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Beppe FenoglioLA MALORANota introduttiva di Maria

Antonietta Grignani

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EINAUDIEinaudi, Torino 1954, 1990 e 1997(Tascabili Einaudi)INDICENota di Maria Antonietta GrignaniCronologiaBibliografia dei testi narrativi di

FenoglioBibliografia criticaLa maloraNOTARomanzo breve o se si preferisce

racconto lungo, “La malora” uscì nel1954 nella collana einaudiana “Igettoni” che due anni prima aveva tenutoa battesimo l’esordio di Fenoglio con “Iventitre giorni della città di Alba”.

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Promotore del debutto e regista occultodell’itinerario segreto che porta aidodici racconti dei “Ventitre giorni” (seidi argomento partigiano e sei langaroli)era stato, insieme a Calvino, il direttoredella collana Elio Vittorini, che nelrisvolto di copertina sottolineava ilpiglio “barbarico” del narratore nuovo,recuperando in sede critica il titolo“Racconti barbari”, una sua trovata, poirimossa per ragioni editoriali: “Fenoglioè nato nel 1922 ad Alba, dove è vissutofino a quando è andato soldato, e dovevive ancor oggi, procuratore d’una dittavinicola. Fuori d’ogni descrittivaregionalistica, Fenoglio della suaprovincia sa cogliere più ancora che un

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paesaggio naturale, un paesaggiomorale, il piglio in cui s’articolano irapporti umani, un gusto

‘barbarico’ che persiste come gustodi vita non solo nel costume delretroterra piemontese.

Ed è questo sapore ‘barbaro’ acaratterizzare i racconti che orapresentiamo, rievocanti episodipartigiani o l’inquietudine dei giovaninel dopoguerra. Sono racconti pieni difatti, con un’evidenza cinematografica,con una penetrazione psicologica tuttaoggettiva e rivelano un temperamento dinarratore crudo ma senza ostentazione,senza compiacenze di stile ma asciuttoed esatto”.

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Lusinghiero nell’apprezzamento edefficace, il giudizio di Vittorini erapersino profetico nel definire quello checostituirà anche in seguito il tonopersonale di Fenoglio: un lirismofrenato dell’aguzza nettezza della presasugli oggetti, una fedeltà ai luoghi (leLanghe) e alla storia vissuta (laResistenza) continuamente rinverditadagli aggiustamenti della tecnicanarrativa e dal lavoro formale attentoalle risorse antieffusive della lingua, alsuo potenziale di brevità espressiva dacui far sprizzare la reinvenzionestilistica.

Ma tra la fine della guerra e i primianni cinquanta oggettività ed evidenza

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cinematografica, tematiche tagliatebravamente sulla misura dellacontemporaneità più umile, piglioantiretorico erano proposte circolantiall’interno di quel progetto di organicitàtra intellettuali e nuovo contesto sociale,cui si dà il nome di Neorealismo; inquegli anni, nei paraggi di letteratura ecinema si aggiravano lo spauracchiodell’ornato retorico, lo spettro dellasoggettività fin troppo corteggiata tra ledue guerre nelle varie manifestazionidell‘“io ermetico”. Se, con CesarePavese, bisognava “riportare le parolealla solida e nuda nettezza di quandol’uomo le creava per servirsene”, un taleimperativo, etico e politico prima

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ancora che letterario, correva almenodue rischi. Da una parte quello dellapura resa agli oggetti, infilzati uno dietrol’altro come grani di un rosario,disarticolati da ogni solida architettura;dall’altra quello dell’apriori ideologico,il moralismo di sinistra contro cuiinsorge già nel 1950 Carlo EmilioGadda: “E il modo con cui i neorealistitrattano i loro temi è, di preferenzaquello di un umore tetro e taloradispettoso come di chi rivendichiqualcosa da qualcheduno e attendagiustizia, di chi si senta offeso,irritato…”

Su Fenoglio non tarda ad arrivare lagrandine, dalle pagine dell‘“Unità”:

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tacciato di qualunquismo piccolo-borghese, di “gretta acredine filistea” eaccusato perfino di turpiloquio Fenoglioera sospetto di lesa Resistenza per il suomodo spregiudicato di prendere incarico anche i risvolti meno edificantidella lotta partigiana. Infatti gli eroi dei

“Ventitre giorni” sono studentiromantici e individualisti in conflittocon la volgarità dei capi partigiani,oppure soldati-bambini alquantosbruffoni e incauti o ancora partigiani-ladri increduli della propria condannapersino di fronte al plotoned’esecuzione: a incombere su tutti laguerra civile, trattata come necessità dairisvolti grotteschi, senza commenti

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lirici, senza la retorica di rito nellecelebrazioni del 25 aprile. Allo stessomodo i racconti di ambiente langhigianonon lasciano spazio alle ansiepopulistiche o alla preoccupazionestorica, ma si affidano all’evidenzadella rappresentazione sullo sfondodelle colline, con i

“rittani”, i “bricchi”, le casupolebasse e storte e il dialetto a punteggiareun dialogo secco, in una dimensionesenza tempo.

Per fortuna c’è subito chi difendeFenoglio e sono i nomi prestigiosi diCarlo Bo, Giuseppe De Robertis, GenoPampaloni, Anna Banti. La Banti, inparticolare, contrasta, in nome

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dell’autenticità dell’esordiente, sia ifautori della letteratura come bracciosecolare della politica, sia il potenzialedirigismo di Vittorini: “I suoi motivi -scrive nel 1952 - non sono mai gratuiti,la sua scrittura non è mai strafottente, gliidiotismi dialettali vi sono introdotti conuna grazia brusca ma appassionata che ligiustifica: lontana dalla freddezza che liimpone in altri prodotti di narrativarealistica contemporanea, gergorapidamente svuotato e accademicoprima di nascere”.

Ma la pratica fenoglianadell’asprezza e l’agile trapasso tralingua e dialetto nelle parti dialogate,qualora posti in rapporto con il verismo

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di fine Ottocento, rischiavano pursempre di apparire ritardatari conl’aggravante della genericità dinotazioni sociali; se paragonati ascritture contemporanee come “Paesituoi” (1941) e “La luna e i falò” (1950)potevano incorrere nell’accusa oppostadi scarsa mediazione culturale. Fenoglioin effetti non si abbandona daintellettuale alla riscoperta mitizzantedel paesaggio o delle passioni primitivené indaga il rapporto città-campagna coni filtri ideologici di un Pavese,semplicemente perché lui non è tornatoin pellegrinaggio sulle Langhe, ma èvissuto lì da autodidatta, a due passi dauna popolazione rurale attaccata alla

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terra e alla “roba”, perseguitata dalla“malora”, chiusa in una separatezza chenon prevede deroghe alle leggi ferreedel rapporto di lavoro, nemmenoall’interno del nucleo familiare.

Accogliendo anche “La malora”nella sua collana, bilanciata tra libriquasi documentari e opere di pura forzacreativa, Vittorini dichiara di amare nellibro di Fenoglio la

“rappresentazione a contropelo diquanto può essere aspro l’uomo conl’uomo”, tuttavia fiuta il pericolo dicristallizzazione in una “maniera”, chein anni di entusiasmi regionalistici igiovani scrittori possono correre. Perciònel risvolto di copertina affaccia il

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timore che “appena non trattino più dicose sperimentate personalmente, essicorrano il rischio di ritrovarsi al puntoin cui erano, verso la finedell’Ottocento, i provinciali delnaturalismo, i Faldella, i Remigio Zena:con gli ‘spaccati’ e le ‘fette’ che cidavano della vita; con le storie che ciraccontavano, di ambienti e dicondizioni, senza saper farne simbolo distoria universale, col modoartificiosamente spigliato in cui siesprimevano a furia di afrodisiacidialettali”.

Anche questa, a suo modo, eracritica profetica, vista la rapidaobsolescenza di tanta narrativa d’allora,

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troppo facilmente ravvivata dallacosmesi dialettale. Quanto a Fenoglio,l’avvertimento riusciva doloroso nelcontempo e superfluo. Doloroso perchélo scrittore soffrì quell’avvertimentocome se fosse rivolto - il che non era -soprattutto al suo libro; superfluo inquanto la sua ricerca sul campo, laraccolta di fatti memorabili, di tipi e divicende tramandate dalla comunitàlanghigiana gli fornirà anche più tardiuna serie imponente di materialinarrativi di prima mano, cui solo lamorte nel ‘63 (a poco più diquarant’anni) impedisce di organizzarsiin insiemi armoniosi e magari in saghefamiliari come quei “Racconti del

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parentado” che avrebbero ben figuratoin volume insieme alla

“Malora”. Il diario del 1954testimonia la crisi successiva all’uscitadella “Malora”, ma subito dopo lacertezza di non aver costruito sufondamenti d’accatto la storia delragazzo Agostino Braida di SanBenedetto Belbo, mandato a servire daTobia Rabino in quel del Pavaglione,sulla “langa bassa” tra Benevello eTrezzo: “Da dove sono seduto vedo ungran tratto di langa, da Sant’Antonio aCiglié. Osservo ad una ad una, lecascine che vi stanno, quale sulle crestee quale emergente appena coi tetti dairittani, e una balsamica sicurezza mi

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pervade alla certezza che in ognuna diesse può benissimo viverci, così comeio le ho fatte vivere nella Malora, unafamiglia Rabino ed una Braida.Compenso all’atroce crisi di dubbio chemi ha attossicato questi ultimi giorni”.

La ricognizione sui luoghi confermala cognizione antropologica del pensierocontadino, l’attendibilità per così diregeografica corrobora, per sovrappiù diaccertamento fattuale, il sentimento chealona la “cosa”; ed è ciò che più contaquesto pensiero-sentimento nellaconcezione stilistica del libro, in cui ilgiovane servitore Agostino assume inprima persona la responsabilità dinarrare e commentare la propria vicenda

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di ragazzo povero ma fermo nel resisterealla sfortuna, in un contesto dominato dapure leggi economiche.

Anche questa volta da partecomunista si levano accuse di astoricitàe perfino di abuso della farcituradialettale, ma i sostenitori di Fenoglio siinfittiscono: da De Robertis a NicolòGallo che coglie bene la carica indirezione leggendaria sprigionata dallasintassi volutamente elementare, daMarco Forti a Anna Banti, che proponela formula felice di

“cantare storico” per questanarrazione di arcaica semplicità, similepiù alla narrativa di memoria diBilenchi che al realismo in quanto tale.

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L’assunzione del punto di vista edella voce di Agostino produce innanzitutto un ispessirsi dell’apportovernacolare nel libro, che segna ilmomento di massima fusione tra lingua edialetto. Dunque non solo un dialogatoreso più “orale” e verosimiledall’elemento piemontese come nei“Ventitre giorni”, ma l’intero tessutonarrativo quale “forma interna”

della parlata collettiva, con unprocedimento d’immedesimazione chericorda un poco quello dei“Malavoglia”. La delega al narratoreautobiografico significa qui assunzioneglobale del modo di pensare e di vederedi un ambiente, tra notazioni di costume

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(come l’uso della verbena per il mal diventre e il rituale della “porrata” sullaporta dell’innamorato respinto il giornodelle nozze della bella) e paragoniispirati alla mentalità ben concreta deirustici: “quelli tiravano come tre manzisotto un solo giogo”; “Baldino ridevacome fanno le asine quando le portano almaschio”; “Io ero rimasto come unvitello dopo la prima mazzata”. La vocenarrante non deve sopraffare il brusiocollettivo, di cui mima i carattericalibrando con dosaggio sobrioelementarità biologica e stuporeomerici.

Certo l’intento mimetico non haniente a che fare con la varietà

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documentaria. Per accorgersene bastaosservare con quanta sagacia Fenogliosvincoli il montaggio narrativo dallacronologia piatta degli eventi: l’io chenarra altera liberamente i rapportitemporali di ciò che è narrato.

Un’immagine di morte inaugura ilromanzo: “Pioveva su tutte le langhe,lassù a San Benedetto mio padre sipigliava la sua prima acqua sottoterra. //Era mancato nella notte di giovedìl’altro e lo seppellimmo domenica tra ledue messe […] Io ero ripartito lamattina di mercoledì…” La morte delpadre è violentemente anticipata rispettoalle sequenze fattuali, nell’ordine:impoverimento della famiglia, servizio

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militare del fratello maggiore, partenzadell’altro fratello Emilio, destinato alseminario dalla maestra creditrice deiBraida, separazione di Agostino dallacasa e servizio presso il mezzadroTobia. Il lutto avviene dopo un anno dilontananza, dimodoché proprio al centrodel libro sia collocata la ripresa intempo “reale” dell’incidente fatale, cuifanno seguito il ritorno a piedi diAgostino tra speranze irragionevoli epresentimenti funesti, la descrizione delfunerale e del pranzo offerto ai parenti,il flash-back sul singolarecorteggiamento che portò al matrimoniodei genitori e, finalmente, il raccordocon l’apertura del racconto: “E così, tra

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Stefano e Tobia, finii di partirmene ilmercoledì […] io in quei pochi giornich’ero stato di nuovo a casa, malgrado illutto, avevo rotto l’abitudine fatta alPavaglione in più d’un anno…”

Dal centro emotivo del resoconto sisnoda poi la seconda “tranche” di vitadel servitore: con l’amicizia e ildistacco dal compare ribelle e giocatoreperdente Mario Bernasca, la visita alseminario dove Emilio deperisce perfame, il suicidio d’un vicino, la malattiadella padrona e l’arrivo della ragazzaFede con cui Agostino intreccia unidillio breve e non a lieto fine, e daultimo il secondo e definitivo rientro acasa di Agostino, che si riallaccia ai

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poveri Lari in attesa di accogliereEmilio perché possa almeno morire nelsuo letto.

Il realismo di fondo è pertantoscreziato da una memoria che batte sultrauma più crudo, ma ritma le sequenzecon un piglio narrativo vicino ai modulidella tradizione orale. Il referto si aggiraintorno a pochi fatti, memorabili dentroil susseguirsi uguale dei giorni mesistagioni scanditi da una miseria qualecondizione fissa di vita. Al recupero diforme archetipe della narrazionepopolare si addice anche la vaghezzadell’ambientazione storica che si puòipotizzare agli inizi del secolo inferendoda alcuni particolari (come la paga in

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marenghi o la leva militare regolatadall’estrazione a sorte del numero), mache non è importante determinare; comenon è importante sapere subito cheAgostino racconta, cinque mesi dopo loscadere dei tre anni di servizio, dallasua casa ancor più misera di prima e inattesa che il fratello vi sia ricondotto permorirvi.

I temi emergono senza troppifronzoli psicologici anche quando ilsentimento che li accompagna è piùintimo, come nella rievocazione delfidanzamento dei genitori, introdotta coni colori e il leggero filtro comicodell’aneddotica popolare: “Se cercoqualche fatto che possa dare un quadro

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di mio padre e del nostro sangue, laprima cosa che mi viene in mente ècome ha fatto a conoscere e sposarenostra madre; ma bisognerebbe sentirlocontare da Netino, come ce l’ha contatoa me e a Emilio l’ultima volta chefummo dai nostri parenti di Monesiglioper la festa di San Biagio”. I preliminaridel matrimonio vengono poi dati inpresa diretta nel dialogo scontroso tral’energica Melina “voltata e china cheincestava le sue robiole” e il rudeGiovanni “vestito da chiesa ma con labarba della domenica prima, che se neaccorse solo quando davanti a Melina sitoccò la faccia con le mani”. La favolarievocata dal figlio è colta come di

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scorcio nei turni dialogici elementaridell’approccio bizzarro, ma proprio perquesto è paradigma verosimile di ununiverso di affetti improntato alpragmatismo più elementare, dove nonc’è spazio per l’effusione sentimentale eil malumore per un cattivo affare dirobiole si affianca tranquillamente alladecisione più importante della vita.

Molti addii punteggiano le sequenze,dominate da colori per lo più cupi e dauna sorta di fatalismo ancestrale. EccoEmilio, costretto dalle smanie religiosedella vecchia maestra in una prigioneforse più dura della servitù del fratello:“Emilio non disse niente, come nientedissi io a Tobia Rabino che diventa mio

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padrone, i vecchi dissero di sìabbastanza in fretta”.

La sua partenza sul biroccio delcompaesano che va al mercato di Alba èavvertita come strappo definitivo, cosìcome separazione necessaria ma noneuforica è quella della sposa Ginottadalla madre, la quale commenta amara:“Ma tu non sai che giorno è questo perte.

E’ il primo e ultimo giorno bellodella tua vita, o povera Ginotta” .Sull’aia sposo e parenti aspettanoimpettiti, fissati nella positura tipica delpudore contadino, quasi una fotod’epoca:

“Fuori lo sposo e i suoi erano già sul

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biroccio, duri come se fossero offesi mainvece era per resistere all’effetto delvino, guardavano avanti la strada chedovevano fare e a noi davano laschiena”. La ragazza Fede, partner di unidillio coltivato nel rispetto reciproco, èimprovvisamente prelevata dal padre elo segue passando davanti a Agostinocogli occhi bassi, “abituata a chinarsempre la testa”.

In fondo tutto il libro è una storia diseparazioni forzate. Alcuni addii sonocompensati dall’unica grazia concessa -in circostanze eccezionali - ai poveri: alpranzo di nozze della figlia di Tobia fada “pendant” il pranzo dovuto ai parentidopo il funerale del padre di Agostino,

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così che la ripetizione cerimonialeinterseca vita e morte.

Agostino naturalmente non puògiudicare con occhio di storico o disociologo la propria gente (dondel’assurdità delle accuse di realismo a-ideologico mosse, come si è detto, aFenoglio). Tuttavia egli raffigura per illettore le contraddizioni mascherateentro il quadro rituale. Se il padre dellasposa si mette a piangere solo perchéubriaco fradicio, le comari di casahanno bell’e pronto il commentosapienziale: “è solo il vino che è scesofino a toccargli il cuore […] dev’essereproprio il vino che gli è andato per lavita”. D’altra parte al pranzo funebre

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“se sul principio si stette ancora zitti èperché avevano tutti fame, ma poi siscaldarono a parlare; parlavano degliaffari che avevano fatto o che avevanoin mente di fare, di prezzi e dimediazione, a un certo punto zioAnnibale disse forte che lui nella vallatadi Bormida aveva dei crediti percinquanta mila lire…” Ed è davvero unarappresentazione a contropelo delladurezza dei rapporti umani questacondoglianza rovesciata in totalemancanza di carità, dura lezione per chidopo aver sperato di essere almenoassunto dai parenti ricchi deverassegnarsi; dal momento che, si sa, “aiparenti si comanda male, se li si vuole

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tenere almeno un po’ da parenti”.Un’abilissima tecnica di smorzatura

comprime l’elemento patetico, peresempio durante la cerimonia delfunerale dove Fenoglio, forse memore dicerto cinema neorealista, filtraattraverso l’occhio limpido del suo eroela commedia dei chierichetti monelli:“c’erano i chierichetti che quando i trepreti non avevano bisogno di loro sicimentavano l’un l’altro, si ficcavano ledita nel naso e stavano per dei minutivoltati verso di noi per veder bene inostri parenti di fuori. L’ho fatto anch’io,quando ero ben lontano dall’essere inprima fila dietro una cassa”.

Tuttavia, nel sincopato tonale,

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compare a tempo e luogo una nota piùforte, il segnale di uno slittamento versola dimensione simbolica. Ed è l’uscitadi chiesa, con “una ariaccia chearruffava la coperta sulla cassa e unavolta che fummo fuori del paese spense iceri alle carmelitane”; oppurel’immagine della casa oppressa dalcielo quando un presagio funesto premesul cuore semplice: “vidi dall’alto lanostra casa giù verso Belbo, mi sembròche portasse sul tetto tutto il peso delcielo, e mi diede un colpo al cuorevedere la luce alla finestra di nostri, unaluce che non poteva che essere quella diquattro candele”. O ancora quando lostrazio per la mala sorte propria e del

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fratello esplode davanti alle murasinistre del seminario: “davanti allapietra tutta cieca sentii il bisogno dichiamar forte nostra madre, per tutt’edue”.

Il tragico serpeggia nel torpore deigiorni faticosi e talora si manifesta nelfatto: straordinario, ma non per ciòstupefacente per il langhigiano checonosce l’attrazione del

“gorgo” o comunque di una mortevolontaria come uscita dall’assedio diun mondo troppo chiuso, come anello diuna catena di fatalità. Proprio aAgostino tocca trovarsi di contro alcadavere dell’impiccato e rammemorarela scena con la nettezza di un emblema

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di destino:“mi vidi contro lo stomaco i piedi di

Costantino. Era lui anche se non ce lafeci a guardarlo in faccia, il più su chearrivai con gli occhi fu il petto, doveaveva appuntato un foglio tutto scritto”.E il tema del suicidio, recidivo neiracconti langhigiani di Fenoglio, risuonaancora in altri accenni e persino nellascoperta della cittadina di Alba, offertaallo stupore del ragazzo come unametropoli dal gran fiume portatore dimorte: “Mi stampai nella testa icampanili e le torri e lo spesso dellecase, e poi il ponte e il fiume, la piùgran acqua che io abbia mai vista, macosì distante nella piana che potevo

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soltanto immaginarmi il rumore dellesue correnti, quel fiume Tanaro dove, asentir contare, tanti della nostra razzalanghetta si sono gettati a finirla”.

Raramente il punto di vista adottatoproduce il fastidio che si prova taloradavanti al naïf forzato o, per dirla intermini di tradizione italiana, al genererusticale; e si passi a Fenoglio ladescrizione della farmacia cittadina, unaresa senza condizioni ai presunti mezziimmaginativi del campagnolo (“E’quella in via Maestra, per andare alduomo, con delle bisce d’oro pitturatesu tutti i vetri, dentro rivestita d’un legnoantico e lustro come il coro della nostrachiesa di San Benedetto, e le scansie

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piene di vasi che tante coppie di sposidelle nostre parti sarebbero ben contented’avercene uno nella stanza da letto”).

Di fatto un formidabile elementoequilibratore è l’impasto linguistico, pereffetto di parlato popolare-regionale nonalterato da escursioni tra registri alti eregistri bassi, tipiche della scritturaespressionistica. La tensione verso lastringatezza, con la fusione a ciòfunzionale di lingua e dialetto, nonproduce nella “Malora” un italianoabbassato, ma -

come ha visto benissimo Beccaria -un “arcaizzamento-straniamentodell’italiano stesso”, con il datoregionale a dar il tono a una lingua

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inusitata. A parte qualche esperimentogemello (come il racconto “L’addio”coevo e vicino al nostro tema), Fenogliotenderà poi a alleggerire l’apportoregionale, che non lo interessa di per sé,ma tocca la massima estensione efrequenza nella “Malora” in accordo conlo statuto del narrato internoall’ambiente di cui narra.

Quanto al lessico si notino: “censa”‘privativa’, “stroppo” ‘branco’, “onta”‘vergogna’,

“particolare” ‘piccolo possidente’,“il naturale” ‘l’indole’, “bricco”‘monte’, “rubarizio” ‘furto’,

“diffizioso” ‘schizzinozo’, “sversa”‘contrariata’, “alla mira” ‘al punto’, “di

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sua scienza” ‘di sua iniziativa’, “genare”‘imbarazzare’, “schivare” ‘tener daparte’, “sbardati” ‘sparpagliati’, e cosìvia. Eppure l’estensione analogica forzatalora i limiti del dialetto o ne mette incampo varianti inusuali, come“partitante”, che non è qui l’impresarioma il giocatore di carte,

“arrembarsi” (“quattro uominialzarono la cassa, ci si arrembaronosotto”) lontano dal significato locale di‘avvicinarsi’, “preterire” ‘tralasciare’,secondo un’accezione anche latino-arcaizzante. E come intendere se non inchiave di originalità d’autore iprocedimenti astrattivi come “lo spessodelle case”, “il giallo delle

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carmelitane”, “il romper del giorno”, oquel “tagliare al rosso del sole”, chesono un po’ la firma stilistica dell’autorenascosto dietro il suo portavocedialettofono? Alla luce di opere uscitepostume, come “Il partigiano Johnny”,comprendiamo l’impegno dello scrittorenel crearsi uno stile attraverso lasperimentazione anche plurilingue e ilsuccessivo scavo sulle potenzialitàinerenti all’istituto linguistico italiano.

Pure la sintassi, dove abbondano isemplici accostamenti senza la gerarchiadel periodare subordinativo, mette afrutto certa incongruenza logica (peresempio l’anacoluto) non solo a scopomimetico, ma anche e soprattutto per

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sottolineare l’elemento semantico fortedell’enunciato: “Io sono un disgraziato,che è difficile trovare il compagnogirassi tutte le langhe”; “tutto lavoro chele nostre mani sono capaci”, “Ginottache non se l’aspettava lo scrollo lasbatté giù dal sedile”.

Del resto, per misurare la libertàinventiva di Fenoglio nel costruirel’ideale forma linguistica di uncontadino fattosi per pentecostenarratore, basta notare l’uso del passatoremoto, estraneo alle parlate del Nord,ma idoneo alla creazione di una distanzaappunto

“remota” e, a suo modo, epica inquanto sottratta alla maniera

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neorealistica del ragguaglio sullacontemporaneità. Da tale distanza,procurata in virtù di stile, sembraarrivare anche la voce della madre, lacui preghiera appena udita dal figlio(“ma stasera senza volerlo ho sentitomia madre pregare”) chiude con ladignità di un sacro primitivo unavicenda a bella posta svincolata sia daiconflitti che dall’assoluzione delpresente: “E noi tutti che saremo lassùteniamo la mano sulla testa di Agostino,che è buono e s’è sacrificato per lafamiglia e sarà solo al mondo”.

MARIA ANTONIETTA GRIGNANILa presente “Nota” è

precedentemente apparsa nel volume

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Beppe Fenoglio, “La malora”, “NuoviCoralli”, Einaudi, Torino 1990.

CRONOLOGIA1922Giuseppe (Beppe) Fenoglio nasce ad

Alba (Cuneo), il primo marzo, daAmilcare (classe 1882) e da MargheritaFaccenda (del 1896), il cui matrimonioè stato celebrato il 16

dicembre 1920. La famiglia abita incorso Langhe. E’ il primogenito di trefigli (di un solo anno maggiore delfratello Walter, di undici della sorellaMarisa). Il padre è originario diMonforte; sceso in città per cercarvi unasorte meno avara, vi ha trovato lavorocome garzone di macelleria. E’, per

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dirla con Montale, un mite carnefice:uomo di animo dolce, portatoall’amicizia, lavoratore; solotendenzialmente, se non altro perestrazione, un socialista turatiano, chepersevera a non prendere la tessera delfascio; quanto a religione, un “barbèt”(in albese, uno che se la fa poco coipreti). La madre è di Canale d’Alba,nell’Oltretanaro. Il governo dellafamiglia è tenuto saldamente da lei,donna di educazione cattolica,intelligente, energica e concreta: uncarattere forte, ambiziosa per i suoi figlidi una vita migliore.

“I vecchi Fenoglio, che stetteroattorno alla culla di mio padre, tutti

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vestiti di lucido nero, col bicchiere inmano e sorridendo a bocca chiusa. Chesposarono le più speciali donne dellelanghe, avendone ognuno molti figli,almeno uno dei quali segnato. Cosìsenza mestiere e senza religione, cosìimprudenti, così innamorati di sé.

Io li sento tremendamente i vecchiFenoglio, pendo per loro (chissà se unfuturo Fenoglio mi sentirà come io sentoloro). A formare questa mia predilezioneha contribuito anche il giudizio negativoche su di loro ho sempre sentitoesprimere da mia madre. Lei èd’oltretanaro, d’una razza credente emercantile, giudiziosissima e sempreinsoddisfatta Questi due sangui mi fanno

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dentro le vene una battaglia che nondico” (“Diario” XXXIV,

“Myself”).1928-29.Verso la fine degli anni Venti

Amilcare Fenoglio si mette in proprio,da garzone diventando padrone di unamacelleria nell’antico centro di Alba, afianco del Duomo, in piazza Rossetti 1,angolo via Manzoni. La famiglia sitrasferisce in un appartamento sopra labottega, affittato da Madama Rogé(Roggero). Per qualche tempo i proventidella macelleria sono discreti, così dapermettersi anche l’acquisto di una Fiat509 su cui fare, con i bambini, breviviaggi nel Cuneese. In piazza Rossetti i

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Fenoglio vivono fino al 1957.“Quando penso, così, alla mia vita

di ragazza in piazza Rossetti, mi accorgoche è stata molto insolita, bellissima ebruttissima insieme, irripetibile comeirripetibile era la nostra casa, pur nellasua enorme bruttezza, vecchiezza escomodità. Mio fratello Beppe, pur nonavendo la nostra (di mio fratello Waltere mia) più lunga retrospettiva, è vissutoabbastanza per capire l’importanza diessere nati e cresciuti in quella casa acavallo di due piazze e col Duomo diAlba a venti metri. Tutte le mattine, dalnostro balcone la casa ci offriva duemercati, col vociare della folla chesaliva e ci accompagnava in cucina, con

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le grida dei mercanti che vendevanocravatte, pentole, stringhe, anticalli, masempre in una apoteosi oratoria, tenendoavvinti a sé grappoli di gente: con lafragranza variopinta ed odorosa dellaverdura fresca sulle bancarelle: già unosguardo dal balcone ci permetteva difissare il menù meridiano: e i formaggi eil parmigiano? Che inviti di altagastronomia già al mattino presto! Lacasa ci offriva, giorno per giorno, la vitadi una chiesa, sonoramente edolfattivamente: l’odore dell’incenso ciraggiungeva fino in casa, le sue ondatedi frescura ci rallegravano nelle sered’estate; i canti delle varie funzioni cierano così familiari che, ricordo, io

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canticchiavo il Tantum Ergo e il DiesIrae, Dies Illa (per me privo di qualsiasisenso luttuoso) come una bellacanzonetta, sempre in voga: ci sfogliavadavanti tutta la vita cittadina, perquell’attinenza che aveva (ed in parte haancora) con la vita religiosa, dalBattesimo alla Comunione, alle Nozze,ai Funerali (tutta la gamma della gioia edel dolore umani), alle grandi funzioninatalizie, pasquali, di novene, così,stando sulla porta di casa nostra, conquella naturalezza di uno che sa diessere in possesso di un regolarebiglietto di invito. Dentro, la casa, eraqualcosa di speciale, non so se oggi siaancora possibile pensare di abitare così:

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scombinata su due piani, uniti all’internoda una scala di legno lucidato in nero,ricoperta da una corsia; proprio allamoda dei ricchi; che era l’orgoglio dimio papà.

[…] Nella camera della scala sitenevano i rapporti ufficiali, qualchepranzo che mia madre dava (sempreavendo in mente un disegno preciso) ed’inverno era sempre così fredda che laevitavamo. La sua vera funzione l’hasvolta durante il periodo del miofidanzamento, quando io, mostrando soloquella camera, tenevo a crearel’illusione che anche le altre fosserocosì. Ora mi ricordo che da quella scala,quando io ero piccolissima, salivano su

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i miei fratelli con un lenzuolo in testacome i fantasmi, per venire a far paura ame che, seduta sul letto, strillavo esgambettavo”. (“Lettera di MarisaFenoglio”, in Lajolo 1978.9-11).

1928-32.Supera, in quattro anni, le cinque

classi elementari (saltando l’ultima)nella scuola Michele Coppino. E’ affettoda una lieve balbuzie che si accentuanegli stati emozionali. Si distinguepresto come scolaro silenzioso,riflessivo e di temperamento fantastico,appassionato alla lettura. Per consigliodel maestro Chiaffredo Cesana la madre,nonostante le ristrettezze della famiglia,lo iscrive al ginnasio.

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1932-37.Frequenta il Ginnasio Giuseppe

Govone di Alba. Fino al ‘37 trascorre levacanze estive sulle colline delleLanghe a San Benedetto o a Murazzano,ospite di parenti paterni. Con lo studiodella lingua inglese, iniziato al secondoanno (sotto la guida di Maria LuisaMarchiaro) nasce in lui una passioneesaltante per la civiltà e la letteraturaanglosassoni, in cui va scoprendo valorie ideali di rigore e di moralità consonialle sue aspirazioni di vita. E’

per lui la rivelazione di una realtàpiù degna, fatta di positive certezze, sulrovescio dei falsificati modelli dellapropaganda fascista e dell’angusta

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mentalità piccolo-borghese.Insieme con le molte letture di libri

presi a prestito dalla biblioteca dellascuola, sono di questi anni anche leprime traduzioni degli autori amati,inizio di un esercizio durato fin quasialla morte. Nuotatore spericolato, colfratello e gli amici esplora le anse delTanaro, il fiume della sua città, conoscei segreti delle sue rive, le acque dellacorrente a quei tempi ancora limpide ericche di pesca. Alto, asciutto, ha fisicoatletico. Gli piace la vita sportiva, lapallacanestro, il calcio, il tennis;partecipa anche della passione, diffusaancora nei suoi luoghi, per le partite dipallone elastico, frequentando, come

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farà anche in séguito, lo sferisterio“Mermet”.

“Devo dire che io amavo più la cittàche i paesi delle langhe. Beppe invecene era addirittura innamorato. E non èche ci stesse molto. soprattutto nei primianni. Si andava lassù a fare le ferieperché a casa facevano già fatica amantenerci agli studi e non potevanocerto mandarci al mare come era peralcuni nostri amici”. (“Testimonianzadel fratello Walter”, in Lajolo 1978.45-46).

“La mamma ricorda che il libroprediletto, quello da cui era difficile sistaccasse, era un piccolissimo tomo,un’edizione tascabile, di Shakespeare”.

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(Lagorio 1975.4).“conservo le sue lettere in uno

scrignetto insieme a quei foglietti su cuilui traduceva le poesie inglesi che noigli chiedevamo al tennis e allapallacanestro. Ne ho quattro o cinque, esono Annabel Lee, Evelyn Hope, unsonetto di Shakespeare e quella ballatascozzese che ci piacque tanto e dove stascritto: ‘I hate you, I detest vou, I loathyou, / But O why don’t you kiss meagain?’”. (“Appendice a P.d.B., “Opere”I.III, p.p. 2101-2).

“Fenoglio fin dagli anni del ginnasioad Alba, si era immerso, come un pescesi immerge nell’acqua nel mondo dellaletteratura inglese, nella vita, nel

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costume nella lingua, particolarmentedell’Inghilterra elisabettiana erivoluzionaria: viveva in questo mondofantasticamente ma fermamenterivissuto, per cercarvi la propria‘formazione’, in una lontananzametafisica dallo squallido fascismoprovinciale che lo circondava. Più voltemi disse che da adolescente avevaspesso sognato di essere un soldatodell’esercito di Cromwell, ‘con labibbia nello zaino e il fucile atracolla’”. (Chiodi 1965.131).

“L’immedesimazione di Fenoglio colmondo dell’Inghilterra rivoluzionarianon era per lui un’evasione da ingenuoprovinciale, come qualcuno ha creduto.

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Fenoglio detestava i letterati dimestiere, ma era sufficientemente scaltroe colto per non cadere in ingenuità diquesto genere. Fenoglio andava allaricerca di un modello umano, di una‘formazione’, di uno stile diverso daquello che il ‘fascismo’ gli offriva.Hanno scritto molto di sé coloro che siconvertirono all’ultimo momento, dopolunghi viaggi attraverso questo o quello,ma forse nessuno scriverà mai la storiadi non pochi adolescenti che impararonoa rivoltarsi sui banchi di scuola, magarileggendo Platone o Tucidide, eportarono innanzi il loro rifiuto fino allalotta armata e alla morte. Solo il casodecise che Fenoglio non fosse uno di

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loro”.(Chiodi 1965.132).1937-40.In prima liceo (sempre al Govone di

Alba) ha per professore di filosofia donNatale Bussi, rettore del Seminariodiocesano, col quale Fenoglio manterràcordiali rapporti per tutta la vita; interza, due insegnanti d’eccezione: perl’italiano, Leonardo Cocito, già suoprofessore nell’ultima classe delginnasio (impiccato dai tedeschi il 7settembre del ‘44), e, per la storia e lafilosofia, Pietro Chiodi, studioso diKierkegaard e di Heidegger (deportatoin Germania, poi partigiano con Cocito),entrambi maestri mai dimenticati di

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antifascismo.Nelle estati del ‘38 e del ‘39

trascorre le vacanze al mare di Alassio.Ama il cinema, ricorda con facilità imotivi delle colonne sonore, le canzoniascoltate alla radio o da un disco, che sasubito ricantare con bella voce. Ha,della bellezza fisica, un’ammirazionefortissima che esasperando in lui unsentimento d’inferiorità (per la suabalbuzie e “il naso alla Cirano, piantatosu un viso bitorzoluto” [Chiodi1965.131]), lo rende perlopiù timorosoe impacciato nei rapporti con lecompagne; sulle quali tuttavia il fascinodella sua cultura di

“outsider” e certa naturale

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distinzione non mancano di fare colpo.Fra i difficili amori nati al liceo dominaquello per una giovane albese, di piùelevato ceto sociale, che Fenoglio neisuoi scritti chiamerà Fulvia,dedicandole “Primavera di bellezza” efacendo della sua intrigante personalitàdi adolescente, avida di una vita nonqualunque, il tema di “Una questioneprivata”.

“Monsignor Bussi, che accoglievasempre molto amichevolmente Beppe inseminario ad Alba, ha confermato che,proprio a seguito delle letture sullastoria inglese, Fenoglio si era datoun’educazione luterana considerandotutte le religioni sullo stesso metro e

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cioè sul piano storico: ‘Già a sedici anni- ricorda don Bussi - Beppe mi fecetrovare una lettera sotto la porta del mioufficio dove mi diceva che non avrebbepiù frequentato il seminario e le pratichereligiose’”. (Lajolo 1978.142).

“Io avevo ventitré anni quandogiunsi ad Alba per insegnare filosofia estoria al liceo classico.

Fenoglio ne aveva allora diciotto.Per il ventotto ottobre era obbligatoriosvolgere un tema ministeriale di elogiodella marcia su Roma. Nell’oraprecedente alla mia, il professore diitaliano aveva dettato il solito insulsotema. Quando io entrai in classe notaisubito uno studente nel primo banco con

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le braccia incrociate che guardavaannoiato il foglio bianco.

Era Beppe Fenoglio. Lo invitai ascrivere, ma scuoteva la testa.Preoccupato per le conseguenze, fecichiamare il professore di italiano. EraLeonardo Cocito. Parlottarono dacomplici. Ma non ci fu verso. La paginarimase bianca”. (Chiodi, “Fenoglioinedito”, 1968, p. 41).

“Milton [alter ego di F.] era unbrutto: alto, scarno, curvo di spalle.Aveva la pelle spessa e pallidissima macapace di infocarsi al minimocambiamento di luce o di umore. Aventidue anni, già aveva ai lati dellabocca due forti pieghe amare, e la fronte

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profondamente incisa per l’abitudine distare quasi di continuo aggrottato. Icapelli erano castani […] All’attivoaveva solamente gli occhi tristi eironici, duri e ansiosi, che la ragazzameno favorevole avrebbe giudicato piùche notevoli. Aveva gambe lunghe emagre, cavalline, che gli consentivanoun passo esteso, rapido e composto”.(da “Una questione privata” cap. 1).

1940 -42.Si iscrive alla Facoltà di Lettere

dell’Università di Torino, che frequentasaltuariamente, e sostiene nel bienniootto esami, con scarso interesse erisultati non brillanti.

1943.

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Nel gennaio è chiamato alle armi efrequenta il corso di addestramentoAllievi Ufficiali, prima a Ceva (inP.d.B. chiamata Moana), poi a Pietralata(Roma).

Con il proclama di Badoglio dell‘8settembre e lo sfasciarsi dell’esercitoregio risale avventurosamente al nord erientra in famiglia.

In dicembre, Beppe e il fratellopartecipano all’assalto della casermadei carabinieri di Alba che vengonocostretti a liberare i padri dei giovanirenitenti ai bandi di reclutamentofascisti, incarcerati per costringere iloro figli a presentarsi. In seguito aquesto fatto vengono imprigionati vari

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notabili della città e anche il padreFenoglio, poi rilasciato.

(L’episodio e rievocato nel“Partigiano Johnny” I 4).

1944.Nel gennaio si unisce alle prime

formazioni partigiane, entrando in unraggruppamento comunista della BrigataGaribaldi (capitano Zucca), comandatodal tenente Rossi, detto “il Biondo”, eoperante nella zona tra Murazzano eMombarcaro. Partecipa allo sfortunatocombattimento di Carrù (3 marzo). Ilfratello Walter, che in seguito all’arrestodel padre si era presentato al distretto diMondovì, trasferito ad Alessandriadiserta nascondendosi a casa. Anche

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Beppe dopo lo scontro di Carrù e ilsuccessivo, massiccio rastrellamentorientra in famiglia. Ma, per una spiata,vengono entrambi arrestati, insieme conil padre, la madre e la sorella. Le donnevengono presto rilasciate, i maschi sonoalla fine liberati, per intercessione dimons. Grassi Vescovo d’Alba, medianteuno scambio di prigionieri. In settembreriprende la strada delle colline, verso leLanghe del sud, insieme con Walter,unendosi alle Formazioni AutonomeMilitari (Prima e Seconda DivisioneLanghe) di Enrico Martini Mauri(Comandante Lampus) e di Piero Balbo(Comandante Nord): fanno parte delpresidio di Mango, della Seconda

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Divisione Langhe, agli ordini di PieroGhiacci (il Pierre del “PartigianoJohnny”). E’ con le forze che il 10ottobre liberano Alba e la tengono sinoal 2 novembre. Dopo il proclama delgenerale Alexander, che invita ipartigiani a disperdersi per riprenderel’azione decisiva in primavera, trascorreda solo l’inverno, in un terribileisolamento, a Cascina della Langa. (v.Foglio matricolare dei Volontari dellaLibertà riprodotto in Vaccaneo 1990.88-89; VIR [Vittorio Riolfo], “BeppeFenoglio e gli uomini al muro”,“Corriere Albese”, 12 giugno 1952, cit.da Rizzo 1976.48

n.; e testimonianza orale di Walter

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Fenoglio).“Quando, nell’estate del 1944, i

repubblichini del tristemente notocolonnello Languasco, di stanza adAlba, andarono in Piazza Rossetti adarrestare tutta la famiglia Fenoglio, lamadre, all’atto di chiudere la porta dicasa, si voltò indietro, cercò intorno congli occhi e disse: ‘se dobbiamo andaretutti, prendo la gatta: anche lei è dellafamiglia’, e uscì con la gatta tra lebraccia”. (Racconto orale di LucianaBombardi Fenoglio).

“Prima dell’esperienza partigianaconoscevo solo di vista Fenoglio. La suafigura longilinea, alta e legnosa nonpoteva passare inosservata all’uscita del

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Liceo d’Alba, quando, talvolta, andavoad attendere quella ragazza di Neive cheverrà poi citata nel libro,

‘Partigiano Johnny’ […] RitrovaiBeppe a San Donato di Mango all’iniziodell’estate 1944, durante la fase diriorganizzazione a zona occupata dalleformazioni Militari Autonome.

[…] Volevo farmi un concettodell’individuo con cui avrei condiviso egiocato la sorte degli uomini affidati.Tre anni di guerra combattuta, un po’ sututti i fronti, mi avevano abituato apesare istintivamente i dipendenti ed isuperiori. Da una prima analisi, rilevaiche avevamo assai poco in comune aparte la cittadinanza Albese ed una

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intransigente posizione contro unopseudo-governo al servizio dei tedeschiche occupavano il territorio. Infatti: lasua cultura aveva un orientamentosquisitamente umanistico mentre tutti imiei precedenti studi mi avevanoirrimediabilmente portato nel campotecnico-scientifico.

Il suo pensiero, estremamente liberoed indipendente, non aveva ancorasubito l’azione moderatrice da parte diuna società retta sulla disciplina ‘pronta,cieca, assoluta’ quale era quellamilitare. La sua esperienza cameratesca,spregiudicata, liceale, si contrapponevaa quella d’un reduce abbastanza incallitodalle alterne vicende d’una lunga

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permanenza in zona d’operazione con lapesante responsabilità di governo delpersonale dipendente. Mi stupì tuttaviail fatto che ci trovammo immediatamentea nostro agio, come se fossimo cresciutiinsieme. Entrambi amavamo osservarepiù che parlare. Spesso le serate, lelunghe interminabili serate sulla collina,le trascorrevamo seduti sul crinale diSan Donato, del Boscasso opasseggiando sulla stradina dellaCascina Isacco. Le nostre conversazionierano intervallate da lunghi silenzi in cuii nostri pensieri concordavano senz’averbisogno di una conferma vocale. A volteun cenno con la mano (caratteristico erail suo, fatto in senso dispregiativo), a

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volte una parola concisa suggellava unalunga elaborazione mentale:

‘Paias’ ‘Bastard’ detto nel sensodialettale ed antico della parola,‘Wretched man’, ‘E ci sta bene’.

Le sue frasi erano normalmente assaiconcise, pensate, non esposte, masparate come una raffica. Indubbiamentela poca fluidità nella conversazione, pernaturale compensazione in un soggetto dielevate capacità intellettive, lo portava ameditare, a limare, a stringerel’espressione per poi spararla precisa,compatta, significativa”. (gen.

Piero Ghiacci, “Con Fenoglio nelleLanghe partigiane”, Convegno Nazionaledi studi fenogliani, Alba, 7-8 aprile

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1973).1945-46.Con il reimbandamento del febbraio,

il 24 combatte la battaglia di Valdivillain cui muore, fra gli altri, il padre diNord (Giovanni Balbo, detto Pinin) ecadono, fucilati dopo la cattura, Tarzan(Dario Scaglione) e Set (SettimoBorello). Dal marzo al maggio svolge ilcompito di ufficiale di collegamento conle missioni alleate, nel Monferrato, nelVercellese e nella Lomellina. Partecipaal combattimento di Montemagno del 19aprile (al comando di Tek-tek, nome dibattaglia di Luigi Acuto).

Il 2 giugno vota per la Monarchia.Vive con disagio il ritorno alla vita

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normale e con essa la ripresa degli studiuniversitari che decide di abbandonare.Riprende invece, anche con maggiorfoga, l’abitudine di appartarsi ascrivere, in compagnia dell’eternasigaretta. Riempie pagine e pagine,interi quaderni. Solo di scrivere gliimporta, disinteressato a tutto il resto,dipendente per tutto il resto dagli altri.In una famiglia dove i sentimentiprofondi non osano mai squarciare ilvelo di un pudore atavico, tradursi inparola o in gesto, nascono ora, tra lui e isuoi (escluso il solo padre), forticontrasti esacerbati dalle difficoltàeconomiche (i guadagni della macelleriacontinuano, dati i tempi, ad essere

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scarsi). Più aspri, fino allo scontroaperto, i dissensi con la madre, che nongli nasconde la delusione per la suarinuncia a finire gli studi e ladisapprovazione per il suo perdere iltempo a scrivere anziché a studiare;oltre che per il vizio incallito del fumo.A lei che gli rimprovera, con tutti glisforzi fatti, di non mirare a una laureacome il fratello, “La mia laurea - si dicerispondesse una volta, - me laporteranno a casa sarà il mio primolibro pubblicato”.

La sorella Marisa rievoca quellebattaglie familiari (lettera cit. da Lajolo,1978.32-33), per lei “sempredolorosissime e sempre vissute in prima

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persona, costantemente dalla parte di“sua! madre”. “Quando si annunciavanocome l’incubo di un temporaledevastatore, mio padre si affrettava achiudere porte e finestre per via deivicini e se ne andava, e io restavo, intumulto, tra loro due che si affrontavanoin cucina come due duellanti su unterritorio prefissato: mia madre dallaparte del lavandino, mio fratello dallaparte del tavolo dove si mangiava. Isoldi e il fumo ne erano lo spunto, maerano scontri esistenziali violentissimitra due che parlavano lingue diverse. Ioparlavo, allora, solo quella di miamadre, la capivo troppo per non volerlaaiutare, ne giustificavo gli sfoghi, le

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urla, le maledizioni e Beppe, dirimando, nelle sue invettive miaccomunava a lei, aggiungendo per meuna rabbia stizzosa e sprezzante perchénon mi riconosceva come antagonista.Questi scontri hanno lasciato in me unatraccia profondissima: ancor oggi sesento parlare forte con accenti didisperazione, la paura mi assale e misento perduta. Dopo ognuna di questelotte, la casa muta dopo tutte quelle urla,mia madre era come morta, malata,sfiancata da quella fatica immensa, leicosì attiva non lavorava più, passavaore seduta su una sedia a guardaredavanti a sé. Una parvenza di normalità,per non tradirsi davanti a lui, tornava

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solo quando Beppe veniva a casadall’ufficio per mangiare. Veloce, insilenzio, lo servivo; mangiava eripartiva. Poi a stento, dopo giorni, siricominciava. Ma ogni volta cilasciavamo molte penne, tutti”.

“Più che gli alimenti era il fumo adare a Beppe il supporto e l’energia perogni sua attività cerebrale. Fumavamolto, a volte calmo, riposato, inebriato,studiando le volute del fumo: a voltenervoso, con un accanimento che loportava a tormentare la cicca: senzasigarette perdeva molte delle suenotevoli capacità di autocontrollo”.(gen. Piero Ghiacci,

“Con Fenoglio” cit., 1973).

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“Allora ci vedevamo ogni giorno alcaffè o in casa di amici. Ci eravamolasciati nel 1940, alla fine dei suoi studi,e ci ritrovammo nel 1945. Fenoglioaveva fatto il partigiano nelle Langhedel Sud, nelle formazioni azzurre.Fungeva da ufficiale di collegamentocon la missione inglese, e si aggirava trapartigiani cenciosi in una impeccabiledivisa da ufficiale inglese. Iocombattevo nelle Langhe del Nord conCocito, ma non lo incontrai mai. Allorasua maestà il Re, la missione inglese e il‘maggiore’ Mauri erano i tre baluardidel suo spirito puritano e ‘i rossi’ unincomprensibile sottoprodotto dellaguerriglia. Così, quando ci ritrovammo

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nel 1945, i nostri discorsi erano sempreimbarazzati, anzi, a un certo punto, siinterruppero. Ma tutto questo dovevadurare poco”. (Chiodi 1965.133-34).

1947.In maggio, per la sua conoscenza

dell’inglese e del francese, è assunto,come corrispondente con l’estero, inun’azienda vinicola di Alba (l’anticaditta “Figli di Antonio Marengo”, diMussa, nei pressi della stazione), cheesporta soprattutto vermut e spumanti.

Più tardi ne sarà nominatoprocuratore. E’ un posto che, pur avendoofferte migliori, manterrà sempre, con lastima e l’affetto di tutti; un compitoassolto con probità, non troppo

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impegnativo, salvo in certi periodidell’anno. Mentre gli consente dicontribuire ai bisogni della famiglia(Beppe lascia il suo intiero stipendioalla madre che gli dà, di volta in volta, isoldi per il fumo e poco altro), ilmodesto impiego gli concede moltotempo per scrivere; persino in ufficio,quando libero dai suoi doveri.

I rari viaggi per lavoro lo portano almassimo a Genova o a Torino; talvoltain Francia.

“Rientrando da Genova dove hocurato un’esportazione (questo infatti èil mio mestiere)

[…] Devo venire ogni tanto a Torinoal Consolato Americano per pratiche

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d’esportazione…”(lett. a Calvino del 10 nov. 1951);

“Scusi l’enorme ritardo, ma la campagnanatalizia e, peggio, certe seriecomplicazioni doganali mi hannolungamente trattenuto in Francia (traModane, Grenoble, Reims e Parigi) […]Farei una puntata a Torino, ma ogniuscita m’è preclusa da vagoni e vagonidi Asti spumante.” (Lett. a LivioGarzanti del 16 dic. 1961).

“In una impresa vinicola di Albadove un centinaio di donne, con manipaonazze, lavava bottiglie da mattina asera per un salario inferiore alnecessario per vivere, Fenoglioincominciò a vedere ‘ i rossi’ in una

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nuova prospettiva. [.] Fu così cheinsieme ci incamminammo per gli amarisentieri della sinistra non comunista”.(Chiodi 1965.134).

“Ora c’è chi vuol farlo passare perun comunista. Non c’è niente di vero.Quando ci fu il referendum, votò per lamonarchia, era un badogliano. Poi sispostò a sinistra ma rimase sempre unriformatore radicaleggiante. Sentivamolto l’esigenza di una autenticagiustizia sociale, ma sempre all’internodi un messaggio evangelico. Ecco: ilVangelo gli piaceva perché annulla tuttele leggi degli uomini. Una volta glichiesero perché non si impegnassepoliticamente: rispose che scrivere era

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già un impegno sufficiente, e forseancora più importante che quellopolitico” (Don Natale Bussi, “Così nelleLanghe ricordano Fenoglio”, in “LaGazzetta del Popolo”, 18 febbraio1973).

1949.Col pseudonimo di Giovanni

Federico Biamonti pubblica in “Pescirossi” (il bollettino editoriale diBompiani) il suo primo racconto, “Iltrucco”. Presenta all’editore Einaudi i

“Racconti della guerra civile” cui nefa seguire altri, e “La paga del sabato”.Calvino legge il romanzo e il 2novembre gli esprime un giudizio moltofavorevole.

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“Scrivo per un’infinità di motivi. Pervocazione, anche per continuare unrapporto che un avvenimento e leconvenzioni della vita hanno resoaltrimenti impossibile, anche pergiustificare i miei sedici anni di studinon coronati da laurea, anche per spiritoagonistico, anche per restituirmisensazioni passate; per un’infinità diragioni, insomma. Non certo perdivertimento. Ci faccio una fatica nera.La più facile delle mie pagine escespensierata da una decina di penosirifacimenti. Scrivo with a deep distrustand a deeper faith”. (Da E. F.

Accrocca, “Ritratti su misura discrittori italiani”, 1960, p.p. 180-81).

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1950.Il 4 gennaio ha un incontro a Torino

con Vittorini, in procinto di varare i“Gettoni”, la collana sperimentale dinarrativa da lui pensata per poterscegliere nel “mucchio di scrittorigiovani che vogliono fargli leggerequello che scrivono per averne giudizi,consigli, eccetera”. Nell’occasioneconosce di persona anche Calvino, colquale ha intrattenuto cordiali rapportiepistolari, destinati a saldarsi in unaduratura amicizia; e, con lui, NataliaGinzburg. Sono i suoi primi lettorieditoriali. Per suggerimento di Vittorinirimette mano a

“La paga del sabato”, di cui attua

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una nuova stesura.In settembre, in luogo del romanzo

definitivamente lasciato cadere, inizia amettere a punto una nuova raccolta didodici racconti, in parte già inclusi nei“Racconti della guerra civile”. Ilcarteggio di questi ultimi mesi del ‘51 edei primi del ‘52 consente di seguirne ilgraduale formarsi (per esclusioni eaggiunte, nuove redazioni sostituite allevecchie, eccetera).

1951.Insieme con Felice Campanello e

Gianni Toppino dà vita a un programmadi attività culturali presso il CircoloSociale, luogo d’incontro dellaborghesia albese. In tre o quattro serate

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vengono lette sue traduzioni, da T. S.Eliot, G. M. Hopkins e J. Donne.

Il Circolo e il bar dell’Hotel Savona(nella bella stagione il suo “dehors”)sono i ritrovi abituali, dove far tardiconversando, discutendo e giocando acarte, a ping pong o al biliardo con gliamici. Fra i quali nel corso degli anni,sono il fotografo Aldo Agnelli, che haritratto più volte Fenoglio, Carlo Prandi,Renzo Levis, Francesco Morra, UgoCerrato, Beppe Costa, Eugenio Corsini:compagni con cui dividere i più diversiinteressi, comprese, in gioventù, lepartite di calcio e i “balli a palchetto” esempre la passione per lo sport e lescampagnate in collina: mete preferite

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Niella, Feisoglio, il paese di origine didon Carlo M.

Richelmy (sacerdote del Seminario alui molto caro), ma soprattutto SanBenedetto, con l’osteria di Placido.Frequenti anche le serate in casa delmedico di Alba, Michelangelo Masera.

“Gli argomenti [delle conversazioniorganizzate al Circolo Sociale],prevalentemente di carattere letterario,erano trattati ora dall’uno ora dall’altro.Felice Campanello tenne la prima,un’altra ne tenne il prof. Monchiero, unaltra il prof. Chiodi (anzi a lui cieravamo rivolti per realizzare la nostrainiziativa). Poi venne il momento diFenoglio che mi incaricò di fare il

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lettore di alcune poesie da lui tradottedall’inglese e del commento che leprecedeva e seguiva. […] Fenoglio eraun bravissimo dattilografo, mi portavadelle paginette benissimo composte ediscutevamo insieme sul modo miglioredi presentarle”.

(Testimonianza di Gianni Tuppino, inVaccaneo 1990.67).

“Dovresti fare il traduttore, glidicevamo. E infatti traduceva con moltabravura Eliot, Pound, Hopkins, Donne,Coleridge, ma per svago, per un gruppodi amici che facevano le ore piccole acasa sua impegnati in recital familiari oche organizzavano serate di poesia alCircolo sociale davanti ad una platea di

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albesi sonnolenti”. (Testimonianza diFelice Campanello, Vaccaneo1990.175).

1952.In giugno escono “I ventitre giorni

della città di Alba”, n. 11 dei”Gettoni”(il nuovo titolo, che scalza quello di“Racconti barbari” suggerito daVittorini, è stato scelto tra maggio egiugno dall’editore).

1953.Nell’estate termina di scrivere “La

malora”.“Le posso dire sin d’ora che il mio

secondo libro sarà ancora di racconti.(Molto probabilmente non posseggoancora, se mai lo possiederò. il fondo

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del romanziere. Non conosco le 4marce, per esprimermi con termineautomobilistico)”. (9 giugno, lett. a ElioVittorini).

1954.Agli inizi di agosto esce “La

malora” (“Gettoni”, n. 33) con unsingolare risvolto di Vittorini, polemicoverso “questi giovani scrittori dal pigliomoderno e dalla lingua facile”.

Fenoglio ne è profondamentecontrariato.

“La “Malora” è uscita il 9 di questoagosto. Non ho ancora letto unarecensione, ma debbo constatare da perme che sono uno scrittore diquart’ordine. Non per questo cesserò di

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scrivere ma dovrò considerare le miefuture fatiche non più dell’appagamentod’un vizio.

Eppure la constatazione di non esserriuscito buono scrittore è elemento cosìdecisivo, così disperante, che dovrebbeconsentirmi, da solo, di scrivere un libroper cui possa ritenermi buono scrittore”.(“Diario”, VII, “Ego scriptor”).

“Riletto la mia ‘Malora’: mi pared’aver piantato i paracarri e non averfatto la strada”.

(“Diario”, XXIV, “Autocritica”).“Tanti mi dicono: - Coraggio,

Beppe, pianta baracca e burattini.Vattene lontano da Alba! - Chi me lodice è gente la più disparata. D.

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meccanico ricambista, C. maestro dicampagna e M. produttorecinematografico con residenza stabile aRoma. Rispondo che non ora, dopo, c’ètempo. Debbo prima scrivere il mioterzo libro, che parlerà d’Alba. Ma unlibro su Alba, è meglio scriverlo inAlba o lontano da Alba?” (“Diario”,XXII,

“Emigrazione”).1955.Pubblica nella rivista “Itinerari” la

traduzione di “The Rime of the AncientMariner” (La Ballata del vecchiomarinaio) di S. T. Coleridge.(Ristampata nel 1964 da Einaudi, conuna prefazione di C. Gorlier). Altre sue

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traduzioni e riduzioni dall’inglesesaranno pubblicate postume, nel 1974 e1982.

“Cerrati [Roberto Cerati, agentedell’Einaudi] mi informava della vostranecessità (o desiderio) di trovare nuovitraduttori dall’inglese, e mi invitava afarmi avanti conoscendo la mia lunga esoda esperienza in materia. Egli conosceinfatti alcune mie versioni da Eliot,Hopkins, e Pound. Forse già lo sapraima ho convertito in italiano le poesieinglesi ed in inglese quelle italiane di‘Verrà la morte e avrà i tuo occhi’. / Tipasso, come saggio, la mia traduzionedel cori e dell’interludio di ‘Assassinionella Cattedrale’: fammi il favore di

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compararla a quella di Ludovici. /Traduco tutto indifferentemente, ma houna spiccata preferenza per il teatro e lapoesia. / Ad esempio, Marlowediamante nero della letteratura inglese,non vi dice niente? E nemmeno il teatroirlandese classico (Synge, Yeats, LadyGregory?) E le opere della Riformainglese, magari limitandole a quellostupendo

‘Progresso del Pellegrino’ diBunyan? Ed infine ‘Santa Giovanna’ diShaw, completa della lunghissima edinteressantissima prefazione?” (Lett. aCalvino dell‘8 sett. 1951).

1957.Il fratello Walter, laureato in legge,

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ha intrapreso da anni una brillantecarriera che lo porta ora a Ginevra adirigere la Fiat Suisse. La sorellaMarisa, che si è pure laureata in Scienzenaturali, si sposa e va a vivere inGermania. I vecchi Fenoglio lasciano lamacelleria e si trasferiscono, semprecon Beppe, in corso Langhe, dove giàavevano abitato tanti anni prima, poi incorso Coppino.

1958.I suoi rapporti con la casa editrice

dello Struzzo, pur restando saldi ivincoli sentimentali grazie soprattuttoall’amicizia di Calvino, sono entrati incrisi dall’uscita della “Malora”. Néaiuta a migliorarli l’inconciliabilità

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delle sue ristrettezze finanziarie con icronici ritardi nei pagamenti dei nonlauti diritti d’autore.

Anche dietro pressione di altri, e persuggerimento di Pietro Chiodi,nell’estate del ‘58 si mette in relazionecon l’editore Garzanti e gli presenta inlettura la prima parte di un grossoromanzo sugli anni 1943-1945, che vascrivendo e riscrivendo da oltre dueanni.

Nel settembre accusa condizionifisiche non buone; tra novembre edicembre si ammala di pleurite.

“Scusa il disturbo, ma dovrestivedere o far vedere se su ‘I VentitreGiorni’ mi compete ancora qualcosa,

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oltre le L. 50000, a suo tempoversatemi. In caso affermativo, favoriscidisporre che quanto ancora mi viene misia rimesso con sollecitudine cortese.Ho cambiato macchina per scrivere esono imbarazzato, al momento, per lacopertura della differenza.”

(lett. a Calvino del 16 giugno 1953);“ho chiesto in segreteria, per le tue‘competenze’, ma mi dicono che seiancora sotto le 50 mila d’anticipo.‘Campa cavallo ’” (lett. di Calvino del18 giugno); “vorrei pregarti diintervenire presso il competente ufficioaffinché mi sia rimesso, se possibile contutta urgenza, il relativo anticipo [per“La malora”] o buona parte di esso. /

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Favorisci spezzare una lancia in pro diquesta mia richiesta, forse anormale, mamotivata da forti impegni a brevissimascadenza.” (lett. a Calvino del 7 genn.1954); “Caro Fenoglio, ho un graverimorso nei tuoi riguardi: d’averlasciato senza risposta una tua lettera,che aveva anche un carattere d’urgenza./ Ma è appunto perché mi è sempredifficile rispondere su questionifinanziarie, che non dipendono dalla miavolontà, che ho tardato tanto. / La tuarichiesta, come tante consimili, finisceper esser palleggiata da un ufficioall’altro.” (lett. di Calvino del 9febbraio 1954); “Debbo ringraziarti perla tua del 9 c. m.: se potessi farmi avere

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l’assegno con una certa urgenza, mifaresti cosa grata. Amen, se non puoi”(lett. a Calvino del 12 febb. 1954);“Vedi se puoi far versare a mia sorelladal Vostro ufficio cassa le 50000 che mispettano per “La malora”. Ne ho veranecessità.” (lett. a Calvino del 27 ott.‘54), eccetera eccetera.

1959.Nell’aprile, nella collana “Romanzi

Moderni Garzanti” esce “Primavera dibellezza”, non più legata, come nelprogetto iniziale, a una seconda parte,ma romanzo autonomo. A questarisoluzione è giunto anche in séguito alleobbiezioni ricevute da Livio Garzanti.

Firma con lui un contratto che

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contiene una clausola di opzione percinque anni sui suoi inediti.

Vince il Premio Prato.Ha iniziato a scrivere un nuovo

romanzo di vita partigiana (v. in questaedizione

“L’imboscata”).Nell’inverno si sottopone a un

urgente esame medico generale, aTorino. Gli viene riscontrataun’affezione alle coronarie, complicatada “una ormai annosa asma bronchiale”.

“Lei mi sa sincero quando affermoche i premi letterari non mi tolgono né ilsonno né l’appetito. Io non scrivo percompetizione (per quanto losportmanship sia un evidente aspetto del

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mio carattere), alla radice del mioscrivere c’è una primaria ragione chenessuno conosce all’infuori di me […] Epoi lo spirito di scuderia nemmeno misfiora. Io sarò un brocco, ma un broccobrado”.

Il 28 marzo sposa, civilmente (nonsenza scalpore nell’ambito albese),Luciana Bombardi, una giovaneconosciuta e amata già nell’immediatodopoguerra, la cui famiglia ha un notonegozio di pelletterie nella centrale viaMaestra. Meta del viaggio di nozzeGinevra, dove può disporre liberamentedella casa del fratello.

Abbandonato il progettodell‘“Imboscata”, attende intensamente

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alla triplice stesura di“Una questione privata”.1961.Calvino lo stimola a raccogliere i

suoi nuovi racconti, in parte letti inrivista, per presentarli al Premiointernazionale Formentor. Lavora allaraccolta che vorrebbe intitolare

“Racconti del parentado” e che, allafirma del contratto con Einaudi(novembre), accetta si chiami “Ungiorno di fuoco”. Il libro è avviato allastampa; ma l’editore Garzanti rivendicasu di esso i propri diritti e, poiché letrattative corse tra i due staff editorialinon raggiungono il compromessocercato, la raccolta è bloccata.

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Inizia a comporre gli “Epigrammi”,avvia una nuova serie di ‘racconti delparentado’ (“I penultimi”), collabora,dall’ottobre, al progetto di unasceneggiatura cinematografica diargomento contadino.

1962.Gli nasce (9 gennaio) la figlia

Margherita. Per lei, che ripete il nomedella nonna, scrive due raccontini, “Lafavola del nonno” e “Il bambino cherubò uno scudo”.

Su “Paragone”, n. 150 (giugno), esceil racconto “Ma il mio amore è Paco”per il quale gli viene assegnato ilpremio Alpi Apuane. Vincendo la suaestraneità agli ambienti letterari si reca

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a riceverlo di persona, festeggiato daimolti ammiratori, primi dei quali AnnaBanti e Roberto Longhi. Allarmato daun’emottisi abbandona la Versilia. ABra, dove si reca per una visita medica,gli viene diagnosticata una forma ditubercolosi con complicazionirespiratorie. Per curarla, trascorre ilsettembre e parte dell’ottobre aBossolasco, a 800 metri di altitudine,ospite dell’Albergo Bellavista, dovelegge, scrive, conversa e fa passeggiatecon alcuni pittori torinesi, Menzio,Paulucci, Irene Invrea (abitualifrequentatori di quella località), e congli amici albesi che salgono a trovarlo.

La malattia si aggrava e viene

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ricoverato prima in una clinica privatadi Bra, poi alla Molinette di Torinodove gli viene riconosciuto un cancro aibronchi.

“Caro Italo, grazie della tua letteravecchia ormai di settimane. / La vedo,purtroppo, appena ora rientrando daoltre un mese di confino in alta collina.Mi è infatti sopravvenuta una moltoseria affezione polmonare per la cuirisoluzione occorreranno un bel po’ dimesi.

Pazienza, bisogna essere disponibili./ Parto a minuti per Cuneo dove saròsottoposto a tutta una serie di esami.Forse riuscirò a sfuggire al sanatorio emi consentiranno di curarmi in modo

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autonomo.” (Lett. del 15 ott. 1962 aCalvino che vi appunta a matita:“telefonato alla moglie il 26.10. E’ aBossolasco”).

1963.Con l’aggravarsi del male soffre di

spaventose crisi da soffocamento. Negliultimi giorni, tracheotomizzato,comunica con i suoi familiari e visitatoriscrivendo sui foglietti di un taccuino. Inuno di questi, per il fratello, chiede un“Funerale civile, di ultimo grado,domenica mattina, senza soste, fiori ediscorsi”. Il mattino del 17 febbraioentra in coma e muore nella notte del 18.

Viene sepolto nel cimitero di Alba,con poche parole dette sulla tomba da

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don Bussi.Otto giorni prima della morte, su “La

Gazzetta del Popolo” esce un suo attounico, scritto negli ultimi tempi(“Solitudine”).

“Sempre sulle lapidi, a me basterà ilmio nome, le due date che sole contano,e la qualifica di scrittore e partigiano.Mi pare d’aver fatto meglio questo chequello”… “C’è stato un tempo in cuisognavo di diventare un grand’uomounicamente all’effetto di poter sceglierela mia sepoltura. Ed in quel tempo m’eroquasi deciso per il piede d’un pino,nella pineta del Piano della Bossola”.(Dal “Diario”, V, “Camposanto nuovo diMurazzano”).

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A fine aprile l’editore Garzantipubblica “Un giorno di fuoco”, titolosotto il quale compaiono i sei raccontigià selezionati dall’autore, seguiti daaltri sei, ricavati dalle sue carte, e da“Una questione privata” reperita daLorenzo Mondo e aggiunta in extremis.

“Già negli Anni Cinquanta il quadroera cambiato, a cominciare dai maestri:Pavese morto, Vittorini chiuso in unsilenzio d’opposizione. Moravia che inun contesto diverso veniva acquistandoun altro significato (non più esistenzialema naturalistico) e il romanzo italianoprendeva il suo corso elagiaco-moderato-sociologico in cui tuttifinimmo per scavarci una nicchia più o

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meno comoda (o per trovare le nostrescappatoie). / Ma ci fu chi continuò sullavia di quella prima frammentariaepopea: in genere furono i più isolati, imeno ‘inseriti’ a conservare questaforza. E fu il più solitario di tutti cheriuscì a fare il romanzo che tuttiavevamo sognato, quando nessuno più sel’aspettava. Beppe Fenoglio, e arrivò ascriverlo e nemmeno a finirlo (“Unaquestione privata”), e morì prima divederlo pubblicato, nel pieno deiquarant’anni. Il libro che la nostragenerazione voleva fare, adesso c’è, e ilnostro lavoro, ha un coronamento e unsenso, e solo ora, grazie a Fenogliopossiamo dire che una stagione è

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compiuta, solo ora siamo certi che èveramente esistita: la stagione che vadal “Sentiero dei nidi di ragno” a “Unaquestione privata”. (I. Calvino,prefazione alla nuova edizione di “Ilsentiero dei nidi di ragno”, Torino 1964,p.p. 21-22).

1968.A cura di Lorenzo Mondo esce da

Einaudi “Il partigiano Johnny” checonquista a Fenoglio un vasto pubblicodi lettori.

1969.Einaudi pubblica, a cura di Maria

Corti, “La paga del sabato”, il romanzogiovanile rimasto inedito.

1972.

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Muore il padre.1973.Gino Rizzo pubblica da Einaudi una

raccolta di inediti, “Un Fenoglio allaprima guerra mondiale”, che comprendele serie incompiute di “Il paese” e “Ipenultimi”, due racconti (“La licenza” e“Il mortorio Boeri”), e un testo appenaavviato, di incerto sviluppo, da cuiprende titolo il volume. Ad Alba si tieneil primo Convegno di Studi Fenogliani.

1974.Esce da Einaudi “La voce nella

tempesta”, da “Cime tempestose” diEmily Brontë (una giovanile riduzioneteatrale di “Wuthering Heights”), a curadi Francesco de Nicola.

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1978.Escono le “Opere” complete (in tre

volumi di cui il primo in tre tomi),edizione critica diretta da Maria Corti epubblicata da Einaudi.

1982.Appare la traduzione di Kenneth

Graham, “Il vento nei salici” [“TheWind in the Willows”], pubblicata daJohn Meddemmen (Einaudi).

1983.All’Università di Lecce ha luogo il

secondo Convegno di Studi Fenogliani.1989.Muore, novantatreenne, la madre.

Nell’ambito delle manifestazionibiennali “Piemonte e Letteratura” ha

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luogo a Santo Stefano Belbo il“Convegno internazionale BeppeFenoglio”.

BIBLIOGRAFIA DEI TESTINARRATIVI DI FENOGLIO

Racconti e pagine di romanzoapparsi in rivista o in antologie discrittori contemporanei.

1949 “Il trucco”, in “Pesci rossi”,XVIII, II (novembre), p.p. II-13, colpseudonimo di Giovanni FedericoBiamonti.

1953 “La sposa bambina”, in “NuoviArgomenti”, 2 (maggio-giugno), p.p.110-14.

1954 “Il gorgo”, in “Il Caffè”, 9(dicembre), p. 17.

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1955 “Un giorno di fuoco”, in“Paragone”, 70 (ottobre), p.p. 55-68.

1959 “I premilitari”, in “Palatina”, 9(gennaio-marzo), p.p. 15-22.

“Tradotta a Roma”, in “La Fieraletteraria”, 8 marzo, p. 5.

“Il padrone paga male”, in “IlCaffè”, 7-8 (luglio-agosto), p.p. 18-22.

“Lo scambio dei prigionieri”, in“Palatina”, 12 (ottobre-dicembre), p.p.40-45.

1960 “La novella dell’apprendistaesattore”, in autori vari, “I giorni ditutti”, Edindustria, Roma, p.p. 147-62.

“La sposa bambina”, in “Antologiadi scrittori piemontesi contemporanei”,Alpignano, p.p. 215-21.

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1962 “Ma il mio amore è Paco”, in“Paragone”, 150 (giugno), p.p. 55-74.

“Superino”, in “Palatina”, 23-24(luglio-dicembre), p.p. 5-19.

1963 “L’esattore”, in “Paragone”,162 (giugno), p.p. 76-88.

“Frammenti di romanzo”, a cura econ una nota di L. Mondo, in “Cratilo”,2 (luglio), p.p. 61-108.

“Gli amici di Fulvia”, in “Il Giorno”(“Racconto della Domenica”), 26maggio, p. 2 (dal cap. 2 di “Unaquestione privata”).

“Scacco ai Francesi”, in “LaGazzetta del Popolo”, 2 giugno, p. 3.

1968 “L’affare dell’anima”, in“Quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri di

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Asti”, p.p. 10-17.1969 “Nella valle di san Benedetto”,

in “Strumenti critici”, 10 (ottobre), p.p.361-80, con una “Nota” di M. Corti.

Romanzi e raccolti in volume1.“I ventitre giorni della città di

Alba”, Einaudi, Torino: 1952 prima ed.,collana “I Gettoni” (n. 11).

1963 con “La malora”, collana “ICoralli” (3a ed. 1966).

1970 con “La malora”, collana“Supercoralli” (2a ed. 1974).

1975 Collana “Nuovi Coralli”;1976, 1978, 1981, 1983, 1986, 1988,1989 (2 ristampe), 1991.

1976 “Racconti partigiani”, collana

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“Einaudi Biblioteca Giovani”[Comprende: “I ventitre giorni dellacittà ai Alba”, “L’andata”, “Gli inizi delpartigiano Raoul”, “Vecchio Blister”, Unaltro muro; Nella valle di S. Benedetto(confr. “Racconti”); “Tre storie da “Ilpartigiano Johnny””, col titolo“L’accerchiamento”, “La spia” e “Unpassero sul ramo”].

1990 insieme con “Una questioneprivata”, collana “Einaudi Tascabili”(2a ed. 1991).

Presso Mondadori, Milano:1964 con “La malora”, collana “Il

Bosco”.1970 con “La malora”, collana

“Oscar Narrativa”, Nota introduttiva di

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M. A. Grignani (4a ristampa 1991).2.“La malora”, Einaudi, Torino:1954 prima ed., collana “I Gettoni”

(n. 33).1963 di séguito a “I ventitre giorni

della città di Alba” (confr. Sopra, 1.1963 e 1970).

1971 “La malora e altri racconti”, acura di Gina Lagorio, collana “Lettureper la scuola media” (n. 19); 1973, 19741975, 19/8 (2 ristampe), 1980, 1981,1984, 1985, 1987, 1988, 1989, 1990.

1974 Collana “Nuovi Coralli” (n.99); 1975, 1978, 1980, 1983, 1984,1986, 1988, 1990

(con una postfazione di M. A.

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Grignani).1991 a cura di Maria Antonietta

Grignani, Einaudi Scuola, collana“Letteratura del Novecento”.

Presso Mondadori, Milano:1985 Collana “Oscar Narrativa”,

Introduzione di Marco Forti.3.“Primavera di bellezza”, Garzanti,

Milano:1959 prima ed., collana “Romanzi

Moderni”.1969 Collana “Rossi e blu”.1970 Collana “I Bianchi”; 1973,

1975, 1977.1976 Collana “I Garzanti”.

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Presso Einaudi, Torino:1985 Collana “Nuovi Coralli” (2a

ed. 1990).1991 Collana “Einaudi Tascabili”.4 a.“Un giorno di fuoco - Un romanzo e

dodici racconti”, Garzanti, Milano:1963 prima ed., collana “RomanziModerni” (ristampa nel settembre dellostesso anno).

1971 Collana “Letture per le ScuoleMedie” [comprende solo otto dei dodiciracconti]; 1978, 1981.

1972 Collana “I Garzanti” [solo idodici racconti].

Presso Einaudi, Torino:1988 Collana “Nuovi Coralli” [solo

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i dodici racconti].4 b.“Una questione privata - Romanzo -

Un giorno di fuoco e altri racconti”,Garzanti, Milano:

1965 Collana “Romanzi Moderni”.1970 Collana “I Bianchi”; 1973,

1974, 1975, 1977.1983 Collana “I grandi libri”.Presso Einaudi, Torino:1986 Collana “Nuovi Coralli” [solo

“Una questione privata”]; 1987, 1989,1991.

1990 Collana”Einaudi Tascabili”[insieme con “I ventitre giorni della cittàdi Alba”] (2a ed. 1991).

5.

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“Il partigiano Johnny”, Einaudi,Torino:

1968 prima ed. (con due ristampe),collana “Supercoralli”, 1969, 1972;“Supercoralli Nuova Serie” (detti anche“Narratori Einaudi”) 1975, 1976.

1970 Collana “Gli Struzzi” conproseguimenti di tiratura nello stessoanno e nel 1972; 1973, 1974, 1977,1978, 1980, 1982, 1984, 1986, 1987,1989, 1990.

6.“La paga del sabato”, Einaudi,

Torino:1969 prima ed., collana

“Supercoralli”, con una Nota di M.Corti; 1971, 1974.

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1972 Collana “Supercoralli”; 1973,1975, 1977, 1978, 1981, 1985, 1987.

7.“Un Fenoglio alla prima guerra

mondiale”, Einaudi, Torino: 1973 primaed., a cura di G Rizzo, collana“Supercoralli” [comprende, oltre ilframmento da cui s’intitola il volume, “IPenultimi”, “Il paese”, “La licenza” e “Ilmortorio Boeri”].

8.“L’affare dell’anima e altri

racconti”, Einaudi, Torino: 1978 primaed., collana “Nuovi Coralli”[comprende otto racconti: “Nella valledi S.

Benedetto”, l’apocrifo “Alla Langa”

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(= Opere III 5-6), “Il gorgo”,“L’esattore”, “L’affare dell’anima”,“Tradotta a Roma”, “Lo scambio deiprigionieri”, “Senza titolo” (= “Ciao,old Lion”), seguiti da “Materialenarrativo e Progetto di sceneggiaturacinematografica” (=

Opere III 419-53 e 736-87)].Opere completePresso l’editore Garzanti:“Opere di Beppe Fenoglio”:1976 “Primavera di bellezza”.1979 “Una questione privata” (2a

ed. 1981).“Un giorno di fuoco” (2a ed. 1981, 3

ed. 1982).Presso l’editore Einaudi:

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1978 “Opere”, edizione criticadiretta da M. Corti, collana “NUENuova serie”: I I “Un PartigianoJohnny”, a cura di J. Meddemmen -Traduzione a fronte di Bruce Merry; I II“Il partigiano Johnny”, a cura di M. A.Grignani; I III “Primavera di bellezza,Frammenti di romanzo, Una questioneprivata”, a cura di M. A. Grignani; II“Racconti della guerra civile, La pagadel sabato, I ventitre giorni della città diAlba, La malora, Un giorno di fuoco”, acura di P. Tomasoni; III “Racconti sparsiediti e inediti”, “[Quaderno Bonalumi],[Diario], Testi teatrali, Progetto disceneggiatura cinematografica, Favole”,a cura di P. Tommasoni,

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“Epigrammi”, a cura di C. M.Sanfilippo.

BIBLIOGRAFIA CRITICA[Selettiva e limitata ai contributi

apparsi in libri o riviste. Perun’informazione più completa, confr.Grassano 1978, Lacchini 1982 e DeNicola 1989.]

1960 Elio Filippo Accrocca,“Ritratti su misura di scrittori italiani”,Sodalizio del Libro, Venezia, p.p. 180-81.

1961 Anna Banti, “Nuove stagioni diPasolini e F.”, in “Opinioni”, IlSaggiatore, Milano.

- Giorgio Bárberi Squarotti, “F.”, in“Narrativa e poesia del secondo

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Novecento”, Mursia, Milano, p.p. 290-293; nuova ed. 1978, p.p. 365-73.

1962 Giuseppe De Robertis, “F.scrittore nuovo”, in “Altro Novecento”,Le Monnier, Firenze, p.p. 562-66 (datato1952).

1963 Giorgio Bárberi Squarotti,“Ritratto di F.”, in “Paragone”, 16(agosto), p.p. 61-66.

1964 Italo Calvino, “Il sentiero deinidi di ragno”, nuova edizione con unaprefazione dell’autore, Einaudi, Torino.

- Corrado Grassi, “Corso di Storiadella lingua italiana”, Università diTorino, anno accademico 1963-64(dispense), Bottega di Erasmo, Torino,p.p. 83-95.

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1965 Anna Banti, “F. rivisitato”, in“L’Approdo letterario”, n. s., 31 (luglio-settembre), p.p. 85-90.

- Pietro Chiodi, “F., scrittore civile”,in “La cultura”, III, 1 (gennaio), p.p. 1-7;poi in “F.

inedito”, “Quaderni dell’Istituto‘Nuovi Incontri’”, n. 4 (1968), p.p. 39-44.

1968 Autori vari, “F. inedito”,“Quaderni dell’Istituto ‘Nuovi Incontri(Asti), n. 4.

- Gianfranco Contini, “Letteraturadell’Italia unita, 1861-1968”, Sansoni,Firenze, p.

1012.- Gina Lagorio, “Ipotesi per il

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1969 Maria Corti, “Trittico per F.”,in “Metodi e fantasmi”, Feltrinelli,Milano.

Comprende: I (p.p. 15-25) “Ilpartigiano capovolto” (in “una redazionepiù sommaria” già in “Strumenti critici”,7 [1968], p.p. 413-21); II (p.p. 25-32)“Un nuovo anello della catena”; III (p.p.32-39) “Costanti e varianti narrative”. In“Appendice” (p.p. 369-72) “Lacomposizione del “Partigiano Johnny”alla luce del Fondo F.”; 2a ed. 1977, conuna

“Postilla”.1969 Vico Faggi, “Una poesia

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aspra”, in “Omaggio a Fenoglio”,“Diogene”, 59

(gennaio), p.p. 14-18.- Marziano Guglielminetti, “B. F.”,

in “La Letteratura italiana - Icontemporanei”, Marzorati, Milano, vol.3, p.p. 863-880; poi, con aggiornamenti,in “Letteratura italiana -

Novecento”, Marzorati, Milano1979, p.p. 6814-36.

1970 Eugenio Corsini, “Ricerche sulFondo F.”, in “Sigma”, 26 (giugno1970), p.p. 3-17.

- Maria Corti, “Realtà e progettodello scrittore nel Fondo F.”, in“Strumenti critici”, II, p.p. 38-59 >Corti. 1980.

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- Maria Corti, “La duplice storia dei“ventitre giorni della città di Alba””, in“Un augurio a Raffaele Mattioli”,Sansoni, Firenze, p.p. 375-91.

- Gina Lagorio, “F.”, La NuovaItalia, Firenze (collana “Il Castoro”); 2aristampa aggiornata, 1975; 3a 1982.

- Giovanni Battista Mancarella, Ilparticipio presente in un romanzo di F.”,in “Lingua nostra”, XXXI, 4 (marzo),p.p. 122-25.

- Gino Rizzo, “Restauri fenogliani”,in “L’albero”, XIV, 45, p.p. 75-114.

1971 Carlo Carlucci, “L’inglese diB. F.”, in “L’Approdo letterario”, n.s.,53 (marzo), p.p. 92-100.

- Maria Corti, “Basteranno dieci

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anni?”, in “Strumenti critici”, 14(febbraio), p.p. 99-102.

- Davide Lajolo, “Pavese e F.”,Vallecchi, Firenze.

- Diana Masera, “Langa partigiana43- 45”, Prefazione di Guido Quazza(“Istituto storico della Resistenza inPiemonte. Studi e documenti 6”),Guanda, Parma.

- Bruce Merry, “F. traduttore diPavese”, in “Strumenti critici”, 16(ottobre), p.p. 321-24.

- Bruce Merry, “An unknown Italiandramatisation of “Wuthering Heights””,in “Brontë Society Transactions”, XVI,1, p.p. 35-39 [falsa attribuzione a F. delsaggio di H.W. Garrod che introduce

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l’edizione Nelson di “WutheringHeights”, 1930, come ebbe ariconoscere R.

M. Dennis di Ballarat: confr. lalettera dello stesso Merry edita nelle“Transactions” del 1972].

- Elisabetta Soletti, “Metafore esimboli nel “Partigiano Johnny” di B.F.”, in “Sigma”, 31 (settembre), p.p. 68-89.

1972 Emilio Cecchi, “L’arte di F.”,in “Letteratura italiana del Novecento”,Mondadori, Milano, p.p. 1135-39(scritto del 1963).

- Walter Mauro, “Invito alla letturadi F.”, Mursia, Milano; 2a ed. 1983.

Bruce Merry, “More on F: An

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1973 Autori vari, “Atti delConvegno nazionale di studi fenogliani”,in “Nuovi Argomenti”, n.s., 35-36(settembre-dicembre).

- Maria Corti, “Per una cronologiadelle opere di B. F., in autori vari 1973,p.p. 119-31,

> Corti. 1980.- Rosella Cuzzoni, I. “Per

un’edizione critica dei “Frammenti diromanzo””; II. “Le tre redazioni di “Unaquestione privata””, in autori vari 1973,p.p. 168-223.

- Bianca De Maria, “Le due

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redazioni del “Partigiano Johnny”:rapporti interni e datazione”, in autorivari 1973, p.p. 132-167.

- Giancarlo Ferretti, “F. - Johnnycontro la solitudine”, in autori vari,1973, p.p. 95-110.

- Walter Mauro, “Invito alla letturadi F.”, Mursia, Milano.

- Bruce Merry, “F. e la letteraturaanglo-americana”, in autori vari 1973,p.p. 245-88.

1974 Marziano Guglielminetti, “F.,al di là del neorealismo”, in “Lacontestazione del reale”, Liguori,Napoli, p.p. 105-35.

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10 ottobre - 2 novembre 1944: F. e lastoria”, in

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1976 Francesco De Nicola, “Un F.incompiuto: illeggibile o avvincente?”,in

“Italianistica”, v, 3, p.p. 478-85.- Francesco De Nicola, “Hemingway

e F. La questione privata deldopoguerra”, in

“Misure critiche”, VI, 19, p.p. 65-75.

- Francesco De Nicola, “F.

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partigiano e scrittore”, Argileto Editori,Roma.

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- Giovanni Falaschi, “Sulla storiache F. ha dedicato a Johnny”, in “LaResistenza armata nella narrativaitaliana”, Einaudi, Torino.

- Massimo Lardi, “Opposizioni escontri di opposti nell’opera di B. F.”,Menghini, Poschiavo.

- Gino Rizzo, “Su F. tra filologia ecritica”, Milella, Lecce.

- Elisabetta Soletti, “Paradigma

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della metafora in F.”, in “Sigma”, n.s.,IX, 3, p.p. 109-33.

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1981 Mario Allegri, “I russi nelleLanghe: modelli culturali e modellinarrativi di F.”, in autori vari,“L’elaborazione periferica”, Liviana,Padova, p.p. 121-57.

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- Eduardo Saccone, “L’orologio diMilton: morte, vite e miracoli di unpersonaggio fenogliano”, in “ModernLanguage Notes” vol. 97, 1 (January),p.p. 122-43 > Saccone.

1988.

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1983 Roberto Bigazzi, “F.:personaggi e narratori”, SalernoEditrice, Roma.

- Philippe Chellini, Paola Laurella,Enrico Zoi, “Musica leggera e cinemanell’opera di F.”, in “Il Ponte”, XXXIX,5, p.p. 499-517.

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1984 autori vari, “F. a Lecce”, “Attidell’Incontro di studio su B. F.” (Lecce25-26

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- Gian Luigi Beccaria, “La guerra egli asfodeli - Romanzo e vocazioneepica di B. F.”, Serra e Riva, Milano(confr. anche “Il tempo grande: B. F.”,cap. 4 di “Le forme della lontananza”,Garzanti, Milano 1989, p.p. 101-59).

- Gian Luigi Beccaria, “Il “grandestile” di B. F.”, in autori vari 1984, p.p.167-221.

- Paolo Briganti, “L’alba di F. -Cronache di un debutto letterario”, in“Studi e problemi di critica testuale”, 29(ottobre), p.p. 123 -49.

- Giovanni Falaschi, “L’Isola, ilcalendario, i due libri mastri”, in autorivari 1984, p.p. 9-22.

- Gabriella Fenocchio, “Tempo,

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- John Meddemmen, “L’edizionecritica delle “Opere” di F. va buttatavia?”, in

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- Paolo Orvieto (a cura di), “Diecipoeti e dieci narratori italiani delNovecento”, Salerno Editrice, Roma,

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1985 Gabriella Fenocchio, “Lascrittura ‘anfibia’ del PartigianoJohnny”, in “Lingua e stile”, XX 1, p.p.89-119.

- Gina Lagorio, “F.: l’epopea dellaterra di destino”, in “Rivista milanese dieconomia”, 13 (gennaio-marzo), p.p. 41-60.

- Giacinto Spagnoletti, “L’esperienza

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1986 Lorenzo Mondo, “BeppeFenoglio”, in “Dizionario critico dellaLetteratura italiana”, Utet, Torino, p.p.234-37.

- Eduardo Saccone, “Il partigianoimperfetto”, in “Modern LanguageNotes”, 101, 1

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- Eduardo Saccone, “Due libri suF.”, in “Modern Language Notes”, 101, 1(January), p.p. 189-200 > Saccone.1988.

1987 Gian Luigi Beccaria, “Beppe

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- Geno Pampaloni, “La nuovaletteratura”, in “Storia della Letteraturaitaliana”, diretta da E. Cecchi e N.Sapegno, “Il Novecento”, vol. 2, p.p.559-63.

- Elisabetta Soletti, “B. F.”, Mursia,Milano.

1988 Mariarosa Bricchi, “Duepartigiani due primavere - Un percorsofenogliano”, Longo Editore, Ravenna.

- Maria Grazia Di Paolo, “B. F. fratema e simbolo”, Longo, Ravenna.

- Mark Pietralunga, “B. F. and

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- Eduardo Saccone, “F. - I testi,l’opera”, Einaudi (collana P.B.E.,Torino 1988. Riunisce Saccone. 1980,1981, 1982, 1984, 1986.

- Eduardo Saccone, “Inizi, anticipi econclusioni di B. F.”, in “Conclusionianticipate su alcuni racconti e romanzidel Novecento”, Liguori, Napoli.

1989 Francesco De Nicola,“Introduzione a F.”, Laterza, Bari.

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1990 Franco Vaccaneo, “B. F., leopere, i giorni, i luoghi: una biografiaper immagini”, Gribaudo, Torino.

1991 Maria Antonietta Grignani,“Introduzione” a B. F. “La malora”,Einaudi Scuola, Torino, p.p. V-XXVII.

1991 Cesare Segre, “Analisitematica sperimentale di un romanzo(“La malora” di B.

F.)”, in “Intrecci di voci - Lapolifonia nella letteratura delNovecento”, Einaudi, Torino (già contitolo diverso e in redazioniparzialmente diverse in “Ikon”, 16,1988, p.p. 177221, e in francese in“Strumenti critici”, n.s., 60 [1980], p.p.163 -78).

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[La “Cronologia”, la “Bibliografia”e la “Bibliografia critica” sono tratte dalvolume Beppe Fenoglio, “Romanzi eracconti”, a cura di Dante Isella,“Biblioteca della Pléiade”, Einaudi-Gallimard, Torino 1992].

LA MALORAPioveva su tutte le langhe, lassù a

San Benedetto mio padre si pigliava lasua prima acqua sottoterra.

Era mancato nella notte di giovedìl’altro e lo seppellimmo domenica, trale due messe.

Fortuna che il mio padrone m’avevaanticipato tre marenghi, altrimenti intutta casa nostra non c’era di che pagarei preti e la cassa e il pranzo ai parenti.

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La pietra gliel’avremmo messa piùavanti, quando avessimo potuto tirare unpo’ su testa.

Io ero ripartito la mattina dimercoledì, mia madre voleva metterminel fagotto la mia parte dei vestiti dinostro padre, ma io le dissi dischivarmeli, che li avrei presi allaprima licenza che mi ridava Tobia.

Ebbene, mentre facevo la mia stradaa piedi, ero calmo, sfogato, mio fratelloEmilio che studiava da prete sarebbestato tranquillo e contento se m’avessesaputo così rassegnato dentro di me. Mail momento che dall’alto di Benevellovidi sulla langa bassa la cascina diTobia la rassegnazione mi scappò tutta.

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Avevo appena sotterrato mio padre e giàandavo a ripigliare in tutto e per tutto lamia vita grama, neanche la morte di miopadre valeva a cambiarmi il destino. Eallora potevo tagliare a destra, arrivarea Belbo e cercarvi un gorgo profondoabbastanza.

Invece tirai dritto, perché m’erasubito venuta in mente mia madre chenon ha mai avuto nessuna fortuna, e miofratello che se ne tornava in seminariocon una condanna come la mia.

Mi fermai all’osteria di Manera, nontanto per riposarmi che per non arrivareal Pavaglione ancora in tempo pervedermi dar del lavoro; perché avreifatto qualche gesto dei più brutti.

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Tobia e i suoi mi trattarono come unmalato, ma solo per un giorno,l’indomani Tobia mi rimise sotto earrivato a scuro mi sembrava di nonaver mai lavorata una giornata comequella. Mi fece bene. Un po’ come fabene, quando hai lavorato tutta nottenella guazza a incovonare, non andartenea dormire ma invece rimetterti a tagliareal rosso del sole.

Come la mia famiglia sia scesa allamira di mandare un figlio, me, a servirelontano da casa, è un fatto che forse iosono ancora troppo giovane per capirloda me solo. I nostri padre e madre cispiegavano i loro affari non più diquanto ci avrebbero spiegato il modo

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che ci avevan fatti nascere: senza maiuna parola ci misero davanti il lavoro, ilmangiare, i quattro soldi della domenicae infine, per me, l’andare da servitore.

Non eravamo gli ultimi della nostraparentela e se la facevano tuttiabbastanza bene: chi aveva la censa, chiil macello gentile, chi un bel pezzo diterra propria. L’abbiamo poi visto allasepoltura di nostro padre, arrivaronociascuno con la bestia, e non uno a piedida poveretto.

Dovevamo sentirci piuttosto forti se,quando io ero sugli otto anni, i mieitirarono il colpo alla censa di SanBenedetto. La presero invece i Canonicacoi soldi che s’erano fatti imprestare da

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Norina della posta. Nostro padre avevatroppa paura di far debiti, allora.

Adesso mi è chiaro che nostro padreaveva già staccata la mente dal lavorarela terra e si vedeva già a battere concarro e cavallo i mercati d’Alba e diCeva per il fabbisogno della sua censa,e quando dovette invece richinarsi allaterra, aveva perso molto di voglia e dicostanza. Noialtri ragazzi lavoravamosempre come prima, anche se lui cicomandava e ci accudiva meno, ma amezzogiorno e a cena ci trovavamodavanti sempre più poca polenta e quasipiù niente robiola. E a Natale nonvedemmo più i fichi secchi e tanto menoi mandarini.

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Nostra madre raddoppiò la sualavorazione di formaggio fermentato, manon ce ne lasciava toccare neanche lebriciole sull’orlo della conca. E quandoseppe che a Niella ne pagavanol’arbarella un soldo di più che al nostropaese, andò a venderlo a Niella, esaputo poi che a Murazzano lo pagavanoqualcosa meglio, si faceva due collineper andarlo a vendere lassù. Dimodochédiventò in fretta come la sorellamaggiore di nostro padre, sempre colcuore in bocca, gli occhi o troppo lustrio troppo smorti, mai giusti, in facciatutta bianca con delle macchie rosse,come se a ogni momento fosse appenaarrivata dall’aver fatto di corsa l’erta da

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Belbo a casa. Quando noi eravamo via,lei pregava e si parlava ad alta voce:una volta che tornai un momento dallaterra, la presi che cagliava il latte e sidiceva: - Avessi adesso quella figlia! -Diceva di nostra sorella, nata dopoStefano e morta prima che nascessi io,d’un male nella testa. Si chiamavaGiulia come nostra nonna di Monesiglio,e a Stefano non so, ma a me e a Emilionon ci mancava. Però anche allora ionon sono mai passato davanti alcamposanto guardando da un’altra parte,come un padrone che passa davanti allasua terra.

Ci andava male: lo diceva la misuradel mangiare e il risparmio che

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facevamo della legna, tanto che tutte levolte che vedevo nostra madre tirarfuori dei soldi e contarli sulla mano perspenderli, io tremavo, tremavoveramente, come se m’aspettassi diveder cascare la volta dopo che le èstata tolta una pietra. Finì che nelle sered’autunno e d’inverno mandavamoEmilio alla cascina più prossima a farsiaccendere il lume per avanzare lozolfino. Io ci andai una volta sola, unasera che Emilio aveva la febbre, e quellidel Monastero m’accesero il lume, ma lavecchia mi disse: - Va’, e di’ ai tuoi cheun’altra volta veniamo noi da voi collume spento, e lo zolfino dovretemettercelo voi.

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Nostro padre vendette mezza la rivada legna e anche quel prato che avevamolungo Belbo, ma il denaro di quellevendite non ci fece pro, andò quasi tuttoa pagare le taglie e a far star bravi iCanonica che non ci togliessero ilcredito alla censa. E’ allora che i nostris’indebitarono con la vecchia maestraFresia di quelle cento lire che hanno poiscritto il destino di mio fratello Emilio.

Per chiedere la grazia di poter tirarsu testa, un anno nostra madre andòpellegrina al santuario della Madonnadel Deserto, che è lontano da noi, sopraun monte dietro il quale si può dire chec’è subito il mare. Mi ricordo comeadesso. Era un po’ che noi, alzata la

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schiena, guardavamo la processionedelle donne sulla strada di Mombarcaro,quando esce di casa nostra madre,vestita da chiesa, e con un fagottino diroba mangiativa. Nostro padre le uscìappresso e le gridava: - Vecchiabagascia, non mi vai mica via con quellostroppo di pelandracce? - Lei si voltò,ma senza fermarsi e solo per guardarlonegli occhi. E lui sempre dietro, con unprincipio di corsa come per assicurarsid’acchiapparla. E nel mentre le diceva:- Mi torni indietro fra chissà quantigiorni, con tutti i piedi gonfi e tutto ilcorpo stracco che per una settimana nonmi puoi più servire -. Allora lei si fermòe gli disse: -

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Lasciami andare, Braida. Sono setteanni che non esco da questa casa.Lasciami andare, che è per la mia anima.

- L’anima vola! - le gridò lui infaccia, ma poi le disse: - Donna con delbuon tempo. Hai almeno lasciatopreparato?

Poté partire, e dopo un po’ lavedemmo mischiarsi alla processione.Aveva un buon passo e presto fu tra leprime, e non solo dal passo si vedevache aveva buona intenzione, ma ancheperché non si voltava e non cercavacompagne, mentre tutte le altre andavanocome per divertimento. Tornò di notte,dopo quattro giorni, e la mattina si levòalla sua ora di sempre e fece il suo

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lavoro di tutti i giorni. Ma non giovò,Dio non fu mai con noi.

Poi il re chiamò Stefano a soldato,andò alla leva e tirò un numero basso.Nostro padre bestemmiò, nostra madrepianse, ma Stefano lui era contento: losentii quella sera, che io ero in pasturavicino a dove lui tutto nudo si lavava inBelbo, gridare d’allegria, ma dei gridiselvaggi che misero paura a me e allepecore. Basta, stette a casa ancora duemesi, se ne andava al sabato coi suoisoci coscritti a fare il giro delle osteriedella nostra langa e tornava solo nellanotte del lunedì, ubriaco che dovevamosbatterlo nella stalla. E poi partì, unanotte che noialtri due non fummo

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neanche svegliati.Ci scriveva, e leggevamo che era in

artiglieria e a Oneglia. Di questa città ionon sapevo altro che era in riva al mare,avrei aspettato che venisse in licenzaper domandargli qualche cosa sul mare.Ma Stefano in licenza non veniva,mandò solo una sua fotografia, pervederla bisognava entrare nella stanzadei vecchi, era là appesa a un cordino inmezzo ai rametti d’ulivo e alle candelebenedette. Una volta ci scrisse che luinon era di quei soldati che sudano a farl’istruzione e le marce, lui più furbos’era messo da attendente a un ufficialee stava benone. Allora i nostri feceroprender la penna in mano a Emilio e

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scrivere a Stefano che ci mandasse ladeca se stava tanto bene. Da quellalettera non ci scrisse più, da lui nonvedemmo un centesimo e in licenza nonci venne mai. Noi a casa non ce lafacevamo a scalare uno scudo dal debitocon la maestra.

Lo congedarono dopo ventun mesi,s’era fatto più massiccio e più superbo,gli ci volle un mese buono perriabituarsi al lavoro e ripigliarlo,adesso andava tutte le sere all’osteria etante notti rientrava ubriaco del vino chegli offrivano in paga del suo raccontare.Con noialtri suoi fratelli sembrava checrepasse a parlare un po’ del mare e diquei posti che aveva visto, ma

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all’osteria il mazzo ce l’aveva semprelui e parlava solo sempre di donneforestiere che faceva schifo. S’erarimesso a lavorare con me dietro lebestie che Emilio conduceva, ma io cheavevo i bracci metà dei suoi rendevo ildoppio di lui sul lavoro, lui alzava laschiena ogni cinque minuti e guardavasovente al passo della Bossola.

Tornato Stefano in famiglia, vennel’ora d’Emilio di partire: andò astudiare da prete nel seminario di Alba.Avevamo potuto scalare sì e no duescudi dal debito con la maestra, e leitrovandosi con un piede nella tomba esenza nessuna necessità di riavere le suecento lire, c’era venuta una sera in casa

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a dire ai nostri che ci rimetteva il debitose le mandavamo il nostro Emilio a farsiprete. Non solo ci rimetteva il debito,ma ci passava uno scudo al mese per ilsuo mantenimento in seminario e qualchealtra lira l’avrebbe fatta sborsare alparroco.

Emilio non disse niente, come nientedissi io davanti a Tobia Rabino chediventava mio padrone, i vecchi disserodi sì abbastanza in fretta.

Il motivo può anche aver offesonostro Signore, ma però mio fratelloEmilio a fare il prete andava bene,prima di tutto perché Emilio era buono,e quello che in chiesa ci stava di più emeglio, e poi a scuola era il primo di

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tutto San Benedetto, e i miei, quandoavevano qualche cosa da chiedere alcielo, era lui che facevano pregare,perché era il più innocente.

E poi era di poche forze, cosapoteva fare senza penare era solo staredavanti alle bestie.

Partì per il seminario un sabatomattina, sul biroccio di Canonica cheandava a fare il mercato ad Alba. Lobaciammo tutti sulle guance, prima chemontasse. Nostra madre piangeva,nostro padre le dava dei nomi perchépiangeva e le disse: - O stupida, quandoio ti mancherò, cosa ti sogni di meglioche andare a star con lui dove saràparroco e fargli da perpetua? - C’era

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Stefano, io che non mi capacitavo chetra cinque minuti sarei stato sulla terrasenza più Emilio vicino, c’era lamaestra Fresia che parlava italiano conEmilio. Il parroco non c’era, ma Emilioera stato in canonica la vigilia a sentirecome doveva comportarsi in seminario iprimi tempi.

Canonica non si fidava a dare alcavallo perché sentiva i pianti di nostramadre, le venne vicino la maestra e ledisse: - Melina, ma pensate allaconsolazione di quando dirà la suaprima messa. E voi sarete la prima aricevere la sua ostia -. Poi nostro padrefece un segno a Canonica e partirono.Non ci avrei creduto chi m’avesse detto

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che l’avrei rivisto prima che fossepassato l’anno, e proprio in Alba, dovesarei andato col mio padrone Tobia.

A me toccò che andavo per idiciassette anni e a dispetto dellacarestia di casa nostra pesavo settemiria, ero tanto grosso d’ossa. Quandomi misi a dormire quella notte, sapevoche l’indomani nostro padre sarebbeandato al mercato di Niella, ma da solo,sicché mi diede uno scrollone la suavoce nello scuro della prima mattina: -Agostino, levati e vestiti da chiesa -.Non dirò sicuramente che fu unpresentimento: tutto capitò come se iofossi un agnello in tempo di Pasqua.

Andare ai mercati mi piaceva, ed è a

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un mercato che ho avuto la miacondanna. Non successe subito, poteigirare ben bene il mercato di Niella em’incrociai più d’una volta con l’uomodella bassa langa che un’ora dopom’avrebbe tastato le braccia e misuratoa spanne la schiena e contrattato poi conmio padre il mio valore.

Disse Tobia Rabino: - Vi do per luisette marenghi l’anno.

E mio padre: - Me lo pagate unmarengo per miria che pesa.

Io pensavo solamente, in mezzo atutte quelle parole, che mia madre a casalo sapeva ed era come se fosse lì connoi sul mercato di Niella. Mi sembravache mio padre e Tobia giocassero a

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gridare, e la voce più forte quella di miopadre.

Si toccarono la mano e Tobia disseancora: - Se mi contenta, gli regalerò unpaio di calzoni per ogni Natale chepassa a casa mia. Ma non fateci subitocalcolo, non lo metto nei patti.

- E fatelo lavorare! - gli gridò miopadre, ma la sua non era crudeltà versodi me, ma solo una sfida a quell’uomodella bassa langa a spezzare col lavorola razza dei Braida.

Partii per il Pavaglione unasettimana dopo, a piedi, per la stradainsegnatami da Tobia.

Mi sentivo nelle vene sangue d’altriche avevano già servito.

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Quasi tre anni sono restato alPavaglione, e adesso ci manco da cinquemesi, ma mi sembra ieri sera che ciarrivai la prima volta, e al bordello delcane Tobia mi si fece incontro sull’aia enel salutarmi mi tastava spalle e bracciaper sentire se in quella settimana i mieinon m’avevano lasciato deperireapposta.

Di chi proprio non posso lamentarmiè la donna di Tobia. Alla prima vistatrovò che avevo l’aria brava e mi presein stima e a benvolere. Mai una voltache abbia scorciato i capelli ai suoi figlisenza poi farmi passar anche me sotto leforbici e la scodella, e tante sered’inverno, dopo d’aver richiamato alla

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catena il cane alla larga nel bosco,entrava col lume nella stalla a vedere seero ben coperto. E m’accudì anchemeglio quando seppe che avevo unfratello che studiava da prete. Io cheTobia lo chiamavo per nome, a lei diedisempre della padrona.

Lei e Tobia hanno tre figli. La primasi chiamava Ginotta, io non l’hoconosciuta tanto perché andò via sposache io ero a casa sua da solo sei mesi:quando ci arrivai, già due sensalisalivano per lei al Pavaglione. Non hopotuto conoscerla tanto Ginotta, ma èstato vivendo quel poco accanto a leiche mi son fatto un’idea di quel cheavrebbe potuto valere in famiglia quella

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nostra sorella se la sua vita fosse durata,e mi sono persuaso che non sarebbecambiato niente.

I due maschi, uno è un po’ piùvecchio di me e l’altro un po’ piùgiovane. Con loro ci facevo quattroparole a testa al giorno, ma nessuno deidue m’ha mai trattato con prepotenza,forse perché sapevano bene che bastavauna tempesta un po’ arrabbiata e unpiccolo conto nella testa di loro padreper spedirli tutt’e due a far la miamedesima fine lontano da casa. Tant’èvero che delle volte Tobia glicomandava qualche lavoro mentre c’eroio lì magari con le mani in mano e lorose lo facevano senza neanche sognarsi di

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passarlo a me.Per venire a Tobia, lui m’ha sempre

trattato alla pari dei suoi figli: mi facevalavorare altrettanto e mi dava altrettantoda mangiare. A lavorare sotto Tobiac’era da lasciarci non solo la primapelle ma anche un po’ più sotto,bisognava stare al passo di loro tre equelli tiravano come tre manzi sotto unsolo giogo. Almeno dopo tutta quellafatica si fosse mangiato in proporzione,ma da Tobia si mangiava di regola comea casa mia nelle giornate più nere. Amezzogiorno come a cena passavanoquasi sempre polenta, da insaporirestrofinandola a turno contro un’acciugache pendeva per un filo dalla travata;

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l’acciuga non aveva già più nessunafigura d’acciuga e noi andavamo avantia strofinare ancora qualche giorno, e chistrofinava più dell’onesto, fosse benstata Ginotta che doveva sposarsi trapoco, Tobia lo picchiava attraverso latavola, picchiava con una mano mentrecon l’altra fermava l’acciuga cheballava al filo.

Dopo queste cene, Tobia pretendevache dopo si cantasse; soffiava sul lume ediceva ai figli di cantare. Lorocantavano, e anche allo scuros’indovinava che Tobia sorrideva comese gli si lisciasse il pelo. Io non potevoaggiungermi perché non sapevo nessunadelle loro canzoni, ma poi le imparai

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tutte perché così volle Tobia, me lodisse come il comando d’un lavoro sullaterra.

Tante di quelle volte, nella stalla, sulmio paglione, aspettando che mi siaddormentasse la pancia perché potesseaddormentarsi anche la testa, mi sonodomandato se alla fine della mia annatanon c’era pericolo di non toccar queisette marenghi. E pensavo anche a comefaceva Ginotta, che pativa la nostrastessa fame, ad avere quell’aspetto, chesembrava già una sposa del primo anno.

Venni presto in chiaro del perchélavoravano così da demoni e tiravanotanto la cinghia, da un discorsod’interesse che si fecero dietro la casa

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Tobia e suo figlio più vecchio. Io ero lìper mio conto, che guardavo il rittano diSant’Elena e aspettavo che da dentro michiamassero a mangiare, quando giranola casa Tobia e suo figlio Jano. Sisedettero sui talloni, il vecchio sputò interra, il figlio sputò sul bagnato delpadre, di nuovo sputò Tobia e di nuovoJano.

Poi Tobia disse: - Siamo a unabuona mira, Jano.

- Ma se lo dicevi già quando m’haimesso al mondo!

- Ti dico che adesso siamo a unabuona mira.

- E per quando sarebbe?- Tu adesso dovresti avere quasi

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diciannove anni. Be’, per quel giornoglorioso non sarai ancora un uomo.

- Ma io sono un uomo già adesso!Tobia si mise a ridere: - Sì che sei

già un uomo. Tu non sei mio figlio, sei ilmio avvocato. Senti qui cosa ho io nellamia mente -. Ma proprio allora lapadrona mise le mani all’inferriata dellacucina e ci gridò d’entrare a mangiare.Tobia le urlò: - Aspetta, bagascia.

Stiamo parlando tra noi uomini -. Epoi disse a Jano: - Ho in mente unadozzina di giornate, non di più, ma tuttea solatio, da tenere mezze a grano emezze a viti. Con una riva da legna eanche un pratolino da mantenerci duepecore e una mula. Per concimarlo

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basterà la cenere del forno.- E dove sarebbe questa terra?Tobia si alzò sui ginocchi per tirare

più comodo un peto e poi si riabbassò: -Mica qui, mica su questa langa porcache ti piglia la pelle a montarla primache a lavorarla. Io me la sogno su una diquelle collinette chiare subito sopraAlba, dove la neve ha appena toccatoche già se ne va.

Quindi io sapevo i piani dei Rabino,e questo mi fece solo star male. Non mene sarebbe fatto niente se con quel miolavoro da galera io li avessi aiutati soloa togliersi la fame e il freddo, ma che mipigliassero la pelle per arrivare a farsiroba loro proprio mentre a casa noi

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perdevamo il nostro bene tavola atavola, questo mi mise l’invidia e unveleno nella mia stanchezza.

Per certo che per far quella riuscitaTobia non ne perdonava neanche mezza.Un giorno andiamo io e lui col carro giùa Trezzo a macinare. Al ritorno Tobia midiede da pensare perché un bel po’prima di casa mi venne accanto edettomi: - Tornatene da solo che ormaisei buono, - passò avanti conun’andatura che non gli avrei mai fatta.Quando arrivai per mio conto alPavaglione e fermai il carro al cancello,c’erano sull’aia i tre figli, talmente fissiall’uscio della cucina che neanches’accorsero di me. Sull’aia e dentro la

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casa c’era tutto silenzio, salvo il suonodella cinghia per aria e il suo botto sullaschiena della padrona. Poi Tobia uscìcon la cinghia sempre in mano, venne apiantarsi in mira ai figli e dài giù acinghiare: - Che vi diventi tossico nellebudelle! - urlava a ogni colpo, - che vidiventi tossico nelle budelle! - finché glimancò la voce, ma non il braccio percinghiare ancora.

Ebbene, nessuno dei tre che sitorcesse o che si lamentasse, neancheGinotta. Intanto loro l’avevano mangiatoil coniglio, mentre noi eravamo giù almulino, e Tobia era arrivato a prenderlisolo più con gli ossi.

Padrone del Pavaglione era, e lo

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sarà ancora, un signore d’Alba, cheaveva la più bella farmacia d’Alba;delle volte Tobia si vantava perfino luiche il suo padrone avesse la primafarmacia che ci fosse in Alba, eppurequando lo nominava lo chiamavapadrone di merda e gli augurava unamorte secca. Si lagnava soventissimod’avercelo sempre addosso, e a mequesto faceva strano perché in tuttaquella mia prima annata al Pavaglione ilpadrone io lo vidi solo due volte: unagiù ad Alba, che gli portammo unacconto della sua parte, e l’altra vennesu lui in domatrice con un suo amicoanche d’Alba, un avvocato. Era difebbraio, e avevano la scommessa se la

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neve andava via prima al Pavaglioneoppure alla cascina di quell’avvocato.Dopo d’aver ben guardato, si fermaronoa far merenda, la mezzadra gli portòpane e vino e quattro robiole una sopral’altra, e loro le intaccarono tutte pertrovare la più saporita ma poi finironoper piluccare a tutt’e quattro. Noialtriper la sorpresa avevamo smesso di farcorbe per chiocce nella stalla esull’uscio della cucina stavamo aguardarli, con gli occhi fuori della testa.Appena ripartiti sulla loro belladomatrice, Tobia si piantò in mezzoall’aia e si mise a bestemmiareun’esagerazione, che dopo un po’ io gliandai via da vicino e la padrona andò a

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scrollarlo per una spalla: - Basta, Tobia,- gli disse, - non ti piglia l’onta?

- Ah, io ho bisogno di farmi insegnarl’onta dalla donna!

- Sii un po’ cristiano, guardati ognitanto un po’ indietro. Bestemmi che faischifo perché il padrone viene a trovartiuna volta ogni morte di vescovo. Magirati indietro e guarda quelli dellaSerra che il loro padrone non ha affari incittà e così sotto il grano e sotto l’uvegli sta sui piedi per dei mesi.

E Tobia: - Sentitela che si preoccupaper quelli della Serra. Preoccupati perla tua famiglia, o bagascia, perché tu nonsai quanto n’abbiamo bisogno, colpadrone che per niente viene su a

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mangiarci quattro robiole in una volta! -e si rimise giù a bestemmiare, per farlaancora star male.

Dopo cena sentii la padrona fare asua figlia: - Ce l’hai il velo, Ginotta?Pigliamo la strada e andiamo a pregarenoi due a Cappelletto. Se non chiediamoperdono noi per lui, c’è posto chestanotte nostro Signore ci mandi delmale a noi o alla campagna.

Tobia era giusto sull’uscio e le fecepenare un po’ a passare, ma poi sischivò e disse loro dietro: - E’ suonatala campana, o due bagasce?

Dopo dei mesi che lavoravo alPavaglione, arrivò per me la volta buonadi calare ad Alba. Tanta la voglia che

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n’avevo che quella notte la passai mezzabianca, e bastò a svegliarmi al romperdel giorno il rumore che fece Tobia peraprire il cassetto del carro e mettercidentro il pane e il lardo e il pintone divino da mangiare e bere laggiù in città.

Scendevamo, Tobia dietro al freno eio davanti alla bestia, che a ogni svoltam’aspettavo di veder Alba distesa sottoi miei occhi come una carta tuttacolorata. A San Benedetto si parlavasempre d’Alba quando si voleva parlaredi città, e chi non n’aveva mai viste evoleva figurarsene una cercava difigurarsi Alba. Bene, stavolta l’avreivista e ci avrei camminato dentro, equella fosse pur stata la prima e l’ultima

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volta, io avrei poi sempre potuto entrarein ogni discorso su Alba e mai piùprovare invidia per chi l’aveva vista esi dava delle arie a discorrerne. Ementre che ero tanto lontano da casa chevedevo Alba, a casa in un certo senso citornavo, perché mio fratello Emiliostava in Alba.

Non c’era nessun bisogno che Tobiami gridasse nelle orecchie di guardarAlba perché io me n’ero già riempiti gliocchi e per l’effetto lasciai la bestia epassai sul ciglio della strada a guardarmeglio. Mi stampai nella testa icampanili e le torri e lo spesso dellecase, e poi il ponte e il fiume, la piùgran acqua che io abbia mai vista, ma

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così distante nella piana che potevosoltanto immaginarmi il rumore dellesue correnti; quel fiume Tanaro dove, asentir contare, tanti della nostra razzalanghetta si sono gettati a finirla.

Tobia mi prese per le spalle comeper puntarmi e mi disse: - Lo vedi quelgran palazzo col giardino davanti e tuttiquegli archi al primo piano? E là dentroche tuo fratello studia da prete.

Io adesso avevo la febbred’arrivare, ma ce ne volle prima che iferri della nostra bestia facessero lescintille sui selciati d’Alba, nell’ariabassa.

Era mattino buon’ora, ma vedevo giàtanta di quella gente in giro, uomini

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donne bambini e perfino soldati, da noncapacitarmi che ciascuno avesse unnome e cognome come su da noi.Guardavo tutto e tutti, per non perdereniente, e mi faceva strano che nessunoguardasse me. Ma c’era una cosa chenon mi riusciva di fare, ed era guardarein faccia i ragazzi d’Alba che all’occhiomi sembravano della mia età; li vedevoavvicinarsi ma nell’incrociarli era piùforte di me, dovevo chinare gli occhi,per poi voltarmi a guardarli una voltapassati. Finché mi venne una rabbia equasi come un odio, nel guardarli allespalle dicevo dentro di me: “Ah, sefossimo sulla langa, come vi concio unoper uno, fossimo sul mio terreno”. Roba

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da far pena, ma allora ero forgiato così.Andammo dove stava il nostro

padrone: una gran bella casa isolata inun viale, per andargli nel cortile si passasotto un arco.

Nel mezzo del cortile stavano già inriga due carri, erano i mezzadridell’altre due cascine di quel padrone ementre io curvavo il carro salutaronoTobia: - Ehi del Pavaglione,

- e Tobia: - Ehi della Commanda, ehidel Rombone, - ma tutt’e tre sottovoce,perché sapevano che il padrone dormivaancora. Fermai il carro alla mira deglialtri e poi diedi una spiata agli altriservitori. Arrangiavano il carico e ilgiogo alle bestie, tanto che io pensai che

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mi toccasse far lo stesso e senzachiedere a Tobia mi ci misi. Ma Tobiagirò gli occhi e mi fece: - Non toccarniente, tanto non cambia niente. Ce l’haamara con me e se gli portassi dell’orodice che è ottone.

Cominciò a uscire sul ballatoio unaragazza, doveva essere la servente delpadrone, fece due volte il ballatoio su egiù guardandoci con superbia e poivoltò la testa e tornò in casa.

Tobia disse: - Quella bagascia.Guarda come tratta. E’ dei nostri, io soche è nata e cresciuta in un letamaio aBenevello, ma dopo due anni che fa laservente in Alba guarda come tratta.

Poi dopo uscì il padrone, aveva

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addosso una lunga roba gialla che io nonho mai visto portare a degli uomini, eaveva la faccia del mal risvegliato;senza piegarsi guardò giù ai carri esubito gridò: - Coglione d’un Tobia, ècosì che si fa un carico? E quella bestiacome l’hai attaccata? O assassino, crediche le bestie siano solo tue?

A me mi mancò il fiato, guardai pertraverso a Tobia e gli vidi la testa sulpetto e le mascelle muoversi come se simasticasse la lingua. Vidi che anche glialtri mezzadri, che non erano statitoccati, stavano anche loro a testa bassa.Il padrone scese così come si trovava incortile e si mise a interrogare i suoimezzadri in un angolo, e anche lì Tobia

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era il più strapazzato. Poi i mezzadritornarono da noi, ci fecero girare lebestie perché dovevamo andare ascaricare a un mulino che aveva detto ilpadrone.

Dopo, Tobia era allegro e comeansioso che stessi allegro anch’io, ma ionon mi sentivo di alzargli gli occhi infaccia, mi domandavo solo se su alPavaglione lo sapevano come il padronetrattava il loro Tobia giù in Alba.

Posammo carro e bestia a unostallaggio dove Tobia era conosciuto emangiammo su uno scalino, senzaparlare come i frati; io mandavo giù laroba senza sentirci il gusto, forza chevolevo correre a vedere Emilio nel suo

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nuovo stato, Tobia capì e mi diede lalarga, a ritrovarci lì per quattr’ore.

- Per dove piglio per andare alseminario?

- Fatti insegnare mentre vai. E nonaver vergogna a parlare coi cittadini.Sono bestie come noi.

Partii, per strada chiesi a due delseminario, ciascuno m’insegnò solo unpezzo, ma il terzo non fece che voltarsi epuntare il dito a un palazzo che deveessere una vera antichità, proprio lì infaccia.

Entrai nell’androne: c’era in fondoun portone ma chiuso e a sinistra unaportina mezz’aperta. Mi sporsi e non misbagliai che era il parlatorio. C’erano

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cerchi di gente attorno a un ragazzovestito di nero o a un giovane già coibottoni rossi, e sulle panche contro imuri della gente seduta che aspettava esi guardava le scarpe impolverate.

Parlavano tutti basso e nessunorideva, come se visitassero dei malati.Non uno di tutta quella gente aveva laparlata delle langhe.

Mi venne davanti un vecchio zoppoe mi domandò chi cercavo.

- Io ho qui mio fratello a studiare. Sichiama Braida Emilio -. Volevoaggiungerci che veniva da SanBenedetto, ma quel vecchio doveva giàsaperne abbastanza perché mi girò laschiena e uscì da una portina in fondo.

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Emilio sarebbe entrato di là, e iomossi i piedi sul pavimento come sedovessi aspettarmi un urto e non misentissi ben piantato. Poi lui entrò:portava lo stesso vestito nero che erapartito ed era in faccia come se il soleper lui non s’alzasse più. Ci baciammosulle guance e Emilio disse subitoqualcosa che io non afferrai, tutto presocom’ero dalla novità della sua voce, cheera ben cambiata.

- Sono calato ad Alba col miopadrone, - gli dissi: - Lo saprai che nonsono più a casa.

- Me l’hanno scritto subito.- A te ti scrivono? E cosa ti dicono?

Hai una lettera da farmi vedere?

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- E’ già un po’ che non mi scrivonopiù. Ma ho scritto io a loro e se tardanoa rispondermi faccio una lettera alparroco.

- Allora mettici anche che m’haivisto e che sto bene. La volta che tornoavrò piacere che mi mostri la lettera dacasa.

Da dentro veniva ogni minuto unascampanellata e a tutte Emilio drizzavale orecchie.

- Però sei ben pallido, Emilio.- Usciamo poco o niente da qui

dentro -. Poi la voce gli si fece anchepiù fina: -

Agostino, hai del denaro appresso?Avevo dieci soldi e li tirai fuori: - Li

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vuoi? Tanto io non sono buono che aperderli al nove.

- Ho fame, Agostino. Esci unmomento con quei soldi e compramiqualcosa da mangiare.

- Cosa ti compero? - Mi ricordavo sìdi quello che gli piaceva mangiare aEmilio, ma ai tempi di casa, adesso misembrava di dovergli domandare anchecome respirasse.

- Comprami qualunque cosa.Io subito non mi mossi, stavo coi

miei dieci soldi in mano e negli occhi dimio fratello vedevo come in unospecchio me e lui al paese, undopopranzo di festa, che pescavamo conle mani i gamberi in Belbo. - Comprami

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qualcosa che mi rallegri, - e mi toccò sulbraccio per farmi svegliare e partire. Equando io ero già alla porta, mi corsedietro per dirmi di comprargli dellemele in composta.

A quella bottega che c’è sul mercatodei piatti gli comprai per quattro soldidi mele in composta e per sei di pescimarinati. Tornai coi due pacchetti, ma laportina del parlatorio era chiusa e dietronon c’era un filo di rumore. Mi prese unaffanno, che mi fece bussare un po’ forte,ma passò un bel cinque minuti prima chesentissi il passo dello zoppo. Aprì e midisse: - Son già tutti in cappella. Cos’hailì in mano?

- Roba mangiativa che m’ha chiesto

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mio fratello.- Dammi qua che gliela do io, - e io

buonuomo mi trovai con le mani vuote eil legno della porta contro il naso.

Dovetti decidermi a uscire, una voltafuori mi girai a guardare da sotto in su lafacciata del seminario, e feci anchequalche passo in un vicolo dove ilfabbricato continuava, come se cercassiun pertugio che mi lasciasse rivederemio fratello: davanti alla pietra tuttacieca sentii il bisogno di chiamar fortenostra madre, per tutt’e due.

Tornavo allo stallaggio, non avevonessuna idea dell’ora, di gente in giro cen’era solo più metà, e s’era levato unvento, ma che sapeva d’erba marcita e

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di rane. Mi ritrovai allo stallaggio nonso come, Tobia non c’era ancora equesto mi diede un batticuore che perfarmelo passare andai dalla bestia aposarle un braccio sulla giogaia. Avevovoglia del Pavaglione, lo sentivo casamia, ed ero sicuro che anche Emiliosarebbe stato ben contento d’esserci.

Poi tornò Tobia, reggendo la sportadella sua donna gonfia di roba, eandammo su.

Non capitò più niente distraordinario, se non che si sposòGinotta. Noialtri ci sognavamo quelladata perché avremmo una buona voltaallungato le gambe sotto una tavola chemeritava. Come tutti su quella langa, io

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facevo Amabile l’uomo di Ginotta.Difatti i suoi di lei avevano dato

licenza al sensale di quello d’Agliano esolo più il sensale d’Amabile si facevavedere al Pavaglione, ma erano le sueultime visite; era già un po’ di feste chedopo messa Amabile accompagnavaGinotta davanti a noi dalla chiesa fino albivio del Pavaglione e la sera che noitornavamo da Cappelletto da vedergiocare i forti al pallone Ginotta nonmancava mai di domandarci se Amabileaveva vinto o perso, perché Amabile erail capo d’una delle quadriglie.

Si trattava solo più che il sensalevenisse su coi suoi d’Amabile a fissarela data dello sposalizio e il giorno da

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scendere ad Alba per comperare aGinotta le scarpe e la verga e poipassare dal padrone a dargli l’annunzioe vedere se faceva il regalo. Invece unsabato sera, che Tobia aveva lasciato illume acceso per Ginotta che dovevascriversi l’elenco del fardello perchésua madre n’avesse ricevuta, quel sabatosera arrivò il sensale da solo e chenessuno l’aspettava.

Tobia disse: - Qui c’è del pane malmasticato, e senza dargli da sedersi feceparlare subito il sensale.

- Rabino, non pigliatevela, ma il miouomo vuole che gli aggiungiate unmarengo.

Ci aspettavamo tutti la furia di Tobia

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e invece lui trovò una voce ragionativa eparlò come un avvocato. Disse: - Haconsiderato Amabile che lui èparticolare mentre io sono solo unmezzadro? Eppure gli do mia figlia,sana, tutt’altro che brutta e ancora cosìcom’è uscita da sua madre, e le ho fattoquattro marenghi di dote. Amabile cosapuò pretendere di più? Sentiamo.

- Dice che voi come mezzadro sietegrosso e che invece lui come particolareha appena un fazzoletto di terra e nondella meglio che ci sia.

Tobia s’era preso le mascelle tra lemani e faceva suonare il suo pelobianco, ma prima che trovasse darispondere si ficcò in mezzo Ginotta e io

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non l’avevo mai vista tanto decisa.- Parlatemi a me, - disse al sensale:

- Amabile è proprio fisso su quelmarengo in più?

- Da come m’ha parlato sì.- Proprio Amabile che si fissa su un

marengo, lui che al pallone rischia unoscudo in una partita ai cinque giochi!Ebbene, Amabile quel marengo in piùnon lo vale. Mi rincresce per voi, per lastrada che avete fatto e le parole cheavete spese, mi rincresce che doveteperdere il pastrano che v’eravatemeritato, ma il vostro Amabile quelmarengo in più non lo vale.

Per me il contratto è rotto.A quel sensale vennero le lacrime

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agli occhi, stette un po’ con la boccaaperta e le mani giunte a guardarci infaccia uno dopo l’altro, perfino me chenon c’entravo, e in quel mentre Ginottaportò fuori sua madre, a confidarsi. Poial sensale ritornò la parola, e sempre amani giunte si raccomandò a Tobia, chen’aveva parlato bene in giro fin dalprimo giorno che Tobia era venutomezzadro al Pavaglione, che adessosenza potercene niente era in pericolo difare una figura che gli avrebbe rovinatotutte le senserie, che doveva trattarsisolamente d’una sera storta, perchéGinotta era la ragazza col più belnaturale che aveva mai trattata.

Ma Tobia gli disse: - L’avete sentita

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mia figlia. E come volete che io le vadacontro, a una figlia di tanta coscienzache non permette che suo padre getti viai soldi per lei?

Basta, la menarono lunga, con deiragionamenti che adesso io non sapreirifare, ma quel sensale con Tobia nonpoté dirla, e quando partì piangeva comeun bambino, proprio senza più nessunasperanza. E difatti, uscito lui, rientròGinotta e disse a suo padre: - Mi sonmessa d’accordo con mia madre. Se nonhai niente in contrario, manda achiamare il sensale che parla a nome diquell’uomo d’Agliano.

Andai io a fargli la commissione,fino ai Badellini, ma la sera che

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eravamo rimasti d’accordo tardava adarrivare, finché sentimmo dei botti edelle grida d’aiuto giù sulla strada diMango, mentre il nostro cane facevadelle voci nere e accendeva tutti i suoisoci dagli altri pagliai. Noi uominiscendemmo al soccorso, ma quandosaltammo sulla strada di Mango c’erasolo più il sensale, tutto storto per labattuta e le mani larghe sulla faccia.

- Sputo sangue, - ci disse: - E’ statala gente d’Amabile, per la gelosia.Ricordatevi poi, Tobia, di cos’hopassato per il bene di vostra figlia.

Ma Tobia gli disse solo che un’altravolta passasse da Mompiano.

Combinarono al galoppo e bene per

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Tobia: quel monferrino ci stava a quattromarenghi e in quanto alla sposa si fidavatalmente del sensale e della suadescrizione che per veder Ginottaaspettava d’avercela accanto davanti alprete. Tobia invece spese due giorni perandare a vedere il bene di suo genero etornò dicendo che la terra era poca matutta messa a viti nuove e lavorata damaestro.

Mancavano due giorni allosposalizio, e la padrona cominciò a farda mangiare.

Veramente lei voleva che Tobiachiamasse una cuciniera di Treiso cheera tanto nominata per i pranzi di sposi,ma Tobia disse che di soldi gliene

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andavano già fin troppi a far le coseordinarie. Il pranzo quindi loprepararono la padrona e Ginotta; lavigilia non ci lasciarono più entrare incucina, per paura che toccassimo e perconservar la sorpresa; quel giornomangiammo sotto il portico nellescodelle che ci portò fuori Ginottatirandosi con un piede l’uscio dietro. Manoi tornando dalla terra avevamo fatto ilgiro della casa, alla cerca di cos’avevabuttato via la padrona: avevamo trovatobudelle e piume di gallina e c’eravamorallegrati.

Si sposarono a Trezzo agli ultimid’ottobre. Lo sposo non aveva più suamadre ed era venuto con suo padre, suo

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fratello e un suo zio sul biroccio delsensale. Facevano tutti abbastanza bellafigura.

Della parte di Tobia era venuta piùgente di quel che m’aspettassi: un suofratello e due sue sorelle cogli uomini ei bambini, portarono a Ginotta i lororegali dentro delle scatole da scarpe. Ioavevo paura, con un affanno che miguastò la cerimonia giù a Trezzo, paurache con tutta quella gente invitata non cifosse a tavola un posto anche per me,che non ero parente ma solo servitore, emi ficcassero in un buco dove potevoanche essere qualche volta dimenticato;invece si strinsero e mi fecero sedere atavola, in mezzo ai bambini.

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Prima d’allora non avevo maimangiato un pranzo così e anche oggifarei una buona giornata sem’invitassero a uno uguale. La padronanon mi faceva torto e tutte le volte chemi calava roba nel piatto mi diceva dasopra: - Mangia, Agostino, mangia,ragazzo. Tu che non sei parente non hail’obbligo di star attento ai loro discorsi,tu mangia solo e non perdere tempo -. Edifatti non ci stavo attento, ma dopo unpo’, che eravamo ben avanti nel pranzo,sentii la voce di Tobia calare calare epoi rompersi finché Tobia pianse. Noirestammo tutti coi denti fermi e lapadrona gli domandò cos’aveva visto.

- Niente, - disse la sorella di Tobia

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la più vecchia, - è solo il vino che èsceso fino a toccargli il cuore.

- Si sì, - disse l’altra sorella, -dev’essere proprio il vino che gli èandato per la vita.

- Cosa possiamo farci? Cosa vuoiche ti facciamo, o Tobia?

- Niente del tutto, lasciarlo da luisolo, - disse sua sorella la prima, edifatti Tobia, nel silenzio, si ripigliò, manon diede nessuna spiegazione.

C’erano delle volte che dovevofermarmi un momento di mangiare eallora mi guardavo Ginotta accanto alsuo uomo fresco fresco e quantunquefossi pieno di cibo e di vino avevo benpresente che tra qualche ora Ginotta

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sarebbe partita per sempre e per me ilPavaglione sarebbe poi diventato piùbrutto di prima, ma proprio il cibo e ilvino non mi lasciavano prendere la cosasul triste.

Era destino che Tobia dovessedisturbarci in quella bella tavolata. A unbel momento disse forte che dovevauscire a far acqua e s’alzò e andò fuorifacendoci spostare tutti. Non era passatoun minuto che sentimmo un suo grido eappena potemmo districarci dalle sediee gli uni dagli altri corremmo sull’aia;ma lo trovammo e raccogliemmo infondo alla riva.

Era andato sull’orlo a far acqua esiccome ne aveva più nella testa che nei

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piedi era cascato giù come un palo.Sembrava che si fosse rotto il naso,aveva la faccia incrostata di sangue e diterra bagnata da lui medesimo. Suasorella la più vecchia lo toccò sullafronte e disse che aveva già la febbre.Lo coricammo e tornammo a finir dimangiare.

Ci alzammo che la campana diCappelletto dava vespro, ed eravamotutti pesanti più del piombo. Ginottavoleva a tutt’i costi aiutare sua madre asparecchiare, ma la padrona le disse: -Ci mancherebbe altro! Ma tu non sai chegiorno è questo per te. E’ il primo eultimo giorno bello della tua vita, opovera Ginotta. Neanche il giorno che

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avrai il tuo primo bambino sarà piùbello come questo.

Fuori, lo sposo e i suoi erano già sulbiroccio, duri come se fossero offesi mainvece era per resistere all’effetto delvino, guardavano avanti la strada chedovevano fare e a noi davano la schiena.Io portai fuori il fardello di Ginotta e loposai sull’asse dietro del biroccio, malegarlo volle legarlo Jano, e siccomeper il vino gli ballavano gli occhi e lemani fece una legatura che quelli primadi metà strada saran dovuti scendere arifarla.

Ginotta era salita a baciare suopadre nel letto, io facevo conto che suamadre l’avesse accompagnata di sopra e

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così entrai franco in cucina per pigliarmidei pezzi di carne avanzati e andarli anascondere nel paglione e mangiarmelipoi nella notte o alla mattina Ma lapadrona era rimasta di sotto, s’erainginocchiata su una sedia e pregava conla fronte contro il muro, e allora io nonme la sentii più e tornai fuori.

Quando Ginotta fu sul biroccio inmezzo a quei quattro si voltò e ci gridò:- Vi rendete conto che me ne vado? Eadesso come farete senza di me?

Jano rise: - Parti tranquilla chefaremo lo stesso.

Il sensale diede al cavallo e Ginottache non se l’aspettava lo scrollo lasbatté giù sul sedile, ma si rialzò mentre

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già andavano e gridò a sua madre: - Seio non potessi, vieni tu a trovarmi adAgliano! Almeno una volta all’annovienimi a trovare!

La vita ti dà addosso con deicastighi: io per aver tardato ad andare inlicenza non ho più visto vivo mio padre.

Già più d’una volta Tobia m’avevadetto che era tempo di prendermi la miaprima licenza, ma io non l’avevo ancoraascoltato. Pensiamo se non avevo vogliadi tornarmene qualche giorno a casa, mavolevo anche farmi desiderare dai mieilassù, come li avevo visti mettersi adesiderare Stefano quando fu un bel po’che era soldato e a casa in licenza nonveniva mai. E così mi facevo forza

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contro la voglia di casa mia e per ognigiorno che potevo essere a casa e inveceresistevo al Pavaglione mi sembrava difarmi un merito.

M’aiutava a tener duro la stagione,che era inverno, e se Dio voleva illavoro non ammazzava più e poi sipassava quasi tutto il tempo al caldonella stalla, tanto che ci faceva basta ilmangiare che era ancora più scarso chein tutte le altre epoche. Finché lapadrona mi disse quasi da arrabbiatache non credeva che io fossi un figliocosì, che non sentivo il dovere di farmirivedere dalla mia gente dopo un annoche ero lontano, e allora le promisi cheandavo. Era talmente sicuro che

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l’indomani partivo, che la sera lapadrona mi disse: -

Domani che li vedi, di’ ai tuoi chequesto Natale non t’abbiamo regalato icalzoni perché sai le spese che abbiamofatto per la nostra Ginotta, ma il Nataleche viene te li portiamo senza fallo -.Ma nella notte nevicò di nuovo, e nonpotevo squarciare un ginocchio di nevefino a San Benedetto; quel giorno Tobiami mandò sul tetto, a sgravarlo dallaneve.

Poi venne la festa di noi servitori. Ipiù vecchi calarono ad Alba e con loroandò anche qualcuno della mia età; ioavrei voluto aggiungermi a loro, maTobia non mi lasciò, con la scusa che

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Alba era un posto pieno di pericoli per iservitori giovani in festa, c’erano deidroganti che li aspettavano e liintrattenevano apposta per piumarli deipochi soldi a tutt’i giochi, e poi ad Albafiniva sempre che i più vecchi facevanprendere ai più giovani il vizio delledonne portandoli in certe case apposta.Invece fu contento che andassi alla festanell’osteria di Manera che c’eravamocombinata noi che non eravamo scesi adAlba. Ci fermammo tutto il dopopranzoe la sera, di servitori ce n’era venuti finda Campetto, c’era poco da mangiare emolto da bere, io ci presi la mia primasbornia da uomo, e ballammo anche,uomini con uomini, con la musica d’un

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suonatore di Borgomale per il qualemettemmo cinque soldi a testa. Fuproprio quel giorno lì che capitò ladisgrazia a mio padre.

Tre giorni dopo, mi trovavo nelrittano sotto la casa a far fascine, che erail mio ultimo lavoro prima della licenza.Venne Tobia e mi chiamò da sulla strada,ma la notizia non me la diede chequando fummo sull’aia. Mentre ero giùnel rittano era passato al Pavaglione unolearo della Liguria che veniva dai mieiposti e andava a Mango al mercato; aSan Benedetto mia madre gli avevacomperato l’olio a patto che lungo lastrada per Mango passasse alPavaglione e le facesse una

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commissione: dire a me o al padroneche mio padre era finito nel pozzo perdisgrazia, l’avevano tirato su in tempoma stava male e perciò che io andassisubito a casa.

- Non lo vedo più, - dissi subito, edera la prima volta che avevo quellacampana negli orecchi.

- Non star lì a cabalizzare se lo vediancora o se non lo vedi più, ma pigliasubito la strada.

- Voi, Tobia, lo sapete che è giàmorto ma non me lo volete dire.

- Che mi crollino gli occhi se t’hocambiato una sola parola diquell’olearo. Non star lì a cabalizzare,ma piglia subito la strada, - e mi diede

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tre marenghi sulla mia annata. Lapadrona mi disse: - E per strada preganostro Signore che ti faccia la grazia dituo padre. Io di qui prego anch’io -.Aveva già pronto in mano pane e lardo elei stessa me lo mise in seno.M’accompagnarono tutti al cancello, unodietro l’altro che sembrava già quellauna sepoltura.

Un viaggio così non glielo auguro anessuno. Ci vogliono quattro ore e ce nemisi quasi sei; ma è che quando miconvincevo a sperare allora marciavotanto forte che mi sfiancavo e dovevolasciarmi andar giù sul ciglio dellastrada, ed era lì da fermo che miripigliava la disperazione e mi toglieva

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quasi la forza di rialzarmi erincamminarmi. Pensavo alla vita cheaveva fatto mio padre, a tante parole egesti suoi, a Emilio se era stato avvisatocome me e se era anche lui per strada, anostra madre e Stefano che lorosapevano già tutto, piangevo e gridavo amio padre che forse non succedeva sec’ero io a casa, invece che m’avevamandato a servir lontano.

Arrivai al paese al primo scuro, vididall’alto la nostra casa giù verso Belbo,mi sembrò che portasse sul tetto tutto ilpeso del cielo, e mi diede un colpo alcuore vedere la luce alla finestra deinostri, una luce che non poteva cheessere quella di quattro candele.

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Difatti non l’ho più visto vivo, eneanche Emilio, quantunque fossearrivato un paio d’ore prima di me, luiaveva trovato un biroccio che l’avevaportato da Serravalle fino al passo dellaBossola.

Restai un po’ solo con mio padre epoi scesi. Domandai a mia madre seaveva da parte i soldi per la sepoltura,ma lei mi disse che non n’aveva neancheper far cantare il prete e allora misisulla tavola i miei tre marenghi. PoiStefano mi portò al pozzo e mi spiegòtutto com’era capitato: nostra madre gliaveva detto di tirarle un secchio d’acquae lui s’era sporto a scrollar la catena cheper il gelo s’era incantata. Gli scivolò

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un piede sul pietrone e per il peso dellatesta era caduto dentro. Era stato Stefanoa tirarlo su e portarlo in casa, sembravache si fosse fatto poco, invece lospavento gli aveva dato sul cuore, ilmedico Aguzzi non s’era fidato asalassarlo e poi s’era aggiunta unapolmonite delle più secche. Stefanoandò poi a prendere una lanterna nellastalla e a quel chiaro m’insegnò ilraschio dello zoccolo di nostro padresulla pietra; vederlo m’empì di spaventoe di furore, come se fosse il segno chelascia il diavolo.

Fui contento, con tutto che erostanco, ma per togliermi da quel dolorecosì fisso, che mia madre mi mandasse

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ad avvisare i nostri parenti dellasepoltura. Io facevo il giro di Murazzanoe Buonvicino, mentre Stefano era giàpartito per Mombarcaro, Monesiglio eSale; in casa con nostra madre sifermava Emilio, lui avrebbe visto avestirlo e incassarlo.

Del resto era lui, il più debole, chemostrava più forza: forse ce l’avevasempre avuta in fondo all’anima, o forsela stava mettendo per via di quello chegli insegnavano laggiù in seminario. Dasulla porta mia madre mi disse: - Tu,Agostino, sei quello che l’ha visto menodi tutti. Cerca di tornare presto dal tuogiro, che non sia già chiuso -. Io le dissi:- L’ho visto bene, madre. Anche se

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quando torno è già chiuso, pazienza.L’ho visto bene.

La mattina della sepoltura facevasole, e io non sapevo se per questodovevo rallegrarmi un po’ o intristirmidi più per mio padre. Noialtri fratellieravamo fuori, di buon’ora, a star attentialle strade per le quali dovevanogiungere i nostri parenti. Arrivarono chiprima e chi dopo, tutti con la bestia, e ionaturalmente andai incontro a quelli cheerano stati avvisati da Stefano. Mam’interessavano più di tutti i nostri zii diMombarcaro, perché speravo cheavessero portato anche la loro figliaGiulia. Giulia era la più bella e la piùricca delle nostre cugine, quella che

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aveva l’esistenza più ambiziosa e felice,e la più nominata dalla parentela; iocontavo che ci fosse alla sepoltura dimio padre, m’aspettavo da lei unaconsolazione speciale, e non vederla sulcalesse in mezzo ai suoi mi mandò ilcuore giù fino ai garretti. Come se nonfossi persuaso, invece d’andare asalutare gli altri, seguii dentro casa glizii Emilia e Annibale e sentii mia madredomandare a sua sorella perché nonaveva portato anche Giulia. - Ma comefacevo? - rispose zia Emilia: - Lo saibene che la mia Giulia è a Mondovì astudiare dalle suore.

Ormai erano arrivati tutti, ciavevano baciati sulle guance, dicevano:

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- Noi ci vediamo sempre solo in questeoccasioni, - si sedevano e aspettavano ilcaffè. Nostra madre glielo passò,dicendo a tutti la stessa cosa: - Eh, chegesto mi son vista, - e poi dovettemandarmi a comperarne per altre dueonce.

Dalle occhiate e dalle mosse deiparenti si capiva che per loro era comese il tempo non passasse più, mentre ame sembrava che galoppasse; zioAnnibale tirò fuori il suo orologiod’argento e domandò come mai lacampana non cominciava a suonare laportata. Uscì Emilio a darsene ragione etornò dicendo che il prete di Costalungatardava, aveva fatto sapere che lui a

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piedi non si muoveva e che dovevanomandargli una bestia se lo volevanoavere in chiesa. Zio Annibale offrì il suocalesse, ma Emilio disse che era giàandato su Canonica e nostra madrebenedisse Canonica: - Chi l’avrebbemai detto all’epoca che ci facevamo laguerra per la censa -. Ma zia Emilia ledisse: - Povera Melina, se sapessi comeresta facile far la bella figura deigenerosi dopo che si è vinto.

Fuori c’era già della gente abisbigliare e scalpicciare nella neve,attraverso la finestra si vedeva il giallodelle carmelitane, che era la compagniadi nostra madre. Poi dovette esserearrivato Canonica col prete di

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Costalunga perché suonò la campana dinostro padre.

Quattro uomini alzarono la cassa, cisi arrembarono sotto e ce lo portaronofuori, noi tutti dietro a piangere, e chipiangeva più forte era Stefano, colfazzoletto sulla bocca.

Emilio lui non piangeva, perchédoveva recitare il rosario andando, e glisentivo la voce abbastanza ferma.

In chiesa si spicciarono perchédovevano pensare a messa ultima,c’erano i chierichetti che quando i trepreti non avevano bisogno di loro sicimentavano l’un l’altro, si ficcavano ledita nel naso e stavano per dei minutivoltati verso di noi per veder bene i

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nostri parenti di fuori. L’ho fatto anch’io,quand’ero ben lontano dall’essere inprima fila dietro una cassa.

Quando uscimmo di chiesa il tempos’era girato: il sole era andato anascondersi e al suo posto c’era ilvento; un’ariaccia che arruffava lacoperta sulla cassa e una volta chefummo fuori del paese spense i ceri allecarmelitane. Ci fermammo perchépotessero riaccenderli, ma quell’ariaglieli smorzò di nuovo e alloraandammo avanti così. Per le undici erasotterrato e io ero invecchiato di diecianni. Tornammo pian piano; sull’aia checi aspettava c’era nostra madre con ziaEmilia che la teneva per la vita. Ci

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disse: - Avete già finito? Gli avete fattotutto bene a quel pover’uomo?Dopopranzo vado a vedere.

Per pranzo c’era tonno, sardine eolive, gallina e il suo brodo, dovevamorire nostro padre per mettercinell’obbligo di fare un pranzo così. Sesul principio si stette ancora zitti èperché avevano tutti fame, ma poi siscaldarono a parlare; parlavano degliaffari che avevano fatto o che avevanoin mente di fare, di prezzi e dimediazioni, a un certo punto zioAnnibale disse forte che lui nella vallatadi Bormida aveva dei crediti percinquantamila lire, zia Emilia dissesubito che non era vero niente, ma lui

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disse più forte ancora: - Sì invece, e cen’avrò fin di più! - Anche noi cimischiammo ai loro discorsi, anche noidomandavamo e rispondevamo, equando loro ridevano arrivavamo asorridere. Uno alla volta, tuttidomandarono a Emilio un bricco di cosesul seminario d’Alba, ma a me nessunochiese niente, perché io ero a servire,l’unico di tutta la parentela che fosse aservire, e la cosa imbarazzava ancheloro.

Ci levammo da tavola che per lastagione era già tardi, il cielo mettevafreddo nel filo della schiena a sologuardarlo da dietro i vetri, e si leggevain faccia a tutti i nostri parenti il

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disgusto di dover far strada fino a casaper quelle langhe crude. Nostra madrevoleva rifare il giro del caffè, ma non lalasciarono e dopo averci baciati uno peruno sulle guance montarono sui birocci.L’ultima fu zia Emilia, che disse a noifratelli: - Tenete da conto vostra madre.Accuditela e più che tutto fatelamangiare. E se lei non vuole e dice chenon si sente, voi sforzatela, come alleoche -. Per lei era una parola, che peressere padrona di censa forno e macelloaveva in tasca tutto Mombarcaro e aforza di mangiar bene aveva il collo delcolor del prosciutto.

Noi alla sera cenammo a polenta ecotognata. Poi Stefano disse come un

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bambino che si sentiva male, si mise aletto e nostra madre salì a curarlo. Ioinvece uscii nel freddo, arrivai alcamposanto e mi misi ad andar su e giùlungo il muretto come se facessi un po’di compagnia a mio padre, poi sentii deipassi nella neve; era Emilio che venivacon la stessa mia ispirazione, Cigettammo l’uno incontro all’altro e cipiangemmo sulla spalla.

Se cerco qualche fatto che possadare un quadro di mio padre e del nostrosangue, la prima cosa che mi viene inmente è come ha fatto a conoscere esposare nostra madre; ma bisognerebbesentirlo contare da Netino, come ce l’hacontato a me e a Emilio l’ultima volta

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che fummo dai nostri parenti diMonesiglio per la festa di san Biagio.

Verso i vent’anni mio padre era statoun bel po’ via da casa, a Monesiglio, afare il garzone da suo zio Pietro cheallora aveva la locanda sulla piazza. Cistette quasi due anni, finché dovettetornare a far andare la terra al posto disuo fratello che partiva soldato. Però luivoleva portarsi a casa una donna diMonesiglio o lì intorno, perché quandoera partito in tutto San Benedetto non cen’era una che gli andasse ed era sicuroche in quei due anni non era spuntata labuona. E così gli ultimi mesi aMonesiglio li passò a cercarsi la sua,batteva tutte le case dove si vegliava e

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non perdeva il più piccolo ballo. Manon trovava, perché era diffizioso,almeno così diceva Netino, il figlio diPietro; lui e mio padre avevano laconfidenza di due gemelli.

Netino disse un giorno a mio padre,che erano seduti sulla panca fuori dellalocanda: -

Stanotte ho sentito dare i due botti etu non eri ancora tornato Dove seifinito?

- A ballare ai Colombi. Me ne sonoandato via coi suonatori.

- E hai trovato?- Niente.- Ho bell’e visto che te ne torni a

San Benedetto con quel nodo ancora da

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fare.- Non avessi cercato, volessi la

regina Taitù, - disse mio padre.- Diffizioso sei diffizioso.- Ma qui è questione di mescolare il

sangue. Tu fai presto a dire diffizioso.Netino con più niente da dire si mise

a guardare le case in faccia, poi di colpofece: -

Melina! - come se avesse trovato unmarengo in mezzo al fango.

- Che Melina? Melina di Biestro?- Proprio Melina di Biestro. Cosa

vai a cercare per mezza val di Bormidaquando hai solo da traversare la piazza?Melina, com’è che non c’è mai venuta inmente?

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Era una figlia di quei Biestro chenegoziavano forte nelle robiole, stavacon suo fratello dall’altra parte dellapiazza, e non gli era mai venuta in menteforse perché non l’avevano mai sentitanominare da nessun uomo. Era grandecome mio padre, un po’ carabiniera,vestita sempre di nero fin da bambina,mai vista su un ballo, di chiesa ma senzaperderci le bave; aveva la particolaritàche montava a cavallo come un uomo,sempre a cavallo girava la val diBormida per il suo commercio e allorasi metteva i gambali da soldato e perquesto fatto dei gambali c’era qualchebrava gente di Monesiglio che lagiudicava una balorda.

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- Allora la vuoi? - disse Netino.- Io la prenderei, ma e lei?- Valla a sentire.- E se capita a dirmi di no?- Nessun uomo è mai crepato perché

una donna gli ha detto di no.- Lasciami studiare tutt’oggi e tutta

stanotte.- Macché studiare, stanotte dormi

con Melina sotto il cuscino -. E Netinotraversò la piazza, diede una spiata allafinestra di Melina e tornò: - Su, che èdentro che incesta le robiole.

- Non sono pronto.- Dove non sei pronto?- Non sono pronto con le parole.- Ma se hai una lingua che non ti

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ritiri neanche davanti ai preti. Su, dattiuna cambiata, vestiti da chiesa.

Dài e spingi, mio padre andò, vestitoda chiesa ma con la barba delladomenica prima, che se ne accorse soloquando davanti a Melina si toccò lafaccia con le mani.

Melina era voltata e china cheincestava le sue robiole, lui non le diedeil tempo di girarsi e le disse tuttoattaccato: - Sono Giovanni Braida, ilnipote di Pietro Gavarino, e sono entratoa sentire se caso mai volete sposarmi evenire a star con me a San Benedetto.

Lei girò mezza la testa e gli risposecosì: - Credete che non lo sappia chesiete voi che tutti gli anni fate il

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carnevale là nel vostro paese di SanBenedetto?

- Ma io non burlo per niente, se èquesto che volete dire. Per me non è piùtempo di carnevale.

- Sentite, Braida, io ho l’animasversa perché oggi m’è venuta una donnadei Bragioli a portarmi le robiole egliene ho pagate dodici e adesso hovisto che erano solo undici. Non è il piùbel momento per burlare.

- Ma chi è che burla? Io no, e sonoqui che aspetto una vostra risposta nonda burla.

Allora mia madre si drizzò. Glivenne davanti ed era tanto grande comelui: - Se non burlate, io per adesso non

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vi dico né di sì né di no, ma vi dico diripassare quando ci sia mio fratello cheè andato a comperare fino a Torresina.

Mio padre tornò alla locanda, sisbarbò ben bene, diede una mano aservire una tavolata di carrettieri, equando sentì il cavallo di Biestro tornòalla casa in faccia. Biestro gli disse: -

Mia sorella Melina m’ha detto dellatua domanda. Io come fratello sonocontento perché ti conosco per un bravofiglio, con la tua fetta di bene al tuopaese e qui a Monesiglio hai una buonaparentela. Però devi andare dai nostripadre e madre e ridichiararti a loro e larisposta che ti dànno loro sarà quellabuona. Sai dove stanno.

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Stavano nella loro casa dietro iBattuti Neri, dove noi siamo entrati duevolte, quando mancò nostra nonna e poinostro nonno. I due vecchi erano seduti atavola, ma non stavano contandosela;alla grigia cascava la testa e i rarimomenti che la teneva su alloraguardava di storto il suo uomo. Miopadre sapeva, come tutti a Monesiglio,perché le cascava la testa, e non c’eraniente di straordinario che a quell’orafosse già piena perché era passatovespro.

Il vino gliel’avevano tolto a mianonna, ma sovente la trovavano ubriacalo stesso, finché scoprirono che avevauna riserva di fernet nel vaso da notte.

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Mio padre rifece la sua domanda,disgenato adesso perché aveva già fattouna prova, e i due vecchi l’ascoltaronofino in fondo. Poi Biestro disse: - E già,e già, e già, - come per non lasciaresenza risposta uno che gli avesse parlatodel vento e della pioggia. Tirò fuori untoscano e se lo piantò in bocca mamentre mio padre sfregava uno zolfino lavecchia come una gatta gli strappò iltoscano di tra i denti e se lo nascose ingrembo, con tutt’e due le mani sopra.Mio nonno bestemmiò una volta, ma poifinì di dirle solamente: - M’hai fatto ungesto dei più belli, bagascia, ti seipresentata a Braida proprio con un gestodei più belli -

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. E poi disse a mio padre: - E vabene. Come per le altre nostre tre figlie.Perché io e questa vecchia qui neabbiamo messe al mondo quattro difiglie, lo saprai, e tre hanno già famiglia,e una ha perfino preso un capitano dimare di Savona, saprai anche questo.Ebbene, tutto come per le altre tre. E’venuta l’ora anche di Melina. Cosaabbiamo fatto per le altre tre lo faremoper Melina, e di cuore.

La vecchia si alzò, tenendosiabbrancata alla tavola come se sivedesse sull’orlo d’una rocca, maBiestro l’obbligò a rimettersi giù, ledomandò cosa voleva alzarsi a fare.

- Il caffè a Braida. Passiamo almeno

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il caffè a Braida che ci porta via Melina.- Non hai bisogno d’alzarti tu. Dài

una voce alla servente.Mia nonna diede una voce alla

servente e poi disse a mio padre: - Nehche una goccia di fernet nel caffè tifarebbe piacere? - Mio padre era soloda vino e disse di no. - Ma non lo saiche una goccia di fernet nel caffèt’arrangia lo stomaco?

- Già che un uomo come Braida habisogno d’arrangiarsi lo stomaco, -disse duro mio nonno, e guardò miopadre per vedere se aveva capito perchéla vecchia s’intestava sul fernet. Altroche c’era arrivato mio padre, e avevapaura che per non averla favorita nel

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fernet non ne avrebbe mai più fatta unabene con sua suocera.

Presero il caffè senza la goccia difernet e dopo mia nonna si mise alacrimare e a chiamare: - Melina,Melina, Melina! - finché si alzò distrappo, arrivò alla porta, l’aprì e gridofuori: - La mia Melina si sposa, la miaMelina va via! - e cascò giù contandotutti gli scalini, senza che i due uominipotessero fare un gesto.

Non ci misi un minuto a capire cheanche mancato mio padre io non ero piùdi bisogno a casa. Non ci restava unsoldo che è un soldo, eravamo allamercè della più piccola disgrazia, ciaveva lasciato dalle sei alle sette

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giornate di terra e un uomo dell’età edella taglia di Stefano potevalavorarsela tutta da lui solo. Quello chefaceva di bisogno a casa nostra erano isette marenghi l’anno che io guadagnavolaggiù da Tobia, me lo disse chiaroStefano, con un tono come se lo stupisseche io fossi ancora lì e non avessi giàrifatto fagotto. Con Emilio lo stesso, glidisse: - Tu te ne torni in seminario. Noida qui faremo per te quel poco chepossiamo fare, tu laggiù studia di buonavoglia per cucirti presto i bottoni neri eprenderti insieme nostra madre nellachiesa che ti daranno.

A Emilio non so, e poi lui avrebbeavuto sempre più poco a che fare con la

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casa, ma a me questo comandare diStefano mi mise dentro un affanno, quasiun presentimento che alla fine ci avreigiuntato. Stefano ci aveva già comandati,tra lui e me che ero il secondo c’eranocinque anni di diversità, ma sopra di luirestava sempre nostro padre; adesso ilcomando tutto nelle sue mani non milasciava per niente tranquillo. Non cheStefano avesse dei vizi grossi, ma io dilui, specie dopo che era tornato dasoldato, non mi fidavo più, lo vedevosolo più buono per se stesso. O forsem’aveva fatto diventar così diffidente,con tutto che era stata una disgrazia,l’aver visto cosa poteva capitar di malea casa nostra con me lontano. Io avevo

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sperato, quantunque sapessi bene chenon potevano farlo, che con la morte dinostro padre i miei mi facessero fermarea casa per sempre. E dopo avevosperato che, se lavorare sotto gli altriera il mio destino scritto, michiamassero a Mombarcaro i miei zii,che tra censa forno e macello diservitori n’avevano sempre bisogno.Invece il giorno della sepoltura zioAnnibale non me ne fece neanche unamezza parola e io non osaiincamminargli il discorso. Adessoarrivo a capire che ai parenti sicomanda male, se li si vuole tenerealmeno un po’ da parenti.

Il silenzio di mia madre mi decideva

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anche di più delle parole di Stefano. Miguardava da raro e le volte che potevofissarla negli occhi sembrava dirmi:“Rassegnati a tornartene via perché iomi son già rassegnata a riaverti lontano”.

In più avevo il fastidio di Tobia:l’indomani della sepoltura midomandavo già per quando Tobia mivoleva indietro al Pavaglione; partitocom’ero partito per la disgrazia, noneravamo rimasti intesi per niente sulgiorno che dovevo tornare. Ed era unpensiero, perché adesso Tobia dovevotenermelo ben da conto, dopo leillusioni di poter fermarmi a casaoppure d’esser chiamato a Mombarcarodai miei zii. E così, tra Stefano e Tobia,

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finii di partirmene il mercoledì. Lavigilia stetti tutto il giorno sbattuto sulletto a piangere ogni tanto di rabbia e didesolazione; perché sapevo cosam’aspettava al Pavaglione, tutto precisosapevo per giorni mesi e stagioni, e io inquei pochi giorni ch’ero stato di nuovo acasa, malgrado il lutto, avevo rottol’abitudine fatta al Pavaglione in piùd’un anno, come succede di tutte le coseche si fanno per lungo tempo ma senzametterci un’oncia di cuore.

***Non c’era nessuno delle parti del

Pavaglione che potessi dirmelo amico,ma non avevo neanche dei nemici, salvoforse un balordo che senza avanzar

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niente da me e soltanto per far lospiritoso m’aveva attaccato una festa aManera, ma m’abbrivò solo a parole.Dai primi tempi conoscevo ormai unapartita di gente, e quasi tutta l’hoconosciuta dentro i muri del Pavaglione;perché la casa di Tobia era la primabisca di quei posti. Baldino, il figlio piùgiovane, aveva la mano santa con lecarte, Tobia gli aveva consegnato ilmazzo e lui se lo teneva stretto, nonl’imprestava nemmeno a Jano, neancheper lasciargli fare una partita di provacon me. Le sere fisse, Baldino tiravafuori il suo mazzo, che nessuno dellacasa sapeva dove lo nascondesse, e lomischiava per mezz’ora e senza mai

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alzar gli occhi, finché alla porta dellastalla bussavano i giovani di tutto lìintorno; e dopo due ciance tanto permascherar la febbre, si cominciavano itagli al nove. Tobia s’inginocchiavadietro a Baldino e gli studiava il giocoda sopra la spalla, per ridere fortequando Baldino scopriva la sua cartasuperiore e dargli uno schiaffetto sulcollo quando ramazzava la posta.

Io perdevo più o meno in fretta imiei pochi e m’allungavo da parte sullapaglia a guardare un po’ il gioco deglialtri e un po’ la padrona che filava in unangolo. Jano era come me alle carte, cheaveva sempre la sfortuna in favore, maal contrario di me s’illudeva di potersi

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rifare, e quando aveva perso tutto il suochiedeva a Baldino che gli imprestassesul suo guadagno, ma mai una volta cheBaldino gli abbia imprestato un soldo, ein questo era spalleggiato da Tobia checi speculava e conosceva suo figlio piùvecchio per una testa perdente.

A proposito del gioco, anche lassùda noi il vizio è incarnito e giocanoforte, specie a Murazzano, ma non c’ènessun confronto con le langhe basse,dove in una notte si giocano dellecascine di sessanta giornate e dovespuntano dei giocatori di tanta forza chepoi girano il mondo, conosciuti pernome nelle bische d’Alba, d’Asti e diTorino, e che vanno a giocare perfino in

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Francia. E’ capitato a me di vedere unuomo di Lequio che aveva vinto unmilione a Montecarlo. S’era fermato albivio di Manera, tutto vestito di nuovodal cappello alle scarpe, e teneva lavincita in un pacchetto appeso al dito, unpacchetto come quelli che fanno in Albaper le paste dolci. Tutta la gente intornoa Manera correva a vederlo come unbaraccone, lui aspettava che se ne fosseradunata un po’, poi alzava il dito emostrava in giro il pacchetto dei soldi, ediceva: - Tutto quello che vedo possocomprarmelo. O buona gente, possofarvi diventar tutti miei mezzadri -. Eraun uomo di Lequio.

Non fosse stato per il gioco, forse

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non avrei fatto la conoscenza di MarioBernasca. Era il partitante più forte conBaldino, e il suo avversario naturale, maglieli lasciava nove sere su dieci, e ioche tenevo per lui ci pativo io stesso; luiinvece sembrava di no, dopo che avevaperso tutto quello che s’era portatodietro diceva sempre di buon umore: -Tanto non sono miei, sono di quelli cheho piumato lungo questa settimana, - edoveva esser vero perché non perdevamai meno d’uno scudo e non potevaavercelo se non l’avesse guadagnato alnove o a bassetta da qualche altra parte.E quando aveva ben perso, faceva aTobia: - Allora, Tobia, stasera ciperdonate il lume, - ma Tobia non

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rinunciava mai a raccogliere la tassa sullume, anche quando Baldino aveva avutouna sera d’oro.

Mi ricordo una notte che Bernascaperdeva già più di due scudi e Baldinorideva come fanno le asine quando leportano al maschio. La padrona lasciò difilare, era spaventata per Mario e ontosache suo figlio vincesse tanto; disse aBernasca: - Ritirati, Mariolino, chequesta è la sera che ti perdi una mesata.

Io guardai Tobia e gli vidi la furiache lo sfisonomiava. Bernasca invecebatté le dita sul legno e disse: - Non miritiro, voglio vedere se vostro figlio èLucifero -. Lei gli disse ancora più dacomando: - Ritirati, Bernasca, se no

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un’altra sera in coscienza non ti lasciopiù entrare.

Allora Tobia saltò su dalla paglia,per un momento credemmo tutti checorresse a darle, invece le tirò solo dueo tre nomi e bestemmie in faccia, eallora lei si caricò la sua roba e uscì.Dopo, Tobia ci disse: - Ricordatevi, ogiovani, che le donne sono bestie. Nonpotete acchiapparle perché non hanno lacoda, ma se le picchiate in testa sentono-. E tornò a postarsi dietro a Baldino,ma stavolta non gli andò secondo i suoiconti perché Bernasca, uscita cosìmalamente la padrona, per quella serasmise di giocare.

Io mi sentivo tirato verso questo

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Mario Bernasca, e mi facevo l’idea cheanche lui volesse farmi amico, ma citrovavamo sempre e solo al Pavaglionein mezzo a una partita di gente e nonpotevamo mai discorrere testa a testa.La prima volta che mi parlò, mi disse: -

Me e te siamo due bei stupidi, - e lofece passandomi davanti per entrarenella stalla a giocare. Un’altra volta midisse le medesime parole e io ce necapii tanto come prima, ma non potevooffendermi perché si comprendevaanche lui negli stupidi.

Era della mia leva, ma avevatutt’un’altra malizia; i suoi l’avevanoaggiustato da servitore la prima voltache non aveva ancora undici anni e

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quindi nessuno n’aveva viste di tutt’icolori come lui. In compagnia Bernascafaceva volentieri la sua storia, e unavolta un servitore novello gli domandòche cuore avevano i suoi. - Che cuorehanno i miei? - rispose lui: - Sai cosam’ha detto mio padre quando io milamentai? M’ha detto: “Io t’ho mantenutofino adesso, adesso se Dio vuole lebraccia ti fanno lo stesso servizio che labocca t’ha fatto fin dal primo giorno. Va’che non mi fai più pena d’un passerottod’inverno” -. Che odiava suo padre lodiceva piano e forte, e che la più bruttagiornata per lui era quando suo padreveniva su da Barbaresco a riscuoterl’annata. La mia padrona, che non

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voleva sentir parlare così d’un padre,gli disse una volta che se era suo padrenon poteva non essere buono, ma lui lerise in faccia e le disse: - Mio padrebisogna assaggiarlo bagnato nell’olioper sentire quant’è buono.

Se Tobia non m’avesse tenuto così acatena, sarei andato qualche giorno atrovarlo dov’era da servitore. Stavapassato il pilone del Chiarle, a un’orada noi, con due vecchi particolari, uomoe donna, in un chiabotto di due stanze ela stalla e un lenzuolo di terra; peròfaceva andare avanti tutto lui. E così perdei mesi, io che avevo tanta voglia didiscorrergli insieme, dovetti contentarmidi sapere che per Mario sia io che lui

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eravamo due bei stupidi.La fortuna non cessava

d’accompagnare i Rabino: le annatesenza essere sante erano buone, e sia lebestie che la famiglia non si risentivanomai un briciolo di male; in quanto alpadrone, solo io posso dire la roba chegli ha fatto saltare Tobia. La mia pagadunque non pericolava, ma questo nonmi bastava già più; ormai a Tobia io glirendevo bene e valevo qualcosa di piùdei sette marenghi l’anno del patto conmio padre. Adesso che mio padre nonc’era più, toccava a me farmi valere efarmi crescere giustamente la paga; acasa avrei mandato sempre settemarenghi, e mi sarei tenuto il resto per

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fare qualche volta bella figura comeMario Bernasca. Ma ero buonuomo enon trovavo mai il coraggio di parlarnetesta a testa con Tobia: avevo il discorsotutto fatto in mente, ma rimandavosempre, tanto mi sembrava di nonsprecar gli anni, persuaso com’ero didover starci l’eternità al Pavaglione.

E poi un giorno o l’altro Tobiadoveva di coscienza parlarmene lui.Naturalmente Tobia non incamminò maiquesto discorso, invece gliene parlai io,una volta che non ci pensavo neanche,ma glielo dissi dietro la rabbia chem’aveva messo una sua ingiustizia.M’aveva comandato di salar l’acquaalle bestie e io gliel’avevo salata; lui

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m’uscì fuori che non s’era neanchesognato di comandarmelo e mi strapazzòben bene. Io mi feci le mie ragioni e giàche avevo preso l’abbrivo gliela intonaidella paga. Si mise a far dei gridi da unalira l’uno e fortuna che i due figli eranovia altrimenti uscivano fuori apicchiarmi come se io stessi scorticandoloro padre. Mi gridò che eravamo tutti lìsolo per succhiargli il sangue a lui, chenon era lecito chiedergli di crescermi lapaga solo perché avevo visto passarl’anno senza tempesta né brina, cheadesso i merdoni di diciott’annirompevano i patti fatti da uomini disessanta, e finì che potevo subito farmiil fagotto e liberargli il paglione per

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quella sera stessa, che lui aveva giàsottomano chi pigliava il mio posto amolto meno e ringraziare.

Dovermene andare su due piedi ecercarmi da dormire come i vagabondimi spaventò, e mi lasciò incapace diragionare nel mio interesse; Tobia siaccorse d’avermi fatto effetto, si sfreddòe mi disse che saremmo tornati adiscuterne, ma solo dopo il grano. E milasciò lì in mezzo all’aia, che non avevocombinato niente e forse gli avevo solodato il mezzo di tenermi più duro.

Mi venne vicino la padrona, cheaveva sentito da dentro la casa i nostrisfoghi, e mi disse: - Abbi pazienza,Agostino. Il mio uomo è fatto così: che

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se gli dici prendi capisce al volo, ma segli dici dammi non ci sente. Io medesimane sono alle prove.

- Di voi lo so, - le dissi guardandoin terra.

- Ma non sai tutto. Dal giorno cheGinotta m’è andata via, io vi ho addossotutt’e quattro voi uomini. E ti dico chemi fate perder la pancia, e chissà se laduro.

- Cosa vi sentite?- Soltanto stanchità per adesso, ma

una gran stanchità.- E voi riposatevi.- E voi quattro chi vi guarda? Ho

necessità che Tobia mi prendesse unaservente, ma non mi fido neanche a

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parlargliene. Mettiamo tutti pazienza,Agostino. Lo so che tu hai diritto a nonaverne più che tanta perché tu non seidella famiglia, ma abbi pazienza. Ioposso dirti cos’ha Rabino che gli rode ilcervello. La gran paura di non poterarrivare dove vuole arrivare prima chenostro figlio Jano lo chiamino a fare ilsoldato.

Sta di fatto che il secondo anno fupiù galera del primo. Alla mia etàcominciavo ad andar sbilenco come unoche ha vangato tutta la vita; sistortagnavano anche Jano e Baldino, maio mi guardavo solo me, che poi nonavevo il compenso della roba. Ilmangiare era nella quantità di prima,

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solo a me sembrava sempre più scarsoperché mi trovavo in crescenza di corpoe di fatica. Fu in quell’epoca che rubai ilsalame: non avevo mai avuto tanta famee un’occasione così, con nessuno incucina e sulla tavola un culettino disalame che forse la padrona pensava disbriciolarcelo nella minestra, e il caneuna volta tanto slegato che annusava lapietra della soglia. Saltato dentro,arraffai il salame e trafficavo permettermelo in seno quando dalla finestravidi venire per l’aia Tobia. Mi sentiitanto in colpa e così perso come seavessi ammazzato un cristiano, mandaigiù intero il salame e scappai fuori. Misalvò il cane che mi trovai tra le gambe

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e che mi diede l’ispirazione: a calci lofeci scappare e io dietro a gridargli delladro e dell’assassino. Tobia credette alrubarizio del cane, quando lo riebbe allacatena lo lasciò quasi morto di botte epoi digiuno per due o tre giorni, ma a mequel salame, tra che l’avevo buttato giùe lo spavento, non mi fece nessun pro.

Si viene a una mira che uno èobbligato a farsi delle illusioni e va acercare dell’aiuto dove non ce n’èneanche l’ombra; voglio dire che avendoormai capito che per Tobia io ero solouna bestia da soma con lo svantaggiodella parola, cercai l’occasione di farmiprendere in grazia, o anche solomettermi in vista, dal padrone del

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Pavaglione che era superiore anche aTobia. E ci tirai il colpo una volta chevenne su per togliersi mezza giornatad’in farmacia e s’era ricordato del cane,gli aveva portato una cartata di carneche, dopo un giro sul fuoco, ci sisaremmo gettati sopra io e anche i figlidi Tobia.

Data un’occhiata alla terra, s’eraritirato sotto il portico con Tobia, adiscutere. Io cominciai a girargli intornoe mi strinsi sempre di più quando sentiiche non parlavano più d’interesse, madel vento e della pioggia. Gli stavoormai a due passi e aspettavo ilmomento buono d’entrare nel discorsocon qualcosa che potesse far piacere al

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padrone, quando lui volta la testa e midice: - Tirati un po’ più in là che hai unsudore allo zolfo che fa venir male.

Avessi avuto solo le mie miserie, mami si aggiunse un cruccio per Emilio, esenza che mio fratello c’entrasse luidirettamente; fu il prete giovane diTrezzo a farmi star male per Emilio. Unamattina che ero al pozzo a tirare unrosario di secchi d’acqua, lui capitòsull’aia e mi disse di chiamargli la miapadrona. Io lo conoscevo per averlo giàvisto allo sposalizio di Ginotta e perchéera lui che tutte le feste ci faceva piantarlì di giocare al pallone per mandarci avespro, e gliela chiamai fuori.

Le disse: - Non avete nessun lavoro

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da darmi, un lavoro qualunque ma che ilgiorno che ve lo porti fatto possa essersicuro di mangiarmi pane e formaggio? -e nella voce e nel portamentosomigliava tutto a quegli ambulanti chegirano le nostre cascine, ma dellaqualità più disgraziata. Lei invece lotrattava proprio da prete, gli disse: - Hopaura di non aver proprio niente, donPino.

Lui s’agitò dalla testa ai piedi: -Possibile che non abbiate niente di rottoin tutta la casa?

Per esempio, il vostro svegliarinomarcia? Perché se non marcia io soncapace d’aggiustarvelo.

Lo svegliarino marciava, io potevo

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farle testimonio.- Nemmanco una sedia da

rimpagliare?Io vedevo il tiramolla dentro la

padrona; fosse stato solo per lei, lofavoriva subito, ma aveva paura di poiTobia. Alla fine però gli disse chepoteva dargli da rimpagliare il suocadreghino, quello che adoperava nellastalla a filare. Lo portai fuori io, il pretelo guardò sopra e sotto e poi disse cheera frusto, con le gambe tutte smangiate,e se lei ci stava lui gliene faceva unonuovo. Ma la padrona non poteva andartanto in là e per togliersi alla suainsistenza andò a prendergli unapagnotta e lei stessa gliela ficcò nella

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tasca della veste. Il prete ci posò soprauna mano e disse: - Voi non micrederete, ma sono a una mira che stopensando d’imparare a suonare ilclarinetto per guadagnarmi qualcosanelle feste.

Stemmo a vederlo andarsene colcadreghino sulla spalla, e quel giornocapii che i preti giovani somigliano unpo’ a noi servitori, hanno fortuna osfortuna a seconda dei parroci cheimbroccano, preciso a noi coi nostripadroni.

- La pena che mi fa quel povero donPino, - disse la padrona: - il pretevecchio lo fa morir di fame perché luis’è abituato a consumar poco o niente e

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non vuol capire che questo è giovane econ la pancia lunga. Ce n’è comodo perdue nella parrocchia, ma il vecchiospende tutti i soldi a farsi cintare i beni.Fin da loro ci sono le differenze e leingiustizie.

Da questo fatto mi venne il cruccioper Emilio: che dopo tanti sforzi esacrifizi lontano da casa, una voltaarrivato a cucirsi i bottoni neri, facessela fine di questo don Pino. Di preti io neconoscevo abbastanza bene uno solo, ilnostro parroco di San Benedetto; è veroche mangiava di magro non soltanto alvenerdì, ma se si fosse lamentato nonl’avrebbe fatto in buona coscienza, edera su di lui che io mi regolavo quando

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cercavo di figurarmi l’avvenire diEmilio nella chiesa. Ma dopo questofatto del curato di Trezzo, io che ormaivedevo per forza tutto brutto, non potevopiù liberarmi dal presentimento che miofratello avrebbe avuto il medesimodestino di questo don Pino.

Passò un bel mese e poi finalmenteTobia mi portò giù ad Alba, una voltache ci andammo senza carro e lui avevaappresso solo la sporta della sua donna.Per prima cosa andai al seminario,traversando mezza Alba ma con pocoocchio per la città.

In seminario, Emilio mi feceun’impressione ancora più brutta che laprima volta: aveva solo più degli occhi,

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e il collo non più grosso di quello d’unbambino di sei anni, per quello che mene lasciava vedere una sciarpa di lananera che non avevo mai saputo che cel’avesse. E così gli domandai segliel’aveva passata il seminario, ma luimi disse che gliel’aveva portata nostramadre. Era venuta ad Alba un mese emezzo prima, sul biroccio di Canonica,e finché aveva viaggiato sulle langhe erastata a cassetta, ma alla vista delleprime case d’Alba era passata dietro es’era accovacciata dentro una corba, perpaura e vergogna della città.

Io mi misi a dire: - Che stupida,nostra madre. Che stupida, nostra madre,- ma intanto giravo gli occhi per quella

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stanza dove lei era stata qualche sabatofa, ed ero talmente incantato che nondavo nessuna risposta a mio fratello. Miscrollai a sentirlo tossire; una tossesecca e maligna, che l’obbligava atenersi il petto con le due mani, allaquale non feci abbastanza caso ma cheinvece avrebbe dovuto mettermisull’avviso fin d’allora.

Mi disse: - Son solo contento che èfinito l’inverno, perché non ne potevopiù di rompere il ghiaccio nel catinotutte le mattine.

- Ma possibile che qui dentro facciauna siberia tale?

- Tu non ci crederai, ma fa piùfreddo qui dentro che sulla collina di

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Mombarcaro la notte di Natale.- Hai delle novità?- M’hanno messo nei cantori.- Sarai contento. E’ una distinzione,

mi sembra. E a essere nei cantori c’è deivantaggi?

- Ma io sono stanco, Agostino, etutte le mattine che mi levo devo cercarei miei pezzi nel letto. Quando sei stancoa questa mira, anche cantare diventapesante. Dopo lo studio gli altri che nonsono nei cantori si riposano, ma noiandiamo in cappella a provare -. Midisse anche, forse con l’intenzione disvariarmi: - Però cantiamo delle cose ein una maniera che se ci sentiste voi diSan Benedetto restereste a bocca larga.

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Ma io non mi lasciai portar lontano,anzi quel suo parlare di fatica e disacrifizio mi fece venire in mente lastoria di don Pino e in quattro parolegliela tirai giù.

Lui alla fine sorrise e mi disse: - Ame non dà nessun fastidio quello che puòaspettarmi dopo.

- Io invece al tuo posto il fastidio cel’avrei fin d’adesso. Perché si tratta delmestiere che farai per tutta la tua vita ecome t’ho contato c’è anche del brutto.

- Ma tu sei sicuro che io ci arrivi aesser prete?

Io la presi nel senso che Emilio nonse la togliesse in quella specie discuola, lo sapevo anch’io che in

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seminario si può restar bocciati tal qualenelle nostre scuole basse. Allora glidomandai come andava negli studi, conquel latino; a parlargli di queste cose, ioche avevo sempre solo avuto la zappa inmano, ero un po’ genato, ma in fin deiconti ero suo fratello più vecchio.

Emilio difatti rise: - Io non dicevomica del latino. Non è mica quello chemi fa paura.

Ce n’è almeno mezzi più indietro dime.

Ce ne capivo così poco che non misentii neanche di farmi spiegare. Lui eraandato a sedersi su una panca, sotto ilritratto del vescovo, e di là mi domandòse ero venuto giù per mio conto.

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- No, ho il padrone che m’aspettadall’altra parte d’Alba.

- Sei ben bravo, Agostino, a fartitutta quella strada per venirmi a trovare.

- Io per venire a trovar te lascerei unpranzo di sposa. Solo potessi vedertiuna volta in un altro posto che qui. Nonsi può passarci una mezza giornata io ete insieme, fuori per Alba, un po’ piùavanti nel caldo, nei giardini pubblici omagari in riva a Tanaro?

- Dànno il permesso solo a quelliche hanno la fortuna d’avere dei parentiin Alba. Ma chissà che noi due nonpossiamo vederci a casa, e fare insiemeun giro lungo Belbo, ma dal mattino allasera, e con da mangiare appresso. Cerca

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di farti dare dal tuo padrone una licenzanell’epoca che io mi trovo a casa invacanza.

Gli dissi: - Si vede che non sei piùdi campagna. All’epoca che tu sei a casain vacanza io lassù ho il grano e poi leuve.

Come l’altra volta si sentivano ognicinque minuti, da dentro, dellescampanellate e tutte ci facevanofermare il discorso; finché suonò quellabuona e lui dovette correre via. Prima cibaciammo sulle guance e io gli lasciaiuna lira perché si comprasse un po’ pervolta qualcosa che lo rallegrasse.

Ritrovai Tobia dov’eravamo rimastiintesi, ma invece di pigliar subito la

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strada delle langhe, mi portò con sé atrovare il nostro padrone, non a casa, manella farmacia. E’ quella in via Maestra,per andare al duomo, con delle bisced’oro pitturate su tutti i vetri, dentrorivestita d’un legno antico e lustro comeil coro della nostra chiesa di SanBenedetto, e le scansie piene di vasi chetante coppie di sposi delle nostre partisarebbero ben contente d’avercene unonella stanza da letto.

Il nostro padrone era fuori delbanco, parlava da in piedi a un suoamico seduto al chiaro presso la vetrina,discorrevano di fucili da caccia dichissà che valore. Tobia gli chiese scusae disse che eravamo passati solo per

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dargli il saluto e vedere se gli bisognavaqualcosa dal Pavaglione. Mentre ilpadrone domandava a Tobia se su da noiaveva piovuto come in Alba, entrò unadonna con una ricetta. Il padrone passòdietro il banco e le preparò il pacchetto,e bisognava vedere che cerimonie glifaceva quella donna che pure gli portavadel profitto. - Che mestiere, - mi fecepiano Tobia, - che mestiere che ha per lemani -. Il padrone prese i soldi delladonna e li ficcò in una macchinetta cheda lontano sembrava d’argento e chequando ebbe i soldi nella pancia fecedrin! A me e a Tobia si drizzarono leorecchie.

Poi Tobia andò a parlare al padrone

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un po’ da parte, ma si sentiva lo stesso.Gli diceva Tobia: - Ho lei che da un po’di tempo si lamenta e credo che non lofa per finta ma che si sente proprioniente bene.

- Cosa si sente?- Sarà forse una gran infiammazione,

io non lo so, ma si lamenta a tutte le oree s’è fin messa la verbena sulla pancia.

Tobia non gli avesse mai parlatodella verbena; il padrone s’arrabbiò ealzò la voce: -

Ah, s’è messa la verbena sullapancia! Almeno se n’è messa unaforcata? Gioco cento lire contro unsoldo che è andata dal settimino delVillaio.

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- No no, dev’essersela messa lei disua scienza.

- Bella scienza! - Il padrone s’eravoltato da quel suo amico e gli disse: -Vedi al caso pratico le teste cheabbiamo sulle langhe? - e quel signoreabbassò la testa come per dire checonosceva anche lui la nostra razza. Poiil padrone si riattaccò a Tobia: - Ma tunon sai dirmi proprio niente di quel chesi sente, che io possa conoscerle il maleda qui? Punto primo, le sue mestruazionile vengono sempre?

- Veramente io delle sueministrazioni non sono mai stato alcorrente.

- Cammina china?

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- Mi sembra.- Si tiene i fianchi?- Mi sembra anche.- Tobia, la tua donna è frusta. E’ ora

che le prendi una servente.- Quel che costa una servente.- Con tre marenghi e un grembiule a

Natale, fai quello.- Io non posso.- Io so che puoi.- Che voi sappiate, ma che io non

possa -. Tobia rispondeva secco,tutt’altro che da mezzadro a padrone;non c’era niente come toccarlo nei soldiche lo facesse diventare uomo.

Allora il padrone gli disse: - I tuoiconti voglio vederti a farteli quando

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l’avrai sotterrata.- Ma lei è frusta a quella mira lì?- Basta. La prima volta che vengo su

la guardo io.- Noi v’aspettiamo. E quando venite

su?Al posto del padrone parlò quel suo

amico, disse ridendo: - Furbo quelpadrone che avvisa il mezzadro diquando va a trovarlo.

Rise anche il padrone e perfinoTobia, mentre uscivamo, gli disse: -Allegro, padrone -.

Ma appena fuori nella strada, mifece: - L’hai vista quella macchina chefa drin tutte le volte che uno ci mette deisoldi? Averne una io, e avere i soldi del

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padrone da metterci dentro.Sentire un drin ogni cinque minuti.

Uno scudo e drin! Uno scudo e drin!Si può dire che anche dopo passata

la stagione del gioco non avevo maismesso di veder Mario Bernasca, masempre in compagnia, e poi cabalizzavoper delle giornate sulle parole che inquelle occasioni mi buttava: nondicevano niente di preciso, mapromettevano di vederci una buona voltatesta a testa e di spiegarci ben bene.Difatti, una domenica dopopranzo, salìal Pavaglione e mi chiamò ad andar conlui a bagnarci in un gorgo di Belbo; ioda dentro la casa gli domandai se connoi venivano degli altri, e sentendo che

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no, indovinai che quella era la voltabuona.

Eravamo in mutande seduti sullariva, dopo che c’eravamo aiutati adasciugarci la schiena. Mario parlò:

- T’ho sempre detto che me e tesiamo due bei stupidi. E difatti perdiamola nostra gioventù a fare i servitori, esotto che pidocchi di padroni, quando misembra che abbiamo la forza e i numeriper fare da noi. E perché dunque non cimettiamo per nostro conto? Per esempio,non ci mettiamo a fare i mietitori? Nonhai mai pensato alla vita che è? Ipadroni vanno a ingaggiarli ad Alba, liportano su e poi li riportano giù colcalesse e se non ce l’hanno l’affittano

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perché i patti li fanno i mietitori, e damangiare bisogna fargliene comevogliono loro, perché se vogliono lasalsa del diavolo i padroni devonofargli la salsa del diavolo, e nel mentresi pigliano delle libertà con le donnedella casa perché tanto all’indomanisono da tutt’un’altra parte. In unagiornata si mettono in tasca cinquantasoldi e fino a tre lire e all’indomaniricominciano da un’altra cascina.

- Però il grano si taglia solo unavolta all’anno, dissi io.

- Ma dà da fare per un bel po’ anchedopo. Io so che i mietitori hanno illavoro assicurato fino all’autunno, esempre per via del grano; per due mesi

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buoni hanno da fare a trasportare i granialla stazione d’Alba. Tu forse non gli haimai parlato assieme a questi mietitoriche vengono su da Alba, ma l’altraestate io ho parlato con uno di loro cheera ingaggiato al Rustichello, e gli hofatto tante di quelle domande che allafine m’ha mandato a dar via l’organo maintanto son venuto a sapere un bricco dicose. Be’, quello là aveva il lavoroassicurato fino a ottobre, e sempre solocol grano.

- Ma e poi dopo?- Poi dopo finisce, sarebbe bella.

Ma tu hai un fondo di soldi in tasca e giùin Alba c’è tanto di quell’altro lavoroper gente come noi. Tutto lavoro che le

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nostre mani sono capaci, perché aservire in campagna ti viene la praticad’un po’ di tutto. Ad Alba potremmoaggiustarci come panettieri o comemacellai, da garzoni s’intende, o anchecome stallieri.

Io lo lasciavo dire, e guardavol’acqua perché Mario non mi leggessenegli occhi che non avevo il coraggio dirisicare e che neanche lui me l’avrebbemai messo. Ma era fino, e mi dissesubito: - Non ti senti il coraggio? Seianche tu di quelli che crepano sullelanghe solo perché ci sono nati? O haipaura che a vivere in giro da solo tivadano tutti i soldi che guadagni e a casanon puoi mandar più niente?

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Cominciai a dirgli che questa potevaanche essere una ragione.

- Bravo ebete, - m’offese lui, - pensaai tuoi di casa, che loro a te ci hanno giàpensato. Il meglio che han saputo fare èstato d’aggiustarti da servitore da Tobia.

Mi risentii un po’ e gli dissi: - Io nonso te coi tuoi, ma io coi miei non ce l’hoamara. E

poi qui c’entra il mio naturale. Iosono un disgraziato, che è difficiletrovare il compagno girassi tutte lelanghe, ma io di fare il vagabondo nonme la sento. Da Tobia dormo su unpaglione, ma il giorno che non sapessidove dormirò la sera io sono un uomoperso.

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Lui s’arrabbiò: - E vuoi, o stupido,che ad Alba non ci sia un paglione? Seva bene, ad Alba ci saranno dei letti pernoi -. Guardò in giro per potersi poirivoltare da me con un’aria menoaccanita, ma era più acceso di primaquando mi disse: - Io sono disgraziatoné più né meno che te, ma almeno io nonmi do più le arie di figlio di famiglia.

Per forza che a Bernasca montava larabbia; io me ne stavo lì con una facciamezzo e mezzo e a parlare più dabambino che da uomo, mentre lui avevail fuoco sotto e il bisogno di sentire dame una parola ferma. Ma non potevomica dirgli a un originale come Marioche, a parte il coraggio e il naturale,

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conservare il posto da Tobia era per meuna maniera come un’altra di tener lamemoria di mio padre che mi ci avevaaggiustato prima di morire, e di salvareil rispetto della mia famiglia, chealmeno avrebbe sempre saputo dove eroil giorno e la notte.

Ma lui giocava tutte le sue carte e midisse di considerare anche dell’altro: -Se dopo i grani ad Alba ci va storta, nonsiamo per niente persi, perché possiamosempre riaggiustarci da servitori.

- Voglio vedere il calcio in culo chemi darebbe Tobia.

- Ecco lì lo sbaglio, - gridò lui, -ecco la tua piccolezza! Per te esiste soloTobia, il sole si leva soltanto sul

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Pavaglione. Sei mica matto chetorneremmo ad aggiustarci su questalanga, dove la terra dà la scusa aipadroni di trattarci male. Andiamo adaggiustarci da tutt’un’altra parte: in valdi Diano, se possiamo. C’è un ragazzodel mio paese che ha la fortuna d’essersiaggiustato in val di Diano, e io gli hoparlato insieme una volta. Bisognavasentire, e ci gioco la testa che erano tutteverità, non che dicesse solo per farmiinvidia. A parte la terra che là è piùtenera, la mentalità di quei padroni là,che al paragone i nostri fanno schifo e simeriterebbero una zappata sulla testa. Làalla domenica i padroni ai servitori gliregalano a testa una coppia d’uova da

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cambiare alla censa col tabacco dafumare tutta la festa, ti dànno licenza diricevere i tuoi amici nella loro cantina, enon parliamo del vino, ma c’è sempre adisposizione un cestone di pane e unbariletto di peperoni sott’olio. E’ inutile,se hai per destino che Santo Stefano siala tua festa, devi aggiustarti al largo. Elà sono cascine grosse, madame dicascine, che hanno tutte cinque o seiservitori come niente. Vedi lì che nonc’è da tremare se ad Alba nonìncontriamo. Ma io sono sicuro che, contre mesi davanti, ad Alba ci aggiustiamobene.

Quando capì che s’era sbagliato afar conto su di me, e che io gli tiravo

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fuori cento parole per dispensarmi,allora s’alzò da vicino a me dove s’eramesso per meglio convincermi e dalontano quattro o cinque passi mi gridòche ci andava da solo.

- Quando ci vai?- Andrò. La farò vedere a tutti su

questa langa, la farò vedere a te perprimo.

Tornammo su, che tra me e MarioBernasca tutto era finito non appena eracominciato sul serio, e lui non passònemmeno più al Pavaglione; perlasciarmi e schivarlo tagliò per i rittani.Io arrivai a casa con una faccia cheTobia dovette annusare qualcosa, tantoche quella sera mi fece, ma come per

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caso: - E’ buono come il sole, MarioBernasca, ma nella testa è più fallito cheil fante di picche -. Non gli diedirisposta, quella sera Tobia potevosoffrirlo meno che mai; m’empivano latesta quei padroni della val di Diano.

Laggiù in riva a Belbo pensavo cheBernasca m’aveva interessato perché citeneva a me, a farmi migliorare assiemea lui, ma nella notte stessa mi persuasiinvece che l’aveva fatto perché da solonon aveva tutto il coraggio che ci andavaper scappar dalle langhe e cercar fortunagiù in Alba. A ogni modo, da quelladomenica, se potevo schivarlo loschivavo, perché anche in compagnia migenava trovarmi con lui, peggio che gli

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dovessi dei soldi.Se da quelle parti là si ricordano

ancora di me è solo perché sono stato ioche trovai Costantino del Boscaccio.

Quelli del Boscaccio erano unarazza che teneva sempre la testa tanto insu da non saper mai se in terra eraasciutto o bagnato, tutti avevano piùcaro non vederseli sull’aia, neanche peraiutare a spogliar la meliga, e quandoavevano ragione la gente era tuttad’accordo a dargli torto e se avevanotorto ce l’avevano di natura. Sebbenefosse la cascina più prossima alPavaglione, noi non ci facevamo mainiente insieme, perché con Tobia non siparlavano a causa d’un gesto che Tobia

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aveva fatto a Costantino in un’epocaquando io nemmeno mi sognavo di finirservitore al Pavaglione: si trovavano infesta a Montemarino tutti i cascinai di lìintorno e Costantino aveva portato la suafisarmonica ma, attaccata la prima aria,Tobia già ubriaco aveva solo fatto cheprendere un paio di forbici lì sottomanoe gli aveva dato una coltellata nelsoffietto. I compagni gliela feceroaggiustare con due scudi, ma da alloranon si parlavano più.

Un giorno si slarga la voce cheCostantino mancava da casa. Mi ricordoche la padrona disse subito: - E’ un granvillano. Già un’altra volta ha detto allasua donna che andava ad ammazzarsi,

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ma solo per farla spaventare e piangere-. Ma Tobia disse: - Però stavolta,proprio perché non l’ha detto, stavolta èproprio partito per ammazzarsi. E’ unacatena. L’ha già fatto suo fratello, chel’hanno trovato penduto alla travataventi e passa anni fa.

Costantino ha già resistito fin troppo-. Allora Jano disse: - Non può essereche sia sceso ad Alba e là si sia gettatoin Tanaro? Non sarebbe il primo, - edopo Jano anche Baldino voleva dire lasua, ma la padrona lo fece star zittoperché non erano cose da ragazzi e poi alei che non stava già bene facevanotroppo effetto.

Su tutta quella langa, giorno e notte,

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non si sentiva più che chiamareCostantino, a un bel momento chiunquenon sapeva cosa fare dava una voce aCostantino. La famiglia diede la larga alcane che aveva un’affezione specialeper il padrone vecchio e i figli glitennero dietro per esserci al caso chetrovasse, ma il cane che stava legatotutto l’anno se li portò dietro fin passatoLe Grazie solo per trovare una suacagna. Intanto la gente, ciascuno per suoconto e senza passarsi la parola, avevagià scandagliato bene i suoi pozzi,lascio immaginare con che disgusto perme che avevo ancora abbastanza frescala disgrazia di mio padre.

Noi c’eravamo già fatta l’idea

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precisa che Costantino fosse andato adammazzarsi e avevamo i nostrisentimenti già bell’e pronti, e quindi cipatimmo un po’ quando si seppe cheCostantino l’avevano visto all’osteria diCampetto che mangiava pane e salcicciae se ne sbatteva di tutto e di tutti. Corsea Campetto suo figlio più giovane, manon era vero niente.

Quella sera tennero aperta la chiesadi Cappelletto apposta per chi volevapregare per Costantino che fosseritrovato vivo, e la padrona ci andò, maTobia scuoteva la testa; per lui era tuttocammino e fiato sprecato; a quest’oraCostantino faceva già i vermi, e bisognadire che Tobia era uno che sapeva.

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A Tobia tutto questo traffico perCostantino andava per traverso perchénoi sulla terra lavoravamo disturbati edi malavoglia e alzavamo sovente laschiena a guardar su all’aia delBoscaccio, invidiavamo la gente chepoteva preterire il lavoro e stava lassùdelle ore ad aspettar le novità; noialtrisoltanto alla sera potevamo metterci alcorrente.

Una mattina arrivò al Boscaccio unuomo di Rocchetta e raccontò ai figliche lui doveva aver visto loro padre,però era già una settimana fa: - L’hovisto sul mercato del mio paese, -

disse: - io ero lì a sentir uno checontava d’un suo conoscente che s’era

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impiccato nella settimana. Appenafinito, entra nel nostro cerchio un uomoche era vostro padre di sicuro, mette unamano sulla spalla a quello che avevacontato e gli fa: “Ha avuto del coraggio,quel vostro amico, ha avuto delcoraggio”, e poi se n’è andato non soverso dove.

Tutti restarono lì e solo dopo un po’il figlio più vecchio domandò cosa quelfatto voleva dire. - Mi sembra chevoglia dire più della metà, - risposequello di Rocchetta. Basta, dovetteromettersi tutti in mezzo perché il figliopiù vecchio non lo strangolasse, in pagad’essersi fatto tre colline per metterlisulla strada di loro padre e invece di

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passargli da bere.Costantino mancava ormai da

diciassette giorni, quando noi alPavaglione restammo senza più un pugnodi crusca e Tobia non trovò a farseneimprestare meno distante che alla Galla,che è a metà strada tra il Pavaglione eTrezzo. Io andai alla Galla, mi caricai ilmio sacco e poi me ne venivo su a once,quando mi piglia voglia di fare unbisogno. Ma lì vicino c’erano dueragazze in pastura e per quanto milontanassi dalla strada rimanevo semprein vista. Passo più passo meno decisiallora d’entrare in un boschetto d’arbustidi rovere, così serrato che sembravad’entrare in uno stanzino, e schivati i

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primi rami mi vidi contro lo stomaco ipiedi di Costantino. Era lui, anche senon ce la feci a guardarlo in faccia, ilpiù su che arrivai con gli occhi fu ilpetto, dove aveva appuntato un fogliettotutto scritto.

E’ già stato tanto aver avuto la forzadi scappare e non crollare come mortosotto i piedi di Costantino. Risalii sullastrada senza toccar terra, gridando eavventando in una maniera che quelledue ragazze non si sentironod’aspettarmi e scapparono, scapparonoanche le pecore, e perfino gli uccelliscappavano nel cielo. Agli uominilontani e sbardati urlai due o tre volteche avevo trovato Costantino impiccato,

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e gli feci il segno delle mani intorno alcollo, poi cascai seduto sulla strada e mimisi a vomitare che non la finivo più,come se avessi il didietro in bocca.

La gente arrivava sfrenata, michiedeva solo dove e io mostravo coldito quel boschetto d’inferno. Quando neuscivano si tenevano tutti il naso tappatocome contro una puzza tremenda, io nonl’avevo sentita per niente, mi spiegaronopoi che dovevo aver avuto il ventocontrario. Uno per uno venivano aposarmi una mano sulla spalla e midicevano: -

Che brutto piatto, giovane, ti seivisto davanti -. Venne anche Tobia, e alui domandai cos’era quel pezzo di carta

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che aveva sul petto, che a me sembravala vendetta scritta di qualcuno; erainvece il ricordino del cinquantesimo dimessa del parroco di Trezzo, e secondoTobia Costantino doveva aver pensato dimetterselo sul cuore per farsi perdonarein parte da nostro Signore. Gli domandaianche se era morto da poco, ma mi disseche aveva già più vermi addosso lui cheuna robiola marcia.

I figli di Costantino sapevano giàtutto e arrivarono col carro, volevanocaricarci loro padre e portarlo diritto alcamposanto di Trezzo, dato che s’eraammazzato più vicino al camposanto chea casa. Si misero in mezzo Tobia e glialtri vecchi dandogli dei matti e non

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glielo lasciarono toccare neanche con undito perché prima doveva vederlocom’era il maresciallo di Neive.

Tobia era contrariato perché ioperdevo del tempo ad aspettare ilmaresciallo che m’interrogasse, e avevaanche paura che gli perdessi un’altramezza giornata se la cosa era pocochiara e veniva su il capitano da Alba;però il sacco a casa lo fece portare daJano e Baldino e lui restò con me afarmi coraggio mentre rispondevo almaresciallo.

Io che l’ho trovato sono stato quelloche l’ha visto meno bene di tutti: non mison mai lasciato scappare che in faccianon l’avevo guardato, ma quando

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contavo la mia avventura, e mel’avranno fatta contare cento volte, neiparticolari della lingua e degli occhim’aiutavo con quello che avevo sentitodagli altri.

Poi Tobia si pigliò la prima bottasulle orecchie. Una sera che mancavapoco a cena, invece di chiamarci amangiare, sentimmo la padronalamentarsi forte tutto d’un colpo e poigridare che perdeva sangue; quandofummo tutti in cucina, ci disse che nonaveva la forza di tenere e neanched’andar da sola a coricarsi. I suoi treuomini la portarono su, mentre io mifermai al fondo della scala, ma poiBaldino mi gridò che sopra c’era

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bisogno di chiaro e allora salii col lume.C’era un odore di donna che passava

sopra all’odore delle patate stesesull’ammattonato, e Tobia richiudeva inquel momento un tiretto anche se c’erauna manata di lingeria presa in mezzo.

- Hai visto, Rabino? - diceva lapadrona con una voce che a me sembròd’agonia: - Sono andata andata andata,ma adesso sono bell’e ferma. Hai volutonon prendermi la servente, ma adessovedi.

Le disse Tobia: - Non me n’hai maiparlato di prenderti una servente.

- E’ che se te ne parlavo tu micaricavi di nomi e magari di botte. Mache uomo sei se non t’accorgi che avevo

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bisogno d’una servente per tirare avanti?M’hai sempre adoperata come se fossiuna macchina di ferro, ma adesso vediche son solo di carne e d’ossa.

Lui si piegò sul letto e ridendo ledisse: - Ma hai paura di morire? - Sonpronto a giurare che aveva riso e parlatocosì con buona intenzione e solo perrinfrancarla, ma lei lo capì per unoscherno e da distesa pigliò aschiaffeggiare a due mani la faccia chinadi Tobia che, fissato lì dallo stupore,non ne schivò neanche uno; poi si drizzòe si scostò di qualche passo dal letto.

La padrona si toccò un po’ sotto lacoperta, poi tirò fuori le mani e se lemise sugli occhi, e così da cieca diceva,

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che doveva aver perso la nozione di chic’era nella stanza: - Adesso sì che miprenderai la servente, adesso che m’hairovinata. Hai cominciato a rovinarmi findal principio. Ti ricordi quando dovevocomprare la prima volta? Era il mioprimo e lo sapevi bene che il primo nonè mai cavaliere. Nossignore, m’hai fattasgobbare quando mi mancava solo piùun giorno. Ricordati sempre, Tobia, chem’hai fatta lavorare dietro al fieno cheio perdevo già l’acqua!

Allora Jano si strinse la testa fra lemani come se volesse staccarsela ebuttarla via, fece così un giro su sestesso e poi si fermò puntato a Tobia egli gridò: - Vigliacco d’un padre, ma lo

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sai che io t’ammazzo con un pugno?Mentre la padrona cominciava a

gridare, Tobia disse a Jano: - Che belgesto che faresti, uno giovane come te apicchiare un vecchio come me, - maparlando s’era chinato alle patate equando si ridrizzò aveva un falcetto inmano. Gridò: - Adesso voglio vedere ituoi gran pugni, o bastardo! - e si gettòsu Jano. Senza che fossi urtato io lasciaicadere il lume e tra me e Baldinoimbalsamati dalla paura passò Jano chescappava e Tobia dietro col falcettoalzato. La padrona aveva la forzad’urlare ma non d’alzar la testa, Baldinobalbettava, io quando li sentii finir lascala e correre in cucina, mi sbattei alla

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finestra e vidi Jano scappare rasente allacasa, mentre Tobia si fermavasull’uscio, abbassando il falcetto.

Andai a dirle che Jano s’era salvatoe che aveva preso per il bosco, lei sisegnò e poi mi disse: - Di’ a Tobia chet’apra il credenzino. C’è del lardo, te netagli un bel pezzo, che tu abbia almenoda cena.

Ma io non osavo accostare Tobiasolo per parlargli di mangiare, e poi lospavento m’aveva addormentato lostomaco, non m’era mai capitato ditrovarmi così vicino a veder correre ilsangue, e poi quando scesi Tobia non lotrovai più. Mi passò accanto Baldino,ma non si fermò con me, andò dai peri a

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stare e pensare per suo conto. Potevoritirarmi nella stalla, ma era una bellasera da godere almeno un momento, ecosì girai la casa per farmi due passiallo scuro sulla strada di Mango. Magirata la casa, vidi subito Tobia: eraseduto sul tronco a ridosso del muro,proprio sotto la finestra della stanza suae della padrona; si teneva la testa fra lemani e si parlava da solo, ma nonpotevo sentir niente di quel che sidiceva per via dell’aria che portavasubito via le parole. Dopo un minutoalzò la testa e parlò forte, ma forte comeuno che volesse farsi sentire fin sullalanga di Castino là in faccia.

Disse: - Già, io non son mai andato

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con la pancia per terra, io mai. Lo sannotutti che faccio una vita più bella deipreti. Io mi sono frustato tanto come te,solo che io non ne parlo mai e se miviene del male lo nascondo, per forteche sia. Cosa ti credi, t’è passato dimente che ho sessantadue anni, e chelavoro tanto che altro che perdere ilsangue, se avessi anch’io il buco daperderlo! E giusto che parlavi del fieno,lo sai cosa vuol dire alla mia etàtagliare il fieno da quando il sole si levaa quando si corica? Da giovani come ituoi figli e con la rugiada son tutti buonia tagliare, ma quando il sole viene alto eil fieno mette il pelo volatino, allora sìche il fieno ti domanda quanti anni hai!

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Ecco, se è per la questione del fieno!Stette come ad aspettare che la

padrona gli rispondesse dalla lorostanza, ma niente venne da lei, salìinvece dal rittano la voce di Jano chefaceva a suo padre: - Assassino,assassino, sei un assassino! - Tobia andòfin sull’orlo del rittano e gridò giù: - Ate ti dico questo: prova solo a nontrovarti sul lavoro domani mattina. Tidico solo questo -.

Aspettammo tutti che Janorispondesse, ma non si fece più sentireda là basso; invece sull’aia s’era messoa gridare Baldino, per far star zitto ilcane che la voce lontana e sfisonomiatadi Jano aveva aizzato.

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Tobia tornò a sedersi sul tronco, losentivo sbatter la lingua per rifar salivadopo quella gridata, e poi disse, ma piùpiano: - Qui mi tenete tutti per il vostroaguzzino. Ma lo sapete il perché io tiro evi faccio tirare e non vi do niente di piùdel necessario. E se anche fallisco neimiei piani, dovrete sempre ringraziarmiper avervi insegnato a star male oggi pernon star peggio domani. E non venite adirmi che peggio di così non si puòstare, perché io ci metto poco amostrarvi il contrario. Vi contassi d’unoche da bambino gli è morto suo padre ese lo prese in casa un suo zio, dalle partidi Cravanzana. Lo faceva tirare che alparagone voi siete dei signorotti, e a

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mezzogiorno gli diceva: “Se non mangipranzo, ti do due soldi”, e bisognavapigliare i due soldi, e a cena: “Se vuoimangiar cena, mi devi dare due soldi”.

Ero mica io quel bambino là? Voinon avete mai provato niente.

Da sopra arrivò la voce dellapadrona, diceva a Tobia d’andare acoricarsi, che era in piedi dal romperdel giorno, ma che prima mangiassequalcosa, si bevesse un uovo: -

Quant’è che non senti il gusto d’unuovo, o povero disgraziato?

Io n’avevo il cuore pieno e mi ritirainella stalla, riflettendo sulle cose che cisono nelle famiglie e domandandomi senostra madre, ripensando al suo uomo

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morto, doveva far posto nel suo ricordoa dei fatti così.

La fame non mi lasciavaaddormentare, ed ero ancora sveglioquando, sarà già stato mezzanotte, sentiiaprirsi l’uscio della stalla; allungai unamano al forcone, ma mi venne incontrola voce di Jano: - Sei sveglio, Agostino?Fatti un po’ più in là, che stanotte cidormo anch’io sul tuo paglione.

La servente arrivò prima dellosperato: veniva dalla langa di Castinoed era ancora parente di Tobia,quantunque parentela passata sul raspo;si chiamava Fede e andava per i diciottoanni.

Siccome per questa ragazza io avevo

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allora un pallino in un’ala, si potrebbecredere che ancora adesso io la facciameglio di quel che fosse, eppure è laverità che era una ragazza piena difinezza, che sapeva fare e figuraremeglio di tutte le ragazze che c’eravamoabituati noi. Lei poteva stare per delleore al fornello e poi voltarsi pulita comese in tutto quel tempo non avesse fattoche la signora, si muoveva sui suoizoccoli senza mai sbatacchiarli, e la suavoce aveva più d’un tono, come la vocedelle donne d’Alba. Ma con tutta la suagrazia bisognava vederla sul lavoro e ilsollievo che dava alla padrona, la qualeaveva fatto presto la pace con Tobia chegliel’aveva trovata e presa. E quando

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uno credeva che avesse finito di fartutto, lei si metteva alla finestraall’ultimo chiaro e ci dava dentro a farsolette, non si possono contare le soletteche ci ha fatto. Mi ricorderò sempre chele rare volte che sbagliava una cosaaveva il vizio di succhiar giù l’ariacome se si fosse punta con un ago, eallora si sentiva Tobia: - Stai più attenta,o bagascetta -. Mangiava sempre da inpiedi, gliel’avevano insegnato i suoi invista d’aggiustarla da servente, perché ipadroni son più contenti se i servitori sisbrigano a mangiare.

Giovane com’era, aveva già visto lesue, che metà bastavano. Aveva trefratelli, ma due le erano già morti, tutt’e

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due di tifo e uno dietro l’altro; i suoi diFede capirono tardi che il letamaio eratroppo vicino al pozzo. E poi aveva unasorella più vecchia, ma con la tisia, e ioho creduto di capire che proprio per leiFede è andata volentieri da servente.Sua sorella se ne partiva, ma troppoadagio per la pazienza di sua madre, eFede non resisteva più a vedere come latrattava e lei non poter mai parlare; suamadre ormai non faceva più che sbuffaree dire a chiunque capitava, fosse magariun vagabondo sull’uscio: - Sonotalmente stufa di doverle sempre far damangiare da parte e poi lavar subito lasua roba, doverle far sempre tutto daparte, che ho più caro che muoia. Ma

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sembra che crepi a morire.Adesso io e i figli di Tobia

sapevamo cosa fare il dopopranzo, nonci lontanavamo più dall’aia easpettavamo che lei uscisse a rovesciarl’acqua o a metter le scodelle adasciugare al sole, se facendo qualchegesto non lasciasse veder qualcosa dibello, che non ci sarebbe scappato disicuro perché nessuno dei tre batteva piùpalpebra. Il giorno che era arrivata,Tobia voleva metterla a dormire incucina nell’angolo del fuoco, ma lapadrona la fece dormire sempre nellasua stanza, ammucchiò le patate e leallungò un pagliericcio. Neanche digiorno la perdeva d’occhio, perché

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sapeva con chi aveva da fare: se penso aquella volta che colse suo figlio piùgiovane nella stalla con la troia e lecinghiate che gli diede sul didietro nudo,e in quel bruciore Baldino gridavasoltanto: - Ma quest’inverno chel’ammazziamo le troviamo dentro ilbambino?

Me mi trattava bene Fede, e da partemia io ero sempre solo all’agguato pervedere se potevo darle una mano inqualunque cosa, e questo fin dal primogiorno. Una sera spogliavamo la meligae sull’aia del Pavaglione ci sarà statamezza la gioventù di lì intorno: Tobiacomanda a Fede di fare il giro di chi hasete, lei fa il giro e a tutti passa acqua e

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aceto e a me dà del vino. Mi misi subitoa cabalizzare che segno poteva esserquesto e senza dar nell’occhio girai tuttala compagnia e a ciascuno domandaicosa gli aveva dato Fede da bere: ilvino l’aveva dato a me solo, e allora mifeci subito tante idee e venire una gransperanza. Purtroppo quella sera finìmalamente per me, e non per colpa dilei, ma tutta di Jano che quando finimmodi spogliare e ci mettemmo a cantare e afar gli scherzi, si ficcò un cannone dimeliga in mezzo alle gambe e saltandocome un montone perseguitò Fede percinque minuti finché lei dovettechiamare aiuto alla padrona. Non civoleva nient’altro perché io cominciassi

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a sognare il giorno che Jano dovevapartir soldato, e auguravo male a tuttoquello che Tobia studiava e faceva peraverlo riformato; fui ben contento quellasera che Tobia tornò su da Alba e disseche il farmacista nostro padrone nonpoteva far niente per Jano all’ospedalemilitare di Savigliano. E m’aveva anchefatto piacere che se ne fosse andatoMario Bernasca, perché Mario avevadei numeri e non era fuori del caso chefacesse colpo su Fede. E già che cisono, conto come scappò da servitore,perché Bernasca ha avuto la suaimportanza nella mia vita di quei tempi.

Mario Bernasca fece quello chem’aveva detto giù in riva a Belbo: sparì

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una notte senza metter nessuno alcorrente. Dimodoché alla mattina i suoipadroni si fecero subito l’idea che perscappare così doveva avere qualcosaattaccato alle mani e nell’affannosuonarono il corno, che veramente sisuona soltanto per i furti di bestiame.Tutti i cascinai volarono a valle pertagliar la strada ai ladri, ma ebbero unbel cercare la pesta delle bestie ebattere tutti i cespugli. Si misero i fucilia spalla e dissero al vecchio del pilonedel Chiarle di farsi coraggio e una crocesulle sue bestie. Solo allora il vecchiospiegò che di bestie dalla stalla nongliene mancava neanche una, ma che sitrattava di Mario Bernasca che nella

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notte gli era scappato da servitoreportandogli via della roba. Tutti, speciei più giovani, si misero a dirne di Mariocome se Mario non avesse fatto cherubare da quando era nato, finché uno glidomandò cosa gli aveva poi rubato. Ilvecchio s imbrogliò e disse che nonpoteva ancora saperlo di preciso perchénon s’era fidato a perder tempo a fare ilconto della roba. Allora se la pigliaronocon lui e gliene dissero d’ogni colore,anche se poteva essere il nonno di tutti.

Finì lì, e da quelle parti MarioBernasca non l’ha più rivisto nessuno.Però si venne a sapere che quandoscappò era liscio come un’asse: ilgiorno prima il suo padrone l’aveva

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mandato al forno a Manera e mentre ilpane cuoceva il figlio del panettierel’aveva piumato giocandogli insieme alnove sulla pietra del forno.

Siccome avevo visto che, una voltache eravamo andati tutti in festa aTrezzo, Jano aveva comprato a Fede unabarra di torrone del Gallo e lei l’avevaaccettato di buona grazia, schivai un po’di soldi e la prima volta che scesi adAlba le comprai a un banco in piazza unbottiglino d’acqua d’odore, che mivenne venticinque soldi. E con quelbottiglino in fondo alla tasca andai atrovare mio fratello in seminario, mastavolta non gli lasciai niente percomperarsi da mangiare perché i soldi

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m’erano andati tutti nel regalo a Fede. Acasa, lo seppellii nel paglione easpettavo l’opportunità di darglielo:avrei potuto metterglielo in mano in unattimo e di nascosto dagli altri, mavolevo aver l’occasione di parlarle unpo’.

Ma non riuscivo mai a incantonarla,perché quando non avevo addosso gliocchi dei padroni avevo quelli dei duefigli.

Fede mi trattava sempre bene e miguardava più dolce che agli altri, maquesto non mi bastava più, e poi io sonoforgiato in una maniera che passol’indomani a domandarmi se è veroquello che oggi per me è sicuro come la

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morte: e la preferenza del vino inveceche acqua e aceto era ormai unafaccenda lontana. Una cosa che purdandomi parecchio fastidio miconfermava un po’ nelle mie idee suFede era che Jano adesso davanti a leimi trattava con prepotenza, come perfarle vedere la gran diversità tra me elui, e a tavola quasi ci spiava come seavesse paura che ci parlassimo con gliocchi; in più, sovente parlava di Fedecon suo fratello forte apposta perchésentissi anch’io, e diceva delle cose cheper Fede come donna potevano esseredei complimenti ma che me mi ferivanodentro.

Però una bella sera riuscii a

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portarmela da parte una sera che Tobia eJano erano andati a Torretta aconsigliarsi con un particolare chel’anno prima aveva avuto un suo figlionelle medesime condizioni di Jano edera stato buono a farselo riformare.Degli altri, Baldino era andato a cuocerea Manera e la padrona accudiva iconigli che erano le bestie alle qualivoleva più bene. Io girai la casa e mipostai davanti all’inferriata della cucina,e ci restai tanto impalato e silenziosoche Fede voltandosi si spaventò come seio fossi uno spirito.

- Cosa vuoi?- Che vieni fuori.- A far cosa fuori?

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- Due parole.- Facciamole dove siamo.- Qui non mi va, si sente troppo

l’odore dei tuoi parenti Rabino.- Ma io ho da far cena.- Anch’io ho da governare le bestie.- Ma siamo matti? - disse lei; però

uscì e io la portai non lontano, doveavessimo potuto sentire anche una mezzavoce della padrona. Io volevo che ciriparassimo dietro una siepe, ma leidisse di no, poteva passare qualcuno euna ragazza che per caso si fa vederecon un uomo dietro una siepe è subitocriticata, a ragione o a torto. Così sisedette sul ciglio del rittano e io permettermi alla sua destra saltai giù e poi

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le passai davanti: lei al volo serrò legambe e incrociò le mani sui ginocchi.Allora io mi sedetti accanto e le dissiche era proprio una brava ragazza mache con me non aveva nessun bisogno distar così all’erta.

- L’ho capito subito che sei unragazzo di buoni sentimenti, - disseFede: - allora, cos’hai da dirmi, adessoche son qui?

- Mah, n’avrei un bricco di cose.Una è questa: che mi piacerebbeconoscere la tua gente, e che tuconoscessi mia madre che sta a SanBenedetto.

- A casa mia c’è poco di bello davedere.

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- Allora non ti farebbe niented’uscirne.

- Però son sempre i miei.- Volevo dire, ci pensi a sposarti?- Che a casa sua stia bene o stia

male, una donna è nata per quello.- Anche tu?- Perché io no? Se trovo chi mi

vuole.- E l’uomo come dovrebbe essere?- Niente di straordinario. Basta che

non sia zoppo, non sia gobbo e nonabbia i capelli rossi. E più che tutto, chelavori e che non mi picchi senza ragione.

- Che sfortuna non essere ancora unuomo.

- Ma tu lo sei già un uomo. Io lo

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vedo, sai, il lavoro che fai.- A me mi daresti fiducia?- Se sarai sempre quello d’adesso,

tanta.- E come uomo ti piacerei?- Come uomo mi piaci.Allora dissi: - Se son contento di

star da Tobia! Me l’avessero detto soloqualche mese fa. E tu sei contenta di starda Tobia?

Era contenta anche lei, e adessosarei stato una vera bestia se mi mettevoa cabalizzare sul motivo della suacontentezza. Le dissi adagio: - Ci sonodelle schiavenze in giro da prendere.

Lei capì al volo e mi rispose: - E’proprio da lì che bisogna incominciare.

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Con tanta pazienza e buona voglia.- Sta’ tranquilla che è più facile che

il lavoro si spaventi di me che io di lui.- E’ ben per questo che ti do fiducia.- Allora, Fede, ragazza, lasci fare a

me? E quando io ti dica la parola, tu seipronta?

- Io sono contenta e sarò pronta. Tuhai solo da parlare -. S’alzò e fece: - Lamia cena.

Le andavo dietro verso casa, eroperfin balordo per tutta quella fortuna, eun passo più avanti mi venne di colpopaura d’avere una volta fortuna: -Aspetta, dimmi almeno quando ti seidecisa.

Senza voltarsi mi disse:

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- Son mica cose che hanno il suogiorno preciso.

- Per combinazione non è stataquella volta che a me hai dato il vinomentre a tutti gli altri acqua e aceto?

Si fermò: - Bestietto, - mi fece, comese avesse una piccola rabbia che ioavessi indovinato, e poi: - Però seiintelligente.

Al cancello le domandai ancora senon potevamo trovarci insieme dinascosto qualche sera della bellastagione. - Ma come facciamo? Usiamopazienza, Agostino, e vedrai che doposaremo anche più contenti, perchésaremo più freschi.

In dieci minuti avevamo saputo dirci

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tutto e combinar per la vita, e queldiscorso valse per dei mesi, per tutte levolte che non potevamo parlarci che congli occhi, ma mi sembra che noneravamo scontenti di dover tenere ilsegreto, talmente eravamo sicuri di noi.

Adesso per niente al mondo mi sareipiù allontanato dal Pavaglione, fin checi stava Fede era il posto più bello ditutti. E la domenica era proprio semprefesta: per poca che n’avessi, tutti i sabatisera mi facevo la barba e tutte ledomeniche mattina, scendendo aCappelletto per la messa, camminavocon gli altri uomini dietro le donne etutte le volte sentivo dai capelli di Fedespargersi nell’aria la mia acqua

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d’odore.Jano mi dava quasi più niente

fastidio, perché adesso aveva i suoi difastidi. Quell’uomo di Torretta avevaspiegato che suo figlio era statoriformato perché un tre mesi prima dellavisita lui gli aveva fatto, un po’ ognigiorno, battere sui ginocchi con deisacchetti di sabbia e così gli eranovenuti due palloni al posto dei ginocchie nello stanzone della leva giù ad Alba imedici militari l’avevano fatto subitorivestire. Tobia voleva che suo figlio sifacesse lo stesso trattamento, ma Janoaveva paura di restar disgraziato persempre e non trovava mai il coraggio dicominciare, e quando Tobia s’infuriò

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perché il tempo ormai stringeva lui simise a piangere come un bambino.

A me invece andava tutto al pelo:era tanta la forza e la gioventù el’allegria in me che adesso rendevo ildoppio sul lavoro e Tobia si lasciòprender dall’onta e mi fissò un premiodi tre scudi, a darmeli dopo i raccolti.Così potevo fare un po’ più bella figurae dare qualche soddisfazione a Fede;come quella volta che la portai aCappelletto a veder la lanterna magicadi quell’uomo di Roddino, e per duesoldi a testa ci vedemmo la caccia allavolpe e la donna che faceva correre suomarito con la scopa.

Non volevo neanche più sentir

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parlare di licenze e, non ho nessunavergogna a dirlo, l’unico pensiero per imiei era che fossero tutti vivi, perfinoEmilio mi veniva in mente da raro e perun attimo. Pensavo solo per me e Fede, eappena avevo un’ora libera correvoall’osteria di Manera dove c’era sempreun certo traffico di gente e cercavo disapere il più possibile sulle schiavenze;n’avrò sentiti una dozzina, i più pratici,e tutti mi dissero la stessa cosa: per unanno davano cento lire, un quintale dimeliga e una brenta di vino. Un affarecome i galeotti, ma niente mi spaventavae non avrei fatto smorfie neanche per ilposto, al momento buono avrei accettatomagari una schiavenza sotto le rocche di

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Cissone.Ero persuaso di poter fare qualunque

riuscita, nel mio piccolo, con Fedeaccanto, e che la fortuna m’avrebbesempre accompagnato, da qualunqueposto avessi cominciato.

Il tempo volava e in un niente fummosotto Natale: Tobia e la padrona stavoltamantennero la promessa e portarono mee Fede al mercato d’Alba per regalarci ame un paio di calzoni e a lei ilgrembiale. Mi ricordo come adesso: aun banco sulla piazza del duomo lapadrona mi scelse un bel paio di calzonirigatini e me li fece provare sopra imiei, e Fede che aveva già il suogrembiale arrotolato sotto il braccio

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bisognava vedere come discuteva con lapadrona e la negoziante e come me limisurava e cercava di vedere i difetti.

Proprio come se io fossi già il suouomo.

E invece ne son venuto in niente.Una porca sera arrivarono a piedi alPavaglione suo padre e suo fratello e sichiusero in cucina con Fede e coipadroni. Dopo un’ora ripartirono perdove erano venuti, ma portandosi viaFede e il suo fagotto, e lei se n’andavacogli occhi bassi e quando mi passòdavanti chinò la testa ancora di più. Iocosa potevo pensare, fuori che suasorella doveva esser mancata o essere inagonia? Appena potei domandai alla

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padrona, ma lei mi spiegò soltanto cheerano cose di famiglia di Fede; avevaindovinato cosa c’era tra noi due e nonavrà voluto darmi un colpo al cuore. Iofui l’ultimo a sapere che Fede era statachiesta in sposa da uno dei fratelliBusca di Castino e i suoi erano volati sua prenderla nella paura di perder perun’ora l’affare, perché così la loro Fedesi sposava nella roba.

- Io li conosco questi Busca? - avevadomandato la padrona a Tobia.

- Li hai visti alla sepoltura di miacugina Vica, ma forse non li hai presenti.Sono tre boia, neri come il carbone,senza una donna in casa, ma hanno il piùbel boccone di terra che ci sia a Castino.

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Io ero rimasto come un vitello dopola prima mazzata. Che m’abbia portatoin giro e che abbia voluto solo passare iltempo mentre stava da servente, nessunome lo farà mai entrare.

Piuttosto, presa alla sprovvista,abituata a chinar sempre la testa e senzame vicino che potessi darle la forza dirivoltarsi una volta per tutte, nella paurad’esser legata alla gamba della tavola ecinghiata fino a strapparle il sì, ecco ècosì che deve aver ceduto, e riguardo ame avrà pensato che ce l’avrei avuta unpo’ ma poi mi sarebbe passata e me nesarei cercata un’altra. Adesso m’è quasipassata, ma per un bel po’ m’è sembratod’aver perduto tutta la razza delle donne,

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perduta Fede.Mai visto uno sposalizio combinato

più al galoppo, nemmeno se Fede avessesbagliato e ci fosse un bambino inviaggio. Si sposarono a Castino, laprima domenica di febbraio.

Tobia e la padrona furono invitatiallo sposalizio e ci andarono portandodi regalo due asciugamani. Potevano benandarci anche Jano e Baldino, così avreipotuto starmene una giornata da solo,come n’avevo voglia e bisogno. Inveceli ebbi dietro tutto il giorno, che mitiravano le satire e volevano farminientemeno che la porrata, che è unatraccia di porri e meliga che si seminaverso la porta di chi è stato lasciato da

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una donna nel giorno che lei si sposacon un altro: uno scherno, ma disserosoltanto di farmelo, perché quel giornotrovavano il ramo che li scorticava.Solo verso scuro potei starmene un po’per mio conto, cogli occhi fissi allacollina di Castino che aveva più lumidel solito, e coi miei ricordi e i mieipiani che mi stavano inutili in manocome scatole vuote.

Tobia e la padrona tornaronol’indomani, e con tutto che ci fosse statauna notte in mezzo, Tobia era ancoratanto pieno che teneva tutta la strada.Appena sull’aia allargò le braccia e simise a decantare la fortuna di Fede, chesolo quindici giorni prima era nostra

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servente e adesso in confronto a leinoialtri eravamo tanti pitocchi. Ma iosentii la padrona fare a Tobia, poi dopo,mentre si riposavano vicino al fuoco: -Sai cosa? Ho paura che quei due boiapiù vecchi abbiano fatto sposar Fede alpiù giovane per usarla poi tutt’e tre.Povera figlia.

Quella sera saltai cena, perché nonvedessero che non mi restava neanchepiù la forza di masticare.

Ebbene, nel pieno della malora e chela vita m’era diventata insopportabile alPavaglione dove non potevo far mezzopasso senza dar nel naso in qualcosa chemi ricordava Fede, la ruota diede ungiro e io ebbi un colpo di fortuna, il

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primo in vent’anni ch’ero al mondo. Inostri zii di Mombarcaro, coi soldi chenon sapevano più dove metterli e nonbuoni a passare il resto della vita agoderseli da signori, aprirono una censaanche a Monesiglio e, per chiamarne unaltro, chiamarono mio fratello Stefanoda primo garzone. Stefano non aspettavaaltro che lasciare la terra che tanto eradiventata troppo bassa per la suaschiena e io era il mio sogno tornarmenea casa a farla andare io.

Chiesi gli otto giorni a Tobia e luinon ci voleva credere, si fissò che fossetutta una mia machiavellica perandarmene via più da furbo che MarioBernasca, ma per fortuna avevo da

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mostrargli la lettera di Stefano, e alloraTobia mi diede licenza e m’aggiustò ilconto: per certo che quella per lui fu unagiornata grama perché, non toccherebbea me dirlo, ma un servitore come me nonlo trovava subito passato il cancello.

Feci fagotto e salutai bene, e meglioche tutti gli altri la padrona. Poi doponon mi voltai più, neanche là dove sicomincia a calare da Benevello e siperde la vista del Pavaglione; i quasi treanni che ci avevo speso me l’ero giàdimenticati, quasi che fosseroun’elemosina.

Ho fatto quel ritorno come la cosapiù bella della mia vita. Era la mia verafesta, e ad Arguello mi fermai

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all’osteria, comandai una bottiglia dimoscato e me la bevetti tutta perfesteggiarmi. Mi sembrava di tornarecome un soldato, non da permanente, maproprio dalla guerra. In tutto quel solel’unica ombra veniva quando gli occhimi scappavano a guardare alla langa diCastino.

Arrivato a veder San Benedetto,posai il mio fagotto in mezzo alla stradae feci giuramento di non lamentarmi maianche se dovevo restarci fino a morto esotterrato e viverci sempre solo a pane ecipolla, purché senza più un padrone. Epoi scesi incontro a mia madre, cheanche per lei quello era il primo giornobello dopo chissà quanto.

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La casa era malandata: il tetto eratutto da ripassare, il muro verso Belbogonfio come la pancia d’uno che ha ilmal dell’acqua, e dalle impannate cisarebbe passato un lupo altro che ilvento. Ma mi sarei dato da fare anchecome muratore e come falegname. Purela terra era tutta da ripassare, si vedevada lontano un miglio che Stefano non ciaveva dato dentro. Ma adesso le avreifatto sentire la mia vanga, bastava chetirassi per mio conto come avevo tiratosotto Tobia, e per poco che la fortunam’accompagnasse e mia madrem’aiutasse col suo lavoro delle robiole,si poteva sperare di toglierci una buonavolta da necessitare, e se poi m’andava

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diritta diritta un po’ d’anni, potevo anchetornare in quello che mio padre avevadovuto vendere.

Le prime mattine, avevo un belchiodo, la prima cosa che facevo daalzato era guardare dalla finestra se lamia terra c’era ancora, se nella notte unafrana non me l’avesse mangiata, come hosentito dire che è capitato a gente delleparti di Cissone e di Somano. Quellepoche giornate volevano dire che nellamia vita non ci sarebbe mai più stato unTobia, e in quanto a Stefano gli avreiliquidato la sua parte appena potevo, giàmi sognavo il giorno che andavamoinsieme a Dogliani a far lo strumento.

Un po’ per giorno venivo a sapere le

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cose successe mentre io ero via. La piùgrossa era che non avevamo più la rivada legna. Per far fronte, mia madre eStefano avevano venduto il resto dellariva e d’inverno si scaldavano con lalegna che Stefano usciva a rubare dinotte. Finché i padroni gli fecero laposta, i Ghilardi del mulino, e mentreche lui aveva le braccia cariche di legnagli saltarono addosso e a momenti glienedavano una di più di quante potevaportarne; mio fratello stette a letto unaventina di giorni, ma alle orecchie delmaresciallo di Bossolasco non arrivòniente.

Adesso mi viene freddo nel filodella schiena se penso che alla mira che

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eravamo non ci voleva più che un soffioa perdere la terra e la casa e restare solopiù con le nostre braccia al mondo. Eche se ci andava male del tutto, adessoEmilio dovrebbe morire nel suo deglialtri.

Sabato passato siamo stati inseminario giù ad Alba io, mia madre e ilnostro parroco, chiamati dal rettore.Emilio aveva fatto una cosa benstravagante: dopo lo studio, s’eradistaccato dai suoi compagni e arrivatoil bel primo in refettorio aveva dato unmorso a tutte le pagnotte che erano giàsulle tavole e poi s’era chiuso in uncesso che per farlo uscire avevanodovuto sfondare la porta. I suoi

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superiori l’avevano subito fatto visitaredal loro medico e gli avevano trovato latisia, che ce l’aveva addosso già primache entrasse in seminario. Tutto quelloche abbiamo fatto noi giù ad Alba èstato ricevere la notizia e mia madrerispondere alle domande se nella nostrafamiglia ce n’erano già stati degli altri.Io e lei ci torcevamo le mani comequando ci tempesta sulla terra, poi quelmedico si mise a spiegare a mia madretutto quello che doveva fare quandoriavesse Emilio a casa, e a me il nostroparroco disse da parte che purtropponon c’era più forza al mondo che potevasalvarlo, se ci fosse stato ancora unlumino di speranza i preti lo mandavano

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in un ospedale che hanno loro invece dimandarlo a casa a morire in mezzo aisuoi.

Pensiamo se noi ci siamo lasciatiscappare una sola parola, eppure tuttoSan Benedetto sa della malattiad’Emilio e delle donne ci sono giàvenute in casa a compatire mia madre efarle forza.

Emilio dovrebbe arrivare sabatosera col carro di Canonica che torna dalmercato d’Alba.

In fondo al cuore io ho la speranzache si salvi, che lo salvi la nostra aria eil nostro mangiare, ma stasera senzavolerlo ho sentito mia madre pregare.Per paura che io fossi in casa e la

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sentissi, è andata fuori e s’èinginocchiata vicino al primo palo dellavigna.

Combinazione io ero in quel filare avedere un melo se buttava bene, e cosìl’ho sentita dire:

“Non chiamarmi prima che abbiachiuso gli occhi a mio povero figlioEmilio. Poi dopo son contenta che michiami, se sei contento tu. E allora tieniconto di cosa ho fatto per amore e usamiindulgenza per cosa ho fatto per forza. Etutti noi che saremo lassù teniamo lamano sulla testa d’Agostino, che è buonoe s’è sacrificato per la famiglia e saràsolo al mondo”.