Sismagazine maggio 2016

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SISMAGAZINE Maggio 2016

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SISMAGAZINE

Maggio 2016

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(tuti i diritti per la copertina alla Warner Bros, ci mancherebbe altro)

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INDICe

pag. 4.......................... LETTERA DELLA REDAZIONE

pag. 8.......................... APPUNTAMENTO COL DIRITTO

pag. 12........................ DONARSI: DARE LA VITA

pag. 18........................ EXCHANGE - RUSSIA

pag. 26....................... I MIEI MAESTRI PARLANO SUSSURRANDO

pag. 30....................... QUELLA VOLTA IN CUI TOMMASO SI PERSE TRA LE PAROLE

pag. 37........................ CHI SEMINA BENE RACCOGLIE BUONI FRUTTI pag. 40........................ OROSCOPO

pag. 42........................ SUDOKU

pag. 43........................ COS'È IL SISM

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Ciao. No, stavolta niente cornicetta ondulata come stendardo di carineria. Non devo infatti dire nulla di carino: questo è l’ultimo numero del SISMagazine che gestisco da caporedattore e la presente è quanto di più vicino ad una lettera di commiato io sia in grado di scrivere.

Se non sei interessato agli ammennicoli che questo saluto si porta appresso (e hai tutta la mia comprensione in questo), salta pure i prossimi paragrafi; ti ho già dato l’informazione fondamentale di questo testo e c’è un intero giornalino che aspetta la tua validazione di lettore.

Quando sono andato in stamperia a ritirare le copie del numero di aprile (con la solita dotazione di trolley formato silos per trascinare tutti e 330 i giornalini da Via delle Belle Arti al Sant’Orsola in una volta sola) mi sono sorpreso a scaraventarli in valigia. Sono rimasto interdetto; dopo qualche secondo di immobilità, mi sono inginocchiato per prenderli e disporli con ordine. Ho valutato il gesto come sintomo evidente di un punto di rottura, un riflesso inconscio facilmente spiegabile alla luce della crescente (in)sofferenza a lavorare da tuttofare per questo bellissimo mucchietto di pagine che tieni tra le mani. E tuttavia, sono rimasto molto deluso. Perché quel gesto di fretta e di stizza non rende giustizia ai giorni spesi ad impaginare caselle di testo con rigore certosino, né le ricerche follemente entusiastiche su svariati siti per trovare font strambi in tema con l’argomento degli articoli; non riflette le centinaia di pagine imbrattate con stampe di prova in appartamento né le serate riprogrammate per apportare correzioni alla versione definitiva; non ha nulla a che fare, insomma, con la passione che fuor di retorica posso dire di aver messo in questo progetto e con la soddisfazione che mi ha riempito ogni volta che ho toccato con mano le copie fresche di stampa.

Eppure anche il fiume più limpido va in secca se langue la sorgente, che nel caso del SISMagazine è rappresentata dai contributi volontari di chiunque voglia fissare e condividere i propri pensieri su carta. Da quando l’ho “preso in gestione” (tutta la terminologia dirigenziale applicata ad un contesto piccolo e spontaneo come questo mi sembra invero piuttosto ridicola) ho cercato di evitare che ci fosse una redazione fissa con articoli scritti sempre dalle stesse persone; mi intrigava l’idea di una rivista di tutti, aperta a tutti, che si ponesse come uno spazio aperto a qualunque studente di medicina (e non) desideroso di esprimersi tramite la scrittura.

L’anno scorso un buon numero di ragazze e ragazzi ha affidato i propri testi a queste

Lettera Della Redazione

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pagine, facendo emergere tutte le potenzialità del progetto: molteplicità di punti di vista, varietà tematica, scambio di opinioni, articoli scritti per passione e non per star dietro a scadenze. Trovandomi tra le mani un tale florilegio di ottimo materiale, ho cercato di sviluppare una cornice che ne fosse all’altezza: l’impaginazione ha smesso di essere un lavoro ed è diventata essa stessa un mezzo inedito di esprimere un tipo di creatività che neanche sapevo di avere. Mi pare (e spero che tu condivida questa opinione) che il SISMagazine sia proceduto sempre più verso una propria dimensione, con contenuti consapevoli ed una grafica caratteristica. Se così è stato, lo si deve ad un’attività redazionale in cui le idee si stimolavano a vicenda.

Quest’anno, la fonte si è prosciugata. Ovvero: alle manifestazioni di interesse non sono seguiti nuovi arrivi in redazione. La vecchia guardia per forza di cose ogni anno si ritrova in parte smembrata, tra chi si laurea, chi va all’estero e chi si dedica ad altro...

Risultato: sono affiorate tutte le fragilità del progetto. La penuria di contributi esterni hanno portato ad una fatica sempre maggiore per mantenere la varietà e la “stazza” del giornalino e la mancanza di una larga redazione fissa non ha consentito di avere un serbatoio sicuro da cui attingere. L’approntamento di ogni numero è diventato sempre più laborioso ed arrancante; per la prima volta mi sono rassegnato a saltare un’uscita mensile e mi sono defilato sempre più dalle attività associative del SISM. Con il sostegno dei pochi collaboratori fissi ho dato fondo alle energie mentali portando a termine la transizione del giornalino dall’ingombrante formato A4 al carinissimo A5. Ma le difficoltà ormai asfissiavano gli stimoli; quando a questa situazione si sono unite problematiche strettamente personali, mi sono detto: "Basta”.

Considero il mancato rinnovamento redazionale una mia responsabilità. Alcuni mi hanno detto che si è trattata solo di una congiuntura sfavorevole, ma anche se così fosse sento di non avere più energie da dedicare a questo progetto e il SISMagazine merita decisamente un caporedattore motivato. Così, questa su cui sto scrivendo è l’ultima bozza del SISMagazine che transita per il mio computer. Mentre batto sui tasti, la brezza primaverile che si accomoda in camera dalla finestra fa sventolare delicatamente un foglio appeso al muro. E' la prima lettera della redazione che ho scritto per il giornalino, quasi due anni fa. Cito da lì: "Poco prima che cominciasse l'estate, ho accettato di diventare il nuovo redattore del SISMagazine. So bene quali opzioni ho dovuto buttare giù dalla torre per poter abbracciare questa nel migliore dei modi. [...] Ho deciso con me stesso che il modo migliore per esorcizzarle è mettere il massimo dell'impegno affinché questa fragile raccolta di pagine che tenete in mano ora sia in grado di regalare una buona quantità di lievi scariche endorfiniche a chi quelle pagine le scorrerà con gli occhi. La mia parte l'ho già avuta quando ho visto questo numero stampato di fresco, ma non mi basta e non deve bastarmi." Ora, quello che è stato mi basta. Scelgo di accettare il suggerimento che il me stesso di due anni fa mi trasmetteva inconsapevolmente poche righe più sotto, quando

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scriveva: " [...] fate in modo di amare ogni secondo della vostra vita. Anche cambiandola, se serve."

Non voglio che la chiusura di questo commiato sia impregnata di amarezza: infatti grazie a questa esperienza ho fatto alcune tra le conoscenze più interessanti degli ultimi anni; ho rivissuto la vivifica sensazione di spendersi ampiamente per un progetto nel quale si crede; ho sviluppato aspetti di me stesso che giacevano sopiti.Pur essendomi preso lo spazio di questa lettera per un commiato personale, vorrei terminare ribadendo che il cuore pulsante di questa esperienza da sempre è rappresentato da tutti coloro che spontaneamente hanno speso tempo ed energie inviando i propri contributi e attribuendo un senso con le proprie parole allo spazio offerto da queste pagine. Ringrazio perciò tutti, ma proprio tutti, ragazzi e ragazze con cui ho avuto il piacere di lavorare fianco a fianco nel corso di questa esperienza. E voi, lettori e lettrici, fine ultimo di tutto questo.

Ringraziamenti speciali vanno a:

Silvia, per avermi chiesto un pomeriggio "Ti piacerebbe scrivere?" e per tutto il fomento successivo.Annalisa, per avermi accolto nella famiglia SISMagazine e aver acceso la miccia.Giulio, per avermi introdotto al mondo dell'impaginazione condendo gli insegnamenti con delle tigelle.Vincenzo, per essere stato l'autore di almeno due quinti degli articoli pubblicati in questi due anni (con una qualità di scrittura sempre elevata che ogni assiduo lettore del giornalino, sono sicuro, ha imparato ad apprezzare); per essere stato sempre presente (senza iperboli); per aver gettato in questo calderone una grande quantità di idee. Soprattutto, per essere un amico.Arianna, ragazza in moto perpetuo, per aver controbattuto ai miei momenti di scoramento con il proprio entusiasmo.Francesca, per tutto.

Buona lettura.

P.S. - Spero che qualcuno raccolga il testimone dei ruoli vacanti e desideri maturare i dividendi di soddisfazione e responsabilità che essi portano con sè. In questo caso, sono disponibilissimo per chi fosse interessato/a a parlare di tutto ciò che concerne

le attività della redazione e ad insegnare i rudimenti dell'impaginazione.

Roberto Perissinotto

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APPUNTAMENTO COL DIRITTO #IAmHumanRights - Are YOU?

Il 10 dicembre non è una data qualunque.Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Dopo questa solenne deliberazione, l'Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell'Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione."L'Assemblea Generale proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione."(tratto dal Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo)

Per celebrare questa ricorrenza e per sottolineare l’importanza di questo documento - spesso poco conosciuto e, anche per questo motivo (ma non solo), non rispettato- la SCORP BOLOGNA ha pensato di iniziare un percorso di riflessione e condivisione (soprattutto tramite la pagina Facebook SISM Sede Locale Bologna, ma che adesso verrà pubblicata "a puntate" anche qui sul SISM Magazine) su ciascun articolo della Dichiarazione. Il risultato è l’APPUNTAMENTO COL DIRITTO. Questo progetto è l’espressione della nostra adesione come gruppo SCORP di Bologna all’evento #IAmHmuanRights - Are YOU? dell’IFMSA, in occasione del WHRD (World Human Rights Day, il 10/12). Le immagini sono state rieditate grazie al un link permanente http://www.hrd.turkmsic.net/ (con il quale si può anche creare la propria immagine profilo di FB) creato dall’associazione turca analoga al nostro SISM TurkMSIC (che fa sempre parte dellIFMSA).

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[APPUNTAMENTO COL DIRITTO #4]

Art.4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

“Finché l'uomo sfrutterà l'uomo, finché l'umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.”(Pier Paolo Pasolini)

"Old pirates yes they rob I,sold I to the merchant ships,minutes after they took Ifrom the bottomless pit.But my hand was made strongby the hand of the almighty.We forward in this generationTriumphantly.Won't you help to sing these songs of freedom?"(Redemption Song - Bob Marley)

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[APPUNTAMENTO COL DIRITTO #5]

Art.5

"Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti."

21 luglio 2001, G8 di Genova: i Reparti Mobili della Polizia di Stato fanno irruzione nella scuola Diaz, divenuta centro di coordinamento di alcuni gruppi di attivisti. Dopo diversi episodi di violenza, furono fermati 93 attivisti e furono portati in ospedale 61 feriti, dei quali 3 in prognosi riservata e uno in coma.125 poliziotti furono messi sotto accusa.

La vicenda della scuola Diaz fu definita da Amnesty International "la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese Occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale."Il 7 aprile 2015, dopo ben 14 anni dall'accaduto, i giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno condannato all'unanimità lo Stato Italiano, ritenendo che l'operato della Polizia di Stato "deve essere qualificato come tortura".

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[APPUNTAMENTO COL DIRITTO #6]

Art.6

"Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica."

"Avere personalità giuridica significa “esistere” per un ordinamento giuridico, naturalmente con diritti, doveri e responsabilità. Il riconoscimento del fatto che la persona umana, in quanto tale, è SOGGETTO, non oggetto di diritto, è atto dovuto. Gli ordinamenti giuridici non esisterebbero senza la persona umana, poiché questa ne è il fondamento. L’immigrato irregolare o il Rom o i cosiddetti homeless (senza dimora) o sans-papiers non sono “sconosciuti” al diritto, tanto meno “inesistenti” per esso." (Antonio Papisca, professore di Tutela Internazionale dei Diritti Umani all'Università di Padova)

Eppure nelle nostre città esistono persone invisibili, che per il fatto di vivere in situazioni di detenzione, di trovarsi nello status di "clandestini", per il fatto di non avere una casa e di occuparne abusivamente una, non saranno sconosciute alla legge ma si vedono di fatto negati molti dei diritti fondamentali citati da questa carta.Questo diritto è uno dei più ampi della Dichiarazione, li comprende un po' tutti, e proprio per questo forse è uno dei più facilmente aggirati.

(foto dal progetto fotografico "Uomini Dentro" dei detenuti del carcere di San Vittore)

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L’attesa

Un altro giorno inizia,ringrazio Dio

che mi dà la possibilitàdi viverlo.

Mi alzo da letto, vado in bagno,mi lavo, mi guardo allo specchio

e sorrido.....ho dei capelli bianchidovrei farmi la tinta,

ma non ne ho molta voglia,poi mi dico su Luciana

non trascurarti.Vado in cucina,

preparo la colazione,chiamo Carlo,

Leo (il mio cane) mi seguecome un'ombra e scondinzola;

si sveglia Stefaniae solare come la

maggior parte dei giornimi dice: ciao mamma tutto bene?

Sfoderando il suo bellissimosorriso

eh si è proprio bellaspecialmente quando sorride.

Leo va verso la portae porta il suo guinzaglio

vuole andare giù,scoppiamo a ridere

e lui ci guardaspostando la testa da un lato,

come volesse dirci: ma cosa c'è da ridere?Suonano al portone

è arrivata mia madre

entra sorridendo anche lei,per fortuna non ha più

la faccia addoloratache aveva all'inizio

della mia malattia, anche se so,che a casa sua prega per me

e il suo pensieroè sempre rivolto a me.Comincia a muoversi

come una saettala guardo e penso

" Che strana la vita,lei ha 76 anni e mi accudisce

ancora come fossi una bambina,quando dovrei essere io

ad aiutare leinelle pulizie della casa".

Squilla il telefonoil mio cuore batte forte,

come un allarme impazzitoe se fosse l'ospedale?Rispondo con paura,

ma anche con tanta speranza,no è mia zia

sorrido.Il giorno corre come sempre e monotono

ormai i giorni sono tutti ugualicome i granelli di un rosario.

Arriva la sera...la cena, la tv e a letto,

sorrido ancora, non ho mai riposatotanto in vita mia

come da 2 anni a questa parte.Prima di addormentarmi

“DonarSì” è…DARE LA VITA(a cura dell’area SCOPH:

Standing Committee On Public Health)

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ringrazio gli angeli donatorie spero con tutto il cuore

che per qualcunosia arrivata la famosa telefonata.

Poi dico a me stessache arriverà il mio di angelo,ora non è ancora il momento

e mi addormentocon un sorriso e una speranza.

Vivere nell'attesanon è facile,

ma se impariamo a conviverecon l'attesa

tutto ci sembrerà più belloe meno doloroso,perciò amici mieisorridete alla vita

e prendete sotto braccio l'attesacome fosse una cara amica

perchè prima o poianche il vostro angelo

arriverà e vi farà volareverso la vita.

Dopo il trapianto

Cerco di immaginare i tuoi occhi,mi chiedo che colore saranno stati,

quegli occhi che ora permettonoa qualcuno/a di vedere;

vedere i volti dei propri carila bellezza dell'universo,

vedere con te la vita.Metto una mano sul mio cuore,

sento il suo battitoe cerco di immaginare

il battito del tuo di cuore;quel cuore che ora

pulsa e batte in un altro corpoche ama, che soffre, che gioisce,che si emoziona, che vive con te.

Guardo la mia cicatrice....cerco di immaginarti tutta;

so che eri una ragazza,e come tutte le ragazze,avrai avuti i tuoi sogni,

le tue amicizie,il primo amore, il primo bacio,

i progetti per un lontano futuro.Quel futuro che invece

hai donato ad altri, me compresa.Ora sento e percepisco

il dolore immenso dei tuoi parenti,dei tuoi amici, di coloro che ti amavano:

questo non è difficile da percepiree capire......

questo lo leggo tutti i giorni,lo sento tutti i giorni angelo mio,

lo percepisco nelle parole delle madriche hanno un angelo come te lassù.Sento però anche la presenza della

speranza;quella speranza che anch'io cerco,

quella di poter conoscere i tuoi cari,poterli abbracciare, ringraziare,

non potrò eliminare il loro dolore,ma sicuramente lo potrò lenire.

Perciò ascoltami: fa che io, e non solo io,possa un giorno incontrarli.

Fa che tutte le madri e i padriche hanno dato vita ad un angelo

come te, possano un giornoriascoltare il battito del suo cuore

e rivedere i suoi occhi.Grazie angelo mio, grazie infinte,

grazie di avermi ridato la vitacon la tua vita:TI VOGLIO BENE.

L.F.

Fonte: http://trapiantiildonodellavita.blogspot.it

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Si può fare. Io ho donato.

Ho donato la settimana scorsa, all’Ospedale Niguarda di Milano. È un gesto unico, che riempie di gioia e amore. È la vita.Spiegare con le parole la sensazione che si prova prima e dopo è sempre un po’ difficile. Prima c’è l’attesa, giorno per giorno: la mia è stata un’attesa tranquilla e serena, non sono mai stato agitato. Dopo, la gioia: mi sono sentito felice per il dono fatto, il dono di una vita nuova.Ciò a cui il donatore si sottopone, a livello medico, è veramente nulla. Sono soltanto tre giorni di ospedale, un’anestesia che vola via in pochissime ore e un po’ di riposo a casa. Quindi “poco” rispetto a quello che le cellule staminali emopoietiche andranno a fare!Spero che, superati i tempi necessari, tutto possa procedere al meglio per chi ha ricevuto il mio midollo.Dal canto mio, sto cercando di trasmettere queste parole e sensazioni agli amici: spero di riuscirci sempre di più e il fatto di avere già convinto alcuni di loro a diventare donatori mi spinge a proseguire su questa strada.Continuate così, amici!

Vi abbraccio forte,

Mirko

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Il grande miracolo che mi unisce al mio donatore

Quando mi è stata diagnosticata la malattia, il 7 maggio 2014, il mondo mi è crollato sotto i piedi. Non sapevo praticamente nulla della leucemia, tranne che è un tumore e che di tumore si muore. La dottoressa che mi fece il primo ago aspirato per controllare lo stadio e che tipo di leucemia fosse mi disse: “Piangi ora, sfogati, poi non piangere più” e così ho fatto. Ho passato 6 mesi a letto per via di una grave infezione venutami dopo la prima chemioterapia, poi c’è stata una dimissione di 1 mese prima del trapianto di midollo osseo… Finalmente erano riusciti a trovare un donatore compatibile, il mio fratello di sangue!La ricerca iniziò a giugno 2014 , fin da subito avevano capito che non ce l’avrei fatta senza un trapianto, e quando mi comunicarono la notizia ne fui spaventata e colma di gioia allo stesso tempo. Spaventata perchè c’è il 30% di possibilità di non sopravvivere e colma di gioia perchè la soluzione ai miei problemi era chissà dove nel mondo, ed era lì per me! Mi ricordo che prima di entrare al centro trapianti, un reparto d’isolamento dove hanno accesso solo gli infermieri ed i medici, guardai il mio compagno e la mia famiglia e dissi loro che oltre la porta a vetri non mi sarei voltata a salutarli… non volevo che vedessero quanto ero terrorizzata.Erano i primi giorni di dicembre e durante la notte iniziarono a trasfondermi le cellule staminali che mi avrebbero permesso di ritornare a vivere. Furono giorni difficili, passare le feste di Natale in ospedale lontana dai propri affetti è psicologicamente molto duro, per non parlare di un fungo terribile che viene grosso modo a tutti I trapiantati e che non permette di bere nemmeno l’acqua perchè parte dalla bocca e arriva fino allo stomaco e provoca dolori molto intensi. In tutto questo pensavo al grande miracolo che mi univa ad un’altra persona, a quanto in realtà fossi fortunata ad avere una seconda chance e che purtroppo tanti malati muoiono nell’attesa di trovare una compatibilità. Decisi in quel momento che avrei fatto tesoro della mia storia, che avrei cercato di aiutare il più possibile le persone malate come me a trovare un fratello di sangue.Purtroppo questa malattia colpisce indistintamente e senza una ragione, ognuno potrebbe aver bisogno di una compatibilità che gli salvi la vita e ad oggi poche sono le persone che hanno dato la propria disponibilità a questo incredibile gesto di solidarietà.Spero davvero che troviate, nel profondo del cuore, il coraggio per essere gli eroi di qualcuno.Con immensa gratitudine,

Veronica

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Il SISM e l’area SCOPH vi invitano alla TIPIZZAZIONE

con tampone salivare in collaborazione con ADMO

per essere inseriti nel registro dei potenziali donatori di midollo osseo

MARTEDI’ 17 MAGGIO dalle 18 alle 21

Aula Magna Polo Murri

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Per info:

[email protected]: “SISM Bologna”

“SISM SCOPH Bologna”

Per informazioni sulle donazioni consulta i siti:

www.avis.it www.aido.it www.admo.it

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– Ma in Russia non c’è niente.– Appunto, – dico io, – appunto.– Sono forti i russi in ORL?– Non ne ho idea.

Ancora oggi mi chiedo, nei miei moti spontanei di auto-analisi esistenziale, perché la Russia. Mi sono dato una serie di risposte.

La più barocca è che mi intrigava il dualismo di arte e tecnica che la Russia incarna nella mia mente, con le sembianze di un Giano Bifronte in formato matrioska. Penso a Mendeleev, Pavlov, alla schiera di matematici e fisici di cui non conosco il nome e che so aver apposto un tassello, magari piccolo ma fondamentale, nel grande mosaico del progresso scientifico. Poi il cuore salta a Dostoevskij, a Stravinskij, Tolstoj, a Tchaikovskij, Puskin. La seconda matrioska, dentro la prima, sono i singoli uomini che hanno vissuto e interpretato prolificamente questi due fuochi dell’anima: Bulgakov, medico e scrittore; e Cechov, medico e scrittore; e il misconosciuto Pavel Florenskij, matematico, musicista, filosofo e mistico; e tanti altri che al momento non mi sovvengono. Più piccola, la terza: Ryazan, la città a cui ero stato assegnato. Un “piccolo paese di provincia” da 500.000 abitanti, come lo chiamano loro, a 200 km a sud-est di Mosca. Due personaggi sono legati a Ryazan. Il primo è Pavlov, il fisiologo, (primo) premio nobel russo, quello del famoso cane. Il secondo è Esenin, il più importante poeta russo del ‘900, stimato da Majakovskij e Block, uno dei pochi ad aver varcato la cortina, metaforicamente e fisicamente. Quarta bambola di legno è

Un VentO A TrentA GradI

SottO ZerO

ExchangE - RussiA

diVincenzo Capriotti

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questo viaggio, diviso in due tra frequenza nel reparto di otorinolaringoiatria presso l’ospedale Semashko e scorribande romantico-stendhaliane nella Mosca del Maestro e Margherita, della Piazza Rossa, degli zar e dei tovarish, e San Pietroburgo, con l’incanto della Prospettiva Nevskij, l’incrociatore Aurora, i canali del delitto e del castigo di Raskolnikov, l’Ermitage e Palazzo d’Inverno. Dentro tutto ciò, infinitesimo da volerci un microscopio elettronico per essere notato, invisibile e sfuggente, io: pennivendolo di corsia, testa tra le nuvole, piedi sulla fòrmica, alla ricerca di un’ispirazione, un’intuizione, per suturare questa apparente scissura tra il ribollire dentro di immagini parole suoni emozioni e il rigore asettico del camice bianco, che pare non lasciare spazio ad interpretazioni.

La più modana era la curiosità per un luogo esotico, così lontano dalla nostra cultura e geografia, e vizioso, fatto di alcol di bassa lega e donne secolarizzate mal(s)vestite, come ci racconta lo stereotipo. Come tutti gli stereotipi, si sarebbe rivelato estremamente parziale e riduttivo.

La più suggestiva, e romantica nel senso proprio del termine, è che volevo sentirmi minuscolo, inerme di fronte all’incommensurabile, oberato da secoli di storia, sangue, arte, scienza, guerre, ideali, in un afflato gotico in cui sentirmi confortevolmente schiacciato senza diritto di replica. La Grande Madre Russia: il terrore freudiano di una Madre glaciale che può fare a meno di te, lo spauracchio lacaniano di un Grande altro che potrebbe sbriciolarti in un momento qualsiasi, come nulla fosse. Non sapevo ancora, quando ho scelto la meta, che non era necessario un intero continente per sentirsi così. Bastava un amore distrutto.

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Così, sono partito: niente verso il niente, con l’ingenuità credulona di un diario vergine, disposto a farsi scrivere da una terra di cui sa poco e male, che ha il solo merito di trovarsi lontana, centinaia di chilometri da casa, con l’unica, vera ragione per fare un passaporto, due giorni di viaggio in tre fusi orari diversi senza dormire, accollandosi 40 kg di bagagli di cui solo 23 stivabili, con ai piedi gli anfibi dell’esercito regalatimi da mio cugino e una giacca da neve che sarebbero risultati nettamente fuori stagione una volta tornato in patria, un mese dopo: ritrovare me stesso. Ritrovare qualcosa che era andata perduta senza che me ne accorgessi, come si perde il filo del discorso, la sera tardi, distratti perché stanchi.

Cercavo un posto in cui non ci fosse niente, appunto, come diceva con inconsapevolezza chi veniva a sapere del mio viaggio. Un posto sospeso tra il bianco muto del cielo e l’informità della pianura innevata, nell’impossibilità dell’ipotesi di qualche sorpresa. Eliminare i fattori confondenti, azzerare ogni disturbo nel segnale, ogni rumore. Che ci fosse abbastanza silenzio da tornare a sentire ancora quella vocina che ricordavo aver avuto da qualche parte dentro, rimasta troppo a lungo inascoltata. Volevo vedere se era ancora viva.

Come raccontare la Russia? Penso sia impossibile, come impossibile sarebbe raccontare questo breve viaggio. Occorrerebbe un libro, un diario, che peraltro ho tenuto, a fatica, a volte dormendo 5 ore a notte e scrivendo in condizioni di estrema precarietà; e che chissà, prima o poi potreste trovare in una libreria, in qualche altra forma.Sarebbe inutile raccontare Mosca, o San Pietroburgo.

Potrei raccontare dell’ospedale, di come entrare in sala operatoria aggiungesse un salto nel tempo a quello geografico. Il fatto che, ad esempio, su otto interventi giornalieri di rino- o setto-plastica, turbinectomia o apertura funzionale dei seni paranasali, solo tre prevedevano l’anestesia generale mentre gli altri la locale, perché c’era un unico anestesista, pagato per tre anestesie totali e non di più. Prima ancora si potrebbe parlare delle sale operatorie, cioè di stanzoni bianchi con piastrelle rosa e due letti di acciaio, e delle divise chirurgiche, di cotone bianco, ingiallite dai tanti lavaggi, e di quelle dei pazienti, bianche pure loro, cosicché tutta la scena appariva come una gigantesca camera mortuaria con aguzzini di una setta ad infierire su mummie già avvoltolate. Oppure dei guanti in lattice, che non venivano

Si potrebbe dire del campus universitario in cui vivevamo, questo recinto costellato da casermoni sovietici costruiti tra gli anni ’50 e gli ’80, e nel mezzo

una piscina iper-moderna con, all’interno, la gigantografia di Putin che ti guarda mentre nuoti a dorso."

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buttati ma lavati, sterilizzati e riutilizzati, fin quando, consunti, si tagliavano e trasformavano in tamponi nasali per l’emostasi post-operatoria. Ancora prima si potrebbe parlare degli scrub ospedalieri, di queste cuffie da cuoca d’orfanotrofio che trasformavano il mio prof, Vladimir Ivanovich Panin –subito ribattezzato “Professor Panino”–, il più severo, reazionario e temuto insegnante di tutta l’università, in un ridicolo Grande Puffo; e, forse, proprio il fatto che a guardarlo non riuscisse ad incutermi il minimo terrore mi ha fatto guadagnare non solo un certo grado di rispetto, ma anche un affetto nepotista che lo avrebbe portato a regalarmi 2 suoi libri in inglese, 6 lezioni autografe, due penne e il foulard dell’università, oltre ad una serie di confidenze come la nostalgia della Russia pre-sovietica, in cui non si viveva con la paranoia dei nemici al fronte, la passione virile per la sauna, il the e lo scarso amore per i viaggi all’estero.

O il fatto che, cazzo, nessuno o quasi parlasse inglese –tra gli strutturati e gli specializzandi, intendo. L’unico era il Professor Panino, con i suoi quasi 70 anni che elargivano sdegno verso l’inerzia delle nuove leve, insieme ad un giovane chirurgo e ad uno specializzando che era un incrocio tra Stan Laurel e Forrest Gump. L’anziana infermiera, Galina, che potrebbe essere mia nonna, mi parlava in russo, convinta che ripetendo le parole e sgranando di più gli occhi avrei avuto più chance di capirla.

Tutto questo, per un mese, mi avrebbe fatto di certo impazzire, se non mi fossi immaginato Bulgakov, fresco di laurea, abbandonato in una piccola clinica di campagna come nei suoi “Appunti Di Un Giovane Medico”. Dopo un mese, anche questa strategia temporanea di sopravvivenza sarebbe sfociata in schizofrenia incipiente.

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Si potrebbe dire del campus universitario in cui vivevamo, questo recinto costellato da casermoni sovietici costruiti tra gli anni ’50 e gli ’80, e nel mezzo una piscina iper-moderna con, all’interno, la gigantografia di Putin che ti guarda mentre nuoti a dorso. “Un universo parallelo, con la propria cosmogonia e le proprie leggi”, da riconoscere, comprendere e accettare, a scatola chiusa, e stare al gioco; la sensazione di venire catapultati in un mondo parallelo che una volta, tanto tempo fa, era un’unica cosa col nostro ma poi, come in certe teorie sui multiversi, per qualche strana ragione si è staccato cominciando a divergere, e generando un regno bislacco in cui si riconoscono le forme dell’idea platonica originaria senza poter ignorare le sostanziali differenze da quel che was supposed to be. Un po’ come succede in certe relazioni che sfuggono di mano senza riuscire a riprenderle o in quella puntata dei Simpson in cui a salvare Krusty da Telespalla Bob non sono Bart e Lisa ma dei loro omologhi, che spuntano fuori a fine episodio, due controfigure simili ma profondamente diverse dagli originali. Ecco, noi vivevamo tra gli omologhi di Bart e Lisa, vivevamo in una relazione ormai sfiorita che solo la ristrettezza provinciale degli orizzonti poteva mantenere in vita, nella più canonica delle parabole borghesi.

Dico noi perché eravamo io, Claudia –mia compagna di corso con cui in 6 anni non ho scambiato una parola e che aggiungo tra le prime posizioni della lista di belle cose che questo viaggio mi ha fatto conoscere– e questa tizia brasiliana che si è presentata in tacco e giacchetta sulle strade ghiacciate di un lunedì nevoso per passare poi un 60% del soggiorno a farsi selfie e piangere in camera, confessandoci che non sapeva niente della Russia, che voleva tornare a casa, che trovava gioia solo nel centro commerciale, che vuole diventare una cardiologa o un medico del pronto soccorso e che, non appena rientrata in Brasile, avrebbe preso appuntamento per rifarsi le tette. Tutto un immaginario che avrei realizzato compiutamente a due mesi di distanza guardando “Tutta La Vita Davanti” di Virzì, da cui la citazione sopra sull’universo parallelo.

Intorno a questo curioso trio hanno orbitato vari personaggi, tanti strambi Virgilii che ci hanno introdotto in una complessa rete di rapporti, aneddoti, chiacchiere, invidie, amori passati e presenti, come in una grande parrocchia o un liceo classico. Ogni piano del nostro studentato vedeva un’etnia diversa: l’università “Pavlov” di Ryazan è infatti internazionale, ospitando nord- e centro-africani, arabi, turchi, indiani, un potpourri di nazioni e fazioni che ricordo aver visto tale solo in qualche film americano. Un’antropologia della socialità in cui si manifestano caratteristiche le origini, i singoli vissuti, il modo di intendere i rapporti e di vivere quello stran(ier)

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Nel mezzo, la chiara sensazioneche in Russia "Dio" non sia mai morto,

nonostante i tentativi di ucciderlo.""

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o angolo di mondo come può apparire la provincia russa ad un egiziano o ad un tunisino.

Nel mezzo, la chiara sensazione che in Russia “Dio” non sia mai morto, nonostante i tentativi di ucciderlo. Dio come ideologia: un forte senso metafisico pervade i russi, la percezione di qualcosa di più grande, un espediente che anche i comunisti si sono arresi ad utilizzare nel culto di valori e personalità di spicco, tante più o meno irraggiungibili divinità contemporanee, perché per sopravvivere a 8 mesi all’anno di gelo hai bisogno di qualche ragione più grande, sia essa Dio, la Patria, il soviet, la tua foto pubblicata sulla bacheca degli studenti meritevoli o il palcoscenico del concerto universitario di primavera; la tensione coreografica e rituale che i russi infondono in quasi tutto ciò che fanno, dalle a tratti performative celebrazioni ortodosse alla scansione temporale di una giornata lavorativa qualsiasi. O questo, con i limiti che un occhio occidentale disincantato riesce a cogliere, o la pazzia.

Quanto c’è di vero in ciò che ho scritto finora? Tutto, e niente.Tutto, perché ad essere obiettivi e a fotografare le varie scene (aggiungendo quelle omesse o dimenticate) verrebbe fuori un album che assomiglia ad un brutto sogno straniante.E niente.

Verso la fine della nostra permanenza io e Claudia abbiamo visitato le case natie di Pavlov ed Esenin. Nella casa di Pavlov mi sono commosso dentro, in silenzio, col pianto del bambino che ritrova i genitori dopo essersi smarrito tra la folla.

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Il salone, con il pianoforte, il padre che suonava, la madre che cantava: pareva vederli, davanti ai figli, e i riflessi delle fiamme del focolare luccicare negli occhi felici. E le stanze, che raccontano ancora le passioni dei giovani Pavlov, che a pensarci oggi fanno sorridere: uno che collezionava insetti, un altro cacciatore, o quello che si perdeva tra chimica e vecchi libri epici. Pavlov si divertiva nel gorodki, questo gioco di costruire forme con dei blocchi di legno, come delle piccole città, e abbatterle poi lanciando una mazza. Una specie di sconclusionato bowling infantile, a cui avrebbe giocato anche da anziano con gli amici. E l’incontro con sua moglie, Seraphima detta Sara, studentessa di matematica all’università di San Pietroburgo: lui che va ad una festa a casa di un amico, casa in cui abita anche la futura moglie, la quale passa la serata chiusa in camera perché malata. Ascoltando attraverso la porta, rimane colpita dall’umorismo di questo giovane. Senza averlo visto, combina tramite l’amico un’uscita a teatro con lui. Qui Pavlov resta a sua volta incantato dal fervore e dalla capacità di osservazione di Sara. Di lì a poco si fidanzano, resistono assieme ai forti problemi economici dei primi 9 anni di matrimonio, ed hanno cinque figli; sopravvivono alla morte precoce di uno di loro e invecchiano insieme, tra gli esperimenti dell’uno e le lezioni di matematica dell’altra, vedendoli crescere e realizzarsi, ognuno in un campo diverso. Mentre ascolto questa storia, sento la stretta allo stomaco che danno i futuri desiderati, sfumati, irrealizzati, ma possibili. Le foto di Pavlov emanano serenità e leggerezza, e lasciano intuire la profondità umana necessaria a far convivere questi sentimenti con l’indiscutibile intelligenza di un Nobel.

Poi la casa di Esenin, nel piccolo villaggio di Costantinova, poco lontano da Ryazan. La vita di Esenin fu travagliata, una straripante voglia di vivere alimentata dalla ricerca di una realizzazione che non avrebbe mai trovato in vita sua, che non ha a che fare con relazioni e successi, come certa sottile propaganda continua a farci credere, ma col guardarsi dentro, nel coraggio di affrontarsi e riconoscere i bisogni profondi che ogni cuore cela dietro l’illusione dell’autarchia. Quindi l’acclamazione come più grande poeta russo vivente, le tante donne, l’alcol, l’avventura americana, e infine il suicidio, o presunto tale, appena 30enne, previa poesia di addio: un esausto arrivederci amico mio, do svidania drug moi, scritto, letteralmente, col sangue.

Nello Yin e Yang delle due storie, ecco l’epifania che cercavo, il matrimonio delle due vocazioni, una chiave di volta, ineffabile, che risolve l’irrequietezza dello spaesamento

Una cosa che è viva, sempre,anche quando sembra non esserci più nulla.

Anche quando è tanto piccola da non essere visibile.""

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dopo la laurea: la percezione di una direzione, di una strada da voler percorrere.Ed ecco anche il niente di vero di tutto ciò che ho scritto sopra, che rende false le fotografie scattate prima, false perché vuote, senza soggetto, e che trasforma uno scenario scomodo in un’esperienza fruttifera ed unica.Una cosa che esiste al di là delle latitudini, delle lingue e delle culture. Una cosa che ho scoperto nella mia compagna di viaggio, nei colleghi di reparto per quanto ci fosse da arrabbiarcisi, in un tizio tunisino saltato fuori da Jersey Shore, in un marocchino bipolare che poteva stare nei Looney Tunes, nel Grande Puffo conservatore Dottor Professor Panino (digi-evoluto sul finale in Lord Panino), nella nostra contact-person Elena, nelle inservienti della mensa, nello stralunato specializzando che si diverte nel weekend ad andare in cerca di monete antiche nei ruderi di campagna, in una ragazza con gli occhi di lince e in una tizia coi dreads che ha deciso che per una sera sarei stato il suo ragazzo.

Quella cosa che sta nel profondo di ognuno, per quanto diverso possa sembrare. La cosa che cercavo, che ho sentito, intuito, e riconosciuta come vera, che appare a tratti, fugace, in certi sguardi, in certi moti dell’anima che non bisogna lasciar scappare; che si scopre nei rapporti, quando nient’altro c’è in comune, e negli abbracci d’addio.Una cosa che è viva, sempre, anche quando sembra non esserci più nulla. Anche quando è tanto piccola da non essere visibile. Una cosa che somiglia al seme che dorme sotto la neve, d’inverno, e sopravvive al “vento a trenta gradi sotto zero”, che strappa le orecchie e non ti fa più sentire.

Finiva marzo. Il bianco ai bordi delle strade lasciava intravedere i primi sussulti di primavera.Aprile si apprestava a cominciare.

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I Miei Maestri Parlano Sussurrando

Vagone di seconda tra Marche ed Emilia,30 Settembre 2011 - imprecisato Maggio 2016

Caro compagno di viaggio -compagno di quel viaggio, qualunque fosse la tua anagrafe. Chiedo scusa ai tuoi tratti dimenticati senza appello. Matricola come me, forse? O studente che concludeva? Specializzando ad un nuovo inizio, o forse tu, che mi leggi ora? Magari sei quel profilo cui ho giocato questo scherzo anche ieri, incerta figura che certamente mi sedeva accanto.Hai mai pensato, rumore di fondo dei miei vagoni, ad una storia d’amore letta e amata? Anzi, qualcosa di più di questo: una storia letta e amata al punto che la vorresti vivere. Il risultato (dis)atteso potrebbe sorprenderti. Perché volere un amore come quello dei libri è una faccenda molto seria e pericolosa, a volte perfino sinistra. Nel teatro inglese due sedicenni non sono sopravvissuti, tant’era l’antagonismo tra famiglie. Neanche i poemi se la passano meglio, se una donna greca ha atteso, tessendo, ben dieci anni. Se per caso poi - per disgrazia - la letteratura che preferisci è italiana, ad una coppia l’aver amato costò addirittura l’Inferno (seppur raggiunto, lo riconosciamo, con parole splendide). Io non potevo saperlo, alla partenza ne avevo già una: ma la mia storia più letta e più amata era seduta lì, tra noi.

In questa storia, come in altre, c’è una diciannovenne. Le piace leggere e si diverte a raccontare. Nel futuro vuol fare il medico, la sua storia letta e amata è "Via Col Vento" e questo è sufficiente ad inquadrarla. Quella che la attende pochi mesi dopo, nel

diBeatrice Andrenacci

(lettera d’amore di un medico del domani a un giovane medico di ieri)

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primissimo viaggio per Bologna, è una cronaca d’amore insolita, delle meno convenzionali, perché è una storia medica.Su quel treno fatale incontra il giovane Miša, di Kiev; la sua storia letta e amata è probabilmente "La Figlia Del Capitano". Ha ventiquattro anni, gli piace scrivere e si diverte a raccontare. È laureato in Medicina e Chirurgia, con il massimo dei voti e menzione d’onore. Diventerà, parecchi anni dopo, l’autore de "Il Maestro e Margherita", definito da molti il miglior romanzo russo del secolo: ma quel giorno, su quel vagone, è solo il dottor Bulgakov, il dottor Michail Afanas’evic Bulgakov.

Il tuo primo racconto, mi confidi, ha preso forma proprio così, una notte d’autunno, alla luce delle candele di un treno sconquassato che assomiglia tanto a certi miei regionali. Nel giro di due fermate sotto i miei occhi si accumulano la carta e gli anni, e io ti vedo prima chirurgo, negli ospedali da campo del fronte sud-occidentale; poi privatista a Kiev, nella lotta alla Grande Imitatrice, la sifilide; infine, ufficiale medico, negli anni della Rivoluzione. Ma stare al soldo di poteri che non comprendi proprio non lo sai fare, così, il 15 febbraio 1920 dici addio alle armi e al fonendo, per impugnare la sola penna, la carriera di letterato: complicata, certo, e difficile, ma totalmente autonoma, interamente tua. Iniziano per te gli anni paradossali dell’essere ad un tempo il drammaturgo preferito di Stalin ed uno degli autori più invisi al regime, ma nessuno rimprovererà mai il tuo sguardo affilato di chirurgo. La tua ironia ti salva ogni volta dal carcere e dalla condanna, mentre cala, vischiosa, la coltre della censura. Quella stessa ironia che hai con te a ventiquattr’anni.

"Quarantotto giorni fa mi sono laureato con la lode” mi confessi un po’ eccitato “ma la lode è una cosa, l’ernia strozzata un’altra!” Sei su un treno diretto a Nikol’skoe, nel governatorato di Smolensk, dove ti attende il tuo primo incarico, “dirigente medico della condotta rurale”: il che, tradotto nelle sue pragmatiche conseguenze, significa essere l’unico medico nel giro di quaranta verste, con il peso di più di quindicimila pazienti sulle spalle, al ritmo di cinquanta al giorno, giorno e notte. Significa, in due parole, che sei solo. Completamente solo, tra strumenti mai visti e farmaci mai uditi, sotto la morsa delle responsabilità e del dubbio: un uomo smarrito che ha in cura altri smarriti. Non ti potrai sottrarre a nulla, nella remota campagna gonfia d’orrori, che non sono quelli della carne e della malattia, ma i grotteschi frutti di una superstizione. Perché quella terra ancestrale e feroce non sa nulla della tua scienza: segue i riti della primavera, l’alternarsi delle stagioni, e più non sa (né vuole) domandare.Il capitolo che mi è più caro è il tuo ritorno nascosto alle carte, nei pochi congesti

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minuti che ti concede l’anestesia di una partoriente. “Vado a prendere un attimo le sigarette” menti all’ostetrica. È il tuo primo rivolgimento manuale, un nascituro in presentazione trasversa. Lo hai visto fare ad un professore, ne hai tratto a parole il miglior voto, ma incagliata al reale la ricca teoria si polverizza. I caratteri del manuale di Ostetricia oscillano verbosi sotto i tuoi occhi, sfrontatamente privi di significato, non suggerendo nulla più dei continui presagi di una prognosi infausta. Finché di tempo per il tuo tarlo interno non ce n’è più. Chiami a raccolta tutto ciò che hai allenato in anni di studio, la tenace volontà del clinico e la lucidità del bisturi, e improvvisamente qualcosa accade. Per primo ti stupisci della tua fortunata perizia, delle conoscenze spuntate da chissà quale luogo interno. Non sai come, ma è successo: la madre è salva, è nato un bimbo, tu sei, infine, diventato Medico.

Oggi di anni ne ho ventiquattro anch’io; medico non lo sono ancora, ma si è avvicinato un poco di più il tempo. Da allora, io e il dottor Bulgakov continuiamo a confrontarci, su questo o quel treno. Negli anni si è aggiunto qualche docente illuminante, qualche incontro che mi ha cambiato nel profondo, perfino qualche paziente. Tutti miei maestri, quelli di cui parla una bella poesia:

“I miei maestri non sono infallibiliNon sono Goethe (…) né Orazioche scrive nella lingua degli dei.

I miei maestri mi chiedono consiglio. Avvoltida morbidi cappotti gettati in fretta

sopra i sogni, all’alba, mentre un vento freddo interroga gli uccelli, i miei

maestri parlano sussurrando.Sento che la loro voce trema”

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Li terrò tutti nel mio studio, quando verrà il tempo: Anatomia, Fisiologia, e anche gli appunti di Miša, gli "Appunti Di Un Giovane Medico". Vi riporrò i quaderni, i romanzi e anche il ricordo di una bella lezione, l’aspetto che aveva un viso, non meno importanti, nel farmi dottore, del Robbins e del Netter. Inventerò un volto perfino per te, profilo incognito che assistevi quel giorno ad un amore che nasceva: il mio amore per questo mestiere. Indosserò il camice per davvero e forse saremo di nuovo seduti accanto, mentre leggo daccapo quel ventiquattrenne che un poco mi assomiglia: determinato, appassionato, desideroso di fare questo mestiere per il meglio; attento sempre, ogni tanto insonne, e a volte così smarrito, mentre mi insegna a non temere nulla.

La sua ironia sarà ancora lì, a consolarmi e farmi solida. Spero ci sarai anche tu.

Ascolteremo assieme, ancora una volta, la sua voce che trema per me.

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Eccoci qui. Il mio ultimo pezzo per il SISMagazine. Erano giusto tre anni fa che mi affacciavo per la prima volta in redazione, non avendo idea di cosa volesse dire scrivere per un giornalino.Nella sua piccolezza (ora anche fisica, eheh!) sono felice di poter dire che abbiamo fatto qualcosa di buono, con qualità sempre crescente. Lo posso dire dai complimenti che arrivano spontanei, dalle condivisioni che ha contribuito a generare, dalle riflessioni che ha permesso di esprimere. È sempre stato in piena linea con la “mission” del SISM, laddove questa è implementare la formazione medica nelle sue aree più carenti. Ed è su questa linea che corre, in equilibrio spavaldo, il mio ultimo pezzo: un racconto.Vuole essere un piccolo regalo da parte mia: una favola per adulti, un momento per sorridere dentro, un piccolo titillamento a quella parte stupenda e bambina che c’è in ognuno di noi, che le migliaia di pagine da studiare a volte può far spegnere, e che un buon medico dovrebbe sempre conservare e proteggere.È stato un piacere scrivere per te, chiunque tu sia. Spero sia stato altrettanto piacevole leggere.

Quindi a presto,da qualche parte,in qualche modo.

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Quella volta in cui Tommaso si perse tra le parole

Un giorno, dopo che un violento acquazzone aveva inzuppato il piccolo paese di Monte Aùco, Tommaso si affacciò dalla finestra del soggiorno di casa sua e scoprì che il mondo era fatto di parole.Di primo acchito non volle credere ai suoi occhi, li stropicciò forte, li strabuzzò, quindi li sgranò e guardò di nuovo fuori. Era proprio così: la città non era più costruita

diVincenzo Capriotti

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fcon mattoni, cemento, alberi, rigagnoli di fiume, ferro battuto e terriccio umido, bensì di lettere, grandi e piccole, in corsivo e in stampatello, accatastate in ordine una sull’altra in righe e in colonne, oblique e di traverso. – Come è possibile? – esclamò tra sé e sé. – Che sia stata questa brutta febbre che ho avuto fino a ieri? Eppure, in tanti anni di studio, una cosa del genere non l’ho mai sentita!– Cosa non hai mai sentito? – chiese sua madre Clementina, entrando in sala.– Là fuori, guarda tu stessa! – rispose Tommaso.Clementina guardò, guardò e guardò, ma non capiva cosa sorprendesse così tanto suo figlio.– È tutto fatto di parole! Guarda il palazzo del professor Consorti, guarda il muro!Sua madre guardò, guardò e guardò ancora, ma non vedeva che il solito muro giallino incoronato dal balcone: – Smettila di prendermi in giro, che ho da fare! – sbottò seccata, e se ne andò in cucina a tagliare la verdura per la cena. Tommaso decise che doveva andare a fondo alla questione, così si vestì alla bell’e meglio e corse in strada.

Aveva appena poggiato il piede fuori che già si fermò a osservare l’asfalto: tanti “avere avere avere” si stendevano sotto di lui. Corse allora qualche metro più avanti, fino all’incrocio, e vide la strada che girava a destra cosparsa di tanti “essere essere essere”. Alzò la testa, spingendo lo sguardo oltre il semaforo, da cui saettavano verdi “vai vai vai” e rossi “frena frena frena”, e si accorse che le strade in direzione nord-sud erano formate dal verbo “avere” mentre quelle in direzione est-ovest dal verbo “essere”, creando una scacchiera di ausiliari regolata da una segnaletica di segni di punteggiatura.– Ciao Tommaso, ti sei rimesso! – esclamò Stefano, il suo vicino, appena uscito dal portone numero 64. – Scusami ma sono di fretta, devo passare a prendere Florinda. A presto!Mentre si allontanava, Stefano lasciava per qualche metro dietro di lui una scia di “fretta fretta prendere Florinda fretta Florinda fretta” che svaniva come l’acqua delle onde dopo aver baciato il bagnasciuga.Tommaso rivolse lo sguardo ai palazzi intorno, e vide sulle pareti di ogni appartamento il nome di chi ci abitava: ecco allora il suo palazzo, un biscotto di “Lupi Lupi Lupi” e “Serpiconi Serpiconi Serpiconi” e in mezzo il loro nido, la tana della famiglia Cerchioni, al terzo piano della casa ad angolo.Cominciò a correre a destra e sinistra, in lungo e in largo, per farsi una grossolana idea della grammatica di quel mondo nuovo che, chissà perché, non era apparso prima d’ora: vide gli aggettivi che coloravano le giacche dei passanti e i fiori sui balconi, vide numeri sgualciti scricchiolare sulle banconote, vide sprizzare verso il cielo zampilli di “dovetualloraio” da una giovane coppia di fidanzati che passeggiava mano nella mano, vide qualche anziano cosparso di congiunzioni uscire dalla chiesetta in cui 25 anni prima era stato battezzato. Tornò a casa, esausto e stravolto, e dormì un giorno intero senza alzarsi mai dal letto.“Dlin-dlon!”, suonò il campanello. Clementina andò ad aprire: – Tommaso, è Persie. Sta salendo, vestiti!

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“Persie” stava per “Persefone”. Era quasi un anno che lei e Tommaso erano fidanzati, ma negli ultimi mesi c’era stata della maretta. Da qualche tempo infatti sembrava che non riuscissero ad andare d’accordo, come se fossero sintonizzati su due radio diverse. Figuriamoci se poteva Tommaso adesso venirsene fuori con questa storia assurda del mondo fatto di parole: lo avrebbe quantomeno preso per pazzo e sarebbe fuggita a gambe levate!– Perché non mi rispondi? Ti ho chiamato per tutto il giorno! – urlò indispettita, alla vista del ragazzo. – È una settimana che non ci vediamo, e ho bisogno di parlarti.Così Persefone iniziò a parlare, e prese a dire tutte quelle cose che si dicono quando non si vuole più una persona; ma nelle orecchie di Tommaso non entrava la voce di Persefone ma solo un lungo e acuto fischio. Era infatti troppo distratto e spaventato dalle parole che vedeva saltarle fuori dalla bocca, tante anguille nere che strisciavano fuori dai denti e andavano dritte dritte a mordergli la pancia: “nontivogliopiù nontivogliopiù nontivogliopiù”. Restò impietrito, come una statua di sale, senza capire una frase e senza salutarla. Quando la ragazza se ne andò, sbattendo la porta, un gigantesco “ADDIO” si staccò dallo stipite colpendolo in testa, frantumando la statua di sale, lasciandolo a terra privo di sensi.

Si svegliò una settimana dopo, in un letto di ospedale. Smagrito, bianco bianco come le lenzuola in cui era imbacuccato, guardò stravolto i tubi che gli uscivano dal braccio e i fili attaccati alla testa e al petto.– Grazie al cielo si è svegliato, si è svegliato! – urlò Clementina, che era stata al suo fianco tutta la settimana, non abbandonandolo mai. Il dottore venne a visitarlo: disse che stava bene, e che dopo qualche esame sarebbe potuto tornare a casa. Quattro giorni dopo, fatto uno strano test con una cuffia in testa e tante luci sparate in faccia, tornò nella sua comoda cameretta, con in tasca delle pillole che, aveva detto il dottore, non lo avrebbero fatto più svenire.

Nel giro di due settimane Tommaso fu abbastanza in forze da ricominciare ad uscire. Era molto confuso, i pensieri rimbombavano in testa e non riusciva a distinguerli l’uno dall’altro. C’erano tante voci diverse che si rincorrevano come piccoli criceti: la madre, il dottore, Persefone, Stefano, e pure quella di suo padre, che era morto da molti anni. Pensò che fare quattro passi potesse aiutare a sbrogliare la matassa di suoni che gli rimbalzavano tra le tempie.Camminando lungo il marciapiede, notò qualcosa che non si sa come gli era sfuggita prima: tra le parole, per quanto fossero accatastate fitte fitte, restavano degli spazi vuoti. Si piegò in ginocchio e col naso sfiorò la terra: gli spazi si aprivano serpiginosi tra un verbo ausiliare e l’altro, piccoli piccoli, ma larghi a sufficienza da metterci un dito dentro. Così fece, e pian piano allargò lo spazio tanto da infilarci la testa.Quel che c’era sotto lo fece a dir poco sobbalzare: dipanata la scorza di “avere avere avere”, scoprì che sottoterra era tutto un vermicaio di lettere alla rinfusa, brulicanti come un formicaio divelto, tanti tipi di minestra diversi buttati nello stesso sacchetto.Fece per tirarsi indietro, terrorizzato da quel tramestio infernale di grafemi sconnessi, ma non ci riuscì: lo spazio infatti si era ristretto, serrando la testa in una morsa

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finestricabile. E strattona e strappa e scappa, successe che scivolò ancora più giù, fino a cadere completamente in quel brodo di ljabdfgjhkbsdfgdjhafbhbv senza senso, e più si divincolava più sprofondava.La cosa curiosa è che solo lui, che poteva vedere di che pasta era fatto veramente il mondo, sapeva di essere incastrato. I passanti che lo vedevano ridevano di questo giovanotto riccioluto che si agitava sul marciapiede, e scuotevano la testa, non capendo cosa diavolo avesse da dimenarsi così e chiamare aiuto.– Tommaso! Che succede? – chiese Stefano, affacciandosi dal balcone.– Sono caduto in un crepaccio, non riesco ad uscire!– Perbacco Tommaso, che scherzi sono questi? Torna dentro che sei stato da poco in ospedale!– Lo vorrei tanto, davvero, ma non ci riesco: sono incastrato!Il signor Stefano scese le scale bofonchiando con disappunto, maledicendo bonariamente questi giovani d’oggi che hanno tempo da perdere con certe idiozie.– Allora, a che gioco stai giocando, Tommaso? – lo rimproverò il vicino, e lo afferrò per la manica; ma quando provò a trascinarlo non credette ai suoi occhi: Tommaso non si riusciva a schiodare di terra. Provò di nuovo una, e due, e tre volte ma niente, non voleva saperne di spostarsi. Puntò allora i piedi, piegandosi all’indietro con tutte le forze, finché non cadde rovinosamente all’indietro. Tommaso, dal canto suo, era ancora incollato al suo posto.

Passarono in questo modo diversi giorni: arrivarono in aiuto i vigili del fuoco, la polizia, il soccorso alpino e la protezione civile, ma nessuno riuscì a smuoverlo di una virgola. Una squadra di carpentieri provò addirittura a scavare un enorme buco sotto di lui, senza sortire alcun effetto.Si decise così, in attesa di trovare una soluzione, di costruire una capanna intorno al povero ragazzo: che avesse almeno un po’ di privacy! Gli furono consegnati un cuscino ed una coperta, Clementina gli portava da mangiare e da bere, e dei volontari, mossi a compassione dall’incredibile sventura del giovane, si offrivano di provvedere alla sua igiene quotidiana. Un giorno anche Persefone si affacciò nella capanna, incuriosita dalla strana vicenda che aveva sentito. Tommaso ebbe un sussulto nel vederla in quei pochi secondi in cui si era concessa: era truccata, cosa che non aveva mai fatto quando stavano assieme, e sulla sua faccia rotonda era dipinto tutto intorno al suo profilo un inesorabile “nontivogliopiù - oramenchemeno”.

Scivolarono via i mesi e l’estate si trasformò in autunno. La richiesta di aiuto per quel ragazzo incastrato tra le parole corse di bocca in bocca, arrivò ai giornali, volò alla televisione e, dopo un lungo e imprevedibile giro, un mattino di settembre atterrò sul tavolo della cucina del dottor Bolcarto, professore emerito di semiotica esistenziale, esperto di casi rari, refusi dell’essere e fatti improbabili. Il dottor Bolcarto non ci pensò due volte: prese il primo aereo, atterrò a Monte Aùco e raggiunse la capanna. Si fece largo tra la folla di ficcanaso, sbraitando “dottor Bolcarto! professore emerito di semiotica esistenziale! esperto di casi rari, refusi dell’essere e fatti improbabili!” e sventolando le pergamene di laurea, finché non comparve trafelato di fronte alla

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polizia che sorvegliava l’ingresso. Consegnò i documenti all’ufficiale in comando, e sbuffando per il fiatone si presentò: – Dottor Bolcarto! …puff… professore emerito di semiotica esistenziale! …puff… esperto di…!”– So leggere, so leggere! – tagliò corto la guardia. – Lei crede di poter fare qualcosa per Tommaso?– Io non è che lo credo, – rispose il dottore, ricompostosi. – Io SO di poter fare qualcosa.– E allora prego, si accomodi! Tanto, dopo aver fatto provare gli astrologi, possiamo lasciar provare chiunque.

Trascorse una settimana. Il dottor Bolcarto usciva dalla capanna solo di sera per dormire a casa Cerchioni, ospitato da Clementina, e al mattino presto si rifiondava nella casupola. I giornalisti della rete nazionale, appollaiati come condor, cercavano di strappargli qualche parola durante il breve tragitto quotidiano, ma il dottore si retraeva in una smorfia buia e non lasciava trapelare alcuna indiscrezione.Finché un bel giorno, verso l’ora di pranzo, non accadde quello che nessuno ormai sperava più: Tommaso, col suo muso bianchiccio, fece capolino dalla porta, bagnato di lacrime di gioia, tremolante sulle gambe rinsecchite. A reggerlo sulle spalle stava il dottor Bolcarto, con la camicia rosa madida di sudore e gli occhiali sul punto di cadere.La folla scoppiò in un tripudio festoso, così forte da coprire le sirene dell’ambulanza, accorsa a prelevarlo per offrirgli le cure necessarie.– Come ci è riuscito, dottor Bolcarto? Come ha fatto? – incalzavano i giornalisti, ma il dottore si rimetteva quella maschera buia che aveva mostrato in passato e saliva sull’ambulanza insieme al ragazzo e sua madre.Clementina piangeva dalla gioia: baciava il figlio e gli stringeva la faccia tra le mani, quasi a controllare che fosse proprio lui, tutto intero. Lo accompagnò fin sul ciglio della stanza d’ospedale, da cui dovette restare fuori perché i medici potessero visitarlo.Seduta sulla panca della corsia, ancora commossa ed incredula si rivolse al dottore: – Come ha fatto, dottore? Può dirmelo?– Signora, è semplice: suo figlio era caduto in un buco, io l’ho aiutato a costruirsi una scala.– Come una scala?– Sì, una scala.– E con cosa, che non vi ho visto usare attrezzi?– Non sono mica un falegname, io: sono un professore emerito di semiotica esistenziale, esperto di casi rari, refusi dell’essere e fatti improbabili! Per un buco di parole occorre una scala di parole. E se c’è una cosa che so fare (perdiana se la so fare!) è usare le parole. Ma ci vogliono quelle giuste, non dei lemmetti scialbi qualsiasi! Però la scala non l’ho costruita mica io, non avrei potuto. C’era suo figlio nel buco, e solo lui lo conosce, quel buco. Io gli ho solo dato una mano, fornito gli staggi. I pioli li ha costruiti lui.

Il dottor Bolcarto raccontò a Clementina la vicenda per filo e per segno.

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Dapprima Tommaso non si fidava dell’ennesimo filibustiere dalla faccia gonfia e burbera. Pian piano, per disperazione più che per benevolenza, diede retta al dottore. L’unica cosa che però gli riusciva di fabbricare erano fragili listelli di “Persie Persie Persie Persie”, che si spezzavano appena ci poggiava il piede sopra, facendolo capitombolare gambe all’aria. “Devi partire da quel che hai dentro, da quel che c’è di buono e valido!” gli diceva amorevolmente il dottore.Passarono 6 lunghi giorni, e i due stavano seduti a fissare terra in silenzio, senza pronunciare una vocale, una che fosse una.Al mattino del settimo giorno il dottor Bolcarto entrò nella capanna, ed ebbe modo di tuonare vittoria: bello dritto stava Tommaso, su un piolo granitico che sarebbe resistito al peso di un elefante. Sul piolo campeggiava impavida la scritta “TOMMASO CERCHIONI”. Con lo sguardo fiero e traboccante speranza, iniziò a costruire un piolo dietro l’altro: “GIOELE CERCHIONI”, suo papà, “CLEMENTINA CERCHIONI”, sua mamma, “SATIE”, il gatto che aveva da bambino, “DINO GIUFFRÉ”, suo amico di infanzia che ora lavora al servizio elettrico. Gli ultimi quattro pioli li costruì con le passioni sepolte che voleva ora riabbracciare, “ARMONICA”, “BILIARDINO”, “FUMETTI”, e con la strada che aveva scelto di seguire, “VETERINARIO”. Era arrivato in cima al buco: ora gli toccava trovare il modo di riaprire la fessura in cui era scivolato. Provò ad infilare le dita, ma si era ormai ristretta troppo per farcele entrare. Occorreva un punteruolo, per fare leva ed allargarla.

– E qui signora, glielo confesso, suo figlio mi ha stupito.– Perché, cosa ha fatto?– Ha iniziato a impastare questo stiletto sottile sottile, infilando una dietro l’altra la p la e la r la s la e la f la o la n la e. PERSEFONE. Io gli dicevo che non poteva funzionare, che il dolore che aveva provato era troppo grande, che con tutto quel che era successo non poteva essere abbastanza resistente. Si sarebbe spezzato come era successo coi primi listelli. Lui mi ha risposto così…

In quel momento si aprì la porta della camera di ospedale, e uscì Tommaso. Aveva ripreso colore e peso, e si reggeva comodamente sulle gambe muscolose. Messosi a sedere accanto alla madre, con luce albeggiante negli occhi terminò la risposta: – Nonostante quello che può aver fatto, detto o che può essere accaduto, io ho conosciuto il cuore di Persefone. Io ho amato il cuore di Persefone. Anche quando se ne è andata, o quando è ricomparsa, dietro quelle parole tetre che portava addosso e che mi facevano a brandelli, io vedevo, tra le lettere scure e velenose, un’altra parola, una parola che non so pronunciare. Una parola vera e bellissima e scintillante, che mi faceva ribollire ed esplodere un fuoco dentro. L’amore per quella unica parola non potrà essere distrutto o cancellato da nulla, e ci sarà per sempre. Perché niente ha fine, mamma. Tutto si trasforma.

Dovettero passare diverse settimane perché nel piccolo paese di Monte Aùco potesse tornare la solita quiete. Una volta smantellata la capanna e diradata la folla di curiosi,

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le macchine ripresero a circolare sotto il condominio dei Cerchioni.Il dottor Bolcarto passava di tanto in tanto a fare un saluto a Clementina, che invecchiava serena e allegra nonostante un problema alla retina che l’avrebbe resa pian piano cieca.Tommaso, scrollatosi di dosso tutta quella faccenda del mondo fatto di parole, era diventato un bravo e benvoluto veterinario, e suonava l’armonica per le strade, quando non aveva da vaccinare un cane, da andare in campagna ad aiutare una mucca a partorire o da partecipare ad un torneo di biliardino con gli amici.A volte si scopre a chiedersi se Persefone tornerà. Si risponde che non ne ha idea ma che, in fondo, ne sarebbe contento. Ancora oggi, se passate per Monte Aùco, potreste sentire una dolce melodia che lo segue in qualche vicoletto, mentre passeggia con Clementina sottobraccio, o mentre esce dal giornalaio con un nuovo fumetto in mano. E se lo osservaste con attenzione lo scorgereste buttare, di tanto in tanto, un’occhiata per terra. Così, per sicurezza, a controllare che quei crepacci non ci siano più, e se ci sono se si vanno ingrandendo o rimpicciolendo per, nel caso, cambiare strada.Crepacci in cui i nostri piedi sono troppo grandi per finire dentro.

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In un’isola norvegese dell’arcipelago delle Svalbard, a circa un migliaio di chilometri dal Polo Nord, non troviamo più la casetta di Babbo Natale… ma qualcosa che è il regalo più grande per il nostro pianeta: un posto dove conservarne la vita. Parliamo dello Svalbard Global Seed Vault, una delle più importanti banche di semi al mondo, il cui scopo è custodire il "patrimonio genetico tradizionale" delle sementi e scongiurarne un’eventuale perdita per cause naturali o umane.

I giornalisti più fantasiosi (oltre ad una buona quantità dei soliti complottasti) l’hanno chiamato “il Deposito dell’Apocalisse”… e in effetti la sua costruzione nel 2006 ha sollevato numerosi dubbi e confusioni. Alcuni hanno gridato alla cospirazione: perché cercare di salvare il maggior numero possibile di varietà agricole, se non perché è in arrivo una minaccia globale, un cataclisma, se non addirittura un asteroide o un’invasione extraterrestre? Ma, a guardarsi bene in giro, le banche dei semi non sono una novità: ne esistono a centinaia, sparse in tutto il mondo, e anche la nostra Italia vanta qualche decina di piccole banche nelle sue regioni. In queste strutture possiamo trovare depositi ex situ di semi, con lo scopo di preservare la varietà biologica globale e la sicurezza di poter riprodurne gli alimenti. Nessun allarmismo quindi!E tuttavia, lo Svalbard Global Seed Vault ha una particolarità: l’ubicazione estrema. Di questo deposito si vede solo l’ingresso: la struttura è situata all’interno di una montagna di arenaria, con un tunnel scavato per 130 metri che termina in tre enormi grotte, al riparo in caso di scioglimento dei ghiacciai. Ed è proprio la presenza di questi ultimi che garantisce il successo della banca. Infatti, anche in caso di guasto all’impianto energetico, la temperatura verrebbe mantenuta costante dal permafrost, ossia un terreno tipico delle regioni dell'estremo nord che risulta perennemente ghiacciato.

Di fronte a drastici mutamenti ambientali, col rischio che guerre o errori umani modifichino in brevissimi tempi l’assetto delle nostre terre, è chiaro il bisogno di voler preservare la risorsa primaria per eccellenza: il cibo, e quindi i semi che ne danno frutto. Ma non pensiate che questa “arca di Noè” sepolta tra i ghiacci dell’Artico

diArianna Pesaresi

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possa essere utilizzata solo in situazioni di estrema emergenza! Il termine della costruzione del deposito nelle Svalbard è stato il 2008, e pochi anni dopo è avvenuto il primo prelievo. E no, non a causa di distruzioni apocalittiche o terze guerre mondiali - ma qualcosa di simile, sì. A farne richiesta nel 2015 è stata l’ICARDA, responsabile della banca delle sementi di Aleppo, in Siria. Le varietà locali siriane infatti erano a rischio: le banche di Aleppo e Damasco erano andate distrutte, e le sementi inviate dai paesi esteri come aiuto umanitario stavano sostituendo le colture precedenti. Per questo ICARDA ha chiesto al Global Seed Vault i circa 116.000 semi depositati in precedenza nel bunker, tra cui alcune varietà di orzo e grano particolarmente adatte al clima arido, per stimolare il recupero dell’agricoltura locale.

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FOCUS: LE BANANE

NON HANNO SEMI!A chi non piacciono le banane? Di questo frutto così godurioso, forse però non tutti avranno notato la particolarità: esse sono completamente prive di semi. Allora come possiamo continuamente andare a comprare Chiquita al supermercato? La spiegazione alla (mancata) riproduzione delle banane è molto semplice in realtà: tutte quelle che noi mangiamo sono triploidi, frutto di incroci tra banane tetraploidi e diploidi. Senza sbrodolarci in dettagli di genetica, il succo del discorso è che una banana triploide non riesce a produrre gameti bilanciati, risultando sterile e priva di semi. Quindi, per creare nuovi banani, prima di abbatterne uno per la raccolta dei suoi frutti ne viene prelevato un ramo; questo sarà poi ripiantato, e da quel ramo nascerà un nuovo banano che darà nuovi frutti. Ciò significa che tutte le banane che mangiamo sono frutto di una clonazione! Attualmente abbiamo sul mercato la varietà Cavendish, ed essendo banane prodotte senza incroci sono tutte geneticamente molto simili tra loro. Ma una bassa variabilità genetica comporta un’elevata vulnerabilità agli agenti patogeni, per mancanza di sviluppo di geni che inducano resistenze. Tant’è che oggi mangiamo banane diverse dai nostri nonni: fino agli anni 50 esisteva la varietà Gros Michel, che però andò incontro alla quasi totale estinzione a causa di un fungo che distrusse la maggior parte delle coltivazioni mondiali. Saranno necessarie tecniche di ingegneria genetica per salvare la varietà Cavendish, e garantire a ciascuno di noi una buona dose quotidiana di questo frutto prelibato (e anche della piccola quantità di radiazioni che si porta dietro… ma questa è un’altra storia!)

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ARIETEGli ormoni impazziscono! Ma

quest’anno la vostra spasmodica ricerca di amori primaverili vi lascerà con in

mano un pugno di polvere. O di pollini.

Stufi di selezionare lo zucchero alle macchinette, per poi ritrovarvi una

pappetta marrone di puro saccarosio? Convertitevi direttamente al Borghetti.

Ora che i Marò stanno tornando a casa, non sapete più a chi pensare ogni giorno. Provate con le ruspe di Salvini - risollevano il morale (almeno quello).

Aserejé ja de jé de jebe tu de jebere sebiunouva majabi an de bugui

an de buididipí.

Vi aspetta un mese pieno di sacrifici. Fatevi spazio nel freezer tra 'nduja e melanzane fritte del

coinquilino terrone: troverete qualche capretto&pentacolo adatto al momento.

Lapidare il compagno di corso che non vi passa gli appunti ha un dispendio

calorico pari a quello di un’oretta di total body workout. Provare per credere.

OROSCOPO

TORO

E GEMELLI

CANCRO

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VERGINE

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Ogni mattina, a Bologna, uno studente si sveglia e inizia a correre perché ci

sono 400 pagine di programma ancora da studiare. Fuggite, sciocchi!

Tutte pronte a correre in spiaggia e sfoggiare il vostro meraviglioso corpo

da sesta seduta di chemioterapia! Indossate un bikini blu plutonio,

è il colore di quest’anno.

Al prossimo appello sfoggerete un eloquio eccellente, pari a certe imprese

del grande Luca Giurato. Giuro davvero, andrà benissimo!

Programmate le vacanze lontano dal turismo di massa e da tutta quegli gente snob finta intellettuale. Bravi. A quando

la vostra partenza per Rivarolo Mantovano?

L’amore è un gioco? Forse. Al momento, la SNAI quota a zero assoluto la vostra possibilità di rimorchiare l'ultima tipa bona

conosciuta in aula studio. Try again!

Accumulare piccole quantità di denaro centellinando i resti della spesa potrebbe distogliervi dall’accumulare ingenti quantità di denaro diventando

schiavi del SSN. Rifletteteci.

SCORPIONE

BILANCIA

SAGITTARIO

CAPRICORNO

ACQUARIO

PESCI

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In vista della sessione...gli astrivi augurano pochi disastri!

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L’IFMSA (International Federation of Medical students’ association) è la federazione nazionale delle associazioni di studenti di medicina a cui il SISM appartiene quale full member.A livello nazionale il SISM è composto da tre cariche elettive che per la sede locale corrispondono a:

INCARICATO LOCALEAMMININISTATORE LOCALESEGRETARIO LOCALE

Che regolano e promuovono le attività di 4 grandi aree

tematiche che sono date da:

SCOMECommissione stabile sulla pedagogia medica; corrisponde alla LOME locale

SCOPH Commissione stabile sulla salute pubblica; corrisponde alla LPO locale

SCORPCommissione stabile sui diritti umani e pace; corrisponde alla LORP locale

SCORA Commissione stabile su salute riproduttiva ed AIDS; corrisponde alla LORA locale

-clerkship italiane -ospedale dei pupazzi -clown therapy -corso prelievi -corso suture - famulus nursing

-giornate di sensibilizzazione e prevenzione -conferenze su temi inerenti donazione degli organi,midollo osseo

-Calcutta Village project -Wolisso project

-world AIDS day -giornata internazionale per la donna

A questi 4 comitati permanenti si affiancano i 2 comitati:

SCOPE Professional Exchange

Promuove l’internazionalità e la collaborazione tra studenti attraverso l’espletamento di un tirocinio che si inserisce in un sistema sanitario diverso da quello italiano. A livello locale i Professional Exchange sono gestiti dai LEO (Local Exchange Officer).

SCORE Research Exchange

Area che permette agli studenti di recarsi presso una Università straniera e frequentare un dipartimento che conduce un dato progetto di ricerca. A livello locale i Research Exchange sono gestiti dai LORE (Local Officer on Research Exchange).

COS'È IL SISM

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Oroscopo - Arianna PesaresiImpaginazione - Roberto PerissinottoCaporedattore - Roberto Perissinotto

SISMagazine non ha valore periodico

Stampato con il contributo dell'Alma Mater Studiorum,

Universita' di Bologna

Contatti:

mail: [email protected] facebook: SISMagazinereferente: Roberto Perissinotto

Un ringraziamento a tutti i collaboratori.

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