per Griffm, il fascismo è un’ideologia utopica la cui dottrina si basa sul “mito palingenetico” della rinascita della nazione e del popolo. Nella valutazione di questo studioso le componenti chiave del fa­scismo sono pertanto la sua “ideologia palin- genetica”, il “richiamo populista” , gli obiet­tivi di mobilitazione di massa, l’“ultranazio- nalismo” e l’“utopismo”.

Grazie a questa definizione del fascismo, Griffm è in grado di spiegarne la forza di at­trazione. Nuove ricerche svolte da studiosi che lavorano sulla Germania di Weimar sem­brano avere definitivamente dimostrato che il fascismo non trovò le sue reclute solo nella piccola borghesia, ma attrasse l’adesione di vasti strati sociali, compresa una parte della classe operaia. La vecchia formula marxista delle origini di classe del fascismo, che vedeva nel movimento una violenta mobilitazione del Mittelstand contro l’indifeso proletariato, è stata palesemente ridimensionata. In luogo di essa, Griffm propone di considerare la po­tenza del nucleo mitico del fascismo e defini­sce i miti politici non come idee razionali ma­nipolate per legittimare determinate linee po­litiche, bensì come “principi utopici” in gra­do di esercitare un richiamo sulle emozioni e di ispirare lealtà profonda. Sotto questo aspetto, si avvicina a Sorel e a Pareto, i quali sottolineavano la molla irrazionale dell’azio­ne politica. E, quantunque nell’ambito di una diversa concezione, anche la definzione del fascismo come “religione secolare” data da Emilio Gentile accentua la forza dei suoi ca­ratteri emotivi e mistici35.

La definizione di Griffin gli permette di sottolineare il carattere non solo mistico ma anche rivoluzionario dell’ideologia e della pratica fasciste. Una delle principali temati­che del suo lavoro riguarda la percezione

che i fascisti avevano di sé come rivoluzionari chiamati dal destino a rovesciare l’ordine sta­bilito e a creare un ordine totalmente nuovo. Griffm dissente da una nutrita schiera di stu­diosi che descrivono il fascismo unicamente come reazione e opportunismo. Offrendo un importante contributo al lungo dibattito sul fascismo e sulla modernizzazione, egli si distacca da storici come Henry Ashby Turner che attribuiscono al movimento profondi e travolgenti impulsi antimoderni. In Italia, tutto ciò che suggeriva dinamismo, cambia­mento, modernità e innovazione fu ripetuta- mente utilizzata nella propaganda del regime fascista. Si riteneva che il nuovo ordine eco­nomico fascista potesse generare una crescita dinamica e sostenuta della produttività del­l’agricoltura e dell’industria. Ciò condusse a porre barriere doganali, a promuovere l’au­mento della produzione agricola e a creare monopoli statali per lo sfruttamento delle ri­sorse minerarie* per la trasformazione delle fibre naturali e per la riduzione della dipen­denza dal petrolio e dal carbone stranieri me­diante piani per la produzione di energia idroelettrica. Nella stampa e nei cinegiornali le immagini dei progetti di bonifica, delle nuove autostrade, delle auto Fiat e delle mac­chine da scrivere Olivetti venivano utilizzate per mettere in rilievo gli intenti modernizza- tori del fascismo. Malgrado sostenga che la “natura chimerica” della nuova Italia “alla fine sarebbe divenuta sin troppo palese”36, Griffm vede la novità del fascismo negli ini­ziali obiettivi rivoluzionari e nell’originario programma radicale. Il fascismo intendeva effettivamente realizzare la sua visione di una “comunità nazionale che sarebbe rinata come una fenice dopo un periodo di invasiva decadenza che l’aveva quasi distrutta”37. E significativo anche il fatto che Griffm consi­deri il fascismo come un prodotto del vente­

35 Emilio Gentile, Fascism as Political Religion, “Journal of Contemporary History”, 1990, n. 25, pp. 229-251.36 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 67.37 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 38.

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simo secolo, che ha creato un diffuso deside­rio di un nuovo ordine, e degli anni venti, che hanno conferito al movimento il suo stile po­litico eminentemente moderno.

Il tentativo di Griffin di definire l’idealtipo del fascismo e di delineare una tipologia rife­rendosi ai movimenti esistenti al di fuori del­l’Italia e della Germania, dell’Europa e del periodo fra le due guerre - tentativo che co­stituisce la prima teoria significativa apparsa da molti anni — è davvero encomiabile. Que­sto autore riesce, a mio avviso, a giustificare l’uso di una categoria generale identificando un nucleo di idee base comuni ai molti diversi movimenti. Di fronte a un’analisi così com­plessiva, alcuni studiosi resteranno inevita­bilmente ancorati alla loro convinzione che “modelli” e “paradigmi” servano a tenere occupati i sociologi ma siano inutili allo sto­rico. Se però a prima vista la definizione del fascismo come ultranazionalismo palingene- tico può sembrare così vaga da essere quasi inconsistente, in realtà la sua interpretazione è storicamente fondata, sottile e ricca di sfu­mature. Griffin evita la tentazione, tipica dei non specialisti, di classificare come fascista qualsiasi movimento o regime per il quale si provi avversione. Dal suo punto di vista, non sarebbe ad esempio pertinente descrivere Gheddafi o Saddam Hussein come dittatori “fascisti”, in quanto il primo è giunto al po­tere grazie all'esercito e il secondo grazie a un movimento di quadri dell’élite del partito Baath (Partito socialista della rinascita ara­ba). Posizioni decisamente contrarie ai mo­delli teorici, come quella di Gilbert Allardyce il quale ha sostenuto rigidamente che “il ter­mine fascismo non ha alcun significato al fuori dell’Italia” 38, continueranno forse a

soffocare la discussione per i prossimi decen­ni, ma certo non ce lo auguriamo. La speran­za è che studiosi di mentalità aperta come Griffin riprendano la loro ricerca di un’es­senza del fascismo, o di quello che Ernst Nolte ha definito il “minimum” fascista, che permetta agli studiosi di giudicare in una prospettiva più sistematica se un movi­mento o un regime può essere definito fasci­sta oppure no.

Griffin turberà ovviamente quanti ritengo­no che l’epoca fascista sia finita nel 1945. An­che altri storici hanno tentato di mettere in discussione la comune comprensione crono­logica e geografica del fascismo. In Fascism. A History39, Roger Eatwell delinea la storia del fascismo in Europa e descrive la continui­tà che lega il periodo fra le due guerre e il do­poguerra, ricordando che i primi partiti fasci­sti del dopoguerra furono fondati in Italia già nel 1946 e in Germania nel 1949, mentre nel decennio successivo piccoli partiti fascisti che traevano ispirazione direttamente dal fa­scismo del periodo fra le due guerre compar­vero in tutta Europa. Anche gli autori dei contributi raccolti in Neo-Fascism in Euro­pe40 sollevano questioni importanti circa i le­gami fra l’ondata fascista che percorse l’inte­ra Europa e il mondo nel periodo fra le due guerre e la rinascita della nuova destra dopo la seconda guerra mondiale. La tesi della continuità non può tuttavia essere spinta ol­tre un certo limite in quanto il neofascismo, pur subendo in effetti l’influsso ideologico di un’epoca precedente, è emerso in un conte­sto storico completamente diverso da quello proprio degli anni venti e trenta. In Germa­nia, le numerose sette neonaziste mobilitano le paure e gli odi di una generazione politica

38 Gilbert Allardyce, What Fascism is not. Thoughts on the Deflation of a Concept, “American Historical Review”, 1979, n. 84, pp. 367-398.39 Roger Eatwell, Fascism. A History, London, Chatto & Windus, 1995.40 Luciano Cheles, Ronnie Ferguson, Michalin Vaughan (a cura di), Neo-Fascism in Europe, London, Longman, 1991. Si veda inoltre Geoffrey Harris, The Dark Side of Europe. The Extreme Right Today. Edimburgh, Edimburgh University Press. 1990.

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interamente nuova di giovani delusi. Persino in un caso unico come quello del Movimento sociale italiano, che è evidentemente un suc­cessore diretto del Partito nazionale fascista di Mussolini, i leader hanno dovuto adattarsi alle nuove circostanze per ottenere legittima­zione e, in qualche misura, potere. Il termine “postfascismo” è chiaramente inaccettabile per ragioni politiche e storiche, in quanto im­pedisce di vedere fino a che punto il nuovo “rispettabile” fascismo in giacca e cravatta sia una versione addomesticata del vecchio fascismo degli assassini e dei criminali di Mussolini. Un fascista è sempre un fascista, sia che si vesta Armani sia che porti la cami­cia nera. Almeno Mussolini e la sua genera­zione di squadristi erano abbastanza onesti da ammettere il loro totale disprezzo per la democrazia parlamentare. Per quanto prote­stino la propria estraneità, ai sedicenti “post­fascisti” non si dovrebbe sicuramente affida­re mai la cura delle nostre preziose istituzioni democratiche. Parimenti però gli storici deb­bono sforzarsi di spiegare il cambiamento ol­tre che la continuità. Forse i volumi citati non rispondono a tutte le possibili domande sul futuro del fascismo in Europa dopo la guerra fredda, ma certo smentiscono la con­vinzione dei critici del fascismo secondo cui la sua povertà intellettuale finirà per conse­gnarlo all’oblio della storia. Il fascismo si è dimostrato nel ventesimo secolo una forza politica potente e duratura, che è riuscita a sopravvivere al comuniSmo e ad attirarsi la fedeltà di un numero di seguaci assai maggio­re di quanti ne abbia mai avuti il liberalismo.

I problemi politici che assediavano l’Italia del dopoguerra hanno a lungo richiamato

l’interesse degli accademici. Vent’anni fa, ap­parve per la prima volta Italy: Republic Wi- thout Government? di Percy Allum41, un libro seguito da altri come The Politic o f Uneven development di Raphael Zariski, The Govern­ment o f Republican Italy di John Clarke Adams e Paolo Barile, The History o f Con- temporary Italy di Ginsborg e Democracy Italian Style di Joseph La Palombara42. Una delle più importanti pubblicazioni re­centi è Governing Italy: The Politics o f Bar- gained Pluralism di David Hine43, un libro complesso e difficile che tenta una valutazio­ne provvisoria delle significative prospettive di cambiamento e di riforme nell’Italia odier­na. Hine descrive il sistema politico nell’Italia del dopoguerra come una “partitocrazia” con grossi limiti che hanno impedito lo svi­luppo di una condotta di governo decisa e fi­nalizzata a un disegno preciso. Le manchevo­lezze del sistema italiano a parere di Hine non sono soltanto strutturali: le istituzioni demo­cratiche, compreso il parlamento, l’ammini- strazione giudiziaria e civile, l’esecutivo e i partiti, possono presentare dei gravi difetti, ma le vere cause degli attuali problemi dell’I­talia risiedono molto più in profondità — nella stessa cultura politica, nel tessuto della società, nella mentalità della classe di gover­no e nel comportamento delle élite. Le osser­vazioni conclusive di Hine, scritte alla luce dei risultati delle elezioni del 1992 e delle que­stioni sollevate dagli imminenti referendum del 1993, non sono poi tanto ottimistiche. Esiste il serio rischio di un crollo politico to­tale? O stiamo assistendo a una “rivoluzione politica dall’alto” da cui nasceranno quelle trasformazioni istituzionali e del sistema elet-

41 Percy Allum, Italy. Republic Without Government?, London, Weidenfeld & Nicholson, 1973 (Anatomia di una repub­blica. Potere e istituzioni in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976).4~ Raphael Zariski, The Politics of Uneven Development, Hinsdale, Dryden Press, 1972; John Clarke Adams, Paolo Ba­rile, The Government of Republican Italy, London, Allen & Unwin, 1961; P. Ginsborg, The History of Contemporary Italy, London, Penguin Books, 1990 (Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, tr. di Marcello Flores e Sandro Perini, 2 voli., Torino, Einaudi, 1989); Joseph La Palombara, Democracy Italian Style, New Haven-London, Yale University Press, 1987 (Democrazia all'italiana, tr. di Laura Noulian, Milano, Mondadori, 1988).43 David Hine, Governing Italy. The Politics of Bargained Pluralism, Oxford, Oxford University Press, 1993.

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torale e giuridico che sono state all’ordine del giorno per più di un decennio? La conclusio­ne di Hine sembra suggerire che negli ultimi anni non vi è stata una vera rivoluzione, mal­grado il diffuso riconoscimento dell’urgente necessità di un cambiamento e la notevole ca­pacità del sistema giuridico-politico italiano — capacità che non ha precedenti nell’Euro­pa del dopoguerra di mettere sotto pro­cesso i propri stessi leader, i propri valori, la propria etica e le proprie tradizioni. Se il rinnovamento attraverso la rivoluzione può essere un obiettivo illusorio, un riconsolida­mento del sistema potrebbe costituire una possibilità più realistica nella crisi attuale. Complessivamente, Hine descrive una demo­crazia che, per quanto imperfetta, si è dimo­strata solida negli ultimi anni. Se il massimo che si possa sperare è che la democrazia all’i­taliana se la cavi per il rotto della cuffia, ciò è comunque preferibile a un totale crollo del sistema.

Sull’argomento del fascismo classico del periodo fra le due guerre sono stati recente­mente pubblicati alcuni nuovi importanti studi condotti in una prospettiva nazionale. Perry R. Willson ha scritto un lavoro che cer­ca di migliorare la nostra comprensione della storia della classe operaia italiana sotto il fa­scismo esaminando il ruolo delle donne nella forza lavoro dell’industria44 45. Giustamente l’autrice rileva che anche studi definitivi co­me The Culture o f Conserti. Mass Organiza- tion o f Leisure in Fascisi lialy di Victoria De Grazia43 hanno lasciato fuori quasi com­pletamente il genere come categoria di anali­si. Una delle tesi più importanti sostenute nel libro riguarda però l’organizzazione del tem­po libero nei luoghi di lavoro. La questione del controllo fascista sul lavoro in fabbrica,

sostiene l’autrice, non è “in alcun modo esau­rita da uno studio del dopolavoro, poiché per metà della classe operaia tale istituzione era praticamente irrilevante”46. Per esemplifica­re l’esperienza delle lavoratrici, viene assunta come case study un’impresa elettromeccanica di Sesto San Giovanni, in cui circa la metà della forza lavoro era costituita da donne. L’autrice spiega che la Magneti Marelli era probabilmente la più moderna impresa del­l’epoca: fondata nel 1919, produceva compo­nenti per motori di auto, aereoplani, treni, radio ed armamenti. La produzione incomin­ciò a venire razionalizzata sull’esempio ame­ricano negli anni venti, quando i proprietari si precipitarono ad adottare le tecniche di re­golamentazione scientifica dei ritmi di lavo­ro. Definita una “clockwork factory” in quanto la produttività del lavoro e la sua or­ganizzazione erano completamente mecca­nizzate, l’impresa prosperò. Willson dedica una buona parte del suo studio ad un’analisi della politica aziendale della direzione, la quale fuse principi tayloristici e paternalismo vecchio stile in un’efficace strategia manage­riale finalizzata alla creazione di una “forza lavoro soddisfatta” . A differenza di molte al­tre imprese italiane, la Magneti Marelli prese sul serio il problema della salute sul posto di lavoro e il suo programma di prevenzione de­gli infortuni produsse risultati positivi. Il tur­nover della forza lavoro era inoltre estrema- mente basso, cosi come il livello di militanza politica fra i lavoratori.

La ricerca di Willson sulle lavoratrici di questa impresa ha prodotto dati molto inte­ressanti che confermano le scoperte di altri studiosi. Come prevedibile, nell’azienda do­minava una rigida divisione sessuale del lavo­ro e le donne costituivano il grosso della ma­

44 Perry R. Willson, The Clockwork Factory. Women and Work in Fascist Italy, Oxford, Clarendon Press, 1993.45 Victoria De Grazia, The Culture of Consent Mass Organization of Leisure in Fascist Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1981 (Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro, tr. di Pietro Ne­gri, Roma-Bari, Laterza, 1981).46 P. Willson, The Clockwork Factory, cit., p. 246.

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nodopera non specializzata o semispecializ­zata. La maggioranza delle lavoratrici, inol­tre, erano nubili e giovani, circa un terzo era al di sotto dei diciott’anni di età e quasi la metà sotto i venti. L’autrice spiega che, sebbene il matrimonio o la maternità non si­gnificassero necessariamente l’abbandono del lavoro in fabbrica da parte delle donne, la mancanza di dati significativi negli archivi dell’azienda non permette di raggiungere conclusioni definitive su questo punto. Will- son dedica grande attenzione al problema deH’atteggiamento delle donne nei confronti del lavoro in fabbrica. Basandosi su testimo­nianze orali, mette bene in luce i condiziona­menti che il costume sociale, gli impegni fa­miliari, i dogmi della Chiesa e il pregiudizio maschile esercitavano sulle donne che lavora­vano fuori casa.

Alcune delle conclusioni cui Willson giun­ge hanno una rilevanza che va ben oltre i li­miti di uno studio sul lavoro femminile. L’au­trice sostiene che i datori di lavoro non subi­rono alcuna pressione da parte del regime fa­scista, del partito o dagli organismi governa­tivi per introdurre provvedimenti a tutela della maternità, piani di previdenza aziendale0 strutture per il tempo libero, ma presero es­si stessi l’iniziativa. Sebbene questo punto non venga ulteriormente sviluppato, l’osser­vazione è assai indicativa dei limiti del potere fascista, che in realtà sembra aver influito as­sai poco sulla politica interna dell’azienda fi­no al 1943-1944, quando alcuni lavoratori si unirono alla resistenza milanese. Sebbene complessivamente lo studio di Willson sul la­voro e sulle relazioni di genere in quest’unica impresa sia eccellente, si può fare qualche piccolo appunto. L’autrice tende a liquidare1 rapporti dei censimenti, sostenendo che essi

non ci dicono nulla. Non cita però mai il la­voro di Franca Pieroni Bortolotti47 sui censi­menti fascisti, che smentisce questa sua affer­mazione, né tenta di fornire al lettore una de­scrizione delle principali tendenze nell’occu­pazione femminile. Una disamina anche bre­ve dei mutamenti nei modelli del lavoro di fabbrica per le donne italiane sia prima sia prima sia durante il fascismo sarebbe stato utile. Anche le menzogne e le omissioni nei resoconti delle autorità fasciste possono esse­re illuminanti. A causa di questa sua evasivi- tà, il lavoro di Willson costituisce un esempio di quella “microstoria” che non fa alcun ten­tativo significativo di collegare l’evoluzione interna della singola impresa con le trasfor­mazioni che avvenivano al livello nazionale o in altre parti del paese. Si vorrebbe inoltre sapere di più sull’atteggiamento dei soggetti femminili da lei esaminati nei confronti della sessualità e della gravidanza. L’autrice spiega di non aver voluto violare la privacy delle donne intervistate ponendo domande di ca­rattere personale. E un sentimento encomia­bile, ma se altri specialisti di storia orale, co­me ad esempio Luisa Passerini48, hanno sa­puto incoraggiare le intervistate a parlare apertamente di maternità e di controllo delle nascite, non vi è ragione di credere che una studiosa capace come Willson non avrebbe saputo fare altrettanto.

Un’altra recente pubblicazione assume co­me tema il periodo fascista. Haile M. Larebo ha appena pubblicato un libro sulla costitu­zione dell’impero mussoliniano49. Mi sono rallegrata nel leggere questa tempestiva ri­considerazione della colonizzazione attuata in Etiopia dalla dittatura italiana nel 1935- 1936. In un momento in cui i leader del rina­scente movimento fascista italiano elogiano

47 Franca Pieroni Bortolotti, Osservazioni sull'occupazione femminile durante il fascismo, in Sul movimento politico delle donne. Scritti inediti, a cura di Annarita Buttafuoco, Roma, Utopia, 1987, pp. 179-207.48 Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari, Laterza, 1984.44 Haile M. Larebo, The Building of an Empire. Italian Land Policy and Practice in Ethiopia 1935-1941, Oxford, Claren-

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Mussolini come il maggiore statista europeo del ventesimo secolo, fa piacere leggere un li­bro che in modo cosi efficace e sistematico di­strugge il vecchio mito della “conquista” mussoliniana dell’impero africano. Il libro è un felice contributo agli studi accademici sul­la politica estera italiana apparsi nel corso degli anni, compresa l’autorevole serie di vo­lumi di Angelo del Boca. Larebo, che è etio­pe, si autodefinisce revisionista e intende cor­reggere la visione “italocentrica” della breve occupazione italiana dell’Etiopia che a suo avviso domina gran parte della letteratura. Malgrado a rigore si collochi nell’area degli studi sull’Africa e sulla storia economica del­l’Etiopia, più che in quella della storia italia­na, il libro dovrebbe venire letto da chiunque sia interessato al regime fascista. La descri­zione di Larebo riguarda gli sprechi grotte­schi, i pasticci e la cattiva amministrazione che hanno caratterizzato la politica coloniale della burocrazia fascista.

Come sempre nell’Italia fascista, la realtà terrena non era all’altezza delle grandiose pretese. Mussolini decise l’invasione dell’E­tiopia principalmente per ragioni di prestigio politico, ma anche nella vana speranza che la creazione dell’impero avrebbe portato a mas­sicci insediamenti di italiani nei territori oc­cupati. Questa politica mirava ad arrestare l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, che stava prosciugando la nazione dagli elementi migliori e più brillanti, per reindirizzarla ver­so l’Africa orientale, dove i coloni sarebbero stati incoraggiati a servire il duce e la nazione divenendo una presenza permanente nell’a­vamposto coloniale. Il maresciallo Pietro Ba­doglio nel 1936 si vantava del fatto che ben un milione di italiani sarebbero stati insediati entro la fine dell’anno e altri fascisti parlava­no, in modo ancor più irrealistico, del rapido insediamento di oltre sei milioni di persone. I piani fascisti erano elaborati e ambiziosi: do-

po lo smembramento dell’Etiopia e la sua fu­sione con l’Eritrea e la Somalia, il regime im­pose un “apartheid” italiano sull’Africa orientale mediante una politica di “sviluppo separato” fra bianchi e popolazione indige­na. Vi fu una convergenza fra politica razzia­le e politica economica nel feroce tentativo di affermare l’assoluta superiorità degli occu­panti sulle popolazioni assoggettate. L’Italia dispiegò in pieno la sua forza militare in una lotta brutale contro i guerriglieri che cercava­no di difendere la loro patria dagli invasori stranieri. La sanguinosa politica di pacifica­zione, che riusci infine a reprimere la rivolta, fu seguita dall’occupazione delle terre miglio­ri da redistribuirsi ai coloni e dal trasferimen­to forzato degli indigeni etiopi. Ma i piani per lo sfruttamento demografico ed economico della regione fallirono in modo catastrofico perché, come argomenta l’autore, l’ammini­strazione fascista dell’Etiopia era “inficiata da personalismi, corruzione, inefficienza e da una burocrazia inetta e di mentalità ri­stretta”50. Tanto per cominciare, il governo di Mussolini non aveva previsto l’enorme sa­lasso dei fondi statali che una prolungata guerra antipartigiana avrebbe comportato, né i fascisti che avevano pianificato l’impresa avevano previsto che i costi dell’amministra­zione coloniale sarebbero stati cosi alti. La frenetica costruzione di strade e la redistribu­zione delle terre prosciugarono le scarse ri­sorse della madrepatria, e così fecero le con­tinue esportazioni di scorte di viveri dall'Ita- lia alla colonia. L’Etiopia non divenne mai il prospero e autosufficiente granaio del nuovo impero romano di Mussolini. Il tentativo di creare un ceto indipendente di coloni compo­sto da piccoli proprietari italiani e di intro­durre un’agricoltura autosufficiente destina­ta al commercio falli in quanto le capacità dei coloni erano mediocri ed essi non dimo­strarono alcun tipo di impegno nei confronti

50 Haile M. Larebo, The Building of an Empire, cit., p. 56.

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dell’impresa fascista nel suo complesso. Nel giugno del 1940, quando l’Italia fece il suo in­gresso in guerra, soltanto 400 italiani o poco più si erano stabiliti in Etiopia e solo 150 circa erano stati raggiunti dalle loro famiglie. La di­chiarazione di guerra alla Gran Bretagna e al­la Francia da parte del duce pose fine all’espe­rimento, poiché il sostegno britannico ai pa­trioti etiopi determinò il crollo definitivo del cosiddetto impero dell’Africa orientale di Mussolini. 1 coloni che un tempo erano stati elogiati come eroi sulla stampa fascista ora abbandonarono le loro fattorie e i loro averi e vennero rimpatriati in Italia come indigenti. Tutto ciò che possedevano si era perduto nel gorgo dell’ambizione e dell’aggressività fasci­ste. Sulla base di una ricerca archivistica di prima mano, Larebo fornisce quindi una nuo­va prospettiva sulla tragica storia della colo­nizzazione italiana durante il periodo fascista.

Ho iniziato questa rassegna, che non pre­tende in alcun modo di costituire una valuta­zione esauriente delle recenti pubblicazioni sull’Italia contemporanea apparse in Gran Bretagna, descrivendo il senso di isolamento che storici come me hanno provato nel corso degli anni ottanta. Essa non restituirebbe pe­rò un quadro veritiero dello stato degli studi odierni sull’Italia contemporanea in Gran Bretagna se non accennassi ad alcuni sviluppi recenti, che fanno ben sperare per il futuro. In primo luogo, va segnalato il crescente inte­resse per lo studio dell’Italia contemporanea stimolato dalla recente pubblicazione di un vasto numero di testi introduttivi destinati principalmente agli studenti universitari. A Concise History of Italy di Christopher Dug- ganM esplora il tema degli ostacoli alla co­struzione della nazione dal periodo della ca­duta dell’Impero romano d’Occidente fino ai giorni nostri; nell’ambito della collana

The Present and thè Past, Longman ha pub­blicato Italy Since 1800: a Nation in thè Ba- lance?52, un eccellente sunto della storia del paese che concentra la sua attenzione sui pa­radossi e le contraddizioni di lungo periodo che hanno condotto agli scombussolamenti politici degli ultimi anni. Philip Morgan ha da poco pubblicato Italian Fascism 1919- 194553, un compendio della storia del regime che sintetizza le più recenti ricerche pubblica­te in Italia e altrove. Italy and thè Wider World di Richard Bosworth24 esamina la col- locazione dellTtalia nella politica europea e mondiale nel corso di un secolo. Questi ed al­tri libri arricchiranno lo studio dellTtalia contemporanea nelle università britanniche nei prossimi anni. Bisognerebbe menzionare poi la disponibilità delle case editrici univer­sitarie a pubblicare titoli di storia italiana. Tanto la Oxford quanto la Cambridge Uni­versity Press continueranno a includere lavo­ri scientifici sull’Italia contemporanea nei lo­ro cataloghi.

Parimenti importante per il continuo in­cremento di pubblicazioni sullTtalia contem­poranea è la crescente presenza istituzionale di questo campo di ricerca nelle università britanniche. Negli anni novanta, si sono veri­ficati significativi cambiamenti, allorché i dottorandi degli anni ottanta hanno occupa­to posizioni all’interno dell’accademia e han­no a loro volta incominciato ad avanzare nel­la carriera. Alcuni, come Christopher Dug- gan, hanno continuato a lavorare per fonda­re istituzioni di ricerca post-laurea quali il Centre for thè Advanced Study of Italian So­ciety all’università di Reading. I vari colleges dell'università di Londra hanno assunto un ruolo di guida nella promozione dello studio della storia dellTtalia contemporanea asse­gnando posti negli ultimissimi anni a molti

51 Christopher Duggan. A Concise History of Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 199452 Roger Absalom, Italy since 1800. A Nation in the Balance?, Harlow, Longman, 1995.53 Philip Morgan, Italian Fascism 1919-1945, Basingstoke, Macmillan Press, 1995.54 Richard Bosworth, Italy and the Wider World 1860-1960, London, Routledge, 1995.

Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo 659

giovani storici come Lucy Riall, Jonathan Morris e chi scrive. Nei suoi molti istituti e dipartimenti di lingua e di storia, l’università di Londra ha oggi fra tutte le università bri­tanniche la più alta concentrazione di studio­si dell’Italia contemporanea. Questi recenti sviluppi hanno opportunamente indotto gli italianisti che lavorano a Londra a tentare di creare per sé e per i propri colleghi un’iden­tità istituzionale stabile all’interno dell’acca­demia britannica. Il risultato più visibile di questo sforzo è l’istituzione ad opera di Mac- Gregor Knox, Cari Levy, Jonathan Morris e Lucy Riall di un seminario sulla storia dell’I­talia contemporanea che si terrà all’Istituto di ricerca storica dell’università di Londra a partire dal gennaio del 1996. Questo ciclo è stato istituito in risposta alla precisa esigenza di un forum nazionale per gli italianisti di tut­to il Regno Unito. Inoltre, esso si propone un approccio esplicitamente comparativo invi­

tando studiosi di altri campi, come la storia contemporanea della Germania e della Spa­gna o la storia di genere e la storia delle don­ne, a confrontarsi con gli italianisti riguardo alle esperienze europee nel loro complesso. Fra le altre piacevoli novità si segnala la pub­blicazione in Gran Bretagna di due nuove ri­viste: “The Journal of Modern Italian Stu- dies” , ad opera del gruppo americano di John Davis e David Kertzer a partire dall’ot­tobre del 1995, e “Modern Italy”, sotto la di­rezione di accademici che lavorano in Gran Bretagna. Senza dubbio queste riviste rende­ranno accessibili a un pubblico internaziona­le le migliori ricerche sullTtalia oggi disponi­bili. Questi ed altri avvenimenti verificatisi negli ultimi anni ci assicurano che la storia delFItalia contemporanea in Gran Bretagna avrà un futuro.

Maria Sophia Quine[ traduzione dall’inglese di Anna Sordini]

GIANOSommario del n. 20

1945 Anno zero. L’Onu: interventi di Marcelli, Allegretti, Chemillier-Gendreau, Ferraiolo, Lattanzi, Voltaggio.

La seconda guerra mondiale: natura, problemi, caratteri, a cura di Bendo-Soupu, (Africa); Casci (india); Collotti Pischel (Giappone); Cortesi (Napoli 1943); Montessoro (Indocina), Soverlna (Jugoslavia).

Capitalismo e bomba climatica; La questione cecena-, La guerra Perù- Ecuador

JOURNAL OF MODERN ITALIAN STUDIES

Volume I, n. 1, autunno 1995

Editorial

ArticlesRaffaele Romanelli, Urban Patricians and 'Bourgeois’ Society: a Study of Wealthy Elites in Florence, 1862-1904; Joel Blatt, The Battle of Turin, 1933-1936: Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, Ovra and the Origins of Mussolini’s Antisemitic Campaign; David Moss, Patronage Revisited: the Dynamics of Information and Reputation.

ReflectionsH. Stuart Hughes, Doing Italian History: Pleasure and Politics.

Perspectives and debatesPeter Bondanella, Recent Work in Italian Cinema; Donald Sassoon, Tangentopoli or the De­mocratization of Corruption.

Book reviews

Volume I, n. 2, primavera 1996

ArticlesNadia Urbinati, “A Common Law of Nations": Giuseppe Mazzini's Democratic Nationality, Margherita Pelaja, Marriage by Exception. Marriage Dispensations and Ecclesiastical Poli­cies in Nineteenth- Century Rome; John Gatt Rutter, Liberation and Literature: Naples 1944.

Review essaysJudith Chubb, The Mafia, the Market and the State in Italy and Russia; Paolo Bernardini, The Jews in Nineteenth Century Italy: towards a Reappraisal.

Book reviews

Abbonamenti: Routledge Subscriptions Department, ITPS, North Way, Andover, Hants, SP105BE, UK. Tel: 0044(0)1264 342713 Fax: 0044(0)1264 342807.

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L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca

Gerhard Schreiber

Caiazzo, sera del 13 ottobre 1943: soldati del­la 33 compagnia del reggimento motorizzato granatieri della 3a divisione granatieri coraz­zati, comandati dal sottotenente Wolfgang Lehnigk-Emden, massacrano con bestiale fe­rocia ventidue civili italiani. Questi “grana­tieri corazzati” sterminano in un colpo solo le famiglie Albanese, D’Agostino, Massado- ro e Perrone. Fra le vittime innocenti vi sono dieci bambini dai tre ai quattordici anni, un adolescente di sedici anni, sette donne fra i diciotto e i sessantatré anni fra cui una al se­sto mese di gravidanza e quattro uomini. Gli autori del crimine danno prova di una bruta­lità mostruosa, il loro delitto è di un’atrocità che incute spavento, ma in rapporto a ciò che i militari tedeschi compirono in Italia e altro­ve l’eccidio di Caiazzo non si distingue come qualcosa di eccezionale, bensì appare piutto­sto un caso emblematico.

Di questo delitto scrisse l’allora corrispon­dente di guerra William H. Stoneman sul

“Chicago Daily News” già il 18 e il 25 otto­bre del 1943. Il 4 o il 5 novembre dello stesso anno il sottotenente Lehnigk-Emden e altri componenti della 33 compagnia vennero fatti prigionieri dagli americani. Furono interro­gati, prima ad Aversa e a partire dal gennaio 1944 ad Algeri, sul massacro da essi perpetra­to. Il 7 luglio 1946 gli americani trasmisero gli atti dell’interrogatorio al governo italiano a Roma, dato che tutte le vittime erano citta­dini italiani.

Poi, per ventisei lunghi anni, non accadde più nulla. Varie iniziative da parte di Stone­man, che fra il 1946 e il 1949 non si dette mai pace riguardo a questo caso, non porta­rono ad alcun risultato concreto. Soltanto nel 1969 qualcosa si mosse. L’impulso non partì dal governo italiano bensì da Simon Wiesenthal, l’infaticabile persecutore dei cri­minali nazisti. Egli allora sporse denuncia, ma l’istruttoria avviata dalla Procura di Mo­naco dovette purtroppo essere nuovamente

Quanto esposto in questa introduzione si basa sui seguenti documenti: Gerhard Schreiber, Perizia del 22 agosto 1993 per l’istruttoria contro Wolfgang Lehnigk-Emden in merito al quesito: “Le uccisioni addebitate all’imputato nella presente istruttoria sarebbero state penalmente perseguite in base agli ordini in vigore all'epoca dei fatti in Italia per le truppe tedesche?”, Tribunale di Coblenza, Sentenza in nome del popolo nella causa penale contro l’architetto Richard Heinz Wolfgang Lehnigk-Emden, 18 gennaio 1994 (101 Js 35779/90 jug — 2 Kls); Corte di Cassazione in nome del popolo, sentenza del 1° marzo 1995 (2 StR 331/94) (copia depositata presso l'archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Milano); Repubblica Italiana, in nome del Popolo Italiano, la Corte di Assise di San­ta Maria C. V., 25 ottobre 1994 (N. 3/94 Registro Generale) (ringrazio sentitamente il signor Guido Ambrosino per avermi messo a disposizione questo documento); Paolo Albano, “L’eccidio di Caiazzo. Due procedimenti penali a con­fronto” (Relazione del pubblico ministero di Santa Maria Capua Vetere all’Associazione culturale italo-tedesca, Saler­no, 1994); Hans Bader, Caiazzo, “Betrifft Justiz”, 1995, n. 43, pp. 121-125 (H. Bader è giudice al Tribunale amministra­tivo di Mannheim; lo ringrazio sentitamente per avermi messo a disposizione il manoscritto della sua relazione e la copia di quella del p.m. dottor P. Albano).

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

662 Gerhard Schreiber

archiviata, poiché gli autori del crimine si erano resi irreperibili.

La svolta decisiva avvenne finalmente nel 1988, quando l’italoamericano Joseph Agno- ne si rivolse alla Procura di Santa Maria Ca- pua Vetere alla quale sottopose i risultati di ricerche private svolte nei “National Archi- ves” di Washington. A questo punto si atti­varono uffici giudiziari e privati. Fu avviato un procedimento penale, e in Germania si riuscì finalmente a reperire quelli fra gli auto­ri del crimine che erano ancora in vita. Grazie ai mandati d’arresto emessi dal magistrato inquirente italiano e dalla Procura di Coblen- za il responsabile principale del fatto, Leh- nigk-Emden, fu trattenuto in custodia pre­ventiva dal 15 al 22 ottobre 1992 e dal 6 no­vembre 1992 al 18 gennaio 1994. Una deci­sione del Tribunale di Coblenza del 22 otto­bre 1992, che revocava il mandato d’arresto, fu a sua volta revocata dalla Corte d’Appello di Coblenza, la quale in quest’occasione sot­tolineò energicamente che bisognava partire dall’idea che il crimine non era stato perse­guito penalmente dalla giustizia della Wehr- macht.

A differenza di quella Corte d’Appello, la seconda sezione penale superiore del Tribu­nale di Coblenza dopo circa quattordici mesi giunse alla persuasione che il crimine di Caiazzo sarebbe stato perseguito dalla giusti­zia della Wehrmacht e in base a ciò, il 18 gen­naio 1994, archiviò nuovamente il procedi­mento contro Lehnigk-Emden in quanto ca­duto in prescrizione. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il 25 ottobre dello stes­so anno, condannò invece all’ergastolo l’ex sottotenente e il suo correo Kurt Schuster, che in Germania era ritenuto non in grado di partecipare al dibattimento per ragioni di salute.

Sia l’Ufficio del pubblico ministero della Procura di Coblenza, sia la parte civile ita­liana presentarono ricorso contro la decisio­ne del Tribunale di Coblenza. La Corte di Cassazione di Karlsruhe ha respinto entram­

bi i ricorsi con la sentenza del Io marzo 1995. In proposito va rilevato che né il Tri­bunale di Coblenza né la Cassazione solleva­rono dubbi sulla colpa di Lehnigk-Emden. Ciò significa che l'ex ufficiale è ritenuto un massacratore, eppure resta libero. Com’è possibile? La risposta emerge dalla valuta­zione che i giudici di Coblenza e di Karlsru­he diedero del crimine.

Sulla base degli ordini vigenti e del com­portamento della giustizia della Wehrmacht in casi analoghi, gli autori del crimine pote­vano giustificare la loro azione delittuosa in due modi. Potevano cioè appellarsi da un la­to agli ordini riguardanti le zone di combatti­mento evacuate e vietate e dall’altro alle ordi­nanze valide per la lotta contro i partigiani.

L’ordine di evacuare la città di Caiazzo sembra essere stato diramato il 28 settembre 1943, e in conseguenza di ciò una parte delle persone poi assassinate aveva cercato e tro­vato rifugio, nei giorni successivi, in casa del­la famiglia Albanese ai piedi del monte Car- mignano. Poco più tardi, il 4 ottobre, il Co­mando del XIV corpo d’armata corazzato ordinò alle unità sottoposte, fra le quali an­che la 33 divisione granatieri corazzati, di “evacuare senza riguardi da tutta la popola­zione civile” il territorio che si estendeva per una profondità di cinque chilometri die­tro la principale linea di combattimento te­nuta dal corpo. Vi sono indicazioni del fatto che la parte tedesca premeva affinché anche la città di Caiazzo, che fino a quel momento non era ancora completamente evacuata, fos­se sgomberata definitivamente.

Riguardo a quanto accadde ai piedi del monte Carmignano si deve, in tale contesto, tenere per certo che la 3- divisione granatieri corazzati ha ricevuto bensì, il 5 ottobre, l’or­dine del XIV corpo d’armata corazzato, ma soltanto la notte precedente il massacro, dun­que il 12 del mese, l’ha trasmessa alle proprie unità in forma leggermente modificata. Il Comando della divisione ordinava l’“eva- cuazione dell’area di combattimento in una

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 663

zona retrostante cinque chilometri la prima linea” e la fucilazione di tutti gli italiani che dopo un “preciso termine”, che doveva “es­sere reso noto in anticipo”, ancora vi sog­giornassero. Come in altre istruzioni dello stesso tipo, non si faceva differenza fra uomi­ni, donne e bambini, ma se ne ordinava som­mariamente l’uccisione indiscriminata.

Dato il poco tempo a disposizione, sem­bra inverosimile che l’ordine di evacuazione potesse essere effettivamente eseguito, ma ciononostante gli uccisori avrebbero potuto in teoria appellarsi a questa direttiva, per giustificare dal punto di vista militare l’as­sassinio.

Tuttavia ciò non accadde, e la questione degli ordini che vigevano nelle zone di com­battimento evacuate non giocò mai un ruolo decisivo nel processo contro i principali re­sponsabili già per il fatto che Lehnigk-Em- den fece uso della sua seconda possibile linea di difesa, cioè sostenne che il numero eccessi­vo di uccisioni avvenute nei pressi di Caiazzo si era verificato nel corso di un’azione contro i partigiani. Obiettivamente questo non era vero e perciò l’affermazione della Procura e del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, secondo la quale questo massacro non era un crimine militare, ma un delitto puro e semplice, e precisamente un assassinio, in de­finitiva è corretta.

Per la giustizia tedesca, che in relazione al perseguimento penale dell’eccidio di Caiazzo si trovò ad affrontare il problema della pre­scrizione, fu necessario oltre a ciò scoprire se la giustizia della Wehrmacht avrebbe per­seguito il reato oppure no nel caso in cui ne fosse venuta a conoscenza. A tal fine non era sufficiente constatare l'obiettiva fattispe­cie giuridica, ma bisognava interrogarsi sul giudizio che sarebbe stato dato al momento deH’avvenimento, vale a dire su quello che al­l’epoca la direzione militare avrebbe dato dell’omicidio.

Per addivenire a una decisione era perciò indispensabile chiarire se gli ordini che vige­

vano per le truppe tedesche nell’ottobre del 1943 in Italia autorizzassero un persegui­mento penale del crimine in questione, o ad­dirittura lo prescrivessero o viceversa lo proibissero. Inoltre, era di importanza deci­siva ricostruire esattamente lo svolgimento del fatto.

Nel ripercorrere lo svolgimento degli even­ti il Tribunale di Coblenza e la Corte di Cas­sazione di Karlsruhe presero le mosse dal fat­to che l’imputato, con due altri appartenenti alla compagnia, si era recato nella casa colo­nica ai piedi del monte Carmignano, con il pretesto che da essa sarebbero stati trasmessi segnali luminosi in direzione delle postazioni americane. Nella casa i tre tedeschi avevano trovato gli uomini, le donne e i bambini già menzionati. Fra questi, Lehnigk-Emden ave­va arrestato i quattro uomini adulti — Nico­la Perrone, Francesco d’Agostino, Raffaele e Vito Massadoro — e li aveva condotti al po­sto di comando della compagnia. Quivi ave­va ordinato che quei “quattro uomini e le tre donne”, che si sosteneva li avessero segui­ti liberamente, venissero fucilati senza essere ascoltati, in base alla legge marziale.

Tutti i giudici o i pubblici ministeri tede­schi che parteciparono ai diversi procedimen­ti contro Lehnigk-Emden valutarono questo atto come un “omicidio preterintenzionale caduto in prescrizione”, perché Lehnigk-Em­den si era basato sulla convinzione che i quat­tro uomini fossero le persone che avevano trasmesso i presunti segnali luminosi. Incom­prensibilmente non venne discussa la que­stione, se almeno l’uccisione delle donne, le quali supplicavano per la salvezza degli uo­mini, si dovesse qualificare come omicidio volontario.

E non basta! A un’osservazione più attenta emerge che l’accertamento dei fatti sopra esposto è il risultato di un’indagine del tutto insufficiente, per non dire sciatta. Eppure i giudici del Tribunale di Coblenza e della Cor­te di Cassazione di Karlsruhe si attennero ostinatamente al problematico risultato del­

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l’inchiesta del Tribunale, anche quando fu fatto loro notare che sussistevano giustificati dubbi sulla sua esattezza. Infatti al posto di comando della compagnia, come del resto è indicato già negli atti americani dell’interro- gatorio, vennero sì assassinati quattro uomi­ni, ma chiaramente solo due donne e non tre. Secondo i precisi accertamenti del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere queste due donne erano Angela Insero, moglie di Fran­cesco d’Agostino, e Orsola d’Agostino, ma­dre di Raffaele e Vito Massadoro. La settima vittima era il quattordicenne Antonio Alba­nese: un bambino per definitionem! Oggi tut­tavia l’uccisione di bambini viene in generale classificata non come omicidio preterinten­zionale, ma come omicidio volontario.

Valutando il primo atto come omicidio preterintenzionale, si escluse la possibilità di giudicare l’autore come responsabile di omi­cidio volontario già a causa della fucilazione di quattro uomini, due donne e un bambino da lui ordinata. Eppure è assolutamente cer­to che la giustizia della Wehrmacht non avrebbe perseguito penalmente l’assassinio di Antonio Albanese, in quanto si trattava — dal punto di vista dei militari tedeschi — di un atto verificatosi in connessione con un’azione di lotta contro i partigiani. Una quantità di esempi sta a dimostrare che non vi fu mai intervento da parte della giustizia della Wehrmacht quando nel corso di azioni contro i partigiani vennero uccisi dei bambi­ni. A questo proposito appare particolar­mente degno di nota il fatto che la Corte d’Appello, il Tribunale e l’Ufficio del pubbli­co ministero di Coblenza così come i giudici della Corte di Cassazione abbiano accredita­to a Lehnigk-Emden, a distanza di circa cin- quant’anni, la sincera convinzione di aver fatto fucilare persone che agivano contro gli interessi delle forze armate tedesche. Difficil­mente i giudici della Wehmacht sarebbero stati più severi.

Incomprensibile è poi la rinuncia a infor­marsi presso la Procura di Santa Maria Ca­

pua Vetere circa l’effettivo svolgimento dei fatti. In luogo di ciò, i giudici si pronunciaro­no sulla base di una falsa definizione del fat­to. In conseguenza di questa originaria ine­sattezza, in seguito, nell’accusa mossa contro Lehnigk-Emden a Coblenza nel 1993, si trat­tò unicamente e soltanto dell’uccisione delle quindici persone fra donne e bambini che si trovavano ancora nella casa colonica dopo il massacro degli altri sette.

In particolare, si trattava di Orsola Santa­barbara, madre sessantatreenne di Francesco d’Agostino, di Saverio (undici anni), Anto­nio (dieci anni), Orsola (otto anni) e Carmela (sette anni) figli dei coniugi Francesco d’A­gostino e Angela Insero, poi di Raffaela Per- rone, vedova Albanese, con i figli Maria An­gela (venf anni), sposata a Vito Massadoro, Maria (diciotto anni), Elena (sedici anni) e Angelina (dodici anni), di Anna di Sorbo, moglie di Nicola Perrone, con i figli Giuseppe (dodici anni), Antonietta (nove anni), Mar­gherita (sei anni) e Elena (tre anni).

Dopo il suo primo omicidio, Lehnigk-Em­den decise di uccidere anche queste persone innocenti. Con due uomini di scorta, ne am­mazzò la maggior parte in casa impiegando granate a mano, mitragliatrici, fucili, pistole, coltelli o baionette. Coloro che tentavano di fuggire vennero fucilati quasi a bruciapelo fuori dalla casa colonica.

I giudici tedeschi fecero di tutto per dimo­strare che questo crimine si era verificato in base a una seconda decisione e perciò non aveva niente a che fare con la prima “azione di fucilazione”. A loro avviso il secondo atto rappresentava una “nuova azione omicida avvenuta in concorso di reato”, che non po­teva né essere giustificata in base a circostan­ze militari, né classificata come lotta contro i partigiani. Questa logica del Tribunale di Co­blenza non poteva certo convincere tutti. Inoltre i giudici ritennero che relativamente al massacro delle quindici persone fra bambi­ni e donne non si potesse parlare di un “omi­cidio attuato con perfidia”, che l’azione non

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 665

era stata compiuta con “mezzi tali da costi­tuire un pericolo pubblico” e che il crimine mancava persino del “tratto distintivo della crudeltà”. Ma verosimilmente basta figurarsi per una frazione di secondo la situazione del­le vittime, rappresentarsi il loro terrore all’in­gresso degli assassini, immaginarsi le urla dei massacrati per rendersi conto che il punto di vista di questi giudici è assurdo. Il Tribunale di Coblenza ammise soltanto il “carattere dei motivi abietti”, e soltanto per questo addos­sò a Lehnigk-Emden l’omicidio delle quindici persone. Contemporaneamente però i giudici decretarono che l’atto compiuto dall’imputa­to era caduto in prescrizione.

A questo proposito i giudici di Karlsruhe nella motivazione della sentenza del Io mar­zo 1993 spiegarono che la prescrizione dei crimini commessi in epoca nazista, allora non perseguiti per ragioni politiche, confor­memente alla consolidata giurisdizione della Corte di Cassazione era sospesa nel periodo fino alla fine della guerra, l’8 maggio 1945. Ciò significa che, affinché fosse soddisfatto il presupposto per una sospensione del pe­riodo di prescrizione, doveva essere garanti­to che un determinato atto criminoso noto alle autorità giudiziarie del Terzo Reich non era stato perseguito per ragioni politi­che. Per quanto riguarda i crimini venuti alla luce soltanto dopo la fine della guerra, la giustizia tedesca esige la prova certa che il perseguimento penale di tali crimini fra il 31 gennaio 1933 e i’8 maggio 1945 non ebbe luogo per motivi politici.

Relativamente al procedimento contro Lehnigk-Emden, la Corte di Cassazione non volle escludere che il crimine di Caiazzo sarebbe stato perseguito qualora fosse dive­nuto noto, ragion per cui i giudici della Corte confermarono la sentenza del Tribunale di Coblenza e constatarono nuovamente che il periodo di prescrizione per questo atto non era da considerarsi sospeso fra il 31 ottobre 1943 e l’8 maggio 1945. Ciò vuol dire che il periodo di prescrizione originariamente vali­

do di vent’anni, che secondo l’interpretazio­ne dei giudici di Coblenza e di Karlsruhe par­tiva dal 13 ottobre 1943, all’entrata in vigore della legge di riforma del diritto penale del 16 luglio 1979, con la quale veniva abolita la prescrizione per il reato di omicidio, era già trascorso.

In definitiva, per addivenire alla sentenza nel caso dell’omicidio di Caiazzo si rivelò de­cisiva la pretesa della Corte di Cassazione, ri­salente al 1969, secondo la quale doveva esse­re garantito che un crimine “con certezza non sarebbe stato punito a causa delle motivazio­ni dei potenti nazisti” . Questo ostacolo è cosi alto, da equivalere quasi a un autobloccaggio nel perseguimento penale dei criminali nazi­sti. Infatti, che cosa al mondo si può mai dire “con certezza” , cioè escludendo assoluta- mente ogni altra eventualità?

Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio gli argomenti, le riflessioni e le speculazioni dei tribunali tedeschi nel corso del procedimento contro il massacratore Lehnigk-Emden. Notiamo soltanto che la lettura delle sentenze di Coblenza e di Karl­sruhe ha suscitato in chi scrive l’impressione che i giudici si siano intensamente sforzati di mettere in discussione, con considerazio­ni in parte sorprendenti, tutti gli argomenti a sostegno della ben fondata tesi del “non perseguimento penale” del crimine di Caiaz­zo da parte della giustizia della Wehrmacht, e questo al fine di poter respingere un’argo­mentazione stringente ricorrendo al perma­nere di un dubbio ultimo. Ciò era ed è nel buon diritto di questi giudici, cosi come d’altra parte nessuno è obbligato a dichia­rarsi d’accordo con questa sentenza pur­troppo irrevocabile. Essa va accettata uni­camente come un dato di fatto.

Resta da aggiungere che è difficile com­prendere per quali ragioni i giudici stessi ab­biano accettato in modo totalmente acritico le più assurde affermazioni della difesa, che avrebbero dovuto rendere credibile la tesi del “perseguimento penale” del crimine di

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guerra da parte della giustizia della Wehr­macht. Ma dov’era in questo caso la “cer­tezza”?

A questo proposito si può segnalare, a ti­tolo di esempio, che la sentenza di Coblenza nella sua argomentazione sfrutta ad oltran­za l’affermazione secondo cui il crimine di Lehnigk-Emden non sarebbe venuto a co­noscenza degli uffici o dei competenti co­mandi tedeschi prima dell’8 maggio 1945. In questo contesto, i giudici si basavano sul­le dichiarazioni di due ex ufficiali della 3a divisione granatieri corazzati, uno dei quali — fatto che la sentenza non prende in con­siderazione — a Coblenza si era impigliato in gravi contraddizioni, talché alla fine non era stato in grado di dire se il coman­dante del 29° reggimento dei granatieri co­razzati fosse venuto a conoscenza dell’acca­duto oppure no, mentre il secondo non si trovava neanche in Italia all’epoca dei fatti. Quantunque le sue dichiarazioni a proposi­to della valutazione della situazione dei par­tigiani — valutazione importante in relazio­ne alla formulazione della sentenza — fosse­ro confutate dal giudizio sulla situazione dato dal feldmaresciallo generale Kessel­ring, allora comandante supremo nel Sudi- talia, nonché dal fatto che la 3- divisione granatieri corazzati già il 3 ottobre registra­va perdite nella guerra contro i partigiani, ciò non scosse agli occhi del Tribunale né la credibilità né la competenza di questo te­stimone. Ci si accontentò dunque del fatto che i due ex ufficiali — senza produrre l’om­bra di una prova e in contraddizione con la realtà storicamente accertata oltre che con l’affermazione dell’imputato, il quale sostie­ne di aver “fatto rapporto sul fatto dinanzi al suo battaglione” — asserissero che “nel caso dell’incidente fosse stata data notizia”, Lehnigk-Emden sarebbe stato “sicuramente perseguito penalmente” .

Il Tribunale di Coblenza consapevolmente valutò maggiormente le dichiarazioni dei due testimoni citati, che non le conclusioni che ri­

sultavano “dallo stato astratto degli ordini in vigore”, sebbene proprio quest’ultimo docu­menti che la giurisdizione della Wehrmacht non poteva in linea di principio perseguire penalmente il crimine. Fu inoltre ignorato il fatto, esaurientemente comprovato, che, nel corso della guerra ai partigiani, furono com­messi numerosi delitti contro donne e bambi­ni, e tuttavia neanche in un solo caso la Wehrmacht procedette al perseguimento pe­nale dei ben noti responsabili. La stessa illi­mitata fiducia che i giudici nutrivano nei con­fronti dell’obiettività degli ex ufficiali delle forze armate naziste, la avevano evidente­mente anche verso i tribunali della Wehr­macht, che a Coblenza — a quanto pare — sono stati ritenuti organi imparziali dello Stato. In realtà si trattava di istituzioni al ser­vizio della tirannide nazista, che, come tutti sanno, si comportavano di conseguenza. An­che questo stato di cose fu dimostrato con esempi ma — quali che ne siano stati i motivi — non fu preso in considerazione dal Tribu­nale nella formazione del giudizio.

I giudici della Corte di Cassazione ritenne­ro perfino, in relazione al crimine compiuto presso Caiazzo, di non poter “accertare che eccessi di questo tipo fossero stati coperti dal­la direzione dello Stato e del partito” . Si sten­ta a crederlo, ma qui si sta parlando di quel regime che, fra l’altro, si è reso responsabile di inimmaginabili eccessi nei confronti della popolazione nei paesi occupati dalle sue truppe, del genocidio degli ebrei, per non parlare dei dettagli burocratici della sua rea­lizzazione. E possibile che i giudici della Cor­te di Cassazione davvero non sappiano quel­lo che avvenne in Polonia, nei Balcani, in Unione Sovietica e infine in Italia tra il 1939 e il 1945? Il minimo che si può dire è che queste sentenze di Coblenza e di Karlsru­he non saranno certo annoverate fra le pagi­ne più luminose della giustizia tedesca.

Gerhard Schreiber[traduzione dal tedesco di Anna Sordini]

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 667

Relazione, in qualità di esperto storico, in occasione del dibattimento nella causa penale contro Wolf­gang Lehnigk-Emden, presso il Tribunale di Coblenza, II Sezione penale generale, il 13 febbraio 1994, in merito al quesito: “ Le uccisioni addebitate all’imputato nella presente istruttoria sarebbero state penalmente perseguite sulla base degli ordini in vigore all’epoca dei fatti in Italia per le truppe tedesche?”

Signor Presidente, Signore e Signori, mi si consen­ta di premettere all’esposizione sulla questione tre osservazioni:

1. Il mio esposto peritale si limita in sostanza a trattare il quesito di quali ordini vigessero nell’ot­tobre 1943 per la cosiddetta lotta alle bande delle truppe tedesche in Italia. Sulla base di un’ampia analisi delle fonti, cercherò di chiarire, attraverso controllabili accertamenti dei fatti e nel quadro delle conclusioni che se ne traggono, quali presup­posti esistessero per la giurisdizione della Wehr­macht per perseguire penalmente il crimine di guerra commesso a Caiazzo.

2. Nel redigere la perizia1, i cui risultati riporte­rò solo in parte ed in forma concisa, sono stato co­stantemente consapevole della responsabilità par­ticolare derivante dal fatto che l’attività del consu­lente storico in un processo penale concerne la sor­te di uomini, anche se il giudizio sulla colpevolezza o innocenza sarà emesso dal Tribunale.

3. Rientra nel mio modo di sentire quale stori­co la ferma convinzione che di regola ci possiamosoltanto avvicinare alla verità storica assoluta, la quale — cosi come la perfetta giustizia — rappre­senta un ideale. Una simile riserva non significa peraltro che siano impossibili affermazioni stori­che certe.

Per quanto riguarda gli ordini relativi alla con­duzione della guerra ai partigiani nell’autunno1943, a me sembra irrinunciabile — per meglio comprenderli — tracciare preliminarmente un quadro sintetico dei principali dati di fatto politici, militari e organizzativi, nel teatro di guerra in quel territorio.

In connessione con quanto sinora detto, vi esporrò i risultati del mio lavoro di ricerca secon­do tre complessi tematici.

I.

Quando il governo italiano, l’8 settembre 1943, re­se noto l’armistizio concluso con gli alleati, il feld­maresciallo generale Rommel, comandante del Gruppo di armate B, esercitava il comando sulle truppe tedesche in Italia settentrionale. La linea di separazione dall’ambito di comando del coman­dante supremo Sud, feldmaresciallo generale Kes- selring, correva dall’Elba attraverso Piombino e Perugia sino a Porto Civitanova, a circa 30 chilo­metri a sud di Ancona.

Caiazzo si trovava quindi nella zona di opera­zioni di Kesselring, al quale, in quell’8 settembre, sottostavano le unità della Wehrmacht nel territo­rio intorno a Roma, nell'Italia meridionale e sulle isole di fronte alla costa tirrenica. Sul continente si trattava della IO3 * * * * 8 armata, agli ordini del generale di squadra aerea von Vietinghoff-Scheel, che più tardi sarebbe diventato generale d’armata, e del- l’XI corpo aereo comandato dal generale Student, al quale apparteneva allora la 38 divisione grana­tieri corazzati.

Dal punto di vista strettamente militare, all’u­scita dell’Italia dalla guerra le truppe tedesche ave­vano il compito di disarmare le forze armate italia­ne, occupare il territorio — per la parte che non si trovava nelle mani degli alleati — e organizzare un fronte di difesa in Italia meridionale.

Gli obiettivi politici del regime nazionalsocia­lista — in termini molto semplificati — erano lo sfruttamento dell’Italia per la condotta tedesca della guerra e, direttamente connesso a questo, la creazione di uno Stato-marionetta fascista, sotto la guida di Mussolini. Quest’ultimo, in real­tà, dopo che fu costretto a presentare le dimissio­ni il 25 luglio 1943, era stato imprigionato, ma il 12 settembre le truppe tedesche erano riuscite a liberarlo.

1 La relazione orale del 13 gennaio 1994 si basava sul testo della perizia scritta del 22 agosto 1993, redatta per l’ufficio del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Coblenza (di seguito Perizia Schr. 1993). La perizia è consultabile presso l’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Milano).

668 Gerhard Schreiber

Il re d'Italia ed il governo legale il 9 settembre si risolvettero ad abbandonare Roma e a fuggire a Brindisi.

Questa decisione rese possibile garantire la con­tinuità statale della monarchia.

In quella situazione, l’intenzione dei comandi tedeschi di assumere de facto il potere in Italia cor­rispondeva invero alle esigenze strategiche dell’an­no di guerra 1943, ma nonostante ciò la Wehr- macht operò da aggressore. Seguaci della monar­chia e altri patrioti italiani reagirono a ciò — già nel settembre 1943 — scatenando una guerra par- tigiana.

Da parte tedesca, dopo l’occupazione dell’Ita­lia, si costituì un complesso apparato di domi­nio, civile e militare. E in questo contesto l'isti­tuzione del “ Generale plenipotenziario della Wehrmacht tedesca in Italia” , nonché la nomina del “Comandante supremo delle SS e della poli­zia” , influirono anche sulla lotta dell’esercito contro i partigiani. Questo avveniva tuttavia so­lo a partire dalla primavera del 1944, mentre in questione sono un avvenimento e la situazione storica dell’ottobre 1943. Il problema delle com­petenze nella controguerriglia non richiede quin­di ulteriore trattazione.

Anzi, è sufficiente, sotto l’aspetto organizzati­vo, con riferimento all’importante quesito posto nella perizia, circa chi avesse la competenza, nel­l'ottobre 1943, per la lotta ai partigiani in Italia meridionale, sottolineare quanto segue:

Nella zona di operazioni a sud della linea di di­visione dal gruppo di armate B (che si mantenne in Italia sino al 21 novembre 1943), la lotta contro le cosiddette bande spettava al comandante supremo Sud.

Quale zona di operazioni, lo Handbuch fiir den Generalstabsdienst im Kriege [Manuale per il servi­zio di Stato maggiore in guerra] definisce quella parte del territorio di guerra nella quale operava

l’esercito. Era il capo supremo della Wehrmacht — quindi Hitler — a stabilire il confine verso le re­trovie di una zona di operazioni dell’esercito. Le zone di operazioni furono suddivise in zone di ar­mata. A sua volta, ogni zona di armata si articola­va in una zona di combattimento e in una zona re­trostante.

Non appena dichiarata una zona di operazio­ni, il comandante supremo militare ivi compe­tente esercitava anche il potere esecutivo. Poteva emanare ordinanze giudiziarie, insediare tribu­nali speciali e impartire direttive alle autorità o agli uffici — con alcune ben determinate eccezio­ni — pertinenti alla sua zona di operazioni. Kes- selring ricevette la “autorizzazione ad esercitare il potere esecutivo” nella sua zona di operazioni, che all’epoca comprendeva il territorio a sud del confine settentrionale delle province di Littoria, Frosinone, L’Aquila e Pescara, il 10 ottobre 1943.

In tal modo il comandante supremo di una zo­na di operazioni possedeva — su delega — un po­tere rilevante. Non poteva peraltro, naturalmente, trasgredire apertamente alle disposizioni del capo supremo della Wehrmacht, che gli aveva conferito quella autorità assoluta2.

Per l’attuazione della lotta ai partigiani, il co­mandante supremo Sud disponeva delle truppe a lui sottoposte. In proposito è da tener conto, con riferimento al procedimento penale per soprusi da parte di soldati tedeschi — non soltanto nella guerra contro i partigiani —, che parti della Luft­waffe e delle Waffen SS impiegate nell’ambito del­l’esercito erano si sottoposte tatticamente, non pe­rò disciplinarmente, ai comandanti supremi dei gruppi di armate e delle armate o ai generali co­mandanti dei corpi.

Al di fuori della zona di operazioni, la lotta ai partigiani in Italia nell’autunno 1943 era nelle ma­ni degli uffici del Reichsfùhrer SS3.

2 Handbuch fiir den Generalstabsdienst, Teil I, Abgeschlossen am 1.8.1939, Berlin, Oberkommando des Heeres, 1939, pp. 4-7 e 117-119; e Akten zur deutschen auswärtigen Politik 1918-1945, Serie E, 1941-1945, voi. VI, 1. Mai bis 30. September 1943, Göttingen, Vandenhoek u. Ruprecht, 1979, pp. 533-535, doc. 311, 11 settembre 1943; e ivi, voi. VII, 1. Oktober 1943 bis 30. April 1944, Göttingen, Vandenhoek u. Ruprecht, 1979, pp. 71-73, doc. 39, 13 ottobre 1943.3 A. Kesselring, Der Krieg hinter der Front: Der Bandenkrieg, senza luogo, 1949, pp. 15-21, in Bundesarchiv-Militä­rarchiv Freiburg im Breisgau (di seguito BA-MA) C-032. Si tratta di uno studio redatto, dopo la guerra, dal feldmare­sciallo generale per il “Foreign Military Studies Program of thè Historical Division, United States Army. Europe". Kes­selring pubblicò il testo pressoché inalterato nelle sue memorie: Soldat bis zum letzten Tag, Bonn, Athenäum, 1953 (ed. it. Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954).

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 669

II.

Relativamente alla questione — ora da discutere — degli ordini per la guerra ai partigiani nell’otto­bre 1943, è in primo luogo necessario ricordare due fatti:

1. Da parte tedesca, dopo l’8 settembre 1943, si pervenne ad una — dal punto di vista della storia militare — singolare criminalizzazione della Resi­stenza armata italiana nel suo complesso. Ed a questo proposito, non fu soltanto il Comando su­premo della Wehrmacht ad emanare ordini crimi­nali;

2. E necessario sottolineare che la direzione militare tedesca si sforzò di mantenere la discipli­na della truppa per quanto riguardava il compor­tamento nei confronti di italiani che non parteci­pavano alla Resistenza contro gli occupanti. È di­

mostrabile che, nonostante le rigorose misure di­sciplinari, questo obiettivo fu raggiunto solo tem­poraneamente e non dappertutto.

Nella mia perizia mi sono diffusamente soffer­mato sull’importanza dei due fatti per l’inquadra- mento storico del crimine di guerra perpetrato a Caiazzo4.

Come risultato, in detta perizia ho innanzitutto constatato che, relativamente alla domanda se la giurisdizione della Wehrmacht avesse penalmente perseguito il crimine di guerra del 13 ottobre 1943, avrebbero dovuto essere prese in considerazione direttive particolari, dal momento che l’azione, se­condo le dichiarazioni dell’imputato Lehnigk-Em- den, si svolgeva nell’ambito della lotta contro i partigiani5.

Era quindi necessario esaminare di quali ordi­ni si trattasse e verificare se questi avessero vali-

4 Perizia Schr. 1993, pp. 2-24. Al riguardo è stata anche ampiamente esaminata la disposizione mentale tout court della direzione della Wehrmacht nei confronti degli italiani nel periodo 1943-1944, con l’intento di dimostrare se esistesse la disponibilità a compiere massacri contro la popolazione che appoggiava la Resistenza. Perché è stato ripetutamente af­fermato che la giustizia della Wehrmacht avrebbe punito crimini come quello commesso a Caiazzo se i comandanti mi­litari ne avessero avuto conoscenza. Le indagini su questo aspetto hanno dato un risultato assolutamente negativo.5 Perizia Schr. 1993, p. 26; sulla descrizione del massacro da parte di Lehnigk-Emden dopo il 1945 cfr.: 2 Ws 550/92, 101 Js 35779/90 — Staatsanwaltschaft (di seguito StA) Koblenz, Oberlandesgericht Koblenz, Beschluss, 6 novembre 1992, p. 5: “NeH’interrogatorio da parte del PM di Coblenza, il 16 ottobre 1992, l'imputato [...] ha energicamente con­testato di aver preso parte all’assassinio, posto a suo carico, di 22 civili italiani. Egli ha soltanto ammesso di aver preso parte la sera del 13 ottobre 1943 ad una azione di truppe d’assalto, nel corso della quale sarebbe stata attaccata una casa colonica, situata nei pressi delle posizioni allora tenute dalla sua unità, nella quale si sarebbero trovati dei partigiani”. E ivi, pp. 5 sg.: “L’imputato ha energicamente contestato l’addebito mossogli dall’accusa di aver sparato diversi colpi con­tro civili, tra cui donne e bambini piccoli, e di aver ucciso le vittime dopo crudeli maltrattamenti [l’addebito dei “crudeli maltrattamenti” nel dibattimento di Coblenza fu poi lasciato cadere. G. Schreiber]. A integrazione, ha dichiarato al ri­guardo che è del tutto possibile che nell’attacco alla casa “questa gente sia stata uccisa. Se questo dovesse effettivamente essere stato il caso, si è trattato di consueti effetti connessi con il combattimento. Non si poteva supporre che nella casa si trovassero donne e bambini; anzi, vi era il sospetto che vi si fossero nascosti dei partigiani, dal momento che in pre­cedenza si era notato che dalla finestra venivano mandati segnali luminosi Morse” . Cfr. ora in proposito anche Land- gericht Koblenz, Urteil im Namen des Volkes 101 Js 35779/90 jug — 2 Kls — 18 gennaio 1994 (di seguito Tribunale di Coblenza, Sentenza 1994), pp. 17 sg., dove sono ancora una volta riassunte le dichiarazioni fatte da!l’“imputato” il 15 ottobre 1992 e la rappresentazione dello svolgimento dell’azione contenuta in una nota da questi redatta. A questo ri­guardo il Tribunale conferma che T“imputato” dichiarò che relativamente agli italiani “si trattava manifestamente di partigiani; si poteva pensare che avessero utilizzato le donne e i bambini come scudo, cosa che si è verificata abbastanza spesso nel corso della guerra in Italia” . In una intervista con il giornalista Erwin Koch, Lehnigk-Emden dichiarò nel­l’estate 1994: “Protesto con ogni energia contro il fatto che di una azione di guerra venga fatto un massacro, soltanto perché come tale venne rappresentata dalla guerra psicologica condotta dai nemici oltre cinquant'anni fa”. Affermò inoltre: “Per fatalità persero la vita quindici persone”, e questo in una azione che per lui “era guerra normale”. Cfr. E. Koch, Der 13. Oktober, “Das Magazin” , 9 luglio 1994, n. 27, pp. 22-31, qui p. 30. Né le descrizioni fatte nel dopo­guerra dall’assassino in libertà Lehnigk-Emden, né quelle da lui tracciate durante la prigionia americana corrispondono alle circostanze di fatto storiche: cfr. in proposito StA Koblenz, Amts-Land-Gericht, Drittakte 101 Js 35779/90 NSG“ (di seguito StA, Drittakte), pp. 101-121; infatti l’autore giustificò il suo crimine del 1943 come reazione al supposto tra­dimento di postazioni tedesche, considerato come attività delle bande (pp. 105, 108-111 e 115); altra volta si appellò per il suo modo di agire all’ordine per le zone di combattimento evacuate, che esigeva la fucilazione di tutti i civili presenti dopo l’evacuazione (pp. 115 sg. e 121). Prescindendo dall’infondatezza oggettiva, le argomentazioni di Lehnigk-Emden

670 Gerhard Schreiber

dità nel periodo considerato, sul teatro di guerra italiano.

Desidero in proposito rilevare che la documen­tazione archivistica sui reparti della Wehrmacht impegnati in Italia presenta lacune. Tuttavia, le fonti consultate in merito allo specifico quesito della perizia consentono conclusioni univoche e ben documentate.

Così è da definire come assolutamente certo il fatto che nell’autunno 1943 l’allora disposizione centrale della Wehrmacht per la guerra ai partigia­ni, ovvero la “Direttiva di combattimento per la

lotta alle bande nell’Est” dell’11 novembre 19426 è stata vincolante anche per il territorio italiano.

L’esattezza di questa constatazione è dimostra­ta da documenti degli anni 1943 e 1944, così come da una deposizione del feldmaresciallo generale Kesselring del 1946.

In particolare è da citare, a questo riguardo, l’ordine n. 9 del corpo d’armata del comandante della zona di operazioni Litorale adriatico del 24 febbraio 1944, nel quale il generale Ktibler affer­mava in merito alla “conduzione della lotta alle bande”7: “La 'Direttiva di combattimento per la

avrebbero avuto molto peso per quanto riguarda il perseguimento dell’azione da parte della giustizia della Wehrmacht, tenuto conto degli ordini (di cui tratteremo oltre), nonché dell’atteggiamento carico di odio dei comandi militari nei confronti dei partigiani e di quelle parti della popolazione che li appoggiavano. Certo, si potrebbe argomentare che sol­dati della 3B compagnia del reggimento motorizzato granatieri 29 nell’interrogatorio durante la prigionia di guerra ame­ricana contraddissero l’esposizione dei fatti di Lehnigk-Emden; ma persimo il Tribunale di Coblenza ritenne che non si dovesse senz’altro partire dal fatto che i testimoni citati su quel punto May, Leila, Sigorski e Ligmanovski avrebbero deposto “di fronte ad un Tribunale di guerra tedesco” nello stesso modo in cui l’avrebbero fatto di fronte ad ufficiali americani: Tribunale di Coblenza, Sentenza 1994, pp. 18-25, qui p. 46.6 Nur für den Dienstgebrauch! Kampfanweisung für die Bandenbekàmpfung im Osten vom 11.11.1942, in BA-MA, RHD 6/69/1: Anhang 2 zu Heeres-Dienstvorschrift la, p. 69, n. progressivo 1. Nel documento, a proposito del rapporto verso i partigiani e le persone che li appoggiano, si legge (pp. 31-33): “83. Nel trattamento dei banditi e dei loro fian­cheggiatori volontari è richiesto il massimo rigore [il corsivo corrisponde, anche di seguito, all’originale in grassetto, G. Schreiber]. Considerazioni sentimentali in questa questione decisiva sono irresponsabili. La durezza delle misure ed il timore delle punizioni da attendersi devono di per sé trattenere dall’appoggiare le bande o dal favorirle. — 84. I parti­giani prigionieri, quando non vengano eccezionalmente [...] fatti operare nelle nostre azioni contro le bande stesse, de­vono essere impiccati o fucilati; i disertori devono essere trattati, a seconda delle circostanze, come prigionieri al fronte. — Di regola i prigionieri dopo breve interrogatorio devono essere fucilati sul posto. [...]. Ogni capo di Sezione è respon­sabile del fatto che banditi e civili prigionieri, trovati a partecipare attivamente alla lotta (anche donne) vengano fucilati o meglio impiccati. Soltanto in casi eccezionali fondati, egli è legittimato a derogare da questo principio, comunicando il particolare motivo. — 85. E meritevole di morte colui che appoggia le bande procurando loro rifugio, cibo, tenendo se­greto il luogo conosciuto dove queste si trattengono, o mediante qualsiasi altra misura. Qualora si tratti di popolazione maschile abile al lavoro, per la quale si possa dimostrare che sia stata costretta dal terrore ad appoggiare le bande, è imposto adibirli al lavoro coatto ed è previsto il loro trasferimento per lavoro in Germania. [...]. — 86. Contro paesi, nei quali le bande abbiano trovato appoggio di qualsiasi genere di regola vengono richieste misure collettive. A seconda della gravità della colpa, queste possono consistere in una maggiorazione di imposte, confisca di una parte o di tutto il bestiame, prelevamento di uomini abili al lavoro per farli lavorare in Germania e perfino distruzione dell’intero paese. L’ordine per misure collettive può essere impartito soltanto da ufficiali con il grado di capitano [o gradi di servizio su­periori, G. Schreiber]”.7 Der Befehlshaber in der Operationszone Adriatisches Küstenland la n. 1762/44, 24.2.1944, Betr.: Führung des Ban- denkampfes, Korpsbefehl Nr. 9, in BA-MA, RW 4/v. 689. Il generale Kiibler, le cui truppe registrarono nella lotta con­tro i partigiani, tra il 1° gennaio e il 15 febbraio 1944, complessivamente 503 morti e feriti, ordinò di contrapporre “ter­rore a terrore”. La inferiorità numerica tedesca doveva essere compensata dalla "durezza della conduzione della guerra"; e per lui nella lotta alle bande era “tutto giusto e necessario ciò che porta al successo”. Nell’ordine del 16 di­cembre 1942, che esamineremo più avanti, Hitler esigeva dai soldati di “impiegare ogni mezzo, quando porti al succes­so”. Evidentemente Kiibler conosceva questo ordine, la somiglianza verbale non è casuale. Nello stesso tempo il gene­rale assicurava i suoi sottoposti che avrebbe “personalmente coperto ogni misura corrispondente a questo principio”. E in connessione con questo, fermamente dichiarava: “Che nella lotta talvolta perdano la vita anche degli innocenti è spia­cevole, ma non si può farci nulla. Possono ringraziare le bande. Non abbiamo iniziato noi la guerra delle bande”. Si­gnificativo è inoltre il rifiuto di Kiibler di precisare modi di comportamento. In termini lapidari, egli si limitò infatti ad osservare: “E superfluo ora registrare che cosa sia prescritto, permesso o vietato. Nel terzo anno della guerra alle bande

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 671

lotta alle bande nell’Est’ vale nei suoi principi fon­damentali anche per la zona di operazioni Litorale adriatico”.

Kübler dipendeva a quel tempo da Kesselring, che dal 21 novembre 1943, quale comandante su­premo Sudovest e comandante supremo del Grup­po di armate C, era a capo di tutte le truppe tede­sche in Italia. A prescindere da questo, nella con­duzione della guerra ai partigiani Kübler doveva tuttavia tener conto del commissario superiore nella zona di operazioni Litorale adriatico. Que­st’ultimo personificava il vertice dell’amministra­zione tedesca nella zona di operazioni e contempo­raneamente rivestiva la carica di consigliere civile del comandante militare.

La formulazione: “La Direttiva di combatti­mento” vale “nei suoi principi fondamentali” na­sceva evidentemente da una “obiezione” del com­missario superiore. Kübler infatti lo accusò di aver­lo costretto a modificare l’ordine n. 9 del corpo d'armata “sulla conduzione della lotta alle bande contro le disposizioni della direttiva di combatti­mento per la lotta alle bande nell’Est”8. Una affer­mazione che sembra indicare che quella Direttiva di combattimento normalmente valeva senza riserve in tutta l’Italia occupata dai tedeschi9. D’altra parte si può obiettare che l’ordine di Kübler fu emanato soltanto nel 1944 e quindi non comproverebbe nul­

la circa la obbligatorietà della Direttiva di combat­timento dell’autunno 1943. A chiarire il problema sono d’aiuto alcune dichiarazioni di Kesselring in merito alla “guerra alle bande in Italia dal 1943 al 1945”. Vale a dire, il feldmaresciallo generale fece mettere a verbale il 4 ottobre 1946, come prigionie­ro di guerra dei britannici, che per le cosiddette operazioni contro le bande — tra l’altro — valeva­no i “principi generali” della “norma sulle ban­de”10. Egli si riferiva con questo tanto alla Direttiva di combattimento dell’11 novembre 1942, quanto anche al foglio d’istruzioni 69/2, “Lotta alle ban­de”, del ls aprile 1944, come nuova “norma sulle bande”1 '. In quella occasione, Kesselring prendeva in considerazione l’arco di tempo dal settembre 1943 al maggio 1945. Non fece parola di un limite di validità della “Direttiva di combattimento”. An­che da ciò si deve dedurre che, secondo il ricordo dell’ex comandante supremo Sudovest, la disposi­zione era vincolante dal momento dell’uscita dell’I­talia dal conflitto.

Conferma questa supposizione un decreto del Comando della 14a armata del 28 novembre 1943 (il Comando della 14s armata il 21 novembre era subentrato al Gruppo di armate B del feldma­resciallo generale Rommel ed era stato ad ogni ef­fetto sottoposto al comandante supremo Sudo­vest). Nel citato decreto si leggeva12: “Quale chia-

ogni comandante sa comunque che cosa conviene fare”. Kübler, che era stato impiegato in Russia come generale co­mandante del XXXIX corpo d’armata di montagna e comandante in capo della 4“ armata, chiaramente si riferiva in proposito alle esperienze che aveva acquisito in quel paese ed esigeva, come fatto naturale, nella lotta contro i partigiani in Italia lo stesso comportamento tenuto in Unione Sovietica. Ordinò espressamente che i “principi” dell'ordine del cor­po d’armata fossero “ripetutamente inculcati in tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldati” . Si trattava di “principi” che sul teatro di guerra italiano non sono stati straordinari, bensì generalmente validi e che devono essere tenuti presenti nella risposta al quesito se la giustizia della Wehrmacht avrebbe perseguito penalmente il massacro di Caiazzo.8 Dienstreisebericht von Hauptmann Dr. Cartellieri, F.H.Qu., den 20.3.1944: Die Operationszone Adriatisches Küsten­land, in BA-MA, RW 4/v. 508 b.9 Se le cose fossero state diverse, risulterebbe incomprensibile perché Kübler, nel colloquio con il rappresentante del Comando supremo della Wehrmacht, presentasse l’intervento del commissario superiore, Gauleiter e governatore del Reich, dr. Friedrich Rainer, come in contraddizione con la disposizione.10 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring, London, 4 10 1946, in Zentrale Stelle der Landesjustiz-Verwaltungen zur Aufklärung von NS-Verbrechen Ludwigsburg (di seguito ZSL), JAG 260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 2.11 Oberkommando der Wehrmacht Nr. 03268/44 — W.F.St./Op., Merkblatt 69/2, Nur für den Dienstgebrauch! Ban­denbekämpfung (Gültig für alle Waffen) vom 6.5.1944, in BA-MA. RHD 6/69/2. In merito all’entrata in vigore della nuova disposizione, si legge: “II Foglio di istruzioni 69/2 ’Lotta alle bande’ entra in vigore per la Wehrmacht con il 1" aprile 1944. Il Foglio di istruzioni per esclusivo uso di servizio 69/1 ’Direttiva di combattimento per la lotta alle bande nell’Est’ (OKW 1216/42 W.F.St/Op. dell’ 11 novembre 1942) è con ciò abolito”.12 Oberkommando der 14. Armee le Nr. 68/43 g. Kdos., 28.11.1943, Betr.: Behandlung gefangener Saboteure, Agenten und Bandenangehöriger, in BA-MA, RH 20-14/83. Nel testo è riportato per esteso il punto 84 della Direttiva di com­battimento per la lotta alle bande all’Est: cfr. BA-MA, RHD 6/69/1 (si veda sopra, nota 6).

672 Gerhard Schreiber

rimento in merito alle questioni che ripetutamente si ripresentano circa il trattamento da riservare a prigionieri appartenenti a bande o a sabotatori, si fanno pervenire ancora una volta [!] ai Comandi di corpo d'armata e alle Divisioni, in succinto, le direttive più importanti con le disposizioni in pro­posito” . Dopo di che, quali direttive più importanti vengono indicate:

1. l’ordine del Führer del 18 ottobre 1942 sul- l’“annientamento di gruppi terroristici e di sabo­taggio” (commandos);

2. l’ordine di Hitler del 19 giugno 1942 sul rap­porto verso i “sabotatori di origine tedesca”;

3. una direttiva del Gruppo di armate B del 1° novembre 1943 sul “trattamento di agenti nemi­ci”, e

4. la “Direttiva di combattimento per la lotta alle bande nell’Est”.

A conclusione, il Comando della 143 armata de­cretava: “Le accluse diposizioni devono essere fat­te oggetto di accurata istruzione presso le truppe. L’inoltro scritto di questo ordine non va effettuato al di fuori degli stati maggiori di reggimento, e ri­spettivamente di reparto. Dopo comunicazione, i testi notificati ai livelli inferiori attraverso gli stati maggiori di divisione devono essere reincamerati e distrutti” .

Non da ultimo ho citato questa disposizione perché mette in luce l’atteggiamento prudente dei comandi della Wehrmacht rispetto a istruzioni di­rompenti: la disposizione stessa — almeno in gran parte dei casi — la si è fatta semplicemente scom­parire. E con ciò si spiegano certe difficoltà incon­trate nel documentare la perizia.

Ma che cosa dice il citato ordine emesso dal Co­mando della 143 armata il 28 novembre 1943 (or­dine che non lascia il minimo dubbio sulla validità della Direttiva di combattimento in Italia13 14) circa la validità nel tempo di questo provvedimento e Vestensione della sua applicazione sul teatro di guerra italiano?

Che il Comando della 143 armata — pochi gior­ni dopo l’assunzione della carica — nominasse la Direttiva di combattimento ancora una volta, co­me testualmente detto, dunque di nuovo o per l ’en­nesima volta, quale norma vincolante cui attenersi per il trattamento nei confronti di partigiani signi­fica innanzitutto che questa norma in Italia già da prima — dunque ai tempi del Gruppo di armate B — era stata vincolante. Dal momento che le trup­pe del Gruppo di armate B — in gran parte — era­no state inquadrate nella 14a armata, il nuovo Co­mando confermava in tal modo alle unità ora ad esso sottoposte il carattere vincolante di quelle quattro disposizioni che al grosso dei soldati erano senz’altro già note.

Inoltre, l’atto di conferma documenta che si trattava di direttive che valevano già prima del 21 novembre 1943 nell’ambito di comando rispet­tivamente del Gruppo di armate B e del coman­dante supremo Sud. Ciò risulta innanzitutto dal fatto che il comando della 143 armata confermasse il carattere illimitatamente vincolante delle quattro disposizioni nel momento in cui la grande unità già sottostava al comandante supremo di tutte le trup­pe tedesche in Italia. E infatti da escludere che il feldmaresciallo generale Kesselring, nelle zone di impiego della 10a e della 143 armata a lui sottopo­ste, avesse accettato ordini sostanzialmente diversi per la lotta ai partigiani.

Dimostrato così che la “Direttiva di combatti­mento” del 1942 rappresentava una norma valida su tutto il teatro di guerra italiano, desidero analiz­zare più da vicino la questione di quando questa disposizione abbia assunto in Italia quel carattere vincolante. A tale proposito — partendo da quan­to detto sinora — bisogna considerare anche le se­guenti circostanze di fatto.

La direzione della Wehrmacht, mentre l’Italia si preparava ad uscire dal conflitto, aveva messo in conto — come si ritrova nel Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht14 — il sorgere,

13 II consulente della difesa, prof. dr. Alfred de Zayas, lungi dall’avere familiarità con le circostanze storiche, nel dibat­tito a Coblenza ha sostenuto il contrario, senza alcuna prova. Nel procedimento di cassazione dinanzi alla Corte di Karlsruhe, un altro consulente della difesa, prof. dr. Franz W. Seidler, cercò di circoscrivere la validità della Direttiva di combattimento all’Istria. Anche in questo caso si tratta di una speculazione del tutto infondata, in quanto la 14* ar­mata, competente — come in precedenza il Gruppo di armate B — per l’Italia del Nord e l’Alta Italia trasmise la di­sposizione a tutte le unità sottoposte come norma vincolante.14 Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht (Wehrmacht-Führungsstab), voi. III, 1. Januar 1943 — 31 Dezember 1943, Zusammengestellt und erläutert von W. Hubatsch, Frankfurt am Main, Bernard u. Graefe Verlag für Wehrwesen, 1963, p. 1069. Alla domanda: “Quali svantaggi porta l’attuazione del piano ’Asse’?”, il 7 settem-

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 673

sin dall’inizio, di raggruppamenti partigiani15. Lo confermò ancora una volta il generale di corpo d’armata Hans Ròttiger, ex capo di Stato maggio­re del Gruppo di armate C16.

È quindi da considerare ovvio che da parte te­desca, nell’ambito dell’attuazione di misure per difendersi dall’atteso pericolo partigiano, ci si ri­chiamasse alla “Direttiva di combattimento per la lotta alle bande nell’Est” quale norma vinco­lante. Questa circostanza è stata ora ampiamen­te dimostrata. Ma appare anche logico, dal mo­mento che la direzione della Wehrmacht consi­derava come un’eventualità realistica il nascere di una guerra partigiana già prima dell’8 settem­bre 1943, che la Direttiva di combattimento al­l’uscita dell’Italia dal conflitto fosse già prospet­tata come disposizione da applicare per la lotta contro i partigiani.

Certamente la storiografia vede l’apice del mo­vimento partigiano soltanto nel 1944. Dal canto mio sono ben lungi dall’avere un’opinione sostan­zialmente diversa, anche se su questioni marginali si può discutere. Ricordo ad esempio l’insurrezio­

ne — difficilmente separabile dalla lotta partigia­na — della popolazione civile a Napoli, nel settem­bre 194317.

Comunque, l’accertamento storico oggettivo, quale si palesa nello sguardo retrospettivo, non tocca minimamente quanto ho sinora detto. La valutazione fatta allora della situazione — da prendere in considerazione nell’ambito della peri­zia — sulla quale si fondavano gli ordini emanati veniva infatti compiuta non già con la prospettiva e distanza dello storico. Anzi, le decisioni di volta in volta prese si basavano sull’analisi dei dati di­sponibili — di diverso spessore e non sempre affi­dabili — sul nemico. Si ha quindi a che fare con una visione delle cose condizionata in alta misura dalla situazione e talvolta assolutamente soggetti­va, che però ciò nonostante nei confronti del que­sito centrale della perizia è da ritenersi fondamen­tale.

Ciò premesso, possiamo citare quale esempio della valutazione di allora del problema dei parti­giani un provvedimento di Kesselring del 13 otto­bre 1943.

bre 1943 si legge: “ 1. diminuzione di forze per il disarmo di circa 80 divisioni italiane e aumento dell’attività delle bande. La protezione della costa sudoccidentale italiana, lunga mille chilometri, esige forze che non sono dispo­nibili” .15 II feldmaresciallo Kesselring dichiarò nel 1949 che subito dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) si erano con­statati “primi indizi del sorgere di nuclei di resistenza contro la Wehrmacht tedesca”: A. Kesselring, Der Krieg hinter der Front, loc. cit. alla nota 3, p. 4.16 Ausarbeitung des Generals der Panzertruppe a.D. Hans Röttiger für das Institut für Zeitgeschichte München (24.6.1952) über “Die Zuständigkeiten in Italien ab September 1943”, in BA-MA, N 422/23, Nachlass Röttiger. La Direzione del Reich, non da ultimo a causa della paventata guerra delle bande, già il 9 settembre 1943 insediò il futuro Oberstgruppenführer delle SS e colonnello generale delle Waffen-SS Karl Wolff come “comandante supre­mo delle SS e della Polizia” in Italia. Röttiger scrive che “compito” di Wolff sarebbe stato “di impedire il temuto instaurarsi di una guerra di bande e di prendere comunque tutte le misure di polizia per mantenere nella popola­zione civile pace, ordine [e] sicurezza” (p. 5). Da rilevare che l’attività del “comandante supremo delle SS e della Polizia” prima del maggio 1944 si estendeva al territorio fuori della zona di operazioni. Da maggio la responsabi­lità complessiva per la guerra alle bande ricadde sul comandante supremo Sudovest. Anche nei confronti di Wolff egli aveva la competenza sulle direttive. Che da parte tedesca, sin dall’inizio si mettesse in conto un’attività di par­tigiani lo confermano anche ordini di divisione. Cfr. ad esempio 26“ Panzer-Division, Div.Gef.Stand, den 9.9.43, Befehl für den Rückmarsch der Division in den Raum Catrovillari [Castrovillari], nel quale si legge: “Si devono mettere in conto azioni di sabotaggio, casi isolati di resistenza degli italiani. La resistenza deve essere spezzata con le armi” .1 ' Si ricordi in proposito che l’estendersi del movimento insurrezionale nella zona di Napoli costrinse il XIV corpo corazzato, nonostante le “contromisure più aspre” a ritirarsi più velocemente e per una distanza superiore di quanto in un primo tempo prospettato: Kriegstagebuch XIV. Pz.Korps, 30.9.1943, p. 55, in BA-MA, RH 24-14/72; e Gen.K- do. XIV. Pz.Korps la, Tagesmeldung 30.9.1943, an Armeeoberkommando 10., in BA-MA, RH 24-14/75. Appare op­portuno a questo punto richiamare l’attenzione sul cattivo rapporto di molti tedeschi nei confronti della Resistenza italiana. Significativo al riguardo mi sembra tra l’altro il fatto che il film Le quattro giornate di Napoli, proiettato nel 1962 in cinematografi tedeschi, suscitò tanto nel governo come anche nell’opinione pubblica una violenta ondata di indignazione verso l’Italia. Evidentemente non soltanto ai generali di Hitler mancava ogni comprensione per l’etica della Resistenza.

674 Gerhard Schreiber

In esso l’allora comandante supremo Sud, anche se dopo la guerra parve ricordare diversa- mente le cose, indicava che nel suo settore — quindi nei dintorni di Roma ed in Italia meri­dionale — a quel punto esisteva una rilevante minaccia per le truppe tedesche a causa dei resi­stenti italiani.

In quest’ordine del 13 ottobre 1943 si legge tra l’altro18:

Il comportamento per la maggior parte ostile della popo­lazione italiana, il rafforzamento di bande in tutta la zo­na del comandante supremo Sud, commandos operanti dal mare e la possibilità di azioni di paracadutisti nemici rendono necessario che ogni soldato in ogni situazione abbia la sua arma da fuoco a portata di mano.

Rilevante appare che Kesselring parli già il 13 ottobre per la zona di operazioni Italia meridio­nale di un rafforzamento e non della comparsa per la prima volta dei partigiani. Da sottolineare inoltre che in questo caso non si trattava della valutazione di un comandante subordinato o di un capo settore, al quale la situazione delle co­siddette bande poteva apparire diversa — sia

più pericolosa, sia più pacifica — sulla base di condizioni particolari. Siamo anzi di fronte ad una elaborazione complessiva del comandante supremo tedesco nel settore dell’Italia meridio­nale, nella quale viene valutato il pericolo parti­giano nel periodo precedente il 13 ottobre 194319. È inoltre da considerare che il giudizio di Kesselring sulla situazione si basava sulle va­lutazioni contenute nei rapporti giornalieri delle divisioni a lui sottoposte. La sua stima sulla si­tuazione nell’ottobre 1943 si fondava quindi su un’ampia base di informazioni.

Quale esempio riportiamo una comunicazione da parte della divisione corazzata paracadutisti Hermann Gòring, che il 30 settembre informava dalla zona di Napoli e quindi non lontano da Caiazzo:

L’imperversare delle bande nelle retrovie aumenta ogni giorno. Come risulta senza alcun dubbio dal nostro ec­cellente sistema di informazioni via radio, gli abitanti del luogo tradiscono in larga misura le nostre proprie [si intendeva tedesche] basi, postazioni per artiglieria, ponti preparati per l’esplosione ecc. 20.

18 H.Gr. C, Grundsätzliche Befehle O.K.W./O.B.Südwest, 27.11.1942-29.9.1944, qui foglio 23: O.B.Süd/F.A./Ia H Br.B.Nr. 12699/geh.. 13.10.1943, in BA-MA, RH 19 X /ll. Che la direzione militare considerasse minacciosa l’attività delle “bande” nel settore meridionale italiano nel settembre e ottobre 1943 risulta anche da altre fonti. Cfr. BA-MA, RH 24-76/6, Anlage 15a: Generalkommando LXXVI. Pz.Korps Abt. Ic 2190/43, 10.10.1943, Wochenbericht für die Zeit vom 27.9.-2.10.1943, con richiamo ad attività di partigiani presso Napoli, Caserta e altre località; ivi, Anlage 52: Ge­neralkommando LXXVI. Pz.Korps Abt. Ic 2490/43, Feindnachrichtenblatt Nr. 2, p. 3; e BA-MA, RH 2/649: Meldun­gen O.B.Süd vom 1.9.-30.9. 1943; BA-MA, RH 2/650 e RH 2/651: Tages- und Ic-Meldungen O.B.Süd vom 1.10.- 31.10.1943, parte I e IL19 A questo proposito è opportuno sottolineare — come energicamente richiamo nella mia relazione dinanzi al Tribu­nale di Karlsruhe (il testo della relazione è consultabile presso l’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movi­mento di liberazione in Italia) — che la Wehrmacht definiva il concetto di attività delle bande in Italia in senso molto ampio, e quindi non limitato ad atti di sabotaggio e azioni annate. Cfr. al riguardo BA-MA, RH 27-26/27, Anlage 4, Tätigkeitsbericht Abt. Ic 26. Panzer-Division vom 29.11.1943-27.1.1944, qui: 26. Panzer-Division Abt. Ic Nr. 879/45 geh., 9.12.1943, Feindnachrichtenblatt Nr. 7, dove si afferma tra l’altro: “In tutto il territorio intorno a Pescara è stata constatata sinora una rilevante attività di bande. Rientrano nel concetto di bande: a) Italiani che commettono atti di sabotaggio e attentati contro appartenenti e beni della Wehrmacht; b) Ex soldati italiani armati che collaborano con truppe di sabotaggio sbarcate da aerei o navi o prigionieri di guerra evasi” . Che cosa da parte tedesca si intendesse per questi “attentati” , ovvero “azioni dirette contro la Wehrmacht” e “punite con la morte” risulta da una “comuni­cazione” del generale comandante del XIV corpo corazzato del settembre 1943: BA-MA, RH 24-14/135, Anlageheft 1 zum Tätigkeitsbericht 2 Gen.Kdo. XIV. Pz.Korps/Abt. Ic, 3.9.1943-5.10.1943, Anlagen Nr. 300-499, qui Anlage 327. Secondo il testo, attività di quel tipo comprendevano: “ 1. Attacchi contro veicoli tedeschi e soldati tedeschi; 2. Possesso di armi e munizioni. [...]; 3. Sabotaggi di ogni tipo, in particolare distruzione di linee telefoniche, disturbi nella eroga­zione dell’elettricità e dell’acqua, distruzione con esplosivi di strade e ponti e altre installazioni del traffico; 4. Diffusione di propaganda nemica; 5. Appoggio a tutte le forze ostili alla Wehrmacht tedesca. Accogliere agenti nemici e trasmettere notizie di tipo militare agli stessi”. Veniva quindi richiamato: “Chi sia a conoscenza di misure dirette contro la Wehr­macht tedesca e non lo comunica immediatamente al più vicino reparto militare incorre nelle stesse punizioni” .20 BA-MA, RH 24-14/75, Anlagen zum Kriegstagebuch Nr. 5 XIV. Panzerkorps la, 8.9.1943-30.9.1943, foglio 280/2.

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 675

Queste azioni di italiani descritte dalla divisione Hermann Gòring venivano quindi considerate parte integrante della conduzione della guerra partigiana. Ciò è di un’importanza assoluta ai fini del dibattito sul crimine di guerra perpetra­to a Caiazzo, nel caso in cui sia stato effettiva­mente scorto l’invio di segnali luminosi. Perché la comunicazione della divisione dimostra che la lotta contro i gruppi di resistenti non signifi­cava soltanto — come talvolta sostenuto — lo scontro armato. E del resto anche i tedeschi dal canto loro non hanno combattuto i parti­giani esclusivamente con mezzi militari. Su que­sto aspetto ho richiamato l’attenzione nelle ri­flessioni contenute nella perizia sul concetto di lotta21.

In relazione alla determinazione della validità temporale della “ Direttiva di combattimento” del 1942 in Italia occorre infine menzionare an­che il “Feindnachrichtenblatt Nr. 36” [“Bolletti­no di informazioni sul nemico, n. 36”] del 1° no­vembre 1943. Da questo documento risulta cioè come il comandante supremo Sud ed il suo Stato maggiore giudicassero il pericolo partigiano nel periodo importante per il quesito della perizia, tra l’8 settembre e il 31 ottobre 1943. Vi si legge tra l’altro22:

Nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre 1943 ebbero luogo nella zona del comandante supremo Sud assembramenti di soldati italiani rilasciati, a cui si mischiavano prigionieri di guerra angloamericani rimessi in libertà.

A titolo di integrazione vale rilevare in proposito che il secondo ordine criminale, emesso dal Co­mando supremo della Wehrmacht nel corso del di­sarmo delle forze armate italiane il 12 settembre 1943, si riferiva tra l’altro alla cooperazione tra partigiani ed appartenenti ai reparti italiani23.

Anche nel citato “Feindnachrichtenblatt” viene registrata questa collaborazione. Il che significa che i gruppi composti da soldati italiani e prigio­nieri di guerra alleati ricevevano afflusso da parte della popolazione. Si aggiunga che — dopo un ac­quietamento temporaneo — “di recente l’attività delle bande [è] notevolmente aumentata”.

L’accenno all’accresciuta attività dei combat­tenti della Resistenza si riferiva chiaramente alla situazione in ottobre. A favore di ciò sta anche il fatto che il citato ordine di Kesselring del 13 di quel mese registrava il rafforzamento dei parti­giani.

Inoltre fu rilevata una “conduzione e struttura” più consolidata dei gruppi partigiani. Se ne dedu­ceva che la loro “diminuzione numerica” fosse “compensata da una crescita della validità” , che lasciava “presagire il crescere dell’attività delle bande”. In ogni caso i gruppi militari di resistenza mettevano in pericolo la sicurezza nella zona di operazioni del comandante supremo Sud.

Come primo accertamento dei fatti, desidero a questo punto puntualizzare quanto segue:

Quale risultato di un’analisi degli ordini emessi, delle dichiarazioni di testimoni dell’epoca e del giudizio sulla situazione partigiana dall’8 settem­bre al 31 ottobre da parte del comandante supre­mo Sud si deduce che la “Direttiva di combatti­mento per la lotta alle bande nell’Est” dal settem­bre 1943 costituì la norma vincolante sul teatro di guerra italiano per la lotta ai partigiani. Le dispo­sizioni essenziali di questa norma straordinaria­mente brutale sono riportate alla lettera nella mia perizia24. Rinuncio quindi a citarle in questa sede.

Le circostanze appurate, che i consulenti della difesa hanno messo in dubbio sulla base di pure ipotesi ed inconsistenti congetture, hanno dovuto essere ricostruite tanto dettagliatamente, in quan­to un ordine di Hitler, che a me sembra decisivo

21 Perizia Sehr. 1993, pp. 69 sg.; e Carlo Gentile, Der Krieg gegen die Partisanen in Italien 1943-1945, Magisterarbeit, Università di Colonia Colonia, 1993, pp. 67 sg.; la ricerca inedita sarà prossimamente pubblicata in italiano.22 O.B. Südwest, Abt. Ic, 18.6.1943-23.2.1944, fogli 243 sg.: Feindnachrichtenblatt Nr. 36 der Führungsabteilung des Oberbefehlshabers Süd vom 1.11.1943, in BA-MA, RH 19 X/12. Nel documento le bande vengono suddivise in tre ca­tegorie: gruppi militari, gruppi di resistenza e gruppi politici. Di ciascuna categoria sono esattamente descritte le fun­zioni; cfr. Perizia Sehr. 1993, pp. 28 sg.3 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich ¡943-1945. Traditi — Di­

sprezzati — Dimenticati, Roma, Ussme, 1992, pp. 141 sg.24 Perizia Sehr. 1993, pp. 41 sg.; cfr. direttamente sul tema nota 6, ivi BA-MA, RHD 6/69/1, dove sono riportati i pas­saggi contenuti nella perizia.

676 Gerhard Schreiber

per rispondere al quesito centrale della perizia, si richiama a quella direttiva di combattimento. In altri termini, le due disposizioni costituiscono un insieme unitario.

in.

Mi riferisco all’ordine di Hitler del 16 dicembre 1942, che porta la firma del capo del Comando su­premo della Wehrmacht, feldmaresciallo generale Keitel, e la cui analisi costituisce il secondo com­plesso tematico della mia relazione. Per compren­dere in dettaglio l’interpretazione e l’inquadramen­to storico da me dati a questo documento chiave, è necessario leggerne integralmente il testo25:

11 Führer è in possesso di rapporti, secondo i quali singoli appartenenti alla Wehrmacht impiegati nella lotta con­tro le bande sono stati chiamati a render conto del loro comportamento in combattimento. In proposito il Füh­rer ha disposto:

1. Nella lotta alle bande il nemico fa impiego di com­battenti fanatici, formati secondo principi comunisti, i quali non rifuggono da nessun atto di violenza. Mai co­me in questo caso si tratta di essere o non essere. Questa lotta non ha più nulla a che fare con la cavalleria militare o con accordi della Convenzione di Ginevra.

Se questa lotta contro le bande, tanto all’Est come nei Balcani, non viene condotta con i mezzi più brutali, in un prossimo futuro le forze disponibili non saranno più suf­ficienti a dominare questa pestilenza.

La truppa è quindi legittimata e obbligata in questa lotta ad usare senza limitazioni qualsiasi mezzo, anche contro donne e bambini, se questo porta ad un successo.

Riguardi, non importa di quale tipo, sono un crimine contro il popolo tedesco ed il soldato al fronte, che deve patire le conseguenze degli attentati delle bande, non può avere nessun genere di comprensione per qualsiasi cle­menza usata nei confronti delle bande e dei loro fian­cheggiatori.

Questi principi devono dominare anche l’applicazio­ne della “Direttiva di combattimento per la lotta alle bande nell’Est” .

2. Nessun tedesco impiegato nel combattimento con­tro le bande deve essere chiamato a render conto del suo comportamento nella lotta contro le bande ed i loro fian­cheggiatori, né in via disciplinare né secondo la legge marziale.

I comandanti delle truppe impiegate nella lotta alle bande sono responsabili:

di inculcare questo ordine a tutti gli ufficiali delle uni­tà a loro sottoposte, immmediatamente e nella forma più incisiva;

di rendere subito noto questo ordine ai propri giure- consulti;

di far si che nessuna sentenza che contraddica questo ordine venga confermata.

Dato che il professor de Zayas è purtroppo assen­te26, non mi sembra corretto soffermarmi sulle sue affermazioni e valutarle. E però inevitabile un chiarimento oggettivo. De Zayas ha cercato di suggerire, martedì, che l’ordine del 16 dicembre 1942 valesse soltanto per le cosiddette grandi azio­ni contro le bande e per i reparti in esse impegnati.

In effetti, nell’ordine si parla di “lotta alle ban­de”, concetto che può includere “grandi azioni” . Ma nella disposizione ci si riferisce anche ad “at­tentati delle bande” . Ossia si tratta complessiva­mente di ogni tipo di difesa contro i partigiani, dal momento che normalmente non si reagisce ad attentati27 con grandi azioni. In ogni caso, il te­sto dell’ordine non si riferisce affatto in modo esclusivo alla grande azione ipotizzata da de Zayas.

E quanto alla pretesa limitazione del carattere vincolante dell’ordine a ben determinati reparti, si osservi in proposito quanto segue: unità delle forze armate tedesche — il fatto è sufficientemente noto — venivano costantemente ritirate dal fronte ed impegnate nella lotta contro i partigiani. La tesi sostenuta da de Zayas, secondo la quale il divieto contenuto nell’ordine del 16 dicembre di persegui­re soprusi commessi nelle cosiddette azioni contro le bande si sarebbe riferito unicamente a queste truppe è una congettura lungi dalla realtà. Se così

25 Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof Nürnberg 14. November 1945 — 1. Oktober 1946, Band XXXIX, Amtlicher Text deutsche Ausgabe, Urkunden und anderes Beweismaterial Nummer 1218-RF bis JN, München, Delphin Verlag GmbH, 1989, documento 066-UK, pp. 128 sg.26 A. de Zayas espose la sua relazione verso la fine del primo giorno di dibattimento; a causa di ulteriori impegni do­vette partire la sera stessa. Non fu quindi possibile discutere criticamente il contenuto delle sue affermazioni.27 Cfr. al riguardo le fonti citate alle note 19 (BA-MA, RH 27-26/27 e BA-MA, RH 24-14/135) e 20 (BA-MA, RH 24- 14/75), dalle quali risulta la definizione del concetto di partigiano e di attività dei partigiani sul teatro di guerra italiano da parte della direzione politica e militare tedesca.

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 677

fosse stato, ciò avrebbe significato che un crimine o delitto perpetrato da truppe che agivano nel­l’ambito di un’azione programmata di lotta ai par­tigiani sarebbe rimasto impunito, mentre la giusti­zia della Wehrmacht avrebbe perseguito secondo la legge marziale lo stesso atto, qualora commesso da truppe ordinarie in un inatteso scontro con par­tigiani: rappresentazione questa chiaramente as­surda28. Ciò che l’ordine invece realmente signifi­cava tout court era né più né meno l’impunità per soprusi commessi nella lotta contro i partigia­ni ed i loro cosiddetti fiancheggiatori.

Dal momento che nel testo citato si faceva rife­rimento unicamente alla lotta contro i partigiani all’Est e nei Balcani, si trattava, nell’indagine, di verificare innanzitutto il carattere vincolante del­l’ordine del 16 dicembre per il teatro di guerra ita­liano.

Le ricerche in merito hanno dimostrato che l’ordine era già noto il l s gennaio 1943 al Quartier generale del comandante supremo Sud. Cosa che, peraltro, nell’ambito del quesito da considerare in questa sede, appare anzitutto irrilevante, al pari di una dichiarazione resa da Kesselring nel marzo 1946 nel processo contro il maresciallo del Reich Hermann Göring dinanzi al Tribunale militare in­ternazionale di Norimberga. In qualità di testimo­ne egli confermò in proposito che era a conoscenza del suddetto ordine del Führer29.

Dalle due fonti citate risulta che all’inizio del 1943 allo Stato maggiore di Kesselring si aveva co­gnizione della direttiva di Hitler; questo non dice però nulla circa il suo carattere vincolante. Al ri­guardo l’allora comandante supremo Sudovest fe­

ce mettere a verbale, nell’ottobre 1946, in termini univoci, che l’ordine di dicembre era valido anche per il teatro di guerra italiano. Kesselring lo fece in occasione delle sue considerazioni, già da me cita­te, sulla “guerra alle bande in Italia dal 1943 al 1945”. In quella sede, egli si riferiva ora alla “Di­rettiva di lotta”, ora all’ordine di dicembre, a pro­posito del quale dichiarò testualmente30:

In quale misura [nel quadro della lotta contro i partigia­ni] il decreto del 16.12.42 del Comando supremo della Wehrmacht sulla guerra alle bande abbia avuto effetto sull’uno o sull’altro Comando, io non lo so. Lo conside­rai, al pari di tutti gli altri decreti del genere, all’interno del mio particolare teatro di guerra di coalizione, come decreti [sic] generali, nell’ambito dei quali io mi potevo muovere a seconda della situazione, in accordo con il Comando italiano.

Tornerò sulla asserzione, chiaramente autodifen­siva, di aver considerato il decreto di Hitler come un decreto generale il cui contenuto andava elabo­rato. Qui basti per ora la constatazione che il feld­maresciallo generale confermava la validità di principio della disposizione del 16 dicembre 1942 sul teatro di guerra italiano.

Lo stesso fece, in modo univoco, anche il gene­rale d’armata von Vietinghoff-Scheel, impegnato in Italia dall’agosto 1943 sino alla fine della guer­ra, dapprima come comandante della 10a armata e poi, dal 10 marzo 1945, come successore di Kessel­ring. In una annotazione per il dottor Laternser, difensore a Norimberga dello Stato maggiore del­l’esercito e del Comando supremo della Wehr­macht, Vietinghoff-Scheel scriveva31:

28 A titolo di precisazione, vale rilevare in merito alla pratica della “lotta alle bande”: all’interno della sfera di compe­tenza di armata — nel caso Caiazzo ciò significa nella sfera di competenza della 10“ armata corazzata — responsabili della “lotta complessiva alle bande” erano sempre i comandi superiori di armata. Ciò significa che le loro truppe, tra cui, presso il comando della IO8 armata , il 13.10.1943, la 3“ divisione granatieri corazzati, combattevano le “bande” in azio­ni pianificate o in scontri improvvisi. Per l’impiego nella “lotta alle bande” nelle restanti parti del paese vi erano unità della polizia, nonché distaccamenti da caccia e forze di scorta, composti di unità, stati maggiori e uffici distaccati. A questi si aggiunsero le forze di sicurezza sottoposte alle Militär-Kommandanturen, che potevano consistere in truppe della Wehrmacht, delle SS o della polizia. Cfr. in proposito O.B. Südwest la Nr. 0402/44 g.Kdos., 17.6.1944, in ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 7.

Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof Nürnberg 14. November 1945 — 1. Oktober 1946, voi. IX, Amtlicher Text in deutscher Sprache, Verhandlungsniederschriften 8. März 1946 — 23. Marz 1946, München und Zürich, Delphin Verlag GmbH, 1984, pp. 250 sg.30 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring , in ZSL, JAG 260, Straf­verfahren Kesselring, Exhibit 2.11 BA-MA, N 574/3, Nachlass v. Vietinghoff, qui: Antworten des Generalobersten vom 16.4.1945 zum Fragebogen der Kanzlei Dr. Hans Laternser vom 23.3.1946. Sebbene fosse dimostrato in modo assolutamente univoco (cfr. Perizia Sehr.

678 Gerhard Schreiber

Nonostante il Comando supremo della Wehrmacht aves­se vietato di intervenire contro i soprusi commessi nelle azioni contro le bande ecc., si intervenne immediatamen­te, secondo la legge marziale, in ogni caso di cui si fosse venuti a conoscenza.

Con il suo accenno ad un divieto di perseguire disposto dal Comando supremo della Wehrmacht valido per soprusi commessi durante la lotta con­tro i partigiani, il generale poteva riferirsi soltanto all’ordine di Hitler del 16 dicembre 1942. Dato che in Italia era l’unico decreto.

Sull’affermazione di Vietinghoff (come pure su dichiarazioni dello stesso tono di altri generali), secondo cui in casi del genere erano state intrapre­se misure secondo la legge marziale, nella mia pe­rizia mi sono soffermato in modo particolare. Nel­le fonti consultate per il periodo 1943-1944 non si ritrova peraltro conferma dell’esattezza di simili asserzioni.

Come risultato della prima fase dell’indagine è comunque possibile stabilire che per quanto ri­guarda il teatro di guerra italiano, sulla base delle prese di posizione dei due ex comandanti supremi, non esiste alcun dubbio legittimo sul fatto che l’or­dine del 16 dicembre 1942 fosse per principio vin­colante per la lotta ai partigiani in quei territori.

Vero è che né Kesselring, né Vietinghoff men­zionarono il giorno esatto in cui l’ordine del Füh­rer entrò in vigore. Si è quindi dovuto, in una se­conda fase dell’indagine, cercare di determinare in via indiretta questo dato.

Nella ricerca è stato possibile partire dal fatto che le citate deposizioni di Kesselring e di Vietin­ghoff si riferivano a tutta la durata della loro presenza personale in Italia; quindi, in ogni caso, al periodo tra l’8 settembre 1943 e il 10 marzo 194 5 32. Vale a dire, i due comandanti supremi erano in grado di seguire continuativamente per il periodo in questione la situazione degli or­

dini; dovevano comunque avere conoscenza di modifiche aggravanti. E soprattutto per questa ragione il loro silenzio sulla data esatta dell’en­trata in vigore dell’ordine di dicembre di Hitler si spiega con un grado di probabilità che rasenta la sicurezza, con il fatto che questo ordine era già diventato vincolante con l’introduzione delle contromisure tedesche all’uscita dell’Italia dal conflitto.

A favore di ciò, del resto, parla anche il fatto che proprio Kesselring — e nella mia perizia ho ri­chiamato l’attenzione su questo aspetto33 — aveva la tendenza a circoscrivere il più possibile la validi­tà temporale di ordini che rischiavano di configu­rare sue specifiche responsabilità.

Si aggiunga — ciò che ha un peso particolare in questo contesto — che il feldmaresciallo generale, per il quale era allora imminente un processo come criminale di guerra — era consapevole della forza esplosiva dell’ordine del 16 dicembre 1942, da lui riconosciuto come valido. Questa la ragione per cui cercò di presentare questa disposizione tassati­va come un decreto generale relativamente non vincolante.

Se quindi Kesselring, in una situazione del ge­nere, nell’ottobre 1946 rinunciò a definire con mag­gior precisione o anche soltanto a mettere in dubbio la validità temporale dell’ordine di dicembre, è perché sapeva esattamente che il suddetto ordine— al pari della “Direttiva di combattimento” — era in vigore sul teatro di guerra italiano sin dall’i­nizio di settembre.

In effetti, le due disposizioni, che nel contenuto facevano riferimento l’una all’altra, costituivano un complesso unitario. Ciò risulta inequivocabil­mente dalla prescrizione, espressamente richiama­ta nell’ordine del 16 dicembre 1942, secondo la quale i “principi fondamentali” in esso contenuti— quindi direttive di comportamento e di azione— dovevano “dominare anche l’applicazione della

1993, p. 60), che con questa deposizione Vietinghoff si riferiva esclusivamente alla sua attività quale comandante in capo della 10* armata e comandante supremo Sudovest in Italia, il Tribunale di Karlsruhe ignorò questo energico richiamo contenuto nella perizia e sostenne che la “annotazione” di Vietinghoff potesse riferirsi al teatro di guerra russo. “A fa­vore di ciò” parlerebbe il fatto che “il richiamo era destinato al difensore dello Stato maggiore e dell’OKW e con ciò non limitato al settore dell'Italia meridionale” . Citazione da Bundesgerichtshof, Im Namen des Volkes, Urteil vom 1.3.1995, 2 StR 331/94, p. 20. Manifestamente, il Tribunale non era a conoscenza del fatto che l’Italia era un teatro di guerra-OKW, nel quale — nell’ottobre 1943 — rientrava l’Italia meridionale. Stupisce inoltre constatare che i giudici rinunciarono, nell’udienza del 10 febbraio 1995, ad interrogare il consulente perito sulla deposizione di Vietinghoff.32 Perizia Schr. 1993, pp. 48 e 60.33 Perizia Schr. 1993, p. 85.

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 679

‘Direttiva di combattimento per la lotta contro le bande nell’Est’”.

A tutto ciò si potrebbe aggiungere che lo svilup­po della cosiddetta situazione delle bande tra il settembre 1943 e l’aprile 1944 non avrebbe assolu­tamente reso necessario porre in vigore, sul terri­torio italiano, una direttiva come quella del 16 di­cembre34. Cosa che avvalora il fatto che l’ordine di dicembre di Hitler avesse assunto validità sin dal­l’uscita dell’Italia dal conflitto. Ovvero, l’ordine faceva parte di una serie di misure con le quali i co­mandi tedeschi si preparavano alla dissociazione dell’Italia dalla guerra.

Cercando argomentazioni con le quali confu­tare la validità delle prove assunte, si potrebbe — con riferimento all’accertamento storico già citato — richiamare il fatto che la cosiddetta guerra alle bande in Italia tese al suo culmine nel giugno 1944, quando la Wehrmacht dovette abbandonare Roma. Di quando in quando, in questo contesto, viene ricordato che il mare­sciallo britannico Alexander, quale comandante supremo delle forze alleate in Italia, invitò per radio il 7 giugno 1944 i combattenti della Resi­stenza italiani a incrementare le loro attività contro le truppe di occupazione tedesche. E in effetti questi lo fecero35, ma con l’entrata in vi­gore dell’ordine del 16 dicembre 1942 ciò non ha assolutamente nulla a che fare.

Lo dimostra il fatto che, già il l s aprile 1944 il Comando supremo della Wehrmacht aveva predi­sposto l’entrata “in vigore” del “Foglio di istru­zioni 69/2 ’Lotta alle bande’[...]” e contempora­neamente “abolito” il “Foglio di istruzioni, esclu­sivamente per uso di servizio, 69/1 ’Direttiva di combattimento per la lotta contro le bande nel­l’Est’ [...]”, che era stato valido sino allora36. Ed

a quella nuova disposizione, nella quale tra l’altro si legge che “per principio tutti i banditi” , che “vengono catturati o si arrendono in combatti­mento, in uniforme nemica o in abito civile” dove­vano essere trattati come “prigionieri di guerra”37, l’ordine del Führer del 16 dicembre 1942 non era certo più conforme. Quindi è del tutto fuorviante supporre che tale ordine fosse entrato in vigore in Italia dopo il 1° aprile 1944.

Quale risultato delle due fasi di indagine si può complessivamente affermare:

1. L’ordine di dicembre, emesso circa quattro settimane dopo la “Direttiva di combattimento per la lotta alle bande nell’Est”, la completava, sot­to il profilo del contenuto, secondo il volere di Hitler e aveva vigore là dove l ’aveva avuto la “Direttiva di combattimento".

2. Data l’affinità di contenuto con la “Diretti­va di combattimento”, l’ordine di dicembre, insie­me con questa, assunse in Italia il carattere di nor­ma all'inizio di settembre.

3. Quando il foglio di istruzioni “Lotta alle bande” divenne, nell’aprile 1944, norma vincolan­te per il comportamento nei confronti dei partigia­ni e di quelle parti della popolazione che li appog­giavano, l’ordine di dicembre e la “Direttiva di combattimento” furono aboliti.

IV.

Passo ora al terzo complesso tematico, ovvero al significato dell’ordine del 16 dicembre 1942 per le possibilità della giurisdizione della Wehrmacht di perseguire penalmente soprusi commessi da sol­dati tedeschi nel quadro di azioni contro i partigia­ni sul teatro di guerra italiano.

’J Nella relazione dinanzi al Tribunale di Karlsruhe, il 10 febbraio 1995, fu precisato che, dal momento che è fuori dub­bio la validità, sul teatro di guerra italiano, al 28 novembre 1943, della Direttiva di combattimento (cfr. BA-MA, RH 20-14/83), anche se il Tribunale nella citata sentenza del l5 marzo 1995, p. 18, ignorando la situazione storica, si è espresso in modo diverso, bisogna partire dal fatto che il periodo di tempo in cui — dopo il massacro di Caiazzo — si poteva arrivare a un aggravamento del problema rappresentato dai partigiani, dal quale sarebbe sorta la necessità dell’entrata in vigore della Direttiva di combattimento (e dell’ordine del 16 dicembre 1942 ad essa inscindibilmente con­nesso), si riduce a circa sei settimane tra il 13 ottobre e il 28 novembre 1943. Ed in questo periodo non si manifestò alcun inasprimento straordinario della “situazione dei partigiani” .35 Francis Harry Hinsley, Britisli Intelligence in thè Second World War. Its Influence on Strategy and Operations, 4 vo­lumi, London, Her Majesty’s Stationary Office, 1979-1988 (History of thè Second World War, United Kingdom Mili- tary Series), qui voi. 3/II, p. 885; e C. Gentile, Der Krieg gegen die Partisanen, cit., pp. 92 sg.36 Cfr. nota 11.37 Citazione da BA-MA, RHD 6/69/2 (vedi sopra nota 11), nr. 163.

680 Gerhard Schreiber

Nell’interpretare questo ordine è necessario prestare un’attenzione molto accurata alla scelta dei termini. In proposito, salta subito agli occhi che il Comando supremo della Wehrmacht, esten­sore dell’ordine per incarico di Hitler, non parlò semplicemente di principi fondamentali secondo i quali si dovesse agire, che dovessero valere o ai quali si dovesse ubbidire. Ognuna di queste for­mulazioni sarebbe stata sufficiente a raggiungere lo scopo desiderato. Il Comando supremo della Wehrmacht, però, scelse un modo di esprimersi al tempo stesso particolarmente vincolante, esi­gente e rigoroso, ovvero rigido: ordinò cosi che le Direttive della nuova disposizione dovessero do­minare anche l’applicazione del precedente provve­dimento per la lotta alle bande. E questo verbo do­minare comportava una notevole sottolineatura.

Cionondimeno, nell’interpretazione e nell’in­quadramento storico dell’ordine di Hitler che se­guono voglio avanzare la supposizione, in termini generali, ma del tutto ipotetici, che i comandanti tedeschi in Italia non avessero avuto l’intenzione di attenervisi. Voglio persino ammettere che l’af­fermazione, costantemente riproposta a partire dal processo di Norimberga contro i criminali di guerra, di aver proceduto secondo la legge marzia­le contro soprusi, di cui si era venuti a conoscenza, di appartenenti alla Wehrmacht nella lotta contro i partigiani, corrisponda in ogni singolo caso per­lomeno alla sincera convinzione personale.

Fatte queste premesse, compito della perizia a quel punto era di verificare in primo luogo la sfera di azione che l’ordine di Hitler del 16 dicembre 1942 riconosceva ai comandanti supremi, ai gene­rali comandanti ed ai capi di divisione sul teatro di guerra italiano.

Simile sfera di azione si traduceva — almeno in teoria — nella possibilità che, in contrasto con la prescrizione del Comando supremo della Wehr­macht, i “comandanti delle truppe impiegate nella lotta alle bande” non informassero del suddetto ordine. In tal modo, si sarebbe comunque evitato un effetto disinibente, che la conoscenza dell’ordi­ne poteva causare.

È inoltre pensabile che i “comandanti delle truppe impiegate nella lotta alle bande”, quando ne fossero stati essi stessi informati, rinunciassero dal canto loro a “inculcare [...] quest’ordine a tutti

gli ufficiali delle unità a loro sottoposte nella for­ma più incisiva” . Anche così avrebbero potuto es­sere arginate conseguenze negative che l’inoltro della disposizione di dicembre poteva provocare.

E il feldmaresciallo generale Kesselring per cer­to non doveva far mettere in pratica alla lettera le linee per la lotta contro i partigiani, che Hitler ave­va indicato nel suo ordine di dicembre. Come, ad esempio, nel caso del permesso — equivalente a carta bianca per brutalità di ogni tipo — “di usare senza limitazioni qualsiasi mezzo anche contro donne e bambini, se questo porta a un successo”.

Si noti in proposito che in Italia, per la condu­zione della guerra contro i partigiani, esistevano tanto provvedimenti che rinunciavano all’uso dei “mezzi più brutali” raccomandato da Hitler, quanto altri che ordinavano proprio questo. Fu questo il caso in particolare nell’estate del 1944, quando l’ordine di dicembre era già stato abroga­to. Sarebbero inoltre da considerare gli ordini per zone di combattimento evacuate, che costituivano un caso a parte. Tali disposizioni esistevano dal settembre 1943 e, come risulta in modo evidente, in esse non si faceva chiaramente mai differenza tra l’uccisione di uomini, donne o bambini. E nella mia perizia ho detto in termini inequivocabili che il crimine di Caiazzo già sulla base di questi ordini non sarebbe stato punito. Ho inoltre provato, por­tando esempi, che i comandi della 33 divisione gra­natieri corazzati dimostrarono un sorprendente disinteresse di fronte a rapporti sulla fucilazione di civili. Nella mia perizia mi sono diffusamente soffermato su questa circostanza (che in questa se­de non intendo ulteriormente approfondire), che offre indicazioni istruttive per valutare il compor­tamento dei militari tedeschi in Italia38.

Circa la valutazione storica dell’ordine del 16 di­cembre 1942, sarebbe innanzitutto necessario sta­bilire come principio fondamentale che esso — per la parte riguardante l’attuazione della condu­zione della lotta ivi prevista — non doveva essere eseguito. Vale a dire, poteva essere aggirato. Un simile aggiramento o una parziale non osservanza di disposizioni non è circostanza inusuale. Lo si può dimostrare, tra l’altro, sia per il cosiddetto “Kommissarbefell” [ordine sul trattamento dei commissari politici delle forze armate sovietiche] del 6 giugno 1941 sia per l’ordine sui commandos,

38 Perizia Sehr. 1993, pp. 26-34, 38, 72-76, 78-83, 86-90 e 101-112.

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 681

da me già citato, del 18 ottobre 1942. D’altro can­to gli ordini suddetti si differenziavano radical­mente su un punto dalla direttiva del 16 dicembre 1942. Ed io desidero dimostarlo sulla scorta delle argomentazioni del feldmaresciallo generale Kes- selring nel processo contro i criminali di guerra a Norimberga39. In questo contesto risultano con­temporaneamente evidenti le conseguenze deri­vanti dalla particolarità dell’ordine di dicembre per il perseguimento penale di cosiddetti soprusi nella lotta alle bande.

Kesselring fu interrogato a Norimberga il 13 marzo 1946 dall’accusatore capo americano, Justi- ce Robert H. Jackson in merito al suo atteggia­mento nei confronti del punto 6 dell’ordine sui commandos, che dice: “Io [ossia Hitler] renderò re­sponsabili secondo la legge marziale di non esecu­zione di questo ordine tutti i comandanti e ufficiali che, contro il loro dovere, non abbiano inculcato questo ordine alla truppa o che, nell’eseguirlo, agi­scano contro di esso” .

Alla domanda concreta se avesse mai comuni­cato di non aver eseguito quell’ordine o avesse in­gannato i suoi superiori circa la sua osservanza, il feldmaresciallo rispose tra l’altro: di “inganno” non voleva parlare, ma piuttosto “affermare espressamente che sul [suo] teatro di guerra opera­zioni di questo genere [erano] considerate ordini generali, e che l’ordine sui commandos senza dub­bio ha dato adito a diverse interpretazioni” .

Jackson, che non ha nascosto la propria mera­viglia per questa “situazione della Wehrmacht te­desca”, chiese allora se Kesselring intendesse con ciò affermare che “ai comandanti era [stato] la­sciato di decidere in quale misura un ordine di quel tipo dovesse essere eseguito”. Inoltre, l’accusatore capo americano voleva sapere se fosse “vero” “che Hitler non poteva confidare nel fatto” che poi i suoi comandanti adempissero un ordine tan­to tassativo come quello del 18 ottobre 1942.

La spiegazione data al riguardo dall’ex coman­dante supremo Sudovest mi sembra particolar­mente illuminante dell’effettiva situazione sul tea­tro di guerra italiano. “No”, disse Kesselring, le cose non stavano cosi. E aggiunse: “Se da parte di una armata una operazione di quel tipo” degli alleati “fosse stata comunicata in alto come opera­zione di commando", nel senso dell’ordine sui com­mandos, allora avrebbero dovuto essere “eseguite anche le misure necessarie” .

Ciò significa, cosa che il feldmaresciallo del re­sto non dice, che gli appartenenti al commando, come previsto al punto 3 dell’ordine — armati o meno — avrebbero dovuto essere “annientati fino all’ultimo uomo”40.

In ogni caso, secondo Kesselring, dipendeva dal “resoconto della formazione” ciò di cui il Co­mando supremo della Wehrmacht veniva a cono­scenza in merito a operazioni alleate di commando in territorio italiano. A commento aggiunse che nel suo ambito di comando “a poco a poco si era imposta una interpretazione unitaria, secondo la quale persone in uniforme che compivano un compito tattico non rappresentavano comman­dos” nel senso dell’ordine sui commandos.

Il che significa — ed io ho ritenuto importante, non soltanto stabilirlo, ma documentarlo attraver­so la deposizione del feldmaresciallo — quanto se­gue: la libertà di azione di Kesselring, quale co­mandante supremo sul teatro di guerra italiano, si limitava — relativamente all’osservanza di ordi­ni contro il diritto internazionale — alla possibili­tà di manipolare rapporti su determinati avveni­menti o di non comunicare affatto un accadimen­to. Null’altro si nascondeva dietro l’affermazione pretenziosa e di grande importanza del feldmare­sciallo generale del 4 ottobre 1946, di avere egli considerato e trattato le disposizioni di Hitler — come quella del 16 dicembre 1942 — unicamente come “decreti di carattere generale”41.

39 Der Prozess, voi. IX, cit., pp. 239 sg.40 W. Hubatsch, Hitlers Weisungen für die Kriegführung 1939-1945, Dokumente des Oberkommandos der Wehrmacht, 2. durchgesehene und ergänzte Auflage, Koblenz, Bernard u. Graefe Verlag, 1983, p. 206.41 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring, London, 4.10.1946, in ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 2. Kesselring affermò: “Per le operazioni contro le bande valevano i principi generali — norma sulle bande — e quelli scritti nel diritto internazionale. In quale misura il decreto del 16 dicembre 1942 dell’OKW sulla guerra alle bande abbia avuto effetto sull’uno o sull’altro Comando, io non lo so. Lo considerai, al pari di tutti gli altri decreti del genere, alfinterno del mio particolare teatro di guerra di coalizione, come decreti generali, nell’ambito dei quali io mi potevo muovere a seconda della situazione [...]” . Sebbene Kesselring parli espressamente del suo teatro di guerra e non di parti del suo teatro di guerra, la Corte di giustizia valutò la deposizione

682 Gerhard Schreiber

Relativamente al passaggio, decisivo ai fini del­la risposta al quesito posto alla perizia, dell’ordine di dicembre, questo tipo di libertà di azione deve essere a dire il vero valutato come del tutto privo di importanza. Perché nell’ambito della perizia non si tratta del più o meno corretto rapporto su un crimine di guerra, bensì del problema della pu­nizione penale dello stesso da parte della compe­tenza giurisdizionale della Wehrmacht.

Ed al riguardo è noto che al punto 2 dell’ordine del 16 dicembre 1942 si dice testualmente: “Nes­sun tedesco impiegato nel combattimento contro le bande deve essere chiamato a rendere conto del suo comportamento nella lotta contro di esse ed i loro fiancheggiatori, né in via disciplinare né secondo la legge marziale” .

Vale osservare a questo punto che tra i fian­cheggiatori, secondo l’opinione di Kesselring e di altri ufficiali, rientravano anche bambini e adole­scenti, che spesso ritroviamo tra le vittime della cosiddetta lotta alle bande. La mia perizia riporta le relative prove documentali42.

Relativamente al punto 2 dell’ordine di dicem­bre, appare innanzitutto utile rilevare che i giuristi della Wehrmacht hanno immediatamente colto la straordinaria importanza delle direttive ivi conte­nute. Lo dimostra esemplarmente la reazione del giudice capo e consigliere legale presso il coman­dante supremo Sud, giudice capo dell’aviazione

Spreiberg, in occasione dell’inoltro — fuori d’Italia — dell’ordine, il 1Q gennaio 1943. Nella lettera di accompagnamento Spreiberg cosi si esprimeva: “La presente copia viene trasmessa per conoscenza e per i provvedimenti del caso, in particolare relati­vamente al punto 2”43.

Desidero a questo punto interrompere il mio ragionamento, per rilevare, a titolo di integrazio­ne, che il divieto di perseguire penalmente conte­nuto nel punto 2 dell’ordine di dicembre è in linea di massima paragonabile ad un decreto dell’8 otto­bre 1943 proveniente dal Comando supremo della Wehrmacht44. In questo, le fucilazioni di ufficiali ordinate, contro il diritto internazionale, in occa­sione del disarmo delle forze armate italiane veni­vano dichiarate misure politiche al di fuori della competenza giurisdizionale della Wehrmacht. Va­le a dire, la direzione della Wehrmacht reiterò un divieto di azione penale. Non risulta che un qua­lunque giudice militare in Italia, nei Balcani o nel­la Francia meridionale abbia protestato contro quella prescrizione illegale, che violava anche il di­ritto tedesco, ma esprimeva il volere del Führer. E soltanto una manciata di ufficiali rifiutò di esegui­re gli ordini criminali allora emanati. In una disa­mina storica più ampia degli ordini dell’autunno 1943, anche un simile atteggiamento sarebbe da prendere in considerazione (ed io l’ho fatto nella perizia scritta)45. Perché in questo caso si tratta

nella sentenza citata del l s marzo 1995 (pp. 19 sg.) nei termini seguenti: “Dato che l’ambito di comando del comandante supremo Sud, successivamente Sudovest, comprendeva dopo la sostituzione di R.s [Rommel] anche l’ambito del Gruppo di armate B con la zona di operazioni Litorale adriatico, anche nella valutazione necessariamente cauta della deposizio­ne, non si può desumere soltanto dalla menzione della ’norma sulle bande’, con la quale dovrebbe essere intesa la ’Di­rettiva di lotta’, e dell”Ordine del Führer’, la validità dei due ordini in Italia meridionale nell’ottobre 1943. L’osserva­zione di Kesselring può essersi riferita ad altri territori del suo successivo ambito di comando, in particolare alla zona di operazioni Litorale adriatico”. E difficile seguire la logica di questa argomentazione, vista la dichiarazione di Kesselring del 4 ottobre. E soltanto a margine si noti che se il ragionamento del Tribunale coincidesse con la realtà storica, il pri­gioniero di guerra Kesselring, in attesa del giudizio quale criminale di guerra per l’uccisione di ostaggi contro il diritto internazionale, sicuramente non avrebbe rinunciato ad alleggerire la propria posizione con il richiamo alla validità re­gionale, indicata dal Tribunale, dell’ordine criminale.42 Perizia Sehr. 1993, pp. 25, 57, 82 sg., 90 sg. 94, 99, 104 sg., 108, 110 sg., 114 sg., 117 sg. 123 sg. e 138.43 OKW-Wehrmachtführungsstab, Erlasse über Vernichtung von Terror- und Sabotagetrupps, foglio 22, in BA-MA, RW 4/v. 604. La comunicazione, da cui la citazione, non si ritrova nei documenti del processo di Norimberga.44 OKH/ Generalstab des Heeres, J I c, Italien, 13.5.1943-29.3.1944, foglio 96, in BA-MA, RH 2/637. Lo Stato mag­giore dell’esercito rese noto, in questa occasione, il decreto del Comando supremo della Wehrmacht.45 Sugli ordini criminali cfr. Perizia Sehr. 1993, pp. 6-20. In connessione con ciò sorprende la formulazione — che na­sconde le vere circostanze di fatto — del Tribunale (sentenza del 1° marzo 1995, cit., p. 21): “Dopo l’8 settembre 1943 vi sono stati [...] ordini sommamente rigorosi per il disarmo delle truppe italiane”. Quelle direttive non erano soltanto “ri­gorose”, si trattava in parte di veri e propri ordini di assassinio, fondati su basse motivazioni e la cui singolarità storica è stata illustrata nella perizia. I giudici di Karlsruhe credevano inoltre (ivi), basandosi sulle affermazioni del consulente F. W. Seidler dell’Università della Bundeswehr di Monaco, che al regime nazionalsocialista premesse soprattutto “mante-

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 683

della disposizione mentale della direzione militare tedesca in Italia.

Per quanto riguarda concretamente il punto 2 dell’ordine del 16 dicembre 1942, esso vietava da un lato di punire tedeschi che si fossero resi colpe­voli di soprusi nella lotta contro i partigiani che doveva essere condotta con i mezzi più brutali, dal­l'altro affermava che “non dovevano essere con­fermate sentenze” che contraddicessero la disposi­

zione di dicembre. Era una specie di rafforzamen­to del divieto. Dunque, in relazione a ciò, sul tea­tro di guerra italiano non esisteva alcuno spazio di manovra per i comandanti o le autorità giudiziarie. In altre parole: l’illimitato divieto di azione penale contenuto nell’ordine di dicembre non poteva es­sere né aggirato né manipolato46.

Infatti le procedure del tribunale militare porta­vano a sentenze che dovevano venire confermate e

nere il più possibile la forza di combattimento e di lavoro delle truppe italiane e la benevolenza della popolazione civile nei confronti dei tedeschi, quale [risultava] tra l’altro dal foglio di istruzioni dell'OKW del 12 settembre 1943 sul com­portamento dei soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile italiana”. Non mancano ricerche scientifiche, an­che in lingua tedesca, sulla effettiva situazione in Italia dopo l’uscita dalla guerra del Paese. Per meglio capirlo, sarebbe bastato leggere il diario dell’ufficiale le della 26° divisione corazzata, pubblicato già nel 1971: Udo von Alvensleben, Lauter Abschiede. Tagebuch im Kriege, a cura di Harald von Koenigswald, Berlin, Propyläen, 1971, pp. 277-355, sull’I­talia 1943. A p. 333 (23 settembre 1943) si legge: “La distruzione dell’Italia si compie in forme molto più terribili di quanto non ci si aspettasse. Per che cosa viene punito questo popolo: per il fatto di tollerare pazientemente la tirannia, che lo portò alla guerra o per il tradimento dell’alleato non amato”? E ivi, p. 336 (26 settembre 1943): “Il comandante del 79° reggimento granatieri corazzati riceve l’ordine di catturare e di allontanare dal posto, con il suo reggimento, il maggior numero possibile di abili al servizio militare a Napoli. Sono aperte tutte le porte ad ogni tipo di crimine”. Ap­pare incomprensibile che il Tribunale cerchi di motivare la sua sentenza proprio con un elaborato della propaganda del­la Wehrmacht, più che scarso sotto il profilo del contenuto, che — come evidentemente non era noto né al Tribunale né al consulente F. W. Seidler, era datato 12 settembre, ma trasmesso al XIV corpo corazzato, nel quale rientrava la 3“ divisione corazzata granatieri, soltanto il 18.10.1943: Tätigkeitsbericht 2 Gen.Kdo. XIV. Pz.K./Abt. Ic vom 1.9.1943- 31.12.1943, p. 89 (18.10.1943), in BA-MA, RH 24-14/134; sul “foglio di istruzioni” cfr. BA-MA, RH 24-14/136, Anla­genheft 2 zum Tätigkeitsbericht 2 (vedi sopra), qui Anlagen 526 e 625.46 Ciò nonostante sarebbe stato possibile avviare una istruttoria contro colpevoli di reati come Lehnigk-Emden. In ef­fetti il divieto di azione penale dell’ordine per la “lotta alle bande” non vi contrastava assolutamente. Anzi, l’autorità giudiziaria era tenuta a far compiere accertamenti al suo funzionario della giustizia militare (capo istruttore), quando venisse a conoscenza “del sospetto di una azione da perseguire penalmente secondo la legge militare”. Citazione da H. Dv. 3/13, M.Dv. Nr. 132, L.Dv. 3/13, I. Verordnung über das Sonderstrafrecht im Kriege und bei besonderem Einsatz (Kriegssonderstrafrechtsverordnung KSSVO) mit den Änderungen und Ergänzungen der 1. Ergänzungsverordnung vom 1. November 1939 [e] II. Verordnung über das militärische Strafverfahren im Kriege und bei besonderem Einsatz (Kriegsstrafverfahrensordnung KStVO) mit den Änderungen und Ergänzungen der 2. bis 6. Durchführungsverordnung vom 17. August 1938. Ristampa gennaio 1940, Berlin 1940, p. 21, comma 17. Quello che importa è la conclusione del procedimento. E al riguardo la direttiva del 16 dicembre 1942 è univoca. Ossia, anche se un’autorità giudiziaria avesse decretato l’imputazione (ivi, p. 29, comma 46) e il deferimento a un Tribunale militare di guerra (ivi, p. 32, comma 49), da ultimo gli sarebbe stato vietato di convalidare la sentenza, qualora fosse stata di colpevolezza. Tuttavia, senza questa convalida la sentenza del Tribunale militare di guerra non sarebbe stata legalmente valida (ivi, p. 42 sg., comma 79). Bisogna inoltre considerare che ad un condannato — nel caso puramente teorico che un processo fosse stato tenuto e che la sentenza del Tribunale militare di guerra fosse stata convalidata — era aperta la via della istanza di grazia. Questa istanza poteva interrompere il procedimento penale e in un caso, come quello di Caiazzo, dove si trattasse di giurisprudenza che andava contro un “ordine del Führer” — quindi contro il dichiarato “volere del Führer”, la difesa avrebbe con sicurezza scelto la via della grazia. Da rilevare al riguardo che il “diritto di grazia” era riservato al “Führer e cancelliere del Reich” in tutti quei casi “in cui un ufficiale era stato condannato per un crimine o mancanza dovuta ad abuso d’ufficio”. Contemporaneamente a Hitler era possibile la“cancellazione di procedimenti penali” (ivi, pp. 53 sg., comma 108). Nel caso — ancora una volta sul piano assolutamente ipotetico — che il Tribunale militare di guerra aves­se, per la gravità dell’azione, emanato una sentenza capitale, questa sentenza — indipendentemente dall’istanza di gra­zia — sarebbe stata portata dinanzi a Hitler (ivi, pp. 42 sg., comma 79). Perché a lui soltanto era “riservato il diritto di convalida o di cancellazione” nel caso di “ufficiali o funzionari della Wehrmacht col grado di ufficiali condannati a morte” . È impensabile che Hitler, imbattendosi, nella prassi quotidiana, in un caso complesso come quello ora descritto, avrebbe deciso a sfavore di un ufficiale che a propria discolpa personale si appellava all’“ordine del Führer” del 16 di­cembre 1942, sottoscritto dal feldmaresciallo generale Keitel quale capo del Comando supremo della Wehrmacht.

684 Gerhard Schreiber

alla fine giungevano all’ufficio Personale dell’eser­cito. In quella sede, al più tardi, si sarebbe venuti a conoscenza del rifiuto di obbedienza agli ordini di un comandante militare in qualità di autorità giu­diziaria47.

In proposito non è irrilevante richiamare due circostanze di fatto:

1. L’aiutante in capo della Wehrmacht presso il Fùhrer, generale di brigata Rudolf Schmundt, dal ls ottobre 1942 era contemporaneamente an­che capo dell’ufficio Personale dell’esercito;

2. Nelle fonti consultate mancano prove del fatto che il feldmaresciallo generale Kesselring o uno dei comandanti superiori della IO8 e 148 arma­ta, si sia apertamente opposto, prima del 1945, agli ordini per la lotta contro i partigiani provenienti dal Comando supremo della Wehrmacht.

V.

Riassumendo:1. Nel caso della disposizione del 16 dicem­

bre 1942 abbiamo a che fare con un provvedi­mento di Hitler quale comandante supremo e suprema autorità giudiziaria della Wehrmacht, ordine che ha “ oggettivamente contrastato” , sul teatro di guerra italiano dal settembre 1943 all’aprile 1944, un perseguimento penale di crimini commessi nel corso della cosiddetta lotta alle bande48;

2. In considerazione di questo accertamento, è del tutto irrilevante quale intimo atteggiamento nei confronti di quella disposizione avessero il co­mandante supremo Sud, il comandante superiore della IO8 armata, il capo della 38 divisione grana­tieri corazzati, che contemporaneamente rivestiva­no la carica di autorità giudiziaria. Nessuno di lo­ro era autorizzato a o in condizione di abrogare ordini del Fiihrer, legalmente vincolanti per la

Wehrmacht o parti di essa. Soltanto lo stesso Hi­tler ed il Comando supremo della Wehrmacht per suo incarico potevano modificare o revocare provvedimenti del genere.

3. La circostanza di fatto appena constatata mette fine alle affermazioni di singoli generali, di aver proceduto secondo la legge marziale — in contrasto con la disposizione del Comando su­premo della Wehrmacht — nel caso di soprusi noti, commessi durante la lotta contro i partigia­ni. Le fonti consultate, comunque, per il periodo di validità in Italia dell’ordine di Hitler, non con­tengono alcuna prova del fatto che si sia cercato di perseguire penalmente soprusi commessi in azioni contro i partigiani. Di fronte al punto 2 dell’ordine del 16 dicembre 1942 ciò non sorpren­de. Da rilevare, in connessione con questo, che il complesso di fonti utilizzate per la perizia ab­bracciava tra l’altro tutte le sentenze disponibili dei tribunali di guerra da campo di tutte le divi­sioni tedesche impiegate in Italia e i rapporti di attività, trasmessi in gran parte, dei giudici di ar­mata della IO8 e della 14* armata.

4. L’affermazione contenuta nella tesi della azione penale, secondo la quale i comandanti non sarebbero stati a conoscenza di soprusi del genere è inattendibile per diversi motivi. Ad integrazione delle argomentazioni al riguardo contenute nella perizia scritta, vale qui richiamare che nell’ottobre del 1943 la stessa “Neue Zùrcher Zeitung”, certa­mente non ostile ai tedeschi, poteva riferire che i “tedeschi [in Italia], prima di [ritirarsi] [distruggeva­no] tutto e [uccidevano] molti civili”49.

5. Dall’analisi degli ordini descritti e all’epoca in vigore in Italia a seguito dell’ordine del 16 di­cembre 1942 risulta, ai fini del procedimento pena­le per il crimine di guerra perpetrato a Caiazzo il 13 ottobre 1943, che la giurisdizione della Wehr­macht non avrebbe perseguito questo atto, com­piuto nell’ambito della cosiddetta lotta alle bande,

47 La gerarchia giuridica per le truppe tedesche sul teatro di guerra italiano — dal basso in alto — era la seguente: Corte marziale, Tribunale militare divisionale (autorità giudiziaria il comandante di divisione), Tribunali dei comandi di ar­mata (10" e 14" armata), Comando supremo dell’esercito (autorità giudiziaria Keitel), Autorità giudiziaria suprema della Wehrmacht tedesca (Hitler, ufficio amministrativo OKW/WR). Kesselring aveva soltanto il diritto di convalida per le unità a lui direttamente sottoposte. I corpi d’armata non avevano Tribunale. Cfr. ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kes­selring, Exhibit 102.48 Cfr. Perizia Schr. 1993, p. 47.49 Citazione da W. Muehlon, Tagebuch der Kriegsjahre 1940-1944, a cura e con introduzione di J. Heisterkamp, Dor- nach, Spicker Verlag, 1992, p. 1132 (21 ottobre 1943). Il testo completo suona: “Da tutto il fronte si ha costante notizia che i tedeschi, prima di ritirarsi, distruggono tutto e uccidono molti civili”.

L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca 685

in quanto non doveva né poteva perseguire il cri­mine in forza del divieto di azione penale pronun­ciato dal Comando supremo della Wehrmacht per incarico di Hitler.

E risulta inoltre dagli ordini in vigore nell’otto­bre 1943 per le zone di combattimento evacuate, che la giurisdizione della Wehrmacht in Italia non avrebbe perseguito l’atto compiuto a Caiazzo, in quanto coperto dagli ordini ai quali il coman­dante supremo Sud e i comandanti a lui sottoposti dovevano rispondere.

Il risultato complessivo della perizia afferma così che le uccisioni commesse a Caiazzo — si trat­ti di fatti nell’ambito di un’azione partigiana o del comportamento contro civili in zone di combatti­mento evacuate — non sarebbero state penalmente perseguite da parte della giurisdizione della Wehr­macht, sulla base degli ordini in vigore all’epoca dei fatti in Italia per le truppe tedesche.

Gerhard Schreiber[traduzione dal tedesco di Francesca Ferratini Tosi]

ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTODI LIBERAZIONE

Massimo Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche Modena 1945- 1946, Milano, Angeli, 1995

Il volume di Storchi, pubblicato con il contributo finanziario dell’Anpi provinciale di Modena, sottopone a una doppia indagine il fenomeno della violenza politica nella provincia modenense. Da un lato infatti esso individua, seguendo il dibattito politico In sede locale, l’evolversi dei comportamenti nella crescente contrapposizione fra schieramenti politici nel corso della transizione, anche violenta, della realtà bellica verso la ricostruzione; dall’altro, attraverso la ricerca statistica e documentaria, consente per la prima volta di definire con esattezza le dimensioni del fenomeno degli atti di violenza e di giustizia sommaria nella zona nota come “triangolo della morte", fornendo cosi un utile strumento per approfondire la specificità del caso emiliano.

Indice

Premessa. Modena: per una nuova geometria della realtà; 1. Passata la tempesta. Le grida di festa; 2. La difficile strada della ricostruzione; 3. Anno nuovo, vita (quasi) nuova; 4. Verso la Costituente; 5. La calda estate del 1946; 6. Verso il dopoguerra; Appendice statistica; Indice del nomi di persona; Indice dei luoghi.

ABRUZZO CONTEMPORANEOSommario del n. 1, 1995

Costantino Felice, L'Abruzzo nella storiografia contemporanea

Studi e ricercheAdolfo Pepe, Per una storia dell’Italia repubblicana. Fonti, problemi, periodizzazione; Augu­sto D'Angelo, L’Abruzzo come regione ecclesiastica: un profilo storico tra continuità e tra­sformazione-, Loretta Bonlfaci Di Marzio, Alle origini di un conflitto: politica forestale e gestio­ne della risorsa boschiva in provincia dell'Aquila all’indomani dell'Unità.

OsservatorioGiovanni Tocci, Itinerari storiografici della modernistica attuale. La storia locale e le sue ap- plicazioni/implicazioni-, Pino Mauro, L'economia abruzzese oggi-, Enzo Fimlani, Due aspetti della guerra in Abruzzo: la liberazione di Mussolini e gli eventi militari dal Sangro ad Ortona.

Fonti e testimonianzeRaffaele Colapletra, Uomini e fatti del circolo socialista aquilano nell’anno 1907\ Luigi Pic­cioni, / due maggiori archivi per la storia delle origini del Parco nazionale d’Abruzzo-, Giorgio Palmieri, La Descrizione di Casacalenda nel panorama delle monografie municipali molisa­ne dell’Ottocento-, Carmine Viggiani, Il fondo archivistico del processo Matteotti a Chieti.

Schede e recensioniP. Muzi (Ponziani), M. Cimini (Trinchese), C. Felice (Borri, Fabilli, Setta), A. Orlando (De Nar- dis), R. Bosco (Tinari).

STUDI ECONOMICI E SOCIALISommario del n. 4, ottobre-dicembre 1995

ArticoliR. Dulbecco, Scienza e cultura-, S. Agnelli, L'Unione europea: prospettive economiche e fi­nanziarie-, G. Salvini, Cento anni fa la radio-, L. Mossa, L’opera di Giuseppe Toniolo-, L Corradini, Economia e criminalità: il compito della scuola nel contesto dell’educazione civi­ca-, P. P. Coccorese, Nuove frontiere del mercato del lavoro; F. Luciani, Protezione civile e protezione ambientale nei paesi in via di sviluppo-, A. Poli Bortone, Qualità e approvvigiona­mento delle acque-, G. Gambaro, / tassi di interesse del mercato finanziario italiano.

Note e rassegneS. Trucco, Rinata la prestigiosa rivista "Nuova economia e storia"-, V. Campetti, Spoleto fe­stival 1995.

Una ricerca impossibileLe perdite italiane nella seconda guerra mondiale

Giorgio Rochat

Calcolare le perdite umane di una guerra è possibile soltanto in termini approssimativi, malgrado i complessi sistemi di registrazio­ne e controllo della popolazione e della for­za alle armi di cui dispongono gli stati e gli eserciti moderni. Inoltre le elaborazioni dei dati ufficiali, anche quando esistono, non possono rispondere a tutti gli interrogativi che pone lo storico. Facciamo l’esempio del­le perdite italiane nella prima guerra mon­diale, che furono oggetto di rilevazioni siste­matiche promosse dal Comando supremo e dal ministero della Guerra subito dopo il termine del conflitto, con la pubblicazione di opere pregevoli, e poi tema privilegiato della propaganda fascista, come base “mo­rale” della rivendicazione di un ruolo mag­giore deU’Italia nella politica europea. Ciò nonostante queste rilevazioni lasciano aper­ti grossi interrogativi, per esempio sugli uffi­ciali (nomine, carriere, perdite)1 e nulla ci dicono dei prigionieri. Fino a poco tempo fa tra i 500.000 militari morti per ferita o malattia entro il 1918 e i 650.000 caduti complessivi avevamo un buco, che non po­teva essere spiegato soltanto con i morti per cause belliche dopo il 1918. Poi, nel 1993, Giovanna Procacci ha scoperto che i

morti in prigionia non erano poche diecine di migliaia, ma 100.000; e che il loro ricordo era stato del tutto rimosso non soltanto per l’ingiusto sospetto di viltà (se non di diser­zione) che gravava su chi si era arreso, ma anche perché l’altissima mortalità era dovu­ta al rifiuto delle autorità politiche e militari di fornire ai prigionieri i soccorsi alimentari che li avrebbero salvati dalla morte per fa­me (i 600.000 prigionieri francesi ricevano regolari rifornimenti dalla madrepatria e quindi ebbero soltanto 20.000 morti, men­tre i morti italiani furono 100.000 su600.000 prigionieri)2. Ricordiamo poi che accanto alle perdite belliche non si possono dimenticare i 600.000 morti provocati nel­l’inverno 1918-1919 dall’epidemia di “spa­gnola” in Italia, i cui tragici effetti sono an­che una conseguenza indiretta della guerra, che aveva inciso sull’alimentazione della popolazione e sulla riduzione dell’assistenza sanitaria3.

Veniamo alla seconda guerra mondiale, anzi alla sua prima parte, la guerra “regola­re” fino all’armistizio dell’8 settembre 1943. La prima cosa che balza agli occhi è la mancanza del grosso sforzo di documenta­zione dell’impegno bellico condotto per la

1 Cfr. Giorgio Rochat, Gli ufficiali italiani nella prima guerra mondiale, in Giuseppe Caforio, Piero Del Negro (a cura di), Ufficiali e società, Milano, Angeli, 1988 (ora anche in G. Rochat, L’esercito italiano in pace e in guerra, Milano, Rara, 1991).

Cfr. Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale, Roma, Editori Riuniti, 1993.Cfr. Giorgio Cosmacini, Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 5-21.

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

688 Giorgio Rochat

prima guerra mondiale. Per fare un esem­pio, non abbiamo dati sicuri per la forza al­le armi nei diversi periodi, ma soltanto quelli disponibili all’epoca presso gli alti co­mandi, senza alcun coordinamento tra eser­cito, marina e aeronautica4.

Per quanto riguarda le perdite disponia­mo di una serie di dati ufficiali per le singo­le campagne, elaborati con criteri diversi dagli Uffici storici delle tre forze armate, ancora senza alcun coordinamento, e con una serie di dubbi e buchi più o meno gran­di. Non basta a giustificare questa situazio­ne il disastro dell’8 settembre, che provocò la perdita di quasi tutti i carteggi dei co­mandi operativi e la dispersione (tempora­nea, ma con danni dolorosi) degli archivi centrali degli Stati maggiori e dei ministeri militari. Il vero problema è il disinteresse che le autorità, sia politiche sia militari (ma anche studiosi e opinione pubblica), di­mostrarono nel dopoguerra (e continuano a dimostrare) per un’opera di riordino e con­fronto dei dati disponibili (o ricuperabili negli archivi militari stranieri, per esempio per la prigionia), certo non facile, ma dove­rosa. Succede cosi che chi riesce a ottenere gli elenchi dei caduti di una divisione, con­servati e messi su computer dalla Divisione generale leva del ministero della Difesa, scopre con amara sorpresa che sono inuti­lizzabili perché largamente incompleti e zeppi di errori5.

In uno studio in corso di pubblicazione, frutto di un lungo e paziente lavoro, il gene­rale Antonio Rossi ha riunito e vagliato le ci­

fre disponibili sulle perdite 1940-1943. Le ri­portiamo, accorpando alcuni teatri e lascian­do da parte quelli minori6:

Fronte occidentale 1.251Guerra di Grecia 20.645Occupazione balcanica 9.065Africa orientale 8.550Africa settentrionale 19.882Russia 79.789Mari e cieli 29.356Territorio metropolitano 21.431

Per capire come queste cifre non possano es­sere che approssimative basti pensare alla difficoltà di calcolare le perdite nel Mediter­raneo, che comprendono uomini della mari­na, dell’aeronautica e dell’esercito (le truppe imbarcate sulle navi affondate) e civili milita­rizzati, registrati dalle tre forze armate con criteri diversi, senza coordinamento e con di­versi livelli di completezza e attenzione.

Facciamo un esempio concreto della diffi­coltà di stabilire le perdite di una campagna. La dettagliata relazione dell’Ufficio storico dell’esercito fornisce questi dati per le truppe italiane inviate in Russia7:

morti fino al 10 dicembre 1942 4.989morti e dispersi dopo il 10 dicembre 84.830di cui: rimpatriati dalla prigionia 10.030

quindi morti 74.800

totale morti 79.789

A un esame attento risulta però che: a) non sappiamo quanti perirono in epoca succes-

4 Cfr. G. Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943, in Id., L'esercito italiano in pace e in guerra, cit.5 In una ricerca sui caduti della divisione Acqui abbiamo potuto constatare che i dati in possesso della Divisione ge­nerale leva, elaborati a partire da schede individuali, sono largamente incompleti sul piano quantitativo e inaffidabili nell’indicazione del fronte e della data di morte. Cfr. G. Rochat e Marcello Venturi (a cura di), La divisione Acqui a Cefalonia, settembre 1943, Milano, Mursia, 1993, p. 45.6 Cfr. Antonio Rossi, Guerra 1940-1945. Gli italiani caduti. Breve storia de! conflitto in cifre, bozze per la stampa, To­rino, 1995, p. 6. Ringrazio il generale Rossi per avermi concesso l’utilizzazione del suo prezioso studio con grande ge­nerosità.

Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito, Le operazioni delle unità italiane sul fronte russo 1941-1943, Roma. Ussme, 1977, p. 487.

Una ricerca impossibile 689

siva dei 13.592 feriti e congelati registrati fi­no al 10 dicembre 1942 e dei 29.690 feriti e congelati che, quasi sempre in condizioni fi­siche disastrose, riuscirono a sottrarsi agli accerchiamenti russi di dicembre 1942-gen- naio 1943; b) le cifre ufficiali non tengono conto dei morti per malattia; c) la relazione dell’esercito non ricorda le perdite dell’ae­ronautica; d) esistono dubbi sulla sorte di alcuni reparti complementi in arrivo sul Don nel gennaio 1943, forse fermati in tem­po o forse caduti preda dei russi. E perciò possibile che le cifre ufficiali debbano essere aumentate di qualche centinaio o migliaio di morti.

E invece quasi corretto comprendere tutti i caduti in Russia tra le perdite verificatesi prima dell’8 settembre: l’altissima mortalità tra i prigionieri (di 40-50.000 ne ritornaro­no 10.030) è concentrata nei primi mesi do­po la cattura; dopo l’estate 1943 i campi russi garantirono la sopravvivenza dei su­perstiti, con un livello di mortalità “fisiolo­gico”8.

Un altro esempio della difficoltà di questi calcoli. Le cifre ufficiali delle perdite della guerra contro la Grecia sono le seguenti9:

morti 13.755feriti 50.874dispersi 25.067malati 52.108congelati 12.368

totale 154.172

La percentuale dei morti sulle perdite com­plessive è insolitamente bassa; e infatti a quelli accertati bisogna aggiungere parte dei dispersi (“per la maggior parte caduti sul campo” , dice la relazione dell’Ufficio storico, che però non fornisce alcun dato sui prigionieri liberati dopo la resa della Grecia o già trasferiti nei campi inglesi) e certamente una aliquota dei feriti e dei mala­ti. Il totale dei morti della campagna dovreb­be perciò salire a 30.000, forse più (dipende soprattutto dalla percentuale dei prigionieri sui dispersi). Inoltre, per avere il costo com­plessivo della campagna bisognerebbe tener conto delle perdite dell’aeronautica, della marina e delle truppe imbarcate sulle navi affondate tra i porti pugliesi e l’Albania.

In sostanza, gli studi e gli archivi militari hanno finora fornito dati sulle perdite utili per la storia delle singole campagne, ma in­sufficienti per un discorso complessivo. Un apporto di grande interesse viene però da un'altra parte. Nel 1957 l’Istituto centrale di statistica pubblicò il volumetto Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940- 1945, frutto di uno straordinario lavoro a partire dalle anagrafi comunali con l’utiliz­zazione di schede perforate individuali (lo strumento tecnico che precede l’avvento dei computer) che hanno permesso l'elabo­razione e l’incrocio dei seguenti dati: anno e luogo di nascita, luogo (teatro bellico), da­ta e causa di morte, sesso, condizione civile, professione, grado militare10. Una parte di queste rilevazioni sono inutilizzabili o insuf-

8 Definiamo “fisiologica”la mortalità che si registra in ogni collettività militare per ragioni non direttamente collegate alle operazioni belliche (anche se certamente favorite dallo stato di guerra) per malattie, incidenti, suicidi e simili. Par­liamo quindi di mortalità fisiologica (ci si perdoni la bruttezza del termine) sia per le truppe sul territorio nazionale non impegnate in azioni belliche, sia per i campi di prigionia che assicuravano condizioni “normali”di vita.9 Mario Montanari, L ’esercito italiano nella campagna di Grecia, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’eser­cito, 1991 (2a ed.), p. 805.10 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45, Roma, 1957. Sono compresi i mor­ti dal 10 giugno 1940 al 31 dicembre 1945. Gli accertamenti, chiusi alla fine del 1949, sono dichiaratamente incompleti per i nati nei territori perduti dall’Italia con la guerra. Purtroppo le tavole di dati non sono accompagnate da spiega­zioni o note critiche, anche in presenza di lievi variazioni degli stessi dati nelle diverse tavole; e queste sono compilate in modo uniforme, senza che siano messi in evidenza né approfonditi i nodi che possono interessare allo storico.

690 Giorgio Rochat

ficienti, come vedremo, ma è difficile conte­stare quelle complessive, anche perché per farlo bisognerebbe avere altre rilevazioni da contrapporre. Le prenderemo perciò co­me base, pur scontando che abbiano margi­ni di errore variabili a seconda dei dati. Prima di utilizzarle avvertiamo che non te­niamo conto della distinzione tra morti e dispersi mantenuta nel volumetto. Nelle statistiche del tempo di guerra la voce di­spersi comprende i caduti di cui non si ab­bia precisa testimonianza, i prigionieri, an­che i disertori e tutti gli irreperibili a qual­siasi titolo.

Nelle statistiche postbelliche dispersi so­no soltanto i morti del cui decesso non si abbia certezza legale (salvo casi individuali sempre possibili, ma quantitativamente tra-scurabili). Perciò tutte le cifre che daremo (tranne diverso avviso) corrispondono alla somma dei morti e dei dispersi del volumet-to citato .

Morti dal 10 giugno 1940all’8 settembre 1943di cui maschi 216.032, femmine 10.500

226.532

Morti dal 9 settembre 1943al 31 dicembre 1945di cui maschi 173.768, femmine 36.381

210.149

Morti in data imprecisata di cui maschi 7.675, femmine 167 7.842

Totale morti 1940-1945di cui maschi 397.475, femmine 47.048

444.523

Questo totale comprende i morti fino alla fi­ne dell’anno 1945. L’Associazione nazionale vittime di guerra calcola in 40.000 i deceduti per cause belliche negli anni seguenti (cifra tonda non dettagliata). La cifra sembra ac­

cettabile come ordine di grandezza (a titolo di confronto, sui 650.000 morti ufficiali del­la prima guerra mondiale circa 50.000 risul­tano deceduti dopo il 1918), anche se nasce dalle opposte tendenze delle famiglie, che reclamano il riconoscimento della causa bel­lica dei decessi per assicurarsi le magre pen­sioni relative, e delle istituzioni, che per tu­telare l’erario (o per insensibilità burocrati­ca) tendono a adottare criteri restrittivi nei riconoscimenti.

Il totale complessivo delle perdite della se­conda guerra mondiale si avvicina così al mezzo milione.

Alcuni dati sul periodo fino all’8 settembre

Ci fermiamo per il momento soltanto sui dati fino aH’armistizio. Per questi 39 mesi l’Istitu­to centrale di statistica offre alcune articola­zioni interessanti:

Ripartizione dei morti militari e civili fino all’8 set­tembre 1943

militaricivili al seguito delle truppe civilinon precisati

198.5012.032

25.702306

Ripartizione per 1943

anno dei morti fino all '8 settembre

1940 1941 1942 1943militari, civilimilitarizzati,imprecisati 12.746 40.844 62.936 84.304

civili 441 1.004 2.849 21.408

i l Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.1.

Una ricerca impossibile 691

Ripartizione per grado dei militari morti fino all ’8 set­tembre 1943 (le percentuali si riferiscono a 190.658 uomini su 204.346, cioè al 93,3 per cento)'2

militari di truppa 168.421 (89,0%)sottufficiali 12.698 (6,3%)ufficiali inferiori 8.632 (4,3%)ufficiali superiori 828 (0,3%)generali 79 (0,01%)grado non specificato 13.688

I problemi emergono quando si passa alla ri- partizione dei caduti sulla base del luogo di morte (regione o teatro di operazioni):

Morti (militari e civili) fino all’8 settembre 1943 per paese o teatro di operazioni12 13

Territorio nazionale 61.799Francia 1.023Germania 1.206Grecia e Albania 26.668Iugoslavia 11.115Russia 75.977Altri paesi europei 570Africa settentrionale 16.259Egitto 680Africa orientale 3.309Altri paesi africani 472Asia, America e Oceania 351Mare 24.301Luogo ignoto 2.802

Totale 226.532

Si può ripetere per queste cifre quanto ab­biamo già detto per quelle elaborate dal ge­

nerale Rossi: valgono come ordine di gran­dezza, ma un esame attento, che tenga conto della ripartizione per mese che qui non pos­siamo riprodurre, lascia gravi dubbi. È cer­tamente possibile che le schede individuali preparate dai comuni, su cui si basano i cal­coli dell’Istituto centrale di statistica, siano più precise per i dati civili che per quelli mi­litari, anche perché, a giudicare dagli elenchi citati della Direzione generale leva, le locali­tà di morte venivano comunicate dai coman­di con criteri disomogenei e parecchia ap­prossimazione o confusione. E comunque interessante ciò che appare sul peso delle perdite nelle occupazioni balcaniche e sulla presenza italiana nei più diversi paesi, che possiamo in parte attribuire alla dispersione dei prigionieri in mano gli inglesi, ma per il resto è da chiarire14.

Diamo ora la “nostra” ripartizione delle perdite 1940-1943. Diciamo “nostra” perché non è basata su ricerche più sicure di quelle già citate, ma soltanto su impressioni e ap­prossimazioni (le cifre sono volutamente ar­rotondate), e quindi vale unicamente come ordine di grandezza e base di discussione15:

territorio nazionale: militari 35.000civili 25.000

guerra di Grecia 30.000occupazioni balcaniche 10.000campagna di Russia 80.000Africa orientale e settentrionale 20.000mare 25.000varie (prigionia britannica, teatri minori) 10.000

totale 230.000

12 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 1.1 e 2.4. S’intende che le cifre per il 1940 partono dal 10 giugno e quelle per il 1943 si arrestano all’8 settembre, in questa come in tutte le altre tabelle analoghe.13 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.10.14 Per avere un’idea parziale della dispersione di militari e civili italiani all’estero si veda: Istituto storico della Resisten­za in Piemonte, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano, Angeli, 1989 (tra gli altri cfr. Jean-Louis Miege, Gli internati militari nell'Africa del Nord e Colette Dubois, I dimenticati: pri­gionieri di guerra e internati italiani nell’Impero francese durante la seconda guerra mondiale).15 Un attento spoglio degli archivi militari potrebbe dare molte notizie utili per l’analisi delle operazioni, ma, riteniamo, non cifre complessive articolate più sicure di quelle elaborate dal generale Rossi e dall’Istituto centrale di statistica, per­ché troppi dati si sovrappongono senza possibilità di controllo, mentre altri mancano perché non furono raccolti a tem-

692 Giorgio Rochat

Torniamo al volumetto di statistiche del 1957, che offre la possibilità di alcuni appro­fondimenti sulle perdite verificatesi sul terri­torio nazionale fino all’8 settembre 1943, non soltanto per il miglior livello delle regi­strazioni e la possibilità di controlli, ma an­che per il basso numero di dispersi (per i quali le notizie, per ovvi motivi, sono sempre in­complete)16.

Ripartizione per anno dei morti sul territorio nazio­nale fino all’8 settembre 1943

1940 2.4181941 8.6471942 12.5331943 38.201

totale 61.799di cui militari 37.152

Per la maggioranza dei militari abbiamo la ri- partizione per arma e per grado:

Ripartizione per arma dei militari morti sul territorio nazionale fino all’8 settembre 1943

Esercito. Armi combattenti 11.427Carabinieri 855Servizi 962Totale 13.244

Marina 1.977Aeronautica 3.207Milizia 1.343Coloniali 7

Cappellani 8Finanza, polizia, pompieri,guardie carcerarie 701Non specificati 16.665

Totale 37.152

Ripartizione per grado dei militari morti sul territo­rio nazionale fino all'8 settembre 1943 (le percen­tuali si riferiscono a 24.080 uomini su 37.152, cioè al 64,7 per cento)17

militari di truppa 20.086 (83,4%)sottufficiali 2.217 (9,2%)ufficiali inferiori 1.424 (5,9%)ufficiali superiori 288 (1,2%)ufficiali generali 57 (0,24%)non specificati 13.080

totale 37.152

Dal confronto con la precedente tabella sulla ripartizione per grado del totale dei militari morti si può rilevare che i decessi di ufficiali e sottufficiali rispetto alla truppa erano per­centualmente più numerosi in patria che all’e­stero. I generali morti in patria sono addirit­tura 57 contro 22 all’estero. Queste differenze sono certamente da collegare alla concentra­zione (e sovrabbondanza) di comandi, Stati maggiori e organi amministrativi in Italia, ol­tre che alla ridotta incidenza delle perdite in combattimento sul territorio nazionale.

Passiamo a qualche dato sulle cause di morte, con l’avvertenza che per ovvie ragioni

po debito. Per poter avere dati esaurienti e sicuri sulle perdite (e prima ancora sulle chiamate alle armi e sulla destina­zione degli uomini) bisognerebbe ripartire da capo con un solido gruppo di lavoro in grado di affrontare e confrontare sistematicamente gli archivi militari e civili nazionali e quelli stranieri, ma anche di arrivare alla documentazione dei distretti (che comincia a essere accessibile presso gli archivi di Stato provinciali soltanto per periodi più arretrati). Lo spoglio sistematico di un paio di distretti potrebbe dare un campione affidabile delle vicende dei militari italiani nella seconda guerra mondiale. Ci vorrebbero però risorse notevoli.16 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.5.

Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 2.2 e 2.9. L'elevata percentuale di casi non specificati in entrambe le tabelle è sorprendente (tanto più che per i morti fuori del territorio nazionale è quanto mai ridotta) e senza alcun cenno di spiegazione da parte dei curatori delle statistiche. Forse è dovuta al fatto che una parte delle segnalazioni sulla morte dei militari (per esempio nel caso di bombardamenti) poteva pervenire alle anagrafi comunali dalle autorità civili e non da quelle militari.

Una ricerca impossibile 693

si riferiscono soltanto ai morti accertati e non ai dispersi, che però sul territorio nazionale sono trascurabili per i civili e non più del 13 per cento per i militari. Le statistiche divido­no le cause di morte in due grandi categorie: malattia e morte violenta o accidentale. In patria i militari muoiono soprattutto di ma­lattia: 18.550 casi (di cui 6.198 di tubercolosi,1.068 di tifo, 565 di malaria, 1.605 di polmo­nite) che costituiscono il 57,3 per cento dei 32.354 di cui è indicata la causa del decesso (sempre per il periodo 1940-1943). Le malat­tie sembrano invece risparmiare i civili: 125 morti in tutto, ma questo vuol dire soltanto che il riconoscimento della causa bellica (che comportava una piccola pensione) era automatico per i militari deceduti per malat­tia e invece negato ai civili (quelli citati sono presumibilmente civili militarizzati). Fuori del territorio nazionale i morti per malattia scendono al 10 per cento dei decessi accertati; e la percentuale scenderebbe ancora se si po­tesse tener conto dei dispersi. D’altra parte va considerato che una aliquota imprecisabile dei morti in patria per malattia la avevano contratta all’estero.

La morte violenta o accidentale colpisce invece soprattutto i civili: 24.842 casi (di cui 10.418 donne) rispetto a 13.804 militari. L’in­dicazione delle cause è però in buona parte di difficile interpretazione. Le ordiniamo secon­do il rapporto tra morti militari e civili.

Cause di morte violenta o accidentale sul territorio na­zionale fino all'8 settembre 1943 (morti accertati) 18

(prevalenza militare) militari civilisuicidi 393 1

caduta di velivolo 1.166 43investimento in genere 899 92annegamento 994 114ferite diverse 3.465 1.124altre cause e mal definite 3.070 1.495

(prevalenza civile)azioni belliche varie 688 754altri bombardamenti 162 754scoppio di ordigni 401 2.089bombardamento aereo 2.576 18.376

Alcune voci sono chiare. Gli annegamenti sono dovuti all’affondamento di navi vicine alla costa (sarebbero da aggiungere ai morti in mare) e gli “altri bombardamenti” do­vrebbero essere quelli navali; le “cadute di velivolo” riguardano l’aeronautica. Ma non sappiamo che differenza ci sia tra i morti per “ ferite diverse” , “azione bellica” e “scoppio di ordigni”, il che rende impossibi­le separare i morti in combattimento da quelli per cause diverse19.

Nelle grandi linee queste cifre non sono sorprendenti, se si ha presente da una parte che la forza alle armi sul territorio nazionale sali gradualmente fino a due milioni e mezzo per il solo esercito nel 1943, dall’altra che si ebbero combattimenti terrestri soltanto sulle Alpi nel giugno 1940 e in Sicilia in luglio-ago­sto 1943. Si può quindi capire come i soldati morissero soprattutto di malattia, di inciden­ti e sotto i bombardamenti, con una frequen­za che ci ricorda come le perdite belliche non si verifichino soltanto al fronte.

Queste cifre documentano anche il peso crescente del conflitto per la popolazione ci­vile, soprattuto per i bombardamenti aerei,

18 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 2.7 e 2.8.19 Tra le 55.273 cause di morte violenta o accidentale di militari registrate fuori del territorio nazionale quelle più fre­quenti sono le ferite (56,8 per cento), gli annegamenti (15,4 per cento), le azioni belliche (11,8 per cento) e le cause varie (8,1 per cento). Tra le 13.804 morti violente o accidentali di militari in patria le cause più frequenti sono le ferite (25,1 per cento), le cause varie (22,2 per cento) i bombardamenti aerei (18,6 per cento), le cadute di velivoli (8,4 per cento), gli annegamenti (7,2 per cento) e gli investimenti (6,4 per cento). Un indizio che le morti per investimento siano da inter­pretare come incidenti del traffico motorizzato è dato dall’alto numero di decessi tra gli autieri in patria, 345, più di tutti gli altri servizi, più di bersaglieri, carristi o paracadutisti.

694 Giorgio Rochat

che causano il 74 per cento delle perdite (77 per cento con i bombardamenti navali). Certo vorremmo sapere di più sulle altre cause di morte. E registriamo con qualche perplessità il fatto che per tutte le cause di morte i civili maschi (pur fortemente dimi­nuiti dalle chiamate alle armi) superano le femmine, anche per i bombardamenti aerei (9.719 contro 8.657) e navali (450 contro 304), che pure dovrebbero uccidere senza di­stinzione di sesso20.

La ripartizione territoriale delle perdite ci­vili è quanto mai ineguale. L’Italia setten­trionale ha il 18,9 per cento dei morti, quella centrale il 19,8, il Mezzogiorno senza la Sici­lia il 26,0 e la Sicilia da sola 8.549 morti, il 34,6 per cento, come conseguenza dei com­battimenti di luglio-agosto 1943. Nella gra­duatoria delle regioni seguono la Campania con 3.391 morti, il Lazio con 2.865, la Cala­bria con 1.578, la Toscana con 1.408, il Pie­monte con 1.364, la Liguria con 1.357, la Lombardia con 1.294; ma il Veneto ha solo 70 morti e le Marche 11. La provincia più colpita è Napoli con 2.630 morti, poi Roma con 2.598, Catania con 2.381, Palermo con 1.554, Torino con 1.278, Genova con 1.257, Milano con 1.210; per contro 42 pro­vince hanno meno di 20 morti21. La geogra­fia delle perdite segue quella dei bombarda- menti, aggravati per la Sicilia dai combatti­menti dell’estate 1943.

Se invece si torna ai circa 200.000 militari morti fino aU’armistizio, la metà risulta nata nell’Italia settentrionale. La Lombardia ha 31.946 morti, il Veneto 21.412, il Piemonte 17.641, l’Emilia-Romagna 16.410; vengono poi la Sicilia 15.865, la Campania 14.893, la Puglia 12.442, la Toscana 11.669. La gra­duatoria delle province vede al primo posto Milano con 9.209 morti, poi Cuneo 7.526 e

Udine 6.893 (sono gli alpini periti in Rus­sia), Napoli 5.770, Brescia 5.385 e Vicenza 4.238 (pesano ancora gli alpini in Russia), poi Genova 3.592; 14 province hanno meno di mille morti22.

Le perdite dopo l'8 settembre 1943

Le difficoltà per questo periodo sono tali e tante, da giustificare appieno la definizione di “ricerca impossibile” che diamo a queste note. Con l’armistizio saltano infatti tutti i punti di riferimento, per la perdita o la man­canza all’origine della documentazione, tan­to che quasi tutte le cifre che daremo sono sti­me orientative. Anche le registrazioni del vo­lumetto citato dellTstituto centrale di statisti­ca si rivelano insoddisfacenti.

Proviamo a elencare i principali gruppi di perdite. Cominciamo col dire che la distin­zione dei 210.149 morti del volumetto citato tra militari e civili (rispettivamente 85.915 e 126.668, dei quali 36.381 donne) perde signi­ficato. Appartengono alle forze armate pra­ticamente tutti i morti fuori del territorio na­zionale, tranne i deportati periti nei lager del Reich nazista; ma per i morti sul territorio nazionale una distinzione è possibile soltan­to per casi minori (gli equipaggi delle navi affondate all’8 settembe 1943, i caduti delle forze regolari schierate con gli angloameri­cani). Non avrebbe senso classificare come militari tutti gli “abili e arruolati” alla visita di leva, ossia la grande maggioranza della popolazione maschile, ma neanche tutti quelli che all’8 settembre buttarono la divisa per poi morire sotto i bombardamenti o nel­le rappresaglie nazifasciste. Né tra i partigia­ni si può distinguere chi all’8 settembre era sotto le armi da chi aveva evitato il richia-

Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 2.8. Una spiegazione può venire dallo sfollamento che di­minuiva la presenza femminile nelle città.■' Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.8.

Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.3.

Una ricerca impossibile 695

mo, a prescindere dal fatto che una buona parte era composta di giovanissimi che fug­givano i “bandi Graziani” della Rsi. Certa­mente non furono pochi coloro che scelsero la Resistenza in quanto militari, come conti­nuazione della guerra del regio esercito, mentre altri rifiutarono il loro passato mili­tare: sono vicende complesse e importanti, che però non possono avere rilevanza nelle statistiche generali. Per parte nostra, ritenia­mo che la Resistenza appartenga alle forze armate nella misura in cui sono parte della nazione, ma che non abbia senso tentare di quantificare il loro apporto alla guerra par- tigiana. E perciò indicheremo come militari i caduti nei combattimenti di Cefalonia o nei campi di prigionia e come italiani senza distinzioni quelli morti sul territorio nazio­nale dopo l’8 settembre.

Veniamo ora a elencare i grandi gruppi in cui si possono suddividere i 210.149 morti dall’8 settembre alla fine del 1945 (che an­drebbero aumentati di qualche migliaio non classificabile, tenendo conto dei 7.842 caduti di cui non si conosce la data di morte).

Militari morti nei combattimenti successivi all'8 settembre 1943. I dati disponibili sono piuttosto approssimativi per le grosse lacune della documentazione (gran parte dei coman­di furono sopraffatti dai tedeschi, quindi le loro relazioni furono compilate molto tempo dopo e senza carte d’appoggio) e la consueta mancanza di coordinamento tra le forze ar­mate anche in sede storiografica. Per l’eserci­to, l’Ufficio storico calcola 18.965 caduti fino al 13 ottobre23; l’Ufficio storico della marina dà un totale di 4.236 morti nel mese di set­

tembre24 *. Mancano dati sulle perdite dell’ae­ronautica e degli altri corpi militari e natural­mente sui civili, salvo la cifra di 150 caduti nella difesa di Roma. Molti di questi dati an­drebbero rivisti. Per esempio l’Ufficio storico dell’esercito calcola 6.000 caduti a Cefalonia nei combattimenti e nei massacri dopo la resa e 3.000 dei superstiti annegati nel trasporto come prigionieri verso il continente, mentre gli accurati studi di Gerhard Schreiber sulle fonti tedesche danno 6.500 morti sull’isola e 1.350 in mare23. Prendiamo come totale ap­prossimativo 20.000 morti, senza tenere con­to dei civili.

Militari prigionieri dei tedeschi morti in mare. Dopo la resa 98.000 militari italiani ri­masero prigionieri dei tedeschi nelle isole del­l’Egeo e dello Ionio. Nei mesi seguenti furo­no in gran parte trasportati sul continente in navi sovraffollate, senza alcun riguardo per la loro salvezza in caso di affondamento, malgrado gli attacchi inglesi al traffico nava­le. Le perdite furono numerose: Schreiber le ha calcolate con molta precisione in 13.298 morti. I trasporti via aerea erano più sicuri, soltanto tre apparecchi andarono persi con un centinaio di prigionieri italiani26.

Militari caduti nelle guerriglie balcaniche. Non esistono dati complessivi attendibili sui militari che, dopo il collasso delle forze arma­te italiane nei Balcani, si sottrassero alla pri­gionia tedesca scegliendo di combattere con le bande partigiane (accolti in modo duro, ma positivo dai comunisti iugoslavi e albane­si, trattati generalmente in modo infame dai greci sia comunisti sia nazionalisti), né tanto meno su quelli che caddero in combattimento

23 Cfr. Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, 1975, pp. 643-644. Alcuni dati sono presentati come approssimativi.24 Ufficio storico della marina militare, La marina italiana nella seconda guerra mondiale, voi. I, Dati statistici, Usmm, Roma, 1972 (23 ed.), pp. 203-210. I morti con le navi affondate sono 2.088, certamente precisi, i morti a terra 2.148, senza dettagli.23 Cfr. Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento de! Terzo Reich 1943-1945, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, 1992 (ed. orig. München, R. Oldenbourg Verlag, 1990). Il volume offre anche un’accurata descrizione dei combattimenti seguiti all’8 settembre condotta sulle fonti tedesche.26 G. Schreiber, I militari italiani internati, cit., pp. 339 sg.

696 Giorgio Rochat

oppure morirono di stenti. La cifra di 10.000 morti è del tutto approssimativa.

Militari morti come prigionieri dei russi. Come abbiamo già detto, i morti nei campi di prigionia dopo l’8 settembre sono pochi e compresi in tutti gli studi tra le diecine di mi­gliaia periti nei mesi precedenti per l’oggetti- va difficoltà di una ripartizione.

Militari morti come prigionieri dei tedeschi. Dalle accurate ricerche di Schreiber risulta confermato che dopo l’8 settembre i tedeschi fecero prigionieri 800.000 militari italiani, di cui circa 650.000 furono deportati nei campi di prigionia del Reich27. Degli altri 150.000 sappiamo ben poco: in parte furono incorpo­rati nelle forze armate naziste, in unità com­battenti come le SS, più spesso come mano­valanza ausiliaria; in parte furono trattenuti come lavoratori coatti senza un preciso status nelle retrovie tedesche, specialmente nei Bal­cani. Una valutazione numerica non è possi­bile, tanto meno per le loro perdite. Le uniche cifre precise riguardano i 13.400 morti nei trasporti già citati dalle isole greche al conti­nente, ma per tutti gli altri non abbiamo alcu­na indicazione.

Per quanto riguarda i 650.000 prigionieri, subito ribattezzati come internati militari e ri­dotti a circa 600.000 dalle adesioni alla Rsi, le perdite documentate sono di poco superiori alle 20.000, ma sono sicuramente inferiori alla realtà. Il totale generalmente accettato è di40.000. E probabile che comprenda anche le perdite dei lavoratori coatti citati sopra28.

Militari morti come prigionieri degli alleati. Disponiamo in materia di una sola cifra pre­cisa, elaborata da Miège a partire dagli archi­vi francesi: tra i 41.237 italiani chiusi nei du­

rissimi campi francesi del Nordafrica si ebbe­ro tremila morti, il 7,3 per cento, in poco più di due anni29. Per i 400.000 prigionieri in ma­no agli inglesi e per i 125.000 in mano agli sta­tunitensi (totali che andrebbero verificati) non abbiamo alcun dato utilizzabile (gli ar­chivi degli ex alleati sono consultabili, ma non sono stati finora oggetto di ricerche si­stematiche)30. I campi di prigionia sia inglesi che americani erano tenuti secondo le norme internazionali e, pur nella varietà delle situa­zioni, garantivano generalmente condizioni di vita accettabili. Possiamo quindi ritenere che la mortalità in questi campi fosse “fisio­logica” . Tenendo conto che per oltre mezzo milione di uomini la detenzione durò da 3 a 6 anni, non è certamente eccessivo dare un totale di 10.000 morti (compresi quelli nei campi francesi ricordati), se non altro come totale orientativo.

Militari caduti nella guerra di liberazione. Ci riferiamo ai caduti delle forze armate re­golari, che si aggirano sui 3.000.1 dati ufficia­li non sono sempre utilizzabili, perché uni­scono a questi i militari morti come partigia­ni o nelle rappresaglie nazifasciste.

Partigiani caduti. Il totale generalmente accettato è di 40.000 morti, compresa una di­screta aliquota di donne, ma si tratta di una stima orientativa più che del risultato di cal­coli parziali. Questo totale dovrebbe com­prendere non soltanto i combattenti caduti in combattimento o fucilati dopo la cattura, ma anche i collaboratori che fornivano alla bande rifornimenti, informazioni e collega- menti, come pure i partigiani deportati e morti in Germania. Si possono avere dati at­tendibili per singole situazioni (per esempio

27 G. Schreiber, I militari italiani internati, cit., passim._s La cifra di 40.000 morti è accettata da tutti gli studiosi italiani e da Schreiber, s’intende come approssimativa. Una verifica è possibile soltanto per situazioni particolari."9 Cfr. Jean Louis Miège, I prigionieri di guerra in Africa del nord, in Romain H. Rainero (a cura di), / prigionieri mi­litari italiani durante la seconda guerra mondiale, Milano, Marzorati, 1985, pp. 171-182.30 Cfr. Flavio Conti, Iprigionieri di guerra italiani, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 63. Le cifre sono quelle che risultavano al ministero della Guerra nel 1946, ancora da controllare negli archivi britannici e statunitensi. Cfr. Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Una storia di tutti, cit.

Una ricerca impossibile 697

l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia ha condotto un censimento di tutti i caduti della provincia nella seconda guerra mondiale), ma per i dati complessivi non sarà possibile anche in futuro andare al di là di una stima per la mancanza di fonti documen­tarie articolate e comparabili (le notevoli ri­cerche in corso sul partigianato piemontese si basano sulle domande di riconoscimento presentate dopo la liberazione e quindi non possono estendersi ai caduti).

Civili uccisi nelle rappresaglie nazifasciste. La stima di 10.000 sembra attendibile come ordine di grandezza. Chi la ritiene esagerata, non ha che da sommare le vittime dei massa­cri di maggiori dimensioni e notorietà, che danno già cifre impressionanti.

Ebrei. Le lunghe, accurate ricerche con­dotte da Liliana Picciotto Fargion per il Cen­tro di documentazione ebraica danno un to­tale di 5.916 morti dei 6.746 ebrei italiani de­portati in Germania e nominativamente ac­certati, cui sono da aggiungere 303 ebrei ucci­si in Italia e circa un migliaio di deportati per i quali le notizie sono incomplete o manca­no31. Sono gli italiani uccisi perché ebrei', non teniamo conto in questa voce di quelli che caddero come partigiani, sotto i bombar­damenti o per altre cause.

Deportati politici in Germania. I deportati nei lager tedeschi furono 45-46.000, i soprav­vissuti circa il 10 per cento. Sono cifre abba­stanza sicure, che però comprendono anche gli ebrei già considerati, 7.000 circa, e soprat­tutto un buon numero di partigiani, già com­presi nella voce specifica. Separare i deporta­ti “politici” da quelli partigiani non è facile né corretto, ma dobbiamo farlo per non con­

tare questi ultimi due volte. Calcoliamo quin­di 16.000 morti tra i deportati politici e altret­tanti o poco più tra quelli partigiani32.

Vittime dei bombardamenti. Il numero di40.000, generalmente accettato, trova riscon­tro nel volumetto dell’Istituto centrale di sta­tistica33.

Fascisti. Un calcolo delle perdite fasciste in combattimento o negli attentati partigiani non è probabilmente possibile per la disper­sione della documentazione, ma non è mai stato tentato dagli studiosi della Rsi (anche perché attesterebbe soprattutto la disorga­nizzazione e scarsa efficienza dei reparti). La cifra di 3.000 morti è orientativa (e ritenu­ta troppo bassa da molti partigiani). Non è possibile calcolare le perdite dei reparti al di­retto servizio dei tedeschi.

Anche il totale dei fascisti fucilati al mo­mento della liberazione non può essere accer­tato con qualche precisione. Studiosi di parte partigiana li stimano in 10-12.000, cifra mol­to più attendibile delle diecine di migliaia di morti reclamati dalla propaganda fascista. Il volumetto dell’Istituto centrale di statistica riporta per il 1945 le cifre seguenti per i morti sul territorio nazionale per cause belliche: gennaio 4.798, febbraio 4.373, marzo 5.375, aprile 16.749, maggio 6.547 (poi le cifre crol­lano, ma ancora nel dicembre dicono di 692 morti per ferita o malattia di guerra). Se si tiene presente che tra la fine di aprile e i pri­missimi di maggio si registrano sia la grande offensiva partigiana, sia gli ultimi massacri tedeschi, si può accettare che i fascisti fucilati siano stati appunto 10-12.000. Diciamo15.000 comprendendo anche le perdite prece­denti34.

31 Cfr. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1991. Non teniamo conto dei 1.820 ebrei, cittadini italiani del Dodecaneso, deportati da Atene.32 Dati fornitici cortesemente dall’amico Federico Cereja sulla base delle sue ricerche sulla deportazione.33 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 2.8, dove sono indicati 43.402 morti per “bombardamento aerei” e 5.321 per “altri bombardamenti”che non sapremmo come classificare. Dei limiti di queste cifre diciamo più avanti.34 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.10 e 3.12. I morti di aprile sono 4.954 in Emilia, 3.355 nel Veneto, 2.862 in Lombardia, 2.203 in Piemonte, 944 in Liguria.

698 Giorgio Rochat

Proviamo a sommare i dati finora esposti:

militari caduti nei combattimenti dopo l’8 settembre 20.000militari morti nei trasporti dalle isole greche 13.400militari caduti nelle guerriglie balcaniche 10.000 militari morti prigionieri dei tedeschi 40.000 militari morti prigionieri degli alleati 10.000 militari caduti nella guerra di liberazione 3.000 partigiani caduti 40.000civili uccisi nelle rappresaglie nazifasciste 10.000 ebrei 7.300deportati politici (meno ebrei e partigiani) 16.000 vittime bombardamenti anglo-americani 40.000 fascisti 15.000

totale 224.700 Il

Il totale supera di circa 10.000 unità quello del volumetto citato (210.149 più alcune mi­gliaia di morti senza data); un risultato del tutto accettabile, se si tiene presente che quasi tutte le nostre cifre sono orientative. Ne risulta che i militari caduti in combatti­mento o in prigionia dovrebbero essere qua­si 100.000, mentre per tutti gli altri italiani morti come partigiani o sotto i bombarda- menti non è possibile separare militari e ci­vili35. Per quanto riguarda le 36.000 donne morte, una buona metà furono vittime dei bombardamenti, mentre non è possibile cal­colare con qualche precisione le partigiane cadute, certo non poche. Sono quasi sempre cifre orientative, con lacune e interrogativi (come viene classificato il reduce morto nel 1944 per le ferite riportate in Russia o in Li­

bia?) e che non tengono conto delfaumento della mortalità “normale” per il drammati­co peggioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Tutti questi calcoli sono però rimessi in questione dal volumetto citato, che dà 155.642 morti sul territorio nazionale, inve­ce dei 100.000 che ci risultano36. Il che signi­fica che i nostri dati sono in parte non pic­cola errati, oppure, e più verosimilmente, che il rilevamento dell’Istituto centrale di statistica non è affidabile per quanto riguar­da il luogo di morte, perché considera come periti in patria una parte cospicua dei morti all’estero. Questa scarsa affidabilità risulta­va già dalle indicazioni per il 1940-1943 sui morti all’estero (e viene confermata dal­l’analisi delle analoghe indicazioni per il 1943-1945, poco convincenti); ma è più dif­ficile accettare che anche i dati per il territo­rio nazionale siano in parte errati, ossia au­mentati sino al 50 per cento, anche tenendo conto della situazione di precarietà dell’Ita- lia 1943-1945 (interruzione delle comunica­zioni tra nord e sud, crisi delle istituzioni, collasso dell’apparato militare, bombarda- menti, operazioni belliche e via dicendo, so­prattutto la mancanza di rilevamenti siste­matici subito dopo la fine del conflitto). Il risultato è sconfortante per la nostra ricer­ca, perché le cifre dettagliate sulla riparti­zione dei morti sul territorio nazionale del volumetto citato diventano inutilizzabili in quanto gonfiate (un vero peccato, dato che sono interessanti e come linee di tendenza confermano quanto si sa sulle perdite del

Sommando i morti nei combattimenti dopo l’8 settembre, nei trasporti dalle isole greche, nelle guerriglie balcaniche, nella guerra di liberazione, i prigionieri dei tedeschi e degli alleati, si hanno 96.400 appartenenti alle forze armate. Il totale è ovviamente approssimativo e comunque superiore agli 85.915 militari morti nel 1943-1945 dato dal volumetto dell Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.1, probabilmente per l’insufficienza della registrazioni sul luogo di morte di cui diciamo dopo.

Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.5. Calcoliamo come morti sul territorio nazionale una parte minore dei caduti nei combattimenti dell’8 settembre, i caduti della forze armate regolari nella guerra di libera­zione, i partigiani (meno quelli morti in Germania), le vittime della rappresaglie e dei bombardamenti, i fascisti, in tutto meno di 100.000. Il divario con i 155.00 morti sul territorio nazionale del volumetto è troppo forte per essere riportato all’imprecisione delle nostre cifre.

Una ricerca impossibile 699

periodo), ma anche perché ne viene indeboli­ta la credibilità complessiva del rilevamento dell’Istituto centrale di statistica.

Rinunciamo quindi a esaminare i dati sulle perdite sul territorio nazionale e, nel presup­posto (in realtà da verificare) che le registra­zioni “civili” (in particolare la provincia di origine dei morti) dell’Istituto centrale di sta­tistica meritino più fiducia di quelle “milita­ri”, diamo soltanto alcuni dati generali.

Ripartizione per anno dei morti 1943-194537

Totale Donne1943 (dal 9 settembre) 38.966 6.8001944 110.603 22.1371945 (fino al 31 dicembre) 60.580 7.444

210.149 36.381

Ripartizione dei morti per provincia o regione di nasci­ta (sono riportate le province che danno più di 3.000 morti nel 1943-1945 o di 5.000 nel 1940-1945)3S

1943-1945 1940-1945 di cui donneCuneo 3.479 11.170 504 (4,5%)TorinoPiemonte

4.884 8.522 999 (11,7%)

(e Aosta) 15.079 34.021 2.518 (7,4%)

Brescia 3.187 8.656 391 (4,5%)Milano 6.554 16.506 1.049 (6,4%)Lombardia 21.382 54.597 2.566 (4,7%)

Trentino-AltoAdige 1.506 3.621 273 (7,5%)

Padova 4.380 7.721 722 (9,4%)Treviso 3.548 7.325 612 (8,4%)Venezia 3.248 5.966 543 (9,1%)Verona 3.239 6.857 610 (8,9%)Vicenza 3.770 8.117 519 (6,4%)Veneto 21.914 43.913 3.564 (8,1%)

Udine 5.648 12.707 763 (6,0%)

Friuli-VeneziaGiulia 6.928 14.427 913 (6,3%)

Genova 3.391 7.654 924 (12,1%)Liguria 7.525 14.976 1.723 (11,5%)

Bologna 8.410 11.482 2.351 (20,5%)Ferrara 3.137 5.534 749 (13,5%)Forlì 5.207 7.580 1.601 (21,1%)Modena 4.041 6.276 747 (11,9%)Ravenna 3.690 4.761 1.413 (29,7%)EmiliaRomagna 31.284 48.375 7.877 (16,3%)

Arezzo 3.018 4.456 612 (20,3%)Firenze 6.124 8.859 1.432 (16,2%)Toscana 22.807 36.155 5.652 (15,6%)

Umbria 3.567 6.813 881 (12,9%)

Marche 7.480 13.630 1.430 (10,5%)

Frosinone 3.025 5.346 874 (16,3%)Roma 7.337 12.698 2.557 (20,1%)Lazio 16.121 25.836 4.837 (18,7%)

Chieti 3.030 5.012 814(16,2 %)

Abruzzi e Molise 8.385 17.082 1.879 (11,0%)

Caserta 2.854 5.503 799 (14,5%)Napoli 5.353 13.965 2.368 (17,0%)Salerno 2.655 6.094 538 (8,8%)Campania 13.870 32.473 4.330 (13,3%)

Bari 2.992 8.452 361 (4,3%)Puglia 7.454 21.103 773 (3,6%)

Basilicata 1.833 4.631 147 (3,2%)

Calabria 3.967 14.223 878 (6,2%)

Catania 1.601 6.801 1.053 (15,5%)Messina 1.559 5.215 405 (7,8%)Palermo 1.294 5.486 612 (11,2%)Sicilia 8.015 32.537 3.653 (11,2%)

Sardegna 1.928 6.080 231 (3,8%)

Trieste, territoriex italiani, varie 11.117 19.155 2.832 (14,8%)

37 Istituto centrale di statistica. Morti e dispersi, cit., tavola 1.1. j8 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.3.

700 Giorgio Rochat

Riportiamo queste cifre (che andrebbero con­frontate con quelle lievemente diverse sui morti secondo la provincia di residenza e con quelle sui morti secondo la provincia di morte, malgrado i dubbi già espressi) per sot­tolineare l’interesse del rilevamento condotto dall’Istituto centrale di statistica. Anche dal nostro sommario elenco risulta l’incidenza delle operazioni belliche sulla popolazione (si vedano le perdite elevate della Sicilia per i combattimenti dell’estate 1943, delle provin­ce di Caserta, Fresinone e Chieti per quelli dell’inverno 1943-1944, di quelle tosco-emi­liane sulla linea gotica 1944-1945) e della guerra partigiana in Emilia, nel Veneto, in Lombardia (con forti differenze da provincia a provincia). Viene posto in evidenza anche il tributo di sangue che la guerra continuava a prelevare in regioni che furono appena sfiora­te dalla campagna d’Italia e non conobbero la guerra partigiana (come la Sardegna). Il dato più difficile da interpretare riguarda però le donne: rimane da spiegare perché i bombar­damenti uccidessero più maschi che femmine

(limiti nel rilevamento delle perdite, conse­guenze dello sfollamento?), perché la guerra partigiana fosse più cruenta per le donne in Emilia che in Piemonte, ma anche perché le istituzioni pubbliche, così avare nel riconosci­mento della causa bellica dinanzi ai decessi di civili, fossero costrette a concederla a centi­naia di donne morte in regioni rimaste ai mar­gini della guerra combattuta.

Questa sulle perdite della seconda guerra mondiale è davvero una “ricerca impossibi­le”, che non può arrivare a conclusioni gene­rali di qualche certezza, anzi porta a eviden­ziare i limiti del grande rilevamento dell’Isti­tuto centrale di statistica, l’unico tentatitivo organizzato per una quantificazione e un’a­nalisi delle perdite del conflitto. Le ricerche già condotte dagli Istituti per la storia della Resistenza e quelle in corso possono dare ri­sultati settoriali del massimo interesse e apri­re prospettive stimolanti, ma arrivare a cifre complessive affidabili sembra proprio una “ricerca impossibile” .

Giorgio Rochat

Otto settembre 1943 Documenti a margine dell’armistizio

Andrea Curami

Proponiamo a corredo di queste brevi note di commento alcuni documenti del carteggio personale del generale di squadra aerea Eral­do Ilari, che all’epoca dell’armistizio coman­dava la 33 Squadra aerea, da cui dipendeva­no i reparti dislocati nell’Italia centrale e in particolare attorno a Roma. Il fondo è stato fortunosamente trovato qualche anno fa sul­le bancarelle di un mercatino di militaria e contiene documenti originali o minute della corrispondenza che il generale scambiò con lo Stato maggiore della regia aeronautica nel periodo 1944-1946 sugli eventi dell’otto settembre, oltre ad alcune filze sull’attività di Ilari presso l’Aeronautica Macchi nell’im­mediato dopoguerra, quando l’industria va­resina forni all’Egitto velivoli da caccia MC205 e aviogetti De Havilland “Vampi- re”, costruiti su licenza britannica per la no­stra aeronautica.

Trascurando queste ultime carte, peraltro interessanti in quanto forniscono spunti sui modi sbrigativi con cui l’industria italiana af­frontò il periodo della ricostruzione1, soffer­miamo qui la nostra attenzione sugli eventi deH’armistizio.

Elena Aga Rossi ha recentemente scritto che

Il comportamento schizofrenico di de Courten è uno dei tanti elementi di difficile spiegazione della situazione nei giorni dal 3 all’8 settembre 1943. Il ruolo dei vari protagonisti e i loro rapporti riman­gono oscuri. Il re evidentemente fu tenuto costan­temente informato da Badoglio, ma vi fu uno stretto collegamento anche tra Badoglio e gli altri generali? A posteriori quasi tutti hanno sostenuto di aver saputo pochissimo delle trattative, e il mi­nistro della Guerra, Antonio Sorice, ha perfino af­fermato di essere stato informato dell’armistizio soltanto l’8 settembre. E possibile che Ambrosio, vedendo “quasi ogni sera” i tre capi di Stato mag­giore delle forze armate non li tenesse al corrente degli avvenimenti?2

documentando in modo inconfutabile che l’ammiraglio Raffaele de Courten era perfet­tamente al corrente dell’evoluzione degli eventi al punto di diramare tardivi precisi or­dini “agli ammiragli Comandanti in Capo o Comandanti autonomi di forze navali e di Dipartimento nella riunione tenuta a Super­marina nel pomeriggio del 7 settembre3”.

1 L’industria aeronautica nazionale armò, infatti, contemporaneamente tanto la Siria e l’Egitto (tramite la Macchi e la Fiat), quanto il nascente Stato d’Israele (con Spitfire radiati dall’Aeronautica militare e ricondizionati in parte presso la stessa Macchi), oltre ad addestrare i piloti di tutti i contendenti presso sedicenti scuole di volo, quali l’Alica, per aviatori civili situate nel centro Italia.2 Elena Aga Rossi, L ’inganno reciproco. L ’armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Roma, Mini­stero per i Beni culturali e ambientali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 1993, p. 58.1 E. Aga Rossi, L ’inganno reciproco. L'armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit., doc. 7. 1, pp. 353-354. Fra gli altri era presente alla riunione l’ammiraglio Bruto Brivonesi, fratello del parimenti incauto ammiraglio

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

702 Andrea Curami

Secondo il memorandum dettato dal sotto capo di Stato maggiore Sansonetti agli am­miragli presenti, oltre alla nota generica frase “Tutte le unità in condizioni di muoversi si tengano rifornite al completo di nafta, acqua, viveri”, le azioni “proprie della Marina” do­vevano essere:

a) cattura o distruzione unità navali germaniche (accordi con Comando artiglieria Regia Marina);b) difesa ed eventuale autoaffondamento navi da guerra e sabotaggio mercantili. Vigilanza preven­tiva (fin d’ora) verso le unità fornite di siluri;c) catturare o eliminare reparti Marina germanica; [•■■]

in pieno accordo con quanto stabilito nel Promemoria n.l del Comando supremo, di­ramato il 6 settembre 1943, nel “caso che for­ze germaniche intraprendano di iniziativa atti di ostilità contro gli organi di governo e le forze armate italiane4” , tranne il fatto che non vi è traccia di questa ipotesi negli ordini impartiti agli ammiragli il 7 settembre, facen­do assumere a queste istruzioni un’imposta­zione totalmente offensiva, singolarmente omessa nella relazione che de Courten com­pilò il 12 febbraio 1944 sugli avvenimenti dell’8 settembre5.

Di egual tenore offensivo doveva essere il contenuto della Memoria op. 44, dirama­

ta a mano dallo Stato maggiore del regio esercito la notte del 2 settembre. Come è noto i destinatari del dispaccio dovevano prendere nota degli ordini, bruciare il testo della Memoria e restituirne l’ultima pagina controfirmata quale ricevuta. Secondo la ricostruzione che ne è stata fatta, il docu­mento, dopo una premessa in cui si accen­nava a una “probabile e prossima aggres­sione germanica in forze” , assegnava tra i compiti specifici

— 28 Armata: far fuori la 718 Divisione tedesca e interrompere le comunicazione ai tedeschi da Tar­visio al mare;— 43 Armata: raccogliere le forze residue nelle Valli Roia e Vermenagna e agendo sui fianchi delle unità tedesche, interrompere le comunicazioni con la Cornice (Liguria); col XX Raggruppamento sciatori sbarrare i passi del Moncenisio e del Mon- ginevro, e interrompere la ferrovia del Fréjus;— 53 Armata: tenere saldamente La Spezia e pun­tare su forze e mezzi tedeschi dislocati tra il Lago di Bolsena e il Senese6

rimandando le disposizioni per la difesa di Roma a ordini a parte, ma specificando che “l’applicazione della Memoria avrebbe do­vuto effettuarsi o in seguito a ordine dello Stato maggiore dell’esercito con fonogram­ma convenzionale (‘Attuare misure ordine pubblico Memoria 44 Superesercito’) o di ini-

Bruno, comandante in capo del Dipartimento di Taranto nei cui depositi si rifornì di mine alle 21:20 dell’8 settembre (circa un’ora e mezza dopo il proclama radiofonico di Badoglio) la motozattera tedesca MFP 478. Lo stesso Brivonesi autorizzò che lo MFP 478, asssieme alle due motosiluranti S. 54 e 5. 61, superasse alle 5:00 del 9 settembre le ostruzioni esterne del Mar Grande che aveva provveduto a minare con gli ordigni italiani. Sul banco di mine posato affondarono il 9 settembre l’incrociatore inglese Abdiel e in seguito il rimorchiatore Sperone e la cannoniera inglese MMS 70. Altre vittime della crociera delle due motosiluranti tedesche verso Venezia furono il motoveliero R240 Vulcania, la cannoniera Aurora, silurata e affondata al largo di Ancona N I settembre, il piroscafo Leopardi, abbordato e catturato sempre ITI settembre assieme al Pontinia, e il cacciatorpediniere Quintino Sella. Su queste vicende si veda Erminio Bagnasco, Fulvio Petronio, Un’incredibile "crociera di guerra" in Adriatico, “Storia militare”, 1994, n. 4.4 E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L ’armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit., doc. 6. 2, pp. 339-346.5 A tale interpretazione riduttiva dei fatti si attenne ancora recentemente Gino Galuppini nel presentare la relazione ufficiale dell Ufficio storico della Marina al convegno di Milano sul 7-8 settembre 1943 (cfr. G. Galuppini, L'armistizio e la Marina, in Aldo A. Mola, Romain H. Rainero (a cura di), Otto settembre 1943. L'armistizio italiano 40 anni dopo, Roma, Ministero della Difesa, 1985, pp. 147-160).

Riprendiamo il probabile testo della Memoria op. 44 da Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settem­bre-ottobre 1943, Roma, Ussme, 1975, pp. 43-44.

Otto settembre 1943 703

ziativa dei comandanti in posto, in relazione alla situazione contingente”7.

Lasciano, quindi, perplessi gli ultimi scritti del generale Mario Capitani, all’epoca colon­nello di Stato maggiore presso il corpo d’ar­mata di Roma:

Giustamente vi fu chi scrisse, fra molte panzane, che “una volta tanto si era riusciti a mantenere l’assoluto segreto intorno ai piani progettati: ar­mistizio — rovesciamento del fronte”.[-3Non ha quindi interesse appurare se uno o due uo­mini in Roma fossero a conoscenza dei propositi relativi al futuro rovesciamento del fronte: se vi erano avanti F8 settembre, il 9 questi uomini a Ro­ma non c’erano più e, prima, non avevano mai parlato. Sta di fatto che per tutti gli enti militari interessati nella difesa di Roma, tale difesa era na­ta, cresciuta e continuava a essere interpretata — anche durante il periodo del governo Badoglio — esclusivamente in funzione di probabili attacchi di paracadutisti anglo-americani, o di sbarchi dal mare, perché si riteneva possibile, anzi probabile un’azione alleata contro Roma per rendere acefa­la l’Italia, perché tale era il senso letterale delle parole con le quali lo Stato maggiore si era sem­pre espresso e si continuava a esprimere nelle sue circolari in proposito, tale era lo spirito delle circolari stesse.8

proponendo l’inedito documento a firma Roatta contenente le disposizioni per la dife­sa di Roma e così commentandolo:

[...] per ovviare all’inconveniente della mancata unità di comando — cosa più volte lamentata dai sottordini — lo Stato Maggiore con circolare n. 11/35775 recante la data del 5 settembre, aveva avocato a sé il comando diretto, cioè l’onore e l’o­nere della difesa. Ma qui, per lettore eventualmen­

te distratto, ripetiamo difesa contro attacchi di pa­racadutisti e sbarchi anglo-americani dal cielo e dal mare, non difesa contro il tedesco. Questo, in sostanza, e nulla più tutti sapevano l’8 settembre9.

Il documento, a firma del capo di Stato mag­giore generale Mario Roatta, venne inviato a mano ai comandanti dei corpi d’armata di stanza a Roma il 5 settembre e recitava che “la difesa interna ed esterna della Capitale nel­la nota eventualità di attacco di unità paracadu­tisti e simili è di pertinenza di questo S.M.”10 11.

Queste disposizioni, a somiglianza delle precedenti che mai parlarono di armistizio, non specificavano né lo Stato di appartenen­za delle unità avio-lanciate (dando libero sfo­go al pensiero ipotetico, dalla genericità del documento gli ufficiali di Stato maggiore non avrebbero dovuto escludere neppure un avio-sbarco di parà elvetici in aiuto alle guar­die svizzere che, forse, stavano tramando per ripristinare il potere temporale del Papato), né l’atteggiamento da assumere da parte dei corpi d’armata sottoposti (considerare i pa­racadutisti invasori o amici in aiuto?), ma sembra oggi esagerato considerarle al pari delle profezie della sibilla cumana.

Di fronte a simili diffuse reticenze, ritenia­mo interessante proporre il documento n.3, stilato dal generale Ilari in risposta a una esplicita richiesta del ministero dell’Aeronau­tica del 14 luglio 1944. La relazione, analoga a quella già ricordata dell’ammiraglio de Courten11, è quindi posteriore ai fatti e moti­vata dalle richieste ministeriali di far luce sui fatti dell’8 settembre al fine di valutare le re­sponsabilità dei vari comandi italiani nei tra­gici fatti che seguirono l’armistizio.

7 Analogamente, le disposizioni per la Regia marina prevedevano che al ricevimento del fonogramma convenzionale dovessero essere “attuate misure ordine pubblico pro-memoria numero uno Comando supremo” o d’iniziativa dei Co­mandi in capo.s Italica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, Modena, ed. f. c., 1971, p. 159.9 Iltalica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, cit., p. 167.10 Italica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, cit., p. 168, ove è riportata la riproduzione fotografica del documento.11 Pubblicato in E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L ’armistizio tra l'Italia e gli angloamericani de! settembre 1943, cit., doc. 7. 3.

704 Andrea Curami

Due fatti risultano a nostro avviso impor­tanti. In primo luogo, il generale Eraldo Ilari e il generale Giuseppe Santoro furono posti a conoscenza il 5 settembre 194312 dal ministro dell’Aeronautica, generale Renato Sandalli, dell’imminente armistizio e nel corso di quella riunione fu letto “un promemoria nel quale erano fissate in via generale alcune predisposi­zioni da attuarsi per agevolare uno sbarco ae­reo da parte degli alleati su aeroporti intorno a Roma” . È singolare la coincidenza di data con il promemoria Roatta e la ricordata “nota eventualità di attacco di unità paracaduti­sti e simili”, nonché il fatto che il promemoria n.l del Comando supremo, inviato il 6 settem­bre, stabilisse:

Dovrà essere mantenuto il saldo possesso, a qua­lunque costo, degli aeroporti di Cerveteri, Furba- ra, Guidonia, Centocelle, Urbe: accordi con l’eser­cito. [...]h) la situazioni dei predetti ordini richiede imme­diati e completi accordi con l’Esercito13.

Circostanza quest’ultima confermata anche da Ilari che nel colloquio con Sandalli del 6 settembre venne a conoscenza dei nominativi “degli aeroporti sui quali avrebbero dovuto atterrare due ore dopo la denunzia dell’armi­stizio (quindi verso le ore 21 di un giorno non indicato) i velivoli recanti le due divisioni che gli alleati inviavano a concorso della difesa di Roma. Detti aeroporti, secondo gli ordini del Comando supremo dovevano essere difesi da Grandi unità del Regio esercito”.

Il fatto che anche nella relazione del gene­rale Ilari non si parli di contromosse da effet­tuare in occasione di attacchi tedeschi, ma, bensì, di iniziative offensive coordinate da prendere, cogliendo di sorpresa le truppe ger­maniche, ci porta a supporre, senza partico­lare originalità da parte nostra, che le perso­ne a conoscenza dei piani fossero ben più di “uno o due uomini in Roma”, come sostiene il generale Capitani.

I restanti documenti, qui presentati, sono successivi all’armistizio e relativi alla resa con la cessione delle caserme, dei campi e del materiale di volo ai tedeschi sulla base dell’ac­cordo firmato il 12 settembre dal generale Ilari con il generale Mahncke (doc. n. 4: il nome è quello indicato nella traduzione originale del­l’epoca, non difforme dal testo tedesco auto­grafato presente tra le carte reperite)14, accor­do che, pur dimenticato da tutti, fu approvato dallo Stato maggiore della regia aeronautica (doc. n. 7). Con quell’atto, e i suoi successivi perfezionamenti, la regia aeronautica cessò di esistere di fatto al di qua delle linee di com­battimento e il personale fu lasciato libero di collaborare con i tedeschi15.

I documenti ritrovati, e qui non proposti, non permettono, infine, di sciogliere il lecito interrogativo riguardo al mancato intervento delle restanti forze della 3a Squadra aerea, ot­temperando agli ordini emanati per tempo con il Promemoria n.l del Comando supremo, contro le truppe tedesche che affluivano verso Roma dopo l’armistizio16.

Andrea Curami

12 L’incontro del 5 settembre non è confermato nella relazione ufficiale dell’Ufficio storico dell’Aeronuatica (cfr. Luigi Casolini, L ’armistizio e l'Aeronautica, in A. A. Mola, R. H. Rainero (a cura d i) , Otto settembre 1943, cit., pp. 103-146), che riprende integralmente la versione dei fatti proposta da Giuseppe Santoro in L ’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, voi. II, Milano-Roma, Esse, 1957, p. 569.s13 Cfr. E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L'armistizio tra l'Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit, doc. 6. 2.14 L’accordo presentava un perfezionamento del documento di resa firmato dal tenente colonnello Leandro Giaccone il 10 settembre 1943 con il generale di brigata Siegfrid Wasphal. Riteniamo inutilmente provocatorio commentare il di­verso grado militare dei firmatari.15 Nacque così l’idea, propugnata da Aldo Franco Pagliano, di formare una Aviazione legionaria italiana (cfr. Gian­carlo Garello, La nascita dell’aviazione del Nord, “Storia militare”, 1993, n. 3).16 La documentazione acquisita da chi scrive è stata integralmente donata all’archivio dell’Istituto nazionale per la sto­ria del movimento di liberazione in Italia (Milano).

Otto settembre 1943 705

Documento n. 1

Ministero dell’Aeronautica

Gabinetto del Ministro

Prot. n. 461

Roma, li 13-7-1944

All’Ecc. Gen. S.A. Ilari Eraldo Via Montopoli n. 3 - Roma

Oggetto: Relazione sull’attività svolta dal Settembre 1943 in poi.

S.E. il ministro dell’Aeronautica prega di voler far pervenire con cortese sollecitudine una detta­gliata relazione (in duplice copia) dalla quale risulti l’azione svolta dalla E.V. dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944.

Il Capo di gabinetto (Generale D.A. - U. Cappa)

Cappa

Documento n. 2

Roma, 1 agosto 1944

All’Ufficio di S.M. della R. AeronauticaRoma

In relazione a quanto richiesto da S.E. il Mini­stro, nel foglio 461 del 13/1/944, trasmetto in alle­gato la relazione richiesta, in duplice copia.

Per quanto ha tratto all’attività da me svolta successivamente al 18 settembre, mi richiamo alla relazione già presentata al Ministero.

Il Generale di S.A.(E. Ilari)

Documento n. 3

A S.E. il Ministro della R. AeronauticaRoma

In relazione a quanto richiesto da V.E. nel foglio 461 del 13/7/944, trasmetto l’acclusa relazione in duplice copia.

Ho ritenuto opportuno far precedere ad essa un breve cenno sull’attività da me svolta precedente­

mente l’8 Settembre perché la ritengo strettamente collegata con quella esplicata nei giorni successivi la suddetta data.

Il giorno 5/9/1943 venni invitato, col Sottocapo di S.M. Generale Santoro, a conferire con S.E. il Ministro.

Il Generale Sandalli, dopo averci raccoman­dato la massima discrezione su quanto avrebbe comunicato, ci mise al corrente che erano in cor­so trattative per la stipulazione di un armistizio, la cui denunzia doveva avvenire non prima del 15 Settembre.

Lesse quindi un promemoria nel quale erano fis­sate in via generale alcune predisposizioni da at­tuarsi per agevolare uno sbarco aereo da parte degli Alleati su Aeroporti intorno a Roma.

Il giorno 6 Settembre avemmo, io ed il Gen. San­toro, un secondo colloquio col Gen. Sandalli, il quale comunicò i nominativi degli aeroporti sui quali avrebbero dovuto atterrare due ore dopo la denunzia deU’armistizio (quindi verso le ore 21) i velivoli recanti i reparti delle due divisioni che gli Alleati inviavano a concorso della difesa di Roma.- Detti aeroporti, secondo gli ordini del Comando Supremo, dovevano esser difesi da GRANDI UNITA del REGIO ESERCITO.

Inoltre, su di essi dovevano essere subito avviati sentieri luminosi, sezioni luci ed alcune stazioni ra­dio trasmittenti necessarie per le rotte di avvicina­mento degli aerei e per gli atterraggi notturni.

Per quanto riguardava i reparti di volo, il Capo di S.M. stabilì che quelli in buona efficienza bellica si trasferissero al momento opportuno su aeroporti controllati dagli Alleati, i cui nominativi per altro non erano stati ancora determinati.

Rientravano per la 3“ Squadra, in base ai criteri di cui sopra, i seguenti reparti:- Raggruppamento da Bombardamento

(Cant Z. 1007 bis)- Raggruppamento Siluranti

(S.79)- 2° Stormo Caccia

(M.C. 202)- 8° Gruppo Caccia

(M.C. 200).

Per gli altri apparecchi, considerati tutti di scarsa efficienza, e che a detta del Capo di S.M. avrebbero inutilmente ingombrato i campi, non era previsto alcun movimento.

706 Andrea Curami

S.E. Sandalli concluse chiarendo che tali disposi­zioni non erano definitive e che occorreva attendere conferma per l’esecuzione di alcune di esse.

11 giorno 7 Settembre tenni rapporto ai Coman­danti degli Aeroporti interessati, per comunicar lo­ro che era probabile che i tedeschi tentassero di im­padronirsi di qualche nostro aeroporto.

In questo caso, occorreva opporsi decisamente, reagendo con tutti i mezzi a disposizione. - Partico­larmente per quello di Viterbo, già sede di numerosi Reparti da bombardamento tedeschi, che avrebbe­ro costituito un grave pericolo per Roma, in caso di reazione da parte germanica, detti istruzioni al Co­mandante dell’Aeroporto Colonn. Abriata, affin­ché cercasse al momento opportuno di far sabotare il massimo numero di velivoli tedeschi e, se possibi­le, anche il deposito carburanti.

Nel pomerigio dell’8 Settembre tornai (era la se­conda volta) a Velletri per prendere col Comando di CORPO DI ARMATA ivi dislocato gli accordi relativi alla difesa dei Campi.

Il Gen. Comandante mi disse che per la difesa dei Campi nessuna particolare disposizione era stata ancora emanata e che lo schieramento delle sue Unità non era ancora ultimato, tanto che egli stesso si trovava con il Comando spostato in avanti rispetto al previsto schieramento e che per conseguenza sarebbe rientrato al più pre­sto a Roma.

Rientrato a Roma verso le 20, appresi l’annun­zio delTawenuto armistizio.

In relazione a quanto precede, la situazione la se­ra dell’8 era la seguente:

a) sistemazione del materiale necessario per l’at­terraggio notturno dei velivoli da trasporto Alleati non ancora ultimata;

b) iniziato l’arrivo sugli aeroporti previsti del­l’armamento individuale indispensabile per portare almeno al 50% il numero degli avieri armati;

c) disposizioni da parte del R.E. per la difesa dei Campi non ancora attuate;

d) Comandanti di reparto affluiti solo in parte a Roma per essere orientati, secondo le direttive del Capo di S.M., sul comportamento da tenere in caso di atti ostili compiuti dai tedeschi;

e) ordini esecutivi non ancora emanati ai co­mandi di aeroporto interessati, data la mancata de­finizione delle modalità relative all’atterraggio degli aerei, allo sbarco, e al deflusso delle Unità sbarcate sugli aeroporti.

Alle 20.30 mi recai a riferire a S.E. Sandalli sul colloquio avuto a Velletri e per ricevere ordini in merito agli avvenimenti in corso.

Il Gen. Sandalli, perfettamente al corrente della situazione, dichiarò che lo sbarco aereo, data l’im­provvisa denunzia dell’armistizio, non era più at­tuabile e si riservò di farmi avere istruzioni.

f) numerosi aeroporti occupati già da tempo to­talmente od in parte dai tedeschi;

g) collegamenti con tutti gli aeroporti a sud di Roma interrotti da qualche giorno, salvo qualche sporadica comunicazione e ciò a causa dei bombar­damenti aerei;

h) provvedimenti relativi alla sostituzione di qualche Comandante di Reparto e di qualche Uffi­ciale del Comando Squadra (in relazione alle mie direttive di nuovo Comandante della Squadra ed al particolare momento) non ancora attuati.

La stessa sera dal Comando Squadra venivano emanate le seguenti disposizioni:

l5) Ordine di sospendere le missioni e di rientro ai reparti da bombardamento e siluranti partiti nel­le prime ore della sera, per azioni di guerra.

2Q) Ordine agli aeroporti di attuare tutte le mi­sure di sicurezza previste dai progetti per la difesa dei Campi.

Nessun ordine di trasferimento fu dato ai Repar­ti di volo, in attesa di istruzioni dello S.M.

Fino alle ore 21.30 la situazione si mantenne cal­ma; nessuna particolare segnalazione pervenne alla Squadra da parte degli Enti dipendenti.

Alle 21.30 dall’Aeroporto di Pontecagnano il Colonnello Fabbri telefonò, comunicando che i te­deschi chiedevano l’allontanamento del nostro per­sonale dal Campo. Ne riferii subito al sottocapo di S.M. Gen. Santoro, che dopo qualche minuto mi ri­telefonò, dicendomi che, essendo l’aeroporto già in consegna all’aviazione germanica e non essendovi sul campo nostri reparti di volo ma solo un reparto servizi, praticamente già decentrato fuori del campo stesso, autorizzava ad aderire alla richiesta tedesca.

Alle 22.30 detti a mezzo telefono al Colonn. Fabbri le disposizioni del caso, ordinandogli di op­porsi decisamente alla cessione delle armi costi­tuenti Tarmamento individuale degli Ufficiali e del­la truppa.

Alle 24 circa il Colonn. Palamenghi, Comandan­te dell’Aeroporto di Ciampino Sud, segnalava che Ufficiali tedeschi chiedevano la consegna dell’aero­porto.

Ordinai al Colonn. Palamenghi di reagire energi­camente e di non aderire.

Chiamai subito a telefono il Gen. Sandalli e lo mi­si al corrente della situazione. - Dopo qualche istan­te di silenzio S.E. Sandalli interruppe la comunica­zione, avvertendomi che mi avrebbe richiamato.

Otto settembre 1943 707

Mi chiamò infatti poco dopo, dicendomi che era opportuno addivenire con i tedeschi ad una solu­zione di compromesso, ossia essi potevano occupa­re l’adiacente aeroporto di Ciampino Nord (già in gran parte da essi tenuto), purché lasciassero a noi quello di Ciampino Sud.

Detti disposizioni in tal senso al Colonn. Pala- menghi, il quale verso le tre mi comunicò che era riuscito a stabilire l’accordo secondo gli ordini rice­vuti.

Questo accordo fu secondo il solito sistema tede­sco, presto violato, e infatti i rinforzi affluiti nella notte sull’Aeroporto di Ciampino Nord, consenti­rono nel pomeriggio del giorno successivo il dilaga­re delle forze tedesche sull’adiacente Aeroporto di Ciampino Sud.

Tutto il resto della notte passò tranquillo.La mattina del 9 settembre, recatomi al Ministe­

ro, vi trovai rispettivamente delegati per la parte operativa il Gen. Santoro, Sottocapo di S.M. e per quella propriamente ministeriale il Gen. Urba­ni, Capo di Gabinetto.

L’improvvisa partenza del Capo di S.M. avve­nuta nelle prime ore del mattino e la mancanza di disposizioni, avevano dato luogo ad un grave diso­rientamento e data la sensazione che la situazione fosse sostanzialmente mutata. - Si deve poi aggiun­gere che l’impossibilità di collegamento con Enti e Comandi di altre F.F.A.A. aveva reso ancor più difficile un preciso orientamento sulla nuova situa­zione ed impedito quei contatti indispensabili per meglio fronteggiarla.

Il Sottocapo di S.M. si limitò quindi ad ordinare che venissero inviati alcuni velivoli in osservazione sulle principali vie di comunicazione per rilevare l’entità delle forze tedesche in marcia su Roma.

Sul risultato di dette esplorazioni effettuate il giorno 9 ed il mattino del 10, fu infatti regolarmen­te informato lo S.M.

La mattina e quasi tutto il pomeriggio passaro­no senza fatti degni di rilievo.

Verso le 19 mi telefonò il sottocapo di S.M. av­vertendomi che era stato informato che le truppe germaniche stavano entrando in Roma senza in­contrare resistenza, e che era quindi necessario prendere tutte le predisposizioni perché il materiale ed il carteggio segreto del Comando Squadra non cadesse in mano ai tedeschi.

Soggiunse di andare subito da lui per esaminare la possibilità di far funzionare il Comando Squadra in altra sede, e che era bene data quest’eventualità, che il personale del Comando stesso, ad eccezione di quello di servizio, si allontanasse dagli uffici

pur rimanendo sempre a portata di mano per poter ricevere ordini.

Lasciai al Gen. Maceratini le disposizioni op­portune e mi recai dal Gen. Santoro.

Questi ebbe subito a dichiarare che la notizia era falsa. - Rientrai allora immediatamente alla Squa­dra.

Alle 19.45 ebbi notizia dall’Ufficiale Superiore di Servizio che degli avieri si erano allontanati dalla Caserma Cavour (fatti analoghi si erano verificati nelle vicine Caserme del R.E.). Detti subito ordine di provvedere con numerose ronde, integrate da Carabinieri, per il rastrellamento degli avieri e per­ché tutta la truppa rimanesse consegnata in caser­ma (com’è noto, il Regg. Avieri era composto di at­tendenti e di scritturali).

Contemporaneamente disposi per la suddivisio­ne della città di Roma, per quanto riguardava la parte aeronautica, in tre settori, a capo dei quali mi­si Ufficiali generali (Toccolini, Sozzani, Spadacci­no) con incarico di sovraintendere a tutti gli Enti Aeronautici dislocati in ciascun settore.

Il Comandante della Caserma Colonn. Stefani fu immediatamente sostituito per la sua poco ener­gica azione di comando.

Nella notte dal 9 al 10 Settembre situazione tranquilla su tutti gli aeroporti, ad eccezione di quello di Centocelle Sud, ove alcuni avieri e pa­racadutisti avevano abusivamente abbandonato il Campo.

Nella notte stessa, a mezzo di autocarri, inviai dalla Caserma S. Michele avieri armati ad integra­zione della difesa di quel campo.

Il mattino del 10 il Sottocapo di S.M. mi comuni­cò (era stato chiamato, col. Gen. Urbani, dal mare­sciallo Caviglia) l ’avvenuta tregua con i tedeschi e la conseguente cessazione delle ostilità.

La situazione era la seguente:1) nessun aeroporto intorno alla Capitale occu­

pato, ad eccezione di quelli di Ciampino e di quello di Pratica di Mare, già da tempo completamente ce­duto ai tedeschi;

2) nessun aeroporto a Nord di Roma occupato, ad eccezione di quelli ceduti in precedenza all’avia­zione germanica (Viterbo, Grosseto, Pistoia, Meta- to e parte di quello di Pisa);

3) nessuna notizia degli aeroporti a sud di Ro­ma, data l’interruzione completa dei collegamenti. - (Solo fu possibile trasmettere per radio al Coman­dante dell'Aeroporto di Pontecagnano che tutto il materiale e il personale dell’aeroporto stesse a di­sposizione degli Anglo Americani, già sbarcati presso Salerno).

708 Andrea Curami

Non si ebbe quindi nessuna vera e propria azione offensiva da parte dei tedeschi contro gli aeroporti, la cui sorte fu piuttosto decisa dal crollo della situa­zione generale.

I collegamenti erano in gran parte interrotti od intercettati dai tedeschi e pertanto i rapporti con gli Enti dipendenti risultavano, discontinui e diffici­lissimi.

La situazione era comunque ancora favorevole per la partenza dei reparti di volo, ed in tal senso sollecitai il Gen. Santoro, raccomandandogli di far sapere al più presto il nominativo degli aeropor­ti sui quali trasferire gli apparecchi.

Nel pomeriggio del 10 pervenne infatti l’ordine di concentrare in Sardegna il Raggrupp. da Bom­bardamento (Aeroporto di Perugia), il Raggruppa­mento Siluranti (Aeroporto di Siena), il 2Q Stormo caccia (Aeroporto di Cerveteri) e l’8e Gruppo Cac­cia (Aeroporto di Castiglion del Lago).

II mattino dell’ 11 tutti i velivoli efficienti al volo (circa 100) partivano regolarmente per gli aeroporti della Sardegna.

Inoltre disposi che tutti gli apparecchi efficienti del 15e Stormo in formazione a Peretola, della Squadriglia B.G.R. (aeroporto Foligno) e della Squadriglia Caccia (M.C. 205 fotografici) dislocati a Guidonia, si trasferissero egualmente in Sarde­gna, mentre quelli del 24s Gruppo Caccia tempora­neamente dislocati presso l’Aeroporto di Littoria furono diretti a Brindisi.

Solo 20 Macchi 202 del 2° Stormo Caccia in pre­cedenza danneggiati per non farli cadere in mano ai tedeschi dovettero essere lasciati sul campo di Cer­veteri.

Dal Ministero ebbi disposizioni di aderire alla ri­chiesta e la comunicazione che sarei stato accompa­gnato dal Gen. D’Aurelio (in servizio al Ministero) e da due Ufficiali interpreti.

Il mattino del 12 il Gen. Sandalli trasmetteva da Brindisi, a mezzo radio, l’ordine ai Gen.li Santoro ed Urbani ed a me di rimanere al proprio posto.

Lo stesso mattino, accompagnato dagli Ufficiali messi a mia disposizione e dal Gen. Maceratini, mi recai presso il Comando Luftgau Sud ove il Co­mandante, Gen. Marcke [rectius: Mahncke], mi co­municò che desiderava prendere accordi per la con­segna dell’organizzazione aeroportuale della 39 Squadra.

Risposi che non avevo veste per trattare in tal senso e lo invitai a rivolgersi al Ministero dell’Aero­nautica. - Egli mi pregò allora di prendere visione del documento contenente le richieste da parte te­desca e di trasmetterlo al Ministero.

Rientrato a Roma verso le ore 12, consegnai il documento stesso al Gen. Urbani.

Nel pomerigio ebbi dallo S.M. una lettera con la quale si autorizzava ad aderire alle richieste del Co­mando germanico.

Le disposizioni relative a quanto precede venne­ro impartite soltanto agli Enti di Roma e delle im­mediate vicinanze, data l’interruzione di tutti i col- legamenti.

Intanto il Ministero stabiliva che il personale do­vesse essere inviato in congedo illimitato od in li­cenza illimitata a seconda delle varie categorie e fis­sava le modalità di carattere amministrativo che dovevano regolare la smobilitazione del personale stesso.

Presso la Caserma Cavour fu pertanto creato uno speciale Ufficio per il pagamento delle compe­tenze; ad esso affluirono perfino elementi residenti in alta Italia (Is e 2a Squadra) che dopo lo sgretola­mento dei propri Reparti si erano recati a Roma.

Nei giorni 16 e 17 Settembre si presentavano al Comando Squadra alcuni Ufficiali tedeschi, tra cui il Gen. Muller.

I contatti con essi furono presi per mia delega dal Gen. Maceratini, e le relative richieste trasmesse al Commissariato per l’Aeronautica, che aveva sta­bilito di essere il solo Ente competente a trattare tutte le questioni con le autorità germaniche.

Dopo lo scioglimento del Comando Squadra (18 Settembre) mi limitai a seguire l’opera assistenziale a favore del personale, per quanto riguardava il sol­lecito e regolare pagamento delle competenze effet­tuato, com’è noto, all’insaputa dei tedeschi.

Già in precedenza avevo disposto perché venis­sero occultati automezzi e materiali della Squadra, dando incarico al Capit. dei Carabinieri Manila, di tener nota di coloro a cui era stato affidato il mate­riale, per poter procedere al ricupero al momento opportuno. - Mi risulterebbe però che buona parte di esso sia stato preso dai nazi-fascisti, a seguito di delazione.

Nella terza decade di Settembre d’intesa con i Generali Sozzani ed Urbani presi contatto con ele­menti che organizzavano il passaggio delle linee per raggiungere Bari. - Il tentativo non fu poi effettua­to per sopraggiunte difficoltà.

Non intendendo sottostare allora all’obbligo di trasferimento al Nord previsto dai numerosi bandi, mi diedi alla macchia dopo aver fatto spargere la voce al Ministero che mi sarei recato a Biella.

Otto settembre 1943 709

Cambiai nel giro di due mesi tre volte domicilio (come specificato nella precedente relazione) ed in­fine il 10 novembre entrai, per sottrarmi alle ricer­che delle S.S. germaniche, a S. Giovanni in Lutera­no ove rimasi fino al 4 Giugno 1944.

Mi risulterebbe che fui ancora ricercato nel mese di Aprile dalle guardie repubblicane.

Durante tutto questo periodo ho svolto attività assistenziale a favore di numeroso personale della R. Aeronautica provvedendo anche a mezzo del Magg. Tedeschi alla distribuzione di viveri di riser­va a suo tempo fatti nascondere per sottrarli ai te­deschi.

Ho appartenuto al fronte clandestino di resi­stenza.

Documento n. 4

Generale Rahne [rectius: Mahncke] saluta gli ufficiali italiani e dichiara di annettere il massi­mo valore al fatto che la consegna si svolga in reciproco accordo e possibilmente con meno at­triti possibili.

Scopo delle trattativeNelle conversazioni si deve fissare in grandi li­

nee, come si deve svolgere la consegna dell’organiz­zazione territoriale italiana con rispettive installa­zioni alla Luftwaffe.

I particolari saranno decisi attraverso i Comandi inferiori in reciproco accordo.

II generale Mahnke [rectius: Mahncke] comuni­ca come sarà svolta la presa in consegna da parte tedesca. - L’ECC. Ilari ne prende conoscenza e in­forma che ne riferirà al Ministero dell’Aeronautica.

1) Presa in Consegna degli aeroporti della 3 Squadra;

2) Consegna degli apparati aeronautici, vetto­vaglie, vestiario, autoveicoli, combustibili, apparec­chi per telecomunicazioni.

3) Presa in consegna di ufficiali e soldati che sia­no volontari;

In riferimento all’articolo 1. - Comandi tedeschi si recano sugli aeroporti e li prendono in consegna con i relativi servizi (depositi munizioni, di combu­stibile e macchinario per il funzionamento).

I soldati italiani lasciano le caserme. - La loro partenza deve essere attuata dopo due giorni, a par­tire dal giorno della occupazione attraverso i co­mandi tedeschi. - Si deve consegnare viveri per tre giorni.

Eccezione: il personale navigante rimane al po­sto, finché verrà deciso il suo impiego.

In riferimento all’articolo 2 . -1 Comandanti ita­liani dispongono che i competenti commissari ed il personale specializzato diano le consegne. - Instal­lazioni, depositi, arnesi come rifornimento non possono essere distrutti o tolti a nessuna condizio­ne. - 1 soldati italiani possono portare via proprietà privata.

In riferimento all’articolo 3 . -1 Comandi italiani disporranno che ufficiali, sottufficiali e truppa che si mettono volontariamente a disposizione dei tede­schi, trovino occasione di presentarsi ai Comandi tedeschi sui rispettivi aeroporti.

Questi soldati verranno vettovagliati e pagati co­me soldati tedeschi. - La Luftwaffe tiene special- mente al personale navigante e tecnico.

Per l’esecuzione della consegna la R. Aeronauti­ca metterà subito a disposizione dei Comandi tede­schi 5 Ufficiali (che rivestano come minimo il grado di capitano e che parlino possibilmente il tedesco).

Questi Ufficiali verranno mandati a prendere il giorno 13 sett. presso la 3 Aerosquadra a Roma. - I suddetti ufficiali devono essere muniti di carte circa l’organizzazione territoriale italiana ed i suoi servizi.

Documento n. 5

Per filo Per radioGuidonia: Vignoli N.N.Furbara: Garand Perugia: Ten. Casella Cerveteri S.T. Lagana

Regia Aeronautica Fonogramma in arrivoDal Comando IIP Areosquadra a tutti gli areopor- tiTrasmesso Ten. Col. Ragnelli

Addì 12 sett. 1943

Comandi areoporti in indirizzo provvedano af­finché personale in areoporto inquadrato perman­ga in attesa di effettuare regolare consegna di tutto il materiale esistente sull’areoporto at autorità tede­sca areonautica. Seguiranno ordini per lo smista­mento del personale: Gen. Ilari.

710 Andrea Curami

Documento n. 6

Roma, 12-9-1943

Comando

3B Squadra aerea

Ufficio ComandoA tutti i comandanti

di aeroporto e di enti vari

Prot. n. C/14157 [...]

Oggetto: Consegna Aeroporti ed Enti vari al Comando dell’Aeronautica Tedesca.

Il Ministero dell’Aeronautica a seguito accordi con il Comando della Luft Gau Sud, ha disposto quanto appresso:

1) Una Commissione di Ufficiali Tedeschi ac­compagnati da un Ufficiale della R. Aeronautica si presenterà su ciascun Aeroporto ed Ente per prendere in consegna l’Aeroporto o l’Ente con tutti gli impianti ivi esistenti, aeroplani, autoveicoli, combustibili, apparati telecomunicazioni, vestiario e vettovagliamento. Le installazioni, i depositi di materiali vari devono essere consegnati nello stato in cui si trovano all’arrivo della predetta Commis­sione.

2) Il personale della R. Aeronautica deve lascia­re l’Aeroporto allo scadere di due giorni dall’arrivo della predetta Commissione, portando seco tutti gli oggetti privati e munito di tre giornate di viveri. Se­guiranno istruzioni di carattere amministrativo e per lo smistamento.

Prima di lasciare l’Aeroporto il predetto perso­nale, con particolare riguardo a quello navigante (piloti e specializzati), potrà essere interpellato dal­la Commissione Tedesca a voler dichiarare se desi­dera rimanere volontariamente in servizio presso l’Aeronautica Tedesca, presso cui sarà vettovaglia­to e pagato alla stessa stregua delle truppe tedesche. Il personale volontario, che conserverà l’attuale suo grado, dovrà essere lasciato a disposizione dei loca­li Comandi Tedeschi per ulteriori impieghi.

3) I comandanti di Aeroporto faranno perveni­re allo scrivente gli elenchi nominativi del personale volontario ed a consegna ultimata si presenteranno a questo Comando di Squadra.

Il Comandante (Generale di S.A. - Eraldo Ilari)

Documento n. 7

Stato Maggiore della R. Aeronautica

Segreteria

Prot. n. 425/R/P/ Allegati [...]

Roma, 12 settembre 1943

Al Comandante della 3B squadra aereaRoma

Oggetto: Comunicazione.

Presa visione di quanto stabilito dal Comandan­te Luft Gau Sud, Generale MANKE [rectius: Mahncke], in merito alla consegna dell’organizza­zione territoriale della 3B Squadra Aerea, e sentito al riguardo anche il parere dell’Ecc. il Generale di S.A. TEDESCHINI LALLI, più anziano dei Gene­rali in servizio, e del Generale D.A. URBANI Aldo - rappresentante il Ministero dell’Aeronautica - lo scrivente approva la linea di condotta dell’E.V. e non ha nulla da osservare circa l’accettazione delle condizioni imposte dal Comando Germanico.

Il sottocapo di Stato Maggiore

Documento n. 8

Nota Radio Marina Brindisi

per Generale SANTORO

12 settembre 1943 ricevuto ore 19

Generale SANTORO, Maggiore BERTELLI et qualche ufficiale Superaereo mi raggiungano se possibile - Generali Urbani ed Ilari rimangano pro­prio posto -

Generale SANDALLI

Documento n. 9

Comando 3B Squadra Aerea

Telegramma in partenza

13 settembre 1943

Luftgaukommando Sud - Sua sede

C/14158 terza aerosquadra punto comunico che accordi presi data 12 corrente sono in parte di dif­

Otto settembre 1943 711

ficile pratica attuazione in quanto truppe tedesche prelevano direttamente materiali Regia Aeronauti­ca da aeroporti et da magazzini senza attendere ar­rivo note commissioni punto in conseguenza di quanto sopra est accaduto presso vari enti che an­che parte del personale habet già lasciato enti stessi punto Generale Ilari

Documento n. 10

Comando 3a Squadra aerea

Ufficio comando

Nota nr. 1 per il commissario dell’aeronautica

Alle ore 9.45 del giorno 16 settembre 1943 si so­no presentati al Comando della III Squadra Aerea il Ten. Col. BLODERN ed il S. Ten. pilota (inter­prete) FRANZ, della Luffwaffe.

Introdotti alla presenza del Comandante in II - Generale di D.A. Giuseppe Maceratini -, dopo aver premesso che in data 15 settembre 1943 il DU­CE ha riassunto il Governo della Nazione ed il Co­mando della FF.AA., il Ten. Col. Blodem ha chie­sto, quale rappresentante del Maresciallo Kessel- ring, che il Comando della III Squadra Aerea con­tinui a funzionare per la ricostituzione di reparti aerei italiani da affiancare a quelli germanici. Quanto sopra anche perché presso alcuni Aeropor­ti sarebbe iniziato l’afflusso di personale militare della R. Aeronautica, volontario per prestare servi­zio alle dipendenze dell’Aeronautica Tedesca.

Il Ten. Col. Blodem ha assicurato che il rientro in servizio del personale dovrà essere prettamente volontario, senza alcuna forma di coercizione; il personale conserverebbe l’uniforme della R.A. e fruirebbe del trattamento goduto dai pari grado dell’Aeronautica Tedesca.

L’impiego del personale stesso sarebbe definito a seguito di ordini che saranno emanati dal DUCE. Per il momento dovranno costituirsi due nuclei di volontari (piloti e specialisti) sugli Aeroporti di Cerveteri e di Marcigliana per l’urgente trasporto dei velivoli da caccia e bombardamento rispettiva­mente sugli Aeroporti di Siena Ampugnano e di Isola S. Antonio.

Per comunicare al personale che si è allontanato dalle proprie sedi che può volontariamente ripren­dere servizio, mentre in un primo tempo il Ten. Col. Blodern suggerisce di servirsi dell’E.I.A.R.,

successivamente prospetta [’opportunità di non fare della propaganda pubblicitaria ma di attendere che “corra la voce” di questi arruolamenti volontari.

A tutt’oggi il Ten. Col. Blodern non si è anco­ra ripresentato al Comando della III Squadra. Comunque si rimane in attesa di disposizioni al riguardo.

Roma, li 18 settembre 1943Il Comandante

Generale di squadra aerea E. Ilari

Documento n. 11

Comando 33 Squadra aerea

Ufficio comando

Nota nr. 2 per il Commissario dell’Aeronautica

Alle ore 11.00 di oggi 18 settembre si è presenta­to al Comando della 33 Squadra Aerea il Capitano dell’Aviazione tedesca KOHWEYH dipendente dal Tenente Colonnello BLODERN, dicendo di es­sere incaricato di ripristinare i collegamenti telefo­nici, radio e delle telescriventi tra Roma e gli Aero­porti già alle dipendenze della 38 Squadra Aerea, secondo una precedenza che verrà successivamente indicata dal Comando tedesco in base alle proprie necessità.

[da qui in poi il documento originale è cancellato con tratti a penna]

Successivamente il Capitano KOHLWEYH ha chiesto come lavoro urgente il collegamento telefo­nico tra Roma e Cerveteri, Roma-Marcigliana e Roma Guidonia. Si rimane in attesa di conoscere la decisione al riguardo.

18 settembre 1943

Documento n. 12

Nota nr. 3 per il Commissario dell’Aeronautica

Alle ore 12 del giorno 19 settembre 1943 si è pre­sentato al Comando della III Squadra Aerea il Te­nente Generale MULLER, qualificandosi nuovo Comandante dell’Aviazione in Italia, accompagna­to dal Ten. Col. Blodern e dal S. Ten. pilota inter­prete Franz. Il predetto Generale è stato ricevuto

712 Andrea Curami

dallo scrivente. Il Generale Muller ha chiesto l’elen­co del personale del Comando della 3a Squadra Ae­rea con l’indicazione, per ciascun elemento, se lo stesso desidera o meno passare quale volontario al­le dipendenze dell’Aeronautica Tedesca. Ciascun volontario deve indicare se vuol prestare servizio come combattente o come addetto ai Servizi. Ha confermato inoltre che a tutto il personale già di­pendente dalla III Squadra deve essere rivolto ana­logo quesito.

Lo scrivente ha comunicato che il Comando del­la III Squadra è stato disciolto, per ordini superiori, il giorno 15 settembre e che, pertanto, riuscirà im­possibile, per mancanza di collegamenti, interpella­re il personale di tutta la Squadra. Il quesito sarà in­vece posto al personale del Comando Squadra qua­lora reperibile. Lo scrivente ha soggiunto inoltre che il Comando Squadra funziona come Ufficio Stralcio per la sola parte tecnico-amministrativa e che, comunque, ogni disposizione circa le richieste da parte tedesca deve essere rivolta al Ministero.

Il Generale Muller, per agevolare l’arruolamen­to dei volontari - che secondo lui dovrebbero essere in buon numero in quanto parecchi elementi si pre­sentano agli Aeroporti dicendo di voler combattere per il Duce e non più per il Re - propone che sia in­vitato un Ufficiale pilota per ciascuna Specialità che goda di alto prestigio presso i propri commili­toni, perché svolga opera di propaganda. Aggiunge inoltre che gli Ufficiali volontari dovranno prestare giuramento al Fuhrer.

Il sottoscritto conclude ribadendo il concetto che per tutte queste questioni, relative all’arruola­mento del personale, le Autorità tedesche si rivol­gano al Ministero.

Il Generale Muller, in seguito a sua richiesta, ha infine visitato la sede del Comando Squadra di Via Piemonte 51, riservandosi di far sapere fra qualche giorno se la predetta Sede verrà o meno occupata dal Comando alle sue dipendenze.

Roma, lì 20 settembre 1943Il Comandante

Generale di squadra aerea E. Ilari

Documento n. 13

Comando 38 Squadra aerea

Ufficio Comando

Nota nr. 4 per il Commissario dell’Aeronautica

Il giorno 20 settembre, alle ore 12, si è presentato al Generale Maceratini - Comandante in II della Squadra - il Generale MULLER accompagnato dal Ten. Col. BLODERN e dall’interprete S. Ten. FRANZ.

Il Generale Muller esaminò l’elenco, già da lui precedentemente richiesto, del personale del di­sciolto 1Q Reparto del Comando della III Squadra Aerea e comunicò essergli necessario solamente il nominativo degli Ufficiali Capi dei Vari Servizi. Soggiunse che nella stessa giornata avrebbe manda­to a ritirare la lista.

Il Generale Muller soggiunse che appena effet­tuati i nuovi collegamenti telefonici, che nello stesso giorno il personale tedesco istallò nel dipendente Centralino, avrebbe preso possesso dei locali di Via Piemonte 51.

Concluse infine che nello stesso pomeriggio avrebbe inviato una guardia per fare servizio al cancello del Comando insieme con il nostro Cara­biniere.

L'elenco richiesto dal Generale Muller è stato compilato, limitando a sei il numero degli Ufficiali Capi Servizio, in relazione a quanto autorizzato con foglio n. 82035, in data 21 corrente, di codesto Ministero.

Tale elenco, a tutt’oggi, non è stato ancora riti­rato. A tutt’oggi non si è ugualmente presentato né il personale per la guardia al cancello, né quello per il servizio al Centralino telefonico.

Roma, lì 22 settembre 1943Il Comandante

Generale di squadra aerea E. Ilari

Documento n. 14

Ministero dell’Aeronautica

Gabinetto del Ministro

Prot. n. 82035 [...]

Roma, 21 settembre 1943

Al Comando Presidio Aeronautico diROMA

Oggetto: Accordi con il Generale dell’Aviazione Tedesca Müller.

e, per conoscenza- Al Generale dell’Aviazione Germanica Müller

Otto settembre 1943 713

In relazione al colloquio avuto il 20 Settembre con il Generale Müller, Comandante della costi­tuenda Aviazione Italiana e agli accordi successiva­mente approvati dall’Ecc. Calvi di BERGOLO, co­mandante della città aperta di Roma, codesto Co­mando è autorizzato:

a) - Cedere al Generale Müller i locali del co­mando della ex 38 Squadra, sita in Via Piemonte;

b) - A non frapporre ostacoli di sorta acciocché Ufficiali dell’ex Comando di Squadra prestino ser­vizio con le autorità tedesche qualora volontari;

c) - In mancanza di volontari a comandare 6 Ufficiali Capi Servizio (Operazioni, Meteorologia, Genio, Servizi, Personale, Comunicazioni).

Tali Ufficiali presteranno opera di collegamento e orientamento con le Autorità tedesche svincolati in modo assoluto da qualunque obbligo verso le stesse e rimanendo alle dipendenze delle autorità militari italiane.

d) - Per il personale piloti e specialisti che, come è noto è stato tutto inviato o in licenza o in congedo le autorità tedesche useranno la forma di propa­ganda più opportuna per avere la loro collabora­zione fermo restando che le autorità aeronautiche italiane non potranno usare a riguardo alcuna for­ma comunque coercitiva.

Il Commissario (Gen. D.A. Aldo URBANI)

Documento n. 15

Ministero dell’Aeronautica

Gabinetto del Ministro

Il Ministero dell’Aeronautica secondo precise disposizioni del Comandante della Città Aperta di Roma, Eccellenza Conte Calvi di Bergolo, può solo fornire alle Autorità germaniche una collabo- razione prevalentemente tecnico-amministrativa con esclusione di tutto quanto possa concernere an­che indirettamente la parte operativa.

In relazione alla nota da Voi presentata. Vi po­tremmo dare il nostro appoggio limitatamente al ri­pristino dei collegamenti telefonici e telescriventi fra Roma e gli aeroporti della 33 Squadra.

Si rappresenta però le seguenti difficoltà:1) - Alcuni depositi materiali telefonici sono in

Vostro possesso;2) - Quasi tutte le macchine attrezzate meno

due che questo Comando potrà rintracciare nel­l’ambito della 3B Squadra sono state asportate e bisognerebbe avere il Vostro aiuto per rintrac­ciarle essendo probabilmente in mano di Reparti militari tedeschi. Una di queste risulta fra il ma­teriale del 25 C.A.P.T.A. (Via Nomentana) in Vostra mano;

3) - Poter prelevare dai magazzini i materiali necessari ai lavori di riparazione nonché i riforni­menti necessari alle macchine attezzate;

4) - I magazzini materiali collegamenti sono i seguenti:

8° Magazzino Torricola in Vostra mano8° Magazzino Via Papareschi25 C.A.P.T.A. Nomentano in Vostra manoGalleria della Farnesina303® Deposito Via San Michele 22;5) - Questo Comando, a nome del Ministero

dell’Aeronautica rappresenta ancora l’assoluta ne­cessità che le richieste da parte tedesca vengano presentate da un unico ente tedesco al Ministero dell’Aeronautica - Gabinetto per evitare, come si è già verificato e si verifica, l’individuale preleva­mento di materiale, ciò che è di grave nocumento ed intralcio al regolare svolgimento di ogni even­tuale comune collaborazione limitata s’intende al­l’ambito tecnico-amministrativo.

Il Tenente Colonnello Baldini del Comando del­la 3S Squadra Aerea è incaricato della rimessa in ef­ficienza delle linee telefoniche e telescriventi che vi interessano.

A Lui e al personale che vi indicherà come ai re­lativi mezzi di locomozione sarà opportuno rila­sciare permessi di circolazione validi per tutte le Autorità tedesche.

ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE IN ITALIA - ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA DI BOLOGNA

Brunella Dalla Casa, A lberto Preti (a cura di), Bologna in guerra. 1940-1945, Mi­lano, Angeli, 1995, pp. 505, L. 62.000.

Il volume si Inserisce nell’attività di promozione scientifica de ll’Istituto storico pro­vincia le della Resistenza di Bologna e raccoglie contributi di ricerca su alcuni aspetti della società bolognese tra II 1940 e il 1945: i poteri costituiti; la vita eco­nom ica e socia le nel suol aspetti collettivi, ma anche nella sua quotidianità; la me­moria privata e pubb lica di quegli anni; le idee che contribu irono alla costruzione dello stato dem ocratico. Da un lato, dunque, la ricostruzione dei modi, più o meno peculiari, nei quali la guerra è stata vissuta, costruita, Intesa e relnterpretata In questa città. Dall’altro, un ’artico lata verifica delle d inam iche della società civile bo ­lognese, nella quale la guerra opera talora da forte elemento di frattura, ovvero si inserisce, m odificandone la ve locità o l’Intensità in linee di tendenza di più ampio respiro o, ancora, può rappresentare una sorta di laboratorio per realizzazioni fu ­ture sul terreno istituzionale e su quello dell'am m inistrazione locale.

Indice

Parte I: Il potere e la città. Alberto Preti, Spirito pubblico, fronte interno e carte di polizia (1940-1943)\ Brunella Dalla Casa, Il Pnf e la mobilitazione bellica-, Luca Baldlssara, Il governo della città: la ridefinizione del ruolo di Comune nell'emer­genza bellica-, Lutz Kllnkhammer, L'amministrazione tedesca di Bologna e il crol­lo della linea Gotica. Parte II: L’economia, la società, la vita quotidiana. Lucia­no Bergonzini, Demografia, composizione sociale e condizioni di vita nella città in guerra; G iorgio Pedrocco, L’industria tra autarchia e guerra-, Lorenzo Bolelll, L'industria bolognese attraverso il fondo dell'ispettorato regionale del lavoro-, Paola Zagatti, Il problema dell’alimentazione-, Antonio Lovallo, Società e giustizia: i reati annonari attraverso le sentenze del Tribunale di Bologna-, Fiorenza Tarozzi, Organizzazione sanitaria e malattie-, Carla Tonini, Sui banchi di scuola: insegnan­ti, studenti e politica scolastica-, Mauro Maggiorana Uscire dalla città: lo sfolla­mento-, Giampiero Romanzi, La chiesa bolognese e la guerra attraverso i bollet­tini parrocchiali. Parte III: La memoria della guerra. Laura Mariani, Memorie e scritture delle donne-, Patrizia Dogllani, Luoghi della memoria e monumenti. Parte IV: Verso la democrazia. Maria Serena Piretti, Dalla periferia al centro: l ’immagi­ne dello Stato nelle forze politiche di Bologna e dell'Emilia Romagna (1943- 1946).

Immagini della seconda guerra mondiale La fotografia da illustrazione a documento

Paolo Ferrari A chille Rastelli

Alle origini, e ancor oggi nel senso comune, fotografia e cinema documentario (e succes­sivamente la televisione) rappresentano inge­nuamente gli strumenti di riproduzione tecni­ca del reale che meglio consentono di docu­mentare “oggettivamente” gli accadimenti storici. Se per il cinema di fiction montaggi ed effetti speciali fin dall’inizio hanno intac­cato questa fiducia anche tra i non addetti ai lavori, è forse solamente con Forrest Gump, il recente film (uscito nel 1994) di Ro­bert Zemeckis, che diviene a tutti palese non soltanto l’“infinita gamma di attività adulte­ratone” 1 che il cinema rende possibili, ma

anche l’efficacia della falsificazione elettroni­ca, dell’elaborazione delle immagini resa pos­sibile dall’informatica, al di là di ogni possi­bilità dei sensi di cogliere l’“inganno”. Se in­fatti un esperto può scoprire un fotomontag­gio, come dimostra il libro di Jaubert, di cui parleremo oltre, in Forrest Gump è unicamen­te il ragionamento che consente di rifiutare l’evidenza suggerita dalla vista, e cioè che un attore possa essere a un certo punto del film privo delle gambe o che il regista abbia potuto riunire una folla sterminata di com­parse2. Naturalmente, in tutto il cinema di fiction a mettere in guardia lo spettatore è il

1 Cfr. Giovanni De Luna, L ’occhio e l'orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della sto­ria, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 18. Tutto il volume risulta comunque di particolare utilità per impostare in modo critico l’uso delle fonti dell’“occhio e dell’orecchio” in relazione sia alla ricerca storica sia alla didattica. Il volume com­prende comunque poche considerazioni sulla fotografia, essendo incentrato su cinema, radio e televisione. Sul rapporto storia-fotografia e storia-cinema, e sulla convinzione, alle origini, sulla possibilità di usare i due mezzi come strumenti in grado di documentare senza mediazioni e manipolazioni la realtà, cfr. Peppino Ortoleva, La fotografia e Gianni Ron- dolino, Il cinema, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca 2. Questioni di metodo, Firenze, La Nuova Ita­lia, 1983. Secondo Ortoleva, “anche al di là della fase culminante dell’ideologia positivistica, la speranza di poter fare della fotografia un documento, anzi il documento per eccellenza, per la conoscenza storica si è manifestata con conti­nuità, lungo l’intera storia della fotografia” (p. 1122) [...] “mentre il cinema è divenuto sinonimo di irrealtà e di illusio­ne, la fotografia è e resta sinonimo di riproduzione fedele del reale” (p. 1130). Cfr. anche P. Ortoleva, Il mito del do­cumentario. Ideologia e pratica della fotografia “sociale" nella cultura americana degli anni trenta, “Movimento operaio e socialista”, 1986, n. 3, pp. 395-396 (ma si veda tutto il saggio) e Michele Giordano, Fotografia e storia, “Studi storici”, 1981, n. 4.

David Morgan, Effetti speciali. Chip si gira (“Ciak si gira”, novembre 1994, n. 11, p. 60), spiega alcuni procedimenti adottati: “Accostare stralci di film vecchi e nuovi per rimaneggiare o reinventare la storia è un vecchio trucco [...] Grazie alle più avanzate tecniche informatiche perfezionate su ‘Jurassic Park'. l'Industrial Light & Magic (Ilm) ha fatto fare al procedimento di mascherino un prodigioso balzo avanti con ‘Forrest Gump’ [...] Inserendo il materiale originale in un computer, gli animatori dell’Ilm potevano dividere qualsiasi immagine in migliaia di pixel [...] Con un computer si po­teva cancellare o modificare ogni pixel, alterando non soltanto la composizione della scena ma anche le luci, le ombre, la messa a fuoco, il colore e la grana del film di ogni elemento dell’immagine. L’insieme di vari elementi in una sola im­magine sarebbe risultato un tutt’uno privo di ‘cuciture’ anche una volta ingrandito su uno schermo cinematografico” . Ricordiamo quattro delle manipolazioni effettuate: 1) “le mani, le labbra, le mascelle e gli occhi del presidente Kennedy

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

716 Paolo Ferrari Achille Rastelli

genere stesso (specialmente in alcuni casi, co­me nel film di fantascienza), ma nel caso cita­to la falsificazione è applicata anche al vero­simile, risultando cosi più difficile da identifi­care, ed è attuata dopo la ripresa delle imma­gini (e non soltanto allestendo una scena o in­tervenendo sulle modalità di registrazione), con tecniche, infine, particolarmente efficaci.

La falsificazione elettronica trova applica­zione in ambiti ben più vasti dei circoli fre­quentati da chi si occupa, per motivi di ricer­ca o didattici, di storia, mentre il dominio sempre più incontrastato delfimmagine sulle altre forme di comunicazione non consente di archiviarla tra le tecnologie prive di conse­guenze culturali. Conseguenze che sarà com­pito degli specialisti della comunicazione in­dagare, mentre entro ciascun ambito discipli­nare si dovranno elaborare i percorsi meto­dologici atti a garantire un uso critico di una documentazione — fotografica e filmica in questo caso — con proprie caratteristiche peculiari, cosi come recentemente Giovanni De Luna ha fatto, prendendo in esame in mo­do complessivo le questioni poste dalle “nuo­ve fonti” prodotte dalle tecnologie contem­poranee allo storico3. Questioni che sono de­

stinate a essere rilanciate dalla recente inizia­tiva del presidente della Microsoft, Bill Ga- tes, di acquistare l’archivio Bettmann, un’a­genzia fotografica che possiede un enorme patrimonio di immagini del nostro secolo, con l’intento di renderle disponibili a paga­mento e con distribuzione on-line in tutto il mondo4. Anche in questo caso il lavoro degli storici, dei ricercatori come dei divulgatori, è chiamato a fare i conti con la situazione de­terminata da innovazioni tecnologiche che modificano le condizioni dello svolgimento del proprio lavoro.

La consapevolezza della centralità dell’im­magine come veicolo, nei mass media, di sug­gestioni, informazioni e interpretazioni stori­che è stata finora accompagnata, salvo non numerose eccezioni, da una scarsa attenzione al problema da parte degli storici di profes­sione, in larga parte disposti, al massimo, a una benevola condiscendenza nei confronti di chi si occupa di documentazione fotografi­ca, giudicata una sorta di “genere minore” nel mare magnum della documentazione sul­l’età contemporanea o, peggio ancora, unica­mente uno strumento illustrativo la cui utilità è confinata al settore della didattica5. Resta

(immagini tratte da un film di repertorio in cui Kennedy stringe la mano a una vecchia signora alla Casa Bianca) sono stati fatti muovere diversamente, cosi che adesso il presidente sembra dire altre parole (la voce è quella di un attore) e stringere la mano di Hanks”; 2) “[...] alcune delle scene pericolose, ambientate in Vietnam (in realtà girate in un South Carolina fornito di palme digitali) e interpretate da stuntmen, sono state ritoccate con il computer, con l’inserimento di Hanks nei panni di uno stuntman che scappa da una violentissima esplosione”; 3) “[...] La cancellazione di elementi deU’immagine è stata utilizzata per trasformare l’attore Gary Sinise, che interpreta un reduce della guerra nel Vietnam, in un amputato. Cosa ancora più importante, i set e gli oggetti di scena sono stati ideati in modo che gli spettatori ven­gano ingannati sul modo in cui sono stati realizzati i trucchi. [...] Dopo aver coperto le gambe e i piedi dell’attore con un paio di collant azzurri e aver eliminato elettronicamente l’azzurro dall’immagine, creando cosi uno spazio vuoto, gli animatori hanno sostituito la parte vuota dell’immagine con una parte di sfondo raffigurante una parete o altre persone che occupano lo spazio occupato nella realtà dalle gambe”; 4) “[...] I computer hanno anche contribuito al numero degli elementi delle scene. In una scena di massa girata al Washington Monument, una folla di 1000 comparse è stata molti­plicata finché lo schermo non si è riempito di una massa di 200.000 persone” .3 G. De Luna, L'occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, cit.4 L’archivio Bettmann, ceduto nel 1981 al gruppo Kraus, è stato poi arricchito da 11,5 milioni di fotografie dell’agenzia Upi. Gates ha quindi acquistato tutto questo sterminato archivio (cfr. Ora Bill regna sulle foto, “La Repubblica”, 12 ottobre 1995). A titolo di confronto, l’Imperial War Museum conserva circa tre milioni di fotografie. In questo come nel caso di tanti altri archivi, l’importanza storica delle immagini conservate deriva dal rappresentare spesso l’unica do­cumentazione esistente di singoli avvenimenti.5 Tra le eccezioni si può ricordare che nella storia militare l’uso della fotografia come documento ha avuto un maggiore sviluppo, pur con alcune particolari caratteristiche. Le “storie fotografiche” di argomento militare spesso associano una

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quindi ampiamente valido ancor oggi il giu­dizio formulato oltre un decennio fa da Orto­leva: “saldamente insediata, nella pratica sto­riografica, in una posizione ancillare e quasi inosservata, apparentemente ininfluente e marginale ma a ben vedere assai significativa, la fotografia è invece pressoché inutilizzata, nei fatti se non in teoria, come documento, come fonte storica autonoma”6. Il volersi at­testare nel munito castello della parola scrit­ta, sulla base della considerazione — di per sé sostenibile e condivisibile — della sua centra­lità nel discorso storico, può tuttavia consen­tire alcuni equivoci. Se il problema della di­versità dei linguaggi è ovviamente centrale, esistono peraltro tradizioni di studi che co­struiscono il discorso storico su una vasta gamma di fonti che comprende quelle icono­grafiche e artistiche, dai lavori di Ariès sulla mentalità collettiva all’uso delle fonti carto­grafiche e delle immagini paesaggistiche, al­

l’impiego della fotografìa nelle ricerche ar­cheologiche7. Alla base della sfiducia per il mezzo vi è comunque la difficoltà di utilizza­re la fotografia per studiare tutta una serie di questioni, cosi come non si presta all’analisi di processi di lunga durata una fonte che al contrario documenta l’“attimo” relativo alla “superficie” delle cose, colto attraverso “l’in­trusione che modifica la realtà operata dal fotografo” e tale da generare un documento dotato di una carica inesauribile di ambigui­tà8, caratterizzato da una continua tensione “tra concretezza del riferimento reale e co­struzione simbolica”9. In primo luogo preci­siamo però di voler fornire, nelle pagine che seguono, soltanto alcune considerazioni, sul­la base di recenti pubblicazioni sulla seconda guerra mondiale, relativamente all’uso della fotografia come documento e non al suo im­piego nella divulgazione, ovvero per il vasto pubblico dei “non addetti ai lavori” 10.

documentazione fotografica autentica e precisa a testi di mero commento alle immagini, con tutti i pericoli — dal punto di vista strettamente storico — dello sconfinamento nel collezionismo. Ma quali che siano le origini e le motivazioni delle singole raccolte, le immagini possono poi essere utilizzate come documenti storici. Si vedano a questo proposito i volumi sui mezzi militari, che costituiscono quasi un mondo a sé, impermeabile rispetto a quello degli studiosi di storia contem­poranea. Questi libri contengono spesso elementi assai utili (per esempio per studiare l’industria di guerra) e diversamente non facilmente disponibili. Vi sono poi esempi nei quali i due mondi non procedono separatamente e ricche collezioni pub­bliche e private sono state impiegate in lavori storici originali. Pensiamo al lavoro di Lucio Ceva e Andrea Curami, La meccanizzazione dell’esercito italiano dalle origini al 1943 (2 voli., Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, 1994, ed. orig. 1989), nel quale le immagini fotografiche vengono utilizzate anche per documentare l’esistenza di progetti e produzioni, colmando cosi lacune delle fonti scritte. Per un esempio di ricostruzione di un singolo evento militare dovuto unicamente a documenti fotografici, ci permettiamo di rinviare a Erminio Bagnasco, Achille Rastelli, V “affondamento" della portaerei Aquila a Genova nel ¡945, “Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della marina militare”, giugno 1992. Ha prestato attenzione al problema della documentazione audiovisiva Valerio Castronovo, Mass media e storia contem­poranea, “Società e storia”, 1981, n. 11; si veda anche, tra i moltissimi scritti dedicati ai rapporti storia-mass media, il recente volume a cura di Nicola Gallerano, L ’uso pubblico della storia, Milano, Franco Angeli, 1995.6 P. Ortoleva, La fotografìa, cit., p. 1123. Ma si veda tutto il saggio su questo tema: soltanto l’antropologia culturale, tra le scienze sociali, fa un uso sistematico della fotografia (p. 1126).7 Federico Chabod (Lezioni di metodo storico, Bari, Laterza, 1969) non aveva pregiudizi sull’uso della fotografia (p. 58), semmai sottolineando, in relazione a tutte le fonti, la “vana illusione” di poter disporre di un documento “oggettivo”, che consenta cioè di cogliere direttamente la “realtà esterna” (p. 66).8 Cfr. P. Ortoleva, La fotografìa, cit., e R. Arnheim, Sulla natura della fotografìa, “Rivista di storia e critica della foto­grafia”, 1981. Ma si veda tutto il saggio di Ortoleva sull’ambiguità della fotografia, che “è pressoché impossibile da leggere in sé, come un messaggio autonomo: i contesti in cui è di volta in volta inserita ne influenzano la lettura più di quanto accada per altre forme di documentazione” (p. 1134). Michele Giordano finisce per arrivare a questo propo­sito a conclusioni del tutto negative (Fotografia e storia, cit.).9 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 317.10 Sui due versanti in cui i media si intrecciano al discorso storico, rimandiamo al volume di G. De Luna, L'occhio e l’orecchio dello storico, cit.

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Si intende cioè affrontare il problema del­l’uso della fotografia indipendentemente da alcuni settori di studio (per esempio la storia della propaganda o dell’architettura) dove tale documentazione costituisce uno dei mo­menti centrali della ricerca1 ’. Ma anche nella convinzione che manchi nel nostro paese una educazione alla lettura deH’immagine che consenta di evitare una supina accettazione della maggior parte dei messaggi di cui cia­scuno è giornalmente destinatario, mentre vi­ceversa soltanto in parte gli studiosi che cer­cano di costruire una conoscenza critica del­l’età contemporanea (e di comunicarla al di fuori della cerchia degli specialisti)11 12 si sono preoccupati di elaborare strumenti di comu­nicazione più adatti a catturare l’attenzione — presupposto per l’approfondimento criti­co — di un più largo pubblico13.

Partiamo dalla questione della falsifica­zione — la cui “ultima frontiera” è costituita dall’elaborazione elettronica delle immagini richiamata all’inizio —, ricordando in primo

luogo che la prima possibilità di intervenire sul risultato finale è quella di scegliere gli “attimi” , i particolari da registrare. Ricorda Giulio Bollati a proposito delle decisioni del governo britannico durante la guerra di Cri­mea — che tenne tra l’altro a battesimo il fo- togiomalismo e la figura del corrispondente di guerra14 — che “ la missione guidata da Roger Fenton fu incaricata di fotografare le truppe e i luoghi in modo da tranquillizza­re l’opinione pubblica inglese, profondamen­te turbata dalle pessime notizie lette sul ‘Ti­mes’. Manipolare l’opinione mediante uno strumento come la fotografia, che il senso comune considera la garanzia stessa dell’o­biettività: ecco un’idea ingegnosa e ricca di futuro” 15.

Alcune delle più note immagini associate alle guerre del nostro secolo costituiscono al­trettanti “falsi” o sono state accusate di es­serlo (vedremo poi in quale accezione usiamo il termine). Quello che per certi aspetti fu il “laboratorio” del secondo conflitto mondia-

11 Naturalmente sono diverse le discipline che hanno utilizzato la fotografia ai propri fini: “Sembra che la psichiatria italiana sia stata la prima a impiegare la fotografia come strumento diagnostico e quindi come parte integrante della cartella clinica” . Cfr. Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, Storia d'Italia. Annali 2. L'immagine fotografica 1845-1945, t. I, Torino, Einaudi, 1979, p. 39.12 Sul ritardo relativo dell’Italia rispetto ad altri paesi cfr. Francesca Anania, Patrizia Dogliani, David W. Ellwood, Mass media e storia - storia dei mass media: un bilancio per gli anni novanta, “Memoria e ricerca”, 1993, n. 2.13 Vorremmo evitare di aprire — e insieme chiudere — il discorso con il richiamo alla sempre più dilagante “civiltà dell’immagine”. Si tratta infatti di un concetto che, come ogni semplicistica equazione tra (aspetti del) reale e razionale, può mascherare una “dottrina oscurantista”, come è stato sottolineato, se non altro perché presuppone la superiorità deirimmagine sulla parola, quasi che determinati contenuti non possano essere trasmessi che attraverso quest’ultima. Come di recente è stato ricordato in tono polemico, “qualsiasi parola [...] vale più di mille immagini perché può susci­tarle tutte, in cambio una immagine senza parola è pura decorazione o trucco illusionistico [...] Non esiste altro modo di esprimere quello che ci succede e di capire quello che succede se non attraverso la parola scritta che impone un processo di astrazione delle emozioni, uno sforzo, sia pur minimo, di riflessione”: intervista di Daniela Pasti a Fernando Savater, “La Repubblica”, 28 gennaio 1995. Savater prosegue con alcune considerazioni riguardanti i temi che più avanti affron­teremo accennando alla serie televisiva “Combat film”: “L’informazione televisiva riduce i fatti ad immagini di grande impatto, ineguagliabili nel suscitare commozione, che però resistono a convertirsi in problemi intellegibili. Inoltre poi­ché le immagini sono più espressive delle parole, il tempo dedicato a ogni notizia si fa via via più breve [...] E il trionfo di quella che il sociologo Thorstein Weblen chiama ‘la disinformazione concisa’” . Si tratta di una posizione speculare a quella di chi sottolinea appunto l’ambiguità — e quindi anche la ricchezza — della fotografia e che rimanda alla diver­sità (e intraducibilità) dei linguaggi. Sulla questione cfr. P. Ortoleva, La fotografia, cit. e M. Giordano, Fotografia e storia, cit. Nota opportunamente G. Bollati: “Si ripetono [...] fino alla noia le deprecazioni per i guasti prodotti dalla ‘civiltà visuale’ con la sostituzione dell’immagine alla parola, del pensiero visivo al pensiero concettuale” (Note su foto­grafia e storia, cit., p. 9).14 Patrizia Dogliani, Fotografia ed antifascismo negli anni trenta, “Passato e presente”, 1989, n. 19, p. 128.15 Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, cit., p. 27.

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le, la guerra civile spagnola, è stato consegna­to alla memoria collettiva da tante immagini, ma in particolare dall’inquadratura di Ro­bert Capa del miliziano colpito, sulla cui au­tenticità le polemiche sono state non poche16. Analogo discorso vale, a conclusione del con­flitto, per la famosa immagine dei soldati del­l’Armata rossa che innalzano la bandiera so­vietica sul Reichstag, un avvenimento avve­nuto durante la notte e ripetuto, a vantaggio dei fotografi incaricati di immortalarlo, il mattino successivo.

Ricordiamo infine una delle fotografie che più simboleggiano la guerra condotta dagli Stati Uniti nel Pacifico, quella scattata da Joe Rosenthal a Iwo Jima, e che ritrae sei sol­dati americani che innalzano la propria ban­diera sulla cima del monte Suribachi, tanto famosa da aver reso il nome del lembo di ter­ritorio giapponese, di notevole rilevanza stra­tegica, noto al grande pubblico ben più di al­tre tappe — Tarawa, Bouganville, Okinawa — dell’avanzata americana.

Si sovrappongono in questo caso diverse modalità di “produzione della memoria” . La foto, subito famosa, ha dato origine a un bronzo, a diversi film (a partire da Sands of Iwo Jima del 1949), a trasmissioni televisi­ve (con la partecipazione di testimoni), alla produzione di numerosi racconti da parte di soldati che avevano partecipato all’even­to, infine all’esposizione in un museo (a Washington) della famosa bandiera — senza ovviamente considerare le numerose rico­

struzioni scritte della presa dell’isola. Recen­temente Dave E. Severance, allora capitano comandante della Easy Company, una delle unità che ebbero il compito di prendere la ci­ma Suribachi dopo lo sbarco sull’isola, è tor­nato sull’argomento17, in quanto spesso si era sostenuto che la foto fosse un falso, nel senso di una messa in scena destinata ai fo­tografi18, precisando invece come questo “stirring work of patriotic art’’ fosse la se­conda bandiera portata sulla cima. Conside­rando che entrambe furono issate mentre le operazioni militari erano in corso, il falso consiste nel fatto che venne fatta passare co­me unica quella che in realtà era la seconda bandiera posta sul monte19. Questi esempi consentono di distinguere tra diversi tipi di manipolazione, tra quella motivata dall’in­tento di suggerire un diverso svolgimento di determinati episodi e quella che vuole at­testare, surrogandola con una messa in sce­na, una ripresa fotografica che non si è po­tuta realizzare all'atto dell’avvenimento. Nel primo caso abbiamo un falso in senso proprio, nel secondo un falso in senso tecni­co, che non contraddice quanto sappiamo attraverso altre fonti. In ogni caso viene in­taccato il valore documentario della foto; usando un paragone letterario, nel secondo caso si ha una “narrazione” fedele dell’avve- nimento quale possiamo trovare in un buon romanzo storico, nel primo un racconto ve­rosimile scritto per fornire una falsa versione degli avvenimenti (un problema analogo si

16 Ne accenna anche P. Dogliani, (Fotografia ed antifascismo negli anni trenta, cit., pp. 152-153), sottolineando inoltre che “per tutta la nuova generazione di fotoreporter europei, la guerra civile spagnola segnò in modo definitivo il loro destino professionale ed esistenziale” (p. 154).17 Cfr. l’intervista di Dorothea M. Eiler, “Military History”, febbraio 1995. Il colonnello Severance sottolinea tra l’al­tro efficacemente la scarsa affidabilità di molte testimonianze orali prive di conferme incrociate (pp. 40-41). Sulla foto­grafia, cfr. anche P. Ortoleva, La fotografia, cit., p. 1139.18 “The word that it was a staged shot [...] got back to the media in the States, and that incorrect stigma still crops up from time to time in articles about the two flags. It’s like a virus that you can’t get rid of it” (cfr. l’intervista citata di Dorothea M. Eiler, “Military History”, febbraio 1995, p. 44).19 Resta poi naturalmente aperta la questione, in questo come in altri casi, dell’influenza esercitata dalla presenza del fotografo e della macchina fotografica sul comportamento dei soggetti, e quindi della correlata riduzione del grado di spontaneità della scena immortalata.

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pone nell’uso della diaristica come fonte sto­rica).

Questioni che sono tornate alla ribalta a proposito del ciclo di trasmissioni prodotte dalla Rai, “Combat film”, caratterizzate dal­l’intreccio tra alta qualità delle immagini, spesso dal fortissimo potenziale di coinvolgi­mento emotivo, e incapacità dei curatori di presentarle in maniera tale da renderle “leg­gibili” e utilizzabili criticamente, pur non mancando studi e riflessioni sull’attività dei fotografi e dei cineoperatori di guerra20. Una impostazione del resto non isolata: “in Rai i piani piuttosto elaborati per le ‘celebra­zioni’ del cinquantesimo anniversario degli anni di guerra sono stati elaborati senz’alcun rapporto apparente da parte della nostra professione. A quanto mi risulta, nessuno ha sentito la necessità di commentare questo fatto senza precedenti”21.

È forse opportuno, a questo punto, preci­sare ulteriormente che cosa si può intendere parlando di “falso”.

Un documento storico può avere diverse forme, può anche essere costituito da una fo­tografia o dalla registrazione meccanica di suoni o di immagini in movimento, ma in ogni caso lo studioso deve porsi una serie di quesiti — relativi all’autore del messaggio22, alla sua origine, alle motivazioni della sua produzione, al destinatario, alle circostanze di tempo e di luogo cui si riferisce, al contesto nel quale si colloca la singola immagine e via

dicendo — senza risposta ai quali il suo uti­lizzo storico (o meglio critico in generale) ri­sulta impossibile o fortemente limitato23. Va cioè affrontata la critica della fonte, articola­ta in relazione alle peculiarità del documento. Per le immagini fotografiche, cinematografi­che o televisive la questione è ulteriormente complicata dal fatto che, a differenza di de­terminate tipologie di documenti (per esem­pio una serie statistica), ma analogamente a quanto avviene per altre fonti (come quelle orali), è possibile un utilizzo su almeno due versanti. L’alto coinvolgimento emotivo spesso suscitato dalle immagini filmiche e te­levisive, infatti, consente, accanto all’uso in quanto fonte storica — da vagliare al pari di ogni altra — l’impiego del materiale come testo narrativo autonomo e quindi utilizzabi­le e valutabile secondo criteri diversi da quelli della affidabilità delle conoscenze storiche fornite. Due piani che ovviamente non devo­no essere confusi.

L’impiego a fini di documentazione storica di fotografie e filmati richiede dunque che si ponga una serie di domande critiche adegua­te alla specificità del documento, alle possibi­lità della sua manipolazione e alla considera­zione del contesto nel quale il singolo filmato o fotogramma si inserisce. Questioni sulle quali esiste ormai un’abbondante letteratura. In questa prospettiva lo storico deve anche indagare la specifica intenzionalità sottesa a ciascun documento, con un procedimento

20 È sufficiente scorrere la rivista di uno dei più famosi musei di guerra per rendersene conto, la “Imperial War Museum Review”: cfr. Kay Gladstone, British Interceptions of German Export Newsreels and the Development of British Combat Filming, 1939-1942 (1987, n. 2); Clive Coultass, The Ministry of Information and Documentary film, 1939-1945 (1989, n. 4); Gianfranco Casadio, Images of War in Italy: the Record made by the Army Film and Photographic Unit in Emilia Romagna, 1944-1945 (1989, n. 4) (e si veda anche Id., Immagini di guerra in Emilia Romagna. I servizi cinematografici del War Office, Ravenna, Longo, 1987). Dai testi citati si risale a una ben più ampia bibliografia, sulla quale non insi­stiamo per motivi di spazio. Sul programma rimandiamo alle osservazioni di Gianni Isola, Considerazioni sull’uso pub­blico della storia, “Protagonisti”, 1994, n. 56, nonché a quelle, nello stesso fascicolo della rivista, di Giovanni Cesareo e Giuliana Muscio.21 Cfr. l’intervento di D. W. Ellwood, “Memoria e ricerca”, 1993, n. 2, p. 16.2~ Sulla questione della firma delle fotografie sui periodici, cfr. P. Dogliani, Fotografia ed antifascismo negli anni trenta, cit., p. 151.23 Per un tentativo di precisare i criteri di catalogazione dei materiali fotografici, si veda Giuseppina Benassati (a cura di), La fotografia. Manuale di catalogazione delle fotografie, Bologna, Grafis, 1990.

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analogo a quello seguito in relazione ad altre fonti: Le Goff ha dimostrato il superamento della contrapposizione documento-monu­mento basata appunto sulla discriminante costituita dall’intenzionalità24.

Molte domande, però, sono destinate a re­stare senza risposta, a cominciare da quelle relative agli elementi identificativi essenziali dei documenti fotografici (autore, data, luo­go, ecc.). Occorre allora porre il documento in relazione ad altre testimonianze relative al­l’episodio registrato, sebbene sia piuttosto ra­ro disporre di documenti fotografici o filmati la cui lettura sia resa possibile anche dalla di­sponibilità di archivi tradizionali25. L’opera­zione pone la questione della eventuale falsi­tà, che può assumere numerosi aspetti. Anzi­tutto, la scena riprodotta può essere stata, co­me si è detto, appositamente preparata per l’obiettivo, o perché una scena analoga è ef­fettivamente avvenuta ma non è stato possibi­le riprenderla, o per inventare, per i più diver­si scopi, un episodio in realtà mai avvenuto. Il falso cinematografico o televisivo si presenta anche in maniera più sottile: la registrazione di un fatto realmente accaduto (non rappre­sentato) può essere poi montata alla moviola tagliando sequenze o spostando l’ordine tem­porale delle stesse26. Nessuno può allora ne­

gare la veridicità di quanto filmato, ma, senza il negativo originale, difficilmente è possibile accorgersi della manomissione27. Vi è poi il fatto, ricordato, che comunque la fotografia rappresenta soltanto un frammento, il cui si­gnificato è legato al contesto (serie in cui è in­serita, modalità di presentazione, didascalia e via dicendo) come alle modalità della sua pro­duzione, mentre la presenza del fotografo e dello strumento può influire sul comporta­mento delle persone ritratte. Tutte questioni troppo note per richiedere più di qualche ac­cenno; e del resto lo stesso concetto di mani­polazione assume in contesti diversi significa­ti differenti, anche da parte dei fotografi che si pongono un problema etico nei confronti del­la propria professione28.

Quando poi le immagini sono stampate, si apre tutta una serie di ulteriori possibilità, re­centemente considerate da Alain Jaubert29, alle quali si devono aggiungere quelle corre­late all’uso dell’informatica, che, per esem­pio, facilita la colorazione di immagini in bianco e nero o la variazione dei toni in foto già a colori (e consente anche la modifica del rapporto tra altezza e larghezza delle imma­gini memorizzate), fino al totale sganciamen­to dell’immagine dalla realtà operato agendo sui singoli pixel richiamato in apertura.

24 Cfr. Jacques Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, voi. V, p. 1078 e G. De Luna, L’occhio e l ’orecchio, cit., p. 22.25 Un esempio in questo senso è l’archivio storico della Cinzano, presentato da De Luna (L'occhio e l ’orecchio dello storico, cit.).26 II film di propaganda del 1919 sull’affondamento della Santo Stefano (Ricostruzione sulle memorie di Luigi Rizzo, filmato di Gioacchino Gengarelli e Arturo Giordani, a cura dell’Unione cinematografica italiana di Edoardo Benciven- ga), costituisce un collage di immagini originali e di falsi particolarmente credibile. Abbiamo infatti: gli stessi mezzi e le stesse persone che presero parte all’azione (ma ripresi successivamente); scene originali dell’affondamento della Santo Stefano: interni della Santo Stefano (in realtà della gemella Tegetthoff, passata all’Italia come preda bellica). L’altro ele­mento di falsificazione è poi ovviamente costituito dal montaggio.27 Alla duplice selezione (ciò che si riprende e come e il montaggio) si aggiunge poi un terzo elemento, per cui le singole immagini possono non essere “meccaniche riproduzioni di avvenimenti reali”, come nel cinema documentaristico e di attualità (G. Rondolino, Il cinema, cit., p. 1162).28 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 401. Cfr. anche V. Castronovo, Mass media e storia contemporanea, cit., p. 100 e M. Giordano, Fotografìa e storia, cit. Tra i riferimenti obbligati vi è Susan Sontag, Sulla fotografìa, Torino, Einaudi, 1978.~9 Alain Jaubert, Commissariato degli archivi. Le fotografie che falsificano la storia, Milano, Corbaccio, 1993 (ed. orig. Parigi, Musée d’Art Moderne, 1986).

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In Commissariato degli archivi Jaubert af­fronta un argomento di grande rilievo, la ma­nipolazione a scopi politici dell’immagine fo­tografica fatta nel nostro secolo, demolendo così ogni pretesa di “oggettività” dell’imma- gine fotografica stessa. Il volume si legge con particolare interesse, sia perché rappresenta un unicum nel suo genere, sia perché è parti­colarmente efficace la presentazione delle di­verse “versioni” della stessa foto. Jaubert conduce cioè il lettore per mano, svelando, in un discorso essenzialmente per immagini, le falsificazioni attuate dai vari regimi politi­ci. Sono possibili comunque alcune osserva­zioni a margine della ricerca. L’autore insiste unicamente sulle manipolazioni effettuate dai regimi fascisti e comunisti, suggerendo implicitamente che l’uso di falsi fotografici sia assente (o molto limitato) nelle democra­zie. Nessun dubbio, naturalmente, sul fatto che la pluralità di enti autonomi nel campo delfinformazione costituisca il limite princi­pale alla falsificazione dei messaggi, ma an­che nessuna illusione sul fatto che la manipo­lazione delfimmagine non costituisca co­munque una consuetudine anche in sistemi democratici. Costruire allora il libro unica­mente sulla base di esempi tratti dalla storia del fascismo, del nazionalsocialismo e del “socialismo reale” implica il suggerire in qualche misura che l’uso propagandistico della fotografia sia nella sostanza confinato a precise esperienze storiche, all’esistenza di regimi privi di opposizioni politiche legitti­me, e cioè, appunto, alle esperienze alle quali si riferiva l’Orwell di 1984 richiamato nel ti­tolo del volume di Jaubert. Mentre, per fare un esempio, se si pensa ai manifesti elettorali dei nostri anni, certamente nessuna immagi­ne compete con quelle del Breznev eterna­mente cinquantenne presentato dall’icono­grafia ufficiale sovietica, ma non mancano

“abbellimenti” anche grossolani e insistiti di uomini politici. Si può poi aggiungere che la radio e la fotografia furono, negli anni trenta, i principali strumenti propagandistici impiegati dalle autorità statunitensi, mentre nei grandi regimi totalitari di massa “ l’uso propagandistico della fotografia (inclusa l’ef­figie del leader) era assai meno enfatizzato, a tutto vantaggio del monumento stradale, del­l’architettura monumentale, del film a sog­getto o del documentario cinematografico ri­tuale (e, si può ben dire, ‘monumentale’)”30.

Si può poi osservare che l’autore considera solamente un tipo di falsificazione possibile. Innanzitutto precisiamo che viene presa in esame una serie di falsificazioni, dal ritoccare allo scontornare (per esempio per cancellare personaggi indesiderati o stabilire nuove re­lazioni tra i soggetti), al tagliare (cioè operare fotomontaggi), reinquadrare (che è forse l’o­perazione più diffusa, anche senza intento falsificatorio: è anzi generalmente accettata la liceità di non riprodurre interamente una foto, anche se precisione documentaria im­porrebbe di indicarlo sempre), a cancellare del tutto quanto risulta indesiderato (elimi­nare cioè una parte non ai bordi dell’inqua­dratura, conservando il complesso dell’im­magine: ‘Teliminazione di Trockij è il model­lo universale che ha ispirato i ritoccatori ce­chi, ungheresi, jugoslavi e cubani”31). Un al­tro tipo di falsificazione è quello ottenibile operando sulla didascalia e, più in generale, sul contesto nel quale ogni immagine viene presentata, ma il primo momento della mani­polazione è la selezione di un certo numero di immagini all’interno di un più ampio insie­me.

Non si pensi però a prodotti finali sempre perfetti o quasi. Molte falsificazioni sono de­cisamente grossolane, in alcuni casi perché è lo stesso potere politico a voler mostrare di

30 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 397, anche per la spiegazione “della diffidenza per la fotografia in regimi come, ad esempio, il fascismo”.31 A. Jaubert, Commissarialo degli archivi, cit., p. 18.

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aver la possibilità di cancellare la stessa im­magine (e la memoria) dei propri avversari, in altri per la scarsa competenza dei censori o la convinzione di destinare le immagini a un pubblico assai poco in grado di esercitare capacità critiche32. Oggi anche il grande pub­blico rifiuta immagini di qualità scadente, a testimonianza di un’evoluzione del gusto e delle tecniche di riproduzione, che non impli­cano però anche una migliorata capacità di lettura critica delle immagini. Semmai, l’evo­luzione della tecnologia informatica consente manipolazioni impensabili sino a non molti anni fa33.

Le considerazioni finora svolte sono di ca­rattere generale. Riteniamo quindi necessario articolarle prendendo in considerazione alcu­ni esempi di come l’immagine fotografica è stata utilizzata sotto il profilo storico in volu­mi editi negli ultimi anni. La casa editrice Rizzoli ha di recente pubblicato un libro fo­tografico sull’occupazione tedesca, a cura di Silvio Bertoldi34, che costituisce, al pari di tanti altri volumi sull’argomento, una occa­sione perduta. E infatti evidente, per la quan­tità e la qualità delle immagini riprodotte, che l’autore ha avuto a sua disposizione ar­chivi sicuramente ricchi. Nondimeno ha fini­to per pubblicare molte immagini note e più volte utilizzate. Inoltre manca l’indicazione delle fonti delle immagini, una informazione sicuramente indispensabile per la loro lettura critica. Se anche si volesse sostenere l’inutilità dell’indicazione in una pubblicazione divul­gativa destinata a un largo pubblico, resta comunque il fatto che non è certo l’indicazio­

ne della fonte in ogni didascalia ad ‘appesan­tire’ il testo. Inoltre anche nelle opere divul­gative la ricerca dovrebbe essere condotta in maniera rigorosa, come un autore dalla va­sta esperienza di Bertoldi avrebbe potuto fa­re, a meno che non si voglia sostenere l’ap­partenenza della divulgazione a un genere condannato all’imprecisione e alla genericità.

L’impostazione dell’opera a capitoli tra lo­ro autonomi, ciascuno su un argomento a se stante, inoltre, crea delle duplicazioni nei di­scorsi fotografici, tanto da indurre il sospetto che il lavoro sia stato svolto da più collabora­tori. In ogni caso manca un sufficiente coor­dinamento fra le diverse parti, poiché, per esempio, la vicenda di via Rasella e delle Fos­se Ardeatine viene trattata due volte, nel ca­pitolo dedicato a “La tragedia degli ebrei di Roma” e poi in quello su “Kappler: un robot del nazismo”, con illogica dispersione del di­scorso. Va poi criticato, in un volume che ha forse l’ambizione di trattare in uno spazio li­mitato un argomento troppo vasto, l’utilizzo di immagini generiche, che possono servire come “poster” per indicare in termini vaghi una determinata vicenda storica, ma non co­me riferimenti fotografici da contestualizza­re. Il volume può destare l’interesse di chi non conosce dal punto di vista iconografico l’Italia occupata del 1943-1945, ma certo si poteva fare qualcosa di più dopo non poche pubblicazioni sull’argomento.

Del tutto diversa l’impostazione del volu­me di Angelo Pesce sullo sbarco alleato a Sa­lerno35, che costituisce il tentativo di rico­struire sulla base della documentazione foto-

32 Nota Sergio Romano nella prefazione ad A. Jaubert, Commissariato degli archivi, cit. (p. 11): “Le fotografie sono quasi sempre imperfette e portano vistosamente le tracce della falsificazione [...] Vi è in questi falsi una sorta di arro­gante sfacciataggine. I falsari non cercano di convincere: si limitano a proclamare e a imporre rozzamente la loro verità ideologica” .33 Cfr. Information Revolution (di Joel L. Swerdlow, foto di Louise Psihoyos, art di Alien Carroll), in particolare p. 33: “As computers become more powerful and software easier to use, more manipulation is possible and even probable. So where does that leave the viewer? More dependent than ever on the integrity of a publication to ensue the authenticity of its images”, "National Geographic”, voi. 188, n. 4, ottobre 1995.34 Silvio Bertoldi (a cura di), Album di una occupazione, Milano, Rizzoli, 1994.’5 Angelo Pesce, Salerno 1943 "Operation Avalanche", Santa Maria La Bruna, The Falcon Press, 1993.

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grafica giorno per giorno, se non ora per ora, lo sbarco alleato, avvenuto in stringente con­temporaneità con l’armistizio italiano e che costituì uno dei motivi che forzarono i tempi per una pubblica diffusione dell’avvenuta fir­ma.

L’autore ha raccolto i materiali negli ar­chivi americani, inglesi e, in minima parte, te­deschi, mentre l’assenza di immagini prove­nienti da archivi italiani si spiega con il fatto che la coincidenza dell’armistizio impedi la presenza di corrispondenti di guerra. La con­fusione e il dramma di quei giorni, inoltre, hanno fatto sì che fino ad ora non ci siano pervenute neppure foto scattate da singoli combattenti, fotografi dilettanti, general­mente una fonte alternativa più ricca di quel­la ufficiale.

All’insufficienza invece della documenta­zione di produzione tedesca — proveniente in parte dai Bundesarchiv e in parte da priva­ti — si sarebbe potuto in qualche misura ov­viare ricorrendo agli Etablissements Cinéma- tographiques et Photographiques des Ar- mées francesi, che conservano una ricca col­lezione di foto di provenienza tedesca e dove, dunque, con ogni probabilità sono conserva­te anche immagini di queU’avvenimento.

La prima cosa che colpisce sfogliando il volume è l’eccezionale qualità delle immagi­ni, a riprova dell’abilità dei fotografi ameri­cani e inglesi — professionisti dell’immagine dalla lunga esperienza prebellica —, pronti allo “scatto” anche in condizioni difficili e ri­schiose, senza rinunciare all’inquadratura e alla ricerca del valore storico del soggetto fo­tografato. L’autore avrà sicuramente dovuto scartare migliaia di immagini per lui meno si­gnificative ed è proprio dalla selezione che nasce il discorso da lui prodotto; in altri ter­mini avrebbe anche potuto “montare” un di­verso discorso sulla base di altre immagini. Si può poi aggiungere che Pesce ha operato una selezione sulla base delle immagini conserva­te (nulla si sa dell’esistenza di altre andate di­strutte), mentre l’assenza di foto scattate da

singoli combattenti di propria iniziativa ci priva di un punto di vista sovente assai meno “ufficiale” e più “spregiudicato”.

Date queste premesse, si possono fare al­cune considerazioni sul “racconto” cosi co­struito, che ha un tono generale “tranquillo”, nel quale le rare action photographs sparisco­no tra le immagini ufficiali degli “alti papave­ri”, quelle mielose che illustrano i buoni rap­porti tra soldati alleati e i ‘miserabili’ (termi­ne impiegato in senso proprio, senza inten­zione offensiva) abitanti della zona, quasi analoghi agli incontri dell’iconografia colo­nialista tra l’uomo bianco portatore di civiltà e il buon selvaggio. Anche le foto di guerra vera e propria sono state scattate nelle retro­vie, tanto tempo prima o dopo il combatti­mento da far nascere il sospetto che almeno in parte rappresentino scene ricostruite a sco­po propagandistico. Impressione avvalorata dal fatto che anche le poche immagini di ca­duti suscitano, più che orrore, un sentimento di pietà accompagnato da una serena mesti­zia. E l’osservazione sarebbe avvalorata con­frontando il volume con uno dei tanti pubbli­cati sulla guerra nel Pacifico o sul fronte rus­so, nel corso delle quali i corrispondenti, per loro maggiore sensibilità o per l’estrema cru­dezza degli scontri, hanno spesso fotografato scene che restituiscono tutta la tragicità e l’orrore della guerra.

L’autore ha in ogni caso raggiunto lo sco­po che si era prefissato, grazie soprattutto a immagini intrinsecamente drammatiche, co­me quelle degli ex internati razziali in coda per il rancio, dignitosi e “presentabili” nono­stante le circostanze, o toccanti come quella della bambina italiana nata durante la batta­glia, in braccio a una infermiera americana.

L’autore ha inoltre compiuto un notevole sforzo, oltre che nella ricerca e nella selezione del materiale, nella stesura delle didascalie e dei commenti affiancati alle immagini, tanto che ognuna è corredata dall’indicazione della data, della località e, quando possibile, dall’i­dentificazione delle persone fotografate, spe­

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cialmente quando si tratta di salernitani o di abitanti della zona. Sarebbe interessante, co­me si è detto, estendere la ricerca alla docu­mentazione prodotta dai tedeschi, né è colpa dell’autore non averlo fatto. Forse la carenza va addebitata al fatto che, spesso, degli avve­nimenti militari viene più facilmente traman­data l’immagine fornita dai vincitori, mentre i vinti restano muti.

Un altro lavoro particolarmente valido, sia dal punto di vista della qualità delle im­magini che da quello delle informazioni poste a loro corredo, è il catalogo della mostra sul­l’amministrazione militare alleata dell’Ap- pennino e la liberazione di Bologna36. Si trat­ta di una raccolta di fotografie selezionate da archivi americani, francesi e italiani, con net­ta preponderanza delle immagini provenienti dagli Stati Uniti. Di alcuni operatori (in par­ticolare Robert H. Schmidt) si ricostruisce anche il percorso professionale, mentre le im­magini sono accompagnate da quattro inte­ressanti saggi sugli ambienti ripresi, durante la guerra e dopo.

Le immagini vanno in questo caso consi­derate tenendo presente in particolare l’espe­rienza e la formazione dei fotografi, con tra­scorsi di foto d’ambiente sociale o di docu­mentazione, fotoreporter professionisti spes­so con molto “mestiere” alle spalle. Ogni fo­to è infatti ben costruita e di ottima qualità e anche le immagini d’azione (un po’ rare) ma­nifestano il tentativo di documentare am­biente e circostanze. Un elemento, questo, che suggerisce l’eccessiva professionalità dei fotografi nel cercare di creare prodotti di si­curo effetto. Molte inquadrature sono trop­po costruite, in particolar modo quelle relati­ve ai rapporti con i civili, con effetti di stati­cità attenuati dal fatto che il fotografo deve

aver scattato una serie di istantanee tra le quali ha scelto poi la migliore. Anche per queste immagini di guerra, come per tutte quelle dei corrispondenti americani in Italia, vale l’osservazione relativa al tentativo di far apparire i soldati americani come i “salvato­ri” di un popolo oppresso, mentre in altri tea­tri (ricordiamo ancora la guerra contro il Giappone) prevaleva l’immagine del solda­to-vendicatore. Una pregiudiziale sulla quale pesava probabilmente anche il fatto che una parte del pubblico che fruiva delle immagini era di origine italiana.

La parte più interessante del volume è pe­rò, forse paradossalmente, non quella dei combattimenti ma quella relativa alla libera­zione di Bologna, risultando raro poter vede­re una serie così completa e ben documentata di immagini sulla liberazione di una città. I volumi pubblicati negli anni passati su que­sto tema erano infatti per lo più viziati sia dalla limitatezza della selezione, sia da un commento che potremmo definire “entusia­stico” , cioè teso a sottolineare la rilevanza positiva dell’evento ma carente dal punto di vista dell’analisi storica. Nel caso di questo volume su Bologna, a parte alcune foto un po’ scontate (la solita ausiliaria fascista cat­turata dai partigiani, generalmente una bella ragazza circondata da individui che non pro­mettono nulla di buono), la maggior parte delle immagini costituiscono una completa documentazione dell’aspetto di una grande città nel travagliato momento del passaggio dalla guerra alla pace, suggerendo almeno in parte le passioni, i sentimenti, le sensazioni grazie alla ripresa di volti particolarmente espressivi. Si tratta, in altri termini, di un la­voro molto valido, dal punto di vista della qualità delle immagini e dell’informazione,

36 Vito Paticchia, Luigi Arbizzoni (a cura di), Combat Photo. L'Amministrazione militare alleata dell’Appennino e la li­berazione di Bologna nelle foto e nei documenti della 5“ armata americana, Bologna, Grafis edizioni, 1994, che raccoglie scritti di Luigi Arbizzoni, Remigio Barbieri, Vito Paticchia, Paolo Pombeni, Ezio Raimondi, Adriano Simoncini. La mostra è stata inaugurata alla Biblioteca comunale deH’Archiginnasio di Bologna il 21 luglio 1994 e successivamente presentata in molti comuni della zona.

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frutto di un metodo di ricerca che fornisce un ampio quadro storico della guerra in una del­le zone cruciali della campagna d’Italia.

A questo volume si può affiancare il cata­logo di un’altra mostra, relativa alla città di Siena37, curato da Claudio Biscarini e Vitto­rio Meoni. Il primo è noto nel settore della ri­cerca fotografica per il lavoro sul bombarda­mento di Poggibonsi, oltre che per altri volu­mi su Siena, costruiti secondo il metodo im­piegato anche in quest’ultimo caso38. Il volu­me costituisce il vero e proprio catalogo di una mostra, con un commento iniziale molto limitato e un discorso affidato alle sole im­magini e a brevi didascalie in quattro lingue, evidentemente redatte tenendo presente il pubblico estivo di una città turistica. Anche in questo caso le immagini utilizzate proven­gono da archivi americani (National Archi- ves e Smithsonian Museum), britannici (Im­periai War Museum e University of Keele), con un robusto apporto degli Etablissements Cinématographiques et Photographiques des Armées francesi, evidente per la notevole quantità di foto relative a reparti francesi, i primi ad entrare nella Siena liberata. L’opera si divide in quattro parti: dal dicembre 1943 al gennaio 1944, il momento più difficile per la città per i bombardamenti e l’occupa­zione tedesca (tuttavia non particolarmente dura rispetto ad altre esperienze); il periodo dal giugno al 4 luglio 1944, con il progressivo avvicinarsi del fronte; il luglio 1944, che vide la liberazione della città e il periodo dall’ago­sto al luglio dell’anno successivo, il “primo dopoguerra” per i senesi.

I materiali fotografici raccolti documenta­no prima i bombardamenti aerei sul capoluo­go e su altri centri vicini, poi l’avanzata dei reparti alleati attraverso Chiusi e gli altri co­muni del Senese, l’ingresso dei vincitori in cit­tà, la grande parata militare in piazza del Campo e il Palio organizzato per la fine della guerra. A parte le foto di stile tipicamente mi­litare (truppe in avanzata, mezzi nemici di­strutti, prigionieri, ecc.), rimpianto discorsi­vo risulta un po’ troppo localistico, a diffe­renza delle opere precedentemente segnalate che hanno un maggiore respiro. Pur essendo, infatti, anch’esse relative a un’area geografi­camente ristretta, riescono tuttavia a uscire dall’ambito locale sia per la rilevanza del fat­to storico documentato (lo sbarco di Anzio), sia, nel caso del volume su Bologna, per la maggiore considerazione di una globalità di aspetti relativi all’avvenimento della libera­zione.

Questa osservazione non toglie comunque nulla al valore del lavoro su Siena, sia per l’accuratezza della ricerca iconografica, sia per il commento alle immagini, conciso ma esauriente.

II recente catalogo su Rovereto durante la guerra, curato da Diego Leoni e Labrizio Ra­sera,39 si impone all’attenzione anzitutto co­me ricerca condotta in maniera corale, con la partecipazione di decine di persone, grup­pi, enti e aziende. Questo catalogo di due mo­stre tenutesi nella città si articola in otto capi­toli su altrettanti temi, che a loro volta affian­cano ricordi dovuti alla memoria e alla docu­mentazione fotografica, testimonianze cioè

37 Istituto storico della Resistenza, Provincia di Siena, Comune di Siena, Siena 1944. Guerra e liberazione. Mostra foto­grafica 3 luglio-16 agosto 1994, a cura di Claudio Biscarini e Vittorio Meoni, Siena, Nuova immagine, 1994.3S Claudio Biscarini, Franco Del Zanna, Poggibonsi 1943-1944, Poggibonsi, Lalli editore, 1993; C. Biscarini, 1944: i francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova immagine, 1991; Id., 1944: la liberazione di Murlo: storia e immagini delle operazioni militari 1943-1944, Siena, Nuova immagine, 1993; C. Bisca- retti, Paolo Paoletti, V. Meoni, 1943-1944: vicende belliche e Resistenza in terra di Siena, Siena, Nuova immagine, 1994. Un altro volume fotografico di sicuro interesse è Nino Bisi, Empoli il giorno di Santo Stefano, Poggibonsi, Lalli editore, 1993.37 Diego Leoni, Fabrizio Raserà (a cura di), Frammenti di un’autobiografia di una città. Rovereto 1940-1945, Rovereto, Edizioni Osiride - Materiali di lavoro, 1993 (Laboratorio di storia dell’Università della terza età e del tempo libero).

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di persone e immagini provenienti da archivi pubblici e privati. In questo volume l’imma­gine assume un ruolo centrale nell’imposta­zione del lavoro, è cioè paritaria come quan­tità e qualità al testo scritto, agli antipodi del più consueto ruolo di subalternità o addirit­tura di “contorno” rispetto alla memoria orale o scritta. Che l’impostazione del volu­me sia essenzialmente fotografica risulta an­che dalla cura e dalla ricerca svolta per in­quadrare ogni immagine nel proprio conte­sto. Particolarmente interessanti sono i capi­toli sui bombardamenti di Rovereto e quello, abbastanza sconosciuto, relativo al Corpo di sicurezza trentino, che riunì i trentini che, vo­lenti o nolenti, dopo l’8 settembre prestarono servizio militare a fianco dei tedeschi, sia nel­la Flak che in questo corpo, nel quale, al di là del nome che ne sottolineava il reclutamento e la dislocazione, si tentò di offuscare l’italia­nità della regione, come ricordano coloro che ne fecero parte.

Di notevole interesse è anche il capitolo “Dialogo di un venditore di arazzi e di un passeggere”, un testo di Diego Leoni che ri­costruisce con ironia il pensiero di Fortunato Depero sul fascismo, il tutto illustrato con ri- produzioni di opere plastiche e grafiche per lo più ignote di Depero aventi per tema il fa­scismo e lo sforzo bellico.

Uno dei problemi che ci si pone quando si legge — e si guarda — un libro di storia foto­grafica è se il lavoro di ricerca riesce ad af­francarsi da un ambito strettamente locale o settoriale avviando così un discorso storico di carattere generale. Data la diversità degli argomenti trattati, in questa ricerca alcuni capitoli conseguono risultati particolarmente significativi, come quello appunto su Depe­ro, la cui vicenda è paradigmatica di quella di molti artisti durante il ventennio. Altri ca­pitoli, come quello relativo ai bombardamen­

ti sulla città, nell’apparente somiglianza e ri­petitività rispetto a centinaia di altri bombar­damenti su altre città italiane, divengono una tessera importante del tragico mosaico della guerra. In altri casi è maggiore il legame con la realtà locale, e, dal punto di vista della ricerca fotografica, è più forte il condiziona­mento dovuto alla scarsità del materiale. Po­co sviluppato rispetto alla realtà locale è per esempio il settore delle immagini che docu­mentano le lavorazioni di guerra negli stabi­limenti della zona, in particolare quello del­l’attivissima Caproni.

Risulta in ogni caso interessante il tentati­vo di descrivere in tutti i suoi aspetti, soprat­tutto nella dimensione della vita quotidiana, la guerra in una cittadina di provincia, senza indulgere a schematismi drammatizzanti. Se non mancano le immagini d’orrore, i morti per i bombardamenti o gli attentati, la “nor­malità” dell’esistenza in tempo di guerra — normalità spesso dimenticata — viene resti­tuita dalle gite aziendali e dai bambini sfollati nei paesi nei dintorni di Rovereto.

Sfugge però alla documentazione fotogra­fica una delle più dolorose presenze della guerra descritte nel testo, e cioè la fame e la miseria. E probabilmente una tendenza quasi irrefrenabile, quando si posa davanti a un obiettivo, sforzarsi di assumere un aspetto di­gnitoso, cercando di nascondere almeno in parte le proprie sofferenze, sebbene molte fo­to restituiscano una semplicità di vita e con­sumi non più riscontrabili nel nostro paese. O forse, più semplicemente, molte immagini ritraggono persone più povere ma più ricche di speranze: una delle migliori foto è forse l’ultima, quella delle due ragazze che, liberate dal campo di concentramento di Bolzano, sorridono, nonostante tutto, al futuro.

La recente mostra La Gioconda di Lvov40 è invece esplicitamente costruita come tentati-

4U Sulla mostra inaugurata ad Aosta — curata da Ando Gilardi, Adolfo Mignemi, Paolo Momigliano Levi, Patrizia Piccini, Angelo Schwarz e organizzata dal Comitato valdostano per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della Resistenza, della liberazione e dell’autonomia, dall’Istituto storico della Resistenza in Valle d’Aosta, dall’Associazione

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vo di rendere possibile la lettura di un mate­riale fotografico agghiacciante, quello relati­vo al genocidio nazista, il cui impatto è però stato intaccato — a volte quasi annullato — dalla iterazione del messaggio stesso. “Il trauma delle atrocità fotografate svanisce ve­dendole ripetutamente” , scrive Susan Son- tag41: gli autori di questa mostra sono piena­mente consapevoli del pericolo e riescono a trattare l’argomento in maniera originale. Ma soprattutto riescono a contestualizzare fotografie di orrori che sono spesso divenute — e sono spesso presentate come — simboli del “male” , finendo, per questo, per essere collocate in una dimensione sottratta alla spiegazione storica.

La mostra viene costruita attraverso lo stretto reciproco rimando tra fotografie da una parte e studi, memorie e documenti dal­l’altra. Gli autori di questa iniziativa origina­le e di notevole interesse esplicitano lo scopo dell’operazione — “Il testo delle pagine spie­ga il significato dell’immagine e l’immagine illustra e conferma il testo” — ed esprimono la propria convinzione sulla necessità di que­sto interscambio ricorrendo a un’iperbole ap­parentemente diminutiva dell’utilità del do­cumento fotografico: “diecimila immagini non valgono un solo capitolo di uno dei libri che si suggeriscono”; le immagini sono usate “per sollecitare a leggere alcuni libri”42.

“Iperbole” in quanto l’attenzione alle con­dizioni e ai passaggi che consentono la lettura di una fotografia non implica una minore at­

tenzione e cura filologica nella scelta delle im­magini — e non a caso tra gli autori della mo­stra vi sono noti specialisti in ricerca fotogra­fica. Le 109 fotografie (“realizzate non per es­sere mostrate e diffuse presso il grande pubbli­co, non da fotografi professionisti, e nemme­no prodotte da fotoamatori — così come oggi si dice — ‘evoluti’, ma [...] realizzate da sem­plici e spesso maldestri dilettanti, come ricor­do visivo privato della loro esperienze perso­nale”) sono dunque di diversa provenienza, altrettanti snodi di un percorso critico che ha anche il compito di traformare testimo­nianze della ferocia umana in precisi docu­menti di un’epoca e di un sistema di potere. La premessa di Ando Gilardi e le didascalie spiegano dunque le origini dei fotogrammi — da quelli opera di soldati e civili, ai foto­grammi tratti da riprese filmate tedesche di propaganda, alle immagini dovute a fotore­porter americani e britannici giunti nei lager subito dopo la fine della guerra — sia in senso tecnico, sia fornendo una serie di elementi cri­tici che consentono la lettura di questi docu­menti, dalle indicazioni sugli autori a quelle sui percorsi seguiti dalle immagini giunte fino a noi. In questo modo i curatori della mostra offrono una serie di documenti fotografici strettamente legati dal punto di vista temati­co, insieme agli elementi necessari alla loro let­tura, sottraendosi ai pericoli insiti nelle imma­gini dal forte impatto emotivo.

Una valutazione complessiva delle opere esaminate non può che essere molto positiva.

nazionale ex deportati e dalla Fototeca storica nazionale (Milano) — si può consultare La Gioconda di Lvov. Immagini “spontanee" e testi relativi ai fatti dello Sterminio, Aosta, 1995. Si tratta di un opuscolo di 31 pagine seguito da 114 fogli di 4 pagine ognuno. Nel primo sono stampate le introduzioni alla mostra — si veda in particolare il testo di Ando Gilardi, Un capitolo mancante nella storia della fotografia — mentre 109 fogli riportano una fotografìa in prima pagina, brani di com­mento nelle due pagine interne e, nell’ultima, la didascalia e “una stella gialla o altri segni cuciti addosso alle vittime del nazismo”. Gli altri fogli contengono materiali diversi tra cui una bibliografia e una introduzione alla mostra. All’opera si può fare soltanto un appunto: questa forma a foglietti staccati non favorisce certo la conservazione, ma la configura conme uno strumento di lavoro di rapido consumo. Forse è stata cosi composta per favorire una fruizione di tipo scolastico, ma la soluzione adottata rende comunque il lavoro un prodotto culturale almeno in parte sprecato.41 S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 19.4~ Scrive A. Gilardi (Un capitolo mancante nella storia della fotografia, cit., p. 23): “Nell’assenza degli ormai riconosci­bili cadaveri delle arcinote fosse comuni, le altre immagini della Fotografia dello Sterminio hanno un significato solo in

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Esse dimostrano che molti ricercatori sono in grado di effettuare serie ricerche negli archivi fotografici di guerra43, valutando l’impor­tanza delle diverse immagini e identificando esattamente tempi, luoghi, persone e circo­stanze, mentre contemporaneamente — ma accenniamo soltanto a questo tema — anche molte opere divulgative sono corredate da un apparato fotografico preciso, spesso origina­le e strettamente correlato al testo, tanto da costituirne una diretta integrazione44.

Sarebbe quindi auspicabile superare sem­pre più un uso impreciso e generico delle foto di guerra43, considerate mere “appendici” ai testi. Alle origini dell’approccio documenta­rio alla fotografia di guerra vi sono probabil­mente i volumi fotografici di storia locale e quelli di storia militare relativi alle armi e ai mezzi, spesso al confine del collezionismo. Un’ultima critica applicabile a quasi tutti i volumi oggi disponibili è l’assenza, nelle di­dascalie, delle indicazioni relative alla prove­nienza dell’immagine, al suo numero di cata­logazione, all’autore nei rari casi in cui è pos­sibile l’identificazione, e via dicendo. Ma è proprio, naturalmente, il limitato uso docu­

mentario della fotografia ad aver ostacolato anche la stesura, per ciascuna immagine, dei riferimenti completi indispensabili per un suo uso critico, così come viene normalmente fatto presentando un documento (scritto) d’archivio.

Confrontando il loro lavoro con molti dei volumi citati, appare evidente che i seleziona­tori dei filmati della serie televisiva “Combat film” (prima serie) devono ancora fare parec­chia strada per raggiungere i migliori ricerca­tori fotografici. Anche nella seconda serie gli autori del programma, pur appoggiandosi a seri studiosi — forse più usati per legittimare la pretesa scientifica del programma stesso che per impostare effettivamente il discorso svolto attraverso le immagini — per esamina­re i documenti visivi selezionati, dimostrano di cadere ancora negli equivoci — e nelle trappole — di una documentazione di propa­ganda bellica, magari — ma è una ipotesi — trascurando immagini forse meno appari­scenti, suggestive o drammatiche, ma di mag­giore valore storico.

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rapporto alla cultura degli eventi acquisita con la lettura di testi storici affidabili [...] La Fotografia ha una efficacia il­lustrativa e educativa, secondo la quantità di conoscenza storica relativa, che il soggetto possiede e amalgama con le immagini” .4:! E ovviamente non soltanto in quelli di guerra. Si potrebbero citare ovviamente vari autori, ed è significativo anche un interesse specifico di molte riviste per la fotografia, da “Passato e presente” a “Ventesimo secolo”, fino a riviste anche in misura più o meno ampia divulgative (differenti per impostazione e risultati) come “Storia e dossier”, “Rivista sto­rica”, “Storia illustrata” e “Storia militare” (alla quale chi scrive collabora direttamente). La quasi neonata rivista “Memoria e ricerca” dedica una rubrica alla documentazione iconografica: cfr. gli articoli di Piero Lucchi, Edoardo Turci, Sant’Angelo di Gatteo, anno 1937-XV: vivere nel "Tignai", (1993, n. 1) e di Giordano Conti, Sergio Leonetti, I! mondo di sotto. Immagini di vita e lavoro per un museo della Romagna mineraria (1994, n. 2). Mentre questo articolo è in corso di stampa è uscito un volume di notevole interesse, la Storia fotografica della Resistenza, a cura e con Intro­duzione di Adolfo Mignemi (Torino, Bollati Boringhieri, 1995).44 Si vedano per esempio i volumi di Marc Ferro, La seconda guerra mondiale. Problemi aperti, e di Enzo Collotti, Hitler e il nazismo, editi nella “Collana XX secolo” di Giunti gruppo editoriale (Firenze) rispettivamente nel 1993 e nel 1994. 43 Spesso le foto o i filmati che appaiono in servizi di attualità o anche in ricostruzioni storiche si riferiscono a zone, contendenti, periodi diversi da quelli trattati dal testo redatto dall’autore della trasmissione. Sicuramente influisce la difficoltà di avere sempre immagini precise, ma soprattutto divengono determinanti il disinteresse per un uso delle im­magini accurato e preciso dal punto di vista documentario e l’attenzione prevalente al risultato estetico e drammatico. Un discorso analogo vale per molte videocassette (cfr. Giuliana Muscio, Il dibattito sulla Resistenza nelle videocassette edite, “Protagonisti” , n. 56, 1994).

ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTOD I LIBERAZIONE

Gianni Perona (a cura di), Formazioni autonome nella Resistenza. Documenti, Milano, Angeli, 1996, pp. 563, lire 72.000.

Le quattro serie di documenti raccolte in questo volume sono la continuazione del lavoro di edizione di fonti promosso daH’Insmli che ha già visto la pubblicazione degli A tt i d e l C o m a n ­d o g e n e ra le d e l C o rp o vo lo n ta ri d e lla lib e rtà (Angeli, 1972), de L e b r ig a te G a r ib a ld i ne lla R e s is ten za (Feltrinelli, 1979) e de Le fo rm a z io n i G l n e lla R e s is te n za (Angeli, 1985). Con que­sto volume - che analizza l’universo variegato delle formazioni partigiane nelle quali si rac­colsero patrioti che ritenevano preminenti, su quelli partitici, interessi definibili genericamen­te come nazionali o di importanza regionale - si arricchisce così un c o rp u s fondamentale per lo studio della Resistenza armata.

IndiceGianni Perona, U na le ttu ra d e i d o c u m e n ti p a r t ig ia n i; 1. I m ilita r i n e l C o m a n d o g e n e ra le , a cura di Gaetano Grassi e Gabriella Solaro; D o c u m e n ti; 2. L e fo rm a z io n i O s o p p o Friu li, a cu­ra di Alberto Buvoli; D o cum e n ti, 3. Il p r im o g ru p p o d i d iv is io n i a lp in e in P iem on te , a cura di Luciano Boccalatte; D o c u m e n ti 4. M ilita r i e R e s is te n za in Toscana, a cura di Maria Giovan­na Bencistà e Giovanni Verni; D o cu m e n ti. Indice dei nomi; Indice dei nomi geografici; Indice degli enti e degli organismi.

ITALIA CONTEMPORANEAAcquisto di singoli fascicoli: è possibile ricevere, senza aggravio di spe­se postali, singoli numeri di “ Italia contemporanea” al prezzo unitario di co­pertina di lire 25.000.

Abbonamento annuo 1996: lire 80.000 per l’Italia e lire 110.000 per l’estero.

I versamenti devono essere eseguiti sul CCP n. 16835209 intestato all’Isti­tuto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Piazza Duomo 14, 20122 Milano), specificando se si tratta di abbonamento o della richiesta di uno o più fascicoli. I singoli numeri della rivista possono anche essere inviati, a richiesta, in contrassegno.

La “lotta di classe nella scienza storica”Il processo contro gli accademici sovietici 1929-1931

Antonella Salomoni

Con la pubblicazione del volume iniziale di una ricca collezione di documenti intitolata Akademiceskoe deio 1929-1931 gg. [Il proces­so agli accademici. 1929-1931] si può final­mente cominciare a conoscere il contenuto di uno dei primi e forse dei più importanti processi politici dell’età staliniana1. Ma so­prattutto, secondo l’intenzione esplicita dei curatori, si possono ricostruire le complesse modalità di “fabbricazione” giudiziaria del caso ad opera della speciale commissione in­caricata di allestire e concludere l’inchiesta. L’intera vicenda venne definita come Vakade­miceskoe deio, perché coinvolse un nutrito gruppo di studiosi e ricercatori dell’Accade­mia delle scienze dell’Unione delle repubbli­che socialiste sovietiche (AN SSSR). Gli arre­sti degli indiziati, che cominciarono nell’otto­bre del 1929, coinvolsero oltre cento persone e portarono alla fine dell’autonomia della prestigiosa istituzione scientifica russa. Fra gli studiosi implicati figuravano quattro illu­stri membri ordinari dell’Accademia (SergejF. Platonov, Evgenij V. Tarle, Nikolaj P. Li- chacev, Matvej K. Ljubavskij) e cinque soci

corrispondenti, oltre a numerosi esponenti degli istituti superiori di ricerca, al centro e in periferia. Gli storici, in particolare, furono accusati di aver svolto attività controrivolu­zionaria collaborando alla creazione dell’U­nione nazionale di lotta per la rinascita di una Russia libera. Questa organizzazione si sarebbe proposta di abbattere il potere sovie­tico e ristabilire la monarchia; avrebbe allac­ciato rapporti con l’emigrazione bianca e con i rappresentanti di alcuni governi stranieri; avrebbe allestito una rete spionistica interna nell’interesse di altre potenze. L’inchiesta si protrasse per oltre un anno e si concluse con la condanna di quasi tutti gli imputati al­la fucilazione o a dure pene detentive. La re­visione del processo sarà avviata immediata­mente dopo il XX congresso e si concluderà nel 1966-1967 con la piena riabilitazione delle vittime2.

Il primo volume della collezione Akademi­ceskoe deio 1929-1931 gg. contiene i materiali riguardanti uno dei principali accusati, Ser­gej Fedorovic Platonov (1860-1933), al quale fu assegnato il ruolo di capo della presunta

1 Akademiceskoe deio 1929-1931 gg. [Il processo agli accademici. 1929-1931], voi. I, Deio po obvineniju akademika S. F. Platonova [Gli atti di accusa contro l’accademico S. F. Platonov], Sankt-Peterburg, Biblioteka Rossijskoj Akademii nauk, 1993. Il comitato di redazione del volume è formato da Z. I. Alferov, B. V. Anan’ic, V. P, Leonov, E. V. Lukin, V. M. Panejach, S. V. Stepasin, A. N. Camutali. L’edizione è a cura di V. P. Zacharov, M. P. Lepechin e E. A. Fomina.2 Per avere informazioni precise sulle pene inflitte e sul successivo destino dei condannati, cfr. Akademiceskoe deio, cit., voi. I, pp. XLVIII-XLIX. Sul processo di riabilitazione delle vittime delle repressioni avviato immediatamente dopo la morte di Stalin, vedi A. P. Van Goudoever, The Limits of Destalinization in the Soviet Union. Political Rehabilitations in the Soviet Union since Stalin. New York, St. Martin’s Press, 1986; Maria Ferretti, La memoria mutilata. La Russia ri­corda. Milano, Corbaccio, 1993, pp. 25-49.

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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“unione controrivoluzionaria”3. Platonov è stato un protagonista della storiografia libe­rale russa del primo novecento. Oltre che alla smuta (l’epoca dei torbidi tra Cinquecento e Seicento), ha legato le sue ricerche al tema del ruolo predominante dello Stato nello svi­luppo e condizionamento della storia russa, insistendo soprattutto sul fatto che, per via dell’incessante e molteplice pressione militare sui confini dell’impero, l’organizzazione in­terna della società è sempre stata subordinata alle necessità belliche. Non c’è da stupirsi dunque che, con la dissoluzione dell’Urss, vi sia stata una crescente valorizzazione della sua opera critica: una rivalutazione culmina­ta nella ripresa da parte di diverse case editri­ci del manuale di storia russa preparato per la scuola secondaria nel 1909-19IO4.

Nel periodo prerivoluzionario, proprio at­torno a Platonov si era formata una tenden­za, che ha poi ricevuto il nome di Scuola pie- troburghese degli storici russi, orientata — come si diceva allora — verso lo studio, “im­parziale” dei fatti e impegnata nell’analisi, “obbiettiva” delle fonti, oltre che interessata (come del resto numerose altre correnti della storiografia occidentale) alla definizione del­le leggi di sviluppo storico delle nazioni. È in­fatti solo l’accettazione dell’idea che vi sia una legge che determina il corso locale degli avvenimenti a giustificare la fondatezza di uno studio che sia imparziale e di un’analisi che sia obbiettiva. Platonov viene oggi consi­derato, dalla cultura russa, come modello dello “storico-oggettivista” (istorik-ob’ekti- visi), del “fattografo” (faktograf); come so­stenitore di un realismo scientifico che si af­ferma in primo luogo con un approccio alla

fonte storica non inquinato da mediazioni ideologiche.

L’interesse odierno per Platonov è indice di un’attenzione molto più vasta per quella scuola storica “positivistica” composta da uomini attenti ai metodi di ricerca del marxi­smo (soprattutto legale), ma culturalmente estranei al sistema dei partiti socialdemocra­tici e politicamente refrattari alla rivoluzione bolscevica. Molti di questi storici, all’inizio degli anni venti, rifiutarono sia la scelta del­l’emigrazione che quella dell’adeguamento ideologico. Essi, sostenendo la possibilità di una scienza storica apartitica, iniziarono la loro collaborazione con il potere comunista e cercarono di rimanere ben saldi all’interno delle prime istituzioni sovietiche. Platonov, ad esempio, a partire dalla primavera del 1918, affianca lo studioso marxista David B. Rjazanov nella salvaguardia e riorganiz­zazione degli archivi e delle biblioteche di Pietrogrado. Come direttore della sezione lo­cale dell’Archivio centrale (1918-1923), svol­ge un’attività capitale per la riunificazione dei più importanti fondi archivistici ereditati dai dicasteri e dalle amministrazioni del vec­chio regime. Ricopre poi, nella sua intensa “carriera sovietica”, numerosi altri incarichi di prestigio: è presidente della Commissione archeografica (1918-1929), direttore dell’Isti­tuto archeologico (1918-1923), presidente della Sezione archeologica della facoltà di scienze sociali dell’università di Pietrogrado (dall’aprile del 1923), direttore della Com­missione di studio per la storia del lavoro in Russia, presidente della Società archeologi­ca, dell’Unione degli archivisti e del Comita­to per lo studio della pittura anticorussa, ol-

3 Gli editori hanno già annunciato che il secondo volume conterrà i materiali dell'inchiesta contro lo storico Evgenij V. Tarle. E anche previsto uno speciale volume di consultazione con l’elenco di tutti i documenti pubblicati, un indice an­notato degli autori citati e un indice cronologico per l’intera edizione.4 Cfr. Sergej F. Platonov, Ivan Groznyj [Ivan il Terribile], Moskva, Vsesojuznaja knionaja palata, 1991; Id., Ucebnik russkoj istorii [Manuale di storia russa], Moskva, Progress-politika, 1992; Id., Lekcii po russkoj istorii [Lezioni di storia russa], Moskva, Vyssaja skola, 1993; Id., Sobranie socinenij po russkoj istorii [Raccolta delle opere di storia russa], 2 voli., Sankt-Peterburg, Strojlespecat’, 1993-1994; Id., Ucebnik russkoj istorii dlja srednej skoly [Manuale di storia russa per la scuola secondaria], Moskva, Zveno, 1994.

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tre che redattore di importanti riviste specia­lizzate. Il 3 aprile 1920 è eletto membro effet­tivo dell’AN SSSR e nel 1922 gli viene affida­ta la direzione della Commissione storica permanente. Nel 1925 è nominato direttore della Casa Puskin e della Biblioteca dell’AN SSSR. Il 7 marzo 1929 l’assemblea generale dell’AN SSSR lo elegge accademico-segreta­rio della sezione di scienze umane5.

Gli studi che abbiamo a disposizione per comprendere adeguatamente la “carriera so­vietica” di un uomo come Platonov (sia per quanto riguarda il versante della volontà di promozione di uno specialista senza partito, sia per quanto riguarda la disponibilità del­l’interessato a farsi coinvolgere come orga­nizzatore di cultura in un sistema politico che non condivideva) sono ancora pochi e piuttosto modesti. Per quanto Platonov non vi venga nemmeno citato, si può ritenere tut­tavia ch’egli faccia legittimamente parte di quell’intreccio che Mikhail Agursky, ne La terza Roma, ha chiamato “la continuità cul­turale”6. A questo proposito ci possono esse­re di qualche aiuto alcune osservazioni intro­duttive delle Lezioni di storia russa dello stes­so Platonov (iniziate nel 1899), oggi frequen­temente citate come esempio a chi, intrapren­dendo il lavoro di storico della Russia, voglia

sostituire alle generalizzazioni economicisti­che sovietiche quelle derivanti dalle partico­lari leggi di sviluppo della nazione7. Si tratta di enunciati analoghi a quelli che, dal provvi­sorio esilio parigino, esprimerà, accettando lo schema “nazionalbolscevico” , l’ultimo procuratore del sinodo della chiesa russa: “Nel paese [la Russia] in cui è stata procla­mata, [l’idea comunista] non produrrà alcun risultato. La rivoluzione, spogliata di tale idea, seguirà il cammino della necessità stori­ca, sottomettendosi alle catene delle leggi del­la storia”8. Chi conosce la letteratura storica della socialdemocrazia russa bolscevica e poi del partito comunista dell’Urss, una produ­zione costruita come applicazione dell’idea di “necessità” e di “legge”, dovrà riflettere di più sulle contrapposte implicazioni politi­che di un metodo di lavoro che, per troppi versi, coincide. E allora avrà forse meno mo­tivi per stupirsi dell’inversione improvvisa che si verifica nella “carriera sovietica” di Platonov e dell’apertura del processo agli storici dell’Accademia delle scienze. L’8 no­vembre Platonov è costretto a dimettersi dal­l’incarico di accademico-segretario della Se­zione di scienze umane, oltre che dal posto di membro del Presidium dell’AN SSSR. Il 12 gennaio 1930 viene arrestato dalla polizia

5 Sullo storico Platonov, cfr. Viktor S. Bracev, Opasnaja professija — istorik. Stranicy zizni akademika S. F. Plalonova [Una professione pericolosa: lo storico. Pagine di vita dell’accademico S. F. Platonov], “Vestnik AN SSSR”, 1991, n. 9, pp. 65-73; Id., Zizn’ i trudy S. F. Platonova [La vita e le opere di S. F. Platonov], in S. F. Platonov, Sobranie socinenij, cit., voi. I, pp. 11-33, e il profilo biografico pubblicato in Akademiceskoe deio, cit., voi. I, pp. LXIII-LXXIV. Per alcuni aspetti particolari dell’attività di Platonov durante il primo decennio postrivoluzionario, si possono aggiungere: Viktor S. Bracev, Zarubeznyepoezdki akademika S. F. Platonova [I viaggi all’estero dell’accademico S. F. Platonov], in lz istorii rossijskoj emigracii [Sulla storia deU’emigrazione russa], Sankt-Peterburg, Tret’ja Rossija, 1992; Id., 1917 goda v osve- scenii S. F. Platonova [L’anno 1917 secondo S. F. Platonov], in Rossija v 1917 godu. Novye podchody i vzgljady [La Rus­sia nel 1917. Nuove concezioni ed opinioni], voi. II, Sankt-Peterburg, Tret’ja Rossija, 1993.6 Mikhail Agursky, La terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, Bologna, Il Mulino, 1989.7 Cfr. Sergej F. Platonov, Lekcii po russkoj istorii [Lezioni di storia russa], in Id., Sobranie socinenij, cit., voi. I, p. 40: “Per comprendere la natura e il significato di un determinato fatto nella storia della Rus’ [kieviana], lo storico russo può cercare delle analogie nella storia universale. Con i risultati raggiunti, egli può essere di aiuto a chi si occupa di storia universale e dare il proprio contributo alla fondazione di una sintesi storica generale. Ma a questo si limita il suo legame con la storia generale e la sua influenza su di essa. Lo scopo ultimo della storiografia russa resterà sempre la costruzione di un sistema del processo storico locale”.8 Vladimir L’vov, Sovetskaja vlast’ v bor'be za russkuju gosudarstvennost' [Il potere sovietico in lotta per l’edificazione dello stato russo], Berlin, 1921, pp. 3-4. Cfr. M. Agursky, La terza Roma, cit., p. 421.

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politica (OGPU) di Leningrado. Espulso dal- l’AN SSSR e condannato alla deportazione, muore a Samara, per malattia, il 10 gennaio 1933.

Il caso Platonov va letto nel quadro della trasformazione del ruolo sociale delle discipli­ne storiche nella Russia sovietica degli anni venti. Si poteva, nel momento stesso in cui il comuniSmo al potere si accingeva a dotare l’Urss del suo mito fondatore (la “lotta di clas­se”), affidare la definizione delle leggi di svi­luppo della storia proprio a chi vedeva iscritto in queste leggi il processo di riduzione dell’e­vento rivoluzionario (l’apice armato della lot­ta di classe) al corso generale della storia rus­sa? Si poteva accettare la presenza, ai vertici “amministrativi” della disciplina, di specialisti il cui principale obbiettivo era quello di pre­sentare tutto il processo storico (anche la lotta di classe) come manifestazione del ruolo cen­trale dello Stato nella storia russa? Si poteva, quando ormai era chiaro che si trattava di co­struire il socialismo in un solo paese, lasciare circolare l’idea che l’organizzazione (militare) della società fosse determinata — come nel­l’antica Russia — dai nemici in armi sui con­fini invece che dall’ideologia comunista?

Una serie di interventi dello Stato (fonda­zione di alcuni importanti enti di ricerca co­me l’Accademia comunista, l’Istituto per la storia del partito, l’Istituto dei professori ros­si, l’Istituto Lenin, l’Istituto Marx-Engels e l’Associazione degli istituti di scienze sociali) aveva gettato le basi per organizzare, a tutti i livelli, una “spiegazione comunista” degli eventi del passato, anche quello più remoto. Non restava che concluderla con l’assogget­tamento definitivo delle istituzioni che non volevano accettare le leggi “comuniste” di

sviluppo della storia russa e, operando il ri­getto dell’interpretazione di Stato che stava “creando” il passato, rompevano lo schema primario messo alla base del “patto” stabili­to tra il governo sovietico e gli specialisti su­bito dopo la Rivoluzione d’ottobre. Lo sche­ma, proposto dal potere comunista e accetta­to da molti intellettuali di mestiere, prevede­va infatti, per esprimerci nel linguaggio di Platonov, “l’obbligo di raccogliere semplice- mente i fatti e illustrarli” , cioè “dare loro un’elaborazione scientifica elementare”, pri­ma di consegnarli a coloro che, reggendo l’uf­ficio delle generalizzazioni, avevano il compi­to di organizzarli in ideologia di Stato9.

Tra le principali operazioni d’assoggetta­mento vanno ricordate: la cessazione dell’in­segnamento delle materie storiche nella scuo­la secondaria; la liquidazione delle facoltà storico-filologiche e la svalutazione dei loro saperi. Non si deve però pensare che lo stato operaio, rinunciando ad uno dei principali dispositivi di formazione dello stato moder­no, avesse elaborato un progetto per costi­tuirsi ed esistere come stato senza un “passa­to” ; avesse stabilito un progetto di società che, per fondare la propria identità, non avesse bisogno della “storia” . Lo stato ope­raio, orientando dapprima gli operatori cul­turali verso tematiche di attualità — legate tutte alla storia della lotta di classe — e poi cercando di costituire il grande archivio “orale” della rivoluzione, si sforzerà proprio di sostituire la “memoria” dei protagonisti alla “storia” dei ricercatori. Il nuovo orienta­mento che si fa strada è quello della “lotta di classe sul fronte storico” , sostenuto dalla “scuola marxista” di Michail N. Pokrov- skij10, che riteneva giunto il momento di su-

9 S. F. Platonov, Lekcii po russkoj istorii, cit., p. 40.10 Sulla figura di Michail Nikolaevic Pokrovskij (1868-1932), cfr. George M. Enteen, The Soviet Scholar-Bureaucrat. M. N. Pokrovskii and the Society of Marxist Historians, University Park (London), Pennsylvania State University Press, 1978; John Barber, Soviet Historians in Crisis 1928-1932, London, Macmillan, 1981; A. A. Cernobaev, "Professor s pi- koj”, ili tri zizni istorika M. N. Pokrovskogo [Il “professore con la picca”, o le tre esistenze dello storico M. N. Pokrov­skij], Moskva, 1992.

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perare l’epoca del compromesso con gli stu­diosi non bolscevichi11. Venne creata una “li­nea di combattimento” contro gli storici “borghesi”, considerati avversari della classe operaia e del governo proletario, apologeti di un altro ordine sociale11 12. L’AN SSSR era considerata uno dei santuari del loro potere e bisognava piegarla ai disegni dello Stato operaio.

L’accademia si presentava in effetti, fino al 1929, come un centro di studiosi senza parti­to. Pur contrastando la Rivoluzione d’otto­bre, aveva accettato i rivolgimenti della vita politica del paese offrendo la sua collabora­zione al governo bolscevico. Aveva sostan­zialmente conservato la sua autonomia, di­fendendo le prerogative di cui godeva contro tutti i tentativi dello stato sovietico di regola­mentare l’attività degli enti di ricerca. Il 31 maggio 1927, il Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom) approvò però un nuovo statuto, che ne ampliava l’organico ed estendeva, a strutture scientifiche non ac­cademiche e a diverse organizzazioni sociali, il diritto di proporre e discutere le candidatu­re di nuovi membri. S’introdusse inoltre l’ob­bligo di privilegiare le scienze più utili all’edi­

ficazione economica e culturale del paese, aprendo così la strada alla valorizzazione delle scienze applicate a danno di quelle pure. Si creò un’unica sezione di scienze umanisti­che sottraendo influenza a quella che veniva considerata la parte più conservatrice dell’i­stituzione e ponendo in questo modo le pre­messe per spostare il centro di gravità del la­voro accademico verso i saperi tecnici e scien­tifici. In definitiva, il nuovo statuto costituiva il primo atto destinato a porre l’istituto sotto il controllo governativo, a limitare la sua autonomia, a sottomettere all’approvazione del Sovnarkom i suoi piani di lavoro. Sotto il pretesto di democratizzare la struttura ac­cademica ed elevare la sua autorità scientifi­ca, si esercitava una pressione sulla sua orga­nizzazione13. L’AN SSSR riuscì a resistere tuttavia, per qualche tempo, ai tentativi di bolscevizzazione. Nel marzo del 1928 si pote­vano contare al suo interno solo 7 membri ef­fettivi e 4 candidati a membri del partito. Nel luglio 1929, su 1158 addetti, i membri del partito erano 16. Per porre rimedio a questa situazione ormai anomala si tentò di sostitui­re l’AN SSSR con altre strutture, alle dirette dipendenze del potere centrale e sottoposte

11 Per uno sguardo d'insieme sui rapporti tra la scuola storica ufficiale, guidata da Pokrovskij, ed alcuni autorevoli rap­presentanti del mondo accademico, cfr. V. S. Bracev, Opasnaja professija, cit., pp. 66, 70-71. Negli ultimi anni è iniziata la pubblicazione di una serie di documenti d’archivio volti a dimostrare il ruolo negativo esercitato da Pokrovskij e di­mostrare la sua attiva collaborazione con l'OGPU nell’opera di controllo e repressione degli storici non marxisti (cfr. A. V. Esina (a cura di),"Mne ze oni soversenno ne nuzny" (Sem'pisem iz licnogo archiva akademika M. N. Pokrovskogo) [“Non mi servono affatto” (Sette lettere dall’archivio personale dell’accademico M. N. Pokrovskij)], “Vestnik RAN”, 1992, n. 6, pp. 103-114; Michail N. Pokrovskij, K otcetu o dejatel’nosti Akademii nauk za 1926 g. [In occasione del rap­porto sull’attività dell'Accademia delle scienze per il 1926], in Zven’ja. Istoriceskij al'manach [Elementi. Almanacco sto­rico], II, Moskva-Sankt-Peterburg. Feniks-Atheneum, 1992, pp. 580-599).12 Per studiare la critica bolscevica della “vecchia scuola” sono fondamentali: Sergej A. Piontkovskij, Velikorusskaja burzuaznaja isloriografija poslednego desjatìletija [La storiografia borghese grande russa dell’ultimo decennio], “Isto- rik-Marksist”, 1930, n. 18-19, pp. 157-176; Grigorij Zajdel’, Michail Cvibak, Klassovyj vragna istoriceskom fronte: Tar- le i Platonov i ich skoly [Il nemico di classe sul fronte storico: Tarle, Platonov e le loro scuole], Moskva-Leningrad, Go- sudarstvennoe social’no-ekonomices koe izdatel’stvo, 1931; Sergej A. Piontkovskij, Burzuaznaja istoriceskaja nauka v Rossii [La scienza storica borghese in Russia], Moskva, 1931: M. N. Rubinstejn, Klassovaja bor’ba na istoriceskom fronte [La lotta di classe sul fronte storico], Ivanovo-Voznesensk, 1931; Vreditel’stvo na fronte istoriceskoj nauki [Il sabotaggio sul fronte della scienza storica], “Problemy Marksizma", 1931, n. 3, pp. 86-126; Zapartijnost’ v istoriceskojnauke [Per la partiticità nella scienza storica], Moskva, 1932.13 Ustavy Akademii Nauk SSSR [Gli statuti dell’Accademia delle scienze dell’Urss], Moskva, Nauka, 1975, pp. 120-129. Su questo punto cfr. le prime precisazioni di A. N. Gorjainov, Esce raz ob "akademiceskoj istorii" [Ancora una volta sulla “storia accademica”], “Voprosy Istorii”, 1990, n. 1, pp. 180-181.

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ad un rigido controllo degli organi politici14. Nel contempo s’intensificarono gli attacchi ideologici, in particolare contro la sezione storico-filologica, considerata una cittadella della vecchia storiografia.

Grazie ai recenti studi pubblicati in Russia è ormai possibile ricostruire le diverse tappe di questo primo episodio della “lotta di classe nella scienza storica” e analizzare il meccani­smo dell’espansione deH’influenza del partito e dello stato in questo ambito. L’offensiva contro l’autonomia dell’AN SSSR fu lancia­ta nel 1928, per mezzo di una violenta campa­gna di stampa contro il vecchio corpo acca­demico. L’attacco venne organizzato diretta- mente dal comitato regionale di Leningrado del partito comunista e condotto principal­mente attraverso il suo organo a stampa, la “ Leningradskaja Pravda” 15. Si trattava di preparare le nuove elezioni nell’AN SSSR che si dovevano tenere il 12 gennaio 1929. Al fine di trasformare l’istituto di ricerca in uno strumento fedele al governo non si scelse tuttavia la strada delle misure repressive (co­me, per esempio, l’espulsione degli accademi­ci “reazionari”), ma si decise di procedere al­la progressiva “sovietizzazione” dell’appara­to attraverso 1’inserimento di studiosi comu­

nisti da affiancare all’ala conservatrice della cultura. Le elezioni vennero scrupolosamente preparate dagli organi direttivi del partito, che avanzarono delle candidature forti e det­tero delle precise indicazioni di voto16. Ven­nero così nominati accademici, fra gli altri, alcuni noti esponenti bolscevichi: Nikolaj I. Bucharin, Ivan M. Gubkin, Gleb M. Kroioa- novskij, Michail N. Pokrovskij, David B. Rjazanov. Il 13 febbraio inoltre, durante una sessione straordinaria, vennero ammessi anche alcuni membri respinti alle precedenti votazioni: Abram M. Deborin, Nikolaj M. Lukin, Vladimir M. Frice17.

Le elezioni di gennaio e febbraio non riusci­rono tuttavia ancora a garantire il pieno con­trollo del partito. Si aprì allora una seconda fase che vide il Politbjuro partecipare diretta- mente alla gestione dell’AN SSSR con il con­corso degli accademici bolscevichi (aprile 1929). Seguì una terza fase con l’intervento dell’OGPU e l’avvio di una purga delle strut­ture accademiche guidata da una commissione governativa. Ufficialmente la purga rientrava nel quadro di una più ampia revisione dell’ap­parato amministrativo di stato, iniziata a Le­ningrado a partire dal primo luglio 1929.1 dati ufficiali danno un’idea piuttosto precisa delle

14 È il caso della fondazione, nell’aprile del 1927, del Varnitso (Associazione pansovietica dei lavoratori della scienza e della tecnica per contribuire alla costruzione socialista) studiato da I. A. Tugarinov, VARNITSO i Akademija nauk (1927-1937 gg.) [11 Varnitso e l’Accademia delle scienze (1927-1937)], “Voprosy Istorii Estestvoznanija i Techniki”, 1989, n. 4, pp. 46-55; Id., Istorija VARNITSO, ili kak lornali Akademiju v "god velikogo pereloma” [La storia del Var­nitso, o come fu demolita l’Accademia nell’“anno della grande svolta”], “Priroda”, 1990, n. 7, pp. 92-101.15 La campagna di stampa, che fu particolarmente virulenta nei mesi di giugno e ottobre del 1928, è stata studiata da A. N. Gorjainov, "Leningradskja pravda"— kollektivnyj organisator "velikogopereloma" v Akademii nauk [La “Leningrad­skaja Pravda”: l’organizzatore collettivo della “grande svolta” nell’Accademia delle scienze], “Vestnik AN SSSR”, 1991, n. 8, pp. 107-114.16 Cfr. Feliks F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome" [L’Accademia delle scienze durante la “grande svol­ta”], in Zven’ja. Istoriceskijal’manach [Elementi. Almanacco storico], voi. I, Moskva, Progress-Feniks-Atheneum, 1991, pp. 175-185.17 Sulla sovietizzazione dell’apparato dell’AN SSSR e le elezioni del 1929, cfr. Viktor S. Bracev, Ukroscenie stroplivoe, ili kak AN SSSR ucili poslusaniju [La caparbietà domata, o come s’insegnò l’ubbidienza all’Accademia delle scienze del- l’Urss], “Vestnik AN SSSR”, 1990, n. 4, pp. 120-127; A. V. Kol’cov, Vybory v Akademiju nauk SSSR v 1929 g. [Le ele­zioni presso l’Accademia delle scienze dell’Urss nel 1929], “Voprosy Istorii Estestvoznanija i Techniki”, 1990, n. 3, pp. 53-66; P. K. Kokovcov, Dlja ustanovlenija istiny [Per ristabilire la verità], in Kunstkamera. Elnograficeskie leiradi [Kunstkamera. Quaderni etnografici], voi. I, Sankt-Peterburg, 1993, pp. 151-156; Alevtina I. Alatorceva, Kak nacinalas' ",sovetizacija" Akademii nauk [Come iniziò la “sovietizzazione” dell’Accademia delle scienze], in Rossija v XX veke. Islo- riki mira sporjal [La Russia nel XX secolo. Una discussione tra storici di tutto il mondo], Moskva, 1994, pp. 719-726.

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sue dimensioni. Vennero licenziati complessi­vamente 128 impiegati di ruolo su di un totale di 960 e 520 soprannumerari su 830. Dalla cancelleria furono licenziate 11 persone su 99, dal segretariato 4 su 15, dalla biblioteca 36 su 149, dalla Casa Puskin 4 su 2918.

In un primo tempo la campagna di diffa­mazione pubblica, gli interrogatori, gli inviti alle delazioni ed infine i licenziamenti vennero imputati alla presenza tra i collaboratori di uno strato abbastanza numeroso di “elementi estranei e pericolosi”. Ben presto, però, si fece ricorso ad un argomento più sicuro: il “rinve­nimento”, da parte della commissione gover­nativa, in un fondo non catalogato della bi­blioteca dell’AN SSSR, il 19 ottobre 1929, di una serie d’importanti documenti di Stato. A questo primo ritrovamento fece seguito la “scoperta” di altri materiali presso la Casa Puskin e la Commissione archeografica. Essi comprendevano alcuni esemplari originali del manifesto di abdicazione di Nicola II e della rinuncia di suo fratello Michail a succe­dergli sul trono, scritture del partito socialista rivoluzionario e del comitato centrale del par­tito cadetto, carte dell’ex-ministro del gover­no provvisorio Aleksandr F. Kerenskij e del marxista legale Petr B. Struve, numerosi ma­teriali provenienti dagli archivi del diparti­mento di polizia, delle gendarmerie e della po­lizia segreta dell’epoca zarista. Si trattava in­somma di documenti di grande attualità per il loro contenuto storico-politico e la cui con­servazione — secondo le disposizioni vigenti dopo i decreti di centralizzazione archivistica del giugno 1918 e dell’agosto-settembre 1923

— non spettava agli organismi accademici. Immediatamente dopo il ritrovamento co­minciarono, a Leningrado, i primi arresti, che proseguirono a ritmo sempre più intenso fino al dicembre del 1930 (con particolare fre­quenza nei mesi di gennaio e febbraio di quel­l’anno). Gli imprigionamenti, che si erano estesi a Mosca e alla provincia, coinvolsero soprattutto lavoratori della sezione di scienze umanistiche dell’AN SSSR (storici, archivisti, etnografi, museografi).

Finora sono stati molto rari gli studi che hanno affrontato questo episodio centrale per comprendere il destino delle discipline storiche in Urss dopo il 1930. Le monografie sovietiche consacrate all’AN SSSR non vi hanno dedicato che qualche breve cenno. Mi riferisco qui tanto a quegli interventi che hanno esplicitamente sostenuto la neces­sità di un radicale rinnovamento dei quadri accademici ancora saldamente in mano in mano alla “vecchia scuola” e refrattari all’in­gerenza del potere politico, quanto a quelli che hanno minimizzato la purga del settem­bre-dicembre 1929 presentandola come una normale verifica dell’apparato amministrati­vo o una necessaria riorganizzazione dell’isti­tuto di ricerca (sollecitata dagli stessi interes­sati) in vista dei nuovi compiti che lo stato so­vietico assegnava alla scienza19.1 lavori occi­dentali, d’altro canto, scontando soprattutto il fatto che le informazioni sull’arresto di Pla- tonov e degli altri storici implicati nella vi­cenda erano estremamente ridotte, si sono dovuti limitare ai pochi documenti ufficiali disponibili20. Sono state le memorie di alcuni

18 Ju. P. Figatner, Proverka apparata Akademii nauk [La verifica dell’apparato delPAccademia delle scienze], “Vestnik AN SSSR”, 1930, n. 2, pp. 73-76.19 Ad esempio: V. A. Ul’janovskaja, Formirovanie naucnoj intelligencii v SSSR. 1917-1937 gg. [La formazione dell’in- telligencija scientifica in Urss. 1917-1937], Moskva, Nauka, 1966, pp. 162-163; V. D. Esakov, Sovetskaja nauka v gody pervoj pjatiletki. Osnovnye napravlenija gosudarstvennogo rukovodstva naukoj [La scienza sovietica negli anni del primo piano quinquennale. Principali indirizzi della gestione statale della scienza], Moskva, Nauka, 1971, pp. 195-198; A. V. Kol’cov, Razvitie Akademii nauk kak vyssego naucnogo ucreodenija SSSR. 1926-1932 [Lo sviluppo dell’Accademia delle scienze come istituto scientifico superiore dell’Urss. 1926-1932], Leningrad, 1982, pp. 156-157.20 Loren R. Graham, The Soviet Academy of Sciences and thè Communist Party, 1927-1932, Princeton (N. J.), Princeton University Press, 1967, pp. 121-130; Alexander Vucinich, Empire of Knowledge. The Academy of Sciences of thè USSR (1917-1970), Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1984, pp. 127-129.

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ricercatori che vissero gli eventi della repres­sione e pubblicarono le loro testimonianze in samizdat, alla fine degli anni settanta, a getta­re per la prima volta una qualche luce sull’ac­caduto e a sollecitare l’interesse degli studio­si21. Più di recente, a partire da una meticolo­sa analisi della stampa quotidiana dell’epoca pubblicata nella zona di Leningrado, è stata anche proposta un’ardita, ma assai contesta­ta, interpretazione dei fatti: i documenti d’ar­chivio rinvenuti dalla commissione governa­tiva avrebbero contenuto informazioni assai compromettenti per alcuni noti esponenti bolscevichi (in particolare Stalin) che, a loro tempo, sarebbero stati legati ai servizi segreti della polizia zarista22.

Sul declinare degli anni ottanta, quando le istituzioni russe hanno messo a disposizione degli studiosi un’enorme massa di documenti conservati da sempre “in regime di rigorosa segretezza”, è finalmente iniziata la ricogni­zione delle fonti primarie negli archivi della se­zione leningradese dell’AN SSSR. tra i fasci­coli personali dell’accademico Platonov (rac­colti tra i manoscritti della biblioteca Salty-

kov-scedrin di Pietroburgo) e soprattutto nel fondo che contiene tutti gli atti istruttori del ministero della Sicurezza della federazione russa. Qui sono stati rinvenuti i 17 volumi del­l’inchiesta giudiziaria assieme ai due tomi del processo di riabilitazione delle vittime dell’a- kademiceskoe deio. Mentre, ad opera di Vik- tor S. Bracev, usciva il primo saggio significa­tivo sulla “fabbricazione” del dossier contro Platonov e il gruppo degli storici assediati23, alcuni studiosi (tra i quali merita una menzio­ne particolare Feliks F. Percenok) s’impegna­vano ad approfondire i termini e la portata del conflitto tra l’istituzione accademica e l’esecu­tivo sovietico nelle mani di un partito che non intendeva rinunciare a fare la sua politica cul­turale24 *. Altri studiosi cercavano negli stessi anni (sotto la direzione di M. G. Jarosevskij) di misurare gli effetti che, sulla comunità scientifica dell’Urss, ha esercitato l’ideologiz- zazione sempre più rigorosa dei saperi e l’inse­rimento della questione da noi denominata “autonomia dell’intellettuale” nella “politica sociale” dello stato23. In quest’ultimo caso, però, la pur ampia utilizzazione di testi inediti

21 Aleksej Rostov [S. V. Sigrist], Deio cetyrech akademikov [L’affare dei quattro accademici], in Pamjat'. Istoriceskij sbornik [Memoria. Miscellanea storica], voi. IV, Moskva, 1979, pp. 470-495; N. P. Anciferov, Tri glavy iz vospominanij [Tre capitoli dai ricordi], in Pamjat'. Istoriceskij sbornik, cit., pp. 57-110 (cfr. Id., Iz vospominanij [Dai ricordi], “Zvez- da”, 1989, n. 4, pp. 117-165; Id., Iz dum o bylom. Vospominanija [Dalle riflessioni sul passato. Ricordi], Moskva, 1992).

Aleksey E. Levin, Expedient Catastrophe: A Reconsideralion of thè 1929 Crisis al thè Soviet Academy of Science, “Sla- vic Review”, 1988, n. 2, pp. 261-279. Levin ha poi confermato questa ipotesi in "Zagovor monarchistov": komu on byl nuoen? [Il “complotto dei monarchici”: a chi serviva?], “Vestnik AN SSSR”, 1991, n. 1, pp. 123-129. Una critica alla sua tesi, effettivamente priva di riscontri oggettivi, è avanzata da I. S. Rozental’, Esce raz o "zagovore monarchistov” [An­cora una volta sul “complotto dei monarchici”], “Vestnik AN SSSR", 1991, n. 10, pp. 126-128.23 Viktor S. Bracev, “Delo" akademika Platonova [L’“affare” dell’accademico Platonov], “Voprosy Istorii”, 1989, n. 5, pp. 117-129. Lo stesso autore ha pubblicato alcuni primi documenti d’archivio inediti: Ispoved' uznika OGPV (Neizvest- naja rukopis’ akademika S. F. Platonova) [La confessione di un prigioniero dell’OGPU (Un manoscritto inedito dell’ac­cademico S. F. Platonov)], “Vestnik RAN”, 1992, n. 9, pp. 118-128; Pokajanie akademika Platonova [La confessione dell’accademico Platonov], “Sankt-Peterburgskaja Panorama”, 1993, n. 5, pp. 17-19 (in collaborazione con S. V. Cer- nov).24 F. F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome”, cit., pp. 163-235; Id., ‘‘Deio Akademii nauk” [L’“affare del- 1 Accademia delle scienze”], “Priroda”, 1991, n. 4, pp. 96-104; V. A. Kolobkov, Sergej Platonov: god nakanune aresta [Sergej Platonov nell’anno prima dell’arresto], in Istocnikovedceskoe izucenie pamjatnikov pis’mennoj kul'tury v sobran- jach i archivach GPB. Istorija Rossii XIX-XX vekov [Lo studio documentario dei monumenti della cultura scritta nelle raccolte e negli archivi della Biblioteca pubblica di stato. La storia della Russia nei secoli XIX-XX], Leningrad, Gosu- darstvennaja publicnaja biblioteka im. M. E. Saitykova-S cedrina, 1991, pp. 156-174; Nacalo ‘‘Dela" Akademii nauk [L’inizio dell’“affare” dell’Accademia delle scienze], “Istoriceskij Archiv”, 1993, n. 1, pp. 79-109.“3 M. G. Jarosevskij (a cura di), Repressirovannaja nauka [La scienza repressa], Leningrad, 1991.

La “lotta di classe nella scienza storica” 739

non aveva compreso materiali provenienti da­gli archivi degli organi di sicurezza (Kgb). E sono invece proprio questi archivi a offrire, sparse nei fascicoli contenenti le pratiche degli studiosi soggetti alla repressione, moltissime informazioni (protocolli degli interrogatori, lettere e documenti confiscati, manoscritti di lavori preparati durante la cattività) utili a portare in luce quei “meccanismi psicologici” che sono stati messi in atto per ottenere la col­laborazione degli intellettuali alla negazione della propria autonomia26.

Il volume ora curato daH’Accademia russa delle scienze, in un periodo in cui ferve la pubblicazione delle fonti d’archivio, fa fare un notevole passo in avanti alle nostre cono­scenze relative al rapporto tra le istituzioni preposte alia produzione della storia e la for­mazione di un nuovo Stato. La documenta­zione è preceduta da un ampio saggio storico che presenta in un insieme organico quasi tutte le informazioni raccolte in ordine spar­so negli ultimi anni da un cospicuo numero di ricercatori. L’avviamento dell'akademiceskoe deio rappresenterebbe — nella ferrea logica espansiva della sfera del potere statale — l’al­largamento, ad un altro soggetto sociale con­siderato infido, della campagna di purghe aperta negli ambienti dell’industria e tra gli organi della burocrazia statale. E questa la tesi dei curatori dell’opera che, in proposito, richiamano le analogie con la sequenza di procedimenti intentati a diversi esponenti dell’intelligencija tecnica e scientifica che, alla fine degli anni venti, lavoravano ancora nel­l’apparato economico sovietico, negli uffici statististici, nelle imprese di produzione e di­stribuzione, negli enti per la gestione dell’a­gricoltura e, soprattutto, nella commissione statale per la pianificazione.

L'akademiceskoe deio occupa gli anni 1929-1931. E dunque coevo a quell’insieme compatto di procedimenti giudiziari che se­gnano la “svolta” verso l’età staliniana. Ri­cordiamo che il 18 maggio 1928 inizia il sach- tinskoe deio contro alcuni ingegneri minerari del bacino del Donee; nel luglio del 1930 ven­gono arrestati gli economisti Nikolaj D. Kondrat’ev, Aleksandr V. Cajanov e un gruppo di agronomi, atto preliminare alla ce­lebrazione della causa contro il sedicente Par­tito dei lavoratori contadini (trudovaja krest’- janskaja partija); tra il 25 novembre e il 7 di­cembre 1930 vengono portati in tribunale i membri del Partito industriale (prompartija); nel marzo del 1931 è la volta del processo contro l’ufficio centrale unificato del comita­to centrale del Partito menscevico (sojuznoe bjuro mensevikov). Non basta però dire che i processi politici, con il loro terrore fisico e morale, diventano “uno strumento di raffor­zamento del potere” . Bisogna aggiungere — insistono i curatori — che costituiscono, nelle varie fasi di cui si compongono, “una parti­colare forma di ‘educazione’ delle masse”27. I processi si trasformarono in “eventi sociali” a cui parteciparono attivamente i mezzi d’in­formazione. Le vittime designate, ancor pri­ma della conclusione delle inchieste e dei pro­cedimenti giudiziari, venivano giudicati dai lettori sulla stampa e in assemblee pubbliche. Si precostituiva in tal modo una partecipa­zione attiva dei militanti e poi dei cittadini al­la lotta contro il “nemico (interno) di classe” indipendentemente dalle responsabilità per­sonali dell’imputato. Si può parlare, a questo proposito, di una fase del processo di sovie- tizzazione della popolazione. Si tratta di una questione assai rilevante. Anche perché, concentrando tutta l’attenzione del ricercato­

26 Come ha sottolineato per primo F. F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome", cit., pp. 208-209. Va per altro segnalato che la ricerca su questi materiali non è stata condotta senza difficoltà nemmeno dagli editori del dossier Platonov, come risulta da una nota in cui si rivela che non tutti i fascicoli sono stati messi a disposizione degli studiosi (Akademiceskoe deio, cit., p. XXII).“7 Akademiceskoe deio, cit., p. XI.

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re sui materiali finora utilizzati ci si espone al rischio di vedere unicamente lo scontro tra i vertici delle istituzioni politiche e quelli delle istituzioni culturali e si finisce per pensare che questo conflitto sia stato privo di effetti “sociali” . La lettura della stampa quotidiana di partito e della pubblicistica ad alta tiratu­ra, che si prestarono a diffondere le innume­revoli richieste di sottomettere l’attività del- l’AN SSSR al controllo della obscestvennost’ [opinione pubblica] proletaria, lascia invece intravvedere una forte spinta dal basso intor­no alla parola d’ordine della “unione di scienza e lavoro”.

L’“affare Platonov” non fu soltanto una delle prime tappe nella carriera professionale di numerosi agenti della polizia politica, mol­ti dei quali resteranno a loro volta vittime delle purghe della fine degli anni trenta. Servì anche e soprattutto ad introdurre dei metodi d’inchiesta che verranno perfezionati e poi applicati su vasta scala, tanto nell’attività teorica che in quella pratica, durante gli anni del terrore. Gli atti di revisione del processo per la riabilitazione dimostrano che Yakade- miceskoe deio fu fabbricato interamente sulla base delle “confessioni” degli imputati. Gli atti dell’inchiesta, resi adesso di pubblico do­minio, confermano che mancava qualsiasi prova fattuale o documentaria per legittima­re le perquisizioni e gli arresti; che l’imputa­zione di avere dato vita a un’organizzazione antisovietica e controrivoluzionaria segreta era basata su confessioni falsificate ed estor­te; che le ammissioni erano ottenute facendo ampio ricorso a ricatti e minaccie, regime d’i­solamento carcerario, pressioni fisiche e psi­cologiche. Il meccanismo dell’indagine venne d’altra parte subito denunciato dagli stessi accusati, come risulta ad esempio da questa lettera, inviata dal confino allo storico Pok- rovskij il 12 novembre del 1931. L’autore è Vladimir I. Piceta, uno degli studiosi condan­

nati: “Dopo avermi interrogato, mi sottopo­nevano i verbali delle mie deposizioni e mi fa­cevano cambiare diverse espressioni con al­tre. Queste modifiche non erano mai a mio vantaggio. M’indicavano in quale stile e tono dovevo rendere le mie testimonianze, poiché un rifiuto — mi si diceva — non sarebbe sta­to a mio favore. Mi leggevano le deposizioni di Ljubavskij [un altro degli accademici im­putati], mi riferivano singoli fatti [confessati da altri] e mi obbligavano ad inserirli nelle mie deposizioni. Mi costrinsero infine a rico­noscermi membro di un’organizzazione della quale non avevo alcuna cognizione. Io firmai tutto che ciò ch’era stato trascritto dal giudi­ce istruttore. Non si può condurre un’inchie­sta in questo modo. È una falsificazione. Non potevo protestare di fronte a loro, poiché mi avrebbero condannato”28.

Rimangono alcuni punti in sospeso che sembrano meritevoli di approfondimento. Come si è detto, i curatori collocano Yakade- miceskoe deio nel quadro più ampio dei pro­cessi politici che stanno tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. Insistono poi, a ragione, sul fatto che la politica di “ad­domesticamento”, tipica del primo potere so­vietico, venne progressivamente sostituita dalla politica della sanzione amministrativa, cui fecero seguito le vere e proprie purghe. Ma non rispondono ad un quesito che pure dev’essere posto: per quale ragione l’inchie­sta, che non sembra proprio potersi definire “amministrativa” , non fu conclusa con un processo pubblico, come avvenne nel caso della prompartija nel dicembre 1930 e del so- juznoe bjuro dei menscevichi nel marzo del 1931? Il modo e il luogo di enunciazione della notizia relativa ai risultati finali delFinchiesta sembrano essere puramente “amministrati­vi” . Ma ciò che si disse il 2 febbraio 1931, du­rante un’assemblea generale straordinaria dell’AN SSSR, evocando lo spettro della

“Mne ze oni soversenno ne nuzny”, “Vestnik RAN”, cit., p. 110.28

La “lotta di classe nella scienza storica” 741

“cospirazione”, sembra indicare esattamente il contrario. Il segretario permanente, Vjace- slav P. Volgin, informò infatti che si era ac­certata la partecipazione degli accademici Platonov, Tarle, Lichacev e Ljubavskij ad una cospirazione: “I quattro accademici so­no stati arrestati sotto l’accusa di attività controrivoluzionaria, di organizzazione di un complotto controrivoluzionario che si proponeva di abbattere l’ordinamento sovie­tico esistente e di restaurare la forma di go­verno monarchico-costituzionale. Il materia­le dimostra in modo assolutamente inconfu­tabile la loro partecipazione effettiva a que­sta congiura ed essi stessi ne hanno dato con­ferma con la propria confessione”. In appli­cazione del paragrafo 19 dello statuto (intro­dotto di recente su esplicita richiesta gover­nativa), che prevedeva l’esclusione dai ranghi accademici di chi avesse svolto “attività a danno dell’Urss” , i quattro studiosi furono allora espulsi all’unanimità29. Qualche gior­no dopo la decisione dell’AN SSSR, venne emanata dalla trojka dell’OGPU presso il di­stretto militare di Leningrado, dunque in una sede extragiudiziale (vnesudebnyj porjakok), una prima serie di sentenze (10 febbraio 1931), mentre la seconda serie seguì di lì a po­co il 10 maggio. La condanna definitiva di Platonov a cinque anni di confino fu pronun­ciata l’8 di agosto.

Si sono fatte diverse ipotesi sulla mancata celebrazione di un processo pubblico: la più fragile parla di un effetto di rivalità tra Le­ningrado e Mosca (i processi dimostrativi, proprio a partire da questo periodo, divenne­ro una prerogativa della capitale). La più fondata fa riferimento alla decisione, presa a livello del vertice politico dello stato, di so­

spendere la repressione deWintelligencija per concentrare tutte le forze nella lotta contro i contadini. Tra le due si potrebbe collocare quella che insiste su considerazioni di oppor­tunità legate soprattutto ai nuovi orienta­menti nella politica estera30. Solo l’estensione della ricerca a nuovi fondi d’archivio (in par­ticolare ai documenti conservati nell’ex-ar- chivio centrale del partito) potrà dare una ri­sposta a questo interrogativo. Resta comun­que necessario non dimenticare che, nella po­litica del governo sovietico, vi è sempre la profonda consapevolezza che la storia occu­pa un ruolo determinante nella fondazione dello Stato, nel rapporto tra i poteri pubblici e i cittadini, nella realizzazione del consenso. Ed è proprio per il fatto che la Storia è un af­fare dello Stato (essa sembra infatti fare parte del “diritto pubblico”), e non di un’accade­mia d’intellettuali di professione o dell’uni­versità in quanto organo di trasmissione dei saperi, che si può accettare o rifiutare il con­tributo degli specialisti. Potrebbe dunque es­sere estremamente utile tenere conto del fatto che, quando verso la metà degli anni trenta, come preparazione alla guerra “mondiale” (che i sovietici — ma non solo loro — consi­deravano imminente), diventerà necessario recuperare l’elemento “patriottico” , allora verrà reintrodotta la storia nazionale russa nella storia dello stato sovietico, con il rien­tro degli espulsi e dei deportati nell’accade­mia e nelle facoltà; allora verrà ripristinato l’insegnamento del passato nelle scuole e nel­le università, con il recupero di una manuali­stica della continuità a scapito di quella della rottura radicale31.

Resta infine da sviluppare la questione a mio avviso più importante e sulla quale ha

2'J Organizacionno-administrativnaja chronika [Cronaca amministrativa e organizzativa], “Vestnik AN SSSR”, 1931, n. 3, p. 49. Cfr. F. F. Pere enok, Akademija nauk na “velikom perelome", cit., pp. 226-230, che pubblica integralmente lo stenogramma della riunione.30 F.F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome", cit., pp. 233-234.31 È in questa mutata congiuntura che vennero editi due volumi di Platonov: i Malerialy iz ucebnica po russkoj istorii [Materiali dal manuale di storia russa], 2 voli., Moskva, 1937 (un’edizione ad uso interno per gli allievi della scuola su-

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già attirato l’attenzione Viktor S. Bracev. I curatori de\Y Akademiceskoe deio 1929-1931 gg. — grazie alla disponibilità di alcuni docu­menti conservati presso il fondo speciale del­l’Archivio del presidente della Federazione russa (AP RF) e del Centro russo per la con­servazione e lo studio dei documenti di storia contemporanea (RCChIDNI) — mettono in rilievo l'importanza che gli organi dirigenti del partito attribuivano, mentre procedeva la purga degli storici, alla questione archivi­stica32. Si potrebbe dire, da un certo punto di vista, che l’archivio è la posta in gioco nel­lo scontro tra il partito e l’accademia33.

Nella Russia sovietica l’intero sistema ar­chivistico era stato messo a disposizione del presente e ogni documento storico veniva considerato come un potenziale strumento di lotta contro i nemici di classe interni ed esterni: “Le fonti originarie — avvertiva la Grande enciclopedia sovietica nel 1926 — non solo offrono materiale per [conoscere] le strutture storiche e [realizzare] gli scopi della scienza [storica], ma appaiono anche come testimonianze dei rapporti economici, sociali, politici e ideologici di una determina­ta epoca [...]. Gli archivi hanno dunque un ruolo non solo scientifico, ma anche politico, dato che servono — nelle mani della classe dominante — come una potente arma di lot­ta. Ogni spostamento dei rapporti di produ­zione e l’arrivo al potere di una nuova classe, provocano la necessità, da un lato, d’impos­sessarsi dell’eredità documentale del prece­

dente regime e, dall’altra, di utilizzare la pre­cedente esperienza così come essa si è riflessa in questa eredità. Gli archivi, per tale ragio­ne, diventano uno strumento da cui non pos­sono prescindere le pratiche'di potere”34.

Abbiamo detto che l’elemento scatenante della repressione accademica sta nel fatto che, ad un certo momento, vengono rinvenuti — nella biblioteca dell’AN SSSR — dei do­cumenti che, secondo il governo, non vi do­vevano in alcun modo essere conservati. Si potrebbe legittimamente parlare di un prete­sto, tanto più che i poteri pubblici sapevano da tempo della presenza di questi materiali d’archivio. Ma il conflitto tra l’Archivio cen­trale della Repubblica federativa socialista russa (RSFSR), che rivendicava la proprietà dei documenti che riguardavano lo stato, e l’Accademia delle scienze, che intendeva sot­trarsi alle richieste di cessione dei fondi d’in­teresse politico, rivela un antagonismo che non può essere ridotto a un problema di com­petenze. La pretesa dell’Archivio centrale della RSFSR è una conseguenza logica del­l’impostazione faticosamente, ma ormai defi­nitivamente, prevalsa quando il partito aveva assegnato allo Stato il compito di fare la sto­ria leggendo tutta la massa documentaria di­sponibile dal punto di vista della “ lotta di classe” . Avrebbe potuto uno stato in forma­zione accettare un dualismo di poteri storici, vale a dire una dualità di miti di fondazione? In altri termini: la Rivoluzione d’ottobre co­stituiva una rottura epocale della storia russa

periore di partito), e la quarta edizione degli 0 cerki po istorii smuty v Moskovskom gosudarstve XVI-XVII vv. [Saggi di storia della smuta nello stato moscovita del XVI-XVII secolo], Moskva, 1937 (la prima edizione è del 1899). Su questo aspetto particolare della “riscoperta” della storia patria, cfr. N. P. Sokolov, S. F. Platonov i ego ucebnik russkoj istorii [S. F. Platonov e il suo manuale di storia russa], in S. F. Platonov, U cebnik russkoj istorii dlja srednej skoly, cit., p. 9.32 Gli editori sono infatti riusciti ad accertare la diretta e immediata responsabilità del Politbjuro nell’avvio dell’“affa- re”: dapprima attraverso un esplicito invito a eseguire i primi arresti, poi attraverso la richiesta di approfondimento dell’inchiesta, che venne portata avanti da una commissione governativa composta da un funzionario di partito, un pro­curatore della repubblica e due dirigenti dell’OGPU (cfr. Akademiceskoe deio, cit., pp. XXVI1-XXXI1).33 V. S. Bracev, “Delo" akademika Platonova, cit., pp. 120-126.34 I. Majakovskij, Archiv [Archivio], in Bol'saja sovetskaja enciklopedija [Grande enciclopedia sovietica], voi. Ili, Mosk­va. Bol’saja sovetskaja enciklopedija, 1926, col. 543. Sul ruolo “politico” dell’archivio e il significato strategico dei com­piti di conservazione e raccolta dei materiali storici nell’epoca postrivoluzionaria, cfr. Antonella Salomoni, Un savoir historique d'Etat: les archives soviétiques, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, 1995, n. 1, pp. 3-27.

La “lotta di classe nella scienza storica” 743

o il tentativo di salvare lo stato russo di fron­te alla decomposizione dell’ancien regime? Solo chi aveva il controllo degli archivi per mezzo della loro centralizzazione e sapeva at­traversarli guidato da un rigido principio eu­ristico poteva inserire la Repubblica dei so­viet nella continuità o nella discontinuità sta­tale russa.

Da questo punto di vista l’accusa mossa all’AN SSSR di essersi trasformata in un de­posito di tutto ciò ch’era ostile al potere so­vietico è comprensibile. Fa parte integrante della logica inflessibile con cui si conserva il potere. Inutile farsi fuorviare dalle forme

che prendono le accuse. Il problema è un al­tro. E lo storico che conosca il processo di produzione della storia, ovvero la storiogra­fia che ha accompagnato la costituzione dello stato moderno, dovrebbe formularlo in que­sto modo: poteva la classe che aveva vinto la lotta per la conquista dello Stato lasciare scrivere la storia di questa conquista alla classe che aveva perso? Di lì a poco, sarebbe stata pubblicata la famosa lettera di Stalin, O nekotorych voprosach istorìi bol’sevizma [Su alcune questioni di storia del bolscevismo]33 * 35.

Antonella Salomoni

33 Cfr. J. Barber, Soviet Historians in Crisis, cit., pp. 126-136; L. G. Babic enko, Pis'mo Staiina v "Proletarskuju Revol- juciju" i ego posledstvija [La lettera di Stalin a “Proletarskaja Revoljucija” e le sue conseguenze], “Voprosy IstoriiKPSS", 1990, n. 6, pp. 94-108; Vladimir A. Dunaevskij, 0 pis’me Staiina v redakciju zumala “Proletarskaja Revoljucija"i ego vozdejstvii na nauku i sud’by Ijudej [La lettera di Stalin alla redazione della rivista “Proletarskaja Revoljucija” e le sue ripercussioni sulla scienza e il destino delle persone], in Istorija i stalinista [Storia e stalinismo], Moskva, Politizdat, 1991, pp. 284-297.

ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO

DI LIBERAZIONE IN ITALIACollana storica 1985-1992

Storiografia e fascismo. Con appendice bibliografica. Scritti di Guido Quazza, Enzo Collotti, Massimo Legnani, Marco Palla, Gianpasquale Santomassimo, Milano, Ange­li,1985Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti. Settembre 1943/aprile 1945, a cura di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli, Stefano Vitali, Milano, Angeli, 1985 Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali. Scritti di Gloria Chianese, Guido Crainz, Marco Da Vela, Gabriella Gribaudi, Milano, Angeli, 1985 Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1945. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Angeli, 19B5Gianni Oliva, Esercito, paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 al­l’età giolittiana, Milano, Angeli, 1986Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di Giorgio Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli, Milano, Angeli,1986Mauro Cerutti, Tra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Mila­no, Angeli, 1986Elite politiche nella Sardegna contemporanea. Scritti di Virgilio Mura, Graziano Ti- dor, Gian Giacomo Ortu, Luciano Marrocu, Maria Rosa Cardia. A cura di G.G. Ortu, Mi­lano, Angeli, 1987L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Fer- ratini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani, Milano, Angeli, 1988 Giorgio Vaccarino, La Grecia tra Resistenza e guerra civile 1940-1949, Milano, An­geli, 1988La “città del silenzio”. Ravenna tra democrazia e fascismo. Scritti di PierPaolo D’Attorre, Pierluigi Errani, Paola Morigi, Milano, Angeli, 1988Roberto Ruffilli: un percorso di ricerca. Scritti di Enzo Balboni, Leopoldo Elia, Guido Melis, Paolo Pombeni, Andrea Riccardi, Raffaele Romanelli, Piero Scoppola, Nicola Tranfaglia. A cura di Maurizio Ridolfi, Milano, Angeli, 1990Guerra, guerra di liberazione, guerra civile. Atti del convegno di Belluno, 27-29 otto­bre 1988. A cura di M. Legnani e Ferruccio Vendramini, Milano, Angeli, 1990 Ruggero Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo Novecento. Ezio Barta- lini e “La Pace” 1903-1915, Milano, Angeli, 1990La Toscana nel secondo dopoguerra, a cura di Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G. Rossi, Milano, Angeli, 1991Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di stu­dio,a cura di Salvatore Adorno e Carlotta Sorba, Milano, Angeli, 1991 Maria Rosa Cardia, La nascita della Regione autonoma della Sardegna 1943-1948,Milano, Angeli, 1992Lucio Ceva, Andrea Curami, Industria bellica anni trenta. Commesse militari, l’An- saldo ed altri, Milano, Angeli, 1992Giampaolo Valdevit, Gli Stati Uniti e il Mediterraneo da Truman a Reagan, Milano, Angeli, 1992

Note a convegni

La guerra partigiana in Italia e in Europa

Silvana Sgarioto

Il convegno promosso dalla Fondazione Mi­cheletti e dairinsmli aH’interno delle celebra­zioni del Cinquantesimo (La guerra partigia­na in Italia e in Europa, Brescia 22-24 marzo 1995) ha scelto, nella selezione dei temi e nelle domande che ha posto agli studiosi invitati a confrontarsi, di privilegiare la specificità del­la questione militare e il rapporto tra parti­giani e popolazione civile, non rinunciando tuttavia a un riepilogo generale degli indirizzi di studio e di ricerca attuali. Sullo sfondo o almeno non chiaramente esplicitata è rimasta l’esigenza di fare i conti con alcune chiavi di lettura generale e ciò ha dato l’impressione, a lavori ultimati, di uno scollamento tra le re­lazioni della prima giornata che affrontava­no alcuni nodi concettuali di grande rilievo e la successiva passerella di interventi di pre­sentazione di ricerche fatte e di lavori in cor­so non sempre in grado di dialogare tra loro e con i temi proposti in apertura. Il riferimento europeo contenuto nel titolo non va inteso come l’avvio di un’ottica comparativa tra le guerre partigiane, data l’assenza di studiosi stranieri (ad eccezione di Ferenc e di Schrei- ber di cui poi diremo), ma come un contesto da tenere presente ricostruito in un quadro si­nottico nella relazione di Giorgio Vaccarino, che, in uno spazio così limitato, non ha potu­to fornire altro che una serie di tipologie con un taglio necessariamente più descrittivo che problematico: come dire, una buona introdu­zione a un confronto con altre interpretazio­ni che però non sono seguite. E una carenza

da non attribuire agli organizzatori del con­vegno ma da ricondurre alla mancanza — ri­levata da Claudio Pavone nelle conclusioni — di una storia generale critica della Resi­stenza che articoli i nessi tra locale e naziona­le, in mancanza della quale è di fatto impos­sibile avviare un confronto con le altre guerre partigiane. Va detto comunque che alle rela­zioni sono seguiti vivaci momenti di discus­sione e di confronto, a cui è stato assegnato uno spazio significativo nel corso dei lavori, tanto da colmare almeno in parte le lacune comunicative derivanti dall’impianto genera­le del convegno.

In apertura la relazione di Domenico Lo­surdo (Guerra partigiana, guerra civile e revi­sionismo storico) ha affrontato i concetti di guerra partigiana, guerra civile internaziona­le, guerra limitata e guerra totale a partire dalle teorizzazioni di Cari Schimitt (Theorie des partisanen, 1963; Teoria del partigiano, Milano, Il Saggiatore, 1981, trad. italiana di De Martinis) e di Nolte. Entrambi in un pri­mo momento fanno risalire al 1917 la risor­genza della guerra civile internazionale in Europa dopo una lunga parentesi di regola­zione e contenimento dei conflitti tra Stati in base allo jus publicum europaeum. In segui­to alla cancellazione della guerra-duello, si è affermata la “guerra giusta” , erede della guerra santa, e scompare lo justus hostis, so­stituito dal nemico criminale, non più solo da combattere ma da annientare attraverso la guerra totale, sui fronti come tra la popo-

Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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lazione civile. Losurdo ha dimostrato con una ricca esemplificazione che non solo l’i­deologia ma anche la realtà della guerra civile internazionale fa la sua apparizione con l’e­splodere della prima guerra mondiale: la tra­sformazione della guerra imperialista in guerra civile è una tendenza che il pensiero di Lenin non ha prodotto, ma alla quale ha saputo conferire forma cosciente e organizza­ta. Lo stesso Schimitt (e la pubblicistica che a lui si ispira) si rende conto che la guerra civile internazionale era in atto ancor prima della Rivoluzione d’ottobre, perciò finisce per da­tare il tramonto dello jus publicum europaeum con l’avvento del giacobinismo. Già Edmund Burke aveva colto lo “spirito di proseliti- smo”della Rivoluzione francese, al servizio di una dottrina empia ed atea, ma poi non senza contraddizione egli stesso lanciava un appello ad una guerra generale contro la Francia, che si configurava esplicitamente come una guerra di religione. Dunque “guer­ra civile internazionale” e “guerra di religio­ne” , le due categorie centrali di cui si serve Schimitt per mettere sotto accusa la Rivolu­zione francese, sono state esplicitamente for­mulate dal primo critico di tale rivoluzione. Ma questa non è l’unica rimozione della sto­riografia revisionista: la principale riguarda la questione coloniale e nazionale. Schimitt dimentica che l’appello di Lenin era rivolto anche alle colonie, perché conducessero guer­re di liberazione nazionale contro il dominio delle grandi potenze. Il politologo tedesco si rivela essere allo stesso tempo il teorico della guerra limitata tra gli stati civili e della guerra totale e santa contro i barbari ed è proprio al­le guerre di liberazione nelle colonie che guardava nel 1963 quando nella Teoria dei partigiano rimetteva in discussione le ragioni della guerra partigiana. La categoria di guer­ra civile internazionale è nella storiografia re­visionista quanto mai vaga, perché definisce eventi assai diversi l’uno dall’altro; tale va­ghezza concettuale spiega a sua volta l’incer­tezza della delimitazione cronologica. In con­

clusione Losurdo sostiene che le deprecazioni sulla guerra civile internazionale o sulla guer­ra civile europea esprimono solo nostalgia per un ordinamento eurocentrico e per la net­ta distinzione tra civili e barbari, messa in cri­si nel Novecento, ma dopo il 1989 ridivenuta attuale a parere almeno di alcuni storici e po­litologi, tra gli altri Samuel P.Huntington (The Clash o f Civilisation?, “ Foreign Af­fairs” , 1993), secondo cui dopo la fine delle guerre civili occidentali, lo “scontro di civil­tà” costituirà il contenuto principale della storia dei prossimi decenni. Alla sfida della storiografia revisionista si può rispondere adeguatamente solo ripensando la storia con­temporanea nel suo complesso.

Il rapporto necessario tra rivoluzione e guerra civile, via via più esplicito nel pensiero di Lenin fino a considerare la seconda stru­mento di emancipazione dei popoli, è stato ricostruito da Pier Paolo Poggio, nel suo in­tervento (Teoria e pratica della lotta armata nel movimento rivoluzionario russo), attraver­so l’analisi della cultura politica che si ispira al movimento rivoluzionario russo, divenuto, dopo la vittoria dei bolscevichi e attraverso l’elaborazione terzointernazionalista, il mo­dello per i movimenti rivoluzionari e di libe­razione del Novecento. In particolare Poggio si è soffermato sulla genesi e l’evoluzione dei concetti di guerra partigiana, guerra civile e insurrezione negli scritti di Lenin, sottoli­neando come rimpianto del suo pensiero in una prima fase derivi dal populismo rivolu­zionario, che non fu soltanto un movimento terroristico, come appare dalla rappresenta­zione di certa storiografia, ma anche un’or­ganizzazione di massa. Da questa eredità proviene per esempio il ruolo “sostituzioni- sta” del partito (ossia sostitutivo della libera dinamica sociale come era stato per i socialri­voluzionari lo stato zarista), la concezione della conquista e del mantenimento del pote­re attraverso l’insurrezione, combinata con la guerra contadina. Nuova è la concezione del rivoluzionario di professione e l’accentuazio­

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ne urbanocentrica dell’insurrezione. La guer­ra civile è definita da Lenin esito ultimo della lotta di classe, ma dopo la rivoluzione del 1905 la questione della lotta armata, affron­tata attraverso la lettura di Gustave Paul Clauseret, capo militare della Comune, viene rivista. Lenin parla di terrorismo di massa, ben diverso da quello individuale di matrice anarchica, ma alfinterno di una concezione tattica che non mette mai in discussione il primato della politica, semmai ulteriormente sottolineato alla vigilia della prima guerra mondiale nelle elaborazioni sul rapporto guerra-politica, influenzate dalla conoscenza di Clausewitz attraverso Mehring prima e dopo il 1915 attraverso la lettura diretta. Per Poggio le letture giacobine-volontaristi- che dello slogan di Lenin (trasformare la guerra imperialista in guerra civile) su cui si basano le teorie schmittiane e la storiografia revisionista, non rendono conto di un pensie­ro molto più articolato. Senza contare che le teorizzazioni di Lenin furono smentite dalla realtà della Rivoluzione bolscevica, che vide l'esplodere della guerra civile dopo la presa del potere (e da tale situazione deriva il facile parallelismo con il giacobinismo).

Se dai concetti e dalle teorie si passa all’a­nalisi di un caso emblematico, è interessante notare come nella guerra civile spagnola il ri­corso alla guerriglia — a dispetto dell’icono­grafia (Per chi suona la campana mette in sce­na una banda di guerriglieri) e della celebre frase di Rosselli (che farebbe pensare a una filiazione della guerra partigiana in Italia dal­la guerra di Spagna) — fu da parte delle forze repubblicane durante il conflitto un fatto del tutto episodico e isolato. Lo ha rilevato nel suo intervento Gabriele Ranzato (Guerriglia e operazioni militari dell’esercito repubblicano durante la guerra civile spagnola ) sottoli­neando il carattere difensivo che contraddi­stinse le bande composte da huidos, poco ca­ratterizzate politicamente, scarsamente colle­gate con l’esercito repubblicano, invise alle popolazioni locali, quando erano costrette a

spostarsi dai luoghi d’origine. Questo tipo di guerriglia si mantenne in vita ancora nel dopoguerra per almeno un decennio con lo stesso carattere di sopravvivenza in territorio nemico. Le ragioni dello scarso sviluppo del­la guerriglia nel paese che, nell’età napoleoni­ca, l’aveva “inventata” vanno attribuite oltre che alle insufficienze militari della direzione repubblicana o a una sua scelta strategica, al­le condizioni politico-sociali che accompa­gnarono l’esplodere della guerra civile: nel momento in cui si presero le armi ciascun fronte aveva identificato chiaramente il suo avversario, tanto è vero che al momento della sua uccisione non era necessario apporre un cartello al collo delle vittima, al fine di terro­rizzare un nemico anonimo, come sarebbe in­vece avvenuto in Italia. L’annientamento del nemico ebbe un accentuato carattere di bru­talità e la repressione non si esaurì finché il mare in cui potevano nuotare i pesci partigia­ni non venne totalmente prosciugato.

La relazione di Toni Ferenc (/ partigiani nei Balcani. Il caso jugoslavo) si è soffermata su una ricostruzione di tipo eventografico, senza approfondire particolarmente il dibat­tito che, alla luce della guerra in corso nella ex-Jugoslavia, si interroga sul carattere pre­valente della guerra partigiana degli anni quaranta ossia se fu guerra civile, guerra di li­berazione o rivoluzione bolscevica.

La questione militare è stata affrontata nelle due relazioni di Gerhard Schreiber {La controguerriglia tedesca in Italia) e di Giorgio Rochat (L ’esercito partigiano in Italia). Il pri­mo ha ricostruito l’organizzazione della guerra antipartigiana che si ispirava alla di­rettiva di Hitler del dicembre 1942, destinata al fronte orientale e successivamente estesa anche all’Italia (tra le misure previste vi era­no la morte per impiccagione dei ribelli, le rappresaglie nei confronti della popolazione civile, la fucilazione immediata degli ostaggi, l’impunità per i tedeschi che avessero com­piuto crimini di guerra in azioni di antiguer­riglia). I conflitti di competenza tra la Wehr-

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macht e le SS furono risolti con un compro­messo che affidava la repressione ad entram­be, ma con le SS in posizione subordinata in tutti gli ambiti che riguardavano la contro- guerriglia. Solo a partire dalla primavera del 1944, in reazione alla crescente durezza della lotta partigiana, dalla controguerriglia si passò alla guerra vera e propria con l’im­piego di ingenti mezzi, la costituzione di zone di sicurezza e il conseguente aumento di vitti­me tra la popolazione. I responsabili dei mas­sacri in Italia — ha ricordato Schreiber — nonostante venissero celebrati regolari pro­cessi non furono puniti perchè tutti i reati per motivi diversi caddero in proscrizione. Nel 1960 infine il parlamento tedesco appro­vò un provvedimento di sanatoria per tutti i crimini di guerra.

Rochat in risposta a queste ultime conside­razioni di Schreiber ha fatto notare che le di­rettive applicate dagli italiani in Etiopia nel 1935-1936 non furono meno dure di quelle tedesche e anche in questo caso nessun crimi­ne venne punito e nessun generale si giocò la carriera. Affrontando il tema del suo inter­vento, dopo aver rilevato che la lotta armata è l’elemento caratterizzante della Resistenza, nonostante la fortuna della nuova categoria di resistenza civile, a cui si ispirano alcune ri­cerche recenti, ha cercato di spiegare le ragio­ni per cui la guerra partigiana in quanto tale non è stata ancora studiata e la storiografia resistenziale ha privilegiato gli aspetti politi­ci. Al veto incrociato dell’esercito, che ha fat­to di tutto per dimenticarla, e dei partigiani, che vedono negativamente l’esercito regolare per il marcato carattere antistituzionale della loro adesione alla Resistenza, si deve aggiun­gere che la principale causa di questo vuoto storiografico è interna allo stesso oggetto di studio: la settorializzazione della guerra par­tigiana, il suo radicamento territoriale circo- scritto, legato all’armamento leggero, voluto di fatto dagli stessi alleati che temevano che la guerriglia si trasformasse in guerra di po­polo. La settorializzazione è a sua volta deri­

vata dall’origine delle formazioni che nasce­vano nelle valli e dalla difficoltà, al Nord so­prattutto, di collegamenti regolari, rispetto ad una pianura controllata da tedeschi e fa­scisti. Ciascuna brigata di valle (vera unità operativa di 100-300 uomini, la divisione non ha mai funzionato veramente) durava in media un anno, era gelosa della sua auto­nomia, esprimeva un vero e proprio spirito di corpo e su questo si fondava la democrazia diretta. Ora non solo l’esercito partigiano fu smobilitato in fretta e furia, ma anche duran­te la guerra niente si fece per unificarlo. Sulla sua efficacia va detto che nonostante le gravi difficoltà in cui operava nessuna formazione si sciolse, dopo ogni disfatta si ricostituiva magari unendosi ad un’altra. Rispetto ai ne­mici si può ascrivere a merito dei partigiani l’aver neutralizzato militarmente le milizie della Rsi. Dell’impatto della guerra partigia­na sui tedeschi non si può dare un giudizio definitivo e non ha fondamento né minimiz­zare né enfatizzare il suo ruolo, prima che siano fatte ricerche approfondite negli archi­vi militari tedeschi.

Agli aspetti politici del partigianato si so­no richiamate le due relazioni di Adriano Ballone {Il partito comunista e le Garibaldi) e di Mario Giovana {La guerriglia urbana Gap e gappismo nei venti mesi partigiani). Il primo ha rilevato che esistono ricerche ormai numerose sul rapporto non sempre armonico tra gruppi dirigenti del Pei e dirigenti delle Garibaldi; si può procedere dunque verso ap­profondimenti tematici sull’insediamento territoriale delle formazioni garibaldine, su alcuni problemi relativi al processo di educa­zione politica delle nuove reclute, sull’in­fluenza del partigianato non politicizzato nella strategia comunista. Giovana ha invece rilevato la mancanza di una storia organica dei Gap, la cui origine risale a una decisione del Pei, ispirata all’organizzazione dei franc- tireurs et partisans e motivata dalla necessità di avviare la lotta di liberazione attraverso un elemento dinamico. Tale decisione sollevò

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anche all’interno del partito obiezioni di ca­rattere ideologico e morale nei confronti del­l’aspetto terroristico delle azioni gappiste. I gruppi erano costituiti da militanti fortemen­te motivati idealmente e politicamente e do­tati di capacità fisiche e di qualità morali di tutto rilievo. Il giudizio sul ruolo e sulle azio­ni dei Gap ha risentito delle frizioni genera­zionali e del pregiudizio classista, che emer­gono sia nei resoconti organizzativi che nelle rievocazioni della memorialistica; partendo da essi va analizzata la funzione che a questa forma di organizzazione della lotta attribui­vano parecchi dei suoi promotori e protago­nisti, quasi tutti provenienti dalla cospirazio­ne comunista e dalla partecipazione alla guerra civile spagnola e al maquis francese.

Un aggiornamento su ricerche appena ulti­mate o ancora in corso è venuto dalle relazio­ni di Gaetano Grassi (/ centri della Resistenza e le formazioni autonome ) e di Claudio Della- valle (Insediamento e composizione sociale del partigianato). Sulle formazioni autonome, definite a seconda dei casi badogliane o apo­litiche, è di prossima pubblicazione nella col­lana dell’Insmli un volume prodotto da un gruppo coordinato da Gianni Perona e for­mato da ricercatori appartenenti a diversi Isr. Grassi ha ricostruito le fasi della ricerca, soffermandosi sui più rilevanti nodi proble­matici e anticipando alcune conclusioni: il rapporto centro/ periferia che visto dall’an- golatura degli autonomi mostra tutta la sua complessità e problematicità; la stessa defini­zione di autonomi che non compare in tutta la fase di incubazione del Comando generale del Cvl; i diversi momenti di avvio dei pro­cessi di politicizzazione delle forze partigia- ne; i dibattiti sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli sbandati del regio eserci­to; la costituzione del Comando generale di Milano, nato dall’alleanza tra azionisti e co­munisti, in seguito al nuovo equilibrio di for­ze che si realizzò dopo l’entrata di Longo nei vertici del movimento; il conflitto che si aprì con il Comando supremo del Sud in seguito

all’emanazione della circolare 333 sulla con­dotta e sull’organizzazione della guerriglia. Grassi ha infine individuato nello scarso so­stegno a Cadorna da parte delle strutture po­litiche e militari la causa del sostanziale falli­mento del progetto di unificare e ricondurre sotto un unico comando le forze a carattere militare e quelle organizzate dai partiti. Il fallimento della militarizzazione istituzionale della Resistenza fu la premessa della liquida­zione dell’esperienza partigiana dopo la libe­razione.

Claudio Dellavalle nel suo intervento ha dato conto dei primi risultati di una ricerca avviata nel 1992 dagli Istituti piemontesi di storia della Resistenza sul rapporto tra parti­gianato piemontese e società civile, mettendo in evidenza la novità rappresentata dalla sca­la regionale. La ricerca si è avvalsa di una fonte non ancora studiata: le carte raccolte dal ministero della Difesa per il riconosci­mento delle qualifiche partigiane (Ricom- part). Si tratta di 110.000 schede personali contenenti i dati biografici, l’eventuale espe­rienza militare precedente, la carriera parti­giana e alcuni passaggi della storia personale dei richiedenti. Comprendendo tutte le do­mande presentate e non solo quelle accolte, il fondo documentario ci restituisce non solo l’universo partigiano, ma anche uno spaccato di quel settore della società del tempo solo marginalmente coinvolta nel movimento ar­mato. Nel passaggio dal primo (d.lgt. 5 aprile 1945, n.158) al secondo decreto (d.lgt. 21 agosto 1945, n. 518), che stabiliva i criteri de­finitivi per il riconoscimento, si valorizzaro­no maggiormente gli aspetti militari esclu­dendo di fatto le donne e quanti avevano svolto prevalentemente ruoli politici e di sup­porto. Dallo spoglio delle schede è possibile dedurre dati sull’età, da cui risulta una signi­ficativa presenza di adolescenti di 13-14 anni, e sulla provenienza geografica dei partigiani. Una buona metà ha dichiarato una qualche esperienza militare e un numero non esiguo (7,3 per cento) proveniva delle fila della

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Rsi. Le schede costituiscono una sorta di istantanea scattata alla fine dell’esperienza che non deve rimanere muta rispetto a quanto la precede e al contesto spaziale che la contiene. Va evitata ogni esasperazio­ne quantitativa, che questo tipo di fonte po­trebbe incoraggiare, con il rischio di far pre­valere un’immagine appiattita e rigida di un fenomeno che è stato complesso e dinamico. Usare il rapporto con il territorio come chiave interpretativa può contribuire ad uscire dalla polarizzazione schimittiana tra partigiano tellurico e partigiano rivoluzio­nario: nella realtà è esistita, e le schede lo documentano, una pluralità di figure tra questi due estremi.

La strategia adottata nella conduzione del­la guerra partigiana dalle formazioni garibal­dine della Valsesia è stata ricostruita da Ce­sare Bermani (Guerra partigiana in pianura), individuando il successo della pianurizzazio- ne a partire dall’estate del 1944 in una serie di fattori favorevoli tra cui la radicata tradizio­ne antifascista, l’efficiente servizio di infor­mazioni, l’ottimo funzionamento del sistema sanitario, dell’intendenza e della giustizia, la sviluppata rete di comunicazione e la natura del terreno che ben si prestava alla guerriglia.

Partendo dalla ribellione organizzata a Massa Carrara nel luglio 1944 dai Gruppi di difesa della donna contro il bando tedesco di evacuazione della città e dalla memoria femminile di quell’evento, Graziella Bonan- sea ha individuato alcuni nodi cruciali attra­verso cui rileggere il rapporto tre le donne e la Resistenza. La modalità della mobilitazione femminile contro l’occupazione tedesca nel caso in esame deborda dal “maternage di massa” di cui ha parlato Anna Bravo, e pone il problema di indagare in modo più appro­fondito la scelta, le appartenenze e il rappor­to con la violenza e la lotta armata nelle don­ne impegnate nel movimento, su cui è possi­bile proporre appena delle ipotesi, perché so­lo da poco ha cominciato ad essere studiato. La memoria segnala insistentemente il tema

del mascheramento, ossia dell’uso spregiudi­cato degli attributi che più si identificano con la femminilità per risolvere situazioni di emergenza, sfruttando le funzioni simboliche del corpo femminile. Infine Bonansea ha sot­tolineato che con l’uscita dall’eccezionaiità di quei venti mesi di guerra le partigiane, per aver incarnato il ruolo della donna ribelle, fuori dai confini di genere loro assegnati, vis­sero il paradosso del reduce che deve giustifi­carsi per aver vissuto in un mondo “altro” .

Una intera sezione del convegno è stata dedicata alle diverse storie locali a partire dal tema del rapporto tra partigianato e po­polazione civile, sia durante la guerra che nel­l’immediato dopoguerra. Ogni storia locale della Resistenza non è pensabile se non come risultato del confronto fra situazione periferi­ca e progetto generale, così come anche gli aspetti più particolari e contingenti dipendo­no dall’evoluzione del quadro generale della guerra. Prendendo le mosse da queste consi­derazioni e dalla diffusa esigenza di uscire dai localismi, peraltro ostacolata dalla man­canza di categorie generali, Sandro Peli ( Vio­lenza e comunità locali nella guerra partigia­na) ha affrontato il problema dal punto di vi­sta metodologico e, partendo dal caso con­creto dei rapporti tra comunità locali di mon­tagna e brigate partigiane, ha proposto alcu­ni parametri da utilizzare per costruire caute generalizzazioni. Nelle formazioni più diret­tamente espresse dalle comunità locali la vo­cazione militare era meno spiccata, talvolta assente, e si affermava più decisamente una forma di resistenza alla guerra e una caratte­rizzazione apolitica, rafforzata dall’allentarsi delle forme di dipendenza dai centri di dire­zione politico militare. E possibile in tale contesto stabilire e verificare nessi tra genesi delle formazioni e contrapposizioni tra atten­disti e interventisti.

Il rapporto tra nazionalismi e Resistenza al confine orientale è stato affrontato da Otello Bosari (Nazionalismi e Resistenza al confine orientale) nell’area dell’Alto Adriati­

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co, vero e proprio incrocio di confini, di cul­ture, di lingue e di storia. In un contesto geo­politico tanto complesso non sorprende l’in­stabilità estrema della situazione e il rilancio, come reazione agli attacchi partigiani, dello squadrismo fascista, di efficacia piuttosto di­scutibile dal punto di vista militare. I tedeschi invece attuarono una linea politica ragionata spingendo per un verso all’arruolamento con compiti di vigilanza, di presidio, di affianca- mento; per un altro dando spazio alle singole nazionalità e riuscendo a creare formazioni collaborazioniste di una certa consistenza.

Roberto Botta (Partigiani e popolazioni nell’alessandrino), dopo aver richiamato la disomogeneità dell’area geografica che si ri­verbera sulle vicende resistenziali, ha rico­struito un caso che consente di riflettere sul rapporto tra partigiani e popolazioni civili: la costituzione della zona libera dell’alta Val­le Curone nell’agosto del 1944, dopo uno scontro vittorioso contro i nazifascisti, esem­pio significativo di come sia stato possibile passare dalla diffidenza, se non proprio dal­l’aperta ostilità, alla cooperazione tra parti- gianato e popolazione, pur rimanendo questi due mondi distinti e separati.

Il tema affrontato da Mimmo Franzinelli (Popolazione, partigiani, tedeschi e accordi di zona franca), ad eccezione che nello studio di Claudio Pavone, è stato ignorato o travisa­to dalla storiografia. Va chiarito preliminar­mente che il termine“zona franca” non signi­fica necessariamente collaborazionismo. La sua realizzazione rispondeva a logiche di so­pravvivenza, particolarmente avvertite nel breve arco temporale che va dall’autunno del 1944 all’inizio della primavera del 1945. Pur essendo un fenomeno spiccatamente lo­cale presenta tratti generalizzabili: le zone franche avevano una durata varia, si stipula­vano sempre in situazioni di forte conflittua­lità e in zone strategiche per i tedeschi, che spesso ne erano i promotori insieme alle for­mazioni autonome o agli ecclesiastici; rac­cordo verbale era limitato a pochi punti, pre­

vedeva la reciproca non aggressione, la resti­tuzione dei prigionieri, la libertà d’azione contro i fascisti. Il patteggiamento si esauriva in un incontro, massimo due, in un luogo neutro o presso i comandi tedeschi. Aree in­teressate furono le località impervie, parti di valli alpine a forte radicamento partigiano, nelle quali i tedeschi miravano a ridurre o eli­minare la microconflittualità, garantendo, in cambio, la sicurezza dei gruppi partigiani, la facilità dei rifornimenti, l’esclusione di rap­presaglie contro i civili. I comandi partigiani erano a conoscenza delle trattative e consa­pevoli che la pratica delle zone franche com­portava il rischio di smarrire la dimensione ideale della lotta e pubblicamente rifiutavano di farvi ricorso. Nella realtà tuttavia questa prassi veniva tacitamente consentita.

Il processo di formazione e di sviluppo del­le bande partigiane nella Marche nel breve arco temporale che va dall’autunno 1943 al­l’estate 1944 è stato ricostruito da Ercole Ro­magna (Guerriglia nell’Appennino. Il caso del­le Marche), tentando di individuarne i carat­teri, e soffermandosi in particolare sui con­flitti che attraversarono sia la banda macera­tese che quella anconetana, impedendo alla formazioni partigiane di avere al momento della liberazione un ruolo pari alle potenzia­lità di una massa che contava 4.000 uomini armati. Dati interessanti emergono dall’ana­lisi della composizione sociale e generaziona­le del partigianato marchigiano: Romagna ha presentato nel dettaglio quelli che si riferi­scono alla brigata Garibaldi “Pesaro” , da cui risulta l’età particolarmente giovane dei suoi componenti (51 per cento nati tra il 1920 e il 1925, un dato superiore alla media nazionale pari al 46 per cento), mentre sotto il profilo professionale a fronte di un 40 per cento di addetti ai lavori agricoli oltre la metà erano salariati, in un contesto agrario caratterizza­to dalla mezzadria, in cui solo il 5 per cento apparteneva al bracciantato.

Il tema della pianurizzazione è ritornato nell’intervento di Claudio Silingardi {La

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guerriglia in pianura. Partigiani, popolazione e territorio nella bassa modenese) che ha ana­lizzato le differenze tra Carpi e Mirandola, ri­conducendole alle peculiarità socio-economi- che delle due zone: nella prima, caratterizzata dalla mezzadria e da una diffusa industria del truciolo con ampio impiego di lavoro femmi­nile a domicilio, si sviluppò un movimento resistenziale molto forte, mentre nella secon­da area, zona di terre umide, di valli nude e di piccoli agglomerati bracciantili la Resistenza faticò a radicarsi.

Le relazioni della giornata conclusiva si sono ispirate a temi e problemi legati all’ulti­mo inverno di guerra e ai mesi successivi alla liberazione. Massimo Legnani (La terra di nessuno. Civili, partigiani, fascisti e tedeschi nell’ultimo inverno di guerra) ha delineato il quadro composito delle forze in campo, de­scrivendo la crisi politica e militare che le ha investite: i partigiani indeboliti dall’offen­siva contro le zone libere e in difficoltà per il rallentamento imposto alla campagna d’Ita­lia; i tedeschi impegnati nello sforzo di tenere aperte le vie di comunicazione e di garantirsi il controllo delle disponibilità industriali e alimentari; i fascisti rinserrati nelle città e di­visi da faide interne e dalla contrapposizione tra il radicalismo del Pfr e delle Brigate nere e i gruppi conciliatoristi. Nessuno dei conten­denti era in grado di esercitare il pieno con­trollo sul territorio in cui operava. Legnani ha sottolineato inoltre il mutato e ravvicinato rapporto tra il movimento partigiano, che ri­piegava su forme di pianurizzazione forzata, e la popolazione civile, richiamando la neces­sità di indagare meglio questo rapporto con una particolare attenzione alla cosidetta zona grigia, che designa, a prescindere da ogni connotazione ideologica, quella parte della società italiana che non si schierò, oscillando spesso tra diverse posizioni senza compro­mettersi.

Gianni Perona (La Resistenza italiana co­me movimento insurrezionale) ha osservato che il problema dei nessi tra i piani insurre­

zionali, la teoria insurrezionale delle diverse componenti della Resistenza e i loro prece­denti storici non è di facile soluzione e non è stato oggetto di studi adeguati alla sua im­portanza. L’azione insurrezionale, voluta so- prattuuto dai comunisti in conflitto con il tecnicismo attendista dei militari, prevedeva un’operazione militare generale e richiedeva una mediazione politica molto puntuale, in particolare rivolta alla componente contadi­na del movimento partigiano, e il ricorso a diversi mezzi: scioperi, azioni dei Gap e delle Sap, guerriglia nelle valli. La centralità del­l’insurrezione finisce per condizionare, alme­no dal gennaio del 1944, l’azione militare e quella politica di tutte le componenti della Resistenza che si organizzavano in modo an­tagonista, per essere presenti e determinanti nelle città dove essa avrebbe dovuto scoppia­re. Ma l’insurrezione continuamente prepa­rata fu sempre rinviata e di fatto mai attuata.

Con la relazione di Carlo Gentile (La fine dell’occupazione, le forze armate tedesche e l’insurrezione) si è aggiunto un tassello alla questione militare già trattata negli interventi di Rochat e Scheiber. In particolare è stata ri­costruita, nonostante la frammentarietà delle fonti, la crisi morale e materiale che aveva colpito l’esercito tedesco negli ultimi mesi di guerra. Considerando il controllo della pia­nura padana strategicamente essenziale non solo per ragioni militari ma anche per l’eco­nomia bellica, i piani di ritirata del Comando supremo tedesco di sgombero almeno parzia­le furono bocciati da Hitler, che ordinò di re­sistere. Tale scelta causò la distruzione di molte formazioni tedesche e decine di migliaia di prigionieri. Incalzato dalla ripresa dell’of­fensiva alleata e dal declino delle risorse mate­riali l’esercito era minato dalla crisi morale della truppa, a cui i vertici della Wehrmacht risposero con un maggior sforzo di indottri­namento e di propaganda ideologica, ma dal­le lettere dei militari alla famiglie emergono espressioni di totale sfiducia nella vittoria fi­nale che nessuna censura e neanche il confor­

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mismo della vita militare riescono ad attenua­re. Altro indicatore non marginale della crisi è il fenomeno delle diserzioni, che dall’estate del 1944 registrò un notevole incremento, so­prattutto fra austriaci, Sudtiroler, Volksdeut­sche e “volontari” dell’Est, fenomeno che nel­l’esercito di Salò fu di massa.

Degli episodi di violenza armata verificati­si nelfimmediato dopoguerra si è occupato in chiusura del convegno Guido Crainz (La vio­lenza armata dopo la liberazione: problemi storici e storiografici) che ha riproposto il “caso Emilia” , giudicandolo un esito dei con­flitti aperti dallo squadrismo agrario del biennio 1921-1922 e della reazione alla di­struzioni della guerra e alle efferatezze com­piute durante l’occupazione nazifascista. Ta­le lettura è confermata da fonti coeve e dai ri­sultati di recenti studi (cfr. Giannetto Ma- gnanini, Dopo la liberazione. Reggio Emilia aprile 1945-settembre 1946, Bologna, Edizio­ni Analisi, 1992; Massimo Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche a Modena 1945-1946, Milano, Angeli, 1995). Il discorso si è poi allargato agli atti di violen­za compiuti anche in altre zone d’Italia con­tro i fascisti, allo scopo di ricostruire un sorta di archeologia della violenza. Il quadro è

molto complesso, ma è possibile iniziare a distinguere almeno le diverse forme di vio­lenza, che si mescolano e si intrecciano in un arco molto ampio: da un lato proseguo­no le azioni gappistiche, dall’altro si verifica­no forme estreme di violenza collettiva, che hanno nei linciaggi il loro culmine, senza contare episodi che si collocano al confine tra criminalità politica e criminalità comune. La frizione tra la vicinanza temporale di questi eventi e la loro lontananza culturale e il frequente verificarsi del fenomeno della rimozione, fa emergere il problema del rap­porto tra dovere della memoria e diritto al­l’oblio. Appare inoltre significativo il perdu­rare, anche oltre la prima fase del dopoguer­ra, di episodi di collera popolare, alimentata dalla delusione crescente per una giustizia non fatta e spiegabile con il tentativo di so­stituire alla tardiva o inesistente giustizia dei tribunali il giudizio inesorabile dei testimoni e della vittime. L’evento è accompagnato da un duplice possibile comportamento colletti­vo: un silenzio unanime sull’uccisione e una sostanziale rimozione, ma anche una presa di distanza da atti che apparivano, già allo­ra, destituiti di legittimità.

Silvana Sgarioto