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Spesso quando si desideradistrattamente qualcosa si finisce perottenerlo senza sapere che farsene. Èquello che scopre Anna, quarant’anni, unpassato prossimo doloroso e irrisolto,un presente di lavoro-passione eleggerezza forzata, quando IrideBandini, celebre autrice per ragazziconosciuta anni prima, le lascia ineredità una piccola casa, la portineriadella sua proprietà: un curioso,eccessivo gesto di gratitudine che invitaAnna a cambiare vita senza riflettercitroppo. Dalla città alla campagna,passato un primo periodo in solitarionuovi legami s’impongono, si rendononecessari: un capomastro gentile e

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devoto, l’ex segretaria e il figlioirrequieto della scrittrice, uno sceiccoche non è uno sceicco, una coppia dicontadini con bambine, tutti sembranovolere qualcosa da Anna, come se la suapresenza in quel luogo non fosse quasicasuale ma richiesta. E poi c’è unaraccolta di fiabe inedite ritrovate in unascatola di latta, ci sono le storie diguerra e d’amore che solo certe casesanno raccontare, e i conti da fare coipropri nodi quando continuano astringere, a far male.Un romanzo che parla della cura deglialtri e delle cose, di madri buone e figlicattivi o viceversa, di vino, cani efantasmi, del peso da dare a ciò che si fae alle parole che si scelgono per

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definirlo.

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Beatrice Masini è nata a Milano.Giornalista, traduttrice, editor, scrivestorie e romanzi per bambini e ragazzi.Tentativi di botanica degli affetti, il suoprimo romanzo per adulti (Bompiani,2013), ha vinto il Premio SelezioneCampiello, il Premio AlessandroManzoni e il Premio Viadana; giàpubblicato in Francia, uscirà anche inGran Bretagna e in Spagna.

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NARRATORI ITALIANI

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BEATRICE MASINII NOMI CHE DIAMO ALLECOSE

ROMANZO

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BOMPIANI

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© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A.Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano

eISBN 978-88-452-8078-8

Prima edizione digitale 2016 da edizioneBompiani gennaio 2016

In copertina: Tamara Dean, Reflection© Tamara Dean / VU’/ Karma Press Photo.

Progetto grafico: Polystudio.net

Quest’opera è protetta dalla Legge sul dirittod’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, nonautorizzata.

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Forse, come altre nobiliopere, l’uomo è raro.Forse ce n’è soltantouno alla volta.

Sylvia Townsend Warner

È la cipolla, lamemoria,che mi fapiangere.Craig Raine

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FINE, INIZIO

“Se tutte le persone intelligentifossero anche buone, il mondo sarebbeun posto migliore.” L’uomo in grigioaspetta che la frase cada nel silenziosfrigolando come una pastigliaeffervescente dentro un bicchiered’acqua. Piccoli cenni di assenso, testeche dondolano. Come parla bene. Studiale prime file: qualcuno ha già capito,annoda la fronte. “Siamo qui percelebrare una donna intelligente,

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intelligentissima. Una donna che hascoperto molto presto il suo talento perla scrittura e l’ha piegato a una causanobile: la letteratura per l’infanzia. Egrazie alle sue doti e all’infaticabileimpegno ha trasformato Cenerentolanella principessa che merita di essere, laBella Addormentata nella regina. Unadonna intelligente, dicevo. Buona” – unrespiro – “proprio no.”

Dai banchi si alza uno scricchioliodi stoffe troppo pesanti per la giornata,calda e luminosa in un modo scostante,fuori luogo. Minimi gesti d’assestamentoalla sorpresa. Ma ancora la confusione,e la compostezza, prevale. L’uomo ingrigio aspetta che torni il silenzio.Anche chi si è messo apposta in fondo,

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per uscire a fumare, telefonare odileguarsi appena possibile ha alzato latesta e lo fissa. Uno sguardo di sbieco alprete in allarme, giusto per rinfrancarsi.E poi: “Non ho intenzione di elencarvile piccole crudeltà collezionate neglianni trascorsi con lei. Sono molte, esono solo quelle che ricordo, sospettoche siano state molte di più. Non ve leracconto perché vi farebbero sorridere:sono piccole cose, direste, lecianfrusaglie dolorose che ogni infanziamette insieme e ingigantisce nellamemoria. Ecco, appunto, l’infanzia. È lìche si torna sempre. È lì che è tornataanche lei, alla fine. Che non vi capitimai di assistere allo spettacolo di unavecchia che gioca con le bambole.” Un

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mormorio netto, questa volta. Il colpobasso. La voce riparte un po’ più alta.“L’infanzia, dicevo. Noi non vogliamosapere se Astrid Lindgren era unagioiosa mitomane come quella fintarossa di Pippi, se Tove Jansson persanel suo mondo di pupazzi macrocefaliera un’onesta bugiarda. Non vogliamosaperlo perché in un modo o nell’altro ciè chiaro, è lampante. Tutti gli scrittori losono. Bugiardi. Gli scrittori perl’infanzia anche di più. Tutti gli adultimentono ai bambini, per un malintesosenso di indulgenza, per difenderli, perproteggerli dai mali del mondo. Chiscrive storie per loro lo fa due volte,mente e finge, mente fingendo, nel sensopiù nobile, s’intende: costruisce finzione

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per divertire, ovvero distrarre. E IrideBandini, che è stata il massimo nel suogenere, è riuscita a distrarci tutti.”

“Che bravo, eh?” La vecchia signoracoi capelli bianchi cortissimi piega latesta da un lato. Se la gode proprio, sivede dal sorriso, compunto, date lecircostanze, ma pieno. L’uomo alto ecalvo col soprabito all’inglese è appenascivolato al suo fianco. È chiaro che hasentito soltanto l’ultima parte e annuisceguardandosi attorno come si fa sempreai funerali per non sentirsi soli.

“E così facendo, prendendo inostaggio le nostre emozioni piùelementari, quelle che ci definisconocome bambini anche quando non losiamo più, ci ha impedito di vederla per

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ciò che era. Ciò che era, e non cesseràmai di essere,” e l’uomo sul pulpitoscocca uno sguardo alla bara coperta dimargherite bianche. “Un mostro.”Rivolge un mezzo inchino al pubblicosbigottito, ripiega il foglio, lo infilanella tasca della giacca, scende i gradinie s’incammina lungo la navata lateralecol passo sicuro di chi ha fatto quelloche doveva. Qualcuno, allibito, si gira aguardarlo; altri si fissano le mani o ipiedi con il vago senso di colpa di chiha ascoltato quello che non voleva.

“Ma chi è?” L’uomo col soprabitoall’inglese è tra quelli che si voltano.L’uomo in grigio adesso è una sagomacontro il rettangolo abbagliante delportone aperto.

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La vecchia signora lo guardaimpaziente. “Il figlio, no?”

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COSE CHE ACCADONO

Ha pensato spesso chesarebbe piacevole vivere inuna portineria, al confinetra due proprietà, su unasoglia.

Margaret Drabble

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Una casa cantoniera. Chi vorrebbeabitare in una casa cantoniera? A parteun cantoniere, qualunque cosa vogliadire oggi di preciso. E lei. Le piacevanotanto, nei lunghi viaggi in macchinaquando era piccola, seduta dietro, nienteseggiolino, niente cintura, caldo, quelledimore passanti di vari toni di rosso, unrosso di frutta maturata in modo diversosecondo la luce e il vento, deposte lungo

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le strade – strade semplici di campagnae montagna, non le lente contorsionidelle tangenziali o i flussi indifferentidelle autostrade – a custodire unacontraddizione: case, dunque luoghid’arrivo, rifugio e ristoro, ma anchesentinelle del passaggio, pietre miliarida guardare un attimo attraverso ilfinestrino, intenti alla meta che chiama,indifferenti alle vite racchiuse là dentro.Lei invece ci si perdeva, in quelle vite,immaginando bambini, una mammasenza volto che non era la sua allavandino, giochi sparsi per terra, e insottofondo, sempre, quel rumore comed’acqua corrente: e avrebbe volutofermarsi, essere là, sul balconcino colsuo sorriso ordinario di gerani e petunie,

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a salutare i viaggiatori, impegnata arestare. Intanto la strada con queipensieri si accorciava un po’. Adessosa, per averlo imparato, che spessoquando si desidera distrattamentequalcosa si finisce per ottenerlo senzasapere che farsene, o prima di.

Però quella somiglia a una casacantoniera soltanto per il posto e ilruolo: sta al fianco della provinciale –due corsie di un grigio vissuto cheassecondano le colline scivolando più inlà verso il blu di pietra del lago – eveglia sui passanti, che non si spinganodove non si deve e non si può. Ha unasua grazia screpolata che i lavori direstauro non le devono sottrarre,sarebbe un delitto. È la portineria, solo

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che lì non c’è portone, c’è un cancello:un bravo cancello arrugginito ma solido,con le punte in cima e una catena achiuderlo, e al di là un viale bianco everde che sale diritto tagliando un pratoe si perde all’inizio del bosco. La cosacuriosa è che da una parte del cancellocosì accuratamente chiuso, oltre i duepilastri sormontati da vasi troppobianchi, non c’è nulla, niente recinzioneo ringhiera o steccato: solo erba ches’infila sotto una parete verde di siepe.Dall’altra invece corre un muroscavalcabilissimo, con la sua dentaturadi sassi ovali in cima, affogatodall’edera. Una casa del custode che noncustodisce niente. La porta e le persiane– su finestre a sesto acuto, una

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stravaganza veneziana – sono di unazzurro stinto che il lavoro del tempo hareso inimitabile e per questo bellissimo;l’intonaco a larghe righe orizzontaligialle e rossicce – la livrea del luogo –è sbiadito. Una finestrina a quadrifoglio,vuota, sbircia da sotto il tetto atriangolo, il tetto di una torre solitaria,di appena due piani e mezzo, che per ilgioco delle proporzioni appare più largache alta. E in cima la runa di un’antennatelevisiva maltrattata dalle tempeste, adire che il tempo non si è fermato, no: èarrivato anche lì. I due platani dallecortecce maculate come mani di vecchi,uno di qua uno di là, tanto grossi daapparire tozzi più che grandiosi,completano il senso del luogo:

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sentinella, presidio, difesa.Lei al funerale non c’era, non era

ancora entrata in scena. Tanto meglio,l’imbarazzo degli altri a volte è piùintollerabile del proprio. Ma dallacronaca sommaria del notaio e da certiracconti a mezza bocca raccolti dopo siè immaginata l’evento con una certabrutale approssimazione. Nella chiesac’è stata, invece. Una chiesona di paese,né bella né brutta, con due colonnetroppo piene e troppo alte a sorreggereun timpano da tempio greco, dentro buia,modesta rispetto agli eccessidell’esterno. Vederla l’ha aiutata afigurarsi meglio.

Scorsa la lettera, l’aveva ripiegata –strano, come ci spaventino certe

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chiamate o convocazioni ufficiali opubbliche, come se avessimo semprequalche colpa nascosta o da nascondere– per aprirla subito di nuovo e rileggerele curiose righe centrali. Voleva sapernedi più. Una delle poche volte in cui hariconosciuto il momento giusto, la spintaassoluta, lei che di solito le cose lelascia passare con distacco, come tramfuori orario che se hanno voglia tiaspetteranno, e alla fine non sali perchéè troppo tardi, o troppo presto. Vero chenon poter dire di no è diverso dal volerdire di sì: ma al momento le era parsauna sfumatura.

Quando dallo studio sono arrivateanche le foto, le ha osservate a lungo. Laluminescenza del computer dava loro

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una qualità di cartolina che non riuscivaa vincere quel senso di abbandono enemmeno a offuscare la dignitàdell’insieme. Una casa che gioca indifesa, abitata da Lari e Penati del nulla,parva sed apta. Che cosa se ne potràcavare? Ha bisogno di difendersi, lei? Oinvece le serve un avamposto nuovo nelmondo? Se la respinge non lo saprà. Perquesto s’è decisa. Decidere: ha dovutosoltanto dire di sì. Fosse sempre cosìsemplice.

Se lo ricorda bene, quel primosguardo che ha avvolto tutto econsiderato niente, lo sguardo un po’esaltato di chi in un istante vuoleinnamorarsi e non calcola le possibili

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conseguenze ma respira solo il presenteconfuso e impareggiabile. Tirava vento,i platani frusciavano, c’era un bel cieloa strappi in una giornata forte, e non si èlasciata scoraggiare da quel cancellochiuso sul niente: si è davvero convintadi essere arrivata da qualche parte.“Alla mia casa si viene per una stradabianca che incide il fianco della collinacon il nitore della polvere di pietra. Achi la guardi dal basso infonde un sensodi certo riposo, salda e chiara com’è,riparata dall’ombra di due nocicentenari.” È andata a rileggerselo,dopo, l’incipit, sicura di averriconosciuto, se non il luogo, la precisaimpressione.

C’è voluto un bel pezzo anche solo

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per immaginarla casa. Dentro era unastia depredata, un fienile senza fieno: ilvuoto degli spazi spogliati a specchiareil vuoto del tempo insensatamente persoda una casa a non custodire, nonaccogliere, non riparare nessuno.

Due piani più la soffitta, non un tuboo un cavo al suo posto. Un pavimento dibrutte mattonelle grigiastre, sotto lafinestra un quadrato di piastrelle bianchee un secchiaio in cui sembrava cheavessero lavato animali morti. Traccelungo le pareti, fantasmi di mobili. Lascala quasi verticale infilata dentro unabotola del soffitto: e sopra, a salirci conmille cautele e un certo rischio, un’altrastanza identica. La sagoma di una testatadi letto, quotidiani del ’73 in un angolo.

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Un’altra scala per finire nel sottotettocamminato da topi, e in fondo un fruscio,grumi di piume, un sibilo e qualcosa infuga che ha adombrato per un attimo lafinestrella a quadrifoglio. “È un nido dicivette, veniamo via,” le ha sussurratoTiziano dal basso, trascinandolaindietro. I pulcini le hanno piantatoaddosso occhi gialli stranamente simili aquelli dei pupazzi di pelo che vendononegli autogrill. “Che cosa ne facciamo?”gli ha chiesto una volta tornati di sotto efuori, mentre si ripuliva con un certoaffanno le mani e il viso dall’idea delleragnatele. E lui, un po’ stupito delplurale: “Si può fare tanto con poco.”

Perché le ossa erano buone. Non havoluto che la sventrassero come si fa in

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città, quando si lasciano in piedi solo lefacciate che dopo saranno costrette aripetere la loro poesia mentre la prosadentro è tutta cambiata. Mancava ilbagno, certo – per fortuna il capannoesterno col suo buco nero era statoabbattuto tempo prima –, ma lo si potevaricavare nell’annesso, al geometra delComune piacendo. Un ometto giovanecon un avanzo di capelli rossicci, che siè stropicciato le mani a lungo in un gestoda sensale parlando di rivalorizzazionedel territorio, strade da asfaltare,lampioni, e borbottando in dialetto frasidestinate a Tiziano che lei non si èsforzata di capire. Meno male che c’eralui a fare da interprete, intermediario,tutto: una provvidenza, incontrare quel

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signore di poche parole con unapredilezione per gli azzurri e i blu cherimarcano gli occhi brillantissimi dietroi piccoli occhiali nudi, capo di operai eoperaio lui stesso. L’ha proprioincontrato: davanti a casa (comincia adabituarsi a chiamarla così, anche seresterà più nuova che casa, la casanuova, per un pezzo), al secondosopralluogo, quando presa da unimpulso era partita una mattina dallacittà per assicurarsi che tutto fosseancora là ad aspettarla. Il pickup verdeera parcheggiato sul ciglio della strada,e lui lì davanti, una sigaretta accesa,l’altra mano in tasca, tranquillo. “Lei èla nuova proprietaria,” ha detto,tendendole la mano, senza spiegare che

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cosa ci facesse lì e come l’avesseindovinata. È diventato la sua scorta,l’ombra domestica che vuoi ti segua persentirti a posto nel mondo, pronto aplacare emergenze e spianarecomplicazioni in quel suo modolaconico e preciso, capace di mettersi ascaricare assi e maneggiare attrezzisenza che un filo di polvere gli si posiaddosso. Quando al terzo incontro,decisi i tempi e approvati i preventivi,l’ha invitata a bere qualcosa lei hatemuto per un attimo di avergli datol’impressione sbagliata, o forse quellagiusta: una donna sola venuta a vivere inun posto che non conosce non è un ovviobersaglio per un sessantenne interessanteche è più di quello che sembra? Ma

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poteva dirgli di no, dopo che era statocosì troppo gentile? “Benvenuta nelpaese dei trentadue bar,” le ha detto,mentre aspettavano gli spritz. “C’è chi inun giorno solo fa il giro di tutti.”

“Alcol e preghiere,” ha detto lei.“Veneto felice,” ha ribattuto lui. Ma

questa volta era preparata. Devono averripensato tutti e due a quando eranopassati davanti a una casa stretta,schermata da due cipressi alti, tutte lefinestre accese e una sola luce davantiche spioveva scavando le ombre dellamezza sera. “Che bella,” avevacommentato lei. “Sembra un quadro.”

“Casa Magritte?” aveva detto lui,senza distogliere lo sguardo dallastrada. “Bella, sì. Soprattutto al

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crepuscolo.” E si era goduto il silenziodi lei prima di aggiungere: “Solo perchési sta in campagna non è obbligatorioessere ignoranti.”

Al ritorno dal bar si sono fermatidavanti a una villetta bianca un po’isolata con una gran pergola di rosegialle tardive. “Vieni, ti presento miamoglie,” ha detto lui, e le ha fatto stradasul vialetto di pietre annegate nell’erbadi un verde oltraggioso. Si è sentita alsicuro, sollevata, e forse le è anchedispiaciuto un po’.

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Quel posto ha cominciato a mancarlesubito. I lavori sono durati tre mesilunghi un secolo, ed è riuscita ad averneabbastanza del suegiù con la città, eanche della città, che a ogni ritornosembrava sempre più estranea: no, nonestranea, indifferente, una stazione dipassaggio nella quale non ti sogni divolerti fermare. Almeno è stato piùfacile slacciarsi, naturale e necessario

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come scivolar fuori da un vestito sudatodopo una giornata faticosa. Nessuno l’hapresa troppo sul serio, un’ora e mezza dimacchina è una distanza ridicola,l’hanno ripetuto tutti per non farla lungacon questa decisione improvvisa, ma losa, quello che pensano e non dicono, chetanto lei può fare come vuole, quello chevuole, il lavoro se lo porta ovunque,niente figli, niente legami, niente, edentro quasi impercettibile il tremoredell’invidia. Si sarebbero preoccupatidi più vedendola scegliere le cose cheha portato con sé, non molte, però tali daspogliare l’appartamento peggio di unvero trasloco: gli è rimasta l’ariapiacevolmente vuota di un covo perstudenti ricchi.

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Affittare?Non adesso, non subito. Cosa

succede se non sto bene là?I discorsi del buio, i più facili.È un posto nuovo. Niente amici,

niente radici. È come ricominciaredaccapo.

Potersi permettere il lusso dellasincerità.

Forse è venuto il momento. Èun’occasione. Non l’ho cercata, èvenuta. Vorrà pur dire qualcosa.

Se cominci a pensare che tuttoquello che capita sia un segno dainterpretare è grave. Le cose succedonoe basta. Non c’è un senso, un disegno.Succedono.

Ma bisogna ascoltarle. Il senso

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glielo diamo noi.Sì, dopo, a distanza, quando le

riordiniamo come ci piace o ci dispiacedi più. Ma qui è tutto molto piùsemplice. Quel posto ti attira. Sei liberadi sceglierlo. Te lo puoi permettere. Senon ti piacerà più potrai sempreliberartene. Non è tuo da sempre, non glidevi niente. Sei libera.

Stare così, sul letto arruffato, nellapenombra della notte, un fioco baglioredi lampioni fuori dalla finestra,pensando a un futuro vicino. Non èl’acuto della felicità, certo, però èqualcosa che nell’impasto le assomiglia,qualcosa di più accettabile. Una pacatacontentezza.

Ascoltare quello che si vorrebbe

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sentirsi dire, detto nel modo preciso incui si vorrebbe sentirselo dire.

Anna, Anna, Anna. Sentirsi chiamaree chiamare ancora finché il nome siperde e diventa un verso, un mormorio.L’assenza come una fitta, un morso.

Mi piace il tuo nome perché è puro.Pronunciarlo mi replica la gioia.

La leggerezza scivolata delle parolegiuste, ben disposte.

Ma già, un amante che si esprime inendecasillabi è qualcosa che in naturanon esiste.

Ha freddo, adesso. Il lenzuolostriscia contro la pelle, cambia forma, lesigilla la bocca.

Nei giorni prima della partenza la

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salutano uccelli morti sul selciato.Sembra che ce ne siano dappertutto,simili ai topi o intercambiabili, piccoliparassiti che si accontentano di viteveloci ai margini e quando escono alloscoperto vengono fatti fuori subito. Uno,un piccione incastrato nel pavé di piazzaDurante, sventola un’ala che si alzadiritta tra le pietre e si lascia scuotere amo’ di saluto dall’aria che le auto dipassaggio spostano e rispostano; cimetterà due giorni a morire in viadefinitiva, la materia disintegrata e sfattatra i solchi delle pietre e quelli dellegomme che la portano altrove, unapulita, impietosa dispersione meccanica.Anna la prende per quello che è, unafacile metafora della città crudele e

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distratta che decompone e inghiotte, labestia mai sazia che si nutre di altre vite.Le sembra di esserle sfuggita per unsoffio prima di finire anche lei piallatada un eccesso dinamico che esigevittime per poter tenere il ritmo che è ilsuo equilibrio. Nessuno dei piccolicaduti delle strade di campagna, i ricci,ratti di varie misure, qualche biscia, leapparirà tanto tristo: là sarà solo ilconto naturale presentato dalla selezionenaturale.

Le prime notti ha l’impressione dinon chiudere occhio. Ha sempreaddosso la gran stanchezza delcambiamento. Quello, e il fatto didoversi abituare a una nuova forma di

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silenzio: poiché lo si definisce sempreper contrasto, come gran parte dellecose indicibili, ha imparato presto adistinguere i versi che lo abitano, quelzampettare di cane o altro, l’orribilecatena di risate di un uccello, le vocidiverse del vento quando è tranquillo equando prende forza, il rumore di cartadelle ultime foglie disperse. A volte lesembra anche di riconoscere il lago, cheè lontano e dunque impossibile dasentire: eppure è sicura di avvertirlo,quel rumore d’acqua ferma colpita dachiglie, il risucchio gentile attorno allecanne della riva, un palmo di mano chebatte e ribatte senza far male.

“E quando lo vedo cosa gli dico?”La prima volta che Anna si è mostrata

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per quello che era – smarrita, perplessa.“Abita qui, non puoi pensare di non

incrociarlo mai,” le ha detto Tiziano.“Sarà arrabbiato.”“È nato arrabbiato, quindi non fa

molta differenza, no? Solo che adesso haqualcuno di nuovo con cui prendersela.”

Certo, lo studio di un legale sarebbestato meglio del bar-giornalaio coi suoisoliti avventori pronti a godersi lospettacolo insieme al bianchetto delmattino. Dalle parti dei quaranta, troppobello per il suo bene, con un calcolo ditrasandatezza nei vestiti e nel gesto chel’ha fatta quasi sorridere, tanto eraevidente. E forse lui s’è accorto che leis’è accorta, perché è stato più scontrosodel necessario. “Immagino capisca,” ha

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detto Gregorio Bandini, senzapreamboli, e insinuando il contrario,“che privata della portineria la casaperde molto del suo valore.” E come, siera chiesta? Un cubo decrepito,lontanissimo dalla dimora principale,senza bagno, senza un vero giardino,solo terra ripida intorno? Il legato erastato una tale sorpresa che Anna ancoradubitava della sua sensatezza, ma nondoveva dirlo a lui, che la pensava disicuro allo stesso modo. E infatti: “Miamadre aveva le sue fissazioni, le suemanie. Era una donna dura. E comemolte persone dure in apparenza,infinitamente debole. Tanto vale cheglielo dica: ha agito per dispetto. Echissà,” ha aggiunto guardandola di

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sottecchi, “che il dispetto non l’abbiafatto a lei. Avrà tutto il tempo peraccorgersene. Buona fortuna.” E conquesto ha pagato per tutti e tre, un gestomagnanimo e inutile, e se n’è andato.

“Cos’è che non mi avete detto?” hachiesto poi Anna a Tiziano, bevendo ilcaffè tossico ma buono. “C’è unfantasma nel villino?”

“Non è un villino, non chiamarlocosì,” ha risposto Tiziano, serio. “E sucerte cose non si scherza.”

Poi però, come per scusarsi, le harispiegato quello che nella chiarezzaburocratica del notaio non era poi tantochiaro: all’unico figlio Iride Bandini halasciato la casa, l’immensa casa giallinadi cui Anna a suo tempo aveva esplorato

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solo poche stanze. Mille metri quadri, ilgiardino formale davanti e dietro, e tuttointorno trenta ettari di terreno perlopiùinutile – un’osservazione di Tiziano,pratica come lo è lui: utili sono le vigne,gli ulivi, il terreno edificabile; bosco eprato non servono a nulla se non apreservare la bellezza come una cinturadi salvataggio attorno a Villa Biglia,isolandola dalle miserie del mondonormale, traffico, rotonde, negozi,rumori. Un grosso dono vincolato,indivisibile, invendibile. E l’erede, checome molti figli d’arte non si è sforzatodi trovarsi la sua in mezza vita, ècostretto a vivere lì, a guardia di unreame che detesta. “Sì, ma perché tenevatanto alla portineria?”

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“Perché era perfetta per lui. Potevaritirarsi lì a fare le sue cose, i suoitraffici finanziari, non so di preciso cosafa però so che gli basta un computer, etrasformare la villa in un albergo.Tenere d’occhio le cose da lontano,senza il fastidio dei clienti, buongiornobuonasera come va. E poi la terraattorno alla portineria è l’unica chepotrebbe diventare edificabile.”

“Speriamo che non succeda mai.”“Della villa comunque non gliene

importa niente. La rendita gli bastaappena a mantenerla. Bel regalo gli hafatto.”

“Andavano così poco d’accordo?”“Anche meno.”“E tu come fai a sapere tutte queste

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cose?”“In paese si sa sempre tutto,” taglia

corto Tiziano. Ha la tendenza a deciderequando si parla e quando no, forse unresiduo di autorità contadina. “Andiamoa scegliere queste lampade?”

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3

Al tempo della sua unica visita, ottoanni prima, era febbraio e gran partedella dimora era chiusa, tranne, appunto,l’ala invernale: la cucina cavernosa, conle piastrelle bianche bordate da uncordolo sangue di bue, l’enormefocolare, le credenze gemelle; duesalotti confinanti, uno foderato dipannelli a soggetti pastorali, l’altro, coltavolo da pranzo, dominato da un

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camino elegante di marmo; e alcunestanze da letto, due o tre, ciascuna conbagno – il suo era rosa ortensia, gelido evecchiotto. Era rimasta ospite quasi unasettimana per gli ultimi passaggi dellavoro, che in verità aveva avutobisogno solo di un editing leggero –quando uno scrittore mette mano allapropria autobiografia il peggio che puòcapitare è che la trasformi in unromanzo, ma almeno il mestiere siprende cura dei dettagli. Anna avevaaccettato l’incarico, uno dei primiimportanti, con apprensione. IrideBandini aveva esordito così: “Parlarmiaddosso non è il mio mestiere.Preferisco che lo facciano gli altri,” e leaveva rivolto uno sguardo acuto. Era

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nota per essere ostile, tagliente; le sueinterviste finivano in beffe per ilgiornalista che non conoscevaabbastanza della sua opera ed era tantoingenuo o stupido da lasciarlo trapelare;solo i più navigati ne uscivano con ladignità intatta e con qualcosa dipubblicabile; gli altri finivano perprodurre quel genere di pezzi in cui ledomande sono più lunghe delle risposte.Nell’incontrarla per la prima volta dipersona, Anna si era trovata davanti unadonna ancora bella, che non avrebbegradito nemmeno il pensiero diquell’ancora; attentissima a ogni generedi forma; ossessionata dall’effetto di sée delle cose che scriveva.

Perdere tempo per contrasto era un

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libro che non si prendeva troppo sulserio: faceva sembrare ovvie le tappedel successo, che era venuto improvvisoe rapido, com’è sua abitudine, perrestare costante senza che la scrittricedovesse mai tradire la sua semplice fedenell’intrattenimento. “Un libro perbambini non può mai essere troppo serioné troppo faceto,” spiegava nel capitolo“Le forme della sostanza”. “Spesso gliscrittori per ragazzi sottostimano il loropubblico: pensare che un bambino debbao possa ridere di cliché e banalità è unadelle forme più offensive dipaternalismo. Il bambino lettore meritamolto più rispetto di un lettore adulto:perché quest’ultimo può scegliere, ma albambino lettore toccano libri suggeriti,

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comprati, a volte imposti da adulti cheagiscono a caso, per abissale ignoranzao imperdonabile buona fede.”

Non era sempre così bruciante:deviava in buffi aneddoti di incontri coni bambini veri, collezionati in unacarriera di commessa viaggiatrice dellestorie, come per vezzo amava definirsi.“Il bambino vero è sempre in agguato,grazie al cielo; con le sue domandeovvie, l’espressione vacua, l’ottusità tiriporta al primo dovere dello scrittoreper giovanissimi: rendersicomprensibile.” Avevano discusso viamail, nel modo blando attenuato dalmezzo, su quell’ottusità: Anna avevasuggerito opacità, le sembrava menooffensivo, e aveva perso. Da allora si

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era limitata a segnalare le ripetizioni equalche passaggio oscuro. Ma acompensare tanta studiata maliziac’erano pagine di implacabile dolcezza.Il biondino in una scuola di paesefolgorato dal Giro del mondo in ottantagiorni che aveva voluto raccontare tuttala storia, tutta, ai compagni che lofissavano senza troppo capire, e avevaconcluso dicendo: “Io comunque dagrande voglio fare il gentiluomo”; ilpiccoletto rotondo che aveva alzato lamano per chiedere la parola e invece dipresentarsi col suo nome aveva detto:“Io sono un bambino di nebbia, perchénon so chi è il mio papà.” Cose così.L’effetto bambino vero, Anna dovevaammetterlo, era irresistibile. “Al

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giovane scrittore io dico: vai aincontrarli, questi bambini, o non sapraiper chi scrivi, e finirai per smettere dichiederti perché lo fai, e sarai finito.”Perdere tempo era il passo d’addio, lavanità finale di chi ha deciso di nonavere più niente da dire, e lo dice.

Anna si era convinta di averimparato a conoscere Iride Bandini adistanza attraverso quella prima personatanto assertiva: si era aspettata diincontrare una donna presuntuosa ealtera, e non era rimasta delusa; nonaveva cercato di entrare nelle sue grazieperché aveva capito che non sarebbeservito a nulla, anzi; e si era limitata afare bene ciò che doveva, com’era delresto sua abitudine, senza giudicare né

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blandire. L’ospite era sempreelegantissima negli abiti eccessivi perl’occasione, verdi, viola, neri, vestiti esopra piccole giacche, scarpe con iltacco breve, gambe sottili in quelleincantevoli calze color gesso che solo leex ballerine e poche altre donne sipossono permettere, braccia nervose,rari gioielli stupefacenti, un anello conun piccolo teschio bianco che la scarsaconfidenza aveva impedito ad Anna diguardare meglio, una spilla di brillantidisposti a stella che mandava lampi aogni gesto, un bracciale di piccole perlefermate da un cammeo enorme chesarebbe piaciuto a Isabel Archer. Tutto adire una cura della bellezza che sispandeva in ogni cosa intorno, i tappeti

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moderni, gli insoliti velluti stampati deidivani, le stoviglie, e i bicchieri e letovaglie su cui posavano.

La sera avevano parlato di libri,ovvio, restando sedute a tavola, come arimarcare che il loro era un rapporto aschiena diritta, dopo che la domesticaantica aveva sparecchiato e la dama dicompagnia sempre presente e invisibileaveva servito loro un amaro diliquirizia; e Anna non s’era stupita discoprire nella sua interlocutrice unalarghezza e profondità di letture chedava per scontati i classici, arrivava aicontemporanei meno conosciuti espaziava con curiosa avidità dallanarrativa di consumo ai giovani autori,oltre a una capacità di giudizio lieve e

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affilata che aveva desiderato di poteremulare, non subito (troppo presto), maa tempo debito sì. Da allora quandodoveva fare un regalo a un bambinosceglieva spesso tra i libri di IrideBandini, dalla serie del Tempo Perso airomanzi un po’ rétro di Caio e Melissaal Grande Libro del Grande Vecchio;ma lei, l’autrice, non l’aveva maisaputo, non avevano più avuto scambitranne qualche messaggio di cortesiadopo l’uscita del libro. Che quello esoltanto quello, i sei giorni passatiinsieme, i sei pranzi veloci, le seiconversazioni a cena, un buon lavorocondiviso in modo serio fosse il motivoper cui le era stato donato “l’edificioportineria di Villa Biglia sito in

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contrada Santi Angeli in segno digratitudine per il lavoro svolto”,secondo l’atto legale, non finiva distupirla. Era come se la gratitudinedispensata con tanta abbondanzaesigesse qualcosa in cambio: difficilechiudere il debito, se non si sa a chipagarlo, e con cosa.

Alla fine è il suo mestiere che l’haportata lì. Adesso s’infila nelle altreoccupazioni senza difficoltà, come unanimale domestico adattabile. È unsollievo, dopo tanti anni, poter contaresu certi automatismi che rendonosuperfluo il ronzio dei contatti. Labiografia della grande attrice che si èfinalmente decisa a invecchiare, poi le

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memorie del cuoco italiano in America:saranno sei, sette mesi di riscritture eandirivieni elettronici, ma il grosso, laparte dell’ascolto che può esseredivertente come tediosa, è fatto, per unpo’ non deve più viaggiare, sorridere,precisare, pazientare; le resta solo damettere ordine nelle memorie smaltate esfuocate di chi vuole credere o farcredere di aver vissuto una vitaricordabile. Del resto lì il tempo sembracapace di moltiplicazione, più largo elungo, e fatto quello che deve ancoragliene rimane per andare a camminaresulla riva del lago spogliato dellacartapesta estiva, le insegne buie, ilvuoto che si riprende i suoi spazi, o incollina, dove raggiunto il crinale si

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stendono a perdita d’occhio gli azzurrigiapponesi dei colli e dei montiappoggiati nella lontananza.

Le piacerebbe saperne di più su chici ha abitato prima di lei. Contadini,suppone. Contadini che la sera stanchimorti guardavano lo schermo granigliatodella tivù e poi si issavano su per lascala a pioli. Saranno stati contenti diuna casa così diversa dalle altre? O liavrà messi in imbarazzo? Quelli dellatorre, li chiamavano stringendo ledoppie nel dialetto. “Gli ultimi sonostati Pino e la sua famiglia, ma sonoandati via trent’anni fa. Inappartamento,” dice Tiziano. Laprigione cercata di due stanze in una

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palazzina dopo tutta quella libertà.“E prima?”“Prima c’era la guerra.”Molto prima, vorrebbe dire Anna.

Che cosa possa aver significato, in unposto tanto lontano dalle grandi vie discambio, lei proprio non lo sa, che razzadi guerra possa aver ferito e distruttotanto da costare ancora fastidio aparlarne: e lui comunque non c’era, ènato dopo. Lui che cambia discorso, alsolito. “Vuoi proprio tenerla, questaroba? È un ferrovecchio, devi stareattenta a non graffiarti.”

Il pollaio è una vecchia gabbiaappoggiata a un lato della casa: legalline non la interessano, ma spostarlasembra una violenza. Mai stata

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un’amante del rustico o del pittoresco,però quello era il suo posto e lì rimane.Tiziano la guarda perplesso: nemmenolui del resto ama le anticaglie, nella suacasa non ci sono avanzi di vita rurale,gioghi, forconi, tutto è nitido e preciso,legno lucido, marmo rosa delle cavevicine. Ha avuto da ridire anche sulsecchiaio di pietra che prima stavafuori, sul retro, e lei ha voluto farmontare dentro, nella stanza adibita acucina più salotto: le piace l’odore diferro che emana quando è bagnato, lasuperficie lisciata dal tempo e da tantaacqua. Le sembra che tenga memoria dellavoro di tutti i giorni, mani screpolatedi donna su spessi piatti bianchi.

Il più è stato gettare i solai dei due

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piani, stenderci sopra le grandi assi dilegno sbiancato, incastrare nel muro isemplici gradini sospesi che hannosostituito le scale a pioli. Il tetto è statorifatto ma coperto con tegole vecchie,piacevolmente muschiate e sbiadite, e incima, al centro delle quattro faldeidentiche, hanno ripiantato il pinnacolodi pietra; lì accanto, ma che dalla stradanon si veda, il disco del satellite. Vial’antenna vecchia. Anna ha protestato esi è sentita sciocca – “Ma dai, conquella roba lì non prendi più nemmenoTelearena.” Ci stava bene, là sopra, ilsuo disegno misterioso contro il cielo.L’intonaco è rimasto intatto, non leandava di manometterne la graziaspenta, sempre che si potesse; solo un

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lato, quello che appare al passaggio, èdipinto a righe orizzontali – la facciata,il decoro, il decoro di facciata; gli altritre lati sono nudi, di un grigioinvecchiato in cui si aprono finestreminuscole; porta e imposte sono statesoltanto ripulite e rinforzate,respingendo le insistenze del falegnameche voleva dare una bella mano di tinta.In apparenza, e fuori, alla fine ècambiato poco, a parte la striscia d’erbarivoltata e riseminata, che adesso èverde forte, e un po’ di cespugli chesono stati divelti per lasciare spazio aortensie e caprifogli. Più qualchearbusto veloce a chiudere il tratto difianco al cancello. L’ingresso cosìsnudato è severo; non c’è niente a

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trasformare la furia del vento in rumore,però nelle notti di temporale l’ariaprende gli angoli ululando. Anna hasempre pensato che il lago avesse nellasua natura un che di blando, di medio, esi sbagliava. Lì tutto è sempre estremo.La finestrina della soffitta è diventata ilsuo osservatorio, e chiude nella forma aquadrifoglio l’acqua che al crepuscoloemana una luce d’acciaio, l’azzurropungente di certe mattine limpide in cuisi distinguono gli alberi uno a uno finsull’altra riva. Eppure. Il mondo è pienodi posti incantevoli di cui non si haalcun bisogno. Davanti a tutta quellabellezza le sembra di non provareniente. Sarà l’effetto dell’esagerazione:ti svuota, ti lascia lì, un guscio, una

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buccia. O il suo contrario: un fruttospellato, nudo, inerme. Forse il cuore ciresta, forse il cuore. Forse è solo chenon vuole lasciarsi ferire da quel lago,da quel luogo. Basta. Poi pensa che lìdov’è adesso c’è tutto: l’acqua, il bosco,il cielo. La schiena di prato del colle: laterra. E dentro il fuoco. Tutto ridottoall’essenziale, gli elementi, lo spazio.La sera Anna chiude il suo cancello sulniente, la mattina lo riapre verso ilmondo. È pronta a ricominciare, easpetta il giorno in cui non si sentirà piùdi passaggio o dentro la vita finta di unaspecie di vacanza, spera di riuscire ariconoscerlo, e che non ci voglia troppotempo. Tornare indietro è fuoriquestione.

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4

“C’è una persona che ti vuolerivedere, vieni.” L’invito di Tiziano laincuriosisce. Si azzarda a pensare chevenga da Gregorio Bandini – nomeinsolito, chissà come mai l’ha chiamatocosì. Avrebbe dovuto chiederlo allamadre quando ne ha avuto l’occasione,strano che la domanda non le sia sortaspontanea, sarebbe stato un toccopersonale, intimo, ma a pensarci bene di

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intimo in quella biografia non c’è niente,a parte la passione della donna per ilproprio mestiere, ed è anche per questoche le era piaciuto tanto lavorarci, a suotempo. Però non è possibile che sia lui,l’ha intravvisto una volta al mercato,un’altra andando verso l’eremo, ed èsparito subito, troppo in fretta per nonaverne avuto l’intenzione. E perchéincontrarlo, poi? Per farsi buttareaddosso un’altra volta tutte le colpedell’estranea usurpatrice?

“Ehi. Ci sei?”“Scusa. Sì. Chi sarebbe? Qui non

conosco nessuno.”“Ti sbagli.”Ha svoltato in una strada più stretta

che taglia i campi e va dritta verso

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quello che sembra un piccolo borgo eche si precisa avvicinandosi: pochecase, tre, quattro, tutte restaurate congrande cura, rosse e gialle, incastonatel’una nell’altra come da un bambino cheprogetta facendo. Parcheggia davanti aun grosso albero. “Siamo al Veleno,”dice, indicando le fronde verde scurodella pianta. “Per via che quello è untasso.” Certo è strano che un gruppo dicase abbia un nome tanto sinistro.Tiziano bussa a una finestra, piano, poiapre la porta lì accanto. “Bisognaavvertirla, almeno si prepara.”

Li aspetta seduta in una poltrona divelluto verde. Tutto è così armonioso dasembrare studiato: il golfino colorglicine sopra la camicetta bianca, il

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plaid a quadri rosa e violetto che sitiene di traverso in grembo e lenasconde le mani e in parte le gambe; infondo spuntano i piedi, piccoli nellefurlane nere. Accanto c’è un tavolinocon due libri aperti e rovesciati: unMankell e Il diario di Anna Frank inuna vecchia edizione bianca con lerighine rosse. Piega il capo e dice: “Siricorda di me?”

Sì e no, perché non c’è voluto moltoper stabilire chi potesse essere tra le suescarse conoscenze locali: ma in pochianni è così cambiata. Allora portava unquieto caschetto biondo di una tonalitàappena un po’ troppo calda per esserevera, l’unico elemento del suo aspettoche cercasse attenzione; per il resto era

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bravissima a confondersi con gli sfondi,che era precisamente quanto le venivarichiesto. Adesso il caschetto èdiventato o rimasto bianco e si è ridottoa un elmo che le avvolge preciso latesta. La signora – no, non se lo ricorda.“Umile,” dice lei, indovinandol’esitazione. “Tiziano, fa’ il caffè,”ordina, e lui sparisce nel cucinino, lo sisente armeggiare con l’acqua, la moka,il gas. Non torna.

“Si sieda, signorina.”“Mi chiami Anna.”“Un bel nome,” considera la vecchia

piegando la testa da un lato. “Semplice.”Un ricordo lancinante, quel suono dettoe ridetto fino a perdere senso. “Certonon come il mio, che oltre a essere

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brutto” – un sorriso – “è anche unacondanna. Ma mio papà aveva le sueidee sulle donne: quattro femmine, haavuto, e ci ha chiamate così, Umile,Spera, Casta e Fede. Non so a chi èandata peggio,” e stavolta ride piano.

Parla italiano senza sforzo, senzadover cercare le parole come fannospesso da queste parti, anche se lacantilena è marcata. L’italiano di IrideBandini era ricco, fiorito, impeccabile:Anna ricorda come avesse l’abitudine dipescare vocaboli poco usati che davanoun gusto insolito alle frasi. Qualcosadev’essersi trasferito per forza alla suadama di compagnia.

Anna ha preso posto nell’altrapoltrona verde. Si guardano, lei in

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attesa, l’altra intenta a misurarla. Haocchi di un azzurro familiare, un filo dimatita a rimarcarli. Difficile attribuirleun’età.

“Grazie per essere venuta.”“Tiziano mi ha deportato. Non ha

nemmeno voluto dirmi dove andavamo.”“Bella sorpresa, portarla a trovare

una vecchia.” Se lo dice per farsismentire, Anna non raccoglie. L’altrasembra apprezzare, perché aggiunge:“Non vale la pena di perdersi inconvenevoli. Mi dicono che si èsistemata bene. Mi piacerebbe vederlacom’è adesso, la Casa del Furbo.Quante memorie.”

Anna è sorpresa: non le avevanodetto che il nome era quello. La crudeltà

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precisa dei soprannomi. Fa sorridere.Sorride.

“Tutte le cose che hanno visto queiquattro muri.”

“Magari può raccontarmele lei,”dice Anna. “Tiziano parla quandovuole.”

“Se non lo so io.” Chiude gli occhiper un attimo, e quando li riapresembrano più azzurri di prima. “Ma nonsiamo qui per quelle, di storie,”aggiunge, quasi sbrigativa. “Devochiederle una cosa. Vorrei che scrivesseuna lettera. Per me. Da parte mia. Unalettera lunga. Ne ho, di cose da dire. Auna persona che non vedo da troppotempo.”

Anna è sorpresa ma non lo dà a

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vedere. La vecchia signora continua,apparentemente soddisfattadall’apparente mancanza di reazione:“Mio nipote. Sta in Francia, sa. E nontorna. Non tornerà mai.” L’ha detto comese fosse in capo al mondo, o in prigione.“Ho delle cose da dirgli, prima.” Fa ungesto con il palmo della mano che saleverso l’alto, a mimare l’ineluttabile.“Cose che non gli ho detto quandopotevo. Quando dovevo,” si corregge.“E non me l’ha perdonato. È più facilechiedere scusa che perdonare, credo,alla fine. Se non lo so io.” Una risatinache si asciuga in un sorriso come untaglio profondo.

Anna è perplessa, e stavolta non sinasconde. La vecchia signora se ne

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accorge e insiste: “Faccia conto che siauna storia. A lei piacciono le storie, no?Come a tutti quelli che scrivono.”

“Ma io non scrivo lettere.”“Perché no? Scrive le vite degli

altri. Potrà ben scrivere i loro pensieri.”Arriva il caffè, per due. Tiziano

rimane in piedi, si appoggia aldavanzale, beve. Anna rigira ilcucchiaino all’infinito, facendotintinnare la porcellana.

Potrebbe spiegare che ha dellescadenze, che i lavori della casa (laCasa del Furbo?) l’hanno ritardata eadesso deve dedicarsi ad altro, o diresolo che non lo fa, fine. O suggeriremezzi più rapidi: il telefono, le mail.Umile era un’ottima segretaria, nella sua

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vita di prima: era stata lei il tramite ditutti gli scambi con Iride Bandini.Efficiente, corretta. Non vede computernel salotto, ma non vuol dire, c’è lascala che sale, ci sono altre stanze. “Perscrivere una lettera oggi bisogna propriovolerlo,” osserva, continuando ilpensiero ad alta voce.

“Vero.”“Perché io?” chiede Anna. Cerca lo

sguardo di Tiziano, ma nella stanza si stainsinuando la sera e lui dà le spalle allafinestra, gli occhi sono macchied’ombra. “Voglio dire, lei èperfettamente in grado…”

Umile sfila le mani da sotto il plaid.Non gliel’aveva data, prima, la mano, eadesso Anna sa perché. Le dita sono

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bulbose, contorte come poveri rami, lapelle tesa in modo innaturale tra lenocche gonfie, il dolore quasi visibile.Anna non può dire di no. Si sentegiocata in poche mosse, e deve sorridereall’astuzia della donna. Un’astuziapulita, veloce. L’ha anche detto: nienteconvenevoli. Più diretta di così.

***

“Mi hai imbrogliato.” Anna siappoggia al muso del pickup e rovesciala testa a guardare l’intrico scuro evaporoso del tasso.

“Lo sai che quelle specie difoglioline tipo aghi sono tossiche?Anche le bacche. Il rosso no, il semenero che c’è dentro è micidiale. Solo gli

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uccelli possono mangiarlo senzaconseguenze.”

“Non stare a parlarmi di alberi.”Non gli si è mai rivolta così secca, nonsa nemmeno se la loro strana confidenzaglielo consente.

“Sì, è vero. Ti ho imbrogliato,” dicelui, impassibile. “Ma consideralo unfavore. Vuoi stare qui, vero? Vuoirestare?” Ha indugiato sull’ultimaparola, come per fargliela capire bene,perché non ci fossero equivoci. Eadesso la guarda, gli occhi di quelcolore mai visto, un azzurrohollywoodiano. Non aspetta che leirisponda. “E allora devi essere gentilecon i vicini.” Detto così suona quasi unaminaccia.

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“Non puoi farlo tu per lei? È anchetuo nipote, se ho capito bene.”

Tiziano sorride veloce. “Brava. Haifatto le tue somme.”

“Quegli occhi,” dice Anna, un po’addolcita, cercando la tregua, o chemagari non se ne parli più. Silenzio. Luinon si arrende, ricomincia, serio: “ForseUmile vuole dirgli cose che io non devosapere. E a noi qui piace che ciascunofaccia quello che sa fare bene. Cipiacciono le persone giuste. Tu sei lapersona giusta, e sei arrivata al momentogiusto. Che cosa ti costa?”

Lei non risponde, irritatadall’impudenza. Cosa ne sai, se non loso ancora nemmeno io. Uno sbuffo divento le sposta i capelli tutti insieme,

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come a zittirla. Si volta per farsiliberare il viso, gli dà le spalle. Sente loscatto della portiera che si apre, la sua,un gesto di garbo che ormai non viene inmente più a nessuno. Si gira.

“Andiamo, ti riaccompagno.”Tiziano le fa cenno di salire. Si èsbagliata: non è galante, è brusco. Comese avesse capito che blandirla nonserve. Lei obbedisce, si lascia chiuderedentro. “Pensaci, se proprio devi,”aggiunge lui dopo un attimo, avviando ilmotore. “Ma dille di sì. Non le resta piùtanto tempo per fidarsi.”

Che cosa le costa? A parte infilarsiin una vita che non è la sua, e lo fa dimestiere, dunque non dovrebbenemmeno sorgerle il dubbio. Ma quelle

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sono vite pubbliche, esistenze cheacquistano senso solo perché messe invetrina. Storie paradigmatiche, lechiamano. Come se dovessero essered’esempio, confortare il mondo. Sucosa? Sulla benignità del caso che fa diuna ragazza come altre mille una stelladella tivù? Sul destino che passava di làe si ferma proprio per te? Ah, certo, poic’è il talento. Una moneta strana, perchéciascuno nel suo regno batte la propria ele attribuisce il valore che vuole. Mascrivere memoria da una persona chenon conosce a una persona che nonconosce vuol dire entrare in due vite. Enon c’è modo di farlo in punta di piedi,non c’è niente di saputo, tutto è dascoprire. Dovrà fare domande e

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ascoltare risposte. Anche a questo èabituata. Forse Umile no. Se sono cosetanto importanti, e il fatto che non sianomai state dette le rende importanti di persé, non ci sarà niente di facile. Non havoglia di farsi toccare dai mali altrui.

Del resto non le è facile negare unpiacere a Tiziano. Delle relazionirecenti è certo la più giusta, la più utile,anche, ma come sia diventata tantopreziosa è un mistero, perché porta in séun equilibrio fatto di scambi ineguali. Èsuccesso, suppone, nel silenzio dellavoro fianco a fianco. Prima,occupandosi delle opere strutturali emettendo insieme una squadra diartigiani senza che lei dovesse fare unatelefonata, le ha alleviato il peso e la

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goffaggine di doversi muovere in unterritorio estraneo, ma quella era unaparte pattuita e pagata, fine. Dopo,quando la casa vuota aspettava i dettagliper tornare in vita, è stato tutto un di più.C’era ad aiutarla quando sono arrivati imobili dalla città, a togliere l’imballoinsieme a lei, a sollevarli e spostarli conlei trovando il posto giusto per ognicosa: le sono piaciuti e l’hanno anche unpo’ sorpresa i suoi commenti daintenditore sul ciliegio scuro deltavolino Thonet e quello più chiaro deltavolo da cucina con le sue grossegambe un po’ doriche, la curiosità per lalibreria con i piani di pietra grigia, chebella idea, potrei farmene una anch’io. Èun uomo che conosce e apprezza il

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valore del lavoro, gli piace l’ingegnoquando è infuso nelle piccole cose. EAnna si è resa conto di essersi meritatarispetto perché aveva voglia disporcarsi le mani invece di incrociare lebraccia dando ordini come ci si potevaaspettare da una straniera cittadina.

Adesso che il più è fatto compareall’improvviso, senza annunciarsi, senzascopo, per fare due chiacchiere, ma selei sta scrivendo va via. Quando c’è unproblema – e all’inizio ce ne sono tanti,l’autoclave che si avvia di continuo, lalegna che sta già finendo, quanta legnariescono a mangiarsi un camino e unastufa? – basta chiamarlo e arriva, omanda chi di dovere, subito, veloce. Senon ci fosse, pensa Anna, come avrei

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fatto, come farei? La sua presenza le ècosì familiare che non si è spaventatanemmeno la sera di pioggia che si èsporta a chiudere gli scuri e l’ha vistodavanti a casa, le mani in tasca, cheguardava in su, illuminato di strisciodall’unico lampione che i rami deiplatani schermano anche senza foglie.Per un attimo le è sembrato che fossequalcun altro, da un’altra parte. Ma no.“Cosa fai?” gli ha detto, i gomiti suldavanzale, come se fosse pieno giorno.

“Niente. Un giro prima di dormire.”“Vuoi entrare? Un amaro?”“No. Davo solo un’occhiata. Adesso

vado. Buonanotte.” E l’ha esortata conun gesto a chiudersi dentro.

Succede ancora, senza un disegno

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ricorrente. Lei lo saluta, lo invita, lui avolte dice di sì, a volte di no. Strano,Anna dovrebbe sentirsi inquieta perquella presenza non richiesta, e invece èpiù tranquilla all’idea che qualcunovegli su di lei. La casa è isolata, cercadi pensarci il meno possibile ma lo sa.Anche lei è isolata. Nessuno la viene atrovare, per adesso. Sa già che quandofarà bello sarà più difficile difendere ifinesettimana. Un’amica con la casa incampagna, a due passi dal lago, diventadi colpo interessante. Per quello ha fattosistemare l’annesso più grande come unpiccolo appartamento indipendente:semplice, il cotto per terra, la pietra avista sulle pareti, le travi nude, lefinestre minuscole con le inferriate a

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ricordare che prima era una stalla o unarimessa. Saranno contenti, gli ospiti, astare in luogo di mucche. Ci si potràscherzare. È ancora vuoto, penserà piùavanti a cosa metterci e come, si farà infretta, è soltanto una stanza con bagno.Finché resta così ha una buona scusa perprendere tempo e tenere accuratamentelontana la vita di prima. Se tutti contanoper te ma nessuno troppo. Un alibiperfetto: nobile e presuntuoso.

“Allora, hai deciso?”Anna sapeva che la domanda

sospesa sarebbe arrivata. E infattieccola lì, ancora prima del caffè. Aspalle voltate, trafficando con l’acqua eil filtro, è più facile rispondere a una

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domanda con una domanda.“Di chi è figlio questo Zeno? Umile

ha detto che è suo nipote. Ma di chi èfiglio?”

“Le altre sorelle sono morte. LaFede, che sarebbe la madre di Zeno, sen’è andata cinque anni fa. È da allorache lui non torna. Manda dei soldi per latomba, per il giardino. La Umile abitavacon loro. La casa è bella, ristrutturatacome si deve. Non ha mai volutovenderla anche quando tutti erano stufidelle case vecchie e scappavano inappartamento giù in paese, ma ha fattobene a resistere, si è rivalutata tanto, ecosì non se ne trovano più, le hannocomprate tutte i foresti.” Anna cerca dinon sentirsi in colpa: lei non ha

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comprato niente, eppure a volte è comese fosse una prepotente squatter di lusso.Guarda lui che guarda fuori dallafinestra, deve averlo detto senzaintenzione e infatti continua, eloquentecome non è quasi mai. “Ci tiene che siasempre tutto in ordine, ha rifatto il tetto,la cucina, il bagno, coi risparmi di unavita. La signora le ha lasciato dei soldima quelli non li vuole toccare. Dice chesono per il futuro. Il futuro,” ripete, e iltono è neutro, indecifrabile.

“Ma perché non torna? Un posto cosìbello. E poi è casa sua.”

“Dice che non ha tempo, che hapoche vacanze. Tutte scuse, se vuoisentir me. Zeno è bravo, ma è cresciutoin mezzo alle donne. Viziato. E forse gli

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è rimasta addosso la voglia discappare.”

“E Umile è convinta che quello chegli scriverò, quello che gli scriverà,insomma, che quello che gli dice possafare qualche differenza?”

Finalmente Tiziano si volta. Regge ilsuo sguardo.

“Certe cose si fanno per sé, non pergli altri. Credo. Io ti chiedo solo di dirledi sì. Falla stare tranquilla. Le bastapoco.”

Anna chiude casa, salgono inmacchina. Vanno a vedere arredi dagiardino, un buon pretesto per un altrodei loro vagabondaggi.

“E quelli cosa sono?” Lungo lastrada bassa sono spuntati certi pali di

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metallo grigio, ciascuno col suo cavopenzolante dalla cima. Uno, due, tre,sette, finché la strada non spariscearrampicandosi nel fitto dei querceti.

“I lampioni. Dello sceicco,”risponde Tiziano. E al silenziointerrogativo di Anna spiega: “Te loricordi il geometra del Comune? Quandosiamo andati per i permessi? Ce l’avevaraccontato. È stato lo sceicco. Un arabo.Lo chiamano tutti così. Ha ancheasfaltato la strada.” Infatti il manto èquasi nero, compatto, precisato da duerighe inutili ai bordi dove il catrame sirimbocca in quello che resta della stradabianca.

“Ma sarà tutta una luminaria,”osserva lei, rabbuiandosi. Non la

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riguarda, lei da casa quella strada non lavede, è nascosta da una grinza dellacollina; ma comunque. Le sembra disentirne la ferita inutile nella carne, unfastidio. “Ce n’era bisogno?”

“Per lo sceicco sì. Ha comprato ilCampolongo qui sotto, sono sei ettari, esi è costruito la casa, si vede solo dalbasso, dopo ti ci porto. E ha pagato lastrada nuova e i lampioni di tasca sua.”

Qualche chilometro più giù, Tizianoferma il pickup. Scendono, lui indica, leisegue il braccio teso e intravvede unparallelepipedo grigio, tutto vetridavanti, un gradino sopra gli uliveti chescendono ad abbracciare il paese in unacintura d’argento.

“Almeno non si vede quasi,” dice

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Anna con una smorfia. “Basta che lepiante crescano un po’. Certo, il buiointanto se l’è preso.”

Risalgono in silenzio. Annaimmagina un corteo da marcia trionfale,elefanti bianchi, zebre, nappinedappertutto, una tigre, l’harem alcompleto con gli eunuchi vestiti dirosso, il caravanserraglio chiuso da unafila di SUV coi dettagli d’oro massiccio.Ci mancava solo lo sceicco. E magari siaspetta anche di essere trattato dabenefattore. “La gente è strana,” dice.

“Tu no?” replica Tiziano.Non c’è insolenza in quelle due

parole, semmai una sorta di tenerezza, eun’istantanea precisa, come se lei stessevoltando le spalle all’obiettivo ma fosse

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comunque riconoscibile, riconosciuta.Presa per quello che è. “Sei un uomoimpossibile,” gli dice Anna.

“Mi piacerebbe. Diciamo che ciprovo. Impossibile vuol direinteressante, no?”

Sorprendente, anche. Come quelgiorno che le ha detto, sporgendosi dalfinestrino senza nemmeno scenderedall’auto: “Vuoi venire con me allaMadonna della Corona? C’è una vistabellissima sulla Valdadige. E oggi èsereno.”

Sembrava una gita in montagna, findal primo approdo, la piazza di unpaesino con la sua fontana d’acquaghiacciata, il vecchio albergo

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dall’insegna stinta, i bar modesti di unavolta, con le sedie di plastica e lestrisce di gomma sulla porta, e si èritrovata nella vertigine di unadevozione da santuario, con una fila divecchi che scendevano pericolosamenteil sentiero ripido nel bosco, l’ultimotratto una sorta di scala nella roccia contanto di corrimano a cui appendersimentre i piedi cercano la presa uno allavolta sulle schegge di pietra umida, eper finire una scalinata vera, grandiosa,che sale a ventaglio fino alla facciata.Dopo, nel piccolo piazzale biancodavanti alla chiesa circolava un’aria disollievo condiviso, e silenzio. Unsilenzio rotto solo dallo sciacquiodell’autostrada molto più in basso –

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denso di preghiera detta dalle testeabbassate, dai rosari appesi a ditaartritiche, dalle labbra tremanti. Molti,raggiunta la sicurezza del piazzale,cadevano in ginocchio, come arresi allafatica, o alla pietà.

Anche Tiziano si è inginocchiatoinsieme agli altri, come se fosse la cosapiù naturale del mondo. Difficilericonciliare il pickup, le poloirreprensibili, le sigarette sottili conquell’uomo chino, quella testa biancanon diversa dalle altre nell’umiltàrituale della preghiera. Lei è rimastaindietro, sentendosi invadente anchesolo a guardare. Appoggiata alparapetto, ha guardato nella vertiginedello strapiombo, uno squarcio verticale

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dentro il fianco della montagna, un volofilato dello sguardo fino alla pacegeometrica della valle rigata da strade, esi è chiesta se luoghi così assurdivengono costruiti per sentirsi più vicinia Dio o più lontani dalla terra, ammessoche siano due cose diverse, e quante vitecostano, perché piantare una chiesa lì, ditutti i posti, deve ben imporre un tributodi carne. Ci sarà da qualche parte,incastonata nella pietra, una piccolatarga che tiene il conto degli operaicaduti giù. Una donna massiccia si èaffacciata vicino a lei, una tedesca,forse, dati i colori, un po’ spersa,dondolando la testa come a condividerela perplessità. Ma poi ha puntellato igomiti sul muretto per unire le mani, e

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Anna, di colpo diventata di troppo, èdovuta andar via. Si è infilata nellabottega del santuario, un buco buiodall’odore acuto di cera per pavimenti,e ha comprato due di quelle medagliettedi metallo che fanno l’effetto di unghiesmaltate – e sotto la bolla di resina bluil volto o il luogo in rilievo, quasiindecifrabile, ha un’aria di prodigio. Lesono sempre piaciute, ne tiene unapiccola collezione casuale nel disordinedel portafogli, le monete che rotolano trale faccine di santi e marie: ogni tanto,quando paga, ne scivola fuori una, comese volesse rendersi utile, chiudere undebito. Una l’ha data a Tiziano: “Cel’avrai già.”

“Non è che se sono doppie fanno

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male. Non sono figurine,” ha detto lui,divertito, e l’ha riposta con cura nel suo,di portafogli, dentro una taschina.

Sono tornati nel mutismo dovuto allecurve strette e ripide, da vera montagna.Quando il lago è ricomparso sembravaun altro, tanto più grande, una maestàazzurra nel disegno preciso dei profilida carta geografica in rilievo.

“Mi fa bene, la Madonna,” ha dettolui non richiesto, fermandosi davanti acasa sua per farla scendere. “Quandosono stanco prego.”

E Anna si è accorta che su questonon aveva proprio niente da dire.

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COSE CHE SCADONO

Non si impara niente a fardel male agli altri;si impara solo quando ilmale lo fanno a te.

Penelope Mortimer

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“Ma dove sei finita? Stai bene? Seisempre la più bella del reame?” Festosocome un cane, il suo vecchio capo diquando faceva la giornalista hamantenuto intatta l’abitudine dichiamarla senza nessuna ragione, soloper il gusto di farlo. Le sembra unagrazia di altri tempi, conservare legamiinutili in un mondo che considera emisura solo l’opportunità delle cose, o

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comunque considera e misura tutto; aben guardare tutti i suoi legami piùduraturi sono inutili, e viceversa. C’è ungrande sollievo nel sapere che con lepersone vere non bisogna tenere il conto– la ragioneria degli scambi le ha fattochiudere senza rammarico almeno unpaio di amicizie di gioventù.

Ha il sospetto che l’amico si stufimolto nel nuovo ruolo di caporedattoredi un settimanale patinato, di quelli chealternano sei pagine sulle nuove cremeeffetto lifting fotografate nel cuore di unaforesta tropicale ad altre sei sullepiccole imprenditrici coraggiose chenella foresta ci lavorano e di quellecreme non avranno mai bisogno, se nonaltro perché la loro pelle è diversa.

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Come spiegargli, adesso, dov’è e cosafa? “Sono venuta a vivere in campagna.Un’eredità. Si sta bene,” dice. Lasintesi, e la possibilità di ricorrervisenza sentirsi evasiva, è un sollievo.

“Sì, ho capito, ma uomini? Anna,Anna, che spreco. Io sono sempre qui,comunque. Sei tu che non mi hai maivoluto, ricordatelo.” Ridono insieme,fanno la spunta dei colleghi finiti in altoe in basso, lui ha sempre qualchepettegolezzo fresco da spartire, poiparlano di libri, e infine di lei. “Un altrospreco. Scrivere le storie degli altri,andiamo. Un talento come il tuo.”Sapessi cosa scrivo adesso.

Caro Zeno,

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spero che questa mia ti stupiscaalmeno un po’, che ti costringaa fermarti, tu che dici di averesempre mille cose da fare e nonriesci nemmeno a venire atrovarmi. Cominciolamentandomi, alla mia etàtutto è permesso, anchediventare fastidiosa. Non ènemmeno una lettera, poi: è dipiù, perché è più lunga, einsieme è di meno, perché non tidice niente che tu non sappiagià, almeno credo, anche sel’hai nascosto bene, quello chesai – però mi spiego solo inquesto modo la tua assenza chenon finisce. Adesso voglio dirti

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il come, non il cosa. Non sonoio a scriverti, io non sonocapace. Mi limito a tirar fuoriquello che penso, che sento,quello che ricordo, e qualcunaltro ci mette le parole, unasignora arrivata da poco che dimestiere fa questo: presta leparole agli altri. Che poiprestare è un modo di dire nontroppo giusto, in realtà mi pareche una volta messe in un certoordine non possano tornareindietro, essere smontate oriordinate o riprese, il danno èfatto, vero? Ce le teniamo comesono venute, sia chi le hapronunciate sia chi le riceve. Se

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non lo sappiamo noi. Proprioper questo ho deciso diaffidarmi a lei, per non ripeterecerti errori. Lei non c’entra, lanostra storia la prende e laracconta, e basta. Tocca a meaffidargliela, adesso che nonc’è più tempo, che io non ho piùtempo.

Ha questa ossessione, non ricordacome e quando e da dove sia sbucata,però sempre, sempre, tutte le volte cheuna scatola di cartone o il tappo di unbarattolo recano una data di scadenzalontana – vale per i beni più lenti,s’intende, non per la minutagliaquotidiana – si chiede se quel giorno lei

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ci sarà, e che cosa avrà fatto, che cosasarà successo. Come se misurare iltempo con quei metri arbitrari – seimesi, un anno, due – gli desse in qualchemodo una forma, una struttura. Quandoinvece è chiaro che prende la forma diciò che lo contiene, e muta e si contrae esi dilata secondo le condizioni di caldoe freddo che lo colpiscono, avverse obenedette. Come l’acqua; come l’amore.È un gioco che non ha senso, lugubre,perfino: potrebbe anche non esserci, lei,alla scadenza. Non esserci più. Eppurequelle date remote – 11 agosto 2017, 20settembre 2019 – le sfarfallano davantiagli occhi, lusinghiere e indecise comepromesse che non si sa se e in che modomantenere. Le è perfino venuto in mente

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di registrarle su un’agenda, unquadernetto; di depositarle comerisparmi tra gli appunti e gli scarabocchidella vita ordinaria, e ogni tanto, adebita distanza, aprire e leggere, perriempire quei numeri vuoti anche solo diun piccolissimo senso. Oggi, 8novembre 2018, scade il succo d’acero;il tempo è bello, con piogge sparse sulVeneto orientale e nubi sulle Alpi;stamattina ho strappato le erbacce, bevouna tazza di tè verde (scade fra due anni,pazzesco quanto si conserva il tè) ecomincio un buon libro nuovo, aspettoamici a cena. Sarà la festa dei giorniqualunque, certi poco fantastici giovedì,blande domeniche sera: chissà, magari.Ma poi non lo fa, le lascia andare, le

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cifre vuote e fesse; assurda, l’idea diipotecare il futuro in quel modo.

L’altra ossessione è quella deglialibi. In macchina ha riempito le taschedello sportello di tagliandi di parcheggicon i loro orari implausibili, le 9.17, le15.51; ma tra borse e portafogli tieneanche i biglietti dei mezzi pubblici – ilbus preso a Roma il 18 dicembre di dueanni fa, sicuro che si ricorda, c’era ilsole. C’era? – e gli scontrini, finchél’inchiostro non evapora e restano queifoglietti vagamente gommosi con il lorovuoto. Perché? Se venissero a chiederleconto di un momento dimenticato, sepretendessero di averla vista altrove aquella stessa ora (a far cosa di tantoimportante da dover essere tracciato? un

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omicidio? una rapina?), potrà sempreappellarsi a quei foglietti. Poco importase sfogliandoli, quando sono troppi eviene davvero l’ora di buttarli, ricordaper forza il dove, ma nonnecessariamente il che cosa o il perché.

Tutto questo l’ha sempre fattasorridere; adesso però di meno. Quasipiù. Una piccola innocua fissazionevoltata in sospetto: che una vita possastare così, appesa tra scadenze e alibi.Ma no, non la sua; nessuna personanormale può abbandonarsi a unacontabilità del genere, chiedere logica inmodo illogico a un mucchio di carte e dinumeri. Restare in mezzo, d’altra parte,è un bel modo per voltare le spalle alpassato e non figurarsi il futuro,

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nemmeno quello così vicino che achiamarlo futuro sembra di offenderlo.Quanto alla normalità, in genere èsopravvalutata.

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2

Lo sceicco è diverso da come sel’era immaginato: meno rapace, menoscuro, eppure qualcosa del falco nel suoaspetto rimane, o forse è solo l’idea acui Anna non vuole rinunciare. Portapantaloni di cotone khaki con la piega,mocassini, una giacca blu. Niente anellivistosi: la mano che ha stretto la sua èfresca ed energica, piccoli cespugli dipeli sui polpastrelli. I baffi, certo, e una

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breve barba curata, da Grande diSpagna. Tutto molto nero. Un accenno diventre da pigro riempie bene la camiciadi lino bianco. Quando ride – e lo faspesso, sembra traboccare di unabonomia inesauribile, come se dovessemostrare quanto è contento di esserci –scopre denti bianchissimi, un po’piccoli, che accentuano l’aspetto dapredatore.

Li hanno presentati nel giardinoelegante di un albergo elegante, appenaaperto, che si vanta di mettere insiemeimpatto zero e parecchie stelle, e la cosastraordinaria è che ci riesce. Quando leè arrivato l’invito per l’inaugurazione –la carta costosa, pesante, quasi grassasotto le dita, le foto costose, pesanti, di

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una bellezza opulenta – d’istintol’avrebbe messo da parte senza pensarcipiù. Una cosa così cittadina. Poi si èdetta che tanto valeva vedere un po’ difacce, e anche Tiziano l’ha incoraggiataad andare: “Ti metti su da battaglia e tiguardi in giro.”

“Com’è che mi vogliono?”“Lo sai che qui la gente nuova è

ricercata. Ce n’è poca. E comunque iproprietari sono brave persone,imprenditori seri. Fanno anche l’olio.”

Non gli ha chiesto per prudenzacome mai lui non fosse stato invitato. “Ionon cerco niente,” ha detto invece,divertita all’idea della sua idea dimettersi su. Nero, tacchi, trucco,l’armamentario completo.

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“Fallo per te, no?” Avrebbe potutodirglielo un’amica. Suggerito da unuomo le è sembrato curioso, curioso edoppio, come di uno che la sa lunga: faipure finta di addobbarti per il gusto difarlo, per te, ma lo sappiamo bene che èuna farsa. Alla fine c’è andata anche unpo’ per il dispetto di smentirlo, ditornare e raccontargli che non haconosciuto nessuno, non è successoniente. E invece quando si trova davantiHamid Abadi è contenta di aver scelto ilvestito blu serio davanti e trasparentedietro, i sandali d’argento pallido, lamoneta cinese col fermaglio di giadaappesa al cordone di seta verde.

Non è uno sceicco, e non è nemmenoarabo, ma questo l’aveva già scoperto: è

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un commerciante di tappeti metàfrancese metà iraniano che lavora moltocon l’Arabia Saudita ma al rovescio,coprendo i pavimenti di marmo deglisceicchi veri con ettari di lanaintrecciata al telaio da artigiani italiani.“Come quello,” e indica l’enormequadrato a semplici disegni grigio sugrigio che si estende nella reception. “Sisposano benissimo con i pezzi di designche amano collezionare, sono innamoratidel vostro stile,” dice. “O forse sonosolo avidi di quello che non capiscono,chissà.” Parla un italiano quasi perfetto,solo le erre e le esse hanno un suonoprolungato, indulgente. Chiacchierano disedie e lampade con leggerezzasalottiera, ma c’è da subito dell’altro.

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Seguono il flusso della festa, unbicchiere in mano, distratti dalla folla,tra le luci smorzate dal fogliame delgiardino tutto geometrie e angoli acompensare il morbido dell’acqua che èovunque: nelle piscine illuminatedall’interno, nei canali di pietra checorrono piano a lato dei sentieri, nelbrusio che la musica discreta nonsoffoca. “Tutta questa acqua. Fare tantabellezza con poco.”

Anna lo guarda contrariata: non lesembra che sia poco, quello che licirconda. Ma tace. Forse le sta dicendoqualcos’altro. Si volta verso di lei, laosserva per qualche istante, torna aguardare davanti a sé. Si sono lasciatialle spalle i tavoli, il cibo, le bottiglie,

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la gente. Camminano lungo una vascatutta nera che sbuca per un metro dalsuolo. Una pellicola liquida ne riveste ibordi e ricade sui fianchi spessa elucida. C’è buio. Difficile leggerloquando si ferma, si volta ancora e ledice: “Venga a trovarmi. Le spiego.” Leporge un biglietto da visita, accenna uninchino, se ne va.

Ha aspettato dieci giorni prima dichiamare. Ha anche pensato di mandareuna mail, freddo per freddo. C’eral’equivoco del biglietto. Non si è maivista dare un biglietto da visita da unuomo che provasse interesse per lei. Delresto non ha mai conosciuto un araboche poi non è un arabo tanto da andare a

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casa sua e si sente limitata, come se iconfini del suo mondo fosseroall’improvviso piccoli in un modosoffocante; e non è nemmeno sicura divolere che lui provi interesse. I codici dicomportamento sono complicati,richiederebbero istruzioni, lo sa bene leiche ancora si muove circospetta inquella campagna dove tutti parlano lasua lingua e non sempre intendono lestesse cose con gli stessi suoni. Èimbarazzata dalla propria ignoranza, ecuriosa. Vince la curiosità.

Eccola lì davanti al cancello che sifa lentamente da parte. Un ragazzo incamicia bianca e pantaloni neri, unaspecie di cameriere informale, le fasegno di parcheggiare in uno spiazzo di

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ghiaino accecante, poi le fa strada su perla scala di pietre posate lungo la schienaverdissima della collina. La casa dasotto non si vede ancora, è una sorpresadi vetro che affiora in cima alla primarampa, ma bisogna salirne una secondaper comprenderla tutta nello sguardo.

Hamid Abadi le viene incontro conl’aria sicura di chi sta dentro la cornicegiusta, le stringe la mano, la trattiene unistante tra le sue. Alla luce del giornosembra più chiaro, ma non ha perso lasua attrattiva come succede le secondevolte. Anna pensa alle donne che le sonoparse incantevoli a prima vista,invidiabili, e poi tanto ordinarie unavolta incassata la novità. Con gli uominidi solito il passaggio è anche più

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veloce, basta ascoltarli, osservare comesi muovono, cogliere la piega banaledelle frasi, gli aggettivi brutti, le vocalitroppo larghe, le battute spuntate. Noncon lui.

“Che bello, è venuta. Per di qua. Lacasa non è niente di speciale, è quelloche si vede che conta. Ecco, si volti,guardi.”

Il lago da quell’altezza è così vicinoche sembra di poterne toccare laconsistenza, che è come granulosa; ilvento sposta piccole onde bianchesull’azzurro scheggiato che dalle suefinestre appare sempre liscio. Le barchea vela giocano con l’aria; e il rumore,quel rumore che dalla torre immaginapiù che sentire, lì è vivissimo e preciso,

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motoscafi che rimbalzano, alberi chetintinnano, e ogni tanto il boato largo diun traghetto in arrivo. Per un miracolo dipieghe di terra il paese è sparito:sembra di stare sospesi. Ci siaspetterebbe il gioco banale di unapiscina a sfioro, acqua sull’acqua sulcielo, e invece no, è solo il prato atuffarsi nel vuoto.

“Deve venire da me, una volta,” diceAnna. “Per vedere com’è diverso.”

“Volentieri.” Lui la guarda conintenzione, e lei ha paura di arrossireper quello che solo una volta detto lesuona come un altro genere d’invito.“Ma non mi convincerà che da casa suaè più bello. Prima devo stancarmi diquello che vedo da qui. Ci vorrà un

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po’.”La guida dentro perché è freddo e si

sta meglio dall’altra parte della vetratache non pone limiti allo sguardo. Sisiedono sul basso divano color sabbia;il pavimento è di parquet quasi bianco,coperto da grandi tappeti a geometrielarghe, righe che s’incrociano, quadrati,rombi, tutti tra il bianco, il grigio e ilbeige, con qualche solitario tocco dirosso. I suoi tappeti. Se la casa nonsembra un albergo, quell’albergo – eAnna ha il sospetto che a disegnarli tuttie due sia stata la stessa mano – è solograzie al disordine di libri e rivisteammonticchiati dappertutto, di rosetroppo aperte che si sfogliano suitavolini. “Lei è un’osservatrice,” le dice

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porgendole il bicchiere col gin tonic.“O una ficcanaso. È solo una

variante, suppongo.”“Ficcanaso. Che parola interessante.

Una lingua è un mondo. E i mondi deglialtri sono sempre un mistero, noncrede?”

Anna non capisce se sia un invito achiedergli di più o il contrario. Parlanodella festa, lui conosce bene iproprietari dell’hotel, e sì, l’architetto èlo stesso. Racconta della curiosità chealeggia ancora attorno a lui, dei dueragazzi tuttofare più una governante chetengono la casa sempre aperta perquando lui ha l’estro di tornare, lamoglie è venuta solo una volta,preferisce Londra o Dubai, o al limite i

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Caraibi. Niente figli. Dice del giardinoche è finito ma non gli piace, troppoordinato, troppo perfetto, lascerà farealla natura, che se lo riprenda. Poi parladella prima volta che ha visto il lago.“Ero a Verona per i miei tappeti,impiego artigiani del Nordest e qualcunoin Sardegna, e in città c’è un bellaboratorio che appartiene a quattrodonne, le piacerebbero, non s’immaginile solite neohippy, tutt’altro. Mi invitanoa cena. Non ho voglia, preferirei unacosa veloce, al meglio non sono moltosocievole e dopo un giorno di lavorosono stanco, come tutti; ma non possodire di no. Arriviamo da dietro,l’autostrada, quel brutto svincolo colcentro commerciale addosso, sa, poi la

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statale. Mi piace questa campagna, dico,e lo penso davvero: perché passata lazona industriale si vedono solo lemontagne, e sono montagne che nonfanno paura, tutte coperte di alberi, forsevoi non le chiamate nemmeno montagne.È una sera di maggio, sono le sette, èancora chiaro. Alla croce voltiamoverso il lago, si sale un pezzetto e poi sicomincia a scendere. Sa dove la stradava giù diritta e poi si stringe in mezzoalle case e cominci a intravvederequalcosa di azzurro? Al primo tornante,quando hai davanti la baia con la Roccada una parte e San Vigilio dall’altra,sono rimasto senza parole. Tuttaquell’acqua, tutta in una volta. Me lasono bevuta con gli occhi, e la sete mi è

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rimasta. Siamo andati alla Locanda, unposto incantevole, certo, ma potevaanche essere una pizzeria, non ho fattoaltro che guardare l’acqua al di là delvetro. E mi sarebbe piaciuto possederlatutta, noi siamo così, quello che ti piacedev’essere tuo, e perché sia tuo bastariuscire a dargli un prezzo. Non potevocomprare tutta Garda,” e respira afondo, come se avesse davverocontemplato l’idea. “Ho fatto meglio chepotevo.”

Sarebbe una bella storia da vendereal suo amico caporedattore. Qualchevolta lo fa ancora, di scrivere articolidel genere, ritratti di gente speciale, equi c’è anche la casa, una dimora darivista. Ma respinge subito l’idea.

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Quanti scrupoli, le sembra quasi disentire la voce dell’amico nell’orecchio,gli altri ti interessano troppo per essereuna brava giornalista.

Sì, però questa volta è diverso:questa non è una storia, è una vita.

L’amico non insiste.

Anna è fuori, a raccogliere le foglieche una tempesta perfetta del tipo a cuipensa di non potersi abituare ha sputatosull’erba, quando sente la variazione diun motore che scala e vede il muso diun’auto elegante sbucare oltre leinferriate.

“Passavo di qui, ho detto mi fermo.Ho fatto male?”

“Certo che no.” Anna apre il

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cancello, lo lascia entrare, richiude.Siedono fuori, sul retro, al tavolo

verde appena arrivato con le sue quattrosedie più una panca, di cui va moltofiera. “Così lo inauguriamo,” dice Anna,premendo i palmi sul piano di ferro conaria di possesso. La bottiglia nel secchiodi metallo, i bicchieri veneziani di unverdegiallo maculato, il vassoiod’argento col bordo tanto lavorato che èimpossibile lucidarlo, le olive. Unmomento perfetto. L’aria tiene in séqualche residuo della tempesta. Non c’èbisogno di parlare, ma il silenziosembra implicare una confidenza chenon c’è. E allora parlano tutti e due, sidanno sulla voce, ridono piano. Anna faun gesto cortese con la mano. Lui beve e

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si guarda intorno.“Sembra che stia per cadere a pezzi,

come prima. Lo so che sono stati fattilavori accurati, è un complimento, ilmio. Mi piace, quest’idea di preservarele cose. Voi ce l’avete nel sangue. Neldeserto dei ricchi, dove lavoro io, nonc’è niente da millenni, e la sabbia, alasciarla fare, si riprenderà tutto. Te latrovi sempre addosso, dentro la bocca, ècome se appannasse le cose: un giornosono nuove e l’altro sembrano giàinvecchiate, devi continuare a pulire,spolverare, togliere, se vuoi tenerequello che c’è. Anche solo fermare ilpresente è una fatica quotidiana. Quiinvece sembra che conti solo il passato.Le vostre tradizioni, le abitudini: non

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rinunciate a niente, ne andate così fieri.C’è il passato dappertutto, anche dentroil vino. Perfino in una casa piccola comequesta non si può non sentirlo. Lei lisente, quelli che sono vissuti qui intorno,dentro? Io sì. Ma non capisco quello chedicono, non ci riuscirò mai, sono comeuna voce non chiara, un bruit, come sidice? Un mormorio. Io non capisco,vengo da troppo lontano. Quello chesento è come una radio quando non trovila frequenza. Per questo non hocomprato una casa vecchia. Perché avreicontinuato a sentire senza capire mai.Ma lei dovrebbe riuscirci. È il suomestiere, ascoltare. No? È quello che midicono. L’ha fatto proprio bene, stasera,con me. Adesso però toccherebbe a lei.

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Mi dica delle cose.”Anna tace. Lascia che lo spazio tra

loro si riempia di rumori: il mormoriodelle foglie, un sibilo di auto che passanon lontano, la voce piena delpettirosso. Quando parla è troppo tardi.“È che dopo essere stati zitti per un po’ci si rende conto che forse non si haniente di importante da dire.”

Lui ride. “È un rimprovero? Lo soche parlo troppo. Sono un venditore ditappeti, dopotutto. Posso vedere la casa?Lei la mia la conosce già, è invantaggio.”

Sono di sopra, nell’ultima stanza, eguardano insieme la parte di mondoritagliata dalla finestrina a quadrifoglio.“Un insolito punto di vista,” dice lui.

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“Insolito ma a fuoco. Questa casa lesomiglia, Anna.”

Il suo nome pronunciato da lui inquesto modo, per la prima volta, infondo alla frase, quasi la commuove.Sono vicini, troppo. Lui le guida il voltocon una carezza che si ferma e accoglieil mento e la guancia nella mano. È unbacio premeditato; un bacio che la mettea nudo anche se lui non l’ha nemmenosfiorata, a parte il tocco del pollicesullo zigomo, che dopo resta lì,un’impronta, una scottatura.

È che non si ricorda più quantotempo è passato da che un bacio le hatenuto tanta compagnia.

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3

La bambina è sbucata dal nulla sulmargine del bosco, scostando le fronde.Si guarda intorno come per decidere checosa fare. Anna non è certa di vederebene: ha il colore di un fungo, ed èquella la cosa più strana. Per forza: ènuda, nuda tranne le scarpe e le calzinescure scese a fisarmonica sulle gambetteche hanno il bianco sfrontato della carnenascosta. Cammina tranquilla,

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costeggiando il prato, a capo chino.Una volta deciso che c’è, è vera, e

battere le palpebre non la fa sparire,Anna diventa veloce: afferra il plaidpiegato sullo schienale della poltrona edesce. Non corre, però risale la china agrandi passi. Quando le arriva vicina hail respiro affannato. La bambina, che si èfermata ed è rimasta immobile, e giàquello è un risultato, alza lentamente losguardo su di lei.

Piove, un’acqua mite, quasi vapore.Quanto basta perché le ciocche brunesiano incollate alla testa e alle spalle.Gli occhi sono grandi, grigi. Anna nonesita più, le getta la coperta sulle spalle,avvicina i lembi per richiuderli sul pettoluminescente della bambina-fungo.

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“Vieni. Avrai freddo. Vuoi venire a casamia? Abito là, vedi? E tu, dove abiti?”

La bambina si volta e tende unbraccio. Nel bosco, sicuro. O più in là,al di là. Cosa c’è al di là del bosco?Altro bosco, per quello che ne sa Anna.Ci saranno case tra gli alberi. Oltre, inbasso, comincia il paese, ma è lontano.E non vede proprio come una bambinasenza vestiti sia potuta arrivare fin lìsenza che nessuno la notasse. E adessocosa deve fare? Prenderla in braccio?Trascinarla? Perché non accenna amuoversi. Anna non sa cosa fare. Poi sivolta e si avvia, piano, senza guardareindietro. Dopo qualche istante il frusciodei piccoli piedi nelle foglie umide ledice che va bene così.

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“Come ti chiami? Quanti anni hai?”Le solite domande, quelle che nessunbambino vuole sentirsi fare e tutti fannoai bambini per mancanza di altre parole.Se lo ricorda bene, il senso didesolazione quando un adulto – ancora –voleva sapere sempre la stessa cosa.Come se fosse importante, un nomescelto da altri, un numero in continuomovimento, e comunque improprio,inadatto a definire. Ma cos’altro puòchiedere a una bambina-fungo senzavestiti che è comparsa al confine dellasua proprietà? Dovrà restituirla a chi didovere, e possibilmente non passare peruna pazza malata, una strega-nella-casetta che attira a sé i figli degli altriperché di suoi non ne ha.

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Ti ricordi quando sparivate nelbosco e stavate via tutto ilgiorno? Nessuno sipreoccupava, nessuno vi venivaa cercare, erano altri tempi,oggi i bambini li tengonosempre al guinzaglio e non soche bene gli possa fare. Non chenon ci occupassimo di voi: perònon stavamo in pensiero,sapevamo che eravate capaci diarrangiarvi, e poi la collina laconoscevate come le vostretasche, era la vostra vera casa.Ho sempre pensato che era unprivilegio grande, poterti dareun campo da giochi immenso. Enon eri da solo, eravate sempre

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insieme, voi due. Che cosapotevi volere di più?Magari desideravi anche altrecose. Le cose del mondo, quelleche si vogliono per sentirsinormali, per passareinosservati. Le cose chediventavano importanti soloquando andavi a scuola o staviin paese con gli altri bambini,perché il vero problema eranoloro, il vero problema sonosempre gli altri, quello chepretendono da noi, come civedono, come ci giudicano,dove ci vogliono mettere. Perconsolarmi penso che a far benei conti valesse di più il resto,

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tutta quella libertà, i grandispazi, i vostri segreti, e che lecose di tutti i giorni a confrontofossero poco importanti. Ma ibambini vogliono tutto. Ègiusto. Dover cominciare adaccontentarsi fin da piccoli èuna vergogna. Però è così cheva la vita, e allora forse tantovale abituarsi subito. No, lo soche è una cosa brutta erassegnata da dire, una cosa davecchi. Una di quelle cose chepassano per saggezza ma hannodentro lo sporco della rinuncia.Però queste righe non lecancello, perché è come se tiparlassi e quando si parla a

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volte non si pensa, e io voglioparlarti per una volta senzaprendere le misure. Vado avanticome mi viene, giro intorno allaverità come a una boa,prendendo tempo. Ma ci arrivo,vedrai. Ci arrivo.

Ancora una volta è Tiziano a trarlad’impaccio. Spinge la porta che nellafretta è rimasta socchiusa, entra e dice“Ciao, Petra”, come se fosse normalevedere lì seduta sul divano, tra i cuscini,sopra la coperta scivolata via, unabambina nuda che prende il tè.

“Ciao,” dice la bambina, tranquilla.Tutta quella naturalezza non lo

inganna. “I tuoi lo sanno che sei qui?”

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chiede. No con la testa. “Glielodiciamo?” No con la testa. “Meglio disì.” Spalle che si alzano e si abbassano.

Un rapido scambio al cellulare. “Ilpapà viene a prenderti appena ha finitoin cantina.” E ad Anna: “Potrà volerciun po’.”

Bevono il tè in silenzio, Anna ècontenta di avere qualcosa con cuitenersi occupata. Tiziano la osservadivertito, a suo agio, come sempre.“Petra è una che scappa,” dice a un certopunto. Gli occhi della bambina siaccendono: sembra compiaciuta. Anna èstanca di sentirsi tagliata fuori e sbotta:“Ma parli, vero?”

“Quando voglio,” è la risposta. Annae Tiziano ridono insieme. Lei va di

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sopra e torna con una maglietta che le vaun po’ piccola, a fiorellini blu. “Infilatiquesta, dai,” dice alla bambina, chestranamente obbedisce e poi si risiede estringe le gambe, troppo composta. Undubbio. “Devi andare in bagno?” Sì conla testa. “Di là.”

La bambina scompare nel corridoioabbracciandosi la maglietta, come se ilpudore venisse assieme ai vestiti.

“Lo fa spesso?” chiede Anna,approfittando dell’assenza.

“Diciamo che è un tipo indipendente,e i genitori non le stanno troppoaddosso. C’è sempre qualcuno che laguarda, qui in giro. Adesso ci sei anchetu.”

Strano modo per essere ammessa in

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una comunità, pensa Anna. La bambinatorna con un asciugamano avvoltoattorno alla vita, come un pareo. Sirisiede e si accomoda la copertaaddosso. Chiaro che ha freddo ma non loammetterà.

Quando bussano alla porta, i tresono impegnati in una partita a sardine.È un gioco francese di attenzione, Annal’ha comprato perché le piaceva lascatola, la grafica delle carte. È la primavolta che lo usa, era ancoraincellofanato. Alla bambina non èsfuggito: “Come mai hai i giochi e non cigiochi?”

“Perché sono grande?”“Anche i grandi giocano con le

carte, al bar. Mio papà col trattore.”

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Eccolo lì, il papà. Entra, va subitodalla bambina. “Tieni.” Le porge unfascio di vestiti, un dolcevita bianco,pantaloni di velluto scuro, un giubbottodi jeans. Ha una quarantina d’anni, l’ariasana e stanca, con un sottofondo dimelanconia. Il colorito acceso di chipassa molto tempo all’aperto accentua lepieghe attorno agli occhi grigi,chiarissimi. “Li ho trovati seminati su incollina,” spiega.

“Come le briciole di Pollicino,”dice Anna senza pensare. La bambina lafissa con un accenno di sorriso, il primo.

“Petra sa benissimo qual è la stradadi casa senza dover spargere vestitidappertutto per ritrovarla,” dice l’uomo,ma con garbo. Le tende la mano. “Dan.”

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Saluta Tiziano con un cenno.Silenzio.La bambina si riveste

lentissimamente. Sembra che facciaapposta a infilarsi la maglia a rovescio,a impigliarsi nel collo, a inciamparenelle gambe dei pantaloni. Tutti lonotano e nessuno le bada, ma lei è piùfurba e continua imperterrita, seria. Ilpadre la lascia fare. Solo alla fine sichina a raccogliere le scarpe infangate epoi la prende in braccio. “Grazie. Nondoveva disturbarsi.”

“Non potevo lasciarla là dov’era,no?” dice Anna. La bambina la fissanegli occhi, dalla sua nuova altezza sonoalla pari, adesso. Forse dovevi, dice ilsuo sguardo. Il padre piega il capo in un

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saluto e se ne va.Nel riquadro dell’inferriata, già

lontano sulla strada, il trattore sembradavvero un giocattolo. Il padre guidatenendo in piedi tra le gambe Petra, cheha le mani sul volante. Per quello che nesa Anna di bambini e trattori, può anchedarsi che stia guidando lei.

“Sono olandesi,” spiega Tiziano.“Hanno comprato un sacco di terra,fanno il vino, non il doc di queste parti,delle cose strane in barrique, e lebollicine che vanno adesso. Lo vendonoall’estero, non qui.”

“Delle cose strane, dici.”“Noi siamo gente semplice, Anna.

Non ci piacciono troppo le novità. No,non è vero: possiamo accettarle, purché

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non diventino cambiamenti.”“E come fate a decidere qual è il

confine fra una novità e uncambiamento?”

“Di volta in volta.”“Di persona in persona.”“Anche.”“E la bambina selvaggia?”“Fanno cose strane e sono un po’

strani. Non va a scuola, le insegnanoloro a casa. A lei e alla sorella piccola.Stanno sempre per conto loro, vanno ingiro libere. Non hanno paura di niente.Giocano con i cani, gli asini, e con unsacco di cose di legno che sicostruiscono da sole.”

“Ti piacciono, quindi.”“Sono diverse.”

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“Lo dici come se fossero deglianimali rari.”

Lui la guarda con l’aria di noncapire se sia un rimprovero.

“Tutti i bambini lo sono,” osservaAnna.

Lui stringe le labbra. “Tu cosa nesai?”

Ti avevo sempre sotto gli occhi,e a volte era più la pena che lagioia. No, non è vero, se anchec’era pena passava in unattimo, una fitta, un doloreintercostale, lo sapevo che eraun privilegio anche stare così,tre passi indietro, lo sapevo cheil cuore stava bene. La zia

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Umile. Sono brutti, i nomi diparentela, cognato, nuora,suocera: sembra che abbianonel suono la difficoltà cheportano. Zio e zia potrebberoessere più semplici, dovrebbero,c’è soltanto, com’è che si dice?un grado di separazione, ilsangue è lo stesso. Ma c’èquella zeta dentro, una letteradifficile, lontana. L’inizio deltuo nome, la fine dell’alfabeto.Eri bravo a scuola, prendevisempre i voti migliori, peròGregorio con te non siarrabbiava mai. Era occupatocon le sue furie, ma ogni tantoquando era assieme a te si

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dimenticava anche di quelle,erano i momenti migliori,guardarvi era una forma difelicità, una delle più pure,suppongo, quella che passafuori da sé. Quella dell’amorequando è intero.Eravate immersi nelle storie.Fortunati, ad averne tante.Quelle che vi raccontavate travoi quando gli altri nonc’erano, e continuavate ascambiarvi, nelle vostre frasisegrete, con gli sguardi, ed eracome se foste chiusi in uncerchio magico e noi potessimosolo stare a guardarvi, senzatoccare, senza sapere. E quelle

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di sua mamma: aveva bisognodi fare esperimenti, non sifidava degli occhi degli altri madelle vostre orecchie sì. Quandoaveva finito una storia nuova vichiamava e qualunque cosafaceste smettevate subito, comese ci fosse un sortilegio nellasua voce. Vi sedevate ai suoipiedi, nel salotto giallo, su queltappeto con le foglie di feltro inrilievo, credo che l’avessecomprato proprio per voiperché era troppo complicatoper i suoi gusti però era untappeto da bambini, e infatti vipiaceva passare le dita tra lefoglie, lo facevate senza

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pensare, tirando piano neimomenti drammatici, lasciandoandare quando arrivava ilsollievo, quelle manine scure.Divento sentimentale. Noi, glialtri grandi, eravamo esclusi,stavamo dietro le porteaccostate, o entravamo con unascusa, la cioccolata, i biscotti, ecoglievamo solo qualche frase,mai abbastanza da capire. Voinon raccontavate niente. Chepoi la Fede non era curiosacome me, tutte balle dabambini, diceva, senonché eradi quelle balle che vivevamotutti quanti. A me piacevano.Volevo sapere, anche se dovevo

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stare fuori. Ma il verospettacolo eravate voi. Levostre facce, quegli occhi.E i compleanni te li ricordi?Iride non voleva estranei incasa e quindi eravamo solo noi,un cerchio di adulti appesi allelabbra di due bambini, tutti lì astudiare le loro reazioni. LaCelia faceva le sue torte, unaper uno, e ve ne scambiavateuna fetta che poi restava lìperché ognuno aveva i suoigusti e non voleva cedere aquelli dell’altro. Te lo ricordi?Frutta per te, cioccolato per lui.C’erano i regali, e avevamoimparato in fretta che dovevano

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essere identici, a coppie, pernon fare danni con la gelosia.C’era una gioia tranquilla,composta. Una complicità. Poiscappavate fuori ed era tuttofinito troppo presto.

È contenta del lavoro fatto. Alla fineè la storia di una persona, e nemmenotutta, ma ha in sé qualcosa di più largo:a chi non capita di rinunciare a qualcosadi molto prezioso per il bene diqualcuno, o per il proprio, confondendoad arte le due cose, salvo poi accorgersidi aver sbagliato? Chi non ha il suo e seconservato come si fa con un fiore seccoo un biglietto, una parola, nelportafoglio? Qualcosa di piccolo e

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morto e irrecuperabile lasciato lì anobilitare le povere vettovaglie di tutti igiorni, il denaro, i documenti? E pensadi aver reso bene la voce di una vecchiache prende le distanze e accomoda lecose, concedendosi di essere lucida evaga insieme. Sono poche pagine intutto, e c’è dentro una vita. Se ne senteresponsabile, ed è tanto più stranoperché non l’ha fatto per un compenso,Umile ha insistito, anche Tiziano, manon c’è stato verso. E non per nobiltà oper comprare il buon vicinato, maperché non sa ancora, non ha capitoquali possano essere le conseguenze,quale danno possa fare quel mazzo dipagine: un prezzo ce l’ha, ma non per leiche ha fatto solo da tramite: per chi ci ha

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messo la propria verità.

Prima ho sperato che te lodicesse lei, la Fede, mi figuravoun po’ una scena da film, leultime frasi che ci si scambiaquando si sa che la fine è vicinae si vogliono rivoltare le pietre,quelle cose lì. Sarebbe statomeglio che non lasciasse a mequesta responsabilità. E inveceniente, non è mai stata un tiporumoroso o teatrale, e non mistupisce che abbia preferito ilsilenzio. Poi ho pensato di farlouno di quei giorni dopo ilfunerale, quando è finito tuttoma si sta come sospesi, perché

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il primo dolore sembra passato,si sono fatte le cose che sidoveva, per bene, e la tristezza,quella lunga, quella che rimane,non è ancora entrata in circolo.Ma mi è sembrato, non so, chefosse come sciuparti il dolore,che lei e Giovanni meritasserodi essere rimpianti fino infondo. E allora ho aspettato, horimandato ancora. Pensavo checi sarebbe stato il momentogiusto, dopo, quando tornaviper le vacanze, o per mettere inordine le cose. Anche se nonc’era poi granché da mettere inordine. Me lo sono immaginatoparola per parola, il nostro

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dialogo, seduti fuori, dietrocasa, una di quelle sere che ègià da un pezzo ora di cena mati passa la fame, la sete, e restasoltanto la voglia di guardare ilcielo perché si sa per certo cheuna sera identica non torneràmai, lo si sente quasi condolore, e si vorrebbe fermareogni cosa. Ma certo è unpensiero da vecchi, a chi ègiovane non importa di questospreco di bellezza, si pensasempre che ci sarà di meglio. Ecomunque non sei più tornato.

Tutta la lettera è fatta in questomodo, di scarti e pause, come un

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pensiero lungo ad alta voce.

Alla fine, caro, nemmeno ilnome è quello che ti avrei datoio. Tu sei Zeno ma nella miatesta sei un altro. Olmo, forse;in famiglia non abbiamo pauradei nomi strani, e alla finechiamarti come un albero eramolto giusto. Piantarti, darti leradici, e lasciarti andar su dasolo come succede in natura,che ci si arrangia e si trova ilproprio posto. Eri piccolo, tel’ho raccontato dopo ma forse tisei dimenticato di quando tra leviole è caduta una noce, necadono tante, rotolano giù dalla

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ripa, ma quella ha messo radici,e l’anno dopo è venuto su unrametto grigio, subito non sicapiva che cosa fosse, poi sonospuntate due foglie, era proprioun noce, piccolo e ostinato.L’abbiamo lasciato lì coi piedinei fiori per tre anni, non cicredevamo, che potesseresistere, e quando abbiamocapito che voleva restarel’abbiamo trapiantato in unposto dove avesse spazio e nonfacesse troppa ombra al futuro.È ancora là dietro, adesso chedi anni ne ha come te: nocibuone non ne ha mai fatte, sonotroppo piccole, le raccolgono i

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bambini per giocare. Ma èdiventato un albero nonostantetutto. Come te.

I nomi dei bambini. Li recitavano dapiccole in cortile, un gioco da ferme,quando c’era un caldo che non si potevacorrere, i maschi erano spariti inqualche cantina o in un altro postopericoloso, e loro, troppo sfinite pergiocare all’elastico o a mondo,s’infilavano nell’ombra angusta delbalcone del pianoterra. Dovevanoentrare a quattro zampe, altrimentisbattevano la testa, però poi seduteincastrate sul fondo, con la schienaappoggiata al muro e le gambe allungate,ci stavano perfettamente, come dentro

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una scatola, un rifugio. Nessuno levedeva, e fuori passavano soltanto ipiedi di qualche adulto, ma pochi.

“Io i miei li chiamo Francesca eFrancesco. E spero che siano gemelli.”

“Ma dai, che stupidata, lo stessonome.”

“Non è lo stesso, è diverso. E poi ame piace.”

“Le mie Esmeralda, Vanessa eSelene.”

“E se sono maschi?”“Maschi niente.”“Mica puoi scegliere.”“Cosa ne sai tu. Adesso non si può

scegliere. Ma quando saremo grandi cisarà il futuro. E nel futuro è possibiletutto.”

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“Io voglio solo maschi perchéalmeno fanno quello che vogliono.Marco, Matteo, Luca.”

“E Giovanni. Buonanotte.”“No, Giovanni no, è troppo lungo e

sa di vecchio. Mio nonno si chiamaGiovanni.”

“Da noi si usa. Infatti mia nonna èConcetta come me.”

“Poverina.”“Perché? Sta benissimo, è anche

cattiva.”“No, poverina te, con quel nome.”“Cos’ha che non va?”“Non so. Non ce l’ha nessuno.”“Sono meglio, i nomi speciali. In

classe abbiamo quattro Paole e treCristine. Concetta sono solo io. Sono

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unica.”“E tu, Anna, non dici niente? Com’è

che li chiamate, tu e Michele, ibambini?” Tutte rivolte verso di lei,avide, irridenti.

Anna zitta. Voleva dire che Michelenon era il suo fidanzato, che si eranolasciati senza nemmeno litigare, mafiniva che quelle attaccavano con lacantilena e non smettevano più. Gliaveva anche restituito la fede, che poiera un anello da tenda che le andavalargo anche al pollice, di ferro un po’arrugginito. Aveva deciso lei e nonsapeva perché. Forse l’imbarazzo diaverlo sempre addosso, quegli occhi dacane, quell’aria compunta. E dove vai, eti accompagno. Era uno che non sapeva

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dove mettersi. Anche quando gli avevaridato l’anello lui l’aveva guardata così,troppo buono per dire una parola.

“Oh, hai perso la lingua?”“Non è che i bambini li fanno tutti.

Mia zia Licia per esempio non ce li ha,”aveva detto con veemenza, perriprendere il filo.

“Mia mamma dice che alle donnesenza bambini gli manca qualcosa.”

“Certo. I bambini.”Un silenzio. Poi:“Ci stai prendendo in giro?”Era sgusciata fuori, inseguita dalle

voci. “Ma dove vai?” “Corri dal tuoMichele, va’.” In cortile è così, bisognasempre stare all’erta, capire quando simette male perché troppo tardi viene

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presto e allora si ribalta tutto e in unattimo sei quella sbagliata. Era tornatadi sopra, cinque piani a piedi, e si eraappoggiata alla porta come se fosse lasua salvezza, senza nemmeno provare lamaniglia perché lo sapeva che lamamma era in giro e a lei le chiavi dicasa non le davano mai, le avrebbeperse. Forse no, ma insomma. Erascivolata sullo zerbino ed era rimasta lìa farsi pungere la pelle dalle setole,aspettando.

Poi c’erano state le vacanze e allafine dell’estate una delle bambine eracresciuta troppo per starci ancora, sottoil balcone; e non se n’era parlato più.

Ci riempivate la vita, voi due.

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Tu perché eri nostro, lui perchéera sempre lì. Eravamo diversedalle altre donne, io e la Fede,sei stato un tale regalo che nonci saremmo mai sognate ditrattarti come si fa qui coi figli,che davanti alla gente simettono sempre sullo scaffale, ivestiti belli, i capelli pettinaticon l’acqua, e poi quando glialtri non ci sono giù botte, oindifferenza. Solo coi bambinici si permette di essere così, chesi perde la pazienza e si usanole mani e si alza la voce, comese non fossero veramentepersone. Pensa se dovessimopicchiare tutti quelli che ci

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danno fastidio, o urlargliaddosso. Ma noi non potevamo,non l’avremmo fatto mai, perchéper tutte e due eri un’altracosa. Fare un bambino sembrala faccenda più ovvia delmondo, ce ne sono tanti chearrivano per sbaglio, senza chenessuno li abbia chiamati. Einvece non è semplice perniente. Perché lo fai prima nellapancia, e dopo nella vita di tuttii giorni, come se avessi per lemani la madre del pane e ognimattina la dovessi impastare dinuovo. È un lavoro che nonfinisce mai. Noi siamo statefortunate ad avere te da

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condividere, proprio come si facon la madre del pane. Ioperché non avrei dovuto, leiperché non aveva potuto. E luipoi veniva sempre, e allora lafortuna raddoppiava, perché cigodevamo tanto di avervi sottogli occhi, di guardarvi crescere,di fare quello che sapevamofare per voi, per tutti e due.

Quando le ha chiesto di parlarle diGregorio, il figlio della signora, Umileha guardato fuori dalla finestra, come sesi aspettasse di vederlo comparire, ilnaso contro il vetro, in attesadell’amico. “Veniva sempre. Avevanosolo due settimane di differenza. Veniva

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a cercare Zeno, ma non era solo per lui.Gli piaceva stare qui. Gli preparavamola merenda: la torta, i biscotti, il tè e letovagliette ricamate. Era belloosservarli, stare a guardare quanto eranodiversi. Sua mamma era quasi semprevia, in viaggio, a presentare i suoi libri,e quando era qui si chiudeva in casa ascrivere, aveva da fare. Era gentile, lui.Non come adesso, che è semprearrabbiato. Sono cresciuti insieme. Nonso se era giusto, ma è andata così. Ibambini non sanno niente.”

Oscuro; ma Anna ha lasciatocorrere. Con Umile le domande sonosempre di troppo, e le risposte prendonola via che vuole lei, in quella terra dimezzo tra verità e bugia che pratica tanto

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bene chi ha sempre nascosto qualcosama alla fine ha capito che deve lasciarloandare. E le piace l’idea di scoprirequesta storia tratto dopo tratto, senzaordine, come è la vita, che lo trovasoltanto nel racconto che se ne fa per glialtri; a volte anche solo per sé.

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4

La prima ad arrivare è stata Nena,con la sua esuberanza compressa in unmetro e cinquanta: curiosa ma insilenzio, come i veri curiosi, si èfermata davanti al cancello ed è scesasenza aspettare che Anna le aprisse perguardare la torre di sotto in su, un po’come aveva fatto lei la prima volta,come se fosse il solo modo per capire,almeno all’inizio. Anna era di sopra, ha

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sentito il motore, ha aperto la finestra esi è sporta come se giù non ci fosseun’amica che non vede da parecchi mesima una presenza consueta, l’idraulico, ilpanettiere. Si sono fissate senza parlare,un sorriso negli occhi. Adesso sonodentro e siccome con lei è tutto semplicesi può anche stare e basta, gli occhi allefiamme del camino, una tazza attorno acui intrecciare le dita perché in quelmodo le mani non parlano troppo, nondicono il disagio. Nena che non hanemmeno voluto fare un giro di sopra,non ancora: si è impossessata subito deldivanetto verde come un gatto chericonosce gli incroci magnetici dellacasa e lì si deposita con tutto il peso diciò che reca con sé. Nena che è venuta

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senz’altro scopo che quello, quellafrase, come se dovesse essere per forzaconsegnata a mano, la gravità dellaposta di una volta, quando portava solovere notizie. Ha portato il pane, e lafame.

“Ha chiesto di te, sai. Ti cerca.” Unsilenzio. “Non gliel’hai mai detto,vero?”

Dire cosa?La cosa, quella cosa, sperata,

temuta, ancora sperata, capace dicambiare la vita, di sbaragliare le regolee l’abitudine, il colpo di mano, lasorpresa, l’attesa esaudita, il miracolonella sua banalità. Succede tutti i giorni,a tutte, in tutto il mondo, e a te no finchénon vuoi, a te no anche quando vorresti,

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e alla fine non c’è più potere o volerema solo desiderare che avvenganonostante tutto, contro la logica, ilbuonsenso, la ragionevolezza. Avere unfiglio, la cosa più facile e la piùdifficile insieme. Così facile chesuccede quando meno te lo aspetti, e nonsei mai pronta, così difficile che adessoè il momento giusto ma non c’è l’uomogiusto, forse non ci sarà mai, e alloravale la pena di aspettare? Ne è valsa lapena? Ma certo, adesso puoi dire di sìsolo perché è successo, finalmente èsuccesso e non te lo porta via nessuno,nemmeno lui che non sa niente, nonancora, e bisognerà dirglielo e che poidecida, ma alla fine che cosa potràimportargli? Lui ne ha già due, maschio

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e femmina, l’amante accessoriato, eforse non ha abbastanza bene dentro dadividerlo in tre, ma non importa, tanto cisei tu, ci sarai tu per tutti e due, ci sei ebasta, proprio adesso che il tempostringeva e anzi quasi è scaduto, cosadiranno gli altri, al diavolo, gli altri nonc’entrano.

E poi il dubbio lento malato chemette rami e propaggini e si fa avanti,rampicante, infestante. Lui non lo vorràe dirà che è perché vuole te, tuttocambierebbe e non gli va, è così perfettoadesso, non sai cosa perderemmo,potrebbe metterle in fila tutte da sola,nel silenzio, come del resto fa spesso, lesue parole che non ha nemmenoascoltato, una a una, nell’ordine preciso

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in cui cadendole addosso fanno più maleperché hanno la forma di parole ma sonogesti, passi indietro, anzi, nemmenopassi, solo uno stare lì sul ciglio, allimitare delle decisioni, aspettando chesiano altri a fare, a muoversi. Che sia tu.

Del resto, come avrebbe potuto diresua madre o una madre qualunque, non tel’ha detto nessuno di innamorarti di unuomo sposato. Del resto, come verrebbefatto di risponderle se fosse lì adascoltare, non si può addomesticarequello che si prova, imparare per tempole regole, ammesso che ce ne siano,assimilarle a tal punto da farne secondanatura e automatismo e capacità diriconoscere a distanza l’erroreeventuale, tanto si sbaglia comunque,

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non è possibile spegnersi a comando,ignorare i portatori di rischio,riconoscerli come se avessero undistintivo stampato sul petto, io sonoquello che fugge io sono quello chemente io sono quello che sorride edelude; alla fine si decide sempre quelloche non conviene, e ci dev’essere perforza un che di nobile in questo, nelmettere da parte il calcolo per andareall’azzardo. Solo che poi è a te che nontornano i conti, e sei tu che perdi tuttoquello che hai vinto o credevi di avervinto moltiplicato per le attese, lasperanza e qualche promessa per buonamisura: un danno incalcolabile.

Dirgli cosa? Ho pensato tutto questo,anzi, no, non volevo pensarlo, volevo

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chiuderlo fuori e abbandonarmi allagioia dell’ipotesi ma mi è caduto tuttoaddosso e non so scrollarlo via, il peso,gli spigoli, i graffi, però adesso ci sei tue svanisce tutto, vero? E questa cosa laportiamo in due perché ci tiene tutti edue dentro stampati nella carne cheancora non c’è, nelle cellule che sidividono scriteriate senza aspettare cheabbiamo deciso, perché prima, quandoancora si poteva, non c’è statadecisione, prima c’è stato solo il caso ela biologia quando vogliamo confonderlie dar loro un nome che suoni bene,quando insistiamo per chiamarli amore.

Dire cosa? Guardarlo impallidire, opeggio, arrossire, che non dona anessuno, vedere lo sguardo che scivola

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in basso o di lato o comunque via,sentirlo tacere un silenzio pesante. Odoversi accontentare del telefono con lesue pause magnetiche e le voci deglialtri in sottofondo, la chiama sempre daposti affollati mentre si sposta tra poliche non la comprendono, e a lei sembradi vedere lo zigzagare delle linee tesetra punti, quella geometria di spazi cheogni tanto disegna un vuoto e nel vuotoc’è lei, sempre fuori dalla traiettoriadelle cose vere, le cose da fare, quelleche definiscono la vita. Al telefonosarebbe stato più facile, più difficile.Non si può sapere. Un viaggio di lavoro,lungo, e il patto era di non sentirsi maiin quei casi per non cadere nel banaleclandestino, perché loro non erano così,

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no? Loro erano diversi. Sicuro.Dire cosa? Non è arrivata nemmeno

a pensare ai nomi come aveva fatto dapiccola, a concedersi il lusso minimo diuna fantasia, ci vorrà un’altra casa piùgrande, somiglierà a me, no a te, no a sestesso, se stessa, preferirei una femmina,alla fine è uguale. Non c’era proprioniente da pensare. Si è dovuto fare. Luiche non torna, un altro viaggio di lavoroquasi subito, poi la settimana bianca deibambini, quelli che ci sono già, gliineluttabili. Il tempo quando stringe. Luiche l’ha detto senza dirlo: non ci sono,non ci sono per te. L’appuntamento, unasala d’attesa dietro vetri opachi, gliocchi evasivi o solo distratti delmedico, il colloquio, gli esami, la data

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decisa. Tanto semplice, alla fine. Unasettimana per ripensarci e non c’è statonemmeno il tempo di aspettarlo, saperlotornato, vederlo e cercare di decifrarese nel suo sguardo c’era posto anchesolo per l’idea di poter fare diverso,diverso insieme.

Dire cosa? Che poi alla fine lui, lei,esso ha deciso da solo, da sola, hacapito che togliersi di torno con umidaveloce naturalezza era l’unica via,quanta grazia anche in quello, e le harisparmiato mezza giornata dimalinconia medicale, è stato tuttosemplice, un grumo che si scioglie,dolore poco, forse per l’anestesia delsollievo e della colpa mescolati potenti,un’altra visita, un semplice controllo,

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tutto a posto, prenda queste medicine,torni fra un mese. Così: finito. Ipotesiannullata. E di colpo, per estensionedella stessa sanguinosa semplicità, finitoanche tutto il resto, scivolato via, fuori,lontano, nel posto dove deve stare, tra lecose non successe. Con la differenza chelui o lei o esso torna, come hannol’abitudine di fare loro, i bambini dellanotte, sognati bellissimi, bellissimiperché sognati, e la guarda come unpiccolo Gesù in trono, seduto sull’aria,un drappo sopra la pancia tonda, unsorriso, la manina benedicente, tantomagnanimo e acuto che la sua primaparola è perdono, o almeno è quello chepiace credere, che bisogna credere; einvece l’altro, l’uomo esistente concreto

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solido, svanisce come se fosse fatto dipolvere, si fa indietro, sfuma nelfondale. La cerca per un po’; poicomincia a non capire, le telefona, lescrive, continua a non capire, qualchesera – non molte – compare anche sottocasa e suona, suona e guarda in sucercando la finestra e lei è dietro latenda al buio che lo vede non vista;basta non aprire. Dopo un po’ smette dichiamare, di scrivere. Si sfa.

Dire cosa? Che li conta ancora, imesi che avrebbe lui o lei o esso, unpensiero che arriva e sorprendeguardando un calendario, o un altrobambino, o anche niente, dal nulla. È lì,dentro quelle date che contano il vuoto,ma lei non lo riesce a vedere, così come

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non si riesce a vedere con lui vero, e perforza, dovrebbe inventarsi un tutto chenon sa. Il bambino della notte inveceesiste, resiste, va e viene come vuole, faquello che vuole, ha una sua vitaindipendente, e forte, lui sì che si vede.È diverso. È un’idea viva quantol’assenza dell’altro. Lo si chiama pervoler soffrire di più.

Anna tace ancora, ha tenuto losguardo fisso al conforto del fuoco pernon farsi leggere nello sguardo quelpovero cinema. Nena, che ha il dono dicapire, e altrimenti non sarebbe lì dov’èadesso, si alza. “Il giro della casa lofaccio da sola.” Posa la tazza, sale lescale. L’ha portato con sé, l’uomo degliendecasillabi di notte, l’ha ricomposto

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dalla polvere che era, e adessobisognerà fargli spazio nella stanza degliospiti indesiderati, quelli che s’invitanoda soli, non si sa mai quanto restano, edè sempre troppo.

Dopo, salendo per la collina,guardano la primavera di marzoannunciata da fumi e vapori cheavviluppano il giorno bianco, come sefossero tutti occupati a bruciare lesterpaglie e gli avanzi dell’inverno.Anna ritrova le parole, le esala tra unpasso e l’altro, ansante come se facessefatica a liberarle, anche se sono poche, epovere. “E tu cosa gli hai detto?”

“La verità. Che avevi cambiato casa,città. Niente dettagli.” Nena è una

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sportiva, risponde senza rallentare ostrappare la frase.

L’altra domanda resta sospesa. Larisposta arriva lo stesso.

“Stava male. Sta male. Sul serio.Però non ha insistito. Ha capito che nongli avrei detto di più. Volevi?”

“Non credo. Non so.” Siamo tutticosì reperibili, volendo.

“C’è tanta pace qui,” dice Nenaquando arrivano in cima e si siedono sudue grossi massi piatti che sembrano lìapposta. La vista è immensa, bella sullago, fino all’indice grigio di Sirmionestaccato di netto dall’acqua, maimperfetta perché cade poi sul paese, unmare di tetti a quella distanza innocui equasi decorativi, che però danno conto

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di un civile fervore, e anche nel silenziotagliato solo da schiocchi di alberisembra di avvertire l’elettricità di moltevite vicine. Puoi anche fuggire, salire,nasconderti, guardare altrove, ma allafine ti raggiungono sempre. Non c’èmodo di separarsi dalla pressionedell’umanità, compresa la propria.

Restano lì sedute, parlano un po’ epoi silenzio, in quieta alternanza, nonc’è freddo non c’è caldo, finché calal’oscurità, vien giù rapida come unatenda e l’altra riva si veste di strassbianchi e d’ambra, e il pallore dellagiornata si corregge in una seralancinante.

“Tutta questa bellezza. Bastarda,”dice Nena.

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“Hai ragione,” dice Anna. “Labellezza è bella solo quando ti consola.Altrimenti è come dici tu. Bastarda.”

Scendono a tentoni, guidate dalbianco dei sassi, senza più parlare.

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5

Le bambine aspettano davanti allaporta di casa. Il cancello non le hafermate: si saranno infilate sotto lasiepe, avranno scalato il muro di cinta.Le viene in mente il racconto di unascrittrice che da piccola aveva comeposto preferito proprio la cima di unmuro, uno di quelli che separano gli ortidai giardini, con i meli e le rose sotto, esopra soltanto il cielo e al di là un

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orizzonte inglese di pascoli e greggi emacchie di nuvole mobili sul verde diboschi e prati. Si è sempre chiesta comefacesse a star seduta lassù tutto queltempo, le gambe penzoloni, senza poterappoggiare la schiena, e senza cadere.“Sono tue amiche?” le chiede Nena.

“Non ancora,” le risponde Anna, mapiano, perché non si offendano. Mentreinfila la chiave nella toppa lasogguardano dal basso due paia diidentici occhi grigi. “Venite dentro?”Non lo dice, ha imparato a trattenersi,ma il sospetto che abbiano freddo èsempre lì.

“Il papà ha detto se vieni stasera abere il vino,” comincia la più piccola.Alma, ecco.

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“Il vino nuovo,” precisa Petra. “C’èanche da mangiare.”

“Ci state invitando a cena?”Petra si stringe nelle spalle. Poi,

anticipandola, con gusto socialeistintivo: “Puoi portare anche lei,” eaccenna col mento a Nena che segue loscambio divertita. Prende per le spallela sorella e la spinge verso la strada cheva su per la collina. “A che ora?” chiedeAnna.

“Dopo,” risponde Alma senzavoltarsi. “Dopo, però presto.”

Il tempo di prendere le giacche piùpesanti, le sciarpe, i berretti – la sera hamesso fuori le spine – e partono lungo lastessa strada bianca, questa volta colconforto di una torcia. Anna ha due

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grandi libri sottobraccio: compra spessoillustrati per bambini, da tenere per sé oda regalare, anche ai grandi, inoccasioni improvvisate come questa.“Vai sempre in giro così? Da sola, dinotte?” le chiede Nena mentre salgono, epoi scendono dall’altra parte, in un buioanche più buio sotto la volta di alberispogli.

“Ogni tanto. E comunque non sonoda sola. Ci sei tu.”

“Stai diventando selvatica. Mipiace. Magari vengo anch’io a viverequi.”

“Magari,” ripete Anna, senza bensapere se desiderarlo.

La serata è informale quanto ci sipuò aspettare in una cantina di

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campagna, ma non c’è niente di casualenella cura con cui Gabi, la mamma dellebambine, ha allestito la vecchia stalla.Anna non può dire di conoscerla, peròdopo l’incontro con Petra è stata invitataper un tè molto tranquillo dal momentoche Dan era nei campi e le bambine danessuna parte come al solito. Unagentilezza dovuta, una confidenza facilecresciuta ammirando la bella casa dipietra arredata con nordica semplicitàper lasciar parlare le linee antiche, gliarchi, il legno dei mobili. Forse si sentesola, si è detta Anna venendo via; oforse quella sola sono io. L’ammissioneha avviato un legame altrettanto facile –la prima donna della sua età chefrequenti da che è lì, non potrebbero

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essere più diverse, e forse questo aiuta.Una passa in auto e si ferma, l’altrataglia per la collina e porta un sacchettodi biscotti ancora caldi; scambi di libri– Gabi legge almeno quanto lei, anche senon si capisce quando; la grazia delbuon vicinato che ci si deve inventareperché non è più un’abitudine. La stessacon cui ora Gabi accoglie Anna, Nena egli altri in fondo alla corte, sulla sogliailluminata da un lampione da ferrovia.

Tra gli ospiti prevalgono gliespatriati come lei e come loro: undesigner di scarpe per un’azienda localeche ha una sua fama internazionale(anche le scarpe brutte hanno bisogno diqualcuno che le progetti); una cantantelirica di qualche fama e la sua pianista-

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compagna; Helena, una sinuosasiberiana con un ragazzino molto scuroal seguito, sprofondato tutto il tempo inun videogioco che gli illumina solo unospicchio di faccia; e una coppiabiondissima con occhi azzurrissimi cheviene dal Lussemburgo e ha portato consé una bambina altrettanto biondazzurra,vestita firmata di bianco e azzurro dallatesta ai piedini calzati in scarpe cosìcandide che fa male guardarle:aggrappata alla gamba della mamma,scruta con sospetto e forse ammirazioneAlma e Petra vagare spettinate e lievi tragli ospiti coi piattini delle olive e dellemandorle. Più un paio di produttori divino locali, colleghi se non amici diDan, in apparenza troppo giovani per il

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lavoro che fanno. L’ospitalità èimpeccabile; il vino servito da caraffedi cristallo in bicchieri leggerissimi;mazzi di narcisi in vasi d’argento comele posate e i candelabri che rimbalzanoluce delicata, tutto in bell’ordine sultavolo nudo; una pila di tovaglioli dilino bianco; piatti di Meissen a decoriblu; cataste di focaccia a quadretti,verdure piene di colore, una zuppatiepida. Sembrano tutti di una bellezzasoprannaturale al bagliore della stufa diferro e delle lampade a olio trovate nelfienile e rimesse a posto con pazienza,spiega Gabi nel suo italiano scolpito.Gabi che non si trucca mai, ha le maniruvide e le unghie corte di chi lavora sulserio e getta indietro il ciuffo di un rosso

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dorato col gesto consapevole di chi haquello che vuole, se l’è preso, anzi,probabilmente se l’è fatto da sola.Anche le bambine in questa luce sonoun’altra cosa, non più creature selvaggema esseri naturali che si muovono fluidinel mondo; tanto graziose nelle lorocamiciotte a fiori che per contrasto lapiccola coi boccoli ancora aggrappataalla sua mamma ha tutto l’artificio di unamodellina ritagliata da una pubblicità.

La serata è facile, le chiacchieres’incrociano in una garbata babele eogni tanto, come in una quadriglia, igruppi si sfaldano e si ricompongono.Nena e il creatore di scarpe brutte sisono impossessati delle due poltroneviola nell’angolo, abbastanza vicine alla

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stufa da godersi il tepore, abbastanzalontane da non scottarsi; Anna sorridetra sé dell’implacabile opportunismodell’amica – glielo dicesse, Nenareplicherebbe che è l’istinto disopravvivenza delle persone sole.Quando arriva Hamid – un’ora buonadopo gli altri, mentre la serata è giàcalda – cade un momento il silenzio, mail flusso di parole rimargina subito lasorpresa. Anna si sente addosso gliocchi di Nena mentre il nuovo arrivatole si avvicina e le stringe la sinistra conla destra in un saluto confidente.

“Non me l’avevi detto,” le mormoradopo l’amica, salutati tutti e fatti diecipassi nel buio, il tondo luminoso dellatorcia davanti a loro.

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Anna non chiede che cosa, è ovvio.Non guardarsi aiuta.

“Va be’, non ne vuoi parlare.”Se è chiaro non dirlo nemmeno,

vorrebbe sbottare Anna, però resta insilenzio. Il vino la fa sentire generosa.Nena scarta. “Che strano. È una delleserate più eleganti a cui abbia maipartecipato.”

“Elegante? Ma guardaci.” I jeans, legiacche imbottite, gli scarponciniragionevoli che pure riescono ainciampare nei passi un po’ stanchi delritorno. Lo stesso gli altri, a parte il triobiondazzurro e la cantante drappeggiatain un abito di maglia porpora con troppepieghe. Però Anna ha capito, ed ècontenta che anche Nena abbia capito e

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adesso spieghi: “Non è quello cheintendo. Era lo spirito. Il vino buono, ilcibo buono, tutte quelle lingue, lestoviglie, i fiori. Tutto così bello che misono sentita fortunata a esserci, acondividere.” La guarda in un altromodo, ora, senza quella punta dicomprensione bagnata che le ha gettatoaddosso da quando è lì. No, è quasiinvidia – nemmeno quello: piuttostoammirazione. Come se Anna avessesaputo intuire per tempo l’altra facciadella moneta, l’anomalia che le dàpregio. Altroché seppellirsi incampagna.

“Condividere: non saprei,” precisaAnna. “Sono solo mondi che sisfiorano.”

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“Ma non lo siamo tutti? Mondi che sisfiorano?”

“Immagino di sì. È che di solito nonci basta. Vogliamo fare parte. E io lachiave non l’ho ancora trovata.”

“Forse non bisogna cercarla,” diceNena. Sempre così acuta da risultareirritante. Meno male che dopodomani sene va.

“Non me l’hai presentata, la tuaamica.”

“Non volevo che ti mettessi acorteggiarla.”

Gli occhi di Tiziano spariscononelle pieghe del sorriso.

“È rimasta solo due notti. Laprossima volta si ferma di più.”

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“Da Gabi e Dan ci siete andate.”“E tu come lo sai?”Domanda stupida. Infatti Tiziano

lascia correre, però s’impunta suqualcos’altro con una malizia inedita.“Le vostre festine di stranieri.”

“Lo vedi come siete? Avete sempreil metro in mano.”

Lui la guarda senza capire, e Annacontinua: “Ma sì. Tirate delle righe.Gentili, accoglienti, e tutto, ma fin qui,qui e qui,” e disegna nell’aria una seriedi linee secche. “Alla fine volete soloche ciascuno stia al suo posto. Dan èsimpatico a tutti, gli volete tanto bene,gli salvate le bambine smarrite,ammesso che ne abbiano bisogno, peròil suo vino non lo comprate.”

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“Chi te l’ha detto?”“Gabi.”“Vedo che stai allargando la tua

cerchia.”“E ti dispiace?”“Per carità. Uno non può sempre

stare a parlare coi muri.”“O con le signore bugiarde e i

fratelli complici. Perché io sonointeressante, anche utile, però la veritànon me la merito.” Non sa come levenga fuori così, tutto d’un colpo: maadesso che il lavoro con Umile è quasialla fine, tutti quei non detti che le eranoparsi tanto affascinanti sono solo quelloche sono: omissioni. Colpevoli, comeogni omissione che si rispetti.

“Nessuno ti ha mai mentito. Su

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niente. Non penserai che mia sorellaabbia tempo e voglia di dire bugie,”dice Tiziano, in difesa.

“Questione di abitudine. Voglio dire,se uno non ha fatto altro per tutta la vita,non è che alla fine perda la mano. Ecomunque anche una mezza verità è unabugia, dalle mie parti.”

“Dalle tue parti, sicuro. Me lospieghi quali sarebbero? Visto che ti seipiantata qui e non c’è nessuno che tivenga a trovare. Tranne la tua amica,certo. Che fa uno. Finalmente.Cominciavo a preoccuparmi.”

“Perché?”“Andiamo. Sei qui da sei mesi, è la

prima visita che ricevi. Non è possibileche nessuno ti abbia dato una mano per

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il trasloco, che nessuno ti venga atrovare. Una famiglia ce l’avrai, no?” Ètornato al punto, crudele, sfacciato.

“Cosa ne sai tu, che non vienenessuno? Ah, già. La sorvegliataspeciale.” La fretta della rabbia. Le frasifatte, la banalità dello sdegno. Ci vuoleintimità per litigare. Bisogna capirsi perdecidere di fraintendersi. Ma qui forsestanno davvero parlando di cosediverse.

Infatti. Tiziano continua, come perconto suo. “Io non so come mai avetetutti questa smania di appartenere.Arrivate qui, vi guardate in giro,comprate, occupate e pensate che siafinita lì, anzi, che possa cominciare. Chevi dia dei diritti. Non avete le radici e

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allora dovete costruirvele a spesenostre, piantarle nella nostra terra. Sietecome cuculi a casa degli altri. No, comeil vischio: vi attaccate e succhiate.”

“Mi stai dando della parassita,” diceAnna con meraviglia. “Ma io non ti hoportato via niente. Non ho portato vianiente a nessuno. Non l’ho voluto io,questo posto. Non l’ho chiesto. Nonsapevo nemmeno che esistesse.”

“E allora come mai ti sei precipitataa prendertelo? Non ce l’avevi unacasa?” Ancora e ancora. Quell’insistere,il chiodo battuto che buca, entra, famale.

“E tu, allora? Sei sempre a casamia.” L’ha detto precisa: casa mia.

“Pensavo che ti facesse piacere. E

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comunque.”“Comunque cosa?”“C’era anche prima di te.”Anna è già stanca. I confronti accesi

non le sono mai piaciuti, non sanemmeno come c’è finita, in questo.Troppe cose. Umile, Dan, Gabi, Nena,Tiziano. Troppa gente. È la gente acomplicare tutto. “Ma ci staiascoltando?” Fa una smorfia.“Litighiamo come una vecchia coppia.Sarebbe contenta tua moglie di sentirci.”

Tiziano si arrende. Allarga lebraccia, è il suo modo di chiederlescusa. “Lei non è gelosa.”

“Ci mancherebbe.”“Se lo dici così ferisci il mio

orgoglio.”

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“Com’è che abbiamo cominciato?”“Con le righe.”“E il vischio.”“Mi dispiace.”“Anche a me.” Tiziano fa un passo

verso di lei, la guarda negli occhi. “Nonne vale la pena.”

“Niente righe, allora?”“Non per te.”“Mi hai fatto un sacco di domande.”“Perché vorrei delle risposte. Non

adesso. Quando decidi tu.”È la prima volta che litiga con

qualcuno da che è arrivata, e le fa malein un modo sordo, come se avesse urtatocontro mobili invisibili. S’era illusa chefosse uno di quei posti di cui ogni tantoscrivono i giornali, liberi da certe

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malattie grazie alle virtù dell’acqua chesi beve: ma che l’ira e lo scontentopotessero non sfiorarla mai eraun’illusione, una sciocchezza. Bastaascoltare per essere coinvolti. Bastailludersi di conoscere per giudicare, edè subito troppo tardi. Forse c’è stato unlungo momento di sospensioneall’inizio. Ma adesso ha consumato lafranchigia ed è qui a misurarsi con gliangoli degli altri.

Vorrebbe delle risposte, diceTiziano. E con che diritto? Il dirittodella vicinanza, dell’occupazione dispazi comuni o confinanti: è diventato dibotto possessivo, come se fosse tutto suolì intorno, anche quello cheragionevolmente non potrebbe mai

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controllare né tanto meno abitare, marivendicato purché non appartenga adaltri venuti da lontano. Com’è andatacon Villa Biglia, alla fine: caduta inmano al figlio di un’estranea.L’usurpazione antica del denaro e delprivilegio. I posti più belli arraffati daintrusi che vengono tre volte l’anno, o seva bene ne fanno il loro passatempoprezioso, giocano a fare l’olio, il miele,il B&B. Un po’ li capisce, Tiziano e isuoi, ma altrimenti? Campi incolti,distese di sterpaglie, o quei ruderidivorati dall’edera che si vedono qua elà, ridotti a scheletri, destinati allapolvere? Come la Casa del Vento: occhiciechi di finestre vuote, il tetto ormaitutto crollato, e dentro, fra i rovi che si

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incurvano, un tappeto di bottiglie rotteche evoca stupidi sabba e in sovrappiùlo sfregio osceno degli scarabocchi divernice rossa – parolacce, frasid’amore, amore da parolacce – spruzzatisulle pareti. Dicono che apparteneva atre fratelli, che vuol dire otto nipoti, enessuno ha voluto cedere niente, eadesso che se li mangino, quei sassi cheuna volta si chiamavano casa. Almenolei ha fatto la sua parte. Ha ripulito,aggiustato, abita. Tiene vivo un postoche era morto. È quella, la sua colpa?Chissà cosa ne pensa davvero il paese.Se lo vede riunito in forma di unapiccola folla davanti alla chiesa col suobrutto campanile tozzo piantato un po’ inlà, un Quarto Stato nel vestito della

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domenica, i piedi gonfi e le spalle curvedi fatiche e segreti, i bambini checorrono avanti e indietro coi capelliincollati dal gel e le bambine in variespaventevoli sfumature di rosa, fierefacce da gleba e qua e là il dono di unabellezza unica. C’è andata una volta, amessa, per il colpo d’occhio: ma non èquello il modo di far parte, l’hannoaggirata con cura come se fosse unaturista di passaggio. Tiziano non c’era,poi le ha spiegato che lui va all’eremodai suoi amici frati, non lì, non gli piace,ci sono vecchie questioni in sospeso,una pia ruggine che corrode più diquella vera, fedeltà ai veggenti sbagliati,pellegrinaggi andati in fumo. Ungroviglio a cui Anna non ha prestato

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troppa attenzione, il paese che ladomenica, il mercoledì e tutti i santigiorni sa sempre tutto di tutti: e infattianche Alvina, la donna che viene unavolta la settimana a far le pulizie e cheadesso sta rassettando la stanza occupatada Nena, non si trattiene. “Bella la festagiù al filò l’altra sera? Eh, me l’ha dettol’Assunta, è la mia vicina, va lei a far lepulizie dagli olandesi, un bel posto,altroché stalla. I ricchi il filò lo fannotutto l’anno.” E ride da sola all’acetodella battuta.

Sapere sempre tutto di tutti. Questosapere stolido che non è condiviso, mastrappato, rubato, spiato, oppureconcesso, ma sempre da una parte chetira e dall’altra che molla, mai al centro,

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in un ipotetico luogo d’incontro chechiaramente non esiste. È una comunitàche non mette niente in comune se nonquello che si conosce degli altri: e forseper questo Tiziano e i suoi si risentonotanto quando arrivano gli estranei comelei, gente che ha avuto altre vite di cuinon si sa niente. È come se si dovessemettere sul piatto qualcosa, per farparte. Darsi in pasto. Consentire aglialtri di impossessarsi di qualcosa cheera soltanto tuo per farne moneta discambio, carne di chiacchiera, sostanzadi malizia. Questo sì. Un’ospitalitàferoce fondata sul diritto al giudizio.Chissà, si chiede Anna, che cosa barattaAlvina di lei, dei suoi cassetti, delladisposizione dei libri, dell’angelo di

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ferro appeso sopra il camino col suosorriso elusivo: chissà se è monetabuona che le ottiene considerazionedavanti al banco della bottega. Chissà sealla fine di tutto questo frugare e volersapere c’è una sorta di perdono, diaccettazione. O se gli stranieri restanostranieri per sempre. Chissà se si puòresistere stranieri. Lo chiederà a Gabi.In fondo è quasi una domanda sociale,non c’è niente di intimo se riguarda tuttiloro, loro gli altri, gli arrivati. L’unicacosa di cui fa parte adesso èun’esclusione.

Guarda fuori appoggiata al pianodella cucina mentre Alvina passafuriosamente la scopa alle sue spalle –ha una predilezione per le tute e le

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maglie incrostate di paillettes e a ognigesto lampeggia in un modo diverso, dafar male agli occhi – come se nonvedendola la potesse far scomparire. Haun modo di pulire che vuol diresconvolgere la casa tutta in una volta enon c’è una stanza che resti indenne, eperò lei che potrebbe o dovrebbeinventarsi una commissione non havoglia di uscire, fa freddo, e poi le pareuna negligenza che verrebbe annotata.Così resta lì e si perde in un silenzioche, lo sa, a sua volta sarà interpretato eclassificato: è stramba, parla poco, faniente tutto il giorno. Dietro casa partesenza esitazioni la collina, subito ripida:da lì, dal vetro sopra il lavandino, sivedono un prato in verticale e i tronchi

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delle prime querce, e poi, dove la terrasi appiattisce nella balza, una striscia dicielo graffiata dai rami degli alberi chestanno più in alto. È strano, pensa, unpo’ come vedere solo le gambe dellepersone passare davanti alla finestrelladi una cantina; e gli alberi sono personeferme, per di più, sempre le stesse, genteche non va da nessuna parte e cambiatanto lentamente che l’occhio umano nonse ne accorge. Che cosa vorrà dire? Nonle viene in mente nulla. Proprio comel’altro giorno davanti allo spettacolo diun uccello d’acqua che faceva il suovolo orizzontale sul lago orizzontale, unperfetto parallelo in grigio, spettacolomagnifico, così puro e semplice: forse èora di smetterla di cercare sempre segni

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nella natura, come se fosse lì solo perdirci delle cose o per darci il confortoche cerchiamo, cedevole, adattabileanche quando non è gentile. Può darsiche non abbia proprio niente da dire,tanto è occupata a essere. Se fossequesto il messaggio?

Sono minuscole contro il profilo delbosco che giorno dopo giorno, quasi avista d’occhio, si gonfia la prima voltaper lei. Sembra che quel luogo tra laluce e l’ombra, che autorizza la paurama anche la consolazione di un pratoaperto in cui rifugiarsi, sia il loropreferito. E sembra anche che lamessinscena sia tutta a suo uso, unospettacolo fuori orario incorniciato dalla

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finestra sul retro. Vanno avanti eindietro, indaffarate, preparando un tè oforse un pasto più ricco sotto un tiglionella sua fase verde chiaro: senza tropporiguardo staccano foglie dai rami piùbassi, arrampicandosi per il principiodella china in modo da raggiungerle, e ledispongono a terra, lisciandole con ledita. Poi frugano nel sottobosco friabiledi residui, basta scostare le fogliesecche per trovarci ghiande a centinaiamezze esplose dall’insistenza deigermogli, e si vede che scelgono,raccolgono i cappellini e li dispongonocon delicatezza sopra le tovaglie. Petraapre una valigetta di vimini e tira fuoriun completo di tazze e piattini, da lì sivede solo il bianco dentale della

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porcellana. Prepara per quattro. Forseaspettano qualcuno, due bambine delpaese, due compagne di scuola chesbucheranno presto dal sentiero col loropasso disordinato e le tute fucsia – magià, loro a scuola non ci vanno. Dal suozaino Alma pesca un incarto, lo disfa edepone dolci piccoli sui piattini, saràuna delle infornate di Gabi. È tuttopronto, si capisce perché le due bambinefanno sparire il resto, via la carta, viaanche il cestino, nascosti dietro untronco perché non sciupino lacomposizione, e si scambiano sguardi,Petra con le mani sui fianchi, Almaimpegnata a stropicciarsi le dita. Poi sisiedono, una di fronte all’altra. Fannosolo finta di bere però mangiano

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davvero, e prima fanno girare i piattini edepongono i dolci anche in quelli prividi proprietari. Si capisce checonversano perché piegano la testa inmodo innaturale e fanno piccoli gestinell’aria con le mani come a disegnarele chiacchiere. Ad Anna piacerebbeuscire, unirsi a loro e ascoltarle un po’,magari con una buona scusa: la solacosa che manca loro è una bibita vera, civorrebbe succo di mela o vino disambuco, che non ha, per adeguarsiall’armonia del quadro, forse l’acqua dirubinetto in una brocca potrebbe andareperò non si arrischia a rovinare tutto,l’adulta inopportuna che calpesta leregole, l’elefante dal vetraio. Lepiacerebbe chiedere chi sono gli ospiti

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attesi e non arrivati, ammesso che siacosì: perché per l’intensità con cui Almae Petra si rivolgono al nulla potrebberobenissimo esserci, occupare il vuoto, edè solo lei quella che non sa vedereperché il suo tempo è scaduto. Quandofinalmente, lentamente hanno finito ilpicnic e hanno raccolto tutto, con ordine,una cosa alla volta, lasciando a terrasolo le tovaglie verdi e i cappelli delleghiande, si avviano lungo il sentiero e sivoltano a salutare una, due volte. Annad’istinto risponde, muove la mano dietroil vetro: possibile? Lo sapevano, che leiera lì? O il saluto non era per lei?

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6

“Tiziano, prima di Pino il Furbo chici abitava nella torre?”

“Io le storie non le so raccontare.Vai dalla Umile. A questo punto ti dicetutto quello che vuoi.”

O quello che vuole, pensa Anna.Non c’è niente come dire qualche veritàsu di sé a qualcuno: una volta che l’altrola possiede, ha su di te un vantaggio nonritrattabile, irritante. Sbagliamo tutti, ma

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avere dei testimoni è un fastidio. Peròadesso la vecchia sembra tranquilla,placata. Sedute al solito posto, stanno lìper un po’, senza parlare. Anna le haportato l’ultima stesura della lettera peril nipote, completa, stampata inbell’ordine, senza refusi, pronta peressere ripiegata e spedita. Manca solo lafirma. Umile ha preso i fogli e li haposati sul tavolino, fermandoli con unlibro. Come se adesso che è tutto finitonon ci fosse più nessuna fretta.

È il silenzio stesso che la autorizza aromperlo, dopo un po’. Anna ripete lasua domanda. E Umile racconta senzabattere ciglio, senza domandare perché,come se si fosse preparata, come sel’avesse aspettata per tutto quel tempo e

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semmai fosse lei, Anna, a esserciarrivata in ritardo. O forse è solo che èuna storia che si è ripassata nella testatante e tante volte, fin da quando erapiccola, magari aggiungendo dettagli chenon poteva conoscere, chiudendolinell’ambra della memoria come sefossero cose sue. Da chiedersi che cosane resta di vero e che cosa da realtà si ètrasformato in racconto.

“Eravamo in sei, quattro femminetutte in fila più la mamma e il papà.Tiziano non c’era, lui è venuto dopo. Ilpapà teneva a posto i boschi del conte,allora la villa era ancora in famiglia.”Lo dice come se fosse la sua, difamiglia. “Era un sacco di lavoro per unuomo solo ma non si lamentava anche se

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non era mai finita, tra il taglio, lepotature, l’erba da falciare d’estate, ilfilo spinato da sistemare, e c’erano daguardare i cacciatori che si prendevanoquello che trovavano. I boschi li tenevacome giardini, ci potevi andare apasseggio. C’era la legna per scaldarsi ene avanzava anche un po’ da dare aiparenti meno fortunati, e poi avevamol’orto. Qui anche in guerra non si pativala fame, non noi, almeno. La nonnaaveva il forno del paese, non dov’èadesso, era una casa sulla strada, poil’hanno buttata giù per farci il bartabacchi.”

Umile si ferma per bere un po’d’acqua a piccoli sorsi. Parla con gusto,ma invece di infervorarsi sprofonda in

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un tono sempre più monocorde, comeuna preghiera di cui conosci le paroletanto da non pensarle più. Anna laosserva, il casco di capelli ridotto alminimo da un taglio impietoso, sparitoanche quel filo di trucco che trattenevaun residuo di amor proprio, amore di sé,e riflette su quella progressiva, paurosaneutralità che s’impossessa a un certopunto dei vecchi, il velo che cala esposta i tratti in maniera impercettibiledentro la geometria mobile della faccia,così che piano piano il volto non è piùlo stesso, si sovrappone a quello che èstato in modo sempre più imperfetto.Forse è questo che s’intende quando sidice che sono come bambini: la fine èl’inizio, diventano o tornano

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indifferenziati, maschio o femminaimpossibile dirlo. Il cibo s’adeguaperdendo sapore, forma e consistenza. Ilmondo si stringe, si riduce a una stanza;e a chi è più sfortunato vanno via anchele parole.

A contraddirla, Umile continua ilracconto con una ricchezza di dettagliacuita dalla distanza di ciò che rivede,come se la memoria lontana avesse unaprofondità che al presente è negata.“Bombardavano per prendere laferrovia. O perché dovevano e basta.Fino ad allora la guerra non ci avevaquasi toccato: c’erano dei ragazzi edegli uomini che erano andati al fronte,ma si poteva quasi far finta che fossero alavorare lontano. Quando hanno

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cominciato con le bombe abbiamo finitodi far finta. I vecchi hanno scavato irifugi nei campi, più lontano che sipoteva dalle case e anche dal treno. Manon abbastanza. Una notte sono arrivatiche non ce l’aspettavamo, era qualchesettimana che non venivano, c’eravamoillusi. Non sono stati tutti veloci. Lanonna non abitava con noi, stava su allatorre e a volte si teneva le bambinepiccole per aiutare un po’ la mamma,quando doveva alzarsi presto per fare ilpane le lasciava in casa da sole mapericoli non ce n’erano. Siamo corsi aprenderle, la porta era aperta e di sottonon c’era nessuno, abbiamo pensato chefossero già andate. Poi hanno cominciatoa cadere le bombe. Non si vedeva

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niente, c’era il buio di una volta, quellosenza lampioni, e niente luna. Facevafreddo. Quando siamo arrivati al rifugioe siamo entrati, loro tre non c’erano. Lamamma voleva tornare indietro subito acercarle ma il papà l’ha tenuta per lamaglia, l’ha presa per lo scialle che s’èallungato come se fosse di gomma, unoscialle verde di lana fatto all’uncinetto,fermato davanti con una spilla da baliagrande, e tirava, e tirava, perché leivoleva andare, ma lui non l’ha mollata.”

Un altro silenzio, senz’acqua,stavolta. Poi: “Quando le bombe hannosmesso di cadere siamo usciti e c’era ilfuoco che si alzava dalla torre. Siamocorsi a vedere. Era venuta giù tutta unaparete e il tetto era incendiato, si vedeva

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dentro, una casa sventrata è un bruttospettacolo, e quella la conoscevamobene ma era lo stesso come spiare, lefiamme facevano luce e ombra insieme.Il letto appoggiato alla parete, uncomodino no l’altro sì e sopral’acquasantiera con la Madonna, lanonna si faceva sempre dare l’acqua dalprete e ci lasciava mettere le dita perfare il segno della croce. Loro nonc’erano più.”

Anna ricorda: gliel’aveva detto,Tiziano, che una parete era stataricostruita in tempi più recenti, da fuorisi indovinava la giunta slabbrata sottol’intonaco. Non aveva pensato, di tutto,a quello.

Umile continua. “Io non so più se me

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lo ricordo o se me l’hanno raccontato otutte e due le cose, ero alta così, non so.Non c’era un carro funebre abbastanzagrande per tenere tre bare, anche se dueerano piccole. Allora hanno usato uncarro normale, di quelli per i campi.Davanti ci hanno agganciato i cavalli,però, non gli asini. Sono loro che hannodato il nome al posto. Sono loro i SantiAngeli. E la torre, insomma, lì doveabita lei adesso,” conclude Umile, “è lacasa dei nostri fantasmi. Tiziano èvenuto dopo, dopo la guerra, e poi bastafigli, mia mamma era ancora giovane male si è chiusa la pancia. Noi andavamosempre a trovarle di notte, quando lacasa era ancora in pezzi, il conte erasfollato in una campagna più sicura e ci

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ha messo un po’ a tornare e far rimetterea posto tutto, e abbiamo continuatoanche quando è andato a starci Pino ilFurbo con la sua famiglia, lochiamavano così perché non era tanto aposto con la testa, era buono, però, nonfaceva male a una mosca, s’era anchesposato e aveva una bambina mica tantogiusta neanche lei. In paese avevanocominciato a dire che c’erano gli spettrie noi non potevamo stare lontane, non ciriuscivamo proprio, perché losapevamo, chi erano. E quando Tizianoè stato abbastanza grande ha cominciatoa venirci dietro, a me e alla Fede. Levedo, diceva, e indicava col dito leombre sopra le pareti. Eccole lì, una edue. La nonna non c’è, lei è già passata.

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Loro restano qui per noi.”“Ecco perché è tanto importante per

lui,” dice Anna, un po’ delusa. Avrebbefatto lo stesso con chiunque altro: pertenere d’occhio ogni cosa, per rivederequelle ombre, per credere di sentirle.Forse l’ha pensato ad alta voce, o Umileha capito, perché sospira e poi dice:“Tiziano ha questo bisogno diproteggere gli altri. Da sempre. Chi c’èe chi non c’è. La signora lo diceva, cheera un mistico fuori posto. Il nostrovisionario residente, lo chiamava.”

“Quando sono stanco prego,” citaAnna senza volerlo.

“Non lo prenda in giro. È un uomobuono. C’è bisogno di uomini buoni.”

Un lungo silenzio le separa.

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“Deve sapere una cosa,” dice Umilealla fine. “Questa lettera poi non laspedirò.”

Anna vorrebbe essere più sorpresa;irritata, magari. La lettera, un innocuoatto d’affetto, diventata lunga, unmemoriale, snodo di segreti così vecchiche forse valeva la pena di lasciarlidisfare. Forse nessun atto d’affetto èinnocuo. “Era per lei,” dice, alrallentatore, come quando è tutto chiaroe sei tu l’ultimo a capire e ti senti un po’stupido. E invece c’è questa pace, comese essere stata giocata fosse il cuore delgioco, e alla fine non ha poi una grandeimportanza. Tace, e aspetta la prossimamossa.

Umile annuisce tra sé. “Era per me,

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certo. Adesso” – un sospiro – “era perme. Lui la leggerà quando io non ci saròpiù. Forse mi sbaglio, su quella cosa delchiedere scusa. E comunque non hovoglia di costringerlo a volermi bene inun modo diverso. Non c’è più il tempo.Lo sapevo già, ma mi ci voleva questo”– e indica lo spazio tra loro, il tempopassato insieme – “per capirlo fino infondo. Con i figli esiste solo il presente.Le cose che fai nel momento in cui lefai. Promettere è rimandare. Il resto aloro non interessa.”

L’ha detto. E Anna non è stupita.L’aveva già intuito e aspettava soltantouna conferma. Eppure non è ancora tutto;restano altre ombre che non è ilmomento di dissipare, ammesso che si

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possa, ammesso che tocchi a lei. Conche diritto, poi. Solo perché haascoltato.

Hai visto, si dice, ti ha mentito. Macome non perdonarla, Umile, anche soloper via dell’età che le ruba ogni giornoun giorno? Una donna così definita daldolore.

Non può nemmeno arrabbiarsi, poi,perché Umile dopo un lungo silenziodice: “Ho una cosa per te. Vai di sopra,vai tu che per me è fatica. La primaporta a destra. Il terzo cassetto delcomò. C’è una scatola, di quelle deibiscotti.” Il passaggio dal lei al tu, comese fossero cadute tutte le barriere.

Anna non è mai stata al primo piano;Umile dorme da tempo in una camerina a

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piano terra, per non dover fare le scale.Stanze abbandonate, un ordine innaturaleappena velato di polvere. Il pianerottoloè tutto uno scaffale. Libri, piccoli esottili, perlopiù. Le tre porte socchiuse,per far girare un po’ d’aria. Anna scegliela prima, quella giusta. Entra, premel’interruttore, è accecata da una diquelle brutte luci fredde fatte per durareun’inutile eternità. Il letto di ferrobattuto, la coperta troppo bianca troppoleggera per la stagione, l’ombra pesantedell’armadio, i comodini gemelli, unrosario nero appeso al muro, unaMadonnina fluo di Lourdes. Sopra ilpiano del mobile, spinta contro laspecchiera, domina una foto grandecome un foglio d’album, in bianco e

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nero, dentro una cornice che sembra dicarta stagnola. Una foto di famiglia conbambini. I volti sono sfuocati, quasigonfi, come se nessuno avesse avuto lapazienza di star fermo per il temponecessario allo scatto. Oppure è solo laqualità dell’ingrandimento, se il punto dipartenza è una di quelle minuscoleimmagini di una volta. Ci sono cose chevanno guardate solo da una certadistanza: da vicino non si vede meglio,anzi.

Il cassetto resiste, poi si arrende discatto. Quaderni e album, altre foto,probabilmente, un cofanetto di vellutoda gioielli, e la scatola. Grande: saràstata una festa, al suo arrivo. Anna nonla apre, lo dovrà fare tra pochissimo, ma

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dal peso non è difficile capire ilcontenuto.

Altra carta, altre parole.

Mentre torna a casa – è venuta apiedi, incoraggiata dal cielo azzurro eliscio, ma fa freddo e non è più tantosicura che sia stata una buona idea –pensa che la lettera a Zeno andrebbecorretta, aggiustata, adesso che si puòdire tutto. Scrive nella mente frasiperfette sapendo che quando sarà a casaavranno avuto tutto il tempo di sfaldarsilasciando solo una traccia confusa,ripercorribile, sì, ma con fatica, e maicon la stessa precisione. Non ha carta epenna, non ha la borsa, nemmeno iltelefono, solo le chiavi e se stessa, e

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sottobraccio la scatola che ha preso consé in una strana assenza di curiosità, unasorta di sospensione, e poi si dice chenon ha importanza, quello che ha pensatoe sta per dimenticarsi è solo un altropezzo di una lettera senza busta, unesercizio di sollievo per conto terzi,blando e inutile come quelle medicineche attenuano i sintomi senza curare.Certo che fa tanto più male il silenzio.Ma sarà poi giusto dire sempre tutto,dirsi sempre tutto?

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COSE PASSATE

Cominciava a pensare chela letteratura non mente,dopotutto; niente è troppostrano per essere vero.

Margaret Drabble

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C’era un bambino che si chiamava

Olmo e raccoglieva sempre le cose chetrovava per terra. A dirlo sembra unacosa brutta, e infatti lui lo faceva dinascosto, per non sentirsi dire lasciastare, è sporco: ma le cose che sitrovano per terra anche se sonosporche spesso sono molto interessanti.Siccome Olmo era sempre solo, quellecose gli facevano molta compagnia.Aveva già trovato: una pietra rossa cheassomigliava abbastanza a un rubinoda essere magica; una piccolissimafreccia di plastica appartenuta a unuomo preistorico di plastica o forse a

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un cavaliere di plastica o a un nordistao sudista di plastica, difficile dirlo; unelastico per i capelli da femmine conuno gnomo verde e rosso cucito nelmezzo, che sarebbe stato bello scucire etenere come uno gnomo senza elastico;una biglia con un vortice rosso scuronel vetro che a guardarlo ti veniva ilmal di testa, perché sembrava dicaderci dentro e non riuscire a fermarsipiù; e svariate altre cose che tenevatutte in una scatola di latta dei biscottisotto il letto, sapendo che le cose chesono state perdute una volta hanno latendenza a perdersi di nuovo,soprattutto se sono biglie o piccole.

Una volta Olmo raccolse da terraun bambolino. Era piccolo, di plastica

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rosa, senza vestiti, uno di queibambolini brutti che non vuolenessuno. Forse per quello l’avevanobuttato via. Però sorrideva. Olmo lotrovò bello e se lo infilò in tasca,pensando di metterlo nella scatola colresto. Ci sono delle cose brutte chesono anche belle.

Quando la sera si spogliò perandare a letto lo lasciò nella tasca deipantaloni: si era dimenticato di lui.

La notte il bambolino scivolò fuoridalla tasca. Non lo sapeva, ma non glipiaceva di essere stato dimenticato. Luivoleva farsi ricordare.

Così saltò sul letto, si sedette sulbordo del lenzuolo e aspettò.

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La sorprende alle spalle, come glipiace, e lei che non ha sentito il passocoperto dalla furia dei tasti trasalisceappena prima di lasciarsi andareall’abbraccio, le mani che premono ilseno, la bocca che striscia sul collo, lanota di colonia scaldata che si staccadalla pelle e si allarga tra loro. “Mi faileggere?” le mormora all’orecchioprima di morderlo, il solito segnale: leidirà di no coprendo il foglio con lamano, lui le riderà nei capelli e lacostringerà ad alzarsi, si sposterannomezzi allacciati come in un principio didanza, un giro e poi un altro fino aldivano. “Stai bene in verde” – la gonnache risale e scopre le gambechiarissime, tutti quegli abiti che

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ignorano di proposito la moda orribilemarrone del momento, fatti fare aMilano in sartoria, un capriccio d’altritempi, una delle cose che si puòpermettere e che la rendono diversa –“sempre elegante. Per me?” Scelti contanta cura solo per lasciarseli togliere, oper tenerli addosso e lasciare che le suemani li sciupino anticipando il toccodentro la carne, così, così. Come sefosse fatta di ettari di pelle nuda, comese quest’uomo avesse il potere discuoiarla, rivoltarla e distenderla sottodi sé prima di percorrerla tutta con lanoncuranza del proprietario che misura iconfini della sua terra. La seta che siscosta, il calore che si allarga. Qui.Ecco che la apre, la cerca, preciso. C’è.

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Aspetta, la guarda negli occhi, unpiccolo sorriso sicuro, quasi arrogante,e lei risponde al sorriso, lo stringe. Cicapiamo, noi, qui. È tutto qui. La cosache unisce e cresce e diventa. Lui che siscioglie dentro di lei, arreso, preso.

Fumano. Si sono spostati verso illetto, spogliati quando non serviva più,senza fretta. A lei piace il tocco dellelenzuola di lino sulla pelle nuda, l’hainsegnato anche a lui che adesso laguarda con gli occhi socchiusi, distesosu un fianco. Gli dice dell’editore che havenduto l’ultimo romanzo, miracolo,negli Stati Uniti, della raccolta che haappena cominciato, cose brevi, questavolta, un po’ di maniera; del premiointernazionale a cui è candidata, è la

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prima edizione, chissà; delle roserampicanti che si sono tutte ammalate,colpa del giardiniere, lo manderà via.“Chi, Luca? È una brava persona.Magari sono le rose che sono sbagliate.Basta parlare, adesso.”

Ha ragione. Meglio sorridere einarcare la schiena come un gatto primadi fare e fargli lentamente quello chevuole, che è poi quello che vuole lei, ilsolo momento, il solo luogo in cui le siaconcessa una tale intesa con questo soloessere umano tra tutti, eppure ha cercato,prima, ha cercato tanto senza trovare. Eallora certo che ha ragione lui, stiamozitti se il risultato è così perfetto, cosìintero. Stiamo zitti, lasciamo perdere lestorie e le rose, le cose importanti che

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non lo sono, il mondo senza le mie rosee le mie storie girerebbe lo stesso masenza questa pura, perfetta energiabianca diventerebbe freddo e fermo, einvece ecco che va, ecco il vortice, lapotenza, l’acuto e l’oscuro annodati inuna nota sola, questa. Qui.

Dopo, ora, il lievito del sesso spesoli tiene vicini e cancella il resto, ilprofumo d’arancio di lei, il lievemetallo di lui affiorato sotto la colonia.Avere un solo odore. Provare ascriverne? No. Scrivere allontana lecose, le rende impossibili.

Lo scroscio della doccia, lui che siriveste senza parlare, umido, una gocciad’acqua che scivola dai capelli e lecade sulla guancia quando si china a

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baciarla e la incarta nel lenzuolo.“Dormi.” Lei che si volta e obbediscementre i passi di lui scendono le scale esi sdoppiano nel lieve rimbombodell’ingresso, la porta che scatta alle suespalle, altri passi più leggeri sullaghiaia, il clic della portiera aperta, ilclic della portiera chiusa, il motore chesi accende. Dormi. Obbedire e chiedersisolo per un momento se non sarebbebello tenerlo lì, averlo al fianco, caldo,intero, un momento così breve che doponon si è sicuri nemmeno di ricordarlo.

“Dottore.”È sbucata sotto la luce pallida del

lampione che illumina il cancellochiuso, un’ombra contro l’ombra. Lui

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scende per aprire, poi torna versol’auto, lentamente, e invece di salire siappoggia al cofano che gli passa controle gambe la freschezza del metallo.Incrocia le braccia e sorride. Lei nonpuò vederlo, il sorriso, ma lo sente nellavoce.

“Umile.” Ha questo modo dichiamarla, allungando il suonodell’iniziale, da quando erano piccoli;solo nella sua voce lei riesce ariconoscere un nome e non unamortificazione.

“Dottore,” ripete lei. Lo chiama cosìda sempre, da quando non era ancora unmestiere ma un desiderio di cui parlavacon un impeto che si è placato solomolto in là. Di altre cose, avuta quella, è

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rimasto vorace, come se dovesseancora, sempre rimettersi in pari.Un’avidità di vivere che gli invidia, leiche si accontenta. Ma poi non è vero. Haquello che voleva. Quasi tutto.

Si uniscono per le bocche, senza unabbraccio, non serve. Sa di pulito,l’altra è stata lavata via con curameticolosa, come dopo un intervento, oprima. Basta poco per cancellarla, oalmeno ignorarla. Nella camicia lacolonia familiare mescolata al suo odoredi metallo che la stoffa scaldata dallapelle restituisce piano. È suo e basta, inun modo che l’altra non potrà mai.Questione di tempo. Essere arrivataprima. Esserci sempre stata, essercisempre, per lui. E viceversa.

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Potrebbe salire in auto, tenersi icapelli perché l’aria non li scompigli,fare la signora che non è per quel trattoche li separa dal ritrovarsi. Ma sarebbetroppo un gioco, e loro comunque nehanno un altro. Si staccano, lui sale inauto, riparte, si ferma, scende al di làper chiudere il cancello. Lei è giàsparita nel bosco, per il sentiero che ilcorpo riconosce come riconoscequell’altro corpo che l’aspetta –arriverà prima lui – nel loro posto disempre. Il posto dove spogli di tutto –l’auto sbruffona, il lavoro, le parti –possono essere e basta, essere ebastarsi, un’ora, due ore, un tempo chenon va contato perché non conta, perchétra loro è così.

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Tu sei il pane e sei la fame. Erascritto in un libro, un libro piccolo, unodei tanti che si ammucchiano sui tavolidella casa e non prendono mai la stradadegli scaffali perché almeno c’è qualchesperanza che li legga, dice la signora, eallora resta quel bel disordine di catastee la Celia si arrabbia perché fannopolvere ma a dire il vero è una bellacosa che siano tutti lì perché bastatendere la mano a caso e aprire e scopricose, sorprese, quella frase sembra chel’abbiano scritta apposta per te, com’èpossibile che qualcuno ti conosca tantobene, qualcuno che tu non conosci. Lapoesia è così. I libri sono così. Non tutti.Quelli che scrive la signora, peresempio, fanno un altro effetto. Sono

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belli a modo loro, un modo che non siriconosce quasi mai a prima vista.Proprio come i destinatari. Le testetroppo grandi. Le mani come animaliacquatici. Gli occhi così trasparenti chepotrebbero rompersi da un momentoall’altro. La bellezza è fragile. Labellezza è nell’occhio di chi guarda,dice Celia. La sua capacità di mescolaresapienza e banalità come se alla finefossero la stessa cosa.

“Libri per bambini,” dice luileggendole nella mente, come succedesempre, così sempre che lei ha smessodi meravigliarsi. “A cosa servono?”

“A niente,” risponde lei. “È questo ilbello.”

Lui fa finta di non capire, o forse non

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capisce davvero, ma che importanza ha.Bisogna che ciascuno abbia il suomondo. A lei non interessa la borsa dicuoio che sembra nata vecchia e che luiporta con tanto orgoglio e non lascia maiin macchina nemmeno se si ferma al bara bere un caffè, o la storia dei povericorpi delle persone note e ignote con iloro danni nascosti o apparenti. Lui nonne parla. Nemmeno di lei parlano mai.Evocarla lì sarebbe un oltraggio. È tuttosuo lì intorno, i muri che si scrostano, illegno del pavimento, il letto di ferro, lachiave che Umile ha per così dire presoin prestito e tiene per sé a difenderealmeno con una porta chiusa quelpiccolo regno preso anch’esso inprestito, che non ci entrino i ragazzi del

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paese in cerca di nascondigli oavventura. La proprietà non dà tutti idiritti. Lo sanno tutti, lì, a chi appartienedavvero quel luogo. Loro non hannopaura dei fantasmi, e poi per Umile sonofamiglia. Spera solo che siano tantogarbati da guardare altrove. E se ancheguardassero, non ha nessuna importanza.Probabilmente ridono di tuttoquell’affanno, di quel comico spingere eprendere e sudare, non capiscono ipiccoli nodi della gioia umana. La vita èun enigma se te l’hanno chiesta indietroquando nemmeno sapevi di avercela, ecerte cose non hai nemmeno avuto iltempo di immaginartele.

Se fosse un altro le chiederebbe checosa sta pensando, adesso che l’idea

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delle due sorelline sedute sul tetto, legambette bianche penzoloni, la fasorridere tra sé. Lui invece zitto, semprestato bravo a tener la bocca chiusa,anche da bambino erano i silenzi asalvarlo quando lo prendevano in giro,il figlio di nessuno, dicevano, e luitaceva, non faceva una piega, stringevale mani a pugno ma pugni non ne dava,non si sciupava così. Lei non era traquelli che dicevano cose, non leimportava niente. E un padre che non c’èa volte è anche meglio di quelli che cisono, soprattutto se ci mette i soldi perfarti studiare.

Se fosse un altro lei non sarebbe lì equindi si domanda che senso abbiaanche solo pensarlo, strana la piega che

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prendono le idee, le catene che formano,le strade che aprono. A voltebisognerebbe spegnersi e lasciar stare.Stare qui dove si è in questo momento,la testa vuota, a prendere quello che c’è.Si volta verso di lui che la guarda e losa, quello che vuole, glielo legge negliocchi, e si protende verso di lei e lastringe e glielo dà. Il pane e la fame.Non sapere che cosa viene prima, edessere contenti così.

Doveva obbedire, doveva dormire einvece l’ha svegliata la striscia di unmotore, lontano ma non abbastanza. Chisarà, a quest’ora in questo posto inquesta campagna dove non viene mainessuno perché lei è diventata brava a

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tenere lontani gli altri adesso che tutto èsuo e non ha voglia di mostrarlo ocondividerlo, è suo perché sia suo, ebasta. Scivola fuori dal letto, s’infila lavestaglia sulla pelle nuda e la chiudebene come a trattenere l’odore di lui, diloro, che il tepore del sonno ha reso piùacuto. Passa nello studio dove è rimastaaccesa la luce verde, il legno vecchiodel parquet vibra sotto i piedi ma lei nonha paura di farsi sentire e comunquesotto e sopra e attorno non c’è nessunoda disturbare. Lo spazio comeprivilegio, comprato e occupato, ancheda niente. Si siede alla scrivania, leggedall’inizio, poi ancora, facendo scorrerein alto il foglio. Lo sfila dal rullo, anchese non è finito. Legge una terza volta, gli

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occhielli grassi delle a intrisid’inchiostro. Funziona. Cose brevi, unpo’ di maniera. Era partita conquell’intenzione, adesso che puòpermettersi di scrivere quello che vuole.Una raccolta dalla patina vecchiotta, perfare un po’ il verso alle signoredimenticate. Usare una formarassicurante per dire cose insolite. Einvece, come succede sempre, la storia èandata dove voleva. Tanto meglio.Stupire sempre. Prima di tutto se stessi.Non bastarsi mai.

Nel cuore della notte Olmo sisvegliò: aveva sete o forse avevasentito un rumore. Non era importante:quando vide il bambolino seduto sul

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lenzuolo si dimenticò perché si erasvegliato. Si spaventò anche un po’,però fece finta di niente.

“Chi sei?” gli chiese il bambolino.“Tu chi sei?” chiese Olmo, che

spesso rispondeva con una domanda auna domanda.

“Non lo so,” rispose il bambolino.“So solo che ci sono.”

“Ma almeno ce l’hai un nome?”chiese Olmo al bambolino. Ormai nonera più spaventato.

“Non credo,” rispose il bambolino.“Allora te lo do io.”Il bambolino tese la mano e

aspettò.“Cosa vuoi?” gli chiese Olmo.“Hai detto che mi davi un nome,”

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disse il bambolino.Olmo allora s’infilò sotto il letto e

prese la scatola delle cose trovate. Laaprì e ci frugò dentro. Il bambolinoguardava tutto come per mangiarselocon gli occhi.

“Ecco qua,” disse Olmo dopo unpo’, e premette qualcosa nella manodel bambolino.

Il bambolino guardò bene: Olmo gliaveva dato qualcosa, ma lì non c’eraniente. Lo fissò, aspettando.

“Cosa c’è? Non ti piace?”Il bambolino non parlò.“A me pare bello. Adatto.”Il bambolino continuò a non

parlare.Olmo si batté una mano sulla testa.

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“Ah, ho capito,” disse, e sorrise. “Nonsai leggere. Non c’è da vergognarsi.Succede.”

Si stira come si fa la mattina appenasvegli anche se è il cuore della notte e ilsonno è lontano. Intera, sazia. Ha fattol’amore, ha cominciato una storia. Da sénon potrebbe volere altro. Dagli altri haimparato a non volere. Tranne che daquelli che le obbediscono e dipendonoda lei, ma è un contratto, uno scambio.Facile. Alza lo sguardo dalla pagina eincontra la propria immagine un po’sfuocata nello specchio grande sullaparete: il viso e il collo molto bianchi,tutto il resto inghiottito dal buio. Unamacchia, e va bene così. Sono precisi,

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invece, i rettangoli delle istantanee cheha infilato lungo il bordo, le cose cheguarda e fotografa in modo quasiossessivo, foto di cose, pezzi di cose,l’intero mai, sempre i dettagli: le manidi Umile – incredibile come siano bellequelle mani, tanto diverse dalle suepiccole e quadrate, che cosa se ne fa unasegretaria di quelle mani, che cosa se nefarebbe lei, porterebbe tutti gli anelliche ora sdegna solo perché sa che sullesue dita sono ridicoli, la fanno sembrareuna bambina che gioca coi gioielli dellamamma. La torta di mele di Celia,perfetta nella sua semplicità, le lamelleche si rincorrono e quel colore brunitoche anticipa il sapore. Un grappolo diglicine bianco – ma deve smetterla di

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fotografare i fiori, sono come i tramontio i paesaggi, perfetti solo nello sguardo.Molto meglio le cose nella loro poveradefinitezza. La valigetta di lui – glieneha regalata una nuova, di quella pelle unpo’ a graffi, saffiano, si chiama, sembrail nome di una creatura magica, unaspecie di zigrino, forse. Ma non la usa,si è tenuto la vecchia tutta sbucciata agliangoli, eccola lì. Non vuole niente dalei, se non lei.

Infila un altro foglio nel cilindro, lofa scorrere. Comincia. Prova un piacerestrano nel rompere la notte con queirumori secchi, quel picchiettare di tarloche echeggia nelle stanze, non perchésiano troppo vuote, ma perché sonotroppe per una persona sola. Nessuno da

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disturbare. Poter dare fastidio aqualcuno. Poterla ostentare, tutta questalibertà. Così non c’è gusto. C’era unaprincipessa che aveva tutto quello chevoleva: un castello e tutte le terreintorno fin dove arrivava lo sguardo,servi e domestici, gioielli, libri, bestierare nelle gabbie, fiori e frutti e cibisquisiti. Che cosa le mancava? Niente.Anche lei si rispondeva allo stessomodo, però poi stava sveglia la notte apensare a che cosa, e quindi volevadire che qualcosa che non c’era cidoveva essere. Ma lei non sapevacos’era.

Sfila il foglio. No. Non parlare di te,non interessa a nessuno. Chi vuole unafiaba vuole quello che non c’è. Non le

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povere storie di tutti i giorni incorniciatein oro matto. Non vale. E poi sta giàmentendo, e nelle fiabe c’è una solaregola: bugie mai.

Ma quella poesia. Tu sei il pane esei la fame. Si alza e scende le scaleperché è quasi certa che il libro sia disotto, su uno dei molti tavoli che hapreteso nel salotto proprio a quelloscopo, per averli tutti lì, i libri, a facciain su, che la guardano e si fannoscegliere. Accende una lampada, cerca,sposta. Niente. Eppure era sicura. Silascia cadere in una poltrona, irritata. Lacintura si allenta, la seta si apre sui seni.Non importa. Tanto è sola. Sempre sola,come un motto da incidere in un sigillo.Il foglio che senza badarci ha portato

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con sé le scivola dalle dita, atterra sultappeto.

Alla fine, lui delle sue storie non neha mai letta una.

È andato via – domani mattina hol’ambulatorio, ha detto, devo riposare.Con te non si chiude occhio. Lei hasorriso ed è rimasta, l’ha ascoltatoscendere la scala di legno, far cigolarela porta, accostarla, ripartire. È tropposveglia, i sensi affilati. Dormirà quelloche riesce, quando viene, si faràsvegliare dalla luce e poi si cambierà earriverà alla villa dal viale di ghiaia,non dal bosco, come se venisse da casa,a passi brevi fermati dalla gonna stretta,la versione di sé ordinata e compunta,

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non l’animale guardingo che sbuca daicespugli e conosce i sentieri, l’animaleche è. Ha tutto lì, il rossetto rosa e lamatita nera, la crema e il deodorante, etiene sempre un cambio, le calze, unacamicetta pulita, con la bella stagione ètutto più facile. Il nostro quartierinoestivo, lo chiama lui, per offrirle quelnostro che poi lei si rigira nella testaper un pezzo. Arriverà alla villa versole otto, come sempre, pur sapendo che ètroppo presto e fino alle dieci, dieci emezzo non ci sarà niente da fare se nonriordinare la posta e magari battere amacchina qualche lettera; Celia laguarderà scuotendo la testa e poi diràsottovoce, sibilando, col gusto dellamalignità: “La dorme, quella. La dorme

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e poi quando si sveglia devono correretutti come formiche al suo comando, cheintanto il meglio della giornata è andatoperso. Sono in piedi dalle sei, io.”

Io no, penserà lei. Io ho dormitod’amore, avevo fame e ho preso il pane.Come qualcosa di sacro, una comunionedi carne. Se lo dicesse, ammesso diavere tanta confidenza, Celia si farebbeil segno della croce e correrebbe da unsanto a mettere una candela come quellache langue lì accanto, adesso. Prima dispegnerla – la luce ci sarebbe anche, mai fili se li son mangiati i topi, ha dettolui, è pericoloso, tanto non ci serve –allunga la mano, scosta i vestitiammucchiati sul tappetino (la gioiapremeditata di quel disordine) e prende

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il libro che ha portato con sé proprio perquesto momento. Lo apre e aspetta chele dica un’altra cosa di lei che ancoranon sa.

Celia entra nella stanza senzabussare, come non fa mai. Sono seduteal solito posto, Iride dietro la scrivania,una matita in mano che mordicchia e poiagita nell’aria come una bacchetta dadirettore d’orchestra, Umile al suotavolino ordinatissimo che prendeappunti. È il lavoro di fine mattina, lelettere dei lettori. Iride una volta sidivertiva a rispondere di suo pugno,adesso non ci riesce più e ci pensaUmile, ma le è rimasto il vezzo difarsele leggere tutte, dare qualche

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suggerimento, pensare almeno una fraseche sia il suo marchio, il suo timbro.Umile ha imparato a imitare in modopassabile la sua scrittura, e oltre ascrivere qualche volta firma, facendoanche un disegnino, un fiore, unafaccetta, una stella. Usano sempre duepenne uguali, lo stesso inchiostro tra ilblu e il nero. Nessuno si è mailamentato.

È la parte leggera del lavoro, quellache si può anche interrompere, ma leregole sono le regole ed è per questoche Umile è sorpresa per l’invasione, eIride si prepara a sbottare. Ma Celia laanticipa: “È morto il dottore.” E poi: “Ildottore è morto.”

Iride sembra non capire, lei non lo

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conosce con quel nome, non è così chelo chiama. Umile invece ha capitosubito, anche perché lo sguardo di Celiaè fisso su di lei, non sull’altra, su di lei.Si alza di scatto, la sedia cade alle suespalle e atterra sul tappeto senza farrumore. Solo un piccolo tonfo. Il cuorele è sceso nella pancia, un altro tonfo,poi più niente. È come se per un attimosi fermasse. Riprende a pulsare, risaleveloce in gola. Si ferma lì. Umileappoggia i palmi delle mani sul legnodella scrivania. È fresco. Ciliegio, hadetto il falegname quando è venuto aportarlo via per lucidarlo, se lo ricordabene perché ha pensato che fosse bellolavorare su un albero tanto interessante.Poi non ci ha pensato più. Le cose che

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diamo per scontate.Intanto, e forse per via di quella

sedia caduta piano e di quel silenzio,anche Iride sa. Alza le sopracciglia,sgrana gli occhi e resta impietrita, unabambola dipinta. La descriverà a questomodo, dopo, Celia, con la sua sapienzada Arena di Verona: “Una maschera diTurandot.” Intanto le guarda tutte e due,prima una poi l’altra e ritorno. Aspetta.E siccome non fanno niente, è lei laprima a decidersi a piangere, perchépiangere bisogna, un pianto asciutto, unsinghiozzo che la squassa, un altro, unaltro, la mano che sale a coprire labocca. Funziona. E infatti parla,liberata: spiega. “Un incidente, giù aiPioppi. È andato fuori strada sulla

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curva, forse i freni. L’han trovato nelfosso. Il fosso fondo. Ha battuto la testa,è andato sotto. Annegato.” Il gusto dellacronaca che prevale. Quante volte haraccontato eventi terribili successi apersone note, anche care, con la stessaprecisione, come se avesse fatto leprove. Adesso non può aver avuto iltempo. È puro istinto. Istinto, e l’ideache fin quando parli puoi non pensare, ecerte volte è meglio.

Celia ha fatto il suo dovere,dovrebbe andarsene, e invece resta,inchiodata lì, addolorata ma anchecuriosa della curiosità di una bestiolasempre all’erta. Si guardano, alla fine,Iride e Umile. È quel silenzio condivisoa dire tutto. Lo sapevano già, ma a volte

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si è bravi a non vedere. O non è tantoimportante. Adesso sanno che sanno.Anche Celia sa, ha sempre saputo, e tuttesanno e nessuna dice niente e potrebberorestare così per un’eternità, statue disale, donne ridotte a simboli: la custodiadella casa, l’amore libero, l’amoresegreto. Hanno perso la colla che leteneva unite; hanno perso l’uomo. Chesiccome non era di nessuna era di tutte etre, ed è sfuggito a tutte e tre. Celia è lapiù rassegnata: gli uomini fanno semprecosì, vanno via, se non lo sa lei che nonne ha mai avuto uno. Per questo puòpiangerlo per prima, adesso, e farlafinita. Che le altre se ne stiano lì afissare il vuoto e mordersi le labbra eaccarezzare la scrivania, tanto non torna,

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e uno come lui non lo ritrovanonemmeno a fare il giro della terra percercarlo, uno così, generoso, distratto,magnanimo. E poi bello. “Era tantobello,” dirà al suo pubblico, in bottega,per la strada, in giardino. Soltantoquesto. Alla bellezza si perdonaqualunque cosa, soprattutto se è morta.

Anche il bambolino sorrise.“Fratello. È il tuo nome. C’è scritto

lì,” disse Olmo.“Fratello,” ripeté il bambolino.“Ti piace?” gli chiese Olmo.“Non so,” rispose il bambolino. Poi

rimase in silenzio.“Non ti piace?” chiese Olmo.“È un po’ lungo. Tu come ti

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chiami?”“Olmo.”“Ecco, lo vedi? Olmo è corto. Io

volevo un nome corto.”“Sarà anche lungo ma è facile da

dire. Io non mi sbaglio. Fratello,Fratello, Fratello. Visto?”

Il bambolino abbassò la testa diplastica montata sul perno. Poi su, conun piccolo cigolio.

“Non so. I nomi sono importanti,”disse infine.

“Come fai a saperlo? Fino a unattimo fa nemmeno ce l’avevi, unnome,” disse Olmo.

“Appunto. Non ce l’avevo, ed erauna cosa brutta. Ai nomi bisognapensarci bene.”

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Olmo sbuffò. Aveva già capito. Conquello lì non sarebbe stato facile. Peròera meglio di niente. E ormai c’era.Tanto valeva tenerselo.

A lui piaceva, comunque. Cosìcom’era, con o senza nome.

Uno scivola nel mondo senzaresistere, sottile e veloce come resterà.Non piange nemmeno, dà solo in unpiccolo verso, un sospiro di naso, unosbuffo di bestiola, e poi aspetta che gliinvadano gli occhi di luce, che loallunghino quando lungo non è ecomunque stava tanto bene avvolto epiegato come prima là dentro. Stretto instoffe fredde, accecato, cerca dirannicchiarsi ancora, di trovare un

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nascondiglio in se stesso. Glieloimpediscono. Poi lo prendono e il vuotoe lo spazio intorno è una vertigineorribile come quella provata quandol’hanno tolto da dov’era, ma poi lodepongono sul morbido e glischiacciano il naso contro qualcosa dicaldo che gli ricorda qualcos’altro eallora trova un posto dove appendersi,dove aprire per la prima volta le manicome piccoli fiori marini, un postoumido da conoscere con la bocca. Forsepuò anche restare.

Uno si ribella, protesta, si volta e sirivolta fino all’ultimo in una danzadannata, punta i piedi di bruco. Nonvuole. Non riescono a chiamarlo fuori e

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devono aprire, c’è più sangue delnecessario e una velocità e una destrezzada macelleria per portare nel mondo unconiglio imbronciato. Lei non vede enon sente niente, e quando riaffiora dalpozzo dell’anestesia chiede subitoqualcosa per riaddormentarsi e nonsapere di quella doppia carne dolorosa.Quanto al coniglio nella sua scatola divetro della nursery, i biberon lodisgustano, la durezza della gommapiantata tra le labbra gli dà una furiaimplacabile. Piange, il raglio curiosodei neonati scontenti. Piange anchequando lei lo va a vedere, l’estraneoinvasato, la macchia violetta che sciupal’ordine bianco dei lenzuolini. Piangequando lo porta via impacchettato in una

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copertina che gli punge le guance giàmaculate di rosso, è tutto così irritanteper la piccola bestia di una giunglasemplice che lei sa di non poternavigare.

Uno lo chiamano Zeno, perché è unnome un po’ santo, perché è corto,perché sì.

Uno lo chiama Gregorio, perché è unnome insolito, perché con quei suonidentro allude a un est troppo lontano peruna che viaggia solo quando deve,perché sì.

Iride fa venire una nanny da Milano,

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una di quelle vere coi capelli nascostida un cappelletto e il grembiule grigio,ordinata, precisa, che le porta ilbambino a tempi stabiliti e poi lo fasparire nell’infilata di stanze che sonocome scatole di un gioco. Più spessos’incrociano per caso, la nanny che arala ghiaia spingendo una carrozzinafastosa e lei che taglia le peonie, lananny che cerca la complicità di Celia odi un giardiniere, qualcuno con cuiparlare che non sia un bambino moltopiccolo, e lei che fa il giro del parco apasso di marcia. La carne spaccata siaggiusta, i seni svuotati dalla chimicatornano piccoli come prima, il ventrerimasto di una taglia in più bastachiuderlo in una guaina e pian piano si

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appiattisce. Non è successo niente, sipuò continuare a scrivere. Non ha presoimpegni per quella primavera, seproprio vuole può sempre fare qualchetelefonata e saranno tutti pronti ariaverla, i convegni, le fiere, il solitogiro con la solita compagnia di giro, ilteatro lento del fare libri. Ammesso chene abbia ancora voglia. La solitudine ècosì attraente.

Umile non ha mai avuto paura. Chela mandasse via, che le dicesse quella èla porta, vattene, sparisci, tu e la tuapancia vergognosa. Perché non c’eraniente da vergognarsi, e sarebbe statocome insultare la propria, di pancia, conuna stessa metà di bambino dentro. LaFede le ha detto vieni ad abitare con noi,

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questa è anche casa tua, almeno tiriprendi le tue stanze e comunque pernoi due soli è sempre stata troppogrande, e Giovanni ha detto sì con latesta in silenzio come fanno gli uominiquando nelle cose di donne non civogliono entrare, e lei ha capito chealmeno quello al bambino lo doveva, didargli una famiglia, e una casa che nonfosse l’appendice di una casa altrui. Nonè una portinaia. Eppure lui è cominciatoproprio in una portineria. In paesequando hanno capito non hanno dettoniente, in fondo il dottore era uno diloro, un altro cresciuto col cognomedella madre, succede, che male c’è. Epazienza se aveva anche una moglie, acerti uomini una donna sola non basta.

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Era tanto bravo, sempre disponibile contutti. E non è l’indulgenza generica chesi concede ai morti, c’è una devozionevera, dietro, un lume sempre acceso.Fede comunque è stata contenta findall’inizio come se fosse veramente suo,il figlio tardivo, lei una Sara esaudita dicampagna: lei che i bambini se lisognava fin da piccola, e invece. Chivuole non ottiene, e chi non vuole. No.Lei voleva. Non lo sapeva ma voleva eadesso che lui c’è le viene la paura diquello che ha rischiato di perdere o nonavere mai, una paura che guardaall’indietro come nello specchietto diuna macchina lanciata nel buio.

Hanno portato le pance facendo fintadi niente, come se fosse normale avere

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un bambino che preme sotto il vestito esi prende in anticipo il suo spazio nelmondo: e in verità lo è, ma non così, nonper loro così, insieme. Non si sono maidette niente: Umile non cercavaconfidenza, e poi a casa aveva Fede chepensava a tutto in preda a una specie diossessione, il cibo sano per lei, la culla,i vestitini. E Iride di sé non raccontavanemmeno prima. Parlare di lui, poi. No,ciascuna ha avuto o si è presa la suaparte, e l’idea e il timore è che quelladell’altra fosse meglio, o di più. Tantovale non scoprirlo per non farsi troppomale, dal momento che non serve:dividersi adesso un uomo che non era dinessuna in fondo le lascia alla pari,ciascuna con la sua memoria e quello

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che di lui non si saprà.

I bambini crescono, e dal momentoche vivono nel raggio di un chilometrol’uno dall’altro e hanno la stessa età èinevitabile che dopo un po’ s’incrocino.Non è ovvio che siano amici, ma èquello che succede: prima nel modocasuale dell’infanzia, un giocare piùvicini che insieme, poi cercandosi etrovandosi. C’è tanto spazio, unprivilegio che accettano con divinaindifferenza. Il bosco, la campagna, lasoffitta della casa dove dormono oggettiappartenuti ad avi di nessuno: è tuttoloro. E siccome i bambini hanno gusti dabambini, finiscono per preferire lostretto della cucina dove Fede e

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Giovanni, già accecati dalla venerazioneper Zeno, accolgono anche Gregorio conla stessa gioia guardinga, come se ilmiracolo raddoppiato non dovessedurare. Lì ci sono dolci e vizi per tutti.Gregorio è curioso di quei due quasivecchi che sembrano vivere appesi allacondiscendenza del suo amico, e perestensione anche alla sua. Visto che èciò che vogliono, si fa anche luicondiscendente, accetta di buon grado leloro cure, eppure con loro non riescemai a mettere su quella petulanza ditiranno che invece gli viene naturale conCelia del troppo amore. Sono i nonniche non ha, e ai nonni si perdona tutto,anche l’amore incondizionato quandosbaglia. Sua madre del resto a casa c’è

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poco, diventa l’interessante leggenda dicui tutti vogliono sapere.

Umile con Zeno sta un passoindietro, è brava nel ruolo della ziagenerosa che torna sempre dai viaggi –ogni tanto parte con Iride, soprattuttoquando va all’estero, alla signora piacel’idea della dama di compagnia(compagnia?) – con qualcosa distupefacente che gli altri non hanno. Espesso Zeno e Gregorio si ritrovano conun giocattolo o un golfino identico, e siridono, come due gemelli che riescanoper un attimo a guardarsi da fuori.

Non che le due madri faccianoacquisti insieme. Il tempo non le haavvicinate, semmai le ha spinte più afondo ciascuna nella propria parte, e dei

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bambini, quando sono sole, non parlanomai. Parlano poco in generale, lo strettoindispensabile, l’agenda, i contratti, itour. Si danno sempre del lei. Maosservando e ascoltando, e anche grazieai viaggi, Umile ha imparato tante cose,si è elevata, in un certo senso. Leggemolto, è diventata un’abile correttrice,sa rivedere i testi meglio di un redattoreesperto. Si è resa indispensabile. Vannocosì, Iride davanti coi suoi vestiti disartoria, le borse e le scarpe eleganti inun modo discreto, il passo sicuro, eUmile dietro nella sua divisa, la gonnagrigia, la camicia bianca, un paltò bentagliato regalo della signora, e sembranodue compagne – non amiche – che dopogli studi insieme si siano allontanate e

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adesso si ritrovino con una compostezzache tiene in conto i diversi pesi dellediverse vite. Iride attraente, anche setutto sta più che nei tratti – troppi angoliper essere davvero bella – nell’agio concui si muove, nella testa portata altasulle spalle; Umile morbida, unadolcezza soffusa di bionda, sempre unpo’ di fretta, guardinga, come se si fossedimenticata qualcosa che ancora non sae dovesse voltarsi da un momentoall’altro per andarla a riprendere.

A Umile andare via costa; ma è lasua vita. A Iride no; è la sua vita.Quando tornano a Villa Biglia per ibambini è sempre una sorpresa, Celia èinformata ma si fa gli affari suoi, eGregorio ha smesso di chiedere; il

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ritorno è il rumore delle gommedell’auto sulla ghiaia, il tonfo delleportiere, lo scricchiolio dei passi dicorsa – i loro – che fanno un rumoreritmato di biglie in tasca. Il tempo diraggiungerle e sono già entrate. Umile vanello studio a posare le carte – portasempre tutto lei in una borsa da uomo, dipelle, che qualche volta Zeno ha ilpermesso di sollevare, pesante, c’èdentro anche l’astuccio con lestilografiche nere stellate per le firme;Iride va di sopra a fare la doccia ecambiarsi. Zeno sorprende la sua predaalle spalle e la abbraccia alla vita: “Zia!Cosa mi hai portato?” Quell’anello dipelle intorno, il vincolo miracolosoritrovato, la testa di lana calda piantata

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fra le scapole. Stringere gli occhi dallagioia, senza farsi vedere. Gregorio va incucina a prendere il necessario per il gintonic. Fa tre, quattro giri fino al salotto eritorno, attento a non combinare guai.Sceglie sempre la bella bottigliaazzurra, la sua preferita, peccato che poia versarlo il liquore non abbia davveroquel colore magnifico di icebergimmaginato. Si siede sulla poltrona easpetta. Qualche volta il ghiaccio fa intempo a sciogliersi nella coppa e lei nonè ancora scesa, e quando lui sale espinge molto piano la porta della camerala trova addormentata di sbieco sul letto,con la giacca e tutto. “La mamma èstanca,” dice a Celia, tornato di sotto.Mescola l’acqua di ghiaccio con l’acqua

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tonica, ci spreme mezzo limone e beve adenti stretti di gelo il suo cocktaildell’attesa inutile.

La parola padre non vienepronunciata spesso da quelle parti.Padre è qualcosa che hanno gli altri,l’uomo della domenica a messa chiusoin una giacca così poco portata che gli sistringe addosso o al contrario si separadal corpo come una corazza poco utile;il giustiziere là dove non arrivano leminacce femminili, stasera quando tornaglielo dico, vedrai, vedrai; il maestromalmostoso da seguire nei campi, oalmeno nell’orto, a fare lavori pesanti onoiosi o tutt’e due.

Zeno ha Giovanni, una sorta di

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Giuseppe apocrifo occupato dai suoisilenzi e portatore di una sicurezzaindistinta, sempre un passo indietro,sempre nell’ombra; ma la loro, l’hacapito presto, è una casa di donne, equasi non lo chiama, quasi nemmeno lovede. Gregorio non ha nessuno, e hasmesso di domandare molto presto.Ammutolito dal ferro negli occhi diIride, si è convinto che nel computogenerale un padre non sia poi tantoimportante per un bambino che ha tutto:una casa grandissima, il parco, e ancheun amico. A conti fatti gli sembra diavere comunque di più.

A che cosa giochino, quando sonosoli, nessuno lo sa. Loro non raccontano,

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gli altri non chiedono. C’è di tutto: unacasa sull’albero costruita con l’aiuto diVittorio, l’uomo di fatica che sa fareogni cosa; spade di legno, scudi, fionde;tesori di biglie sepolti sotto un certoalbero e mai più ritrovati; animali feritio immaturi da nutrire e addomesticare –uccellini caduti dai nidi, un toporagno,perfino un riccio, una volta; animalimorti da seppellire – nessuno chesopravviva alle loro cure. Vedono levolpi, le lepri, il tasso, anzi, la sua codaprodigiosa che sventola come unabandiera e sparisce sempre troppopresto nel buio. Non hanno paura deiserpenti ma delle loro bucce sì. Quandotornano la sera sono sporchi, stanchi,silenziosi, si separano senza un saluto; i

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lividi lasciano sospettare caduteviolente, rischi e salvataggi, botte date eprese. Il giorno dopo arrivano da partiopposte sul piazzale di ghiaia, comechiamati da uno stesso orologio, eripartono. Nessuno può dire chi sia ilsignore e chi lo scherano, chi il paggio echi il cavaliere. Forse si scambiano leparti, o si confondono, o non ci pensanoproprio. Questa infanzia è un tesoro nonrubato, non trovato: esiste finché a farlasono in due.

Attorno ai quattordici anni siallontanano in modo definitivo,lentamente, senza che nessuno dei duesappia di volerlo. Non li hanno separatigusti divergenti o ragazze contese,

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semmai i bus che li portano verso scuolelontane: il classico per l’uno, loscientifico per l’altro. Licei comunqueper i signorini, come li chiamano nonsenza affetto in paese, come ancora lichiama Celia quando può. Zeno è subitobello in un modo poco complicato chegli spiana tutte le strade; Gregorio, piùlento in tutto, ci metterà altro tempo adiventare se stesso, e con sforzo, ascatti, come un insetto che esceestenuato da una serie di mute che nonvuole finire. Zeno è tranquillo, forte ditutto quell’amore di due donne e unuomo vecchio riversato su di lui senzamisura; fa le cose con calma, certo chegli riusciranno. A diciannove anni parteper una città abbastanza lontana da non

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poter fare ritorno così spesso. Fede loaspetta sempre, cucinando per chi nonmangia, pulendo per chi non sporca. Luidiventerà il figlio del Natale e dellaPasqua, per le vacanze no, troppooccupato a lavorare, a fare da solo,l’università, la carriera accademica,l’estero. Tornerà per la morte diGiovanni e poi di Fede, troppo tardi persalutarli come si deve; ma loro se nevanno senza rancore, semplici comesono sempre stati. Dopo basta. ConUmile si telefonano qualche volta,scambi fatti di pause e silenzi, un loroMorse in cui le cose taciute sono piùimportanti di quelle dette. Gregoriocresce schiumando di rabbia per tutto, lacasa incantevole, il giardino

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incantevole, la madre troppo distante otroppo aderente, astratta o giudicante atempi alterni imprevedibili, con quellavoce che affascina tutti e alle sueorecchie è gesso su lavagna. Si muovesempre di corsa, non riesce a stare alungo dov’è, prende a calci la ghiaia etutta quella bellezza manipolata che locontiene e lo soffoca. Studia in una cittàtroppo vicina per non fare ritornospesso, e quando torna si arrende alladevozione cieca di Celia: è la sola asaperlo placare con quel suo sibilo dicicala in bocca che la annuncia primache arrivi insieme allo strofinio delleciabatte sul pavimento, il suo rumoreanimale e il modo animale di volerglibene nel fare: le camicie stirate perfette,

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la colazione generosa, i grappoli diacacia fritta quando è stagione, come senel cerchio limitato del suo sguardomiope fosse rimasto per semprebambino. Alla fine lui non resiste e trattamale anche lei, poi si pente e la stringe,piccolissima, gli odori di cucina sempreaggrappati ai capelli, la fragilità dauccello sotto il grembiule. Con qualcunodeve pur prendersela per tutta quellagiovinezza.

Andati via loro, la casa e il parcosembrano tremare nell’aria e restringersiattorno alle donne rimaste. Iride èall’apice della fama, ha smesso di giraree si è accorta subito che non serviva.Umile è sommersa di lavoro comunque,

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e che i viaggi si siano diradati per poicessare non le dispiace: alla fine se nonhai un bambino da cui tornare ancheandar via perde di senso, e a lei delmondo non è mai importato granché. Si èun po’ arrotondata, il biondo di madonnale dà un’apparenza mite, l’emanazionedi un’intima, intoccabile pace. Iride lascuoterebbe forte per levarle dallafaccia quella placidità che le parearresa, ma non ci riesce, con lei nonriesce a esercitare la tirannia che riservaa tutti gli altri e che tutti ormai siaspettano e poi accettano in unautomatismo sconcertante. Si è quasiconvinta di invidiarla. Lei intanto si èaffilata, la sua eleganza di verdi e violaha un che di tagliente, ridotto

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all’essenziale o meglio prosciugato. Sequalcuno senza conoscerle le vedesseora, direbbe senza esitare che lascrittrice per bambini è Umile, non lei.Ha preso altri uomini, strada facendo, eli ha lasciati volentieri. Non ne haportato nessuno a Villa Biglia, che senzadesiderarlo – nessuna casa puòdesiderare una cosa del genere – hacominciato a trasformarsi in unsantuario. Lei lo sente e per evitarlopercorre come una furia le stanze vuoteper popolarle di cuscini, fiori in vaso epile di giornali; sposta mobili, cambiadivani e tendaggi con accanimento,spinge dentro i colori. L’effetto ègioioso e insolito, di una gioia forzata:una casa che si rinnova di continuo per

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tre vecchie. Tanto grande per unapersona sola, mormora Celia, come selei e Umile non fossero persone macolonne o travi o armadi a muro, eraccoglie i detriti, i soprammobili fattifuori, le lampade ancora buone diventatebrutte all’improvviso che altrimentifinirebbero buttate via: un tesoro diavanzi che verrà ritrovato sotto il suoletto un giorno non lontano, quando leisarà altrove. Si sta piegando in due, unlibro che vuole chiudersi, la vista persadietro gli occhiali spessi sempremacchiati d’impronte, ma non cede, eripete imperturbabile, solo più lenta, ipercorsi di sempre, uno stanco pupazzoa molla dentro i suoi brevi binari.

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COSE TORNATE

L’amore è complicato.L’amore diventa piùdifficile che non è comedire che diventa piùdifficile amare.

Jeanette Winterson

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Dev’essere andata così, o forse no, ealla fine non è importante; il passato alpassato, i morti ai morti, e chi resta vivofa con quello che si ricorda o crede diricordare. Per Anna è ancora più unastoria perché non la riguarda, puòcontemplarla da due passi indietro evedere i protagonisti nella giusta luce,chi ruba la scena e chi si è preso solouna particina. C’è anche l’uscita teatrale

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del medico bello – il più oscuro deipersonaggi – che con quello strappo sifa perdonare la noncuranza ostentata invita: le piacerebbe poter vedere una fotoper figurarselo meglio, o forse no,rischia di restare delusa e quasi sivergogna a pensarlo perché anche lui èstato una persona con le sue ragioni e itorti, i suoi dolori. Poi lei è di parte,ovvio che Umile le piace di più, mentreIride Bandini appare sempre piùghiacciata, distante, e quanto ai bambini,be’, erano bambini, e lei non ne saabbastanza. O forse sì, se alla finequello che serve è ricordare come siera, come si è rimasti, e a volte losentiamo ancora vivo, il bambino chiusodentro come uno di quei gemelli

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incompiuti che si annidano dalla partedel cuore, mentre la nostra carne glicresceva addosso pesante: quello cheancora urla e si dibatte e vorrebberibaltare tutto e se ne sentono i pugni dadentro, quello che forse sarebbe ancoracapace di ricominciare la partita con lapazienza e la foga dell’infanzia, se sologliene dessimo il modo, se nonvolessimo zittirlo come si fa sempre conchi è troppo piccolo e dice senzasaperlo troppa verità.

Cosa dovrebbe importarle, poi, diqueste persone, alcune morte altrelontane, alcune appena sfiorate altre maiviste: estranei comunque. La risposta ècosì semplice, così antica che lasconcerta: sono umani come lei.

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Occupano un posto con la loro storia. Avolte è tanto complicata, sottile econtorta da sembrare inventata: lameraviglia della realtà. E lei, che non siè mai occupata di politica, e un po’ laturba, perché vede in questo distacco unsospetto di leggerezza che non le piaceammettere, pensa che forse il suoimpegno è ascoltare. L’ha sempre fattoper mestiere, già prima, quandolavorava al giornale, e lo fa adessoraccogliendo le vite degli altri perricomporle in un ordine di finzionetenuto insieme dall’unica cosainoppugnabile, il filo del tempo. Ed ècome se fosse diventato un’attitudinenaturale, o forse è semplicemente ciòche è un vero mestiere, non un lavoro

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nel senso di obbligo e peso, no,quell’altra cosa che porti sempre con tecome un timbro di appartenenza sullapelle, quello che non conosce orologi eignora la distinzione tanto fittizia trafatica e svago: un mestiere come formadella vita.

Mettersi in ascolto è come vagare inun’immensa biblioteca a cielo aperto, eper forza ci vuole un tetto di niente,perché non ci sono limiti, non si possonochiudere in una stanza o in un palazzo lestorie delle cose del mondo. A voltepone i suoi problemi, perché chiedecomplicità e opinione, e alla fine ci simacchia anche a prendere tra le dita,pianissimo, un’ala di farfalla. Ma è lavita che è sporca. Se ci si occupa di vita

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non si può restare puliti.Adesso che sa tutto o quasi,

ricomposti i pezzi, saldate le lacune conqualche domanda precisa a Tiziano eUmile – non possono più permettersi diessere reticenti – è venuto il momento dirileggere con un altro sguardo le storienella scatola. Bel titolo, se non cel’avessero già: Le fiabe della Celia. Esotto, scritto più piccolo: raccolte daIride Bandini per i bravi bambini (eanche per gli altri). Sul fondo c’è unabusta, ma Anna ha guardato solodistrattamente i fogli che sono scivolatifuori, note a mano, appunti. Disegni,forse del figlio. No, o non solo, perchésembrano diversi.

La cosa più importante è l’inedito.

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Un centinaio di pagine, stampate su cartapesante con un carattere nitido. Il giocoalmeno in apparenza è semplice erichiama altre raccolte antiche e illustri:una governante a riposo che per nonsentirsi inutile racconta storie albambino di casa, Olmo, un piccolettotutto occhi e orecchie dalla vivacitàestenuante. Solo le fiabe della Celia,spiega il prologo, riescono a farlo starefermo e zitto per una mezz’ora allavolta, “e per tutta quanta la casa, dallepersone agli oggetti, è già unabenedizione”. Celia avrebbe il compitodi ficcare in testa al piccolo qualchegrano di buonsenso e le buone maniere,“ma si sa che le storie morali nonpiacciono a nessuno”. E allora

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“preferisce impastare altri ingredientipiù semplici in quelle sue focacce diparole, semplici come i cibi chepreparava quando aveva ancora le maniforti come la testa: ci mette la paura, ilcoraggio, l’astuzia”. Guarda caso l’eroedi alcune delle storie è un piccolettotutto occhi e orecchie che si chiamaOlmo. Le fiabe della Celia sono solo inapparenza tradizionali o antiquate, comelascerebbe intendere il tono delle prime.Poi cambiano registro, diventano piùsemplici, anche più assurde. L’Olmoascoltatore non si lascia mai prenderedel tutto dalle vicende, è un bambinocurioso che fa sempre la domanda giustaal momento giusto, quando la storia habisogno di uno scatto in avanti o di un

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vuoto pensieroso che metta ordinenell’azione. A volte diventaprotagonista. A volte non c’è. Le trentastorie parlano di animali e di re, c’èqualche principessa, qualche povero, undiavolo solitario, frutti magici, scatoleparlanti, un amico immaginario. E molti,molti bambini strani. Tempo due ore eAnna le ha lette tutte. Aggiusta la risma ela ferma col peso di un grosso sassoperfettamente bianco e ovale che le haregalato un’amica tempo fa. Non tutti gliinediti vanno pubblicati, non tuttirendono giustizia all’autore, le coseriscoperte o ritrovate quasi sempre siportano dietro un odore di cassetto. Maquesto libro è molto buono, certo moltopiù buono della media delle cose che

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vengono pubblicate al momento perlettori da sette anni in su abbastanzaabili da poter leggere da soli, il che aquell’età non è scontato, consapevoli dicosa sia una fiaba, e nemmeno questo èscontato, capaci di apprezzare levariazioni sul tema, gli scarti, e disopportare di essere ancora definitibambini senza offendersi. Le fiabe diIride Bandini non hanno secondi fini,messaggi nascosti, non fanno la morale:sono storie e basta. È questo che Annadirà all’editore per convincerlo, comese poi ce ne fosse bisogno: i libri diIride vendono ancora tantissimo, ognitanto uno risbuca nei primi dieci inclassifica con la tranquillità di chiriprende il suo posto alla ribalta dopo

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una breve distratta assenza, e sonoprestati, letti, commentati, disegnati,drammatizzati in tutte le scuole e lebiblioteche del Paese. Un raro caso dilongevità naturale. L’editore saràfelicissimo. Ma Gregorio?

“Erano quelle che mi scriveva dabambino. Queste erano solo per me. Ilpatto era che le dovevo leggere perconto mio, però. Non ha mai avuto tantapazienza. Ci provava. Il resto, tutto ilresto era per i bambini degli altri. Lichiamava proprio così. ‘Pensa aibambini degli altri. Dovranno pur averequalcuno che gli inventa delle storie,no?’ Ero geloso di quegli sconosciutiche mi portavano via il suo tempo, anzi,

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lei, tutta intera. Non c’era mai. E iorestavo qui. Non mi dica che questagelosia è una cosa sciocca. Lo so. Nonmi dica che le persone che hanno undono lo devono mettere al servizio deglialtri. So anche questo. E non pensi ditrarne una diagnosi da due soldi: nonsono un poverino danneggiato dalledeprivazioni dell’infanzia. Sonocresciuto in un posto meraviglioso, contre donne che mi volevano bene come sefossi loro figlio e una quarta che quandoc’era qualche sforzo lo faceva, andandocontro se stessa, cosa che non avrebbefatto per nessun altro. È tutto moltosemplice, alla fine: sono il figlio senzatalento di una donna che ne ha avutotroppo. Il mio unico vero dono è la

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capacità di osservazione. E mi ha fattosolo male. Se fossi stato più distratto opiù lontano forse non mi sarei mai resoconto che mia madre era quello cheera.”

“Un mostro,” conclude Anna con unacerta audacia.

Gregorio Bandini la guarda da sottoin su, il mento appoggiato alle mani.Sono seduti ai due capi di un tavolo dimarmo, di quelli da lavoro, perimpastare, spargere farina, appoggiarecestini di uova o verdure con la loroscia di terra fresca. Lontani: hanno presoposto dove c’erano le sedie, una di quauna di là, senza spostarle. In mezzo, ifogli sparsi, un servizio d’argento, tazzedelicate a forma di fiore. L’ha fatta

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entrare lì senza scusarsi, nella grandecucina un po’ nuda, rimasta com’era oalmeno come se la ricorda lei, con unabocca di focolare immensa che spargeun buon caldo. Le case grandi d’invernosi ripiegano su se stesse, restano vivisolo i quartieri abitabili, e tutto intornoil freddo immobile delle stanzeabbandonate. Proprio come quella volta.Si è preso la briga di fare il caffè con lacaffettiera e poi versarlo nel bricco chemantiene il calore nell’eleganza. Inquella premura le è sembrato di leggereuna tregua, uno sforzo. Per questo si èconcessa di essere esplicita.

Lui infatti adesso la guarda con unmezzo sorriso. Visto da vicino,tranquillo, fermo, è ancora più bello: il

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busto compatto sotto il dolcevita nerosottile, i capelli tagliati cortissimi comeuna calotta da guerriero, gli occhilunghi, le sopracciglia ad arco. Nonsembra più tanto amaro, semmai un po’divertito. “Le hanno raccontato deldiscorso funebre, vero?”

“Ne dubitava?”“Gliel’ho detto, non possiedo molte

virtù, ma questo almeno l’ho capito: chenon dobbiamo aver paura di chiamare lecose col loro nome. E anche le persone.Lo sa quanti sono venuti da me, dopo, acomplimentarsi? Contriti, sembravanopronti a spendere le solite quattro paroleconsumate che si usano per il doloredegli altri, e invece mi dicevano bravo,hai fatto bene, sei stato onesto, hai avuto

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coraggio. Coraggio,” ripete, e sbuffa.“Nessuno le ha mai detto quello che simeritava quando era viva, ma lapensavano tutti allo stesso modo. È stataun’afflizione, come un fungo atomico chesparge le sue polveri nel raggio dichilometri, e continuano a far male peranni. Lo sa che da piccolo ho cercato diucciderla? Ho tritato le foglie del tassoe gliele ho messe nel caffè. Lei loprendeva amaro. Se n’è accorta subito.Ha pensato a un gioco, una di quellepozioni che fanno i bambini, ha ancheriso. Il mio avvelenatore personale, miha chiamato. Ma io non scherzavo. Loso, si starà chiedendo che cosa può averfatto di così orribile, a parte essere sestessa, a parte trascurare me e

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maltrattare chiunque le capitasse a tiro,tranne il suo pubblico, naturalmente.Niente delitti, era tutto nei dettagli. Leracconto solo una cosa, riguarda Celia.Se la ricorda, vero? Era stata lagovernante della sua mamma. L’avevavista nascere. Ha cominciato adandarsene che aveva settant’anni, oggi èdiverso, un settantenne è pieno dienergia, ma lei aveva avuto una vitadurissima, è diventata vecchia in fretta.Troppo vecchia per servire a tavola ecucinare, versava tutto, si scottava, manon la si poteva convincere a smettere,non aveva altro, non sapeva far altro.Non aveva nemmeno mai avuto una casasua, era andata a servizio da ragazzina,non c’era un posto che la aspettasse, non

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aveva più parenti, niente. Guardava miamadre e le chiedeva: ‘Signora, ma chi èquella bambina?’ E mi fissava. Perché labambina ero io. Si dimenticava i fornelliaccesi, la chiamavi e non rispondeva, lacercavi per tutta la casa, cominciavi apreoccuparti, gridavi, e niente. Alla finela trovavi in una stanza di sopra, diquelle chiuse, che si rigirava un oggettoin mano senza capirlo, come farebbe unalieno, e l’alieno era lei, quando entravinemmeno ti guardava, non ti ascoltava.Ma ridevamo, faceva ridere, e non c’eracattiveria, solo dolcezza, affetto.Ridevamo per volerle bene. Poi ungiorno sono tornato da una vacanza enon c’era più. L’ha fatta chiudere in unacasa di riposo a duecento chilometri da

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qui. ‘Starà meglio là,’ ha detto. ‘Bisognaessere molto umili o molto lucidi perinvecchiare bene, o per ammalarsi.Altrimenti si risulta solo patetici.’ Sonoandato a trovarla una volta sola, chevigliacco, eh? Sembravano tutti matti,dei vecchi matti chiusi in uno stanzoneche ripetevano gli stessi gestiall’infinito. Lei non sapeva più chi ero,altro che bambina. Quando è morta, miamadre non è andata al funerale. Io eroall’estero e non mi ha nemmenoavvertito. L’ho saputo solo al ritorno. ‘Ècome aver tagliato un albero,’ ha detto.‘Ti cambia il paesaggio.’ Un albero,capisce? Se chiamiamo alberi lepersone possiamo anche dire che le casesono animali e gli animali frutti.

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Possiamo reinventarci il mondo come cipiace. È proprio questo che fanno gliscrittori per bambini, no? Ma non vabene. Non può andar bene. Non ènormale.”

Anna distoglie lo sguardo,imbarazzata da quel fiotto di confidenza.Tipico di chi parla poco con pochi, emolto ingombrante. Raccoglie le cartesparse e le rassetta picchiettando coibordi sul tavolo perché riprendanol’aspetto neutro di prima, quando eranosolo fiabe per un bambino contento diascoltarle, contento che fossero sue. Èchiaro che non saranno mai soloqualcosa. Ovunque finiscano, siporteranno il peso di tutte quelle cosenon dette. E non possono più essere solo

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per quel bambino che non c’è,immobilizzato in un’infanzia senza fine.Rischiano di fare del male, le storie, seirradiano tanto dolore? O il passaggio inaltre mani le bonifica?

Ha chiaro solo questo: la decisionenon spetta a lei. Passa il nastro sopra esotto, lo incrocia, lo annoda, come perchiudere un regalo, e spinge il fascioverso di lui.

“Cosa fa?” Gregorio si rabbuia.“Credevo di essere stato chiaro. Io nonle voglio. Io non voglio saperne. Vadadall’editore, che le pubblichi pure. Miha scritto, telefonato, mi ha avvicinato alfunerale, è venuto un’altra volta fin quianche se gli avevo detto che era inutile,mia madre aveva bruciato tutto. Ha fatto

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terra bruciata, che bel modo di dire, unsoldato con il lanciafiamme. No: uncolonnello che guarda la battagliadall’alto della collina e quando capiscedi aver perso getta un cerino nell’erbasecca, si aggiusta la divisa, si volta e sene va. Rimane solo questo. Ne facciaquello che vuole.”

“Con che diritto?” chiede Anna.“Il diritto dell’invitato e

dell’estraneo. È mia madre che l’hachiamata nelle nostre vite, no? Non hamai fatto niente per caso. Forse era aquesto che voleva arrivare. Non penseràche sia una coincidenza. Prima Tiziano,poi Umile, poi me.” Un altro mezzosorriso, come di chi sa tutto. “Ma daadesso in poi sta a lei. Le firmo quello

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che vuole, quello che serve, unaliberatoria. Però se le porti via subito,prima che mi venga la tentazione dibuttarle lì.” E getta uno sguardo alcamino acceso dove le fiamme siarricciano nella tranquillità del fuocoche muore.

D’istinto Anna si protende e posa lemani sui fogli, piatte e parallele, come adifenderli. Lui ride. “Ecco, vede? Hannogià trovato la loro paladina. Mia madreaveva sempre ragione.” Si lasciaricadere indietro nella sedia e distoglielo sguardo. Anna non resiste:“Dev’essere stato un bambinoinsopportabile.” Lui le rivolge unosguardo chiuso. Lei pensa che forsequesta volta ha esagerato. Lui sorride

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ancora, quasi una smorfia. “Temo che leinon abbia capito di nuovo. O forseinvece sì. Infatti ha trovato il modo dinon dovermi sopportare granché. Miamadre, dico. I bambini degli altri sonopiù comodi, no? Ti fai adorare perun’ora, scrivi le dediche, e quandocominci a stancarti delle loro manineappiccicose è già ora di venir via tradue ali di applausi. Lo so cosasuccedeva, perché è venuta anche ascuola qui in paese, una volta, nella miaclasse. Non sono molto originali, ibambini. Tornava carica di disegni,lavori fatti, diari interi scritti e illustraticon una cura penosa oppure bigliettinistrappati all’ultimo momento dalquaderno e scarabocchiati di corsa.

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Cara Iride, meno male che ci sei. CaraIride, sei la mia scrittrice preferita, anzi,l’unica. Cara Iride, che cosa succede aCaio e Melissa nella prossima puntata?Ma come fai a essere così brava e adavere sempre tante idee? E poi lefilastrocche, le poesie. Non li scaricavanemmeno dalla macchina, ci pensavaCelia. Signora, dove glieli metto? Tuttele volte. Li appoggi lì, diceva, e alloratoccava a me. Li voglio vedere, saltavosu. E mi ci perdevo: i ritratti dei suoipersonaggi fatti con la pasta colorata, lecode intrecciate dei cavalli, i cani dipelo applicato. I mosaici di riso. Tuttaquella pena che si davano. Leconfessioni: Cara scrittrice, io da grandevorrei essere te. Come si fa? I segreti:

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Mio fratello uccide gli animali piccoli,come faccio a farlo smettere? Dammi unconsiglio, ma subito. Tuo Martino, esotto l’indirizzo. Sono brutti, dicevoall’inizio, perché ero geloso di tuttaquell’attenzione che mi sembravarubasse la sua. Sono orrendi. Che scemi.Senti qui, la stupida, ha chiamato la suabambola come te. Lei non diceva nientee li ammucchiava in un cesto di fianco alcamino. Io ogni tanto tornavo aguardarli, scuotevo via la fuliggine, avolte invece ce la strofinavo sopraapposta con la punta delle dita persporcarli tutti. Provavo una specie dipiccolo male soddisfatto, come quandoti togli una crosta dal ginocchio. Poi unavolta che ero seduto lì a sfogliarli lei è

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arrivata alle mie spalle, ha affondato lebraccia nel cesto, li ha presi e li habuttati nel fuoco. Una bracciata, due, tre.Finché non sono finiti tutti.” Torna aguardare il ceppo ormai grigio che siscioglie in una sequenza di piccolicrolli. “Le sarà capitato di bruciare quelgenere di cose. Le fiamme sonodiventate verdi, di un verde bellissimo,che non esiste in natura.”

La guarda, lei tiene lo sguardo e citrova un velo lucido che la sorprende.“È diventato un rito,” continua lui.“Lasciava che si accumulassero e poiquando erano tanti li gettava tuttiinsieme. E io glielo lasciavo fare. Nonho mai capito se ero contento o se midispiaceva. Non poteva tenere tutto, no?

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Non le sono mai piaciute le cose inutili.Per quanto qui lo spazio non sia maistato un problema.”

La scena è così vivida che Anna lavede. Il sibilo della carta che si chiudesu se stessa. La cenere che si sfiocca eun bambino che guarda rapito.

“Ci sono anche altri scritti,” dice,per cambiare discorso. “Non li hoportati perché il grosso è questo, ed èanche la parte più preziosa, e comunquenon vanno insieme. Sembrano piùpensieri sparsi, appunti per un saggio.”

“Strano. Non ha mai preteso diesserlo. Saggia, dico. Acuta, astuta,questo sì. Ma saggia. Sapeva che nonavrebbe ingannato nessuno. Tranne lei,”e la guarda con intenzione

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“Cosa c’entro io?” dice Anna.“Prima la casa, adesso le carte. È un

piano. Ormai non può più liberarsi dinoi.”

“Perché?”“Se è una domanda seria, non ho

risposte serie da darle. Però so perchéle ha lasciato la torre. Me l’ha detto, ungiorno che si ricordava. Ha messo in filale bambole, erano le mie, lei era unamadre di larghe vedute e voleva chegiocassi senza limiti, così ogni tanto dauno dei suoi giri me ne portava una e ioero contento perché mi avevano sempreattratto quando le vedevo a casa dellebambine, ma non potevo dirlo a nessunoperché allora se giocavi con le bamboleeri finito. Le ho sempre tenute, mi

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piacevano, mi dimostravano che nel suomodo contorto ogni tanto pensava a me,quando era via. Quando ha cominciato aperdersi le ha trasferite in camera sua,una alla volta, di nascosto. Quel giornole ha spogliate, le ha lavate tutte nellavandino con lo shampoo che nonbrucia gli occhi, e mentre le asciugavas’è ricordata, aveva tra le mani unCicciobello nero e l’ha guardato conorrore, come per dire cosa sto facendo?Stai mettendo in ordine i miei giocattoli,mamma, le ho detto, poi gliel’ho tolto dimano, lei non voleva lasciarlo, e siamorimasti lì a guardarci con questobambolotto in mezzo. Quando era cosìriuscivo quasi a dimenticarmi di prima,di com’era stata. Mi sembrava una

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versione un po’ più alta ed elegante diCelia. Ma lei detestava farsisorprendere smarrita, soprattutto perchénon lo era ancora, non abbastanza da nonsaperlo. È stato il periodo più difficile,se capisce cosa intendo. Allora mi hafissato col suo solito sguardo, losguardo lungo, lo chiamavo da piccolo,mamma non farmi lo sguardo lungo, edentro c’era di tutto: disprezzo, pena, ecredo che fossero per sé, non per me, maanche una scintilla di rivincita, e hadetto: ‘La portineria la lascio allascribacchina.’ Era così che la chiamava,sì, lei, lei. La scribacchina, una che nonsa cosa vuol fare nella vita, e così fa ditutto. La portineria la lascio allascribacchina. ‘E perché?’ le ho chiesto

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io. Pensavo che stesse vaneggiando,però ero curioso. ‘Perché mi scrivevasempre con la penna stilografica e lacarta da lettere,’ ha detto. ‘Perché avevarispetto della parola scritta.’ Ecco,adesso lo sa. La sua casa l’ha vinta conl’inchiostro. Com’è che si dice ininglese? Poetic justice. Non so se èproprio questo che intendono, peròsuona bene. Le sta bene.”

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2

Le sta bene. Certo che mi sta bene: ècasa mia, mi sta addosso come un belvestito, me la godo. Nelle case di cittàci si ferma così poco, tutto quello sforzodi allestimento, denaro, tempo,aspirazioni per una tana abitata nelsonno. Mi sta bene come una punizione,anche: me l’avete data con tutto il caricodi quello che è stata, le sue persone, isuoi fantasmi. Me la sono presa

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com’era, e non posso mandarli via, nonio. Ho fatto quello che dovevo, quelloche potevo. A posto.

Quanto alle storie, dipende da lei, haripetuto Gregorio Bandini quando sisono salutati, ne faccia quello che vuole.Anna può anche gettare le sue esche dalontano, una mail, una telefonata, ma poidovrà tornare in città per parlare,discutere, il rito degli appuntamenti, leattese, e solo pensarlo le costa. Fermarsidue, tre giorni. Le sembra un tale spreco,con tutto quello che c’è da fare qui.Quanto tempo chiede una casa, una casavera, un fuori che ti riguarda quanto ildentro, non se l’era proprio figurato, leiche è sempre vissuta in appartamento eha sempre passato le vacanze in albergo.

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Adesso le capisce, tutte quelle donnesulla porta nelle loro vestagliettedimesse che spazzano selciati con lacostanza vana di penelopi. E le viene inmente la ragazzina vestita di rosso vistalungo una strada di Dar es Salaam cheravviava la polvere di un angolo dimarciapiede con un ciuffo di saggina, oqualcosa del genere, tenuto stretto inmano, come se il manico fosse lei, anzi,il suo braccio: la cura, la dedizione aquel lavoro assolutamente inutile, iltempo speso per avere in cambio lospazio. Sta diventando anche lei unacustode del decoro: tenere a posto ciòche si ha. Tenerlo bene, tenerci. Lamanutenzione: quello che fanno le maniper portare ordine nel disordine,

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preservarlo e perpetuarlo. E le montamoltiplicata per mille la furia perl’uomo distratto che butta via unmozzicone di sigaretta, per l’idiota checaccia fuori dal finestrino il fazzoletto dicarta appallottolato, la bottiglietta diplastica vuota, che finirà dopo un brevevolo sul suo ciglio della sua strada;perché il mondo con quelle macchie saràun po’ più brutto, di una bruttezza inutile.Il tipo di accumulo che la offende anchesugli svincoli delle autostrade, conl’immondizia impigliata nei rovi chepure riescono a far fiori, e frutti, equando sei in coda immobile a passod’uomo le contempli, le more, lucide,perfette, e ti viene rabbia perché tantaostinata bellezza meriterebbe di essere

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riconosciuta, o quanto meno di restarepulita. Quando si sente così, con tuttoquell’odio dentro, lo capisce che non cipoteva più stare, a girare attorno aglisvincoli ridotti a discariche solo perchénon sono di nessuno; qui almeno ognicosa è di qualcuno, anche troppo, c’è unsenso di possesso esagerato che forse èla sola via alla conservazione di ciò chevale, cioè quello che si ha, fosse solol’orto, il balcone, la striscia di terrabattuta davanti a casa. Qualcunoriderebbe di lei, forse lo fa, piano, dalposto in cui si trova: sua madre chediceva sempre a me piace il mareperché non c’è niente da fare, è già tuttolì, io non li capisco, quelli che amanotanto la campagna, e sei lì che non smetti

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mai di lavorare, e l’orto, e il giardino, eil portico, e l’aia, e davanti, e dietro; almare invece non c’è niente da fare, bastaun buco per dormire, quello che ti serveè tutto pronto, tutto già bello com’è: laspiaggia, gli scogli. Vero, tato?

E lui, il tato, quel suo padreconfinato nella dolcezza un po’ ovviadel nomignolo, annuiva mite come a direè un po’ matta, lo so, ma mi sonoabituato, cosa vuoi, è fatta così. Lapazienza dell’amore, o come sichiamava la cosa che li univa, come sichiama quella cosa che cambia neltempo fino a non assomigliarsi più, emeno male, perché è proprio quando noncambia che si spezza. L’amore vecchio:chissà se le toccherà, anzi, se sarà

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capace di farlo, per sé e per un altro,perché non è questione di aspettare eprendere, è una cosa da costruire. Chepoi non se lo sono nemmeno goduto, illoro mare pronto all’uso: il tempo dellapensione e lui si è ammalato ed è morto,e lei dietro in meno di un anno. Li haseppelliti là, nel paese dove finalmentedopo una vita di andirivieni estiviavevano preso la residenza e tutto,cittadini a pieno diritto di quel belcimitero alto sul mondo, semprepercorso dal vento, dove puòimmaginare che stiano sempre comepiaceva a loro, sopra una roccia, aprendersi il bello che c’è.

Forse non capirebbero, ma sente cheapprezzerebbero quella sua intensità,

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quell’affetto, l’amore rispettoso per idettagli, le piccole cose che ha volutorestassero intatte e che, adesso lo sa,appartengono alla storia della casaprima di lei, alle sue persone: i graffilasciati nell’intonaco color ruggine cheincornicia la porta sul retro, e sonodisegni di lettere, iniziali, adesso che sale riconosce tutte; o l’azzurro madonnausato per dipingere il bordo internodelle finestre, come una perennepreghiera in punta di mondo, un colorecosì tenace che sembra che la pietral’abbia assorbito. Lasciare tutto questoanche per pochi giorni le stringe ilcuore, come se rischiasse di nontrovarlo al ritorno. Dovrebbe fidarsi dipiù.

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3

“Ti ci vorrebbe un cane.” L’avevadetto Nena prima di andar via, era lasera dell’ultimo giorno ed è vero chequando scende il buio, e per tutta lanotte, di lì non passa nessuno. È veroanche che tutti in campagna hanno uncane. Sono ovunque, nei pratini davantialle villette ordinate che fiancheggianola provinciale guardando gli scatolonipiatti della zona industriale appoggiati

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senza pensiero tra le vigne. Il buonsensosembra aver fatto strage dei nani dagiardino, dei barbecue formato pizzeria,dei lampioni a fungo, dei gazebiinfestanti: il denaro e la cura sono finitisemmai nei quadrupedi di razza cheinseguono le siepi saltando sull’erbarasa – bulldog e bouledogue, maltesiabbacinanti, nervosissimi pinscher echihuahua tanto piccoli che rischiano difinire inghiottiti nei buchi delle talpe.Ma quando ti lasci alle spalle il vetrameoffensivo del centro commerciale e corriin auto sull’orlo dei campi, lungo lastrada disegnata da una mano dibambino che taglia in due la piana e poisale diritta verso la montagna, vedi inlontananza le due sagome di sempre, la

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stessa variazione sul tema di uomo ecane tra i filari e le zolle, e lo sai senzadoverti avvicinare che è il bastardo cheha la meglio. Un bel cane nato in unacorte da incroci misteriosi, grosso, alto,sempre sorridente. Così lo vorrebbe lei.Ma non è ancora pronta. A chi lo lasciaquando deve tornare in città? Perché lasta chiamando, la città, coi suoi conti insospeso, le partite da chiudere, e adessoanche le storie nella scatola: scadenze ealibi, al solito. E Anna sa che dovràrispondere, anche se è l’ultima cosa chevorrebbe fare.

Mi ci vorrebbe un cane, se lo ripeteuna sera che va a camminare dopo cenasenza pensare a portarsi la torcia, oalmeno il telefonino: ma le piace uscire

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con l’aria di chi non ha bisogno di nientee può separarsi dal resto del mondoalmeno per un po’. Però la notte èopaca, di giorno c’erano le nuvole evuol dire che adesso non c’è riverberodi stelle o luna sopra il bosco. Se avesseun cane con sé proverebbe meno pauraper quello che intravvede farsi avantipiù scuro del buio, e quando dalla stradaun lampo di luce di fari arriva fin lìperforando il fogliame i suoi occhi sonodischetti roventi, solo per un attimo. Ègrosso, con molto pelo, un cane di razzacon qualcosa di meno o forse di più, hal’idea di averlo già visto ma nonsaprebbe dove o con chi. L’idea di uncane di notte, ecco cos’è. E adesso chesi avvicina Anna cerca di ricordare in

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fretta tutte le regole, non muoversi discatto, non scappare, non mostrarepaura. Come fai a non mostrarla se laprovi? La paura è qualcosa che si sente,ha un odore. Viene avanti strano,pianissimo, con una specie di oscillareche gli gonfia la schiena e tutto il manto,la testa un po’ storta. Si incrociano, leiormai quasi ferma nel timore di darsi avedere, ma lui la ignora, non voltanemmeno il muso, va avanti col suopasso che ora, svanita l’apprensione, sirivela per quello che è, solo lento didolore. Un cane che va a morire. Èquello che vogliono tutti gli animali allafine, no? Che li si lasci in pace. Annacontinua a scendere verso casa e ognitanto si volta a cercare la sagoma più in

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alto sul sentiero, ma il buio se l’è giàpreso, non si vede e non si sente. Nonc’è più.

Due giorni dopo, quando lo incrociain pieno giorno, lei in auto di ritorno daun giro di spese, lui sul ciglio dellastrada, decisamente vivo, tranquillo nelfruscio delle macchine che gli passanomolto vicine, si sente una sciocca: tuttiquesti segni. Dev’essere un residuodall’infanzia, quando ogni cosa chesuccedeva o non succedeva portava unsenso e andava interpretata secondo unmanuale complesso di regole daaggiustare di volta in volta secondonecessità: se calpesti le righe dellepiastrelle, se non le calpesti, se trovi un

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quadrifoglio, se la tua amica ne trova tree tu nessuno, se vedi due scie di aereiincrociate, se la coccinella che haisull’indice rimane o vola. Se incontri uncane che va a morire e poi non è morto,se quello è solo il suo modo penoso dimuoversi da cane vecchio e non unmesto addio, se negli occhi non avevaossidiana e simboli ma solo il brilliocangiante della retina invasa dalla luce.Se sta bene così e magari starà ancoracosì per un pezzo, un anno, due, anni dicane che per noi non significano nulla,l’estendersi e il contrarsi del tempodato, sempre troppo poco, semprepreteso come un diritto. Per un animalela vita è più un caso, ma soltanto perchénon sta a pensarci, è troppo occupato a

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viverla.Lo rivede di nuovo lungo la strada

bianca in costa e questa volta non è dasolo, e il padrone, o almeno l’uomo chegli cammina abbastanza vicino dagiustificare la deduzione, è qualcuno cheAnna conosce: uno degli ospiti regolaridi Dan, uno dei pochi locali, un altro chefa il vino. Un contadino. Cerca il suonome nella memoria: Stefano qualcosa.Stefano. Gli sorride avvicinandosi, luirallenta, si fermano. Il cane continua perla sua strada.

“Va sempre in giro da solo? Saràpericoloso. Per lui, dico.”

“Da piccolo si è rotto una zampa inun incidente, per quello cammina strano.Ma almeno ha imparato a stare lontano

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dalle macchine, e io i cani non li legomai. Poi qui lo conoscono tutti. È a casasua dappertutto.”

“È vecchio.”“È vecchio, ma sta bene.” Come se

non volesse sentirselo ricordare.Tacciono, forse non hanno molto

altro da dirsi. Nel silenzio lei lo guardabene, da vicino, un volto a prima vistapassato nell’indifferenza che solo seguardato piano rivela i suoi pregi. Occhid’ambra o miele di castagno sotto ciglialunghe e ricurve, esaltati dall’azzurrodella camicia, preziosi nel voltoscartavetrato dalla vita all’aperto, e senon è più la durezza di un tempo a fartivecchio da giovane allora dev’esserealtro, quel calore che brucia lento dietro

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le pupille: la passione per un lavoro cheuna volta si ereditava e adesso sisceglie. O forse è soltanto il riverberodel sole. Le sorride, un po’ inimbarazzo, e lei si vede da fuori comegli deve apparire, una donna matura – aquarant’anni sarà questo, per lui che neha meno di trenta –, estranea e forseinteressante, niente lasciato al caso, icapelli ramati appena mossi dall’aria, iltrucco perfettamente invisibile, i jeans,la blusa a margherite sfatte. Lei gliguarda i denti molto bianchi, dentimoderni in una faccia senza tempo.Restano così troppo a lungo e questo ègià qualcosa, e Anna si gusta il momentoperché sa che è tutto quello che ci sarà.Veder passare la bellezza e assaporarla,

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anche se non è più per te, proprio perquello. Le piacerebbe tendere la mano eprendere; capire se il gioco funzionaancora. Se è ancora capace di giocarlo.È lì, ferma e silenziosa, ad ascoltare.Prendere quello che viene. Allora?

Allora niente.“Sei stata da Dan?”“No. Mi sembra molto occupato. Per

voi è il momento più faticoso dell’anno,vero?” Certo che è vero. E allora perchései in giro a passeggiare col cane comeun ragazzo di città?

“Non si può sempre lavorare.” Unaltro sorriso lancinante. “E tu?”

Che razza di domanda. Anna viriconosce un impaccio che le piace. “Io?Il solito,” e agita una mano a dissipare

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come fossero sciocchezze la sostanzadei suoi giorni: le mail, la scrittura, gliscambi, qualche telefonata. Niente a chevedere col sole che preme sul collo e lemani spaccate. “Se una sera invito unpo’ di gente vieni?” È arrivato ilmomento di ricambiare le gentilezzegeneriche e vedere come va, chi sidilegua e chi resta.

“Volentieri. Ti porto il mio chiarettocon le bolle. È buono.” Alza una manoin segno di saluto e continua acamminare. Il cane adesso si è fermatoad aspettarlo e si volta in cima allastrada, appena prima della curva, primadi sparire tra gli alberi.

Buono e bello, bello e buono, cometanto tempo fa. Andassero sempre

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insieme, il mondo sarebbe così ordinato,così comprensibile.

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4

Non è stata da Dan, le sembra didare fastidio arrivando a sorpresa dauno che sta sempre facendo qualcosa,però ha visto Gabi. La vede spesso inquesti giorni, lavora proprio sopra casasua, una macchia chiara impigliata nellarete di cavi e tiranti che è una vignaprima che le foglie si prendano tutto. Lepiace guardarla da lontano, la cadenzadei movimenti sempre uguali, un passo

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di lato e tutto daccapo, fili, cesoie,piegare, fermare, forse tagliare. Quellanaturalezza di gesti incatenati,invidiabile. Ci dev’essere del confortonel fare la stessa cosa tante volte, se saiche è quella giusta.

Ha visto anche le bambine, le vedesempre, ora leggermente colorite, legambette rigate di graffi, le unghie con laloro lista scura, fili d’erba sulla schienae qualche macchia verde, o marrone, quae là sopra i vestiti a fiorellini. Almenosembrano bambine e basta, nienteleggings e magliette luminescenti e pinzeda adulte nane nei capelli. Idee dibambine, come il cane vecchio che va anon morire è un’idea di cane: sagome incontroluce sulla collina, da guardare in

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lontananza come figurine di un diorama.La sua campagna è fatta tutta così, dipezzi scelti uno per uno e poi disposti inuna parvenza di logica con eccezioni dapresepe, il contadino e la moglie, l’altrocontadino, il muratore, e a volte i gigantisono in lontananza, come lo sceicco, chenon si vede da settimane ma pure c’è, e ipiccoli in primo piano per non volerpassare inosservati.

La moglie del contadino è didimensioni e proporzioni medie, bella,sicura, e non ha bisogno di agitarsi perfarsi notare. Qualche volta Anna laraggiunge proprio per disturbarla.

“Non ti ho sentito. Ho sempre i librinelle orecchie,” dice Gabi con unsorriso, sfilandosi l’auricolare che

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ricade bianco come una strana collanasullo spicchio di pelle maculata tra leclavicole.

“Cos’è?” le chiede Anna.“Lila.”Anna fa un cenno con la testa. Capita

spesso che Gabi ascolti la versioneaudio di romanzi che anche lei ha letto,o sta leggendo. È un caso felice cheinnesca strane conversazioni non troppoconnesse, quel bel saltare di chis’intende e non ha bisogno di dirselo. Dicosa parlate tutte le volte? ha chiestouna delle bimbe un giorno, seccataperché nessuna delle due le dava retta.Ha insistito: dai, tanto lo so che è lavostra lingua segreta.

Le bambine ci sono sempre,

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sfarfallano ai margini del campo visivocome delicate interferenze. Adesso peresempio corrono disegnate sul crinaledella collina. Quando la madre lavorapreferiscono tenerla d’occhio. Gli adultisono così inaffidabili.

Non discutono di MarilynneRobinson, adesso. Gabi le chiede se èmai stata al mercato del Borghetto, lofanno di mercoledì e c’è di tutto,antiquariato troppo caro ma anche solocose vecchie da cui ogni tanto sbucaqualche sorpresa. “Ho comprato quattrosedie francesi di quelle da bistrot, sai.Un arancio” – cerca la parola – “spento.Pensavo di tenerle così come sono. Peril tavolo fuori, da una parte la pancadall’altra quelle. Che dici?” Dan ha

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sempre la testa piena di progetti e da uncedro rosso abbattuto ha fatto tagliarelunghe assi unite in un piano dai bordiirregolari che in qualunque altro posto emodo risulterebbe malamente pittoresco,ma lì, con semplici rettangoli di ferro afare da gambe e una finitura opaca, èperfetto. Almeno l’albero non se n’èandato veramente.

“Vengo a vederle quando vuoi. Tiporto una cosa.” Nel primo passaggiomilanese per le storie nella scatola èandata a Orticola e d’impulso hacomprato due caprifogli di un rosaacceso e delicato insieme, due perchéuno solo le sembrava poco, ma per leisono troppi: il suo l’ha già piantato allabase del contrafforte, l’altro soffoca nel

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vaso piccolissimo e bisogna che trovipresto la sua casa.

“Ti sta bene l’azzurro,” le dice Gabifissando la camicia a margherite rade.

“È nuova,” dice Anna, quasi in tonodi scusa.

“A Milano c’è tutto, vero?”“Tutto non saprei.”“Non so se mi manca. Che ci sia

tutto, dico. Finisce che lo vuoi. Quiinvece non c’è niente. I negozi del centrocommerciale sono tutti uguali. Finisceche non vuoi niente.”

Si sorridono. Questa cosa tra loro: èancora troppo presto perché abbia unnome. O forse è più semplice, o ci siriconosce o no, e basta. Non c’è fretta.

“Ti lascio lavorare,” dice Anna.

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“Ti prego, no,” dice Gabi. Almaarriva di corsa, abbraccia le gambedella madre facendola barcollare. Gabile passa una mano nei capelli chesembrano più scuri incollati alle tempie,li scosta. La bambina guarda Anna disotto in su.

“Dov’è tua sorella?”“Si è persa nel bosco,” risponde

Alma, tranquilla.“Si ritroverà,” dice Gabi. Stacca da

sé la figlia – fa troppo caldo per starsiaddosso – e riprende a lavorare. Annaridiscende. Tra le foglie ormai tutteaperte del platano sbuca il buffo puntalebianco che raduna le quattro falde delsuo tetto. Sente passi alle spalle. Non sivolta, i passi continuano. Scosta appena

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il braccio destro dal fianco e allarga ledita della mano. Dita piccole e moltocalde si allacciano alle sue. Si può fareun esperimento.

L’ha scelta a caso, la storia, ma iltolle et lege – dovrebbe saperlo –funziona sempre, il caso non c’entra mai.Il tempo di leggere il titolo – Il bambinoche non si vedeva – e Alma è già inascolto, seduta per terra, le gambeincrociate e la testa puntellata dallemani: troppo tardi per cercarne un’altra,per tornare indietro.

Nessuno sa da quale dolore nasconole storie.

C’era un bambino che non sivedeva, nel senso che vedeva gli altri,

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le cose, tutto, ma se stesso no. Seandava davanti allo specchio vedevasolo lo specchio. Se si guardava lemani vedeva quello che c’era sotto.Idem per i piedi e il resto. La suamamma però lo sapeva che c’era.Quindi non era un bambinotrasparente. Occupava un posto nelmondo.

E allora come mai non si vedeva?Lui voleva saperlo. “Come mai non

mi vedo?” chiese un giorno questobambino alla sua mamma.

“Perché sei un segreto,” disse lasua mamma.

“Ma io non volevo essere unsegreto,” disse il bambino. “Io volevoesserci.”

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“Ma ci sei,” disse la sua mamma.“Sì, però solo per te,” disse il

bambino.“E non ti basta?”Il bambino non disse niente. Forse

la risposta era no e non voleva dare undispiacere alla sua mamma dicendolecosì.

Un giorno andò al parco e sisedette su una panchina. Dopo un po’passò una bambina stanca che sisedette sulla stessa panchina, propriosopra di lui.

“Ahia,” disse lui, molto piano.La bambina si guardò intorno. “Chi

sei?”La domanda giusta era dove sei, ma

a volte non è facile fare le domande

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giuste.“Sono qui,” disse il bambino,

dando la risposta giusta alla domandasbagliata. “Qui sotto di te.”

“Non lo sapevo,” disse la bambina,saltando in piedi come se si fossepunta.

“Solo perché non sapevi che c’eronon vuol dire che non c’ero,” disse ilbambino.

La bambina guardò bene e poi pianpiano sorrise. “Infatti adesso ti vedo,”disse.

“Ma io no,” disse il bambino.“Non mi vedi? Sono qui,” disse la

bambina agitando le mani.“No. Te ti vedo. È me che non

vedo,” disse il bambino.

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La bambina disse: “E che bisognoc’è di vedersi? L’importante è esserci.”

Il bambino ci pensò un po’ e poidecise che la bambina aveva ragione.

Quella bambina diventò sua amica.

E adesso la domanda inutile enecessaria.

“Ti è piaciuta?”Alma la guarda dal basso,

imperturbabile. “Un’altra,” dice. Andràpreso come un sì.

Questa volta Anna sceglie con piùattenzione una fiaba innocua, forse. Labambina che aveva sbagliato mamma.

Una bambina che giocava col mareera così impegnata a guardarsi i piedi

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mezzi cancellati dalla sabbia edall’acqua che senza smettere diguardarseli si avvicinò a una signorache non era la sua mamma e le diede lamano.

La signora le prese la mano e ledisse “Andiamo” e la bambina ubbidìsempre guardandosi i piedi come fannole bambine che giocano col mare.

La signora che non era sua mammae la bambina che non era sua figlia siincamminarono verso il faro, che eraun bel posto dove andare essendobambini perché era in mezzo alle roccee tra le rocce c’erano cose moltointeressanti, come granchi, legnettiavanzati dai naufragi, stelle marine ecose del genere. Solo quando furono là

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alla bambina venne il dubbio chequella mano non fosse della suamamma perché la sua mamma nonvoleva mai che lei andasse sulle rocce,aveva paura che scivolasse o si facessemale o venisse morsicata da un topo.Allora finalmente guardò in su e siaccorse che la signora attaccata allamano non era la sua mamma.

“Tu non sei la mia mamma,” disse,per cominciare.

“No,” disse la signora. “E tu nonsei la mia bambina.”

“Dove l’hai lasciata?” chiese labambina.

“Forse ha sbagliato mamma comete,” disse la signora.

“Non sarebbe meglio fare cambio e

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almeno tutto torna come prima?” dissela bambina, che aveva moltobuonsenso.

“Ma alla fine è lo stesso, no?”disse la signora, che era moltotranquilla. “Una mamma, unabambina.”

“Devo pensarci,” disse la bambina.Siccome intanto erano arrivate al

faro fece quello che non faceva mai,tipo arrampicarsi sugli scogli,accarezzare le alghe che erano mollicome capelli bagnati e infilare la manodove l’acqua era tanto buia che non sisapeva che cosa ci fosse dentro. Nonscivolò, non si fece male, non fumorsicata da nessun topo e trovò ancheuna stella marina già morta, così non

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le dispiaceva di portarsela via, e lamise nel secchiello che tenevanell’altra mano, quella non presa dallamamma sbagliata. Poi cominciò adavere un po’ freddo e le mani a righe, eallora scese dagli scogli e andò dallasignora e le disse: “Ci ho pensato. Tispiace riportarmi indietro? È meglio seuna mamma ha la sua bambina e unabambina ha la sua mamma. È piùordinato.”

“E se io non voglio?” disse lasignora.

“Allora scappo,” disse la bambina.“Magari alla tua mamma piace la

mia bambina,” disse la signora.“Magari no,” disse la bambina.

“Alla mia mamma piaccio io.”

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La signora sospirò e provò ariprendere la bambina per mano, maquesta volta la bambina non volle.Tornarono indietro senza tenersi permano fino al punto in cui la bambinaaveva sbagliato mamma e lì trovaronola bambina sbagliata che stava facendoun capriccio e la mamma giusta che laguardava senza sapere cosa fare,perché non c’era abituata.

“Io non faccio i capricci,” disse labambina giusta, e prese la mano giustadella sua mamma giusta. Insieme sivoltarono e andarono verso casamentre la mamma sbagliata siriprendeva la sua bambina sbagliata,capriccio e tutto.

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“Furba,” è il commento di Alma.“Ha fatto tutto quello che voleva, haanche trovato una stella marina, e poi siè ripresa la sua mamma quella vera. Tul’hai mai trovata una stella marina?”

“No.”“Nemmeno io. Nel lago non ci sono.

Sono così marine.” Alma sbuffa. Fissa ilfascio di fogli. “Ce n’è ancora. Me neleggi un’altra?”

“Non ti ha fatto paura?” chiedeAnna.

“E perché?”“Quella bambina si era persa.”“Ma poi si è ritrovata, no? Come

mia sorella, come me. E comunque lestorie che finiscono non fanno paura. Mene leggi un’altra?”

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“Non credo.”“Allora vado a casa.” Alma si

rimette in piedi con un solo movimentoelastico. È già alla porta, un passo fuori,quando Anna le rifà la domanda: “Ti èpiaciuta?”

Alma gira la testa senza smettere diandarsene e risponde: “Perché lo vuoisapere? La mia, di mamma, non me lochiede mai.”

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5

Chi l’ha detto che certi sguardi diuomo ti spogliano? Ti vestono, semmai,ti ricoprono di una lenta pece che siserra alla maniera di una guaina, oppureti frusciano addosso come certe stoffeche sembrano fatte per posarsi sullapelle, la seta fresca e calda insieme,l’incarto ruvido del lino. Il chiaretto conle bolle è buono davvero, Stefanol’aveva promesso e gliene ha portate

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due casse in anticipo con un saccoenorme di ghiaccio da rovesciare in unmastello. È bello quel dispiegamento dibottiglie – troppe per la serata, c’è daaugurarsi, ma fanno festa, tutte insieme –immerse nell’acqua croccante di cubetti.Le lucine brillano appese al pergolato,al posto delle foglie di vite che perquest’anno sono ancora poche, ma colbuio non fa una gran differenza. Sotto, iltavolo a cavalletti è preparato in modosemplice, i piatti in una pila e i vassoi ele ciotole del cibo, ma i tovaglioli sonodi stoffa e le forchette d’argento. E ibicchieri di vetro, s’intende. Nessunoqui berrebbe vino dalla plastica. Lepanche di ferro verde, due poltroneportate fuori dal salotto, grossi cuscini a

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righe posati su stuoie: è tutto piccolo maaccurato, le piace l’effetto della suaprima serata. Fa un fresco da golfino manon è umido, e sono arrivati tutti all’orapiù giusta, quando il cielo è ancoramolto azzurro ai bordi, prima che i voltidiventino macchie.

Vestita da sguardi di uomo, e certo iprimi due bicchieri a pancia vuotaaiutano, Anna si muove, offre, sorride,accompagna. Non è mai stata bravanell’andirivieni dell’ospite ma lesembra che qui sia tutto semplice: si stainsieme, si beve, si assaggia qualcosa, siparla. Niente musica, bastano i grilli e leprime cicale. Quando tutti sono accolti edissetati può anche fare due passiindietro. Le finestre della casa sono

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aperte, gli spicchi di persiane come alidi falena azzurra; dentro ha lasciatoqualche luce bassa accesa, e l’effetto ècaldo, accogliente.

“I fantasmi saranno contenti,” diceAnna, quasi fra sé.

“Come hai detto?” La guarda conintenzione, il tu gli è scivolato apposta,ne è sicura. Glielo sta dicendo, tu, tu.Sono di Hamid gli occhi che la vestonoda quando è arrivato, stropicciandolepiano la pelle scoperta, gli avambracci,il collo. Le viene in mente come per unriflesso uno degli endecasillabidell’uomo degli endecasillabi, earrossisce, ed è contenta che ci sia buioperché non sa più se avvampa per ilpensiero o per questo sguardo, questo

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odore di uomo troppo vicino che passain una stanza buia a riaccendere lecandele una per una. Tra le tue gambericomincia il mondo.

“Niente. Dicevo dei fantasmi,”risponde Anna, non subito. “Me ne aveviparlato tu per primo, ti ricordi?” Si ètenuta il tu, e lo restituisce.

“La prima volta.” Si ricorda.“Allora li hai riconosciuti.”

“Ci ho messo un po’, però sì.”“E adesso non hai paura.”Sta cambiando discorso.“Non più.” Ha cambiato discorso

anche lei.È in quel momento che li raggiunge

Stefano. Si salutano, si squadrano, labellezza ovvia del giovane contro la

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bellezza accurata del non giovane. SeAnna potesse scegliere, nonsceglierebbe.

“Allora ti piace,” Stefano alza ilbicchiere velato di rosa.

“Molto,” dice lei. “È perfetto perqueste sere leggere.” Sposta a mezz’ariail suo, di bicchiere, per abbracciare colgesto la scena, e incrocia lo sguardo diTiziano – da lontano, e nella semiluce, èvigile, quasi protettivo. Non volevavenire, non è la mia gente, ha detto, peròsta parlando con Gabi e Jona, ildisegnatore di scarpe brutte. Parla e latiene d’occhio. Poi, troppo educato percontinuare a sorvegliarla, si rivolge tuttoa Gabi, escludendo di mezza spalla ildisegnatore di scarpe che è un entusiasta

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noioso. Lei si è distratta per poi tornarepiù consapevole dei due uomini che laincalzano in silenzio solo con la loropresenza.

“Scusate, sono in ritardo.” Noncredeva che sarebbe venuto, ormai nonci pensava più. Gregorio Bandini le dàla mano, poi saluta gli altri che loguardano un po’ sorpresi, un giro velocedi cenni e strette. Posa sul tavolo unaterrina bianca che trabocca di ciliegie.“Sono ancora tiepide di sole, le hannoraccolte oggi. Le prime.” Si fa avantiCarola, l’albergatrice, e lo prendesottobraccio. Qualcuno gli mette in manoun bicchiere, lui ne beve metà in unsorso, poi sembra ricordarsi le regole elo abbassa, guardandosi intorno. Non lo

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fissano più, forse per garbo sono tornatialle loro chiacchiere. Dan gli siavvicina, gli parla a bassa voce, comecontinuando un discorso cominciatotempo prima. Anna può osservarlo bene,una terza bellezza in mostra, anchetroppo per una volta sola. Le guance unpo’ scavate, la testa rasata perfetta, lelabbra piene. Carola le passa accantocercando una ciotola dove gettare igambi e i noccioli di ciliegia, poi tornaveloce verso la preda. “Complimenti,”le dice, ed è seria. “L’hai fatto usciredalla tana. Non sembra nemmeno tantoorso.”

E anche se non si parla di niente,come succede quando si è in molti, laserata è un successo. “Sei brava a tenere

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insieme la gente, perché ascolti,” le diràTiziano qualche giorno dopo in una dellesue sortite. “Ma io lo sapevo già.”

Invece Hamid non ha commenti dafare. Lascia che tutti si congedino evadano via, chi in auto, chi a piedi.Stefano per ultimo, all’improvviso cosìserio. La macchia di luce nel bosco –sono Gabi e Dan che risalgono la lorostrada – avanza a scatti e poi sparisce,mangiata dal buio. Lui resta, e non c’èmolto da dire, è tutto lì. La aiuta araccogliere i piatti, i bicchieri, aspostare le cose dentro, venissero lefurie nella notte. C’è pazienza in queigesti di un quotidiano che non esiste.Nessuna fretta. Quello che devesuccedere succederà, è già successo,

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forse. Anna non sa. Si deve ricordaretutto. Si ricorda bene.

“Sei brava a tenere insieme la gente,perché ascolti. Ma io lo sapevo già.”

Tiziano è sceso dal pickup ma halasciato aperta la portiera. “Un salutoveloce, sto via qualche giorno. Domaniandiamo dalla Signora Nera.”

“Detto così suona un po’spaventoso,” scherza Anna, senza saperese può. Lui continua: “Sono un po’ più dimille chilometri. Partiamo la sera, siviaggia di notte. Si arriva per la primamessa, colazione, poi visita alleveggenti. Pranzo al sacco, pomeriggiolibero, i vespri, una passeggiata. Sidorme, si va a messa, si riparte.”

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Le ha già raccontato dei suoipellegrinaggi, dei pullman che metteinsieme, il suo privato servizio santitàsenza scopo di lucro. Un sacco di lavoroper portar via cinquanta persone chehanno solo da ridire. Ma dopo torniamotutti in pace, le ha spiegato. Funziona,almeno il tempo del viaggio.

Adesso vuole parlare d’altro.“Quell’uomo,” le dice.

“Chi?” finge Anna. Ecco perché èpassato. Pensarci la fa sorridere.

“Lo sai, chi e cosa e come. Nonfarmelo dire. Non sono bravo coi nomi,io. Non farmi dire da solo che non sonofatti miei. Lo so. Attenta. È che ti staiappena aggiustando.” La guarda disottecchi. “Se posso.”

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Anna vorrebbe dirgli di no, che nonpuò dire e non poteva nemmenoalludere, che non sono fatti suoi,appunto, che non sa niente. Ma tace. Hafatto fin troppo per lei, non può tenerlosempre fuori. La gente fa così: entra, avolte senza nemmeno chiedere.

“Ti dico una preghiera. Se ne hasempre bisogno.” Tiziano risale e se neva.

Anna non è sicura che la SignoraNera di Wlatovice, o dov’è cheandranno questa volta varcando quattroconfini nella notte come clandestinidella pietà, abbia tempo per guardaregiù dalle sue parti. In fondo non c’èniente che non vada. Nessuno ha fattovoti. Il suo cuore non è un arto da far

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ricrescere. È più un pugno che si stringe.Già sentirlo al suo posto è un sollievo.Se poi farà male, vorrà dire che si èvivi. Forse il cuore ci resta, forse ilcuore. Quasimodo: l’uomo degliendecasillabi se l’era preso senza dirlo.Il verso, e il cuore. Non erano quelli ipatti. Il problema è che non ce n’erano.Gli amori segreti non fanno prigionieri.

Comunque non è stata attenta, enemmeno Hamid. Si sono presi senzarisparmiarsi, più presi che dati, né goffiné gentili. Definire le cose pernegazioni, chissà cosa vorrà dire. Nonhanno parlato. Dopo sono rimasti agodersi la bella notte fasciati nellelenzuola e lui ha anche dormito. Hariaperto gli occhi che il cielo

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cominciava a schiarire e si capiva cheera perso e contrariato di esserlo. “Nonsapevo più dov’ero,” ha detto, soloquesto. Poi si è rivestito, le ha dato unbacio quieto, ed è andato via.

A volte si ha bisogno di qualcosaanche se si sa che non è necessario.

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6

“Me le fai rileggere?”Al solito, Gregorio si presenta così,

niente preamboli, prendendo spazio. Unasicurezza genetica che va insieme aquella delle ossa, degli zigomi alti chelo renderanno per sempre bellononostante. Anna pensa che è fatto peravere il mondo ai suoi piedi e non lo sa,perché dietro, a un passo, c’è sempre ilbambino a parte che gli si appende alla

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mano e lo trattiene. La mia mamma nonviene mai da me. Le sembra di sentirlo,piccolo e serio, scuro. È per quello,forse, che non riesce ad arrabbiarsi conlui. Lei che di bambini non sa niente.“Certo.” Anna lascia la zappetta, sirialza, si stropiccia i ginocchi sporchi elascia lì le aquilegie snudate dai vasi,tremanti, pronte per essere infilate nellaterra vera. Dentro, si lava le mani alsecchiaio della cucina e poi sale aprendere le fiabe. Quando scende se loritrova davanti, un’ombra scivolata nellapenombra. “Ti ho spaventato? Scusa.”

È la prima volta che lo sente gentile,quasi timido. Ma non è lei a fargliquell’effetto. Sono le storie nellascatola. Leggere fra le righe è un

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esercizio pericoloso. Non glielo dice.Invece, per alleggerire il momento,cerca tra i fogli infilati nella busta egliene porge uno.

“Prima guarda qui. C’è di tutto:pensieri sparsi, note. Questa è un’altraintroduzione alle Fiabe della Celia. Iola terrei. Però devi dirmelo tu, visto cheè a te che parla. O almeno credo. Disicuro parla di te.”

Lui la osserva perplesso, prende ilfoglio, legge avviandosi fuori. Annaintanto sceglie bicchieri, una bottiglia,dispone tutto su un vassoio calcolandola lentezza che le serve. Quando esce lotrova con la schiena contro il platano,gli occhi lucidi e le braccia incrociate.Sta cominciando ad arrendersi.

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Caro lettore, queste sono le storieche ho scritto per un bambino moltotempo fa. Gliele ho raccontate a pezzila sera prima di dormire (prima che luidormisse: io soffrivo d’insonnia), esolo parecchi anni dopo le ho scritte,quindi è possibile che quel bambino, sedovesse tornare da queste parti eleggerle, non le riconosca, o si ricordi idettagli in un altro modo, e magariresti deluso. Non c’è terra piùmisteriosa del ricordo, e quellidell’infanzia formano un paesaggio chesolo una persona al mondo sariconoscere. Tu, che le vedi per laprima volta, non sarai tanto difficile edesigente, spero: con quel bambino houn debito che queste pagine non

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bastano a ripagare. Ma con te non hodebiti né obblighi. A unirci sono solo lestorie. Prendile, leggile, ascoltale, e seti piacciono tienile con te per un po’.

A dirle non sono io, ma una signorache si chiama Celia, un nome strano,anche un po’ buffo. Celia è esistitadavvero, però non raccontava storie:lei era una di quelle persone che fannole cose. E le faceva molto bene senzanemmeno saperlo. Era una di quellepersone che non occupano troppospazio nel mondo, stanno lì dove lemetti, e ti accorgi di loro solo quandonon ci sono più, quando lo spazio restavuoto.

Io l’ho presa e l’ho usata perché èquesto che facciamo noi scrittori:

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usiamo la vita degli altri, le storiedegli altri. Che siano veri o immaginatinon fa nessuna differenza. Mescoliamotanto che alla fine non ci ricordiamonemmeno più di quello che abbiamopreso qui o là, o su o giù: va tuttoinsieme, si confonde, e diventa unacosa diversa, una cosa nuova. Ma a te,caro lettore, questo non deveimportare. Se la torta ti piace la mangianche senza sapere che cosa c’è dentro.

“C’è qualche bugia, come al solito.Però mi sembra di sentirla,” diceGregorio, tornato asciutto. La raggiungeal tavolo e infila il foglio sotto unangolo del vassoio. L’aria lo fapalpitare.

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“Allora va bene. Teniamo anchequesta.” Anna esita. “C’è dell’altro.”Spinge verso di lui il resto dei foglinella busta che ha riordinato cercando diseguire il filo di un discorso a nessuno.“Dimmi se la senti anche qui. Nonc’entrano col resto, credo. Sembrano piùnote per una poetica.” O per un tentativodi maternità, o semplicemente diumanità. Ma questo non lo dice, chedecida lui.

Lui sfoglia, indugia, rilegge, metteda parte. Lascia per ultimo, come sesapesse, lo scritto più lungo. Leggendoloper la prima volta Anna si è sentitaavida, indiscreta e poi illuminata, comequalcuno che ascolta per sbaglio unaconversazione tra persone di cui sa

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molte cose ma non tutte. Iride avrebbepotuto gettare anche quel foglio nelfuoco, se l’ha tenuto non è per errore oper caso.

Mentre Gregorio legge gli dà lespalle per lasciarlo solo. Si volta dinuovo quando sente il rumore minimodella carta posata. Lo studia. Lui fa unsorriso stretto. “Curioso,” dice. “Sucerte cose la pensiamo allo stessomodo.” Anna pensa che è bello cheabbia usato il presente.

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7

Adesso è stanca, ha caldo, vuolefermarsi. La spalla soffre, tagliata dalpeso della borsa di tela in cui ha ripostol’inedito nella scatola con la copia cheper una piccola ostinazione non havoluto lasciare all’editore. Ha promessouna mail l’indomani, tornata a casa: perquesta sera è ancora tutto solo suo. Èche quel progetto le mette l’apprensionedel genitore adottivo, come il carico di

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una doppia maternità.È andata molto bene. Hanno letto

insieme, qua e là; commentato; Anna halasciato la liberatoria di Gregorio per leverifiche dell’ufficio legale; ma è tutto aposto, tutto regolare. L’editore si èacceso all’idea di una pubblicazionequasi istantanea, poi se l’è rimangiata,meglio preparare bene il terreno, imateriali di lancio, un lancio grandiosodi quelli che si riservano a pochi libril’anno. Ha promesso che la terràinformata su tutto: se l’erede non vuolesaperne, ha detto, verrà tenuto comunqueal corrente, perché si deve, ma è lei illegame più stretto con Iride Bandini; e ilpensiero del peso e del privilegio l’hasconcertata ancora e ancora: ma

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qualcuno dovrà pur occuparsi di tuttequelle cose. I libri vanno amati di piùprima dell’uscita, ha concluso l’uomocon una certa intensità, e lei finalmenteha cominciato a fidarsi.

Ora si muove in un’aria ferma che hala densità di uno sciroppo, e anchel’aroma: tiglio, gelsomino più l’amarodel ligustro, la cattività gentile dellepiante da viali e balconi. Si siede su unapanca di pietra, turista in quella che è oè stata la sua città e che non riconosce,ma con simpatia, come se un lieve calodi memoria, una cosa non grave, lalasciasse lì svagata e inconsapevole.Sopra la testa bandiere tese chemisurano il vento, davanti l’acqua dellafontana che si polverizza oltre l’incrocio

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velando il Castello, di lato gli alberi diquel verde oscuro che solo può resistereall’afa, e la gente tranquilla, fincontenta, ma è ovvio: chi è qui adesso selo può permettere, può scivolare giùdalla bici a noleggio e abbandonarla perincamminarsi verso la luce del tramontocon aperitivo e poi continuare in unristorante con dehors, dentro un cinemafresco, o nella musica. I pendolari sonotornati alle loro case, i poveri sonostanchi e ripiegano, devono prepararsiper un’altra alzataccia. La sera è invendita.

Una volta, anni fa, quando cilavorava, la strada era aperta al traffico.C’era un tale rumore, sempre, che inredazione bisognava tenere le finestre

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chiuse oppure urlarsi addosso. Dagliarchetti del mezzanino guardavano avidiil cameriere del bar di fronteattraversare con il vassoio molto caricodelle otto senza passare dal semaforo,un primo balzo e poi in bilico sulcordolo e poi ancora avanti, dandoprova di una destrezza di altri tempi,un’abilità che non serve più. Adesso isuoi colleghi in camicia e papillonstanno sulle rive dell’isola pedonale eassaltano i passanti tentando in tutte lelingue le frasi facili dell’invito. Comenon le piace, quella familiarità dicommercio. Risale la via per infilarsinel chiostro del Piccolo che sembrasubito mille miglia più in là, elegante,privato. I tavoli sono tutti occupati ma

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qualcuno è arrivato prima e la aspetta.Ha già ordinato, anche i bicchieriaspettano. Si china a baciarlo sullaguancia, si siede e si rende conto conmeraviglia che non lo guarda più da unpezzo: lo sa e basta, così com’è, senzaessere più capace di valutarlo. C’è uncerto conforto in questa sfocatura.

“E allora? Ti ho capito, io: sei unache ha una seconda casa senza avere laprima.”

Messa a nudo in quel modo, veloce,con il primo sorso d’alcol che attenua dibotto le difese, riesce solo a ridere, e larisata serve a nascondere l’amaro che laprende alla gola. Per essere ungiornalista, il suo amico èstraordinariamente attento alla verità. “E

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allora?” gli fa eco. “Io questa città nonla capisco più.”

“Ma certo. Se non ti serve cominci avederla per quello che è. O forse sei tu anon servirle più, e allora getta lamaschera.” Anna le ha guardate bene,questa volta, le mille cose trascurabilima bene in vista, le ha accumulate nelgiro della mattina spostandosi da unimpegno all’altro al passo accelerato ditutto il resto attorno: mimi spagnoli chesanno di sudore, con la faccia di biaccae la calzabraca sporca; monchi, storpi,zoppi ovunque, a mendicare soldi eattenzione; librerie chiuse per far postoa pile di brutte camicie, rosa, viola,anice, colori impossibili, e di quantecamicie si avrà mai bisogno in una vita,

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più camicie o più libri? Un posto dimatti e disperati: il ragazzo colcappellino a rovescio e le cuffie che leha passato un biglietto fuori dal metrò elei ha pensato la solita pubblicità mal’ha preso comunque per gentilezza einvece sulla strisciolina di carta c’era ilprimo verso di una preghiera buddista,ma allora dobbiamo pregare tutti?convertirci? saremo più buoni, dopo?più tranquilli? inutile domandarlo alragazzo, perché non sente, chiuso nellasua pellicola di musica vuole che tu loascolti ma il viceversa no. E poi: ilvecchio a capo chino che nella nicchiadi un bar di via Turati ha montato il suoaltare quotidiano di accendini efazzoletti, una vetrina nella vetrina; il

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nero che l’ha inseguita con una bracciatadi libri per bambini, libri belli, senzaparole, con dentro bambini neri comelui, belli, senza parole; l’allegria di baradei fiori spianati sui cofani delle auto damatrimoni cinesi; lo sciacquio perennedelle cerchie di navigli spenti chefunzionano benissimo se assecondi illoro gioco di barattoli, ma se cerchi ditagliarle per avvicinarti al cuore seiperduto, non trovi più il bandolo, letelecamere t’inseguono e ti condannano:una barriera concentrica, un modochiaro per dirti resta nel tuo girone,tanto non ne uscirai mai. Le ragazze chevanno in ufficio vestite da sera, abitinineri, scarpe altissime, oro e argento,scolli fondi davanti e dietro, perché

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qualcuno deve aver detto loro che ilmondo non va affrontato, capito,assaggiato, no, va sedotto; sui manifestile enormi facce depurate dei poster,niente trucco, niente decori, solo ilgioco delle ossa perfette e gli occhi dicolori miracolosi. La bellezza, quellavera, quella inimitabile. E sopra ognicosa, a lettere gridate da un cartellone, ilmotto del tempo: COMPRA SENZADENARO.

Anna elenca cercando di fare labuffa e l’amico prima la ascolta senzainterrompere e poi elabora: “Se seipovero ne vedi le miserie, se sei ricco ilfascino, se sei ambizioso lo scatto, sesei depresso il tedio, se sei euforico lapromessa, se sei innamorato la

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possibilità. È come la natura in queilibri americani che piacciono tanto a te:lo specchio dell’uomo, il suo riverbero.La guardi, la osservi, la descrivi, e tiaccorgi che stai parlando di te. Solo chequi la natura non c’entra. O meglio, sì,ma nel senso di indole. Milano è unacittà taglia unica, va bene per tutti. Sei tuche devi aggiustartela addosso. Se ti stalarga o stretta, se ti esalta o ti mortifica,alla fine dipende solo da te.” Semprestato troppo intelligente per far carriera,pensa Anna.

“Non riesco a capire se sei moltoprofondo o molto frivolo,” gli dice.

“Frivolo, ovvio.”Sorridono, ordinano il secondo

Negroni. L’alcol compie il miracolo di

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restituire quel gusto: metallo e nostalgia.L’oro perduto, il dolore del ritorno.Appunto.

“Me lo vuoi dire, perché seitornata?”

Anna esita. È un amico, ma è pursempre un giornalista che si occupa dilibri, e potrebbe trovare un qualcheinteresse nella notizia. E lei non è prontaa parlare delle storie nella scatola, nonne ha nemmeno il diritto, è ancorapresto. “Una cosa di lavoro,” risponde,evasiva, e lui capisce e sbuffa. “Semprecosì etica.”

“Lo dici come se fosse un difetto, ouna parolaccia.”

“Ma lo è.”“Senti,” dice Anna, ed è un pensiero

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imprevisto che la travolge con la suainsistenza, la cosa che deve dire proprioadesso. “Se ripenso a noi là sopra” – eaccenna con la mano all’ex redazionepoco lontana, sapendo che lui capirà alvolo – “mi ricordo poco, avevamotroppo da fare, ma una cosa sì. È statol’unico tempo che mi ricordi in cuivolevo essere solo lì e da nessuna altraparte. Non chiusa in una stanza con ilmio fidanzato, non su una spiaggiadeserta sotto una palma, e nemmeno acasa mia a leggere. Volevo essere lì ebasta. Com’è che diceva quel vecchioslogan? Libertà è partecipazione.”

“Non è uno slogan. È meglio: unacanzone.”

Lei lo ignora, continua: “Ma non era

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libertà, anzi, era il contrario. Una formad’amore, suppongo, con tutti i difettidell’amore quando è giovane, eccessivoe malriposto: totale, assoluto, esclusivo,dipendente. Divino, in un certo senso.Un amore greco antico. Sparso a pienemani, diffuso, vaporizzato, alla finesprecato perché colpiva gli oggettisbagliati. Amavo tutti purché fossero lìcon me, perché erano lì prima di me, e ilprivilegio dell’appartenenza li avevatoccati in anticipo. I colleghi anziani,dico. Rotunno, Scola, Pallavicino,Luraghi, Liso. Ma era tutto un colossalefraintendimento. Li ammiravo, capisci?Indistintamente. Scambiavo il talento pervalore. Credevo che la loro fosseintelligenza, ed era solo astuzia.

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Pensavo che fosse ironia, o sarcasmo,ed era cattiveria. Alla fine, diciamolo:non capivo niente.”

“Non ti aspettavi che fossero buoni,vero? Perché non lo eri nemmeno tu. Dagiovani è difficile essere buoni. Io direiche eri un po’ esaltata, tutto qui. Ma loeravamo tutti. Tu in più avevi questodono di andare a letto con gli uominisbagliati e di fare del male a quelligiusti. Infatti io sto ancora aspettando.”La guarda, uno sguardo lungo, serio.Aspetta ancora, vorrebbe dirgli Anna.Aspettami. Saresti un buon compagno,dopo, più in là. Dovremmo soloabituarci un po’. E la stupisce l’idea diandare con la mente a qualcosa di cosìdistante – ancora così distante – proprio

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nel momento in cui sta ricordando il suocontrario, gli inizi, la giovinezzaquand’era intera. L’ultimo sorso diNegroni è quasi amaro mentre Annapensa a quello che non sapeva quandonon era buona e adesso sa, a quello chevoleva e vuole e non ha.

Ci ripensa, a quel doppio aperitivo,quando viene il primo freddo ecompaiono loro. Sono bruttissimi, di unabruttezza inequivocabile, primitivi,sempiterni come fossili di se stessi opezzi di legno, già essiccati, giàappassiti. È arrivato prima lui, le vieneda pensare che sia un lui perché è piùgrosso ma date le stravaganze del mondoanimale potrebbe benissimo anche

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essere il contrario, dieci centimetri dicorteccia e gli occhi finestrati inorizzontale, due fragili teleschermibombati, la sola cosa guardabile sefosse possibile isolarla dal resto che èorrendo, la mandibola moltopronunciata, la testa lunga da alieno, lezampe ripiegate a spigoli e il sospettodelle ali sotto le ali a minacciare unvolo possibile. Si è agganciato alla gratache difende la finestrina piccola, quellasenza le persiane, e da lì muove pochipassi che lei non gli vede mai fare, ognivolta che riapre i vetri per guardare loritrova più su, più giù, un po’ spostato,immobile, indifferente. Due giorni diquesto balletto in slow motion ed èarrivata lei. Gli si è agganciata alle

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spalle e lì sta, solo più piccola,altrettanto orribile, anzi, forse di piùnella sua minuzia. Non è il naufragioveloce della riproduzione, sarebbe giàfinito tutto, e invece il giorno dopoeccoli ancora lì, come se non fossesuccesso niente, come se fossero semprestati quell’uno bruno, la creaturaangolare brutta come una macchina daguerra. Adesso si spostano in due,sempre di nascosto, sempre sigillati, elei li ritrova orizzontali, verticali,sbiechi, avanzi d’autunno in pazienteattesa del freddo che li reclamerà.Siccome sono immobili e non fannoversi la pena per il loro destino è comeattenuata: non si sentono, quindi nonsentono, la facile associazione

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dell’animale intelligente onnipotente chevolendo potrebbe farli volar via con unoschiocco di pollice e indice, o meglio ungiornale, un bastone, qualcosa a mediareil contatto con quel ruvido di bestia. Mac’è una pena più forte, una compassioneche diventa comprensione e forse ancheinvidia, se è possibile invidiare duecavallette fatte una: cadranno comefoglie, come gli altri insetti, come lelucertole dai muri, però non soli. Sonodue, due che sono uno, indivisibili. Easpettano il loro momento senzaprotestare, senza più pretendere, appesil’uno all’altra su uno sfondo di ulivi eplatani che probabilmente non vedono,che certo non distinguono e non sannochiamare, ma pure è una scenografia di

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placida bellezza, un adagio di verdi ebruni per morte certa. Muoversi il menopossibile, stare aggrappati, stare stretti,aspettare, essere insieme. Essere giàquella cosa unica e unita, poter saltare ilfrattempo con le sue incognite e i suoitranelli, averti già qui, chiunque tudebba essere, e sapere che resterai.

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8

Nel nero che sarebbe perfetto pulsada alcune notti una luce variabileaccanto a una luce fissa. Rosa, verde,indaco, arancione, viola, blu e poidaccapo, un arcobaleno in disordinecome quelli che tingono il sonnoriverberando dalle piscine di certi bruttialberghi di mare. Va avanti un pezzo colsuo ritmo ipnotico e a un certo punto,molto tardi, si spegne. Accanto resta il

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bagliore di una vasca troppo azzurra adallagare il buio, ma basta spostarsi dipoco e gli ulivi la inghiottono, lasciandofiltrare solo una radianzasoprannaturale, da atterraggio di alieni.

Gli alieni, lo scoprirà il giorno dopochiedendo, sono i cinesi che hannocomprato a un’asta fallimentare la casasul costone, la sola visibile dallafinestra a fiore della sua torre,appartenuta a un riccone capriccioso chel’ha ristrutturata spendendo troppo.Hanno traslocato da pochissimo.Intendono restare.

La tentazione di fare qualcosa diassurdo è irresistibile. Non da sola: civuole un complice.

Un vento a fiotti spazza la strada

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sotto i lampioni di Hamid. Lui nonapproverebbe, ma tanto non c’è, torna aottobre, forse. Pochi passi ancora e ilbuio si riprende tutto. Le foglieilluminate dalla riga della torcia balzanoverso di loro grattando l’asfalto comepiccoli animali. Alla prima folata Annatrasalisce. Che stupida, pensa. Non sonofatta per le imprese notturne. Stefano lasta trascinando, se ne accorge, si volta,fa un gesto leggero con la mano libera.Andiamo.

Ci ha provato, cos’aveva daperdere? Le è sembrato la personagiusta, tornato in mente non richiesto, gliocchi vividi, il modo sicuro ma nonspavaldo che ha di portare il corpo nelmondo, le parole, poche, come se non

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avesse tempo o voglia di spenderle. Èandata a cercarlo senza annunciarsi unprimo pomeriggio, pensando che aquell’ora terribile nessuno che lavorinei campi potesse lavorare nei campi, eha indovinato. L’ha trovato dietro ilcomputer in ufficio, una stanza di pietraaccanto alla cantina, penombra, fresco,luce bassa di vetrinette. Le bottigliecome gioielli, i verdi, i rossi, i rosascuro velati e accesi dal doppio strato divetro.

“Un assaggio?” le ha chiesto con unsorriso misurato, come se fosse unacliente. Giocando. È rimasto sedutodov’era, lei davanti a lui, in piedi.

“Per carità,” ha risposto Anna. “No,volevo solo chiederti se fai una cosa per

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me. Con me.” E gli ha spiegato,gesticolando un po’ troppo pernascondere o forse mostrare la tensione.Il sorriso di lui è cambiato, si è riempitodi malizia. “Forte.” Non le ha chiestoperché proprio io, e lei si è sentitasubdola e contenta. Arriva il momento incui cominci a invidiare le persone perquello che non sanno ancora, e non perquello che sanno più di te.

Adesso che vanno insieme nellanotte non è più tanto sicura, le sembrauna cosa sciocca e anche pericolosa. Mal’ha fatto apposta ad arrivare fin qui, pernon poter tornare indietro. Inciampa inun sasso, gli si appoggia addosso, leteste si sfiorano, urtano appena.Recupera l’equilibrio e si ritrae.

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“Scusa. Ti ho fatto male?” glichiede.

“Non ancora,” è la risposta. Non si èsbagliata, dopotutto.

Si fermano sotto la casa, giallastraalla luce dei fari che la puntano senzapietà. È di una bruttezza elementare,ricoperta da insensati pannelli di legno,uno chalet fuori luogo. Le finestreenormi aperte sui fianchi le danno un chedi acquario. Dentro si vede tutto, lesagome grigie dei mobili sparpagliatisenza troppo pensiero, l’arco di unalampada così bella da essere diventatabanale. Non c’è nessuno. Fuori, altasulla piscina, la colonna che regge ilgrappolo di lampadine. Il bersaglio.

Comincia Stefano. Per essere

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preciso ha portato la fionda. È il rosa asaltare per primo. Anna lancia il suosasso senza troppa convinzione ecolpisce la colonna, un rumore asciutto.Riprova. Verde. Miracoloso centro. Larisatina del vetro che si sbriciola e cadesulla pietra. Stefano va avanti.Arancione. Un altro centro. Ancora eancora. E dopo aver scoccato l’ultimosolitario raggio indaco l’arcobaleno sispegne, la notte torna notte. Si guardanoridacchiando, senza vedersi bene.Cadersi addosso è naturale, finire dentroun abbraccio, le spalle che si urtano.Anna rimbalza indietro come scottata.Poi si lascia andare ed è il peso di sé ariportarla dov’era, dove si sta bene. Lagravità cercata e voluta.

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Continua a non esserci nessuno. Nonc’è nemmeno bisogno di darsi alla fuga.Stefano spegne la torcia: per un po’ liaccompagna l’alone largo dei fari, e piùin là c’è la stringa di lampioni adaspettarli. I lampioni di Hamid comesentinelle, come spie. (Ma lui non c’è,lui è uno che non c’è.) In mezzo unalunghezza di buio. Bisogna ridarsi lamano. Bisogna non lasciarla nemmenoquando guidarsi a vicenda non servepiù. Il pensiero di quello che succederàè un elastico tra loro. Così non vienepaura quando appare buia nel buio lasagoma prima sconosciuta e temibile poinota del cane che sta cercando dimorire, il passo più incerto, la lentezzaquieta del dolore, il bel muso lungo, gli

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occhi marrone fedeltà che si possonosolo immaginare. Anzi, uno solo, perchél’altro si è spento qualche settimana fa,velato da un bollo azzurrino. Meglio chenon lo si veda, per provare meno pena.“Ehi, bello,” gli dice Stefano. E poi:“Silla. Qui.”

Ma questa volta il cane non si fermacome fa di solito, paziente, ad aspettarel’umano che ha sempre qualcosa dachiedere. Non si avvicina cercando unacarezza. Continua diritto, molto piano,per la strada che sa solo lui. Stefano lolascia andare, le stringe più forte lamano. Anche loro vanno avanti,dall’altra parte, più vicini. “Nientemalinconie,” le sussurra lui,stringendola a sé. “È vecchio, però è

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contento.”Lo troveranno la mattina tra gli

alberi, posato nel verde dell’erba chesembra sempre tagliata di fresco obrucata da pecore precise: un ulivetoperfetto col suo ritmo di rami e di spazi,e sotto l’albero più grande, quello alcentro che sta leggermente fuori riga, ungrosso cane che finalmente è riuscito amorire. Si sono avviati presto, dopo unabuona notte, per cercarlo insieme,perché non è tornato nemmeno a nottefonda. Stefano s’inginocchia, passa ledita nella pelliccia, tocca con unadelicatezza commovente i polpastrelli,come in una stretta di mano. “Vado aprendere il furgone,” dice, senzaguardarla. Si rimette in piedi con una

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fatica immensa, s’incammina sullastrada che nella luce dell’alba è ancorasolo grigia. Anna resta lì finché lui nontorna in un fruscio di polvere, aspettache scenda, che si avvicini di nuovo. Sivede che ha pianto. Lei gli sfiora unaspalla e se ne va.

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9

“La Umile è in ospedale. Pensavoche volessi saperlo.”

Anna aspetta. Tiziano si stringe nellespalle: “È vecchia. Ha sempre avuto ilcuore un po’ matto, e forse ha presocaldo, o freddo, o tutt’e due le cose.Polmonite. Lo sai, a quell’età,” e fa ungesto di foglia che cade.

Non sembra in pensiero, è sereno.“Si può andare a trovarla?” gli chiede

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Anna.“Certo. Il problema è che è sempre

occupata.” Un piccolo sorriso chepotrebbe anche essere fuori luogo. Annalo guarda senza capire.

“È tornato. Zeno. Doveva rischiaredi morire per farlo tornare.” Ma lo dicesenza l’aria di rimproverare nessuno.Come se fosse nelle cose: uno si ammalasul serio e tutto va a posto. Quello chedai, per ricevere.

“Basta che non sia troppo tardi,”dice Anna, completando il pensiero adalta voce.

“Ma no, perché?” dice Tiziano,tranquillo. “È come doveva essere, allafine. Né più né meno. Quello chesuccede va sempre bene.”

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“Anche le cose brutte?” Questapace. Questa – Anna sa già che cosa lerisponderà.

Infatti: ma non così. “Fede è la forzadi quello che si spera e il sostegno diciò che non si vede.” Un silenzio perlasciar posare le parole, il loro peso. “ÈDante, sì.” La guarda negli occhi. “Unpo’ tradotto.”

“Da te.” Altri endecasillabi.Quest’uomo che non smette di stupirla eadesso prende il telefonino e scrive, pernascondere l’imbarazzo o perché èquesto che fa sempre: spostarsi tra lecose pratiche, concrete, quelle cheoffrono l’appiglio semplice del fare,come uno scalatore che cerca la presa,un passo alla volta, sorridendo al vuoto.

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Un tintinnio soffocato dalla tasca.“Ti ho mandato il reparto, la stanza. Haitutto. Se vuoi. Non sei obbligata.” Annagli ha raccontato del declino di suopadre e poi quasi subito della madre, diquel tempo che a distanza sembrarappreso nello sforzo di andare e tornaredalle cliniche, di trovare la via piùbreve, la scorciatoia nel traffico, ilparcheggio più vicino per non doverfare chilometri di labirinti. Come siimparano in fretta le strade del dolore.Degli ospedali ne ha abbastanza per unavita, e lui lo sa. Deve farsi forza perandare. Ma ci va.

Ha sempre avuto il cuore un po’matto: sì, pensa Anna guardando Umile

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che si riaccomoda con pena sul cuscino.Per prendersi metà di un uomo e avereun bambino da lui e darlo a un’altra estare a guardarlo crescere, tutti i giorni,un passo indietro. Per aver vissutoaccanto a una donna tagliente senzafinire per assomigliarle. Carta che peruna volta vince forbice: avvolge,trattiene, contiene. Carta come la stesasciupata delle braccia viola di aghi,come la fronte mossa dalla fatica delrespiro che pure si sforza di spianarsinell’accoglienza, come le mani chelisciano meccanicamente le pieghe dellenzuolo nel perenne tentativo di tenereordine. “L’hai visto?” le ha chiestosubito, subito. Anna ha detto di no. “Èfuori che telefona. Il lavoro, sai. È

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venuto, alla fine, però.” Un sorriso dilabbra un po’ azzurre. Le palpebre divelina – carta, di nuovo – sopra lavernice degli occhi, e poi ancora su, consforzo, di scatto. “Non sono stanca.”Bisognerà pur imparare a dire ultimo,ma se non è il momento non è ilmomento. C’è forza, qui. C’è forza, eniente commozione, solo pura energiaconcentrata quando alla fine lui entra elei dice: “Zeno. Mio figlio.” Le cosecome sono.

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10

Appena fuori dal paese, di ritornodall’ospedale, Anna riconosce il pickupdi Tiziano e si ferma nello spiazzo persalutarlo e dirgli di Umile. Lo trova peruna volta nel suo ambiente, tra i suoioperai, due italiani di mezza età e duerumeni giovani dagli occhi di vetro nellefacce impolverate. Lui invece è semprea posto, pulito, fresco, una polo blu, ijeans con la piega. Rifiniscono un ciglio

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di strada – avrà anche un nome tecnicoma le viene di pensarlo così – posandosu uno strato di sabbia blocchetti dipietra grigia che poi martellano al loroposto con piccoli magli. Sembra unlavoro elementare, eppure è la storiadelle cose che restano: i sassi, i muri.Mettere tutto al posto giusto nel modogiusto.

È il passo d’addio del cantiere chesta smobilitando, tre villette gialledisposte in fila appena giùdall’avvallamento della provinciale: unaè per la figlia Diana che si sposa, unaragazza allegra che ha un piccolonegozio di pasta e biscotti allegro comelei, le altre due sono già vendute a viciniche volevano la casa nuova in paese.

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Quelle vecchie, di pietra, perse neicampi ma non troppo lontane, finirannoai foresti, come al solito, per restarechiuse dieci mesi l’anno e rifiorire aluglio col falso dei gerani trapiantati difretta nei vasi di cotto.

“Finiamo qui e poi ce ne andiamo,”dice Tiziano indicando il nastro cortod’asfalto fresco, ridicolo chiamarlostrada, che scende verso le casette emuore nel prato, il piazzale che siallarga troppo nero sotto il sole, un’ideadi parcheggio inutile. Solo allora Annanota il cartello nuovo di zecca ficcatonella stessa aiuola che regge unlampione da tangenziale: Via Reginadella Pace.

Abbassa lo sguardo su di lui,

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sorride.“Cosa c’è?”“Niente,” dice lei, e aspetta.“Gliel’ho dato io, sì,” dice lui,

serissimo. “Ho fatto la strada, avròalmeno il diritto di chiamarla comevoglio.”

Anna continua a sorridere. Com’èche ha detto solo pochi giorni fa? Nonsono bravo coi nomi. Non vuolenemmeno sapere come sia riuscito atagliare le curve della burocrazia, ascalzare la toponomastica locale – tuttieroi resistenti e ciclisti: ne avranno puravuto uno in lista d’attesa – con quellampo di devozione.

“Infatti è un bel nome. Chi è?”“Chi?”

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“La Regina della Pace. Dove siprega?”

È pronta ad ascoltare una delle suefughe su santuari e apparizioni. E inveceTiziano dice solo: “Dove ce n’èbisogno. Dove vuoi. Anche qui,” e apreil braccio a indicare, oltre la ferragliadel cantiere, la montagna blu che siinnalza senza preamboli dalla piana, ilcrespo delle vigne, il cielo. Se nonsiamo capaci di vivere all’inferno citoccherà abitare il paradiso.

“È bello da sapere,” dice Anna, e lopensa.

“Sì, è bello. Non essere mai soli.”

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11

È scesa dall’auto ma invece dientrare sale verso il crinale per provarea tenere con sé, in alto, quei pensiericosì alti che non sono suoi. Si sfila isandali, li lascia indietro. Il terricciocede e si sposta, colpa delle pioggerecenti, e lei pianta i passi più ostinatain modo da non scivolare. Contro lapelle si confondono il fresco dell’erba eil caldo del suolo che restituisce il sole

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succhiato. Ci saranno pericoli, spine,vespe, o magari altro – ieri le bambinele sono corse incontro con un barattoloin mano: sul fondo zampettava unminuscolo scorpione, perfetto nella suamalevolenza. Ma per adesso passa soloquell’elasticità vitale che sembrascorrere dai piedi alle gambe e subitoalla testa. In alto. Chissà come ha fatto avenire fin quassù per piantare le roseantiche senza cadere e farsi del male;chissà come le è venuto in mente, mesifa, quasi un anno, ormai. Se lo ricordabene, aveva aspettato, aspettato, ilmaltempo non passava mai, e alloras’era decisa una mattina che veniva giùun’acqua invisibile; il tempo di forzarele buche – la resistenza ostile di quella

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terra piena di sassi e vecchie radici – eimmergervi lo stallatico, poi le piantineben diritte, e premere intorno altra terranuova, più scura, intrusa, e infinespargere la cenere – e s’era ritrovatafradicia. Il mattino dopo un occhio nonle si apriva tanto era gonfio, come setutta la pioggia presa si fosse infiltratadai pori e concentrata lì: qualche nervomatto, aveva sentenziato il farmacistarifiutandosi di darle un antibiotico comelei s’era rifiutata di andare dal medico.S’era curata col principio attivodell’ananas, sentendosi nelle mani diuno stregone: ma aveva funzionato, e neera valsa la pena. Adesso le rosesventolano accese nell’aria svegliata daltemporale della mattina; il lago ha un

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biancore di zucchero dove il sole siposa sull’acqua sfuggendo alle nuvole, edove invece il cielo è ancora coperto loriflette in un blugrigio che può forseimitare se stesso un paio di volte l’annoma certo non può essere riprodotto. Untraghetto scorre sull’acqua pallida conla pesantezza di un ferro da stiro. Forseessere a casa è questo, non avere ilbisogno e nemmeno la pretesa di vederetutto bello. Guardare le cose come sono,vederle intere, senza offenderle.

Dovrebbe tornare indietro, da qui inpoi il prato non è più seminato e le erbelibere pungono i passi, e invece si avviaverso i primi ulivi: ai loro piedi, qua epoi là, ha sepolto le civette così incauteda infilarsi nella canna fumaria per

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cercare tepore e scivolate di sotto senzapiù riuscire a risalire, trovate in tempidiversi dietro lo sportello del camino,piccole, grigie, perfette, gli occhi divetro giallo aperti sullo spavento di unamorte incomprensibile. Si ferma davantial caco: nell’incrocio dei rami neriaveva deposto il piccolo pipistrelloscoperto davanti a casa raggrinzito comeuna larva, nutrito a gocce di latte colcucchiaino, sparito, ritrovato appesoalla parete nella posa fiera di un batman,sparito di nuovo e riapparso un’altravolta sulla soglia, a terra, rannicchiato esofferente, una stilla di sangue che gli sigonfiava nella narice, il respiroaffannoso che gli scuoteva la pocapelliccia di topo. Non sapendo più cosa

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fare, mancandole il coraggio dischiantargli la testa con un sasso o unbastone, l’aveva raccolto e portato fin lì,come se stare sotto le foglie, sospeso tracielo e terra, potesse alleviargli la pauradella fine. Era tornata tre giorni dopoper vederlo morto e non l’aveva trovatopiù, aveva cercato per terra, intorno,almeno una cartilagine, un artiglio, unosso. Niente. Può darsi che lì invece diandarsene ci si trasformi; può darsi chela terra si apra come una bocca perriprendersi chi è stato, la terra e il cieloinsieme, in una muta condivisione dimateria dispersa. Non c’è da stupirsi,poi, se ci sono tanti spettri, e a voltequalcuno o qualcosa decide di fareritorno.

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Sul ciglio della strada, la sua, unasera c’è un’auto che conosce. Giallovivo, un colore infantile, e infatti quandoa suo tempo lei l’aveva notato, perleggerezza, lui aveva detto: “Sì, l’hannoscelta i bambini” per poi cambiarediscorso. I bambini, un’unica macchiacolorata e fuori fuoco, come se nonavessero un nome, un’età, come se nonfossero persone, o figli. Una forma di

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goffo riguardo, o il suo altrettanto goffocontrario. Anche Anna del resto avevaimparato col tempo ad aggirare gliostacoli, e dopo un po’ quell’altro pezzodella vita di lui era stato sospinto daparte, come quando un mobile di unacasa d’affitto non ti piace ma nericonosci l’utilità e piano piano impari aignorarlo: poi la sua bruttezza ti balzaaddosso tutta in una volta, una mattinache ci vedi bene, e non lo tolleri più. Aripensarci si vede penosa; le sembra chenemmeno una grande passione possariscattare quella cianfrusaglia di piccolecose omesse o zittite per un eccesso dirispetto che invece è paura, quellacautela da cristalleria quando invece eratutto solo vetro, vetro grosso, opaco.

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Fondi di bottiglia. Si perde nei pensieri,adesso, per poter prendere misure edistanze del momento che la aspetta,pronto anche quello a saltarle addosso, acercarle la gola. Seduto sul muretto, luile dà le spalle e quando la sente arrivarevolta la testa molto piano. Poi riallineail corpo al capo facendo scivolare legambe al di qua con un gesto atletico chegli viene bene, si alza, fa i pochi passiche li separano, si ferma a distanza disconosciuto. Superasse il limite, Annasa che ne sentirebbe dolore. Lo avvertelo stesso, ai margini del confine, unpulsare di nervo scoperto.

Non le appare più vecchio, enemmeno sciupato come forse vorrebbevederlo, e comunque a lei piacciono le

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persone un po’ stropicciate. Cambiato sì.È che la vita l’ha raggiunto, comesuccede prima o poi a tutti, e si chiedese anche lui si vede diverso allo stessomodo nello specchio sincero delmattino, o se è solo lei ad accorgerseneadesso, come quando ti ostini per anni acercare e trovare dietro la faccia nota diuna persona nota il bambino della foto ingita o l’amica luminosa dell’università,e poi un giorno, di botto, ecco quelloscatto in avanti a sorpresa che rimettetutto in pari, ma è un peccato perchél’album dei ricordi a questo punto salta,non funziona più. Le persone vere, equello che vorremmo fossero, orestassero.

“Che cosa ci fai qui?”

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“Un così bel posto.” Quella suanoncuranza da mani in tasca, ancheadesso. Ma lo sguardo non è arrogante; èquasi dolce, con qualcosa di chiusodietro, qualcosa che non si lascia capire.

“Non ti aspettavo,” dice Anna,aprendo il cancello. Due banalità di fila;forse è meglio che stia zitta.

“Se mi fossi annunciato avresti fattoin modo di non esserci. Sbaglio?”

“Siediti.” Gli automatismi dellaciviltà. Lui sceglie la panca e appoggiala schiena al muro. A quest’ora ètiepido, restituisce il calore del giorno,Anna lo sente come sotto la propriapelle. “Prendi qualcosa?”

Senza aspettare risposta infila lachiave nella toppa, apre la porta.

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Dentro, il fresco le preme addosso tuttoinsieme, o forse è qualcos’altro. Incucina cerca le cose della cortesia: ibicchieri, il vino, il vassoio. Lui learriva dietro, non invitato, non chiesto.Anna lo sente prima di vederlo, i passi,certo, ma anche il calore dellavicinanza. Questa volta ha varcato ilconfine.

“Anna, Anna, Anna.” Lei non sivolta, gli si troverebbe spalla controspalla, pronta all’abbraccio. Ma non èpronta, e non vuole. Fa due passi di latoe con un solo gesto fluido prende ilvassoio, si gira ed esce. A lui non restache seguirla.

“Anna,” ripete ancora lui, come sebastasse, mentre lei posa il vassoio e

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scivola sulla panca a prendersi queltepore di pietra: ne ha bisogno. E poi,guardandola dall’alto, ancora in piedi,con un mezzo sorriso saputo: “Tu per ilmondo sei soltanto una.” Questo ènuovo. Per il mondo una, e per te mille?Per il mondo una, e per te tutto? Nonmolto chiaro, ma passi, la poesia è fattaper non essere troppo capita. E adessolei aspetta che le butti lì tutti gliendecasillabi di tutte le notti passateinsieme, uno per uno, mandati a memoriae ricomposti in un centonecomprensibile soltanto a loro. Ilsospetto – la certezza – appanna il gustodi ricordarsi. Non che prima non ciavesse mai pensato, però sembrava undettaglio trascurabile. Adesso è solo un

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dettaglio triste. Lo tira fuori a fatica,facendosi male.

“Avevi qualcuno che te li scriveva,vero?”

Lui la fissa con allarme.“È grave? Comunque erano per te.”“Chi te li scriveva?” insiste lei.

“Anzi, chi li sceglieva? Perché alcuni,molti, sono rubati.”

“Presi in prestito, dai. La poesia è ditutti.”

“Bastava dirlo.”Lui esita, guarda altrove. Poi si

decide. “Sai Alberto? Alberto delliceo?”

Che sciocca a non averci pensato.Uno dei pochi pezzi della sua vita che leaveva raccontato, forse perché era la

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vita di prima, prima della macchinagialla e del resto. L’amico che vincevaconcorsi letterari e poi invece avevafatto la Bocconi. L’amico che a furia diversi – sonetti incatenati, innianagrammatici – aveva conquistato lapiù bella del liceo, e se l’era anchesposata, alla fine. Chissà se hannoresistito. Spera di no.

“Non dirmi che era il suo repertorioe te l’ha prestato. Non dirmi che eratutto di seconda mano.”

“Andiamo, Anna. No, li scrivevaapposta. Io gli mandavo un sms con laparola-chiave, una delle nostre, e lui mirispondeva dopo cinque minuti. Erabello. No?”

Bello no. Le sembra di essere stata

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amata spiata, con un voyeur là fuori aportata di telefono che frugava arichiesta in un’intimità non sua. Undeejay del piacere altrui. Tra le tuegambe eccetera. Il pudore, e la rabbia.

Qualcosa di quello che le passadietro gli occhi deve averlo colto perchédice, per placarla: “Non è importante,comunque, adesso.” E si siede. Sonofaccia a faccia, a portata di mani. Quelledi Anna sono sul sedile della panca,come se fosse pronta a scattare in piedie andar via. Invece rimane. È il suoposto.

E che cosa c’è d’importante, allora?vorrebbe dirgli. Da averti fatto arrivarefin qui? E perché adesso? Ero tantodifficile da trovare? E cosa ti aspetti che

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facciamo adesso? Ricordare? Farsiprendere dal miele della nostalgia,andare in replica? Parlare di quelbambino che nemmeno sai, che non c’èstato perché nessuno l’ha volutoabbastanza e ha deciso di andarsene dasolo, prima di dare troppo disturbo?Solo perché non sapevi che c’ero nonvuol dire che non c’ero. Un altrofantasma per il bordo del tetto. Senzavolerlo Anna rovescia la testa e guardain su. Posto ce n’è. Compagnia anche.

“È tutto sbagliato.” Lo dice ad altavoce, senza quasi rendersene conto.Passa l’indice sul vetro appannato dellabottiglia, lo fa piangere. “Pensavo,”continua dopo un po’. “Una mia amicauna volta ha detto che con i figli esiste

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solo il presente.”Lui inspira troppo in fretta: non è

una cosa di cui parlino, di cui abbianomai parlato. Svia. “La conosco?”

“No.”“È vero, credo.”“Già. Ma non è così con tutti? Con

tutte le persone che ci stanno attorno.Che ci sono per noi.”

“E quindi?”“E quindi bisogna starci attenti, al

presente. Tenerlo bene. Tenerci. Nonlasciarlo andare.”

Lui si alza, cammina fino al muretto,ci appoggia le mani, si allunga verso ilcrepuscolo che trasforma i verdi in blu.Se solo sta zitto, Anna riesce aricordarsi ancora la ragione per cui l’ha

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amato, ma è un pensiero impreciso, chesta evaporando per poca importanza.Strano, vederlo tutto in una volta.Quando incontri una persona nellamisura ristretta di una casa – il luogodella segretezza può essere soltanto unacasa, anche meno, una stanza – la vedisolo a pezzi, gigantografie, primi piani.Un piede, se è bello. L’avambraccio conil suo disegno di vene. Le ciglia.L’intero lo dimentichi. E adesso,ricomposto, chi è? Con lei, che eral’altra, era altro, era l’altro anche lui.Quello vero non l’ha mai incontrato.Non le manca: perché non lo conosce.Sarà rimasto sotto una finestra al buio aguardare in su aspettando un blip ditelefonino, nel solo atto di approssimata

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disperazione che gli accredita; o sarà daqualche parte, in un ufficio, allamacchinetta del caffè, in piscina, odavanti a una scuola con l’ariaimpenetrabile o festante di un padred’altri.

“Mi ricordo ancora perché ti amavo,sai?” Dal momento che l’ha pensatoglielo dice, è l’unica cosa buona che puòdargli stasera.

“Non mi piace che parli al passato.”Lui si volta, si appoggia al muretto,incrocia le braccia per difendersi.

“Parlo del passato.”“Non possiamo riprendercelo?”

Senza rete, come uno che non ha nienteda perdere.

“Io non abito più dove abitavo

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prima.”“Ma potrei venire io.” Così

letterale. “Lasciare tutto. Adesso sì.”Un silenzio, lungo. “Credi?”“Sei tu che non credi.” Detto con

qualche fatica. Lo sguardo che spera inuna smentita.

“Non alle stesse cose, non più.Nemmeno tu, però. Ti arrendi subito.”

“È che ti conosco, Anna. Anna,Anna, Anna.” C’è una nota diversa inquella voce. Niente poesie mercenarie,stavolta, con la loro iridescenza vuota diattrezzi teatrali. Solo una richiesta checontiene già la sua risposta. Unadomanda retorica. E forse, si dice Anna,è tutto un po’ retorico, quello che stannofacendo adesso. Una recita, niente di

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improvvisato, anzi: ma con quel tanto didilettantesco che tiene lontana lacommozione, e semmai fa sorridere unpo’. Non si piace così lucida. Vorrebbeessere confusa, arrabbiata. Riempie unbicchiere, lo spinge in avanti, un gestoconciliante, in qualche modo. Quello chepuò. Bere amaro non è mai piaciuto anessuno. E infatti lui non ci provanemmeno. Calcola il silenzio, la guardacon lentezza, si stacca dal muretto e sene va.

Anna per tutto il tempo è rimastaseduta e adesso sente che non ha la forzadi andare a chiudere mentre l’auto cheparte sciupa la notte per un lungomomento. Un’uscita a effetto noncomprende il gesto di voltarsi e riunire i

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battenti, certo che no. Ma per quel che lariguarda il cancello può restare anchecosì.

Quando alla fine dorme, tardi, sognaquello che vuole, come si fa a occhiaperti: due bambine bianche checamminano lungo la falda del tetto, lebraccia tese per stare in equilibrio, edietro un’altra sagoma più piccola, piùtrasparente. Avanza guardando in basso,fissandosi i piedi perché non sa dovemetterli, e li posa uno davanti all’altro,lento e cauto, come se avesse appenaimparato a camminare e ne fosse ancorastupito. Le bambine si siedono sul bordoe lui le imita, le gambette penzoloni. Ilpiedino urta la grondaia con un vibrato,adesso il piccolo guarda davanti a sé e

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gli piace il rumore che fa, gli piaceesserci, sorride, continua a battere pergodersi l’effetto, una sola nota ripetutache alla fine la sveglia e va avanti anchequando Anna sa di nuovo dov’è. Il versodi un uccello notturno che non riconosce,una nota alta ma non acuta, calda,precisa, presa nel sogno fino a farneparte, che si prolunga adesso perriportarla indietro e tenerla lì inchiodataal letto, al mondo, alle cose che sonosuccesse e che sono finite e non tornano,però invece alcune sì, alcune restanonella forma che possono, a fare mutacompagnia. Ancora la voce diquell’uccello: non piange, non ride, dicesolo che c’è.

La mattina nel vino rimasto non

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bevuto galleggia una falena. Annaprende il bicchiere e lancia il liquidoche si disfa in un arco biondo prima dischiantarsi con un rumore di pioggiacontro le foglie d’edera.

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EPILOGO

Non è una vera presentazione, quellesono per le città, i festival, i convegni.Lo scrittore giovane ma di successo cheha accettato di scrivere la prefazione siè preso anche l’incarico di portare illibro per l’Italia “come se fosse mio”.Anna l’ha conosciuto dall’editore eadesso lo guarda aggirarsi per la villacon aria avida, un tipo pallido con gliocchialini e una giacca troppoarancione. Non sa se le piace. Forse è

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solo gelosa. Però i libri bisognalasciarli andare. Intanto eccolo lì, illibro, con la sua copertina seria, coloravorio, la carta pesante e porosa mal’aspetto svelto del tascabile, il titolo inrosso e sotto solo un piccolo disegno altratto che rappresenta un libro condisegnato in copertina un libro, e avanticosì fin dove non si vede più niente:un’idea d’infinito e passaggio, comeporte di armadi che si schiudono perprenderti nel loro buio.

Gregorio ha accettato di aprire VillaBiglia per l’occasione. C’è tanta gente,di tutto: generici curiosi, i bambini delpaese che corrono nel piazzale pascolatidalle maestre anche se è sabatopomeriggio, qualche collega di Anna,

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Nena tutta contenta, un paio digiornalisti locali che s’infilano stanzadopo stanza guardati a vista da Tiziano,un vecchissimo giardiniere che trascina ipiedi nella ghiaia e si sporge a sbirciaredentro le rose e scuote la testa, e non sicapisce se sia un tic dell’età odisapprovazione. Un’attrice con moltiricci legge bene alcune storie ai bambiniche all’improvviso domati siedonosull’erba e ascoltano con l’intensità dichi sta facendo un lavoro, la stessa chemettono nel tornare mobili einafferrabili quando la lettura finisce enemmeno il tavolo del rinfresco li attiraquanto il bosco. A guidare lo sciamesono Alma e Petra, vestite di violapallido. “È come il giardino del

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gigante,” dice Anna a Gregoriopassandogli vicino con un bicchiere delchiaretto di Stefano. Lui le dice: “Noncredere: io resto egoista”, poi prendesottobraccio il vecchio giardiniere e loguida tra le ortensie chinandosi verso ilsuo orecchio per farsi sentire.

Umile è rimasta seduta in prima fila,elegante in blu. Anna le porge ilbicchiere. “Grazie, no, mi ha già fattobere Zeno, le vecchie ubriache sonobrutte.” Lo cercano insieme con losguardo: si sposta tra i capannellistringendo mani, si prende la sua dose dipacche sulle spalle, sorride e allontana icapelli dalla fronte con un gesto cheriverbera come un suono sul viso diUmile. “Lo faceva sempre suo padre.

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Così,” e lo imita, infilando nel bianco ledita affaticate. Anna non nasconde lasorpresa vedendo l’anello: se lo ricordabene all’anulare di Iride, il gioiellobizzarro che non era mai riuscita aguardare da vicino. “Posso?” E trattienela mano nella sua per fissare negli occhidi smeraldo il teschio che le sorride unpo’ sconcertato come tutti i teschidavanti al mistero della morte cheinscenano, i denti d’oro imperfetto, lafessura tetra del naso, una coroncinad’alloro smaltato sul craniobianchissimo. Ai lati due conchiglie conuna minuscola perla rosa al centro, ealtri piccoli teschi a sorreggerli; e sottoun delicato fregio di smalto bianco eazzurro. È bello in un modo sinistro,

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indimenticabile. “Era l’unico che aveva.Diceva che era per ricordarsi chi avevasposato. La fama è una compagna natamorta.”

“Non è vero,” osserva Anna, piano.“Siamo qui a dimostrare il contrario.”

“Quando è tutto quello che hai,quando si prende il posto dei vivi,allora sì che è vero,” insiste Umile. “Senon lo sapeva lei.” Si riprende la manoe sfila con fatica l’anello dal ditonodoso, poi cerca la destra di Anna, larovescia, glielo depone nel palmo.“Voglio che lo abbia tu. Almeno tiricordi di stare dalla parte giusta. Coivivi.” La guarda con quegli occhi piùazzurri dello smalto, e Anna si senteraccontata. Come se in cambio di tutto

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quell’ascoltare fosse stata letta senzasaperlo. “È troppo,” dice.

“Io non ho donne a cui lasciarlo. Ecomunque non me l’ero mai messo.Un’ora sola basta, e avevo già paura dinon riuscire più a cavarlo via. Le manidel fare non portano anelli.” Umileguarda altrove, cose che sa solo lei.Anna chiude le dita e pensa a quanto diorrendo passa per le mani di una donnain una vita: sangue, piscio, merda,avanzi, polvere, terra. Tutto quel pulireper poi sporcare, sporcarsi di nuovo.C’è qualcosa di eroico o epiconell’impresa di ogni giorno,un’ostinazione per la vittoria, anche senon è l’esito che vince, niente restapulito per sempre: è solo lo slancio di

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saperci riprovare, e dopo, a lavoroconcluso, il vuoto di un’altra possibilità.

A guardarli insieme la somiglianza ètanto evidente che urla: sono alti quasiuguali, e c’è qualcosa nel passo e inquel modo di sorridere di rado e peròsenza riserve. Anna si chiede quanto siamerito dei geni e quanto invece contil’essere cresciuti vicini, specchiandosil’uno nell’altro. I gesti sono qualcosache si impara. Possibile che nessunoabbia mai capito, si chiede perl’ennesima volta. E ancora si risponde:non c’era niente da capire, sapevanotutti, da sempre. Il segreto di questopiccolo mondo che giudica e inchioda oguarda altrove e assolve secondo regole

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mobili, inafferrabili. L’errore èpretendere di conoscerle, una vita nonbasta. Lei si accontenta di far parte. Haappena cominciato. E alla fine non c’ènessun segreto, è così che siamo tutti:buoni e cattivi insieme, e per questosopportabili per noi stessi e per gli altriche ci vedono come sono anche loro e ciperdonano perdonandosi. Il problema èl’eccesso, l’estremo. Iride lo sapeva.L’ha anche lasciato scritto, inquell’unica pagina che non è espostaassieme agli altri appunti, i soli testiautografi rimasti, ora in mostra nelsalotto rosso dentro una teca di vetroche sembra rubata a una camiceria. Annanon sa più che valore abbiano, o se neabbiano del tutto, separati e sparsi,

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preziosi, forse, solo perché sono quelloche resta. Ma a qualcuno si èaffezionata.

Mettere un bambino davanti a trelibri e dirgli di prenderne solo uno èsottoporlo a una tortura che nonmerita. Finché possiamo, e per un belpezzo, non facciamoli scegliere. Non èil loro mestiere. Hanno bisogno chescegliamo noi per loro. Se glieloimponiamo li tormentiamo inutilmente,costringendoli a fare qualcosa per cuinon sono nati. Non ci riusciamonemmeno noi, figuriamoci loro.Abbiamo scelto per loro, abbiamoscelto loro in principio, e alloracontinuiamo.

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Più il tempo passa più mi piaccionole parole semplici, elementari, liscecome sassi su una riva. Bello, buono,pane, cielo, bene, male, cosa. Ci vuolecoraggio, suppongo, a farne uso.

La scrittura per ragazzi non è unachiave per affrontare o decifrare oanche solo leggere il nostro mondo.Scrivere allontana le cose, le rendeimpossibili. Noi raccontiamo permostrare l’impossibile, per spedire illettore in un mondo che non è il nostro,con altre regole, o senza. Mostrare, nonspiegare. Teniamoci caro l’impossibileche vogliamo più di ogni altra cosa,quello che ci fa sopportare il possibile.

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Quanto alla pagina assente, larileggerebbe volentieri, ma è la sola cheGregorio, contraddicendosi, ha volutotenere per sé, e lei non ha ancora trovatoil modo di chiedergliela. È il più lungodei frammenti scritti sul retro dei disegnirimasti. Anna li aveva disposti sultavolo, a suo tempo, uno accantoall’altro, spostandoli come pezzi di unrompicapo, volendo scoprire se Iride liavesse scelti e conservati per unaragione o pescati a caso dal cesto perfermare un pensiero una di quelle sereche dal fuoco non ti separeresti mai.Cedere all’ingenuità di scrivere percapirsi: doveva esserle costatoparecchio. È un miracolo che anche quelfoglio non sia finito tra le fiamme.

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Adesso Gregorio, seguito da Zeno,si avvicina a un cassetto, lo apre, prendequalcosa, una pagina grande che dà alfratello, e poi gli volta le spalle, comeaveva fatto Anna con lui, lasciandogli lospazio dell’intimità. La nota all’altrocapo della stanza, le fa un cenno con lamano. Lei attraversa il salotto perraggiungerlo. Aspettano insieme cheZeno si volti, reggendo il foglio fra ledita. Anna finalmente può rileggerequelle parole, e sono come le ricorda:precise, oneste. Le parole di unapersona che conosceva se stessa.

Io so bene di cosa manco: di quellacapacità indistinta e naturale di andareverso gli altri che al grado minimo si

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risolve in cura e se ben spesa sadiventare vera bontà: che vuol diregenerosità, attenzione, sincerodesiderio di fare migliori le cose perloro, in tutti i modi possibili:aiutandoli, mettendoli a loro agio.Tutto questo mi è negato: io non riescomai a capire che cosa la gente vuole dame, fraintendo, offendo. Forse gli altrinon mi piacciono abbastanza. Non sonobuona. La bontà è un dono, come iltalento per la pittura, o per le parole.Molti lo possiedono e nemmeno losanno; poiché non si tramuta in denaroo successo, non lo si può misurare intermini di cose, e dunque si tende asottovalutarlo. Non c’è meritonell’averlo ottenuto in sorte, e

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nemmeno nel farne buon uso. Esserebuoni è naturale, come avere gli occhiazzurri, o l’orecchio assoluto. Forse èsemplicemente questo: unastraordinaria, finissima capacità diascolto. Qualcosa di naturale e nonnecessario. Se gli uomini primitivifossero stati buoni, non saremmo qui.Ci vuole Caino per sopravvivere adAbele.

Se tutte le persone intelligentifossero anche buone il mondo sarebbeun posto magnifico. Non so se vale ilviceversa. Chi possiede un’acutaintelligenza di solito la usa a suovantaggio; chi è buono va verso glialtri, perché essere buoni per se stessinon ha senso. Si ha bisogno degli altri

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per essere buoni. Per essere intelligentino.

E qui sta la mia differenza, che hosempre portato con disinvoltura e soloadesso sento come un peso: io non homai avuto bisogno degli altri, o almenocredo. Morirò sola, ho allontanato chimi era vicino per essere sicura di nonavere nemmeno all’ultimo la tentazionedi fingermi quello che non sono. Odiole improvvisazioni. Non posso essereuna dilettante della bontà. Morirò solae detestata: in un certo senso facilito lecose a chi rimane. Potrannodimenticarmi meglio. Li lascio tuttileggeri, liberi da me. Spero che locapiscano, non mi aspetto gratitudine,ma considerazione per la mia

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considerazione sì. Lascio indietroqueste storie, che per gioco attribuiscoa Celia, anche se so che non sarebbemai stata capace di pensarne una. È ilsolo modo giusto – giusto per me – diesserle grata: riconoscerleun’intelligenza della bontà. Èun’illusione pensare che tutto questo sipossa insegnare: se così fosse cisarebbero corsi di tutti i tipi perrendere il mondo migliore. Nemmeno ilibri, nemmeno le storie ci migliorano:si limitano a dirci chi siamo. La bontànon si impara, però si può osservarla,ascoltarla, riconoscerla, e provare ildispiacere di non possederla. Secominceremo a non considerarla undifetto sarà pur sempre un passo

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avanti.

Zeno la lascia finire, poi volta ilfoglio e lo posa sul tavolo. Il disegnosull’altro lato è il più insolito di tutti:insolito, non bello. Difficile che idisegni dei bambini siano belli: sonosempre troppo impegnati a direqualcosa.

“Strano che sia sfuggito al camino,”osserva Gregorio.

“Io credo che l’abbia tenuto apposta.Magari per inventarci una storia,” diceZeno.

“Ma non c’è una storia così nellaraccolta,” dice Anna.

“Così come?” dice Zeno, e sorride.“Così.” Anche Anna sorride.

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“A volte quando andava nelle scuolescriveva solo l’incipit, o lo inventavasul momento, poi lo leggeva ad alta vocee chiedeva ai bambini di andare avanti,”dice Gregorio. “E alla finedisegnavano.”

“E dopo? Le usava, le storie nate inquesto modo?” chiede Anna.

“Che sappia io mai. Diceva che ibambini hanno gusti orribili,” rispondeGregorio.

“Questo me lo ricordo anch’io,”dice Zeno.

Insieme studiano il profilo tondodelle maiuscole, la cura penosa con cuisono state tracciate dentro l’ingombromassimo del foglio per non lasciarespazi vuoti. S’intravvede un reticolo a

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matita: ha calcolato bene, quel bambino,che le lettere non finissero tutteammucchiate verso il bordo destro comesuccede di solito. FINALE STUPENDO,dice la scritta che occupa metà pagina,una crosta di porporina bruciata daltempo. Il disegno schiacciato sotto èsemplice, quasi spoglio: una casa rossa,grande, molte finestre aperte, il tetto colcamino che fuma, e un prato davanti. Unalbero. Niente umani né animali.Nessuno. Il finale è una casa? Averla?Esserlo? Tornare a casa?

Com’è che le storie sanno sempretutto di te?

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PRIMA

“E alla fine i due fratelli che nonsapevano di essere fratelli siincontrarono e vissero felici e contentiinsieme per tanti anni.”

“Ma no, dai. Finisce troppo in frettae non si capisce niente.”

“E poi non dice che si sposano. Ame le storie che non si sposano nonpiacciono.”

“Comunque se erano due maschi nonpotevano sposarsi.”

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“Ma lo sapevano o non lo sapevano?Se non lo sapevano era come se non loerano. Fratelli, dico. Se una cosa non lasai non esiste.”

“Fossero. Si dice fossero.”“Erano, fossero. Possibile che non si

ricordavano niente?”“Ma era stata la strega, no? Che gli

aveva cancellato la memoria.”“A volte torna indietro. La

memoria.”“Mio nonno l’ha persa e non l’ha più

trovata. Poi è morto, ma senza.”“Magari la donna buona gli dava una

cosa da bere che gliela faceva tornare.”“Una pozione. Si dice pozione.”“Ma la donna buona non era magica.

Era normale.”

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“Magari noi non lo sapevamo peròera una fata.”

“Non vale. Nelle storie devi saperetutto subito.”

Mai più, si dice, stando lìappoggiata alla cattedra, in ascolto. Maè quello che si ripete tutte le volte: losapeva, e lo rifarà nonostante tutto. Èsolo un po’ stanca. A giocare si corronorischi. Almeno questi bambini sonoordinati, vigili. Non si danno sulla voce,aspettano il loro turno. La maestra èsparita da un pezzo. Meglio. Lei detestalavorare osservata.

“Io la so, io la so.” Il bambino conla maglietta blu sventola il braccio conurgenza. “Facciamo che il loro papàquando erano piccoli gli aveva dato

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metà di una medaglia ciascuno da tenereal collo, e quando combattono sonomezzi nudi e vedono queste metàmedaglie che luccicano al sole. Alloracapiscono tutto, gettano le armi e leriuniscono. Le medaglie. Basta metterlaall’inizio, la cosa della medaglia.Quando erano piccoli. Magari era ilregalo di una fata.”

“Ancora con ’sta fata.”“No, no,” salta su la bambina con le

trecce. “Facciamo che da granditornavano tutti e due a casa lo stessogiorno e si bevevano un caffè eparlavano di quando erano piccoli.Tranquilli, senza litigare. Io non voglioche combattono.”

“Ma così non è una fiaba. Nelle

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fiabe non bevono il caffè.”“A me piace di più,” insiste la

bambina con le trecce.“Io metto sempre delle cose vere in

quello che scrivo,” dice finalmenteIride. La guardano increduli, quasibeffardi. “Ma va,’” si lascia scappare ilbambino con la maglietta blu. Non èquesto che vogliamo, dicono gli altri congli occhi, tu non sei quella delle cosefinte? Scivolano fuori dai banchi comese l’avessero deciso insieme, siavvicinano, accerchiano la cattedra. Leifa il giro e si siede al posto dellamaestra. Adesso è davvero stanca.Odore di matite e mani sudate.

“Invece sì,” dice, per zittirli.Funziona qualche istante, poi

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ricominciano. La storia da finire èdimenticata.

“Come mai hai la morte al dito?”Ha intrecciato le mani davanti a sé e

l’anello, l’unico che porta, le sorrideincoraggiante.

“Non è la morte.” Guarda gli occhidi pietra, a cercare conferma.

“Come no. È un teschio.” Il bambinocoi capelli in piedi è sicuro di sé. Sichina per osservare meglio, attratto erespinto insieme. Più attratto. Quasi lesfiora la mano col naso. Lei la sposta, laposa in grembo.

“Appunto. È un teschio. È quello cherimane.” Non vuole infilarsi in questodiscorso. Coi bambini si deve parlare ditutto, o meglio, si può. Ma sarà vero?

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Scrivere è diverso. Poi lasci lì tutto, lilasci lì e te ne vai, e si arrangiano.Parlare è più pericoloso.

“È bello,” dice il bambino, quasistupito.

“Sì”.“Me lo presti?”“No.”“Me lo fai toccare?”“No.”Si stringono, si spingono. Sono così:

più li allontani più si avvicinano. Dovesarà finita la maestra?

“Ma tu ce li hai dei figli?”“Sì, uno. Si chiama Gregorio.”“Che nome strano,” dice la bambina

grassa, che si è fatta avanti a spallateper conquistare la prima fila. “Non

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conosco nessuno che ce l’ha.”“Tu come ti chiami?” chiede Iride.“Miriam,” risponde la bambina in

tono di scusa.“È contento del lavoro che fai?”

salta su il bambino con gli occhi azzurri,delicato come una femmina. E poi avanticol repertorio: ti aiuta quando scrivi? luili legge, i tuoi libri? gli hai dedicatodelle storie?

No, no, no e no. “Certo, perché ilmio è un mestiere molto bello e strano.Qualche volta mi dà delle idee, però luinemmeno lo sa: io lo guardo, lo ascolto,e poi lo mescolo con i bambini dellemie storie. Sì, e poi mi dice che cosa glipiace di più. Sì, sono tutte dedicate alui.” Com’è facile mentire. Che poi non

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è proprio mentire, è più dire quello chesi aspettano perché vadano a casacontenti e rassicurati e anche un po’invidiosi. Com’è che diceva Čechov? Siostinano ad apprezzare in noi qualcosache non amiamo né rispettiamo in noistessi. O che forse nemmenoriconosciamo.

Tutte queste domande. Ogni tanto liodia e basta, di un odio perfetto comequello che devono provare loro davantialle cose che non capiscono. No: comequello che prova lei davanti alle coseche non capisce. Non sa niente dibambini, scrive per loro perché non ècapace di fare altro. I nasi tronchi, levocine, le pupille liquide, la pelle tesa,bagnata da dentro. Fatti d’acqua, sempre

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così possibili. Non sa niente di figli,eppure ne ha uno. Silenzioso, solitario,scuro. Lo guarda e lo ascolta condistacco, come se appartenesse a unarazza non ancora classificata. Ma forsesono tutti così quando cominciano aessere altro da te. Un’altra cosa che nonsa. Lui è sempre stato altro, fin dapiccolissimo, l’intruso spiccato condolore dal suo corpo, il segno diqualcosa di accaduto e distante che le hadato un che di simile alla gioia. Lamemoria tende a sopravvalutare ciò chesalva, forse era solo soddisfazione, iltempo in cui tutto andava come doveva ocome fosse dovuto. A ogni modoGregorio non ha nessun merito, nétantomeno ha colpe. È quello che è. La

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vera conquista coi figli, quello che fa ladifferenza rispetto al resto del mondo, èriuscire ad amarli anche se non tipiacciono tanto. Ma il modo, quel modoche non si studia e non s’impara, lei nonl’ha mai posseduto né compreso. Perfortuna qualcun altro sì: Celia, peresempio, che madre non è mai stataeppure lo è tanto più di lei. Non è veroche i figli non si scelgono, che i genitorinon si scelgono. Si fa come si può, conquello che si ha.

Graffi di sedie spostate sulpavimento, la colonna sonora di tutte leclassi. Sono ancora lì che aspettano,guardandola dal basso all’alto, gli occhilustri, ansiosi.

“Dov’eri andata?”

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“Siamo anche noi un po’ i tuoibambini, adesso?” Che presunzione.Credere di poter essere amati soloperché si esiste. Tutta questa fiducia.Quando si perde?

“Potresti metterci per favore in unadelle storie che scrivi?”

“Ti ho fatto un disegno.”Un altro, pensa Iride. Questi mai

stanchi. Lo prende e fissa l’autore: ha icapelli leggeri, lucidi, e gli occhinocciola marcati da sopracciglia chesembrano tracciate col pennarello.L’aveva notato, tutto quell’armeggiare dimatite scelte e lasciate cadere e ripresein penultima fila – ma almeno era statotranquillo. Dà un’occhiata al foglio,pronta ad aggiungerlo alla pila degli

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altri che aspettano sulla cattedra, daportar via assieme alla gardeniaincellofanata con quel suo profumoquasi cattivo che bollirà in macchina nelviaggio di ritorno. Però qualcosa attirala sua attenzione. È come se il foglio nonvolesse staccarsi dalle sue dita, volessefarsi guardare bene.

È occupato per metà da una scrittad’oro tracciata e riempita con immensacura. Dovrà stare attenta alla porporina,che non si sparga tutta sul sedile. FINALESTUPENDO, dice la scritta. Il resto èquasi vuoto. Niente fate, principi, elfi,cavalli che sembrano mucche, cani chesembrano cavalli, arcobaleni, nuvolette,il solito armamentario della felicitàinfantile. C’è solo una grande casa

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rossa, un prato davanti, un albero.Lo sa che è la domanda da non fare.

Però non capisce, e non resiste. Menteun po’.

“Bello. Che cos’è?”“È la fine della storia, no?”“Ma non c’è nessuno.”Lui spiega con pazienza: “Se non li

vedi non vuol dire che non ci sono.Magari sono già dentro. Questo misteronon si saprà.”

“Vuol dire che tu non lo sai?”Il bambino esita. “No. Per quello

non li ho fatti.” Un silenzio. “Però lei sìche lo sa.” Un altro silenzio. “Lei, lacasa. Non lo vedi che è contenta?”

Se non li vedi non vuol dire che nonci sono. Magari non ci sarai tu, però

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loro sì, e la casa è contenta.“Lo posso tenere?”“Sicuro.” Il bambino ha una luce di

trionfo nello sguardo.“Come si fa a entrare?” domanda

Iride, senza sapere perché.“Basta bussare. Basta chiedere.”Non so come si fa, pensa Iride, e non

credo di poter imparare adesso. Ma siporta via il disegno, quei bambini, ilpomeriggio, tutto. E se anche nonriuscisse a farne niente, di questo tutto,alla fine è quello che ha. Poco, tanto,dovrà farselo bastare. Non è un finalestupendo; non è nemmeno un finale.

Del resto a lei le storie che finiscononon sono mai piaciute.

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GRAZIE

A Franca, mia mamma, per le storiedi campagna e di guerra.

A Grazia Olga, per certe case, certidettagli.

A Jan e Wendy con Camilla e Andrinper cibo, vino e altro.

A Tiziano per il nome, il pickup e ladevozione avventurosa che l’ha portatodove voleva essere.

A un bambino di una scuola diMilano: FINALE STUPENDO è roba tua.

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E agli Stupids, naturalmente.

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INDICE

Fine, inizioCose che accadono

1234

Cose che scadono123

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456

Cose passateCose tornate

1234567891011

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12EpilogoPrima Grazie