TEMA magazine n°4

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TEMA Eloise Ghioni | Andrea Magaraggia Margherita Moscardini | Maria Elena Nieddu n. 4 - dicembre 2011

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In questo numero quattro giovani artisti affrontano il tema RAGIONE/femminile. Interviste a Eloise Ghioni, Andrea Magaraggia, Margherita Moscardini e Maria Elena Nieddu

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TEMA

E l o i s e G h i o n i | A n d r e a M a g a r a g g i a Margherita Moscardini | Maria Elena Nieddu

n. 4 - dicembre 2011

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TEMA numero 4

R A G I O N E / f e m m i n i l e

copertina: Federica Aradelli

Cover © Federica Aradelli - Fotografie © artisti o diversamente se indicato

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INDICE

Editoriale

Eloise Ghioni

Andrea Magaraggia Margherita Moscardini

Maria Elena Nieddu

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EDITORIALERaccontarvi di questo quarto numero di TEMA magazine è particolarmente emo-zionante perché significa anche tirare le somme del un primo anno di questa avventura. Innanzi tutto vorrei ringrazia-re ancora una volta tutte le persone che hanno creduto in TEMA, dai primi artisti che hanno risposto alle mie domande agli ultimi, perché senza di loro, la loro passio-ne e il loro lavoro nulla di tutto ciò avrebbe significato. Un grazie a chi mi ha aiutato in mille modi e spesso senza saperlo e alle migliaia di persone che hanno passato del tempo tra queste pagine virtuali. Prima di diventare troppo sentimentale meglio girare pagina, c’è un numero nuovo da leggere.

L’ultima volta ci siamo lasciati andare al nostro lato animale, quello istintivo, che dice così tanto del nostro essere uomini, così oggi ribaltiamo la situazione par-lando della RAGIONE, quella virtù tutta femminile (ma anche un po’ maschile) che parrebbe differenziare gli umani dagli altri animali. Ragione nel senso di razio-nalità, equilibrio, geometria, capacità di astrazione; non freddezza e calcolo, ma un’espressività delicata, dolce, sussurata e forte assieme.

Iniziamo con Eloise Ghioni, nel suo lavoro coniuga materiali duri come la roccia e il legno a elementi morbidi e caldi, le carat-teristiche tattili sono amplificate da un uso

dei colori pastello e dai toni del cielo per creare giochi prospettici inaspettati.

Andrea Magaraggia invece procede per sottrazione: le forme diventano geome-trie basilari, ma i materiali utilizzati sono sottoposti a trasformazioni, spesso gioca col caso a dimostrazione di una tensione inscritta costantemente nelle sue opere.

Le risposte di Margherita Moscardini di-mostrano la forza del ragionamento dietro a opere fragili e dalla vita breve, ogni lavo-ro ha una propria esistenza finita, un’evo-luzione che si lega alla storia dei luoghi e allo scorrere del tempo.

Infine Maria Elena Nieddu con la sua capacità di raccontare la natura nella sua complessità grazie all’astrazione delle forme, il suo è uno studio lento e sentito alla ricerca di un universale che ci unisca. Un’amanuense del sensibile umano.

Nella speranza che questo nuovo viaggio vi appassioni e vi spalanchi nuove finestre sul mondo, non mi resta che augurarvi buona lettura di questo intenso quarto nu-mero di TEMA e... auguri di Buone Feste a tutti.

Sibilla Zandonini

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Cercavo di immedesimarsi in una persona che capita per caso davanti ad un tuo lavoro, una senza interesse specifico per l’arte, e ho immaginato che probabilmente userebbe a sproposito la parola minimalista per definirlo. Il concetto artistico legato al minimalismo, semplificando, si basa sulla riduzione della realtà a forme puramente astratte, anonime e teoricamente oggettive. Non è completamente errato pensare alle tue opere come minimali guardando alla pulizia formale, ma in esse si vanno a sovrapporre plurimi elementi, colore e forme, per cui ci si allontana visivamente

da quella corrente. Nel cercare di comprendere l’arte contemporanea c’è spesso una tendenza a far riferimento al passato, a ciò che è già stato in qualche modo spiegato, come artista che rapporto esiste con le correnti del Novecento?

Formalmente il mio lavoro è molto pulito, razionale, quindi non è del tutto errato usare il termine ‘minimale’ per raccontarne la forma, certo se invece lo si adopera per descriverne il contenuto allora non c’è nessuna attinenza.Più che all’arte del Novecento direi che faccio riferimento all’Arte antica,

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dal neolitico in poi per essere precisi. Mi interessano molto le civiltà Pre-colombiane, quelle Mesopotamiche e Megalitiche europee. In generale l’attenzione è rivolta a tutte quelle civiltà che hanno espresso un simbolismo segnico attraverso l’attività artistica.

Esiste una tensione perpetua nella storia moderna dell’arte legata allo spazio, Lucio Fontana creò un movimento proprio sulla ricerca spaziale. Anche nei tuoi lavori esiste un forte elemento di occupazione fisica del luogo, una volontà di porre lo spettatore di fronte non solo ad un oggetto appeso, ma ad un’azione necessaria. Non per tornare ai minimalisti, ma guardando le tue installazioni a Bologna e Firenze mi vengono in mente le opere di Carl Andre che sono oggetti nello spazio e in questa relazione vanno interpretati. Questo occupare lo spazio nasce con l’opera o in un secondo momento, quando affronti

l’idea di come presentarlo al pubblico?

Il vuoto spaziale nel mio lavoro è sempre considerato come un elemento pieno, al pari della materia. Il volume di un ambiente è dato dalla sua interezza. Le installazioni nascono proprio in luoghi specifici, ad esempio alla Neon>campobase di Bologna il mio lavoro si articolava nella parte meno accessibile della galleria, ovvero tra il soffitto e la campata alta, creando da solo un’armonia tra l’ambiente  e le opere dislocate in esso, una sorta di ‘gateway’ spaziale ma che allo stesso tempo sintetizzava il tema del progetto, ovvero la riflessione sul rapporto tra “segno naturale” e “segno artificiale”.

Negli ultimi lavori utilizzi piume colorate, che a vedere le opere in fotografia mi sembravano scampoli di peluche. Se cerco dei riferimenti visivi a proposito

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sono propensa ad una lettura modaiola/antropologica, o più che altro nella trasfigurazione che il linguaggio della moda occidentale ha attuato nei confronti dei costumi popolari. Temo di essere fuori strada, ma sicuramente, rispetto alle altre, sono opere calorose. Perché scegliere un elemento così effimero, leggero, per trasformarlo in una geometria netta, in un quadro astratto?

Gli arazzi di piume nascono dallo studio degli oggetti usati per rituali sacri dalle civiltà sopracitate; nelle popolazioni Pre-colombiane soprattutto, la piuma aveva una connotazione divina. Non a caso l’associazione con il divino-pagano è presente un po’ in tutti i miei lavori, mi riferisco alle Coppelle su granito, alle Costellazioni su legno ed ora agli arazzi di piume. Gli arazzi sono realizzati con la stessa tecnica Nazca di 2000 anni fa, i simboli invece sono rielaborazioni di greche Maya, mentre la scelta dei colori è personale e fa parte di una ricerca molto accurata che attuo da diversi anni, come anche l’utilizzo dei materiali, che non è mai casuale o modaiolo.

La scelta dei materiali mi interessa molto: da una parte stoffa e piume, dall’altra legno e granito. Il tuo approccio alla materia è fisico? La dicotomia che passa da un’opera all’altra nasce dalle tue dicotomie, oppure è un ragionamento più logico/funzionale?

Mi sono sempre posta il problema della

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scelta dei materiali con i quali lavorare, il mio approccio è molto pittorico, e questo lo si percepisce in ogni lavoro, ma contrariamente alla pratica di ogni artista che si esprime attraverso la pittura, nel mio lavoro non sono presenti gli elementi base di questa tecnica espressiva, anzi esattamente il contrario.Sono attratta da tutti i materiali che già strutturalmente hanno un loro background specifico ma di origine naturale, una sorta di ‘memoria biologica’, mi riferisco al legno, alla pietra, alle piume e loro derivati (carte, tessuti etc).Sono molto interessata alla specificità tecnica di questi elementi e dal momento che lavoro espressamente sul ‘concetto’, avere un supporto materico che ne amplifichi il pensiero è essenziale.

Il secondo elemento ovviamente è il colore. Il tuo colore è innanzitutto decorativo, delicato e calibrato rende viva la forma geometrica senza prevaricarla. Un atteggiamento tipicamente femminile, che va inteso come quella capacità lieve che alcune donne hanno nel creare equilibri leggeri, quel tatto per cui si gestiscono le situazioni senza farlo pesare all’esterno. Anche la scelta dei toni non è casuale, tenui e decisi assieme. I bianchi, i grigi con tocchi di rosa pastello, azzurro carta da zucchero... e il risultato finale è di perfetta armonia. Come percepisci l’equilibrio?

Il colore è parte integrante dell’opera, al pari della materia e del concetto, e ne è una parte fondamentale.U

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E’ la prima volta che il mio lavoro viene definito ‘femminile’ (e non mi dispiace), normalmente l’approccio geometrico, pulito e privo di elementi decorativi è associato all’astrazione geometrica tipica dei pittori maschili della metà del Novecento.La palette dei colori fa riferimento alle tinte presenti nel luogo delle mie origini, ovvero il Lago Maggiore, e quindi i blu e i verdi sono dati dalle sfumature e dalle ombre delle montagne, i grigi dalle rocce, il rosa e l’azzurro dal cielo e il bianco è la somma di tutti questi colori.

In realtà poi di geometria pura ce n’è poca nelle tue opere, sono forme nette ma complesse, su cui però disegni cerchi che sembrano tracciati col compasso. Il cerchio come simbolo di perfezione, il cerchio della vita o il simbolo ultimo? O tutto questo assieme? Questa ricerca di elementi base, semplici -nella loro complessità di rimandi- assolutamente riconoscibili nasce da una voglia di ordine superiore?

Si c’è molta geometria nelle mie opere, proprio perché se andassimo a scomporre ogni elemento presente nell’universo ne vedremmo solo la sua struttura geometrica, mi riferisco ai frattali, alle

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strutture atomiche degli elementi e a tutte le forme complesse presenti in natura.Trovo che la geometria sia il linguaggio universale, una sorta di codice binario che costituisce ogni cosa, ma soprattutto la forma geometrica non è interpretabile, è genuina, autentica e non crea fraintendimenti.Sicuramente c’è anche un desiderio profondo di ordine interiore più che superiore.

Parlando sempre di geometria esiste un gioco di prospettive ingannatrice divertente, le campiture di colore in realtà servono a modificare la visione della

forma principale animandola. Interviene sulla visione sia la prospettiva reale che quella disegnata andando a spiazzare lo spettatore. Questo elemento va quasi a bilanciare la serietà delle forme, invita al gioco. La ricerca armonica che ancora una volta traspare tra la staticità e il movimento. Ci sono regole nell’arte?

Ti rispondo riprendendo la fine della tua domanda, ovvero se ci sono o meno regole nell’Arte, la risposta ovviamente è no, nessuna regola ed è per questo che ci emozioniamo continuamente tramite l’Arte Contemporanea.

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Nonostante queste forme rigide credo ci sia un elemento magico in quelle sculture, i puntini chiari sono universi: cieli densi di costellazioni immaginarie, delle cosmogonie possibili. Sono vie di fuga?

Sono costellazioni, mappature astrali che determinano in modo assoluto, l’ora e il luogo terrestre d’osservazione. Sono istantanee universali che non lasciano nulla all’interpretazione ma anzi richiedono una buona dose di studio e pazienza per essere lette.Nelle mappature, spesso includo date personali e non solo, alcuni lavori ad esempio hanno una propria carta d’identità incisa o dipinta sulla superficie, in pratica ogni lavoro può essere letto attraverso vari strati di informazioni sedimentate o sovrapposte le une alle altre, attraverso la forma, la materia, il colore, e la presenza o assenza di altri elementi.I miei lavori in generale, richiedono del tempo da parte del fruitore, tempo non solo da dedicare all’opera, ma tempo per ascoltare, sentire, percepire anche le proprie considerazioni.In conclusione credo che si possa definire la mia ricerca artistica come una “Slow Art” concettuale.

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( Vicenza - 1984 )ANDREA MAGARAGGIA

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Mi interessano molto le storie, non più delle opere, ma le storie sono il modo semplice per spiegare le cose. Come hai fatto a capire che questo scarnificare astrazioni era il tuo modo di fare arte?

Premetto che quello che posso raccontarti riguardo al mio lavoro è mutevole e contingente. Sono convinto che l’opera sia la formalizzazione di un’essenza. Il problema è che non so che cosa sia l’essenza e non mi resta che tentare di fare di volta in volta delle ipotesi. Credo che la si possa individuare solamente parlando di altro.Realizzare un lavoro implica un movimento da “un dentro verso un fuori”; in questo

spostamento c’è un istante di contatto tra il gesto e la realtà, che diventa opera.Quello che faccio può essere considerato in qualche modo il risultato di un continuo scarnificare, come dici tu; un rosicchiare il quotidiano, arrivando a diversi gradi di consunzione.Circa la metodologia, credo che non avere “un modo di fare arte” sia la cosa migliore in assoluto. Non è retorica: si tratta di provare a riscrivere tutto ogni qualvolta ci si connetta con quell’essenza di cui si accennava.

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Può sembrare un ossimoro, ma vorrei partire da ciò che resta, che guarda caso è anche il titolo della tua ultima personale. “Ciò che resta” può essere contemporaneamente lo scarto di un processo, oppure l’elemento fondamentale a cui sono stati levati gli orpelli. Tu parli di silenzio, ma è veramente importante capire di quale delle due opzioni parliamo? Ciò che resta è la parte che si consegna allo spettatore, quanto e come ci pensi al destinatario finale?

Ciò che resta rimane in quanto dato fattuale e punto di inizio. Ciò che resta non è né un bene né un male. E’ semplicemente aver a che fare con delle cose, appunto, rimaste. Delle volte l’opera è vicino all’idea di processualità, altre volte presuppone una sospensione: un “appena prima” e un “subito dopo” in una linea temporale senza direzione specifica.

Nell’opera credo ci sia molto di inesplorato e inconcluso, innanzitutto per me stesso. E’ materia, relitto, geometria, a tratti purezza. Non trovo necessario consegnare altro allo spettatore.

Sembrerebbe che tu sia in bilico tra scegliere la perfezione geometrica delle forme e il fascino della casualità, c’è un certo feticismo in tutto questo. La materia ruvida, industriale, che si comprime in un piccolo blocco. Oggetti minuscoli rispetto la media. Dimensione e forma che rapporto hanno con la realtà?

Credo che la geometria e la casualità aiutino l’uomo a sopravvivere.

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Grazie a Wikipedia ho scoperto che: “In biologia, il termine apoptosi (coniato nel 1972 da John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e A. R. Currie a partire dal termine greco che indica la caduta delle foglie e dei petali dei fiori) indica una forma di morte cellulare programmata, termine con il quale il processo è anche chiamato. Al contrario della necrosi, che è una forma di morte cellulare risultante da un acuto stress o trauma cellulare, l’apoptosi è portata avanti in modo ordinato e regolato, richiede consumo di energia (ATP) e generalmente porta ad un vantaggio durante il ciclo vitale dell’organismo (è infatti chiamata da alcuni morte altruista o morte pulita).” Tu hai chiamato tre opere con questo nome, è una serie conclusa? C’è corrispondenza tra il metodo di creazione delle opere e la vita delle cellule apoptosiche?

Una sera un amico, che studia medicina, mi ha parlato dell’apoptosi nei termini che hai citato sopra. Sono rimasto molto colpito da questo autocontrollo genetico che l’organismo attua per un “bene comune” e per la sua sopravvivenza. Ho trovato estendibile anche ad alcune parti del procedimento artistico l’idea che alcuni nuclei debbano essere controllati e di conseguenza eliminati per un “bene superiore”.Uno degli aspetti che ho sviluppato in Apoptosi, un work in progress su cui lavoro da qualche anno, è l’impossibilità che si ha nel comunicare tutto e subito. Il lavoro finito conserva delle aree inconcluse, che devono ancora assumere una forma specifica e che poeticamente

sono in divenire; ci sono parti che non sono più riconoscibili per la modificazione della materia.Il tutto non è percepibile in un’unica forma, ma c’è bisogno di vederla complessivamente nei suoi scarti, nei suoi ritardi e nei suoi eccessi. Anche se una cellula è sana, non è detto che sia necessaria all’organismo e quindi può essere sottoposta ad un controllo ed eliminata.Questa necessità permette di lasciare nel procedimento una parte in continua definizione, una zona in cui non posso provare a dare troppe spiegazioni.

Come se non bastasse ti piace giocare col fuoco, elemento ingovernabile. È una questione materica, legata quindi a come il fuoco cambia le cose, oppure si tratta di quanto un’opera sia sotto il controllo di chi la crea e quanto invece ha vita propria?

Il fuoco rende immaginabile quello che prima era visibile.La combustione, che coinvolge una parte del lavoro, determina una sorta di accelerazione del processo di modificazione del materiale, interrompendo l’uniformità temporale dell’opera stessa. Contemporaneamente l’oggetto subisce un procedimento d’irriducibile semplificazione: una sintesi verso il suo potenziale più basico.

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Hai preso un piccolo quadrato di non so quale materiale, a me sembra marshmallow bruciacchiato, ma in fondo poco importa, poi lo hai fotografato e incorniciato. Il titolo è De sculptura. Ora, cercando di superare l’effetto furbetto del tutto, la tua riflessione del rapporto tra quadro e scultura, e ancor di più l’idea di opera scultorea nella sua assenza, si relazionano con la tua ricerca personale, o è uno sguardo più ampio sul concetto artistico in sé?

Il cubo nella fotografia De sculptura è di paraffina e kerosene.Quello che rimane di scultoreo è l’immagine di un potenziale possibile. Quel piccolo volume esemplifica un ritorno ad un’unità di misura fondamentale da cui poter ripartire a pensare la scultura. Nonostante la sua parziale combustione, l’opera è pronta a produrre ancora molta energia.

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Un’altra opera che mi ha incuriosito molto è a-b-a, nel cui titolo si esplica benissimo la situazione rappresentata: un processo che non parte e si raggomitola su se stesso. Un mix letale di arroganza e auto-sabotaggio. Come ci fosse in te una grande forza che tieni compressa e invece di scoppiare decidi di andar cauto, di tenere tutto sotto controllo. Se lasci andare la parte razionale cosa succede?

a-b-a è un passaggio di stato che si concretizza attraverso il duplice materiale utilizzato nella sequenza: stoffa, gesso, di nuovo stoffa.Il pezzo di gesso è privo delle sue estremità iniziali. Di conseguenza, non ha né un inizio né una fine. L’oggetto trova la sua dimensione nel dialogo con due lembi di stoffa, dalla superficie triangolare, poggiati sul pavimento.Il volume, aiutato dalla bidimensionalità geometrica del tessuto, tende verso un completamento visivo di cui non sarebbe capace autonomamente.

Le tue opere sono sempre collocate nello spazio molto attentamente: Arch over ha bisogno di uno spigolo a vivo, Apoptosi III necessità una nicchia doppia… oppure possono star bene ovunque, semplicemente nel luogo in cui le hai installate stavano bene lì? Come affronti l’allestimento, è parte integrante della creazione di un’opera o un’azione successiva?

Credo fondamentale una precisa installazione del lavoro, sia che si tratti di un luogo definitivo o strettamente momentaneo. La scultura è fare spazio.

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La tua arte è in controtendenza: è poco urlata, un lusso per pochi. Senti di doverla proteggere dalla realtà?

E’ difficile non essere omologati, sarebbe pretenzioso definirsi controtendenza quando cerco semplicemente di impostare la mia ricerca. Credo che non ci sia nulla che debba essere protetto dalla realtà.

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MARGHERITA MOSCARDINI( Donoratico - 1981 )

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La sinossi di questa intervista è che avrei voluto intervistarti già nel secondo numero, quello sui luoghi, ma in quel momento non avevo trovato un contatto e abbastanza materiale. E forse è meglio così, perché se è vero che i luoghi sono un tuo punto di partenza, si rischia una lettura superficiale dei tuoi lavori se ci ferma lì tralasciando l’approccio mentale. É una ricerca lucida la tua, che più che di paesaggi parla di mura costruite nella mente. In fondo non c’è via d’uscita dal nostro cervello, o no?

Avrei potuto dire poco dei contesti in cui lavoro. Mi piace descriverli, apprezzo la descrizione come forma di scrittura: è onesta e da poco spazio alla vanità.

C’è una certa noncuranza nel modo in cui le tue opere si svelano allo spettatore, è qualcosa di molto bello, non sono prevaricatrici. È come se fossero inserite in cicli temporali lunghi: il tempo in cui sono state pensate e poi quello in cui sono state fatte, il tempo in cui vengono osservate e infine quello in cui diventano altro. I minuti, le ore, sono un qualcosa di impalpabile, eppure ne siamo tutti un po’ schiavi, il tuo è un tentativo consapevole di alleggerire il peso del tempo?

Non penso che il tempo sia pesante. Semmai è intenso. Che vuol dire che si è stati attenti. E se si è stati attenti non si è schiavi di niente.

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In un’intervista, a proposito della differenza tra processo e opera finale, dici: “ [...] è difficile separare l’esperienza delle fasi costruttive del lavoro dalla forma che ne esce. Forse io cerco di assomigliare di più al processo perché il risultato somigli al luogo. Diciamo che cerco di esserci il meno possibile”. È come se prima di ogni opera ti scrivessi le regole di un piccolo sistema mentale che deve auto-sostenersi, lavori in un regime di disciplina auto-imposto? Da dove deriva questa necessità?

“(Cézanne apre le mani con le dita divaricate, le riaccosta con tutta lentezza, le unisce, le serra, le intreccia convulsamente) Ecco quello che si deve raggiungere. Se passo troppo in alto o troppo in basso, tutto è perduto. Non ci deve essere una sola maglia troppo allentata, un solo foro attraverso il quale la verità possa sfuggire.”Grammatica e sintassi devono essere precise. Non necessariamente chiare: quello è un fatto di generosità dell’autore. Non sono libera, sono totalmente condizionata dai limiti, dal contesto. C’è un punto poi in cui il lavoro genera le sue regole e si apre a variabili su cui non ho controllo. Ma l’importante è che questa rimanga un’attitudine, una temperatura, e che mai diventi un metodo o peggio una tecnica. Perché se dovessi scegliere una tecnica, sarebbe la pittura.

C’è quasi un feticismo nel tuo modo di raccontare le storie legato a “ciò che resta”, alle fonti della ricerca piuttosto che

agli elementi fisici che testimoniano un passaggio temporale o materiale. Opere come Una Stanza / Fuori Luogo, realizzata per la personale a Pistoia del 2010, esprimono proprio questa ossessione che al contempo è frustrazione. Una Stanza / Fuori Luogo poi è un’opera decisamente complessa da affrontare: sei partita da Terza Stanza, un lavoro realizzato per la stessa galleria, ma nella sede precedente, che consisteva in un davanzale molto profondo costruito posticcio di fronte ad una finestra. Sul davanzale una lampada da tavolo illuminava il paesaggio esterno. Era un lavoro visionario, di speranza. Nel 2010 invece lo riproponi accartocciato su se stesso, riconoscibile, ma trasformato grottescamente. Quindi in un colpo solo hai smascherato la provvisorietà dell’opera precedente e hai raccontato qualcosa di nuovo. Sei in attesa della terza fase del progetto: la trasformazione permanente, ma il desiderio di permanenza di chi è?

Nel 2008 venni invitata a lavorare su una delle tre stanze che componevano la vecchia galleria insieme ad altre due persone. Ad ognuno era destinata una stanza, io scelsi la Terza. Quello era un appartamento ricavato da uno spazio industriale, progettato dal gallerista quando ancora era un artista, come casa-studio. Osservando come il disegno di quello spazio continuasse ad esprimere tutte le esigenze di un luogo di osservazione e di lavoro, mi limitai ad evidenziarle, rimuovendo quello che secondo me era superfluo. Utilizzai una struttura di cartongesso, che mentre

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simulava l’amplificazione dell’architettura esistente, in parte la nascondeva. Rimossi gli infissi e i vetri delle finestre. Passavano aria pioggia e foglie. Una lampada da studio tutta di ceramica bianca era fissata sul davanzale e diretta in esterno, ospitava un sistema di illuminazione stradale che proiettava sul parco di sotto. Dopo due anni fui invitata a progettare la seconda mostra personale nella nuova sede.In quei mesi iniziai a sviluppare

un’insofferenza verso il regime programmatico che chiede a ricerche e spazi espositivi di resettarsi in favore di nuovi eventi: come dice Vattimo la continua produzione di nuovo (caratteristica post-storica della modernità) è ciò che spinge le cose a rimanere le stesse. Pensare da zero un progetto per il nuovo spazio sarebbe stato poco più di un esercizio per me in quel momento. La sola cosa che aveva senso era riaprire il progetto Terza Stanza, ricostruendola dove e come era stata realizzata due anni prima ma con caratteristiche di permanenza, con lo scopo di sottoporre l’ambiente ad erosione monitorata. L’evento espositivo sarebbe stato presentato

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come una performance, e la vita del lavoro stesso, sottoposto a continue trasformazioni, sarebbe stata un lungo evento fino alla sua sparizione. Stavo accogliendo l’intenzione del padrone di casa di destinare quell’appartamento ad una specie di residenza per artisti. La Terza Stanza in muratura sarebbe stata a disposizione degli ospiti che nel tempo avrebbero potuto modificarla strutturalmente secondo le loro esigenze. Gli ospiti, complici degli agenti atmosferici esterni, avrebbero lavorato sull’ambiente rendendolo della stessa sostanza del paesaggio (incorniciato dalla Terza Stanza). E l’intervento avrebbe espresso, in uno spazio funzionale e abitato, le logiche dell’erosione regolate dal tempo e

dalla fisica. Il gallerista non accettò, benché gli rinnovai la proposta quattro volte. Infine decisi di presentare la struttura di Terza Stanza come oggetto all’interno del nuovo spazio, ricavandone le dimensioni originali dagli unici elementi di cartongesso esistenti: le pareti divisorie del magazzino e dell’ufficio. Terza Stanza diventò una scultura: Una Stanza/Fuori Luogo. Al comunicato allegai una dichiarazione di intenti in cui mi impegnavo in futuro a

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realizzare l’intervento come permanente nella vecchia sede. Non collaborando più con quella galleria ho rinunciato a terminare il progetto come da intenzioni. Ora penso ad una pubblicazione che racconti il lavoro, e spero si concretizzi presto la possibilità di vedere una Terza Stanza permanente. Il desiderio di permanenza credo sia di tutte le cose che pretendono sincera trasformazione.

Nel progetto TheLandscapeProject i vetri che hai utilizzato vengono poi fusi nuovamente e destinati ad essere finestre. Un ciclo di vita che si ripete perpetuo come se tu stessa scappassi dalle tue opere. Eppure crei situazioni di fusione costante col territorio in cui ti collochi, legami ottici e mentali tra chi guarda e cosa guarda e dove guarda. Opere come Untitled (casabianca), 2011, o Panoramica, 2008, mi fanno pensare che invece ci sia una certa reticenza nel distruggere, nel lasciare andare. Che legame c’è in fondo?

C’è che comunque vada il lavoro sparisce. Perché nella sostanza è un evento. La cancellazione può essere visiva, quando il contesto architettonico si polverizza insieme alla mia costruzione. Oppure affidata al processo naturale, che modifica l’aspetto iniziale dei plastici viventi. La demolizione poi è il risultato delle logiche espositive degli spazi e di tutto un sistema. Ad eccezione di due oggetti ho sempre distrutto tutti gli interventi temporanei.

Progetto per l’Aquila è qualcosa che va al di là dell’opera d’arte, ha una forte funzione sociale, di denuncia, e hai giustamente voluto diffonderlo su un canale diverso, più mainstream, come quello delle sale cinematografiche. Sei entrata in punta di piedi in una città ancora distrutta, una ferita aperta, e la hai raccontata con grazia e pudore. Parallelamente hai coinvolto poche persone a vivere di persona la stessa esperienza riportata in video. Che reazione hai avuto al progetto da parte dei partecipanti? La parte performativa è stata dettata da una necessità di vicinanza fisica in un processo così difficile?

La visita nella zona rossa è stata presentata come un sopralluogo nel backstage, dove le mie figure si animavano al passaggio di un gruppo ristretto di persone. E’ stata un modo per esprimere l’analogia tra la città deserta ed una scenografia in scala 1:1. Forse è stata becera, il lavoro era da un’altra parte: prima, nella costruzione delle immagini, e dopo, nelle proiezioni che ci saranno. Ci sono contesti in cui l’arte facilmente diventa niente. Si era deciso di organizzarla per restituire subito una traccia del lavoro svolto nei giorni precedenti, e che aveva coinvolto tante persone. Oltre a Francesca Referza, Stefano Ianni e l’architetto D’Alò, in trenta hanno regalato il proprio lavoro per il mio intervento. Per loro e per i committenti è stata decisa la visita. I non aquilani (assenti) avrebbero potuto visitare la zona rossa, ma al pubblico dell’arte piacciono i prosecchi. A L’Aquila i pietismi

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si superano subito: la gente cammina per le vie del centro bombardato ed evacuato perché rivuole la sua città. Sarebbe il caso che le auto di grossa cilindrata la disturbassero meno, per pudore. E che le autorità italiane esprimessero francamente le loro intenzioni.

Le storie dei luoghi ti affascinano, abbiamo già parlato della fase processuale, di ricerca, che precede sempre il lavoro finale, il luogo è un campo di lavoro disponibile a chiunque voglia occuparsene, certo che A project for the Ancient Bath, l’opera realizzata in Bulgaria al termine della tua residenza, è quasi esagerato nel suo voler racchiudere elementi. L’acqua che sgorga dai cassetti del tavolo, vuole rappresentare l’impossibilità reale degli oggetti di contenere tutti gli indizi necessari?

L’acqua contenuta nel tavolo proviene da sei fiumi che attraversano la Bulgaria. E’ chiusa nei cassetti perché possa uscire e disperdersi a terra, simulando ciò che accadeva al Bagno Pubblico quando era in funzione. Il discorso che mi interessa non è tanto il fallimento dell’archiviazione: quello è naturale, come tutti gli atteggiamenti di raccolta che hanno l’ambizione a completarsi: collezionare, rappresentare... A proposito, c’è un passo molto bello dell’Artefice di Borges. Si chiama Del Rigore della Scienza e dice: “... In quell’ Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava tutta una Citta’, e la mappa dell’Impero, tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe Smisurate non soddisfecero più e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero che

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aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive Compresero che quella immensa Mappa era Inutile e non senza Empieta’ la abbandonarono alle inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest restano ancora lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; nell’intero Paese non vi sono altre reliquie delle Discipline Geografiche.”L’intenzione è invece dimostrare che quanto accade ad un sistema idrografico (refrattario per natura alla rappresentazione), è esattamente quello

che mantiene in vita un edificio come l’Ancient Bath, in stato di decadimento monitorato. Il Bagno Pubblico di Plovdiv è un edificio in rovina ed insieme una struttura pubblica funzionante, grazie all’attività del Centro per l’Arte Contemporanea che lo occupa. La direzione del Centro finora si è presa cura dell’edificio senza attivare riforme strutturali massive, semplicemente vivendo lo spazio giorno per giorno. In questo modo l’edificio si mantiene vagamente adeguato ad ospitare il pubblico.Questo tipo di atteggiamento potrebbe

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essere un’alternativa concreta al restauro, che spesso si adopera al ripristino selvaggio di intere strutture riportandole all’immagine che si presume l’edificio abbia avuto in un’epoca x. Lasciando lo spazio in una sorta di decadimento monitorato invece, lo si sollecita ad esprimere tutte le epoche che ha attraversato senza per arbitrio sceglierne una. Ossia, lo si invita a comportarsi come il paesaggio, ad erodersi. Cioè, se l’erosione non è cancellazione né consumazione ma spostamento di energia che va a colmare lacune, allora l’economia dell’ambiente non subisce perdite: cambia. In Bulgaria questo modo non è frutto di idee sperimentali, ma di necessità concreta. Questo fa del Bagno un capolavoro, rendendo tutto quello che ospita un pretesto per visitarlo.

Se tu sei sempre coinvolta pienamente nelle opere, anche se nascosta, lo spettatore invece è tenuto a bada. Nella maggior parte dei casi non può realmente arrivare vicino al lavoro, oppure gli viene indicato il punto preciso da cui guardare. È una distanza che ritieni necessaria affinché sia costretto a riflettere, senza passar oltre con indifferenza?

Il punto è stabilire dove sta il lavoro, dove finisce, le sue dimensioni, l’ingombro. Prendi Untitled (2009). Per avvicinarsi al mio intervento il visitatore dovrebbe forse salire sul Montalbano?Voglio dire, il momento di precisione indicato dallo sgabello da disegno, ha lo

scopo di superare i limiti fisici del lavoro, e spostare l’attenzione sul contesto. Mostrare che quel blocco di pietra e argilla con il suo ingombro ed il suo peso è destinato a scomparire appena lo sguardo si allarga.Questo modo di suggerire non ha a che fare con il punto di vista unico, e neanche con la prospettiva rinascimentale, che certamente ha avuto un senso: Untitled è stato realizzato in un complesso rinascimentale; costruirlo come un dispositivo prospettico ha significato riportare la visione all’epoca in cui lo stesso complesso della villa veniva disegnato, sotto l’influenza di quei principi ottici. Dopodichè ho bisogno che il lavoro sia riconoscibile come fatto d’arte al di la della circostanza in cui si inserisce. Altrimenti si sta al gioco delle convenzioni. Lo spazio espositivo che autentica, il comunicato che da credito, la didascalia che conferma. Spero non mi riguardi mai. Sì, allenare l’attenzione penso sia ancora responsabilità di ogni autore.

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1- A project for the Ancient Bath (dettaglio dell’intervento) - 2011 - foto Elitsa Sarbanova - mdf, plastica, pittura acrilica, carta cotone - 90x140 cm - 5 kg di acqua dal fiume Iskar, 5 kg di acqua dal fiume Danubio, 5 kg di acqua dal fiume Struma, 5 Kg di acqua dal fiume Arda, 5 kg di acqua dal fiume Maritza, 5 kg di acqua dal fiume Kamtschia

2- To formentor on the right - 2010 - stampa lambda - 26x34 cm - serie di 11 foto prese da diversi punti di vista lungo un arco di 180°, in una riserva marina vicino Formentor, Mallorca, Spain - ogni foto non sarà mai esposta vicina

3- Terza Stanza - 2008 - foto Dario Lasagni - intervento strutturale ad hoc per la Galleria SpazioA - Pistoia, ex-casa/studio - carton-gesso, ceramica bianca smaltata, lampada a ioduri Realizzato e distrutto

4- Progetto per L’Aquila - 2011 - foto backstage Stefano Ianniserie di 5 film HD 16:9 - durata 23’ - audio ambientale - sedi varie, zona rossa, L’Aquila (ogni film sarà proiettato in diverse

sale cinematografiche italiane come immagine muta che precede la proiezione) qui: la facciata della chiesa di S. Domenico, rinforzata con grossi sostegni di legno

5- A project for the Ancient Bath - 2011 - foto Elitsa Sarbanovail disegno riproduce la sovrapposizione del sistema idrografico bulgaro con il mar Nero, alla pianta dell’Ancient Bath

6- A project for the Ancient Bath (veduta parziale dell’intervento) - 2011 - Foto Elitsa Sarbanova - mdf, plastica, pittura acrilica, carta cotone - 90x140 cm - 5 kg di acqua dal fiume Iskar, 5 kg di acqua dal fiume Danubio, 5 kg di acqua dal fiume Struma, 5 Kg di acqua dal fiume Arda, 5 kg di acqua dal fiume Maritza, 5 kg di acqua dal fiume Kamtschia.

7- Progetto per UNTITLED - 2009

8- UNTITLED - 2009 - foto Dario Lasagni - blocco di arenaria, blocco di argilla, terra, erba, quercia bonsai, tubo neon 150 cm, sgabello regolabile (dimensioni ambientali) - realizzato e distrutto

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Fin da subito mi hai avvertita di un tuo rapporto conflittuale con le parole, le tue opere sono private della scrittura, sono praticamente tutte Senza titolo. Ogni artista vive la questione del titolo diversamente, chi se ne serve solo per distinguere i lavori, chi racconta storie parallele, che spiega. Come mai Senza titolo? Non serve o non c’è?

Più volte ho pensato alla questione del titolo, arrivando quasi sempre alla conclusione che il lavoro avrebbe funzionato meglio senza. Questo accade perché in un modo o nell’altro si esclude qualcosa, altre letture a cui non vorrei rinunciare. Solo recentemente ho pensato

di siglare i lavori per una questione d’archiviazione. Ho evitato il titolo anche per il fatto che ogni opera è collegata a tutta la ricerca, e che quindi le chiavi di lettura sono riconoscibili, oltre che nel singolo, all’interno di tutto il lavoro. Credo che questo possa aiutare chi guarda a non perdersi troppo. Inoltre in alcune opere come, ad esempio, le uova o i disegni, ci sono appunti minimi, numeri o parole che rispecchiano una sorta di mappatura mentale. Non sono così restia alle parole, mi sembrano molto limitanti e limitate ad un momento particolare, ovviamente per il mio modo di usare questo strumento, invece nelle opere questa temporalità svanisce.

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Quello che spicca subito agli occhi è un legame con la natura, intesa proprio come archivio di forme possibili. Rami e rocce sono l’elemento principale, seppur stilizzati e fuori contesto, non cerchi di ricostruire un ambiente, ma li utilizzi come simboli, quasi fossero parte di un linguaggio arcaico. Questo legame è una tua necessità personale oppure credi sia strumento per un linguaggio universale?

Sono sicura che porti ad un linguaggio universale, è un legame sacro, per me è stato naturale, ma non è così per tutti. Ci sono tante vie, ognuno può trovare la sua. Nella mia ricerca ho dato attenzione ai processi naturali sotterranei, ho cercato

di assimilarli per capire leggi che mi avrebbero aiutato a crearne delle mie. Un po’ come quando si studia l’anatomia umana perché si crede che dallo studio di un sistema perfetto si traggano le giuste regole per fare tutto il resto. Io ho preferito imparare dalla natura dei graniti e delle piante, perché era più nelle mie corde. Ho cercato da subito di indagare meccanismi e tensioni che sono alla base di ogni trasformazione nella natura e nell’uomo. I movimenti di tensione, crescita, espansione, cristallizzazione e trasmutazione, sono dei principi “universali” che si possono riconoscere sia nei processi fisici della materia ma anche nei processi mentali e comportamentali.

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Questi processi vengono ben espressi nelle leggi astrologiche legate ai pianeti transgenerazionali e ai loro cicli. Lo studio dell’astrologia -quella seria- è stato fondamentale per questo percorso. Per capire le leggi sotterranee dei cicli naturali cercavo di ripetere delle tensioni/direzioni di crescita, magari all’inizio in modo un po’ didascalico. Che le opere risultassero avere un aspetto “naturale” è stata una conseguenza di questa modalità, non era mia intenzione copiare o riprodurre delle forme già presenti.Si tratta per me di lavori decisamente astratti, mentali, come dici tu delle forme simboliche di un linguaggio. L’osservazione della natura è stata fondamentale per capire come dovrebbe svolgersi una ricerca necessaria, ossia funzionale: essa dovrebbe avere delle leggi interne adatte per portare un contenuto, una visione. Tutto dovrebbe essere calibrato, senza niente di superfluo, così il linguaggio si sottrae per portare pienamente il significato che si vuole dare.

Produci poche opere all’anno, esiste una motivazione pratica, suppongo, legata a costi e tempi di produzione, ma ne esiste anche una di ricerca? Produci anche “scarti” che poi non mostri? Come avviene il processo di scelta dell’idea giusta?

Mi piace la sintesi, non credo sia utile creare opere non funzionali, dunque se mi accorgo che un progetto è poco chiaro lo abbandono, gli scarti indebolirebbero tutto. È come se ci fosse una tensione che

va direzionata senza sprechi. Allo stato attuale mi interessa concentrare questa spinta/direzione e cercare di tradurla. Ci sono dei momenti in cui faccio fatica a lavorare con i materiali e mi dedico a sviluppare l’idea con l’aiuto di disegni e appunti; così riesco a incanalare e capire su che “forma esperienza” devo lavorare. Se non è tempo di mettere mano al lavoro pratico escono solo cose tremende. Questa è la mia esperienza sino ad ora. Da una parte è un modalità un po’ frustante perché nei periodi di “stallo”, per quanto poi si rivelino produttivi come una sorta di lavoro inconscio, non hai mai la sicurezza che qualcosa arrivi e questo non da molta prospettiva. Poi qualcosa di nuovo si presenta, o meglio accade. Dicendo accade può sembrare che il mio sia un metodo di lavoro irrazionale o poco pensato, invece trovo che sia il contrario. C’é molta concentrazione quando realizzo qualcosa dopo averla elaborata: i pensieri inutili scompaiono, arrivano le intuizioni e tutto è molto spontaneo. Stranamente sono i pochi momenti in cui so esattamente cosa devo fare. Sicuramente ci sono opere valide che non ho mostrato nel portfolio o sul mio sito perché comunque bisogna fare una selezione, non si può mostrare tutto, soprattutto online perché prima di tutto le opere vanno vissute a pelle, dal vivo.

Molte tue opere possono sembrare molto semplici, penso alla scultura realizzata con gli scheletri degli ombrelli. Oppure quella realizzata da un insieme di strutture a tre gambe di diverse

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0dimensioni che sembrano il profilo di una catena montuosa, o di un bosco. Opere lineari e terribilmente fragili, sembrano sospese precariamente nell’atmosfera. Ti rispecchi molto nei tuoi lavori?

Si, probabilmente mi somigliano e rispecchiano il mio percorso. Effettivamente le opere più recenti sono frutto di una sintesi, un percorso obbligato che da più attenzione alla struttura e alla linea. Mi piace lavorare sui solidi geometrici con le forme cristalline o

degli alberi; in particolare osservo come si sviluppa la ramificazione in certe famiglie di piante. Non saprei se il fatto di lavorare con supporti fragili sia indice di qualcosa di personale; fa parte della mia ricerca lavorare su materiali che si possono sciogliere al sole o per effetto dell’acqua. Non è mai stato un problema semmai una scelta; non m’interessa l’idea di fare opere eterne, vorrei, in primo luogo, documentare un processo. Lavoro con materiali poco costosi che si possono trovare in un qualsiasi

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supermercato, oppure di recupero. Sono materiali che si adattano perfettamente alle leggi dell’opera e ne rafforzano l’idea. Ad esempio la paraffina delle candele era l’ideale per lavorare sulle crescite sopra le rocce di gesso -forme colate nella terra-. Modellavo ogni pezzo nella cera calda e poi lo saldavo per creare delle ramificazioni. Forse ciò mi aiutava a elaborare meglio certe nuove idee, a fare dei collegamenti, ma il processo in generale si adattava all’idea di nascita che volevo tradurre: qualcosa di fragile, da proteggere.

Il bianco è il tuo colore, in questo numero di TEMA c’è molto bianco, come se, nel tentativo di astrarsi dalla realtà in maniera cognitiva, i colori diventassero fardelli. O forse il bianco aiuta a concentrarci sulla forma piuttosto che sul materiale?

Si, è esattamente così. Per me il colore bianco serve da segnatura all’interno di tutta la ricerca perché oltre a dare unione ad essa aiuta a creare nell’opera quella patina opaca che fa si che il materiale parli di meno a favore dell’idea/forma. Crea, appunto, uno spazio astratto, mentale e silenzioso. Ovviamente le simbologie legate al bianco non sono riducibili in poche parole: oltre ad essere il colore della luna e anticamente anche il colore collegato a Saturno, trovo che il bianco abbia la qualità di riflettere la luce ambientale, diversa in ogni momento e, per l’appunto, restituirla tradotta.

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Il processo è un momento centrale del tuo lavoro, tant’è vero che diventa un’opera anche il materiale che racconta quella fase. Nel 2006 hai realizzato un libricino di 45 pagine, un Diario, in cui annotavi ogni informazione utile alla tua ricerca, ogni stimolo. Un oggetto del genere, per quanto possa sembrare un mero esercizio didattico, ha un fascino particolare perché permette allo spettatore di guardare oltre al velo, d’altronde gli artisti non usano forse le opere come scudi per nascondersi?

L’arte da la possibilità di esprimersi a chiunque e molti timidi rientrano nella categoria degli artisti. Per quel che mi riguarda ho capito che per me era necessario portare avanti questo percorso perché era l’unico modo che avevo per esprimere certe “volontà” che non sarei riuscita ad esprime con altrettanta precisione con altri mezzi. Quindi per molti è una salvezza.Il diario di cui parli inizialmente era personale; solo successivamente ho deciso di mostrarlo, anzi diciamo che mi hanno convinto. In fondo era un diario molto pratico in cui appuntavo possibili soluzioni, disegni, dubbi sui materiali, foto, parole, un po’ di tutto. Ancora oggi il diario di lavoro è fondamentale per me come anche il disegno perché danno struttura alla ricerca.

Nelle opere più recenti sembra che pian piano tu stia razionalizzando questo processo, se prima si trattava di prender

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nota del mondo naturale per poi tentarne una riproduzione (penso alle rocce di gesso con i finti coralli sopra -vedi cosa succede a non dar nomi alle cose :), adesso invece dopo l’osservazione passi alla scarnificazione, per arrivare ad uno scheletro leggero. È un processo pensato o istintuale?

Rispetto ai primi lavori ora c’è sicuramente più chiarezza e sicurezza. Anche se non ho mai voluto riprodurre consciamente delle forme naturali, nei primi lavori mettevo in atto una sorta di catalogazione di elementi che comunque erano forme tradotte, anche se in modo poco visibile. Ora cerco di sintetizzare sempre più le mie traduzioni, eliminare ciò che è inutile. Quindi ne deduco che ora il mio lavoro sia, come dici tu, più pensato, o meglio, controllato. Però non è neanche così; come ho già scritto non do così importanza al pensiero per se stesso, ma più all’intuizione come atto di coscienza che non è solo istintuale, ovvero legata al corpo fisico, ma qualcosa di più. Quindi se dovessi descrivere tutto il processo non direi che ho il controllo su tutto, fortunatamente non è affatto così. Altrimenti ci sarebbe ben poco di nuovo.

Tra il 2008 e il 2009 hai utilizzato il sapone per ricreare una sorta di archivio di forme. Alcune sembrano elementi di armi da fuoco, altre sono meno riconoscibili. Ancora una volta emerge questa voglia di catalogare, riordinare. Mi ricorda le vetrinette dei musei tematici, di quelli in cui trovi tutti gli oggetti possibili

attorno ad un argomento. Che cose cerchi di ricordare?

Sicuramente è un archivio; è un lavoro che andrebbe visto dal vivo e maneggiato perché ha delle particolari qualità tattili e olfattive. È molto difficile comprenderlo dalle foto. Anche in questo caso ho lasciato aperte tante letture. Io personalmente leggo questi oggetti come dei reperti, bianchi ,ingialliti, atemporali. Alcuni sembrano ossa, armi, armi giocattolo, ingranaggi. Mi piace pensare che siano dei frammenti dell’inconscio, memorie, desideri che possono essere sciolti, liberati, elaborati e trasmutati; infatti avevo pensato di chiamare questo lavoro Plutone, ma poi è cascato pure questo titolo.

Non hai ancora molte esperienze espositive, quando realizzi un’opera pensi comunque all’eventuale allestimento? Non dover pensare alla relazione con uno spazio rende più facile o difficile la sua gestazione?

Per molti anni sono stata insicura circa il mio lavoro e questo non ha aiutato a renderlo più visibile, infatti ha levato un po’ di divertimento e leggerezza. Forse era un periodo necessario, di elaborazione interiore. Per questo e per altri motivi legati al mondo dell’arte ho poche esperienze espositive. Quando lavoro ad un’opera cerco di immaginarla in uno spazio più adatto del mio studio, ma fino ad un certo punto; diciamo che magari non faccio tanti pezzi, cerco di

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fare una sintesi del progetto che può sempre essere ripreso e approfondito. Al contrario pensare all’allestimento di uno spazio reale da forza a tutto il lavoro, gli da un futuro e cambia completamente lo stato delle cose. Non è affatto più facile, ma permette di mettersi in gioco. Senza uno spazio reale a cui fare riferimento e dove condividere si rischia di fare dei piccoli “riassunti” da studio. Questo è un limite per la scultura e per le installazioni perché non sempre ci sono spazi adatti anche se fuori dalle gallerie ci sono innumerevoli “luoghi altri” che potrebbero essere sperimentati, forse è a quelli che bisognerebbe puntare.

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