Una chiave per esperire la vacuità, il “koan” Colloquio con il … · 2013. 8. 5. ·...

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shiatsu e... 18 SHIATSUNEWSTERZOTRIMESTRE N el percorso che abbiamo voluto tracciare in questi ultimi numeri del giornale, i cui punti salienti sono stati spirituali- tà, anima, spirito, animazione, meditazione ecc., non pote- vamo tralasciare una importante tappa d’obbligo, le “metodiche”. I cultori, gli appassionati, gli amanti delle arti estremo-orientali, non possono esimersi dall’approcciare le tecniche capaci di fare di un corpo, del corpo dell’adepto, la cassa di risonanza dell’”Arte” a cui egli si accosta. Shiatsu, judo, karate, aikido, tiro con l’arco, yoga, tai chi, ma anche arrampicata, corsa, …, per tutti il denominatore comu- ne sappiamo essere la graduale profondità dei livelli con cui ci si misura. I testi a compendio, descrivono ed affrontano ampiamente nei loro capitoli, i più livelli della pratica: la fisicità, le manifestazioni “energetiche” che seguono di pari passo alla pratica, lo stadio finale di vigore ed appagamento a cui la disciplina porta, ecc.; ma tutti que- sti testi, autori spesso maestri d’Arte in testa, esortano e spronano i praticanti ad una esperienza ultima, riassuntiva, essenziale: l’esperienza del “vuoto” . Opere come il Dao De Jing (Tao Te King) ne sono prova, ne descrivono i passi e ne suggeri- scono le metodiche numeriche, facendone trasparire, celato sotto la tela di fondo, il legame con il “simbolo”. Ricordando Jung, l’a-temporalità del simbolo, seme ben custo- dito in luoghi protetti (del nostro corpo-mente), fiorisce e si rin- nova nel “rito”, laddove la pratica-rituale non separa ma sempli- cemente delimita garantendone l’adesione: il corpo-mente-spiri- to; ivi il seme dà il suo frutto, appoggiandosi a rituali secolari, la cui ritmicità è proposta di un nuovo tempo, “Il tempo “senza- tempo” del “rito””. Come sappiamo esistono delle “vie dirette” ben consolidate e giunte nei millenni sino a noi, per dare forma a questa esortazione corale sul “vuoto”: lo Zen è una di queste discipline. Dunque, per approfondire l’argomento abbiamo contattato ed a lungo interloquito con il maestro e monaco Zen, Engaku Taino 1 (Luigi Mario), precursore di questa “arte” da tempo conosciuta e radicata su tutto il territorio italiano. L’esatta posizione del “VuotoL’infinito Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. Giacomo Leopardi Una chiave per esperire la vacuità, il “koan” Colloquio con il maestro e monaco Zen Engaku Taino a cura di Fabrizio Bonanomi L’Arte dello Shiatsu,come sappiamo, ha una forte ed importante componente di “mediazione corporea”; la realizzazione del non due 2 , che avviene durante la pratica shiatsu, dove colui che riceve è compendio a colui che opera, trova radici nel taoismo.

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SHIATSUNEWSTERZOTRIMESTRE

Nel percorso che abbiamo voluto tracciare in questi ultiminumeri del giornale, i cui punti salienti sono stati spirituali-tà, anima, spirito, animazione, meditazione ecc., non pote-

vamo tralasciare una importante tappa d’obbligo, le “metodiche”.I cultori, gli appassionati, gli amanti delle arti estremo-orientali, nonpossono esimersi dall’approcciare le tecniche capaci di fare di uncorpo, del corpo dell’adepto, la cassa di risonanza dell’”Arte” a cuiegli si accosta. Shiatsu, judo, karate, aikido, tiro con l’arco, yoga, taichi, ma anche arrampicata, corsa, …, per tutti il denominatore comu-ne sappiamo essere la graduale profondità dei livelli con cui ci simisura. I testi a compendio, descrivono ed affrontano ampiamentenei loro capitoli, i più livelli della pratica: la fisicità, le manifestazioni“energetiche” che seguono di pari passo alla pratica, lo stadio finaledi vigore ed appagamento a cui la disciplina porta, ecc.; ma tutti que-sti testi, autori spesso maestri d’Arte in testa, esortano e spronanoi praticanti ad una esperienza ultima, riassuntiva, essenziale:l’esperienza del “vuoto”. Opere come il Dao De Jing(Tao Te King) ne sono prova, ne descrivono i passi e ne suggeri-scono le metodiche numeriche, facendone trasparire, celato sottola tela di fondo, il legame con il “simbolo”. Ricordando Jung, l’a-temporalità del simbolo, seme ben custo-dito in luoghi protetti (del nostro corpo-mente), fiorisce e si rin-nova nel “rito”, laddove la pratica-rituale non separa ma sempli-cemente delimita garantendone l’adesione: il corpo-mente-spiri-to; ivi il seme dà il suo frutto, appoggiandosi a rituali secolari, lacui ritmicità è proposta di un nuovo tempo, “Il tempo “senza-tempo” del “rito””.Come sappiamo esistono delle “vie dirette” ben consolidate egiunte nei millenni sino a noi, per dare forma a questa esortazionecorale sul “vuoto”: lo Zen è una di queste discipline. Dunque, per approfondire l’argomento abbiamo contattato ed alungo interloquito con il maestro e monaco Zen, Engaku Taino1

(Luigi Mario), precursore di questa “arte” da tempo conosciuta eradicata su tutto il territorio italiano.

L’esatta posizione

del “VVuuoottoo”

L’infinito…

Ma sedendo e mirando, interminatispazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quieteio nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura.…

Giacomo Leopardi

Una chiave per esperire la vacuità, il “koan”Colloquio con il maestro e monaco Zen Engaku Taino

a cura di Fabrizio Bonanomi

L’Arte dello Shiatsu,comesappiamo, ha una forte ed importante componente di “mediazione corporea”; la realizzazione del non due2,che avviene durante la praticashiatsu, dove colui che riceveè compendio a colui cheopera, trova radici neltaoismo.

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L’Arte dello Shiatsu, come sappia-mo, ha una forte ed importante com-ponente di “mediazione corporea”; larealizzazione del non due2, cheavviene durante la pratica shiatsu,dove colui che riceve è compendio acolui che opera, trova radici nel taoi-smo, pensiero teso all’appianamen-to dei contrari, laddove concettual-mente l’uno non può essere senzal’altro. L’Arte Shiatsu è meditazioneattiva a mediazione corporea, pro-prio come nello Zen, quando si intro-duce la meditazione in movimento.Taino ha saputo stigmatizzare que-

sto tema fondante, estendendolo acampi prettamente fisici come l’ar-rampicata e la montagna. Parecchi i punti toccati, molte ledomande e innumerevoli le risposteesplicitate all’ombra di un gazebo aScaramuccia sulle colline di Orvieto;e mentre sempre più vacuo sembra-va dovesse essere il contenuto delnostro scritto, sempre più afonerisuonavano le parole nel nostrotesto che non sapeva arrivare acoglierne l’essenza ultima, il filo con-duttore dell’interloquire … Infine esolo infine, proprio come in una

metafora zen, come per un koan3,Taino ci ha consegnato dei pensierisu cui riflettere, una sorta di koandedicato agli shiatsuka, un piccolospecchio per i praticanti di un’arteantica che ha medesime radici emedesime metodiche dello zen. Prima di riportare fedelmente ed insequenza le risposte che il maestroci ha consegnato, in realtà sonodomande, riteniamo opportuno pro-porre alcune importanti note e pun-tualizzazioni riguardo il buddhismozen e la pratica, scritte anch’esse disuo pugno.

Del Buddhismo e dellapratica del “koan”

“Il Buddhismo è nato in India intornoal VI secolo a.C. ed è solo all’iniziodella nostra era che si è diffuso nelresto dell’Asia centrale ed occiden-tale, segnatamente in Cina.L’introduzione di questa pianta stra-niera nel suolo cinese, le modalitàdella sua acclimatazione, gli adatta-menti, gli innesti che l’hanno trasfor-mata, costituiscono uno dei fenome-ni di acculturazione più rimarchevoliche si possono osservare. Al terminedi una decina di secoli, quando l’as-similazione fu raggiunta e il buddhi-smo fu assorbito nella tradizionecinese, all’epoca Sung, ben pocacosa sussisteva ancora dei suoi ele-menti indiani. La scuola più rappre-sentativa di quel tempo e che quiviene presa in considerazione è lascuola Ch’an, che si pronuncia Zenin giapponese, nome con il quale è

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Taino ci ha consegnato dei pensieri su cui riflettere, una

sorta di koan dedicato aglishiatsuka, un piccolo specchioper i praticanti di un’arte antica

che ha medesime radici e medesime metodiche dello zen.

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maggiormente conosciuta nelmondo occidentale. La parola Ch’anè la trascrizione della parola sanscri-ta Dhjana, che significa meditazione.Nel buddhismo canonico dell’India,questa parola indica alcuni esercizi,debitamente definiti e graduali, chetendono all’ottenimento di una seriedi stadi di risveglio, di concentrazio-ne e di pulizia mentale caratteristicidello Yoga. Quando il buddhismopenetrò in Cina questa tecnica siinnestò su delle tecniche analogheche avevano avuto uno sviluppo inprecedenza nel Taoismo. Coloro chene divenirono specialisti furono mae-stri Dhjana, in cinese maestri Ch’an.

Con la cinesizzazione progressiva delbuddhismo il Ch’an si trovò implicatoin un problema che non aveva gran-ché di indiano, e che contrapponevala meditazione all’azione, la teoria e lapratica, l’evasione e l’impegno, ilmovimento e la quiete. Perché in Cinatutto si rapportava a delle questioni dicomportamento umano e di esperien-za in atto. Ed è così che prima del‘700, verso l’inizio dell’epoca Tang(618-907), andava a formarsi quellache più tardi si sarebbe chiamata lascuola Ch’an, che è molto megliochiamare a questo punto col nomecinese perché essa era in piena rea-zione nei confronti con la Dhyana, lameditazione concepita all’indiana.Essa fu una vera riforma cinese delbuddhismo perché non solo la medi-tazione introversa, passiva, negati-va, il Ch’an seduto come si dicevanella scuola, cessò a poco a poco diessere praticato, ma essa fu formal-mente condannata e la quiete fuconsiderata solo dialetticamente conil movimento. L’una non potevaessere senza l’altro secondo la

nozione di superamento dei contrariche il Ch’an aveva ereditato dal taoi-smo pre-buddhista.Il principale iniziatore di questa rifor-ma è stato un monaco, conosciutocome un illetterato, Hui-neng mortonel 713. Era un cantonese, un semi-barbaro come dichiarò egli stesso,perché la regione di Canton rimanevaa quel tempo ai margini della culturaclassica cinese, ma fu l’uomo miglio-re per levarsi contro il buddhismocinese, quello che dominava la vitaintellettuale della corte, degli ufficiali edei letterati delle metropoli imperiali.Niente più opere, niente pratiche pie,niente ascetismi, niente riti, nienteculti, non più i testi, ma liberazionedalle scritture, cercando la verità in sèstessi, risvegliando l’uomo vero, l’uo-mo vivente, dalle bende che locostringono, dalle tradizioni scolasti-che, dalle vane speculazioni, dallericerche erudite. Diventare semplici,rilassati, lasciare la presa, non averepiù “affari”, ecco i temi essenziali diquesta scuola che andava a propa-garsi nella Cina intera e poi nel restodell’estremo Oriente.Un secolo e mezzo dopo Hui-neng,Lin-chi seppe dare a questo sistema,che è la negazione di tutti i sistemi,la sua espressione, sicuramente lapiù forte, il suo accento più umano ela sua portata più vasta.Il suo insegnamento, che gli valsedurante la sua vita una celebritànazionale, noi lo abbiamo conosciu-to per una raccolta di note che sonostate compilate da uno dei suoidiscepoli.Secondo una tradizione che rimontaa Confucio e che vuole che le paroledi un maestro siano registrate comesono state dette, gli insegnamenti diLin-chi ci sono pervenuti nella linguache egli stesso aveva usato per pro-nunciarli, una lingua di un vigore e diuna crudezza estrema, ma altamen-te idiomatica tanto da avere creatonon poche difficoltà per la sua inter-pretazione.Essa è resa ancora più difficile dalcarattere aspro del pensiero di Lin-chi. Senza alcuno sviluppo discorsi-co, è un pensiero rivolto contro ildiscorsico; mai esposizioni astratte,l’astrazione è rigettata; l’ellissi regnanelle relazioni fra le idee e bisognaogni momento supporre ed in-dovinare. Le conclusioni rimangonoimplicite lasciate all’intuizione del-

l’ascoltatore, o del lettore.In più, nemico dichiarato di tutti i ver-balismi, Lin-chi ricorre sovente algrido, ai gesti, ai colpi di bastone,discendendo bruscamente dalla sediae sortendo dalla sala con la rapiditàdel vento. Tutto questo egli chiama“agire con tutto il proprio corpo” e ilsignificato di questi comportamenti,che costituiscono una sorta di lin-guaggio fra convenuti, rimangonopoco chiari ad una prima lettura. Infattiessi si presentano come degli enigmi,la chiave dei quali deve essere tra-smessa soltanto oralmente.Nei monasteri Zen giapponesi, iltesto Rinzai roku come viene corren-

temente chiamato, è fondamentaleed è oggetto di lettura e commentodi ogni maestro.[…]Il commento, o meglio ancora, l’in-terpretazione che il maestro di Ch’anfa del testo, oggetto del suo sermo-ne quasi quotidiano, è qualcosa dispeciale. Egli deve ricreare ilmomento e lo spirito dell’episodio dicui sta trattando e far di tutto permostrare ai suoi ascoltatori la realiz-zazione dei personaggi che compa-iono sulla scena. Per fare questo siavvale della sua lunga esperienza dipratica personale e della abitudineall’insegnamento. Dalla pratica diconcentrazione e di respirazione glivengono gli strumenti per esprimereil proprio Ch’an, oltre che dalla suarealizzazione spirituale.Nel momento in cui parla, il maestrodeve essere i personaggi del testo,che può interpretare perché li haconosciuti direttamente, senzaintermediari, per mezzo della risolu-zione dei Koan, nei quali essi com-paiono di volta in volta secondo una

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gradualità stabilita.Inoltre il maestro deve porgere aisuoi studenti gli strumenti per inter-pretare, nella propria vita di tutti igiorni, avvenimenti che si sono svol-ti nel lontano passato ma ancora ingrado di riproporre i problemi dellapresente umanità.In Giappone i monaci e i laici, cheassistono ai sermoni del maestro,seggono in terra sulle stuoie, all’in-terno della sala delle cerimonie, lapiù grande dei tanti edifici che costi-tuiscono il monastero.Il maestro entra per ultimo accompa-gnato da un rullo di tamburo; alsuono di una campana tutti i presen-ti iniziano a recitare ad alta voce,secondo il tempo scandito da unospeciale oggetto di legno cavo, leinvocazioni per salutare i maestri delpassato. Prima che il maestro inizi aparlare, si recita un “avvertimento”del grande maestro giapponeseDaito Kokushi (1.282-1.338), il qualeesorta i monaci a dedicarsi comple-tamente alla ricerca della Via, senzapensare al cibo o alle vesti e tantomeno al successo materiale.Infine il maestro, che ormai è sedu-to sul suo alto seggio, legge il capi-tolo del testo che prenderà inesame. Egli è rivolto all’altare, etutti gli altri sono seduti ai suoi lati,trasversalmente rispetto a lui. Insilenzio assoluto, in profonda medi-tazione, cercando di diventare unasola cosa con il maestro e con lesue parole. Quelle parole devonoessere comprese non per il lorosenso letterale, ma accolte in silen-zio in sè stessi, per lasciare cheparlino dall’interno.II sermone dura più di un’ora, ed ilsolo fatto di rimanere seduti immobilicosì a lungo, senza cuscini, mette adura prova gli ascoltatori. Alla fine ilmaestro esorta tutti a trovare l’uno insè stessi e poi tutti insieme si recitanoi “Quattro Voti del Bodhisattva:“Salvare tutti gli esseri, Estirpare tuttele brame, Comprendere tutte le leggi,Realizzare la illuminazione”.[…]Però, come tutti gli insegnamenti deigrandi maestri, la sua reale penetra-zione richiede una continuaapplicazione, per scoprire, nell’arcodi tanti anni, sempre qualcosa dinuovo e di più profondo. E si realizze-rà quel “vero uomo capace di entrareed uscire a proprio piacimento datutte le situazioni.”4

Della figura del Maestro Zen

“In molti testi della tradizione zen siafferma che un maestro possa per-mettersi qualunque libertà. Benchésia così libero di spaziare in ognidirezione, un maestro zen non sipermette di fare discorsi dando perscontato termini indimostrabili. Egliha ben presente la richiesta cheBodhidarma fece a colui che sareb-be diventato suo successore, in atte-sa della neve fuori dalla grotta.Quando riuscì ad arrivargli davanti, ilmaestro gli chiese cosa voleva equello disse che non trovava lacalma della mente. Allora il maestro,come un medico col paziente chedice di avere il mal di denti, gli chie-se, non di aprire la bocca ma dimostrargli la mente. E quello glirispose che non riusciva ad acchiap-parla. E così il Maestro Tosatsu, inun koan fondamentale, chiede aidiscepoli, una volta risvegliata lanatura del buddha di indicare il luogoesatto dove essa è. Nello zen, se c’èun maestro che afferma: “Il regno deicieli è nel nostro cuore” ci si senteobbligati dal chiedergli cosa significacuore e in quale parte del corpoesso sia esattamente per andarlo avedere.Si parla in continuazione dellamente, come se fosse un organospecifico del proprio corpo e poi,davanti al maestro che chiede dimostrarla non si è capaci di farlo. Lo

stesso avviene per tanti altri terminila cui conoscenza si dà per sconta-to: anima, dio, infinito, spirito, vita,morte… Il maestro zen della scuolaRinzai, quando riceve il discepolonella stanza di sanzen con la solu-zione del koan, accetta solamentedelle dimostrazioni, e se si trattadella mente o dell’anima vuole chegli sia posta sulla propria mano.Allora i libri, le domande e le risposteche nei libri sono contenute, qualeutilità possono avere? Se l’interesseper la ricerca interiore viene dallaconsiderazione sulla utilità e sui gua-dagni che ne possono derivare si haun atteggiamento errato. L’atteggiamento giusto è imparare avedere da se stessi se la mente,l’anima o la natura del buddha esisteoppure no. E, se esiste, saperecome trovarla. Ma ancora ci si pone in una situa-zione senza uscita perché non èpossibile che chi è mente, o naturadel buddha possa vedere unamente o una natura del buddhaaltra da sé.Questo è il problema fondamentale.Un problema che non si risolveponendo domande ed avendorisposte per quanto possibile preci-se e aderenti alla questione che sipone. La risposta può venire solonel momento in cui si realizza chel’intero universo è solo vuoto e noncontiene un solo granello di sabbia.Risvegliati a questa realizzazione sipotrà giocare a proprio piacimentoanche con le parole, sapendo cheesse, come ogni filo d’erba dell’uni-verso, partecipano alla meravigliosadanza della vita.”5

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“Il regno dei cieli ènel nostro cuore”ci si sente obbligatidal chiedergli cosasignifica cuore ein quale parte delcorpo esso sia esat-tamente per andarloa vedere.

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Dei koan

“ Rispetto al koan: si deveporre l’attenzione sulleparole che lo compongonoo su quello che si ritiene siail senso del koan?”

“Ci sono diverse classi di koan, maquella iniziale richiede una particolareapplicazione al respiro. Poi, quandosi passa a lavorare sui koan succes-sivi, si deve avere un po’ di disagioperché il tipo di concentrazione èdiversa. Si passa a sviscerare unafrase più lunga, ad esempio: “Il signi-ficato del viaggio in Cina diBodhidharma”.

Appena rice-vuto il koan, sicomincia a ripe-tere la frase che locompone, cercandodi trovare l’essenza della frase. Avolte c’è il monaco che pone ladomanda e il maestro che risponde,magari con una frase lunga, maquando si entra a sanzen6, quelloche si dice inchinandosi è molto suc-cinto. Prima un lavoro di sgrossatu-ra, pensando a tutta la frase e inqua-drandola bene, e talvolta chiedendoaltre spiegazioni, sino ad arrivareall’essenza del problema. Poi, suquella essenza, lavorare. Come?Dipende da ciascuno.Ribadisco spesso l’importanza delsusokkan, ovvero l’attenzione alrespiro, che non deve seguire obbli-gatoriamente il modo tradizionaledel conteggio da uno a dieci, per poiricominciare daccapo. Ciascunodeve contare a modo suo da uno a

cento o da cento a mille, contare alcontrario da dieci a uno, contare tuttii respiri di una giornata (che sono igiochetti che facevamo con i figli pic-coli durante lunghi viaggi in automo-bile per distrarli: contare, sommare,sottrarre). Questa attenzione alrespiro permette di essere presentiin tutti i sensi e di mettere la frase delkoan nella pancia, così come abbia-mo il respiro: metterla lì, e ogni tantoandare a vedere che cosa fa.Succede che il koan lavori dentro,tanto da andare al sanzen e sentirela risposta uscire da sé. Quando eroil servitore di Mumon7, e tra l’altro glilavavo la schiena e le mutande, cuci-navo e servivo il tè agli ospiti: ero iltappetino per pulirsi le scarpe, non

potevo meditare come tutti glialtri, inoltre il servitore, l’inji, và asanzen per primo. Capitavache rincasassi assieme almaestro dopo essere stati ingiro tutto il giorno: conferen-ze, incontri, taxi, treni e auto.Si aveva appena il tempo diandare al gabinetto e giàsuonava la campana del san-zen. Il maestro usciva svelto

con l’inji dietro, che apre laporta, accende l’incenso, e così

via. Tutti escono di corsa dallozendo, ma quello che deve entrareper primo è proprio l’inji, così, l’unicomomento in cui riportavo alla menteil koan erano quei dieci metri che miseparavano dal saluto davanti almaestro. E spesso, nel momento incui rialzavo la testa dopo l’inchino,c’era la soluzione del koan.Come poteva avvenire? È semplice-mente come piantare un seme nellaterra, e quando è il momento germo-glia. All’inizio si continua a pensarlo,annaffiarlo, togliendo le erbacce chelo soffocano e concimandolo; maper il resto il seme ci pensa da sé, egermoglia all’improvviso quandotutto è pronto. Lo stesso vale per ilkoan, che è soltanto una specialissi-ma risposta che dobbiamo dare nellanostra esistenza, la quale ne richiedein continuazione miliardi di altre.[…] vi accorgerete che c’è un livellosempre più profondo (nella com-prensione dei koan), anche se que-sto termine non è quello esatto. Ècome per un’opera d’arte, perché ikoan sono eccelse opere d’arte: piùsi osservano e più si apprezzano, eci godiamo la loro eccellenza.”8

Gli spunti di riflessione per ipraticanti shiatsu (e non …)

Sul non farsi sedurre“Tutte le religioni e le pratiche asce-tiche, così come la pubblicità, pre-sentano riti, preghiere, meditazioni,oggetti, vacanze o pensioni alternati-ve, assicurando che saranno ingrado di far accedere a un mondo dilibertà. Esistono imbonitori, sianopubblicitari o maestri, politici o pretidi qualunque credo, che assicuranosi possa entrare in un luogo di deli-zie usando determinati oggetti,applicandosi a certe pratiche o cre-dendo nelle loro parole. Nel mondosono tante le persone che credonoalle fiabe che vengono loro raccon-tate. Invece nello zen si pretendeche vi sia una esperienza diretta diciò che si vuole ottenere permanen-temente. Si vuole assaggiare, alme-no per un istante, il frutto che sivuole cogliere. Nello zen la spintaalla conoscenza della realtà vieneda sé stessi, e l’esperienza dei mae-stri, così come del Buddha, chehanno realizzato già la realtà, servesolo per aiutare quando si è presi daun momento di sconforto di fronteall’immensità del compito che si èintrapreso. Il maestro c’è per soste-nere i discepoli nella fermissimafede in sé stesso, perché possa rico-noscere da sé il Buddha che egli è,già prima della nascita dei proprigenitori.”9

Sull’aiutare senza scopo“Quando vado a Roma per lasesshin10 e passo da mia madre c’èsempre l’occasione per qualcheesperienza. Questa volta in casac’erano già Lea ed Alvise.Guardavano un telefilm che ognitanto capita di vedere anche aScaramuccia. Sono protagoniste treragazze nel ruolo di streghe buone,con i poteri non utilizzabili a propriovantaggio, ma solo per aiutare glialtri, altrimenti decadono. Sabato,domenica e lunedì scorso Alvise erain casa, e siccome era tornato daChamonix con la spalla doloranteper una caduta, Kiyoka11 mi ha dettodi fargli il soffio12. L’ho fatto sia aScaramuccia che a casa dellanonna, dove risiede finché non tro-verà un posto per sé. Allora, pensan-

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nnoo ttee

shiatsu e... 23do alle streghe, si potrebbe obbietta-re che non è corretto usare i poteriper i famigliari. Sappiamo di tantiesseri che hanno espresso un’ener-gia oltre il normale: il Buddha, il Cristoe altri che non conosciamo. Eppure,benché avessero tanti poteri, hannolasciato l’esistenza come tutti gli altri.A guardare bene non hanno guaritonemmeno chi gli stava vicino. Per cui,pur con tutti i poteri che si possonoavere, in quanto esseri umani, si ètutti indistintamente destinati ad usci-re di scena. Da parte di tutti c’è l’im-pegno per la salute, la propria e quel-la dei famigli, dei discepoli, dei propriamici e dell’umanità, quando si và amanifestare per avere un mondomeno malato. Un praticante di zencomprende chiaramente la risposta diBodhidharma all’Imperatore che pen-sava di avere acquisito dei meriti per-ché aveva costruito dei templi emonasteri: “non vi è alcun merito,tutto è vuoto!”. Eppure quando c’è dacurare soffiando, si soffia, incontran-do chi ha bisogno, si cerca di aiutare,se c’è da partire per realizzare lapace, nella quale crediamo, partiamo.Però fondamentalmente è tuttovuoto! Certo! Ripetendolo potremmosalvarci l’anima tutti quanti. Untempo, alcuni militanti della sinistra, difronte a chi si sarebbe accontentatodi qualche miglioramento, usavanodire: “ci vuole ben altro!”, tanto chevennero definiti i benaltristi. Così,senza tanto pensare, se c’è da soffia-re, soffio, se c’è da andare a portarela bandiera della pace, porto la ban-diera della pace: è tutto quello che c’èda fare. Questa comprensione per-mette di essere nella realtà cosìcom’è, sapendo benissimo che non siriuscirà a trasformare il mondo. È larealizzazione di sé che rende tran-quilli e a posto, capaci di essereattenti a quello che dice la coscienza,che non è soltanto la limitata coscien-za personale. E per far ciò non civuole alcun potere o magia.”13

Riconoscere l’insicurezza“Ultimamente, per la legge dellagiungla, è stato invaso militarmentel’Iraq perché ritenuto dagli invasoriuno stato canaglia. Sul giornale, coltitolo virus canaglia, si metteva inevidenza un tipo di terrorismo piùsubdolo, ovvero l’insicurezza cheimpedisce agli esseri umani di vivere

tranquilli. Ovviamente tutti auspi-chiamo che i virus, che attaccanosempre più numerosi e in modidiversi la nostra salute, siano ricono-sciuti e disattivati. E così i terroristi.Ma l’esperienza, non solo degliscienziati, insegna che essi si ripro-durranno in varianti sempre piùagguerrite, pure se sempre più resi-stenti saranno le nostre difese.Come le casseforti delle banche e iportavalori. E così, in un crescendocontinuo, ignorando quanto ilBuddha ha affermato, si è tutti obbli-gati a consumare le proprie energiealla ricerca di una sicurezza impossi-bile. L’insicurezza non l’ha inventatail Buddha, egli ha enunciato però leQuattro Nobili Verità in cui la primarecita: “esiste il dolore”. Solo chifosse in grado di estirpare il doloresarebbe completamente sicuro. Mavincere il dolore per mezzo degliantibiotici è impossibile, come si èpotuto constatare contro i virus, ocon le armi invadendo i cosiddettistati canaglia. È impossibile non solosecondo l’insegnamento delBuddha, ma anche perché se tutte lepersone, per evitare i contagi, rima-nessero ognuna nel proprio paesel-lo, il mondo così com’è organizzatocrollerebbe: niente più voli aerei,niente più merci che viaggiano da uncontinente all’altro. Si tornerebbeall’età della pietra, ognuno nella pro-pria caverna, attento a non contami-narsi con la tosse o con lo starnutodell’altro, con l’AIDS dell’altro, con ilcolore dell’altro, con la religione del-l’altro. Certo, un’umanità che da unmomento all’altro diventa Buddista èun sogno. Ma sarebbe sufficientefare propria l’affermazione delBuddha che il mondo, così com’è, èdolore, per non esagerare nel cerca-re la sicurezza, poiché più aumenta-no le misure di sicurezza e tanti piùsaranno coloro che cercherannod’infrangerle, siano virus, terroristi obanditi. È evidente che sia così eforse non c’è altro da fare. Ma chicomprende le parole del Buddha,pur facendo attenzione a tutte lesicurezze, dovrebbe camminare nelmondo con equilibrio, nel mangiare,nel vestirsi e nel curarsi. Trovando lavia di mezzo senza eccedere e nem-meno esaurirsi alla ricerca di unasicurezza impossibile. E poi, tran-quillamente, lasciare che vadacome deve andare.”14

1 Engaku Taino è il nome monastico diLuigi Mario, nato a Roma nel 1938.Ha ricevuto da Yamada Mumon l’ordi-nazione e l’abilitazione all’insegna-mento durante la sua permanenza inGiappone (1967-1973) nel monasteroShofukuji di Kobe. Dal 1974 vive aScaramuccia, nella campagna diOrvieto, dove ha fondato e dirige il tem-pio Zenshin-ji. E’ laureato in filosofia, èsposato, ha due figli, ha fatto la guidaalpina e il maestro di sci e di tai chi,oltre al coltivatore e al produttore divino di Orvieto.

2 Non due, termine che delinea una “terzavia” inframmezzata all’Uno (dove nonesiste separazione) e Due (abitualmenteinteso come raggruppamento di dueunità simili). È molto vicino al concettotaoista di coppia dove si evidenzia ilruolo reciproco, opposto e complemen-tare delle due entità in relazione.

3 Koan, letteralmente “caso pubblico”,sono domande paradossali che il mae-stro zen dà al discepolo, hanno lo scopodi renderlo capace di vivere l’arte dellavita, nella tensione ultima alla com-prensione delle cose, un sentiero versol’illuminazione. Diviene inevitabilmen-te una sorta di legame fra maestro ediscepolo.

4 Testo di introduzione al libro “LIN-CHI-LU Raccolta dei Detti del MaestroCh’an Lin-Chi I-Hsuan - Traduzione ecommento di Engaku Taino.

5 Testo di introduzione al libro “Calmarela mente” (trovarla…) di Engaku Taino.

6 Sanzen: un particolare momento dellapratica in cui il discepolo si presenta alcospetto del maestro, per esporre larisposta al koan a lui assegnato.

7 Roshi Yamada Mumon, maestro diEngaku Taino.

8 Da “Calmare la mente” (trovarla…) diEngaku Taino.

9 Da “I Koan di Scaramuccia – Bokkosanroku” di Engaku Taino.

10 Sesshin, incontro di meditazione.

11 Kiyoka è la consorte di Engaku Taino.

12 La tecnica prevede di soffiare sul puntoo sulla parte del corpo dolente per alle-viare le sofferenze, introdotta fra i prati-canti zen dal monaco Muhen scomparsoqualche anno fa, e poi diffusa.

13 Da “I koan di Scaramuccia – Bukkosanroku” di Engaku Taino.

14 Da “I koan di Scaramuccia – Bukkosanroku” di Engaku Taino.

SHIATSUNEWSTERZOTRIMESTRE