Servir - jrsmena.org · Eppure le persone che entrano irregolarmente in Germania, senza i documenti...

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Servir Servir Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati No. 22 Ottobre 2001 Il JRS desidera attirare lattenzione del mondo sul dramma dei rifugiati le cui cause sono state rimosse dallattenzione internazionale. Sono milioni e vivono vite dimenticate ai margini del nostro mondo. Dichiarazione rilasciata in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, 20 giugno 2001

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1OTTOBRE 2001

ServirServir

S e r v i z i o d e i G e s u i t i p e r i R i f u g i a t i

N o . 2 2 O t t o b r e 2 0 0 1

Il JRS desidera attirare l�attenzione del mondo sul dramma dei rifugiati lecui cause sono state rimosse dall�attenzione internazionale. Sono milioni evivono vite dimenticate ai margini del nostro mondo.

Dichiarazione rilasciata in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, 20 giugno 2001

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Vivere ai maIn Germania, il JRS assistei migranti che conduconoun’esistenza priva di diritti.Un altro ministero diimportanza crescente è ilsupporto fornito airichiedenti asilo indetenzione. L’équipe delJRS racconta le sfideaffrontate dai rifugiati, imigranti e i detenuti.

Ahmed è arrivato in Germania nel 1998. Palestineseproveniente dal Libano, desiderava ricongiungersicon il fratello, reso gravemente disabile a causa di

ferite di guerra. Il fratello di Ahmed ha un permesso disoggiorno permanente che gli consente di vivere inGermania; Ahmed non lo ha. La sua richiesta di asilo èstata respinta e deve rientrare in Libano, alla vita nei campiprofughi. Ahmed crede che tornando non avrà un futuro.Così ha deciso di rimanere in Germania illegalmente. Nonc’è dubbio che la decisione più umana sarebbe stata quelladi consentire ad Ahmed di rimanere con suo fratello e diprendersene cura. Ma la legislazione non lo permette.

Ahmed è uno dei cosidetti “irregolari”, ovvero circa unmilione di persone, in Germania, prive di un permesso disoggiorno. Perché qualcuno dovrebbe scegliere di vivereillegalmente in uno stato straniero? Molti dei migranti senzadocumenti sono richiedenti asilo la cui domanda è statarigettata. Hanno paura di tornare nel proprio paese di prove-nienza tanto da preferire il rischio di vivere “illegalmente”.Altri, alla disperata ricerca di migliori condizioni di vita,entrano nell’Unione Europea (UE) senza un visto d’ingresso,perché ottenerne uno è per loro virtualmente impossibile.Altri ancora, raggiungono familiari che già risiedono inGermania. E infine ci sono persone alle quali è stato promessoun buon lavoro e che, arrivati nella nazione si ritrovanocoinvolte nel giro della prostituzione.

La ricerca del JRS sui migranti irregolari, Irregolari inGermania, rivela che essi rispettano le leggi della società,con l’ovvia eccezione della mancanza di permesso disoggiorno o di lavoro, a causa del timore di essere scoperti.Comunque sono esclusi dalla vita politica e sociale; la“illegalità” è considerata un crimine.

Così i migranti privi di documenti mantengono un basso profilo.Nonostante ciò, quando affrontano situazioni difficili, non hannoaltra scelta se non quella di rivelare il proprio status. È inmomenti come questi che hanno bisogno del sostegno delleONG, come il JRS. Come nel caso di Mohammed che èarrivato dalla Siria in Germania negli anni ’60 e che ha vissutoqui per oltre 20 anni, senza grossi problemi benché privo didocumentazione valida. Di recente, si è ammalato gravemente.Fortunatamente, il dottore ha accettato di curarlo gratuita-mente. Ma cosa succederà la prossima volta che si ammalerà?

Tecnicamente, tutti hanno diritto all’assistenza sociale in casodi malattia, il diritto di frequentare la scuola se minori (almenoa Berlino) e il diritto ad una giusta retribuzione. Ma per imigranti irregolari questi diritti diventano nulli a causa di unacondizione: gli assistenti sociali, i presidi, i giudici devononotificare all’Ufficio Stranieri l’irregolarità dello statusgiuridico dei loro utenti. I migranti irregolari mostranoriluttanza ad usufruire dei diritti loro concessi perché cosìfacendo potrebbero scrivere la parola fine alla loro vita inGermania. Quando hanno mal di denti o una gamba rottapreferiscono curarsi da soli. Quanto vale un diritto di cui inrealtà non si può beneficiare? Considerando la dignità umanadi ciascuno come indipendente dal suo status, si possonolimitare i diritti di una persona a causa del suo status giuridico?L’obbligo dei professionisti di notificare alle autorità lapresenza di irregolari deve essere abolito.

Coloro che offrono assistenza ai migranti irregolari corrono,anch’essi, il rischio di subire condanne. Alla fine dello scorsoanno, il JRS ha presentato al parlamento federale unapetizione per il sostegno ai migranti irregolari e a coloro cheoffrono loro assistenza. Nel frattempo, continuiamo a servirei migranti privi di documentazione e a difendere la loro causa.

Senza diritti: migranti irregolari in Germania

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rgini della comprensione pubblicaUna casa per molte nazioni

Cercare protezione dalla persecuzione non è unaviolazione della legge. Anche entrare in uno statoper chiedervi asilo senza avere documenti validi non

è un crimine. Eppure le persone che entrano irregolarmentein Germania, senza i documenti giusti, vengono detenuteanche se manifestano la volontà di chiedere asilo. In questicasi la detenzione non è intesa come punizione ma, sempli-cemente, come uno strumento attraverso il quale l’Ufficostranieri controlla chi, potenzialmente, dovrà deportare. Inogni caso, i detenuti vivono la detenzione come una punizioneingiusta. Il nostro lavoro nei centri di detenzione ci spinge asensibilizzare il pubblico sulle sofferenze vissute dai detenutie a lottare perché questa politica cambi.

Alcuni trascorrono in Germania solo pochi giorni prima diessere arrestati. A Berlino, la polizia controlla sistematica-mente che le persone siano in possesso di documenti validi,e alcuni richiedenti asilo vengono arrestati ancora prima diessere riusciti a trovare “l’Ufficio asilo”. Tra gli altri detenutivi sono persone che hanno vissuto in Germania per anni,con o senza documenti, come anche persone che hanno giàsubito una deportazione e che sono tornate per la secondae, in alcuni casi, per la terza volta.

Una volta in carcere, i detenuti non sanno quando verrannorilasciati e su di loro pesa uno stato d’incertezza. “Qui nes-suno può essere felice. Non sappiamo quello che succederàdomani. Se un uomo è stato condannato a due anni didetenzione, sa che se ne andrà quando avrà finito di scontarela sua pena”, ha detto uno dei detenuti. “Ma noi non abbiamosperanze perché non sappiamo come funzionerà per noi”.La vita quotidiana in detenzione è “guardare la televisione,dormire, mangiare”. “Ci sono giorni nei quali passeggio, rido,gioco a carte e ce ne sono altri durante i quali mi sdraio sulletto e divento quasi come un filosofo”, ha raccontato undetenuto. “A volte dormo soltanto mezz’ora per notte. Sipensa troppo”, ha aggiunto un altro detenuto.

Gli operatori del JRS visitano regolarmente centri di detenzionea Berlino, Eisenhuttenstadt e Monaco, che ospitano circa 550detenuti. Dal momento che siamo gli unici ad avere il permessodi visitare i detenuti nelle loro celle, ci viene chiesto di tradurrei documenti. Inoltre, li aiutiamo ad appellarsi contro le decisioniriguardanti l’asilo e la detenzione. Quando terminiamo il lavorocon i documenti, parliamo con i detenuti delle loro preoc-cupazioni e sentimenti. Le celebrazioni religiose settimanali,organizzate dal JRS, sono occasioni di incontro tra persone enon tra numeri. Un momento per ricordarsi che le nostre vite

“ Ci sono giorni durante i quali ti sdrai sul letto ecominci quasi a filosofeggiare. Pensi, pensi... pensialla tua ragazza, ai tuoi amici, alla tua vita passata.È una punizione, una maledizione o cosa?

GERMANIA

sono nelle mani del Signore, sebbene possa sembrare chesiano esclusivamente nelle mani dei funzionari e dei giudici.Distribuiamo carte telefoniche ai detenuti in modo che possanotelefonare agli amici, alla famiglia, agli avvocati. “Il primomese non facevo altro che telefonare, telefonare in Africa,telefonare ovunque, perché avevo, e ho ancora, nostalgia perla libertà che c’è fuori”, ha spiegato uno dei detenuti.

In Germania, non ci sono campi nei quali vivono migliaia dipersone. Di solito non c’è bisogno di alloggio d’emergen-za o di cibo. Ma le nostre leggi, le procedure giudiziarie e ilgoverno creano enormi difficoltà ai rifugiati e ai migranti.La loro situazione richiede una risposta specifica che il JRScerca di dare in linea con il nostro mandato di servire i rifu-giati, accompagnarli e difendere i loro diritti.

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L�educazione del cuoreStephen Power SJ

Fr. Power ha terminatoil suo incarico comedirettore del JRS Africaorientale quest’anno,dopo più di quattro annidi servizio. Riflette suglisviluppi avvenuti nellaregione e sullanecessità di rimanerefedeli alla visione delJRS, ovvero dedicarsi aservire i rifugiati.

Insisto sempre sulla necessità, pergli operatori del JRS al termine delloro incarico, di guardare agli aspetti

positivi della loro esperienza, così cer-co di fare lo stesso. Un atteggiamentopessimista deve essere rimproverato e,nella realtà, è messo a dura prova dacosì tanti rifugiati che conservano unapositiva mentalità da “sopravvissuto”.

Tutti i risultati si trovano nei progetti.Facciamo cose eccellenti: l’istruzionein Uganda e nel Sudan meridionale;contributi nella radio, negli asili e nellavoro pastorale in Tanzania; i servizisociali e le borse di studio nel campo diKakuma, Kenya; e il lavoro nei centriurbani a Addis, Nairobi, Kampala.

Nel 1998, abbiamo lavorato per renderela nostra missione più chiara per glioperatori. Privato del valore della mis-sione, il nostro lavoro perde di signi-ficato. Il servizio ai rifugiati è una operadel Vangelo, non è completo se nonpreghiamo e riflettiamo sulla nostraesperienza. Senza questa convinzione,ci rimangono esclusivamente le nostre“competenze professionali” che, dasole, non rendono semplice il nostroimpegno per i rifugiati.

La storia di un rifugiato è dura e amarase non si prende in considerazione il

cuore della persona. Mi ricordo di unadonna che gestiva un ostello per senzafissa dimora in Texas. Diceva sempre:‘Ci deve essere insegnato come ama-re’. Il nostro lavoro è l’educazione delcuore. Dobbiamo continuare a sentirel’impatto che le difficoltà della vitahanno sulle persone. Questo significache continueremo ad essere una piccolaorganizzazione cosicché la naturapersonale del lavoro non vada perduta.

La più intensa sensazione di debolezzaè causata dal sapere dell’esistenza dimolti rifugiati non raggiunti. C’è la con-sapevolezza della necessità di compiereulteriori ricerche, studi e azioni sullequestioni di politica generale. Potrebbeessere fatto di più migliorando il lavorodi rete con le altre organizzazioni chelavorano per la difesa dei diritti umani,soprattutti con i gruppi legati alla chiesa.Abbiamo anche compreso che è neces-sario compiere un’analisi del contestonel quale operano i nostri progetti.

Qual è il quadro dello sfollamento for-zato nella regione in questo momento?La situazione di crisi delle popolazionidel sud Sudan e dei Grandi laghi è croni-ca. La guerra in Sudan si sta, in manieracrescente, trasformando in un conflit-to incentrato sulle risorse petrolifere, enon è prevedibile una pace durevole.

Le continue discussioni a proposito delrimpatrio dei rifugiati in Burundi sonocontrobilanciate dal peggioramento del-le condizioni in quella nazione. È finitoil periodo idilliaco del nuovo governodella Somalia e nessuno prevede unasua miracolosa rinascita. La disputa traEtiopia ed Eritrea sembra soltanto infase di “attesa”.

Se si analizzano i tradizionali indicatorisociali ed economici, le prospettivesono tetre. Ma dobbiamo ricordarci cheil pessimismo non distrugge la speranzae con la vitalità di così tante e vibrantireti sociali, le persone possono otteneredei risultati anche se il suolo, per il fu-turo, sembra “un terreno roccioso”.

Rifugiati burundesi, campo di Mtendeli, Tanzania

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Mio figlio, Kandeepan, è stato uc-ciso durante le rivolte di Banda-

rawela. Kandeepan era stato arrestatoad agosto sulla base del sospetto dilegami con le Tigri per la Liberazionedel Tamil Eelam (LTTE). Prima è statotrattenuto in una stazione della polizialocale. Andavo a trovarlo regolarmente,ma, all’improvviso, è stato portato aBandarawela. Dopo qualche tempo miha scritto che stava bene. Il suo unicorammarico era, mi ha scritto, quello di“non essere con te”.

Gli rispondemmo dicendo che saremmoandati da lui dopo Diwali (la Festa delleLuci). Avevo programmato di visitarloil 25 ottobre, ma quello stesso giornoscoppiarono le rivolte. Avevo contattatola commissione per i diritti umani localeper vedere se potevo andarlo a trovare,ma mi hanno raccontato della rivolta emi hanno detto di non preoccuparmi

Il 25 ottobre 2000, una folla di cingalesi ha attaccato il centro diriabilitazione di Bandarawela, in Sri Lanka, uccidendo 29 detenuti tamil.Una delle vittime era il figlio di Sivamalar. Forti accuse di complicitàdella polizia di presidio nel campo hanno spinto le organizzazione peri diritti umani a chiedere un�indagine indipendente sulle uccisioni.

perché mio figlio era solo ferito. Sonoandata da ICRC (International Commi-tee of the Red Cross) che ha confer-mato che Kandeepan era stato ferito.Ma poi, circa alle 9 di sera, hannoportato a casa il suo cadavere, mutilato,la faccia irriconoscibile. Kandeepan ciaveva spedito una sua foto proprio ilgiorno prima di morire.

Un altro mio figlio, Prakash, è stato uc-ciso nel 1997. L’esercito gli ha sparatosenza motivo, non lo avevano neanchearrestato. Aveva 17 anni. A quellaepoca vivevamo nella regione di Vanni;eravamo andati via da Jaffna. Nonappena Prakash è stato ucciso, siamovenuti qui a Trincomalee perché vole-vamo mettere in salvo gli altri bambini.Avevo sette figli. Ora il mio terzo equarto figlio non ci sono più.

Due dei figli non ci sono più

Parlano ledonne sfollateSi stima che l’80% dei rifugiati nel mondo siano donne e bambini. Nel

marzo 2001, il JRS ha lanciato un libro War has changed our life,not our spirit (La guerra ha cambiato le nostre vite, non il nostro spirito),una raccolta di storie di donne e su donne che hanno sofferto a causadella guerra e dello sfollamento forzato. Scopo del libro è essere unmezzo attraverso il quale le donne possono raccontare le loro storie, ildolore e le speranze. È anche uno spazio nel quale altri possono raccontarecome sono stati toccati dalle vite delle donne rifugiate che hannoincontrato. Speriamo che questa raccolta possa essere uno strumento disensibilizzazione sulle donne in quanto categoria di rifugiati che dimostraforze particolari e che richiede una protezione e un’assistenza specifica.Per ricevere una copia del libro contattare l’ufficio internazionale delJRS a Roma (vedi pagina 12).

Sivamalar, una donna sfollata aTrincomalee, Sri Lanka orientale

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SRI LANKA

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Kinama sotto il fuocoJoaquín Ciervide SJ

In Burundi, violenze e sfollamenti sono diventati di routine per i civili che hanno sofferto per anni acausa della guerra civile. Un recente attacco dei ribelli nel distretto di Kinama, nei pressi dellacapitale, Bujumbura, ha causato lo sfollamento di più di 50.000 persone. P. Ciervide descrive lamiseria degli sfollati e i servizi di emergenza del JRS.

Il Burundi continua a soffrire a cau-sa della guerra, così come noi, inAfrica, soffriamo a causa della

malaria. Gli attacchi sono sporadici mafrequenti, di breve durata ma feroci.Possono non essere letali, ma ognunodi essi indebolisce il fisico un po’ di più.

Il conflitto è alimentato dagli attacchiperpetrati dai ribelli estremisti hutu –Forces pour la defense de la demo-cratie (FDD) e le Forces nationalesde liberation (FNL) – che utilizzanotattiche di guerriglia per ostacolare ildialogo in corso nei negoziati di pace diArusha. I negoziati hanno lo scopo diporre termine alla guerra civile in attoin Burundi da sette anni, che ha causatola morte di centinaia di migliaia dipersone e lo sfollamento di più di unmilione di altre. Nelson Mandela, il me-diatore di pace, ha fatto forti pressionisui negoziatori affinché raggiungesserogli obiettivi che si erano posti, ma gliattacchi dei ribelli e le rappresagliedell’esercito dominato dai tutsi conti-nuano, con i civili che cadono vittimedel fuoco incrociato.

A febbraio e a marzo di quest’anno,ha avuto luogo uno di questi scontri.Sapevamo che i ribelli si nascondevanonelle piantagioni di caffè di Tenga, a20 km da Bujumbura. Il 24 febbraio, dinotte, hanno attaccato Kinama, a norddella capitale. Hanno stabilito il loroquartier generale nella parrocchia cat-tolica. Atterriti dallo scontro a fuoco, iresidenti sono fuggiti.

A Bujumbura, nel giro di poco tempo,la situazione è diventata drammatica.

Il conflitto armato infuriava all’internodella città e si stima che circa 50.000persone si siano improvvisamenteritrovate senza casa, sfollate dagliattacchi su Kinama e altrove.

Nel distretto di Buterere, a cinque kmda Kinama, dove il JRS offre i propriservizi alla popolazione locale, sonoarrivate circa 10.000 persone che cer-cavano un rifugio. Molti hanno chiestoaiuto e sono stati accolti dalle famigliedel luogo.

Sapevamo di dover aiutare gli sfollatiche si trovavano in una situazione ditotale scompiglio. Non avevano nulla:tutto ciò che avevano portato con loronella fuga era quello che erano riuscitia trasportare sulle loro teste. Gli sfollaticontinuavano a lamentarsi per la famema le autorità della città avevano proi-bito la distribuzione di cibo. Abbiamoaggirato il divieto distribuendo riso,fagioli, zucchero e sale alle famiglie checonoscevamo e che li ospitavano.

Centinaia di persone si sono rifugiate nelcentro del JRS. Non potevamo incorag-giarli a venire da noi perché le autoritàavevano proibito la creazione di nuoviinsediamenti, ma difficilmente li avrem-mo potuti mandar via. Quattro giornidopo l’attacco su Kinama, abbiamoalloggiato più di 100 persone. Il giorno

dopo, ce ne erano 300 e il giorno succes-sivo 800. Grazie alle ONG che hannodonato teli di plastica e legno, abbiamocostruito due ripari e scavato latrine.

Anche una nostra équipe del progettoper la lotta all’Aids è stata mobilitataper dare sostegno agli sfollati. Accan-tonando le sue usuali attività di sen-sibilizzazione, l’équipe ha avviato unservizio di emergenza. Più di 200 per-sone sono state visitate gratuitamenteogni giorno, i pazienti erano princi-palmente bambini colpiti dalla diarrea.Sr. Chantal Gérard, direttore delprogetto per la lotta all’Aids, ha aiutatoa coordinare l’evacuazione dei civiliferiti dalle pallottole e i casi di colera.

L’intensità della nostra attività ha resopiù facile non pensare alla paura chesentivamo e alle esplosioni e al rumoredei colpi di arma da fuoco che prove-niva da Kinama. Il 28 febbraio, durantela notte, molte persone erano troppospaventate per dormire. Più tardi abbia-mo saputo che gli assalitori avevanopreso di mira il Palazzo di Kiriri, laresidenza presidenziale, e che, dopoaver fatto più rumore che altro, si eranoritirati a Kinama.

Ogni mattina si discutevano, durantegli incontri con OCHA (l’Ufficio delleNazioni Unite per il Coordinamentodegli Affari Umanitari), le strategie perassistere i nuovi arrivati. Presto, il pro-blema più urgente divenne la distribu-zione di cibo. Ma la preparazione delleliste per una distribuzione pianificataper 30.000 persone, si è rivelata un’im-presa ardua. Il 6 marzo, il Programma

“ Sapevamo di dover aiutare glisfollati che si trovavano in unasituazione di totale scompiglio.Non avevano nulla.

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BURUNDI

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Alimentare Mondiale ha distribuitoalimenti a Buterere. Ma la distribuzioneha avuto luogo soltanto quella volta, acausa della mancanza delle condizionidi sicurezza.

Oltre ad occuparsi dei servizi di emer-genza, il JRS ha rivolto l’attenzione aibambini che non potevano frequentarela scuola a causa del protrarsi delconflitto. Due operatori del JRS nelcampo dell’istruzione hanno reclutato40 giovani sfollati che, a loro volta,hanno preparato liste di 20 bambiniciascuna. L’idea era di organizzare igiovani in modo che si prendesserocura dei bambini per due ore al giorno.Scuole d’emergenza sono state cos-truite, velocemente, in diverse strade,per poi esere chiuse solo pochi giornidopo a causa dell’approssimarsi degliscontri.

Due giorni dopo lo scoppio delle vio-lenze a Kinama, agli sfollati è statodetto di tornare a casa. I leader del dis-tretto di Buterere sono andati in giroper le strade con i megafoni, invitandogli sfollati a tornare a Kinama visto chela situazione si era calmata. Soltantochi era proprietario di una casa si èavventurato a Kinama per verificarelo stato della sua proprietà. Quandosono arrivati lì, hanno assistito a scenedi distruzione: più di 200 cadaveriabbandonati, muri e tetti crollati.

Quelli che non avevano nulla da met-tere in salvo non erano intenzionati arientrare; avevano soprattutto dubbisulle condizioni di sicurezza a Kinama.Pochissimi sono tornati, mentre circa700 sono rimasti. Il 17 marzo, i soldati,di notte, hanno svegliato gli sfollatiordinando loro di lasciare Buterere im-

mediatamente e di tornare a casa. Isoldati li hanno minacciati dicendo loroche, se si fossero rifiutati, avrebberodato alle fiamme i loro poveri averi. Laminaccia ha costretto le persone adobbedire. Poco dopo, soltanto un’anzia-na donna molto coraggiosa è rimastanel nostro centro. Ci ha detto di staretroppo male per partire per Kinama.Verso la fine di marzo, OCHA ha stima-to che il 75% degli sfollati era rientratonelle proprie abitazioni. Abbiamo chiusoo ridotto i programmi di emergenzaavviati per loro e siamo tornati ad oc-cuparci delle nostre attività normali.

In ogni caso, non potevamo dimenti-carci della popolazione di Kinama e cisiamo domandati cosa potevamo fareper queste vittime di guerra. Abbiamorivolto la nostra attenzione al centromedico di Kinama, aperto subito primadello scoppio del conflitto. Quando gliscontri sono terminati, nel centro man-cavano mobili, lavandini, lampadine etutto l’equipaggiamento medico. Unmissile aveva lasciato una grande ca-vità nel muro, facilitando il lavoro deisaccheggiatori. Due altri proiettili ave-vano danneggiato il tetto. Quattro reli-giose di Bene Tereziya, che gestivanoil centro, erano fuggite.

Ora il JRS sta cercando il personaleper il centro che verrà ricostruito daun’altra ONG. In quello che rimanedell’edificio, Sr. Chantal effettua unamedia di 200 visite gratuite al giorno.Con l’aiuto del personale medico, cheaveva smesso di lavorare quando sonoiniziati gli attacchi, stiamo aiutando lapopolazione di Kinama a ricostruire leproprie vite.

Joaquín Ciervide SJ è ildirettore regionale delJRS Grandi Laghi

Vittime della guerra civile in Burundi: più di 800 persone hanno cercatorifugio nel centro del JRS a Buterere quando sono sfollate dal distretto diKinama, insieme ad altre migliaia, a causa di un attacco dei ribelli.

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�Ce ne stiamo seduti qui...�Più di un milione e mezzo di persone non sono tornate alle loro case nell’Europa sudorientale daquando ne sono state cacciate dai conflitti etnici. Molti di loro hanno trascorso anni in piccoli campiin condizioni precarie, preoccupati all’idea di tornare a casa, non ultimo per il timore di rappresaglie.

Danielle Vella

Qui non c’è niente, in Croazianon c’è niente. Il giovanerifugiato di etnia serba riassu-

me lucidamente le sue prospettive peril futuro, seduto nella spoglia cucinacomune di un “centro collettivo” inSerbia. Il centro è diventato la casa diJovan da quando, nel 1995, la sua fa-miglia è fuggita dalla guerra in Croazia,insieme a moltri altri abitanti delvillaggio di Skradin.

È piuttosto facile capire la verità dellaaffermazione di Jovan a proposito diciò che lo circonda. Trentasei rifugiativivono in una sola stanza di un edificiosquallido, costruito originariamente perservire da alloggio per i braccianti chelavorano nei vicini campi. I rifugiatipotrebbero essere sfrattati in qualsiasimomento dalla compagnia che possiedei locali. Ogni famiglia ha un letto dacampo, con una coperta avvolta intornola rete metallica, e tiene i propri averiammassati in casse sotto i letti. Unavolta qui vivevano 82 famiglie.

Ci sono circa 650 centri collettivi in Ser-bia e Montenegro, che ospitano circa26.000 del mezzo milione di rifugiati esfollati interni, in maggioranza di etniaserba, provenienti dalla Croazia, dalla

Bosnia e dal Kossovo. I centri varianoper condizioni di vita, ma molti di essisono affollati e poveri di mezzi, in gradodi offrire solo servizi minimi. Nell’otto-bre 2000 l’UNHCR ha diminuito dras-ticamente l’assistenza per i rifugiati inSerbia e Montenegro, così al momentosono disponibili solo fondi destinati a“aiuti salva-vita”, come il riscaldamentoe il cibo. Il JRS offre dei servizi, tra cuipiccole riparazioni e viveri supplemen-tari in 52 campi.

Incontriamo Jovan durante una visita inuno dei centri. Jovan, che parla usandoun tono serio e pacato, dimostra più deisuoi 24 anni mentre ci descrive la vitadei rifugiati e la loro fuga dalla Croaziasei anni fa. “Siamo fuggiti dai combat-timenti, intere città e villaggi se ne sonodovuti andare. Era come una reazionea catena, senza fine”, ci dice. “Il primoanno non ci rendevamo nemmeno contodi essere diventati dei rifugiati, eravamoin stato di schock. Poi è subentrata larassegnazione.”

Il destino dei rifugiati che vivono neicentri è sintomatico degi sconvolgimentiavvenuti nella regione durante lo scorsodecennio. Dal crollo dell’ex-Jugoslavia,una serie di guerre in Slovenia, Croazia,

Bosnia e Jugoslavia hanno lasciato ilsegno. Più di un milione e mezzo di per-sone sono ancora sfollate, all’interno delloro paese, oppure rifugiate all’estero.

I conflitti etnici sono profondamenteradicati, sia a livello istituzionale chenelle comunità locali, e continuano aporre un freno al ritorno delle mino-ranze ai loro luoghi di origine. Il ricordodella guerra e delle ingiustizie subite ègeneralizzato – “abbiamo causato sof-ferenze gli uni agli altri, i croati a noi eviceversa”, ammette Jovan – e il pro-cesso di riconciliazione è dolorosamentelento. Anche se la via per il ritorno èormai aperta, politicamente e buro-craticamente, i rifugiati sono ancoradiffidenti e spesso scelgono di rimanerea sopportare un male che già conos-cono: un presente e un futuro incerti inun deprimente centro collettivo che èdiventato la loro casa. Le condizioni disicurezza per il ritorno potrebbero giàesserci, ma rimane una paura persis-tente di subire delle aggressioni, oltrealla latente ostilità che i rimpatriatipotrebbero dovere affrontare. “Forselo stato ci potrebbe garantire un ritornoin condizioni di sicurezza, ma corre-remmo comunque il rischio di subiredelle ritorsioni”, dice Jovan.

Se gli sfollati sono una manifestazionedelle recenti guerre e turbolenze, unaaltra sono le innumerevoli proprietà de-vastate. Molte persone non possonoessere rimpatriate perché non hannopiù una casa dove tornare. In Croaziacontinuano ad esserci delle difficoltà,sebbene siano stati compiuti diversipassi avanti per superare le misurediscriminatorie nella legislazione con-cernente la ricostruzione delle proprietà

SERBIA

Romania

Bulg

aria

UngheriaAustria

Slovenia

BosniaErzegovina

Italia

Italia

Albania

Macedonia

Grecia

Croazia

Serbia

MontenegroKossovo

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danneggiate dalla guerra. In un campodi transito a Sisak, vicino Zagabria,incontriamo alcuni anziani rimpatriatiserbi, che sperano di rientrare alle lorocase in Croazia. Tornati dalla Serbia,hanno trascorso in questo campo alme-no due anni. Molti stanno aspettandoche le loro case siano ricostruite, o chesiano liberate nel caso che siano stateoccupate da rifugiati. I rimpatriati te-mono che finiranno per morire a Sisak,senza riuscire a tornare a casa.

Nonostante gli ostacoli, i rifugiati ri-tornano. Si calcola che circa 50.000

rifugiati siano rientrati in Croazia finoall’inizio del 2000 e più di 24.000 hannodeciso di tornare durante quell’anno.“I nostri anziani hanno un grande desi-derio di tornare ed essere seppelliti nelloro paese,” spiega Jovan. Le statisticheconfermano questa affermazione:secondo i dati dell’UNHCR, più del50% dei rimpatriati in Croazia nel 2000avevano dai 60 anni in su e lo stessovale per l’80% di quelli tornati fino allafine del 1999. Comunque le vite deglianziani e quelle dei giovani sono lega-te: i figli sentono che non dovrebberoabbandonare i genitori, ma spesso nonpossono neanche ripartire con loro.Così il reinsediamento in un paese terzodiventa un’opzione poco praticabile, an-che quando ce ne sarebbe la possibilità.

“Mi sento responsabile per i miei geni-tori, che sono anziani”, spiega Jovan.

L’integrazione locale appare ad alcunila più attraente tra le soluzioni a lungotermine. Nel 1997, la Jugoslavia ha con-sentito la naturalizzazione dei rifugiatibosniaci e croati. Molti non si sonoavvalsi di questa opportunità, temendoche rinunciare alla propria cittadinan-za di origine avrebbe fatto perdere lorola possibilità di reclamare proprietà ediritti sociali, una volta rientrati in patria.L’integrazione è risultata difficoltosaanche perché gli aiuti per l’insedia-

mento locale hanno una portata limitata,in parte a causa della tragica precarietàdell’economia in Serbia. Comunque, nel1999 la Commissione USA per i Rifu-giati ha concluso che la maggior partedei rifugiati che vivono attualmente inJugoslavia probabilmente non torneràai luoghi d’origine.

Jovan potrebbe essere uno di loro.“Quando penso di tornare, mi rendoconto che ormai non conosco piùnessuno lì. Per me tornare sarebbe untrauma”, spiega. “Qui mi sento in pacecon me stesso. La gente che vive qui ècordiale, ci sentiamo a casa. Mi pia-cerebbe rimanere e riuscire ad averecondizioni di vita migliori. Ogni altrasoluzione mi farebbe soffrire di più.”

La paura del ritorno è palpabile in moltirifugiati e può dare un’idea della animo-sità etnica che spesso sopravvive sottogli sforzi di costruire la pace. Ma anchese la coesistenza pacifica può sembra-re, e in effetti è, ancora lontanissima,si stanno in ogni modo compiendo deipassi per rompere la spirale dell’ostilità.Attraverso la sua azione in Serbia, il JRSha stabilito utili collaborazioni con igruppi serbo-ortodossi e si è anche gua-dagnato la fiducia dei rifugiati serbi. InCroazia, nel campo di Sisak, i rimpatriatiserbi aspettano ansiosamente le visitedell’équipe locale (croata) del JRS.

Rifugiati di origineserba provenienti dallaCroazia e dalla Bosnia

insieme ad operatoridel JRS in un centro

collettivo in Serbia. IlJRS fornisce servizi in52 centri in Serbia e

Montenegro.

Danielle Vella è laresponsabile dellainformazione del JRS

SERBIA

I membri del personale del JRS in Croa-zia, così come i loro colleghi in Bosnia,Kossovo, Serbia, hanno patito in primapersona persona i mali della recenteguerra: come rifugiati, come combattenti,hanno sofferto ferite, torture e la morteo la prigionia dei loro cari. Oggi, si ado-perano per persone di un’etnia diversadalla loro. Incontrare gente così permet-te di credere che la riconciliazione siapossibile e reale. E che forse verrà ungiorno in cui i rifugiati come Jovan nonavranno più paura di tornare a casa.

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Vita nel desertoDorothy Pilkington SSJ

Nel campo di Kakuma, il JRS gestisce l’istruzione e i servizi sociali. Sr. Pil-kington scrive a proposito dei servizi di ascolto gestiti da un’équipe di rifugiatie di locali che offre sostegno alle persone emarginate del campo.

Sono in una prigioneche non ha guardiedove non c�è libertàe la vita è dura...Sono vivosono in una tombauna tomba che mi lascia muovere

Silesi Wordofa,sul campo di Kakuma

I rifugiati nel campo di Kakuma sonofuggiti dai loro nemici per poi ritrovarsiin un’area isolata e semidesertica nel

nord ovest del Kenya. Una zona desolata eselvaggia, con temperature da fornace,sabbia e dove infuriano tempeste di polvere.La vegetazione è rada: soprattutto arbustibassi e secchi. È la casa di scorpioni, ragnivelenosi e serpenti.

Aperto nel 1992 per rispondere all’arrivo dicirca 20.000 richiedenti asilo sudanesi, oggiil campo di Kakuma è uno dei due più grandicentri per rifugiati del Kenya, insieme aDaadab. Kakuma è la “casa” di molti gruppietnici e di persone di tutte le età. Attual-mente, circa 70.000 rifugiati trovano rifugio

in questa località, testimonianza viventedelle guerre civili in corso in Africa. Lamaggior parte proviene dal Sudan e dallaSomalia; piccoli gruppi provengono daCongo, Ruanda, Burundi, Etiopia ed Eritrea.

I nuovi arrivi provano una fugace sensazio-ne di gioia quando giungono al campo, nellasperanza di non essere più esposti ad armi,bombe e uccisioni. Ma, come rifugiati, sonopotenziali vittime di violazioni dei dirittiumani, non essendo in grado di avvalersidella protezione che il loro governo potreb-be assicurare loro. Non siamo in grado dicomprendere appieno cosa significhi esse-re rifugiato, essere costretto a fuggire dallapropria madrepatria, avere costantemente

Kakuma: i servizi delJRS in questo camporaggiungono circa8.200 rifugiati

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bisogno di protezione, non avere libertà edover contare sull’UNHCR e sulle ONGper i beni di vitale importanza, severamen-te razionati, e per la propria sopravvivenza.La vita di un rifugiato è frequentementea rischio, dipendente per tutto ciò che èessenziale.

I rifugiati sono stati feriti fisicamente, men-talmente, socialmente e spiritualmente. Han-no assistito a morti violente o a causa dellafame. Mentre fuggivano, molti sono statiseparati da, o costretti ad abbandonare,amici indifesi o familiari. Il JRS gestisce unprogramma di servizi sociali a Kakuma,assistendo i rifugiati marginalizzati all’in-terno delle loro stesse comunità. Le personecon le quali lavoriamo cercano un rifugionel quale vi sia la pace.

La nostra équipe dei servizi sociali è com-posta primariamente di rifugiati. I corsi dibase in tecniche di ascolto organizzati dalJRS hanno insegnato loro le tecniche pergestire lo stress e i traumi, le modalità peraiutare gli altri a guardare alla vita in mododiverso, e per analizzare in profondità il lorodolore. Gli operatori dell’ascolto partecipanoai workshop su come risanare il dolore deiricordi; è attraverso il percorso che li condu-ce ad apprendere il perdono che diventanoin grado di assistere gli altri a fare lo stesso.I rifugiati che imparano queste pratiche aloro volta le adattano alla propria cultura.

Gestire il dolore della perdita è parte in-tegrale dei nostri programmi di consulenza.L’esperienza dei rifugiati è quella dellaperdita. Quando sono sradicati, i rifugiatiperdono la propria madrepatria, la famigliae gli amici, le proprietà, il lavoro, l’istruzione.Le sessioni di formazione sono centrate suquesto doloroso processo, sullo shock ini-ziale e sull’intorpidimento derivante dallaperdita e sulle altre fasi del dolore: riorien-tamento, riattivazione, nuova vita.

Un obiettivo del nostro lavoro sulla perditaè aiutare i malati terminali a dire addio allafamiglia, agli amici e ai membri della co-munità. La diffusione dell’HIV/Aids tra lapopolazione del campo rende necessarioquesto tipo di servizio. L’ascolto, prima edopo i test, per le persone con sospetta in-fezione da HIV/Aids, ha unito le famiglieperché si diano sostegno reciproco.

Sforzandosi di essere la voce di chi non neha, il JRS lavora con le donne e i bambini, econ le ragazze madri che sono state rifiutatedalle comunità. Abbiamo iniziato un pro-gramma per le mamme, organizzando corsidi formazione professionale, attività produt-trici di reddito e ricreative. Gestiamo ancheuna casa rifugio per ragazze che hannosubito violenze fisiche e sessuali, e che sonostate marchiate dalla loro comunità comevittime e pertanto stigmatizzate.

Un ulteriore aspetto del nostro lavoro èl’assistenza delle donne, dei bambini e degliuomini che hanno subito traumi violentio che soffrono di problemi mentali. Spessonon vengono accettati dalle comunitàetniche di appartenenza. Il JRS promuovela dignità umana e l’autosufficienza deirifugiati in centri diurni di riabilitazione,frequentati da circa 100 persone di tutte leetà. Alcuni necessitano di cure mediche;altri traggono beneficio dalle attività, qualitecniche di auto aiuto, giochi terapeutici,tecniche curative alternative, ascolto, can-zoni e danze tradizionali.

I rifugiati che lavorano con il JRS sosten-gono, continuamente, che la vita è una lottacostante ma, allo stesso momento, insistonosul fatto che la vita deve continuare. Laforza dei rifugiati, che vivono non sapendoquale sarà il loro futuro, è per me uno splen-dido esempio. Tutti i membri dell’équipesono impegnati per migliorare le vite dei lorofratelli e sorelle. In essi, ogni giorno, sonotestimone di un senso di dignità personalee di rispetto per se stessi che consente lo-ro di essere solidali con le persone al cuiservizio lavorano.

Dopo aver vissuto, lavorato e condiviso lamia vita con l’équipe dei servizi sociali aKakuma, credo fermamente che una ricon-ciliazione dal significato profondo – esserecapaci di perdonare mentre si lotta per lapace interiore ed essere, tutti i giorni, uncostruttore di pace nel rapporto con gli altri– possa essere creata da tutti noi.

Adut fu separata dalla madrequando scoppiò la guerra insud Sudan. Lo zio la prese consé insieme ai suoi fratelli comese fossero suoi figli. La mattinali svegliava presto per andare alavorare nei campi, perprendere l�acqua e perpreparare i pasti. Hannolasciato la scuola. Ibombardamenti del governo lihanno costretti a lasciare il sudSudan e andare a Kakuma. PerAdut, la vita è cambiata ilgiorno che la madre l�halasciata.

Elizabeth è stata costretta alasciare il Sudan per evitare unmatrimonio combinato. Mentreviaggiava, è stata catturata dasoldati ribelli. Hanno violentatoElizabeth più volte e l�hannoabbandonata al suo destino.Alla fine, è riuscita araggiungere Kakuma.

Fatuma, la maggiore dei seifigli, viveva in Somalia con isuoi genitori. Un giorno,arrivarono i soldati e ucciserosuo padre. Il resto dellafamiglia cercò di fuggire inKenya. Durante il viaggio suamadre fu violentata e uccisa.A Kakuma, ora, Fatuma, cheha 23 anni, si prende cura deisuoi cinque fratelli più piccoli.

Mako ha 23 anni, è sposata eha due bambini. Un taglio suifinanziamenti per i servizi diKakuma l�ha costretta adandare a raccogliere la legnaper cucinare. Mentre Makostava raccogliendo i rami,alcuni giovani l�hannoassalita. Per la sua comunitànon è una vittima di violenzama una paria.

Dorothy Pilkington SSJ èstata direttrice del progettodi servizi sociali a Kakumafino all�aprile 2001

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KENYA

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Servir è pubblicato dal JesuitRefugee Service, creato daP. Pedro Arrupe SJ nel 1980.Il JRS, un�organizzazionecattolica internazionale,accompagna, serve e difendela causa dei rifugiati e deglisfollati.

Direttore:P. Francesco De Luccia SJ

Direttore Responsabile:Vittoria Prisciandaro

Produzione:Stefano Maero

Servir è disponibilegratuitamente in inglese,spagnolo, italiano e francese.

e-mail: [email protected]

indirizzo: Jesuit Refugee ServiceC.P. 613900195 Roma PratiITALIA

fax: +39 06 687 9283

Dispatches, un bollettinoquindicinale via e-mail cheraccoglie notizie sui progettidel JRS nel mondo, riflessionispirituali e informazioni sullepossibilità di lavoro all�internodel JRS, è disponibilegratuitamente in inglese,spagnolo, italiano e francese.

e-mail: [email protected]

Foto di copertina:John Kleiderer/JRS

Foto di:JRS Germania (pp. 2 e 3); JohnKleiderer/JRS (p. 4 in alto); MarkRaper SJ/JRS (p. 5 in alto ecopertina di War has changedour life, not our spirit); AmayaValcárcel/JRS (p. 5 in basso);Oihana Irigaray/JRS (p. 7); JohnDardis SJ/JRS (p. 9); MichaelCoyne (p. 10); Joaquim da SilvaSarmento SJ (p. 12).

Il 20 giugno abbiamo celebrato per la prima volta la Giornata mondiale delrifugiato. Le Nazioni Unite hanno scelto questo giorno per commemorare il50° anniversario della creazione dell’UNHCR, per richiamare l’attenzione

della comunità internazionale sul problema dei più di 50 milioni di personesdradicate, contro la loro volontà, dal proprio paese, nel nostro mondo, oggi.

La rivista che avete in mano vi racconta le problematiche affrontate dai rifugiatidell’ex-Jugoslavia, del Burundi e del Kenya ed anche da chi cerca di esserericonosciuto come rifugiato in Germania. Vi spieghiamo come accompagniamo irifugiati, i servizi che offriamo loro e i mezzi che utilizziamo per far sì che le lorovoci vengano ascoltate nei luoghi internazionali.

Oggi, il fenomeno dei rifugiati ha assunto proporzioni internazionali; non può piùessere considerato come un caso isolato e circoscritto ad un determinato paese ocontinente. La realtà affrontata dai rifugiati varia a seconda del paese in cui sitrovano, del tempo trascorso in esilio, della loro situazione legale e dell’assistenzache ricevono. Molti rifugiati sono emarginati dalla comunità internazionale. Come irifugiati del campo di Kakuma, in Kenya, che non possono tornare nel loro paesed’origine, Sudan, Somalia e altri, a causa del proptrarsi del conflitto. Altri rifugiativivono in città in condizioni diverse da chi è in campo; il nostro compito èidentificare modalità per rispondere ai loro bisogni. Nel frattempo, è aumentato ilnumero degli sfollati interni, come evidenziato nell’articolo su Kinama, sobborgo diBujumbura, Burundi. Nessuna organizzazione internazionale ha il mandato diassistere e proteggere gli sfollati all’interno del loro paese e le condizioni dellasicurezza spesso impediscono la fornitura di ciò di cui hanno bisogno. Infine,sosteniamo che le misure adottate per ostacolare l’immigrazione irregolarepossono risultare pericolose perché, in pratica, pongono degli ostacoli, all’ingressoin un territorio per chiedervi asilo, a chi fugge dal proprio paese a causa di unapersecuzione, a chi ha bisogno di protezione internazionale.

Una così vasta gamma di crisi di rifugiati chiede l’elaborazione di risposte , ma gliaiuti internazionali diminuiscono. Questo sviluppo è destinato ad avere un impattonegativo sulla vita di milioni di sfollati. Vedranno diminuire le proprie razioni dicibo, l’assistenza medica ridotta al minimo e i servizi sociali, particolarmentel’istruzione, ridotta all’istruzione elementare, nel migliore dei casi.

La situazione che vi abbiamo descritto è difficile, soprattutto quando ci ricordiamoche dietro i numeri e le analisi, ci sono volti che non possiamo dimenticare. Voltiche, per un attimo, intravediamo nelle testimonianze delle donne scritte in questepagine. Ci mostrano che la speranza in un mondo migliore è viva e che il Dio dellaVita è tra di noi. Le loro parole sono un appello affinché noi continuiamo la nostra

missione.

Cordiali saluti,

Lluís Magriñà SJDirettore internazionale del JRS

La Giornata mondiale del rifugiato

www.jesref.org