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1 Scelte di progettazione organizzativa di Michela Marchiori Università degli Studi di Urbino pubblicato in: Barbara di Bernardo, Valentino Gandolfi, Annalisa Tunisini (a cura di), Economia e Management delle imprese, Hoepli, marzo 2009

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Scelte di progettazione organizzativa

di

Michela Marchiori Università degli Studi di Urbino

pubblicato in:

Barbara di Bernardo, Valentino Gandolfi, Annalisa Tunisini (a cura di), Economia e Management delle imprese, Hoepli, marzo 2009

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Capitolo 9 – SCELTE DI PROGETTAZIONE

ORGANIZZATIVA Sommario: Obiettivi del capitolo - 9.1 La progettazione organizzativa -

9.2 Scelte di progettazione dell’organizzazione del lavoro delle persone - 9.3 Scelte di progettazione dei processi di lavoro - 9.4 Scelte di progettazione della configurazione formale dell’impresa - 9.5 Scelte di progettazione dei confini organizzativi - 9.6 Osservazioni conclusive

OBIETTIVI DEL CAPITOLO Questo capitolo tratta dell’organizzazione dell’impresa: l’attenzione è

posta sulla progettazione organizzativa. Il tema è trattato ponendo in evidenza il legame tra pratiche aziendali e teorie organizzative, cioè con riferimento alla letteratura propria del campo di studio dell’organizzazione. Non si passerà in rassegna tale letteratura, che è assai vasta e articolata, ma si mostrerà come le pratiche di progettazione organizzativa, antiche e recenti, utilizzate dal management aziendale, abbiano precisi presupposti teorici che ne hanno definito le basi e orientato lo sviluppo. 9.1 LA PROGETTAZIONE ORGANIZZATIVA

E’ indispensabile ricordare che le problematiche organizzative riguardanti

le imprese, e più in generale ogni categoria di realtà organizzate, sono state affrontate nel corso di oltre cento anni di studi specificamente organizzativi da una molteplicità di teorie, prodotte in ambiti disciplinari diversi: in particolare la sociologia, la psicologia sociale, l’economia e la scienza politica, cui si aggiungono teorie dichiaratamente interdisciplinari. Questo corpus teorico, che rappresenta compiutamente il pensiero organizzativo, risulta variamente differenziato per quanto riguarda: (a) la visione dell’organizzazione presupposta, e (b) l’intento descrittivo o normativo delle proposte teoriche. Le teorie organizzative sono pertanto spesso tra loro in competizione.

Nel quadro di questa ricchezza e varietà della letteratura organizzativa, il presente capitolo circoscriverà l’attenzione al particolare insieme di teorie che sono caratterizzate da: (a) un’interpretazione delle problematiche organizzative diretta ad individuare criteri e pratiche di intervento per la loro soluzione, (b) un intento, di conseguenza, normativo. Tale insieme di teorie orienta l’approccio dominante nutrito di quei contributi che nel corso degli anni hanno acquisito notorietà e rilevanza per la loro capacità di influenzare e guidare le scelte di progettazione organizzativa operate nelle imprese. Questa scelta è motivata da coerenza con l’impostazione della presente opera,

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che considera l’impresa e il suo funzionamento come un sistema aperto caratterizzato da forti connessioni con le dinamiche ambientali, realtà di studio oggettivo e di intervento guidato di progettazione e di riprogettazione.

Il tema della progettazione organizzativa sarà affrontato secondo un’articolazione che appare comune e diffusa nei manuali di organizzazione aziendale, in Italia e all’estero. Essa distingue i seguenti livelli:

- scelte di progettazione dell’organizzazione del lavoro delle persone (work design), cioè scelte di assegnazione dei compiti alle persone, di definizione delle modalità di svolgimento dei compiti (tempi, modi, strumenti), di attribuzione delle responsabilità decisionali (si veda par. 9.2);

- scelte di progettazione dei processi di lavoro (intra-organizational process work design), cioè scelte riguardanti l’efficienza delle relazioni intra-organizzative, con particolare riferimento alle tecniche gestionali elaborate in epoca recente in ambito statunitense e giapponese (si veda par. 9.3);

- scelte di progettazione della configurazione organizzativa formale (business structure models), cioè scelte dei criteri di raggruppamento delle posizioni in unità organizzative e di assegnazione delle responsabilità gerarchiche (si veda par. 9.4);

- scelte di progettazione dei confini organizzativi (inter-organizational design), cioè scelte di assegnazione dello svolgimento, all’interno o all’esterno dell’impresa, delle attività necessarie al suo funzionamento (si veda par. 9.5);

- scelte di progettazione delle attività per la gestione delle persone (human resources management), cioè scelte riguardanti contenuti e modalità di svolgimento delle attività di reclutamento, selezione, inserimento, valutazione, compensi, sviluppo, carriere, finalizzate al coinvolgimento, alla valorizzazione delle persone, alla incentivazione delle prestazioni (alcune problematiche di gestione delle risorse umane sono affrontate nel cap. 6 del presente volume).

Per sviluppare queste tematiche faremo riferimento alle teorie più consolidate, che hanno fornito le basi concettuali, i criteri metodologici e le indicazioni operative per la azioni di analisi e di intervento organizzativo.

Poiché molti degli argomenti di questo capitolo sono presi in considerazione anche in altri capitoli dell’opera, ma da diversi punti di vista disciplinari, ci proponiamo di evidenziare e distinguere la specificità del punto di vista organizzativo. Particolare attenzione sarà quindi dedicata alla definizione dei concetti mobilitati – con indicazione della loro origine nella letteratura di riferimento – e al linguaggio proprio del campo di studio dell’organizzazione.

9.2 SCELTE DI PROGETTAZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DELLE PERSONE

Quali e quanti compiti è opportuno assegnare a una persona? In quale

misura definire modalità e tempi di svolgimento? In quale misura separare l’esecuzione del lavoro e il suo controllo? Quali capacità e conoscenze richiedere per ogni compito?

Sono questi i principali interrogativi cui le scelte di progettazione di organizzazione del lavoro debbono rispondere. E questi stessi interrogativi possono essere utilizzati come criteri guida per interpretare e confrontare le diverse soluzioni presentate dalla letteratura organizzativa.

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Tre principali proposte di work design appaiono storicamente adottate dalle imprese e rappresentano ancor oggi, con le loro molteplici varianti, il riferimento basilare della progettazione di organizzazione del lavoro: (a) specializzazione del lavoro, standardizzazione dei compiti, dei metodi e dei tempi di svolgimento, controllo affidato alla gerarchia; (b) allargamento e arricchimento dei compiti assegnati, con attenzione all’influenza degli aspetti motivazionali sulle prestazioni; (c) assunzione del team work come unità di base per l’analisi e la progettazione del lavoro. Descriviamo quindi queste tre proposte, ricordando i contributi teorici che nel corso del secolo scorso hanno fornito i fondamenti concettuali e metodologici e indicato le linee procedurali per la loro traduzione operativa.

9.2.1 IL MODELLO TAYLORISTA-FORDISTA

La proposta di progettazione dell’organizzazione del lavoro generalmente nota come “taylorismo”, o anche come “modello taylorista-fordista”, ha espresso le scelte di specializzazione spinta del lavoro diviso, di standardizzazione dei compiti e dei loro svolgimenti, di separazione netta dei compiti di direzione e di esecuzione e quindi di piena assegnazione del controllo alla gerarchia. Formulata all’inizio del Novecento, ha trovato pervasiva applicazione per gran parte del secolo e non si può dire ancor oggi completamente superata.

Le pratiche di progettazione del taylorismo-fordismo sono nate dall’innesto di alcuni criteri di ingegnerizzazione del processo di fabbricazione di grande serie elaborati da H. Ford sui principi di base dello Scientific Management di F.W. Taylor (1903; 1911; 1912) interpretati in modo sostanzialmente riduttivo.

I “principi dello Scientific Management” proposti da Taylor riguardano: (a) la traduzione delle pratiche di lavoro, derivate dall’esperienza, in regole “scientifiche”; (b) la selezione dei lavoratori, al fine di addestramenti e attribuzioni di compiti secondo capacità specifiche; (c) la “fusione” (“bringing together”) del procedimento scientifico con le attività operative, di operai e dirigenti; (d) la ripartizione del lavoro tra operai e dirigenti.

Estratti e separati dalla teoria di Taylor, questi “principi di organizzazione scientifica” sono stati tradotti nelle pratiche di costruzione di mansioni elementari, di adattamento delle persone a tali mansioni, di separazione delle attività di direzione e di esecuzione, cioè nelle pratiche del taylorismo (si veda scheda 9.1). Occorre, al proposito, ascoltare anzitutto lo stesso Taylor, che davanti alla Commissione speciale della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, nel 1912, affermava di non aver mai conosciuto una applicazione corretta dello Scientific Management. Con queste precisazioni, dobbiamo riferirci al taylorismo – e non alla teoria di Taylor – per comprendere la logica che orienta l’organizzazione del lavoro produttivo nell’impresa “fordista” (Maggi, Solè, 2007).

Scheda 9.1 Criteri di organizzazione del lavoro secondo il modello “taylorista-fordista”

- assegnazione stabile di compiti parcellizzati (mansione) a individui separati - definizione rigida e standardizzata delle modalità e dei tempi di esecuzione - separazione tra attività di esecuzione (svolgimento della mansione nei modi predefiniti)

e attività di direzione (attività di analisi, programmazione, assegnazione dei compiti, controllo dell’esecuzione)

- esclusione dell’iniziativa individuale: l’intervento in caso di variazioni da quanto programmato – devianze, disturbi, errori – è compito della supervisione diretta

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- richiesta di capacità fisiche e psicomotorie, tramite selezione, adatte alle mansioni predeterminate.

La scomposizione delle operazioni nei loro elementi costitutivi, che permette di

disegnare le mansioni, si accorda con una rigida programmazione dei compiti nel flusso complessivo del lavoro produttivo. Ai criteri del taylorismo si aggiungono le pratiche della fabbrica fordista, in particolare: (a) l’ordinata progressione del prodotto attraverso la fabbrica, secondo una disposizione seriale delle operazioni pianificate, in modo che il pezzo giusto arrivi al posto giusto nel momento giusto, (b) l’erogazione meccanica dei pezzi e del prodotto nel flusso di montaggio. Si caratterizza così la “catena di montaggio”.

I criteri di progettazione organizzativa del modello taylorista-fordista appaiono particolarmente adatti allo sviluppo dell’industria di grande serie, e poi di massa, all’inizio del Novecento, a cominciare dalla produzione su larga scala di automobili, rimasta poi emblematica nella rappresentazione dell’impresa fordista. Le possibilità tecniche offerte dalle prime forme di automazione consentono di semplificare e standardizzare i flussi produttivi, di rendere omogenei i materiali, gli strumenti impiegati, e lo stesso prodotto finale. Si ottengono così economie di scala, bassi costi e aumento della produttività.

La progettazione organizzativa del lavoro è effettuata da appositi analisti, da uffici “tempi e metodi”, preposti alla codificazione delle tecniche quanto dei modi e dei tempi di esecuzione considerati ottimali, che i lavoratori sono chiamati a rispettare fedelmente nello svolgimento delle mansioni loro assegnate. Le procedure codificate esprimono la miglior soluzione possibile – one best way – in base al presupposto di una conoscenza perfetta delle relazioni mezzi-fini nel disegno dei programmi, cioè di una razionalità assoluta a priori.

L’idea di “macchina” è sovente utilizzata per rappresentare la situazione di lavoro concepita secondo le pratiche di progettazione organizzativa taylorista-fordista. Secondo la concezione di razionalità adottata e i criteri che informano tali pratiche, appare sempre possibile pianificare in dettaglio l’intera situazione di lavoro e ogni sua componente, intese come parti di una macchina. Il funzionamento atteso deve verificarsi secondo il programma stabilito, non è ammessa alcuna deviazione. Anche l’operatore è parte componente del sistema meccanico, e pertanto è chiamato ad attenersi rigorosamente alle procedure stabilite.

In realtà, lo svolgimento concreto delle attività presenta sempre scostamenti rispetto alle mansioni e alle procedure prescritte, come hanno mostrato innumerevoli ricerche di sociologia del lavoro, di psicologia del lavoro e di ergonomia. Per far fronte ai rischi di devianza, considerata fonte di disturbo del programma stabilito e di conseguente riduzione della produttività attesa, le pratiche tayloriste-fordiste hanno affiancato, alle soluzioni di coordinamento seriale e standardizzato, forme di controllo tramite supervisione diretta, moltiplicando di fatto i livelli intermedi nelle gerarchie direttive.

Principali vantaggi derivanti dalle pratiche tayloriste-fordiste sono apparsi: (a) lo sviluppo della produttività, (b) la specializzazione degli operatori, per il miglioramento della destrezza di esecuzione (economie di specializzazione), (c) la riproducibilità dei compiti e delle situazioni di lavoro, (d) la sostituibilità degli operatori. In considerazione di tali vantaggi ancora oggi si riscontrano diffuse applicazioni dei criteri di organizzazione del lavoro secondo l’approccio taylorista. Un esempio è dato dal call

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center outbound che si configura come una “nuova fabbrica” che produce in serie comunicazione.

Numerose critiche si sono accumulate nei confronti di tali pratiche, sin dalle loro prime applicazioni. In particolare sono state accusate di provocare condizioni di sfruttamento dei lavoratori, valutabile in termini di intensificazione dei ritmi di lavoro e di scarto tra aumento della produttività e aumento retributivo; di indurre alienazione, perdita di significato del lavoro, “disaffezione” e “rifiuto” del lavoro; di alimentare il conflitto sindacale; di provocare una crescita eccessiva delle dimensioni dell’impresa a causa della proliferazione degli organi di staff e di livelli direttivi intermedi; di allungare, e quindi rallentare, i processi decisionali.

9.2.2 L’ALTERNATIVA ORGANICISTA E LO STUDIO DELLE MOTIVAZIONI. DAL JOB REDESIGN O ROLE CONTENT ALL’APPROCCIO COMPETENCY BASED

Lo studio della “fatica industriale”, iniziato dalla psicofisiologia dei primi anni del Novecento, ha attaccato il taylorismo alle sue basi, dimostrando l’insostenibilità della standardizzazione dello svolgimento dei compiti: il rendimento varia non solo da individuo a individuo ma anche per lo stesso individuo nell’arco della giornata di lavoro (Kraepelin, 1902). Gli sviluppi dello studio della fatica al lavoro, e poi della monotonia, propongono già nei primi decenni del 1900 soluzioni di “ricomposizione del lavoro” - rispetto alle parcellizzazioni dei compiti e ai frazionamenti dei tempi e dei movimenti indotti dal taylorismo – in termini di ampliamento delle mansioni, di arricchimento dei suoi contenuti, e di lavoro di gruppo (Wyatt, Fraser, 1929).

Occorre tuttavia attendere le ricerche svolte nello stabilimento di Hawthorne della Western Electric dal 1924 al 1933, negli anni della Grande Crisi, - sotto la guida di E. Mayo – per giungere all’affermazione di un orientamento teorico diverso da quello presupposto dal taylorismo. In esse si abbandona lo studio della fatica e della monotonia, per focalizzarsi sulle relazioni interpersonali, le dinamiche di gruppo, la leadership, la “soddisfazione” e il “morale” dei lavoratori, e infine sulle funzioni, manifeste e latenti, delle regole informali di lavoro che modificano o integrano le regole formali delle procedure (Mayo, 1933; Roethlisberger, Dickson, 1939).

Le ricerche di Hawthorne segnano la nascita degli studi di psicologia sociale e di sociologia industriale, che propongono un’interpretazione delle situazioni di lavoro e dell’impresa come “sistema umano e sociale”. L’idea di “organismo” sostituisce l’idea di “macchina” presupposta dal taylorismo. Si diffonde un diverso linguaggio organizzativo, che recepisce dalle scienze biologiche e dallo studio degli organismi viventi termini quali: sistema, sotto- e meta-sistema, ambiente, funzione, ruolo, input e output, retroazione, adattamento, integrazione, flessibilità. Soprattutto si diffonde e si afferma la visione funzionalistica, nell’interpretazione e nella progettazione organizzativa, del lavoro e dell’impresa: la situazione di lavoro è concepita come sottosistema dell’impresa, volto a rispondere ai bisogni funzionali del suo metasistema, così come l’impresa risponde ai bisogni funzionali del sistema sociale più ampio di cui fa parte, cercando il miglior adattamento verso il suo ambiente e la migliore integrazione al suo interno.

La grande corrente delle Human Relations, iniziata da E. Mayo, fonda questo orientamento destinato a diventare dominante. Tra le finalità delle “relazioni umane” viene indicato il miglioramento delle condizioni di lavoro tayloristico, ma sono principalmente ragioni di cambiamento delle condizioni di contesto economico,

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produttivo e di mercato, a rendere attraenti per le imprese diversi criteri di progettazione organizzativa. Le Human Relations, infatti, promuovono una nuova filosofia, tra gli anni Venti e Quaranta del 1900, ma nuove pratiche di progettazione organizzativa si diffondono a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, supportate da correnti di studio di neo-relazioni umane.

Dagli anni Cinquanta ai Settanta del Novecento appaiono man mano meno pressanti le condizioni che avevano favorito la produzione di massa e la standardizzazione dei prodotti, e quindi conveniente l’adozione delle pratiche tayloristiche di organizzazione del lavoro. L’evoluzione dei comportamenti della domanda, in termini di qualità, varietà, disponibilità del prodotto, stimola le imprese verso l’ampliamento delle gamme produttive, la riduzione dei lotti unitari di produzione, l’accorciamento dei tempi di vita dei prodotti, lo sviluppo delle capacità di innovazione frequente sia dei prodotti sia dei processi produttivi. Ciò è del resto reso possibile dallo sviluppo delle tecniche di produzione. A fronte dei nuovi caratteri di “flessibilità” dei programmi produttivi e delle tecnologie impiegate, si rende necessaria una corrispondente “flessibilità” del lavoro umano.

Le mansioni assegnate al singolo operatore si ampliano, comprendono più compiti adiacenti e collaterali. Il comportamento richiesto non è più circoscritto alla rigida adesione al programma, poiché lo stesso programma non è più rigido: si richiede quindi (a) capacità di iniziativa, (b) capacità di decidere e scegliere tra alternative nello svolgimento delle attività, per fronteggiare problemi imprevisti o situazioni non programmabili, (c) capacità di proporre modalità innovative di svolgimento dei compiti, più efficaci e più efficienti.

Le correnti di neo-relazioni umane, che si sono prodotte a partire dagli anni Cinquanta, perseguono l’orientamento organicistico e funzionalistico delle prime Human Relations, e quindi la visione dell’impresa come sistema aperto, caratterizzato da forti interazioni con il suo ambiente. Inoltre si mantengono nell’ambito disciplinare della psicologia sociale, e sviluppano lo studio delle motivazioni e dei bisogni psicologici del lavoratore a partire dalla teoria di Abraham Maslow (1954). Queste correnti si differenziano per quanto riguarda le specifiche proposte di progettazione organizzativa.

La corrente del job redesign (Herzberg et al., 1959; McGregor, 1960) o del role content (Katz, Kahn, 1966), propone soluzioni di progettazione – o ri-progettazione rispetto alle scelte tayloristiche – centrate sull’“allargamento” della mansione (job enlargement), sull’“arricchimento” della mansione (job enrichment) e sulla varia attribuzione di mansioni differenti allo stesso lavoratore (job rotation), cui viene a corrispondere quindi una sua “polivalenza” (si veda scheda 9.2).

Scheda 9.2 Criteri di organizzazione del lavoro secondo il job redesign

- job enlargement: il lavoro assegnato è composto da vari compiti tra loro connessi, in modo da salvaguardare il significato complessivo del lavoro da svolgere

- job enrichment: il lavoro assegnato comprende una sequenza complessa di compiti, anche stimolanti e impegnativi; il controllo dell’esecuzione compete a chi ha svolto il compito

- job rotation: l’operatore è chiamato a svolgere, in tempi diversi, attività di lavoro diverse

L’indicazione normativa si fonda sull’ipotesi di una correlazione positiva tra

contenuto del lavoro assegnato, soddisfazione dell’operatore, e rendimento. La

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soddisfazione dei lavoratori è ricavata dalla percezione del grado di allineamento tra le attese e le preferenze dei lavoratori stessi e le caratteristiche dei compiti.

In sostanza, la mansione (tipicamente tayloristica) è sostituita dal “ruolo”, come esso è stato definito dalla psicologia sociale prima, e poi dalla sociologia funzionalista: insieme delle prescrizioni e delle aspettative relative a una posizione sociale (Katz, Kahn, 1966). La focalizzazione sul concetto di ruolo – in contrapposizione al concetto di mansione, che privilegia la dimensione “oggettiva” del lavoro – orienta l’attenzione sulla dimensione “soggettiva” del lavoro, ossia sulle capacità, le conoscenze, le competenze del lavoratore. La riflessione teorica in argomento indica pertanto in questo mutamento concettuale il fulcro dello spostamento della progettazione organizzativa del lavoro sulla “centralità” delle persone, sia in termini di contributo offerto per il conseguimento degli obiettivi dell’impresa, sia in termini di valorizzazione e sviluppo delle conoscenze e delle competenze.

Questa linea, nella teoria e nella pratica di progettazione organizzativa del lavoro, è continuata da recenti approcci, come il competency based approach (Boyatzys, 1982), che promuove l’identificazione delle capacità, conoscenze e competenze adatte per lo svolgimento del ruolo, e la loro valutazione come strumento di valorizzazione del contributo delle persone. In questi approcci si affiancano quindi proposte di progettazione dei ruoli secondo “profili” di “competenze richieste”, e proposte di progettazione delle attività di gestione del personale, volte a promuovere lo sviluppo delle competenze adatte ai ruoli e a verificarne l’effettivo possesso da parte delle persone cui i ruoli sono assegnati (Costa, 1997).

9.2.3 L’APPROCCIO SOCIOTECNICO E IL GRUPPO SEMI-AUTONOMO DI LAVORO

Il gruppo semi-autonomo di lavoro o multiskilling work team, consistente nell’assegnazione di una fase di lavoro ad un insieme di persone che svolgono più compiti e possiedono competenze multifunzionali, rappresenta una soluzione di progettazione organizzativa che ha avuto ampia applicazione negli anni Settanta del secolo scorso, nei processi di ristrutturazione delle grandi fabbriche europee e nordamericane, e che, da due decenni, conosce una rinnovata attualità, in quanto viene indicato come l’“unità organizzativa di base” da tutte le nuove pratiche organizzative e gestionali, che dichiarano di ispirarsi a principi “post-tayloristi” o “post-fordisti”.

Tale soluzione trova la propria origine concettuale negli studi appartenenti al c.d. approccio sociotecnico, una delle correnti di neo-relazioni umane sviluppatasi, a partire dal secondo dopoguerra, intorno al lavoro di Emery e Trist (1960) e di altri ricercatori del Tavistock Institute di Londra (si veda Marchiori, in corso di pubblicazione).

L’approccio sociotecnico nasce con l’obiettivo di superare i criteri e le soluzioni di organizzazione del lavoro basate sulla logica taylorista e di trovare metodi alternativi di analisi e di intervento in grado di aumentare contemporaneamente la performance dell’impresa e la soddisfazione delle persone che in essa operano, migliorando la qualità del loro lavoro (joint optimization).

Al centro di tale prospettiva il concetto di “sistema socio-tecnico”, in grado di evidenziare lo stretto legame tra tecnologia e aspetti umani e sociali del lavoro che rende necessari l’analisi e l’intervento congiunto su entrambe le componenti ai fini di un’efficace progettazione organizzativa.

Rispetto alla proposta taylorista, l’approccio sociotecnico suggerisce di assumere come unità di analisi del sistema tecnico non il singolo compito ma l’ “operazione

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unitaria”, intesa come la fase di lavoro in cui si verifica un cambiamento nelle proprietà dell’input (state change) significativo ed essenziale rispetto al conseguimento dell’output desiderato e identifica nelle c.d. “varianze tecniche”, intese come “ogni deviazione da uno stato normale, atteso o medio del processo”, le “istanze” o “requisiti di efficienza” che il sistema tecnico pone al sistema sociale. Le attività di rilevazione, controllo e regolazione delle varianze generate all’interno del processo tecnico sono infatti svolte dalle persone in virtù dei ruoli ad esse assegnati dall’impresa (ruoli formali) o della personale iniziativa dei singoli (ruoli informali).

Poichè l’obiettivo è di evitare che il mancato controllo delle varianze tecniche, emerse all’interno di un’unità di lavoro, abbia ricadute negative sul risultato finale del processo produttivo, l’indicazione che ne consegue, sul piano del disegno organizzativo, è di adottare una strutturazione per “gruppi semiautonomi di lavoro” (semi-autonomous, self-regulating and multiskilling work group) con assegnazione della responsabilità del risultato al team, in modo da incentivare gli operatori ad assumere direttamente le attività di controllo e regolazione, senza dover attendere l’intervento di un supervisore gerarchico o di un ruolo esterno (si parla di decentramento del controllo delle varianze al team e di sviluppo di capacità di autoregolazione).

L’ipotesi sostenuta è che il gruppo di lavoro rappresenta la soluzione più “adatta” anche per soddisfare i “fabbisogni o requisiti” del sistema sociale che i ricercatori sociotecnici, analogamente alle altre correnti di neo-relazioni umane, individuano nelle esigenze psicologiche dei lavoratori (psychological job requirements) e, in particolare, nel grado di soddisfazione sul lavoro che, per questi studi, coincide con la “qualità della vita nei luoghi lavoro” (Quality of Working Life). Il disegno organizzativo riconducibile a questa soluzione trova una sistematizzazione prescrittiva nei c.d. “principi sociotecnici di progettazione” elaborati da Cherns, 1987 (si veda scheda 9.3). Scheda 9.3 Criteri di organizzazione del lavoro secondo l’approccio “socio-tecnico”

- assegnazione di un obiettivo chiaro e condiviso, relativo ad una fase compiuta di lavoro, ad un insieme di persone che assume la responsabilità dei risultati;

- delega al gruppo di lavoro delle scelte di allocazione di compiti, definizione di metodi, tempi, modalità retributive e di valutazione;

- assegnazione ai membri del controllo e della regolazione delle varianze: l’intervento, in caso di devianze e disturbi, non è più compito del supervisore gerarchico ma del gruppo;

- richiesta alle persone di sviluppare competenze multifunzionali per favorire flessibilità, capacità di inziativa e aumentare le capacità di apprendimento;

- messa a disposizione del gruppo di tutte le risorse di cui necessita (informazioni, impianti, attrezzature ecc.) per realizzare gli obiettivi assegnati.

I principali vantaggi derivanti dall’adozione di questa soluzione organizzativa

vengono indicati nel: a) miglioramento di produttività e qualità del prodotto dovuti alla capacità del sistema sociale di “autoregolarsi”, al fine di assicurare il migliore adattamento alla variabilità dei compiti assegnati e delle condizioni del processo di lavoro, e di sviluppare processi di apprendimento e di miglioramento continuo; b) miglioramento dell’efficienza del sistema dovuto alla riduzione dei costi di controllo, ora affidati direttamente alle persone con il conseguente venir meno della necessità di supervisione e di controllo da parte del capo gerarchico; c) miglioramento di alcuni

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indicatori sociali quali la riduzione dei tassi di assenteismo e l’aumento del livello di soddisfazione o qualità della vita di lavoro (QWL).

Le principali critiche rivolte alla proposta sociotecnica e, più in generale, all’utilizzo del team come modalità di organizzazione del lavoro sono relative al c.d. fenomeno del “management by stress” consistente nell’aumento dell’intensità dei ritmi di lavoro e della pressione sociale esercitata dal gruppo sui singoli lavoratori. Un’altra critica, che è rivolta anche alle correnti del job redesign e del role content, riguarda l’assunzione di ipotesi universalistiche circa la natura delle preferenze individuali sugli aspetti del lavoro (non tutte le persone amano assumersi più responsabilità e aspirano a ruoli più impegnativi).

Numerosi e rilevanti sono stati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso i casi di concreta applicazione della soluzione organizzativa sociotecnica per la riprogettazione dei processi di lavoro in industrie e aziende di servizi europee e nordamericane (una rassegna è contenuta in Taylor, Felten, 1993). Tra i progetti più conosciuti, in quanto divenuti simboli delle prescrizioni organizzative sociotecniche, si possono citare gli stabilimenti per la produzione di autoveicoli realizzati da Volvo presso Kandar (1974) e Uddevalla (1989) (si veda scheda 9.4).

Si veda scheda 9.4 I gruppi semi-autonomi di lavoro in Volvo

Nel 1974 il DG di Volvo, Pehr G. Gyllenhammar, annunciava l’apertura dell’allora pionieristico stabilimento di produzione di autoveicoli a Kandar e 15 anni dopo a Uddevalla. I due stabilimenti segnavano una rottura rispetto alla modalità tayloristica di organizzare il lavoro fino ad allora prevalente. La catena di assemblaggio degli autoveicoli fu abolita e sostituita con gruppi di lavoro autonomo per l’assemblaggio, impianti avanzati di automazione industriale per la lavorazione di materiali, codeterminazione della progettazione organizzativa e riduzione dei livelli gerarchici. …Lo stabilimento di Uddevalla si compone di un’unità di fornitura materiali collocata al centro, sei unità di produzione e due unità addette all’ispezione. Il materiale viene trasportato ai team con un sistema di carrelli. Ogni unità di produzione è suddivisa in otto team di lavoro, ciascuno composto da nove operatori. Ciascun team assembla un auto completa, ogni operatore contribuisce a costruire circa un quarto dell’autovettura. Non ci sono supervisori. Questo modo di organizzare il lavoro garantisce processi di apprendimento notevoli. Potendo occuparsi dei vari aspetti del processo di assemblaggio, i lavoratori sono sempre più coinvolti sull’andamento della domanda dei consumatori e impegnati in uno sforzo costante per il miglioramento della produttività e della qualità dei prodotti. I ritmi di lavoro sono intensi come in ogni gruppo di lavoro.

Fonte, Berggren, 1994, con adattamenti

9.2.4 IL GRUPPO DI LAVORO COME UNITÀ DI BASE DELLE RECENTI FOMULE E CONFIGURAZIONI ORGANIZZATIVE

A partire dalla metà degli anni Novanta si registra una diminuzione di interesse verso le pratiche di analisi e di intervento a livello micro-organizzativo ispirate al c.d. indirizzo “classico” sociotecnico (in particolare viene abbandonata l’analisi delle varianze tecniche giudicata troppo complessa e costosa da parte di aziende e consulenti). Tuttavia la soluzione del gruppo di lavoro continua ad essere indicata come unità di base del lavoro dalle principali pratiche gestionali, quali Total Quality Management, Business

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Process Reengeneering, Lean Production, Kaizen, (si veda par. 9.3) che dichiarano di voler superare i principi tayloristici di organizzazione e di affermare logiche e criteri “postfordisti”. L’etichetta di “gruppo semi-autonomo di lavoro” viene sostituita da varie denominazioni (ad esempio, team; task force, team work, self-organizing team ecc.). Il gruppo di lavoro rappresenta inoltre la nuova unità elementare o building block dei più recenti assetti individuati in letteratura, essendo l’unità di base delle strutture organizzative per processi e per progetti; dell’impresa modulare e dell’impresa a rete (si veda par. 9.4.4 e 9.5).

Rinviando ad altri testi (si veda, ad esempio, Masino 2005) la discussione sulle diverse possibili interpretazione dei concetti utilizzati in letteratura per descrivere i vantaggi che il lavoro collettivo genera per gli individui, quali “autonomia”, “empowerment”, “partecipazione”, “valorizzazione delle competenze individuali”, si vuole qui evidenziare che i potenziali benefici attesi sono collegati, secondo la letteratura in oggetto, alle trasformazioni in senso “postfordista” nelle modalità di organizzazione del lavoro delle persone all’interno del gruppo. Come evidenzia, tuttavia, la ricerca empirica sul tema, le modalità concrete di adozione del gruppo di lavoro offrono un’ampia varietà di situazioni in relazione alle specifiche scelte di disegno organizzativo che risultano non sempre orientate ad una logica di cambiamento dei criteri tayloristici.

In particolare gli elementi rispetto ai quali si evidenziano alternative di scelta risultano i seguenti:

a) la definizione del ruolo assegnato al team leader che può avere funzioni di supporto e consiglio rispetto agli altri membri del team oppure esercitare funzioni di controllo e verifica del loro operato. In questo secondo caso, il “decentramento del controllo” al team si tradurrebbe in un cambiamento più formale che sostanziale perché verrebbe semplicemente spostata la collocazione del controllo dal supervisore gerarchico al team leader. Un’altra decisione organizzativa relativa al team leader riguarda la scelta della modalità di elezione (nominato dall’alto oppure eletto dal basso, ossia dai membri del team);

b) le caratteristiche dei compiti assegnati ai membri del gruppo di lavoro e di modi, tempi e strumenti per il loro svolgimento. Per ciascuna di queste variabili le soluzioni concretamente adottate possono ispirarsi a nuove logiche organizzative o ricorrere ai criteri tayloristici. Scelte di specializzazione dei compiti possono convivere all’interno del gruppo con l’assegnazione di ruoli più ampi e ricchi. Inoltre, l’allargamento del lavoro può essere effettuato per consentire una maggiore mobilità tra posizioni che rimangono “povere” dal punto di vista dei contenuti; ancora, la discrezionalità concessa ai lavoratori appartenenti, ad esempio, ai c.d “gruppi di miglioramento della qualità” può trasformarsi in una spinta alla standardizzazione della mansione in ottica taylorista.

c) la definizione dei livelli retributivi. Questi possono essere basati su sistemi tradizionali di job evaluation e far riferimento alla posizione di lavoro oppure essere definiti sulla base di sistemi di skill evaluation ed erogati in seguito a procedure di confronto e valutazione tra competenze “richieste” dal ruolo e competenze “possedute” dal lavoratore, in coerenza con l’obiettivo di incentivare nei membri del gruppo lo sviluppo delle competenze e capacità richieste per affrontare compiti e condizioni di contesto variabili;

d) Il grado di partecipazione degli operatori alle scelte di progettazione del lavoro del gruppo. E’oppurtuno a questo proposito richiamare il secondo principio di

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progettazione sociotecnica (c.d. minimal critical specification), in base al quale una volta definiti da parte del management gli obiettivi e i confini del gruppo, le scelte di organizzazione del lavoro, elencate nei punti precedenti, dovrebbero essere delegate ai membri del gruppo per consentire di scegliere le condizioni adatte a favorire l’autoregolazione del sistema. Resta quindi da verificare chi, all’interno del gruppo, prende parte alla definizione del disegno organizzativo e su quali aspetti è prevista la partecipazione.

Il caso richiamato nella scheda 9.5 fornisce un’esemplificazione delle problematiche sopra trattate. Scheda 9.5 L’introduzione delle Unità Tecnologiche Elementari in Fiat Auto

Uno degli elementi fondamentali del passaggio in Fiat Auto alla Fabbrica Integrata, realizzata intorno alla metà degli anni Novanta, è stata la scomposizione del processo produttivo in fasi e attività assegnate a team di lavoro denominati Unità Tecnologiche Elementari (UTE). Ogni UTE era composta da circa 40 persone e coordinata da un capo, responsabile dei risultati ottenuti dall’UTE. Gli obiettivi erano stabiliti a livello centrale. L’organizzazione interna era improntata a criteri di rigida specializzazione del lavoro. Un’indagine svolta nel 2000 presso il personale dello stabilimento di Cassino evidenziava una diffusa demotivazione degli operai a causa di scarsità di comunicazioni all’interno del team, assenza di momenti di scambio sociale, gruppi di lavoro di dimensioni troppo ampie. Viene così disegnata una nuova organizzazione del lavoro con la costituzione di tre/quattro team per UTE, ciascuno composto da dieci operai, organizzati intorno a 9 postazioni di lavoro, sulle quali ruotano tutti gli operai del team per favorire la polivalenza. Il team leader, eletto direttamente dagli operai, ha compiti di supporto e coinvolgimento del gruppo e per favorirne la socializzazione utilizza un tabellone dove vengono annnotati i risultati raggiunti, i suggerimenti, le attività e le nuove iniziative. Il disegno della nuova soluzione organizzativa è stata effettuta da un Gruppo di Progetto Centrale che ha lasciato alcuni punti da declinare a livello di stabilimento per personalizzare il progetto. Nel corso di un audit effettuato a un anno di distanza sono stati rilevati livelli positivi negli indicatori di qualità di processo e di prodotto. Tuttavia, gli operai hanno espresso lamentele per non essere stati coinvolti nel processo di definizione della soluzione organizzativa.

Fonti: Barbini F.M., et al., 2004; Erlicher L., Massone L., 2002, con adattamenti

9. 3 SCELTE DI PROGETTAZIONE DEI PROCESSI DI LAVORO Il presente paragrafo affronta il tema delle scelte di progettazione delle relazioni

intra-organizzative finalizzate al miglioramento della performance di impresa. Come cambiano le pratiche di analisi e di intervento sui processi di lavoro quando

l’obiettivo passa dalla rigidità dei programmi, tradizionalmente collegata all’impresa fordista, alla ricerca della “flessibilità”, perseguita dall’impresa post-fordista?

Nel paragrafo 9.2.3 abbiamo evidenziato le differenze in termini di analisi e proposte di intervento dell’approccio sociotecnico rispetto alle pratiche tayloriste. Qui illustriamo due pratiche (il Total Quality Management e il Business Process Reengeneering), unanimemente riconosciute alla base delle modalità di gestione e organizzazione delle attività di impresa identificate come approcci “postfordisti”.

9.3.1 TOTAL QUALITY MANAGEMENT E PRATICHE KAIZEN

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Sebbene la “qualità totale” sia generalmente collegata alle pratiche e all’esperienza giapponese, è bene ricordare che l’interesse per il tema della qualità nella gestione d’impresa nasce originariamente negli Stati Uniti, all’inizio del secolo scorso, nell’accezione di “controllo statistico della qualità” (inteso come utilizzo di tecniche statistiche finalizzate a rilevare e analizzare la variabilità delle prestazioni di un processo). Solo negli anni Cinqunata e Sessanta diventa un simbolo del rilancio dell’industria giapponese dove viene adottata nel significato di “qualità totale” (Company Wide Quality Control).

La biografia e l’esperienza professionale di Edward Deming (lo statistico statunitense diventato famoso a livello internazionale per la sua attività, svolta a partire dagli anni Cinquanta, di formatore e consulente di imprenditori e managers giapponesi) riflettono bene la natura di questo approccio gestionale e organizzativo, che unisce un forte orientamento all’utilizzo di strumentazioni statistiche per l’analisi e il controllo dei processi di lavoro e al ricorso intensivo a procedure e standard per la loro regolazione, tipico della cultura anglosassone, con alcuni elementi propri della cultura giapponese (la “devozione” dei dipendenti nei confronti dell’azienda, la fiducia nel management, la meticolosità e la cura del particolare).

Gli elementi alla base del sistema di gestione noto come TQM sono tratti dalle opere di Deming (1982) e di Juran (1988) e descritti qui di seguito.

1) Adottare una strategia orientata al perseguimento della qualità implica porsi

l’obiettivo del miglioramento dei prodotti e dei servizi e dell’allocazione di risorse nell’innovazione di prodotti, processi e persone. Dal punto di vista strategico l’obiettivo della qualità non deve essere ritenuto in contrasto con la ricerca di una maggiore efficienza (produttività).

2) La qualità va intesa come qualità “attesa” e “percepita” dal consumatore ed è

determinata non solo dalle caratteristiche del prodotto finale ma da un insieme di elementi da cui dipende la soddisfazione complessiva del cliente (prezzo, consegna, livello di servizio, affidabilità ecc.). “Il consumatore è la parte più importante della linea di produzione” (Deming, op. cit., pag. 24) e tutte le attività d’impresa devono essere orientate verso la sua soddisfazione.

3) L’obiettivo della qualità non riguarda solo i prodotti/servizi ma anche i

“processi” che devono essere costantemente monitorati in un’ottica di “miglioramento continuo”. Inoltre la qualità non va intesa come “conformità alle specifiche di prodotto” e verificata ex post ma va controllata costantemente durante lo svolgimento dell’attività, attraverso tecniche di controllo statistico di qualità (“prevenire i rischi di mancata qualità piuttosto che intervenire per rimediare i danni”).

Dal punto di vista gestionale e organizzativo, il perseguimento di obiettivi di qualità, in una logica di miglioramento continuo, comporta, l’assunzione di scelte schematizzate nel c.d. P.D.C.A. (Plan, Do, Check, Act) o ciclo di Deming (si veda fig. 1), che si basa sulla definizione di standard e sulla ricerca continua del loro miglioramento.

Sia l’attività di prevenzione che di miglioramento della qualità richiedono un forte coinvolgimento di tutto il personale dell’azienda (si veda punto successivo).

Fig. 1 all’incirca qui

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4) Le condizioni organizzative ritenute adatte ad ottenere la collaborazione delle

persone sono rappresentate da: formazione, enfasi sulla soddisfazione e sul senso di autorealizzazione dei singoli, incentivi monetari, utilizzo del team di lavoro, ricorso a tecniche e strumenti di gestione noti come metodi kaizen1.

Se i benefici legati all’adozione della logica del TQM appaiono con chiarezza, il

suo limite principale riguarda il ruolo centrale svolto dalla standardizzazione che genera il rischio di “ingessamento” o di “burocratizzazione” dell’azienda e appare in contraddizione con gli obiettivi di flessibilità e di attenzione alla soddisfazione del cliente.

9.3.2 BUSINESS PROCESS REENGENEERING

Il BPR può essere definito come l’insieme delle tecniche e degli strumenti di analisi e di intervento volti a ripensare la catena delle attività aziendali in una “logica di processo” o “orizzontale”, a partire dall’obiettivo di un recupero di efficienza e del miglioramento della performance aziendale.

Punto centrale è la definizione di “processo” che è da intendersi come una sequenza di operazioni e di attività concatenate o interconnesse, che possono attraversare trasversalmente le funzioni, le specializzazioni disciplinari o i confini aziendali, e sono riferibili ad obiettivi specificati e identificati. Esempi di processi, in una scala che va dal micro al macro, sono l’evasione di un ordine del cliente o di una domanda di finanziamento, lo sviluppo di un nuovo prodotto, il flusso di attività logistiche in entrata e in uscita.

Le motivazioni alla base di un intervento finalizzato al ridisegno o reengeneering del processo sono collegate alla considerazione che un approccio di gestione e organizzazione orientato ai processi consenta una maggiore focalizzazione sugli obiettivi e quindi permetta di migliorare la prestazione finale fornita al cliente (in termini di costi, livelli di servizi attesi, tempi, qualità ecc.).

L’intervento di riprogettazione può comportare scelte di ridisegno di: confini (l’impresa può decidere di assegnare all’esterno alcuni “processi” in precedenza svolti internamente o di integrare processi precedentemente esternalizzati); struttura (introduzione di configurazioni “orizzontali” o “per processo” in sostituzione delle strutture verticali di tipo “funzionale”- si veda par. 9.4.4 -); organizzazione del lavoro (ridefinizione del contenuto dei ruoli organizzativi, inserimento della figura del process owner – si veda scheda 9.6). Scheda 9.6 Il process owner

1 Il kaizen, che letteralmente significa kai (cambiamento) e zen (continuo), fa riferimento ad una “filosofia”

organizzativa (la ricerca costante, “quotidiana” di miglioramenti incrementali ai fini di aumentare l’efficienza e la qualità di tutti i processi). Per incentivare la mobilitazione delle competenze dei lavoratori, esso si basa su strumenti quali i circoli di qualità e il sistema dei suggerimenti, attraverso i quali le persone sono indotte a proporre cambiamenti nelle procedure e nelle modalità di svolgimento del lavoro che, una volta identificati e approvati, sono destinati ad essere codificati e a diventare nuovi “standard operativi”.

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Il process owner è la figura cui l’impresa attribuisce la responsabilità dei risultati del processo. Interviene sul flusso preordinato di attività, svolte dalle funzioni aziendali che operano sul processo, con compiti di governo, controllo, supporto. Dal punto di vista delle attribuzioni di potere decisionale formale si possono prevedere due situazioni: a) il process owner non è dotato di autorità gerarchica, non può intervenire sulle decisioni di competenza delle funzioni aziendali e pertanto può raggiungere i suoi obiettivi facendo leva su altri strumenti quali la persuasione, l’influenza, la fiducia, ecc. (il suo ruolo è simile a quello del product manager descritto nel par. 9.4.4); b) il process owner è dotato di autorità gerarchica formale, è responsabile di un’unità organizzativa e può intervenire direttamente con i tradizionali strumenti di direzione e controllo sulle risorse assegnate per la realizzazione degli obiettivi di processo (è un manager di line delle unità componenti una struttura organizzativa “per processi”)

In letteratura si distinguono due approcci alla reingegnerizzazione. a) Business Process Reengeneering incrementale (o “miglioramento dei

processi”), il cui obiettivo consiste nella ottimizzazione/semplificazione dei processi aziendali tramite l’eliminazione di disfunzioni e inefficienze. Si parla in questo caso di approccio “analitico” o “bottom up” poiché la riprogettazione dei processi è preceduta da una dettagliata analisi di tutte le attività svolte all’interno dei confini dell’impresa (processi intra-organizzativi) al fine di rilevarne caratteristiche (chi le svolge, modalità, tempi, strumenti di svolgimento) e prestazioni ottenute. L’intervento è motivato dall’esigenza di migliorare la prestazione fornita al cliente e può prendere spunto dai risultati di indagini sulla customer satisfaction o da attività di benchmarking dei concorrenti. Si avvale di tecniche di analisi e rappresentazione dei processi utilizzati per la progettazione dei sistemi informatici (es. IDEFO) e di metodologie utilizzate nei progetti di TQM (quali il Quality Function Deployment o il digramma causa-effetto) ed è finalizzato a identificare nuovi modalità di svolgimento delle attività da svolgere e delle loro connessioni (disegno di un nuovo processo di lavoro).

b) Business Process Reengeneering “radicale ”, il cui obiettivo è realizzare un

cambiamento “radicale” rispetto alla situazione corrente dell’impresa per ottenere un miglioramento significativo nelle “misure di performance critiche come il costo, la qualità, il servizio, il valore” (Hammer e Champy, 1993). Si parla di approccio “creativo” per sottolineare che i processi oggetto di progettazione devono essere completamente ripensati, cambiando anche radicalmente gli obiettivi, le attività da svolgere e le scelte di strutturazione, secondo una logica tipo “foglio bianco”. Il punto di partenza dell’intervento di ridisegno è rappresentato dal riposizionamento strategico dell’impresa (consistente nell’offerta di nuovi prodotti/servizi da rivolgere ai propri clienti e/o nell’ingresso in nuovi segmenti di mercato). L’analisi è estesa anche alle attività assegnate a fornitori e distributori (processi inter-organizzativi) e si basa sull’utilizzo di tecniche di rappresentazione del tipo “diagramma di flusso” o “catena del valore”.

Il BPR radicale può rappresentare uno strumento efficace per il miglioramento delle prestazioni di un’impresa in quanto consente di realizzare una “discontinuità” rispetto alla situazione corrente. Elevati, tuttavia, sono i rischi di insuccesso o fallimento del progetto (si stima che solo un quarto delle esperienze di BPR radicale abbiano prodotto i risultati attesi). Tra le motivazioni alla base dell’insuccesso: le tensioni e i conflitti generati dal cambiamento delle strutture e, in particolare, dei criteri di

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allocazione del potere formale; il rischio di eliminazione di alcune competenze chiave come conseguenza della sostituzione dei tradizionali ruoli “funzionali” con ruoli di “responsabilità per processo”. Queste difficoltà consigliano di evitare di utilizzare nel ridisegno dei processi la logica del “foglio bianco” e di adottare al contrario un approccio attento alle caratteristiche peculiari dell’azienda (firm specific).

9. 4 SCELTE DI PROGETTAZIONE DELLA CONFIGURAZIONE FORMALE DELL’IMPRESA

Questo terzo livello di progettazione organizzativa, definito anche livello

“macro” o progettazione della “macrostruttura”, ha come finalità il disegno della struttura organizzativa, intesa come “configurazione” formale (ovvero “forma” o “architettura”) dell’impresa e definita attraverso le scelte di divisione del lavoro (specializzazione orizzontale) e di distribuzione del potere decisionale (specializzazione verticale).

La letteratura organizzativa, in particolare manualistica, di ambito economico-manageriale dedica generalmente ampio spazio all’illustrazione del tema.

Occorre precisare che la scelta della configurazione formale e il suo cambiamento costituiscono solo una parte dell’insieme di scelte organizzative che occorre affrontare per realizzare le finalità d’impresa. E’ pur vero che si tratta di una scelta rilevante, come evidenzia l’attenzione su questi temi, sempre molto forte, da parte dei dirigenti aziendali, così come lo sforzo concretamente prodotto dalle imprese rivolto a ri-configurare i propri assetti formali. L’intervento sulla struttura organizzativa d’impresa si configura infatti come uno strumento tramite il quale la coalizione dominante di un’impresa codifica le scelte di ripartizione del potere decisionale formale e vede e riconosciuta la propria posizione di controllo.

In quali studi ha origine il concetto di struttura come configurazione organizzativa formale? In che cosa consiste il disegno o progettazione della struttura? Quali sono i criteri suggeriti dalla letteratura per procedere al confronto tra forme organizzative diverse e scegliere la struttura da adottare nell’impresa? Quali sono le principali strutture organizzative?

Questi i principali interrogativi a cui il presente paragrafo si propone di rispondere.

9.4.1 I PRINCIPI DI PROGETTAZIONE DELLA STRUTTURA FORMULATI DALLA SCUOLA CLASSICA DELL’ORGANIZZAZIONE

Il concetto di “struttura organizzativa” come configurazione formale dell’impresa trova i propri fondamenti teorici nei principi di amministrazione e direzione d’impresa prodotti dalla Administration Science, l’indirizzo di studi che, insieme allo Scientific Management, costituisce la c.d. scuola classica dell’organizzazione.

La struttura organizzativa, concepita come risultato delle decisioni codificate di aggregazione dell’attività d’impresa in unità organizzative e di allocazione dell’autorità formale con la conseguente istituzione di rapporti di dipendenza tra le unità organizzative, risale infatti alle idee contenute nei contributi degli autori appartenenti a questa scuola. In particolare, si deve ad Henry Fayol (1916) la proposta dell’organigramma, come rappresentazione grafica della struttura, che descrive la disposizione delle varie unità aziendali secondo relazioni di sovra-subordinazione.

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Tra le cinque attività che, secondo gli autori della scuola classica, rientrano nell’ambito della funzione di amministrazione (“programmare, organizzare, comandare, coordinare, controllare”), il compito principale dell’attività organizzativa è di definire la “struttura gerarchica” che da questi autori è concepita come lo strumento razionalmente costruito per garantire lo svolgimento delle attività d’impresa e il coordinamento orientato all’efficienza. Il presupposto della razionalità oggettiva, che orienta le convinzioni degli autori della scuola classica nella costruzione di una scienza dell’amministrazione, è alla base del disegno della struttura e conduce ad identificare le scelte di divisione del lavoro e di ripartizione delle responsabilità gerarchiche che massimizzano l’efficienza amministrativa. La struttura che ne deriva, in seguito diventata nota con il termine di “forma gerarchico-funzionale”, è il risultato dell’applicazione di alcuni dei classici “principi” della Teoria dell’Amministrazione2 di Henry Fayol (1916). Essi prescrivono: 1) la divisione delle attività costitutive di impresa fondata sulle funzioni (specializzazione funzionale); 2) l’attribuzione ad ogni unità funzionale di “autorità gerarchica” (il potere di impartire ordini) e di “responsabilità” (sull’impiego delle risorse e sui risultati raggiunti) (separazione funzionale dei poteri); 3) l’accentramento del potere decisionale in unico punto dell’organizzazione (centralizzazione) e da qui distribuito ai vari organi aziendali, attraverso processi di delega e, nel rispetto del principio scalare e dell’unità di comando (secondo il quale “ogni persona deve ricevere ordini da un solo capo”), con la conseguente creazione della gerarchia (intesa come “successione dei livelli dall’alto verso il basso” secondo rapporti di sovra-subordinazione); 4) l’indicazione di un numero massimo di addetti che un capo può dirigere, “il cui lavoro sia concatenato” (ampiezza di controllo); 5) la distinzione tra organi di di line (dotati di autorità gerarchica) e organi di staff (che forniscono un supporto alla line ma non possono imporre ordini). 9.4.2 I PRINCIPI DI PROGETTAZIONE DELLA STRUTTURA SECONDO LA TEORIA DELLE CONTINGENZE

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso il tema del disegno della struttura diventa oggetto d’indagine di una corrente di studi nota come “teoria delle contingenze”, al cui interno sono compresi numerosi indirizzi, che condividono i seguenti elementi: a) l’adozione di una prospettiva funzionalista e sistemica nell’interpretazione dell’impresa, considerata come un sistema aperto o sistema vivente che sopravvive e cresce grazie ad un interscambio continuo con l’ambiente; b) il tentativo di spiegare la varietà delle configurazioni strutturali osservate nelle imprese sulla base dell’influenza esercitata da fattori “contingenti”, “di contesto” o “situazionali”; c) l’indicazione rivolta al management di scegliere tra le alternative di soluzioni strutturali seguendo il criterio dell’adattamento ai fattori di contesto come condizione per garantire la performance aziendale.

2 Nella prima versione italiana dell’opera di Fayol, il termine administration è stato tradotto con direzione e da allora così utilizzato negli studi di economia-aziendale. Secondo Fayol, la direzione “è un’arte difficile che esige intelligenza, esperienza, decisione e misura”. Essa può avvalersi di “principi di amministrazione” che, tuttavia, vanno intesi non come regole assolute da applicare rigidamente in ogni situazione ma come criteri guida “soggetti a cambiamento nel tempo”, da assumere con “buon senso” e “misura”, tenendo conto di “circostanze diverse e mutevoli…e di molti altri elementi variabili” (Fayol, 1916).

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L’approccio è definito contingentista o situazionale in quanto spiega la varietà di strutture organizzative riscontrabili nella realtà delle imprese sulla base del condizionamento esercitato dai fattori “contingenti” (ambiente, tecnologia, dimensione, strategia). L’adattamento alle variabili di contesto è la prescrizione raccomandata al management nell’ipotesi che l’efficienza dell’organizzazione dipenda dalla natura di tali variabili e dal miglior adattamento ad essi. Il cambiamento organizzativo, inteso come modifica del disegno della struttura o di parte di essa, diventa in questi studi oggetto di particolare attenzione in quanto strumento che, garantendo l’adattamento ai mutamenti del contesto interno o esterno, consente il ripristino delle condizioni di efficienza dell’impresa. Poichè l’intento è fornire indicazioni per la scelta della struttura organizzativa che garantisca il successo o la performance dell’impresa, la prospettiva di studio non si discosta dall’idea di “calcolo” tipica della razionalità oggettiva. La ricerca della soluzione “ottima” è sostituita con l’individuazione della soluzione “più adatta” alle caratteristiche di un fattore di contesto considerato un “dato” o un “vincolo previo”.

Vari e numerosi indirizzi hanno contribuito ad alimentare l’approccio situazionale. Una possibile classificazione fa riferimento alla variabile di contesto (dimensione, tecnologia, ambiente, strategia) messa in relazione con la struttura.

Struttura e dimensione Sono gli studi della scuola di Aston (Pugh et al., 1969) che, basandosi su una classificazione di strutture, ottenuta misurando le differenze tra i valori assunti dagli indicatori utilizzati per descriverle, e mettendo in rapporto tali differenze con alcuni elementi del contesto, giungono a definire il numero di addetti di un’impresa, ossia la sua dimensione, come il fattore predittivo più importante della struttura organizzativa adottata. Tali studi, peraltro mai giunti a risultati univoci, sono alla base dello sviluppo di un’ampia letteratura organizzativa sui rapporti tra piccole imprese e scelte organizzative (si veda scheda 9.7).

Struttura e tecnologia Il più famoso contributo sul tema è rappresentato dallo studio pionieristico di Joan Woodward (1965). Studiando un campione di 100 imprese manufatturiere, l’autrice mette in relazione le caratteristiche della tecnologia adottata (intesa come insieme di strumenti, macchine e metodi utilizzati per la produzione) e i valori assunti da alcuni indicatori utilizzati per descrivere le strutture ed evidenzia che a gradi diversi di sviluppo tecnologico corrispondono diverse modalità – empiricamente rilevabili- di progettazione dell’organizzazione aziendale. Scheda 9.7 La letteratura organizzativa sulla piccola impresa

Nell’ambito degli studi sui rapporti tra piccole imprese e scelte organizzative si possono evidenziare due correnti di pensiero, distinguibili in relazione all’importanza attribuita alla “dimensione” come fattore determinante le configurazioni organizzative. In un primo gruppo sono compresi i contributi che, seguendo le indicazioni della scuola di Aston, assumono la dimensione come il “fattore organizzativo per eccellenza”, considerano il suo effetto “universale” ossia uguale in tutte le imprese, indipendentemente dal contesto in cui esse operano o da altri fattori contingenti e mettono in relazione la complessità delle scelte organizzative con l’aumento della dimensione. Da qui la considerazione della piccola impresa come un comparto omogeneo caratterizzato da strutture organizzative di tipo “semplice o elementare”, ritenute adeguate a questa categoria di imprese in relazione alla “semplicità” dei problemi da affrontare e al particolare ruolo svolto dall’imprenditore-proprietario. Altri studi, al contrario, affermano l’esistenza della varietà delle strutture anche nelle piccole imprese, a partire dall’osservazione empirica di realtà caratterizzate da differenti gradi di complessità gestionale e organizzativa. Senza negare l’importanza della

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dimensione, come fattore di condizionamento delle forme organizzative adottate dalle piccole imprese, questi studi ne relativizzano il ruolo considerandola “una” delle variabili rilevanti per interpretare le scelte strutturali ma non l’unica e sostengono che anche altri fattori contingenti sono in grado di influenzare le scelte organizzative delle piccole imprese. Tra questi assumono una valenza particolare la personalità, le motivazioni e le capacità dell’imprenditore-proprietario.

Fonte: Marchiori, 2006, con adattamenti Struttura e ambiente L’influenza di questa variabile sulla progettazione assume

particolare rilievo nella teoria delle contingenze proprio in relazione alla concezione dell’impresa quale organismo vivente, adottata in questi studi e derivata dalla scienze biologiche. Dell’ambiente, concepito come entità concreta, si analizzano alcune proprietà “tipiche” (stabile/instabile; certo/incerto; semplice/complesso; omogeneo/eterogeneo) che vengono messe in relazione con le caratteristiche delle strutture organizzative allo scopo di evidenziare corrispondenze che assicurino l’efficienza dell’impresa. Burns e Stalker (1961) distinguono: il “sistema meccanico” adatto a condizioni di stabilità con soluzioni rigide e il “sistema organico” adatto a situazioni dinamiche con soluzioni flessibili. Lawrence e Lorsch (1967) introducono il concetto di differenziazione organizzativa, sostenendo che, per garantire il successo dell’impresa, l’adattamento all’ambiente deve riguardare non solo l’intera organizzazione ma anche anche le singole parti. L’integrazione, intesa come “grado di collaborazione” tra le diverse parti si rende necessaria al fine di assicurare l’unità degli sforzi e il raggiungimento del fine comune (si veda scheda 9.8).

Scheda 9.8 Strumenti per l’integrazione organizzativa

Secondo Lawrence e Lorsch, lo scopo di tali strumenti è di risolvere i problemi di comunicazione e i conflitti tra i membri di unità organizzative differenziate e favorire il dialogo e la collaborazione verso il raggiungimento di obiettivi comuni. Gli autori individuano i seguenti “strumenti” definiti di “integrazione o coordinamento”: gerarchia direttiva (sistema dei capi); piani, programmi operativi; standard, procedure, regole; osizioni o ruoli di collegamento; task force, comitati, gruppi di lavoro; manager integratori (product manager, project manager, ecc).

Struttura e strategia Rientra in questo gruppo di studi il lavoro di Ansoff e

Brandeburg (1971) che per primi hanno presentato una classificazione di strutture organizzative “tipiche” o “di base”, da allora diventata punto di riferimento per ogni discorso sulle configurazioni organizzative d’impresa, e un metodo di valutazione comparata delle strutture che ha tuttora larghissima diffusione negli studi di Organizzazione Aziendale (si veda par. seguente punto B). Nel lavoro di Ansoff e Brandenburg, che interpretano secondo le categorie contingenti l’importante lavoro di ricerca storico-economica di Alfred Chandler (1962), le strutture vengono presentate come “modelli”, ossia soluzioni strutturali adottate dalle imprese, in determinati periodi storici, in relazione all’evoluzione delle scelte strategiche e delle condizioni ambientali di riferimento. In particolare, per questi autori è il passaggio da ambienti stabili e strategie monoprodotto ad ambienti via via più dinamici con aumento di dimensioni e diversificazioni del mix di prodotti offerti e di mercati serviti a rendere conveniente per l’impresa la trasformazione del modello organizzativo da struttura “funzionale” a “divisionale” e a “matrice”, secondo una lettura di tipo evolutivo che caratterizza i contributi della scuola di Harvard.

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Un altro contributo che ha avuto largo successo negli indirizzi di management e

nella pratica aziendale è quello di H. Mintzberg (1979). Rispetto al saggio di Ansoff e Brandeburg, Mintzberg propone una nuova classificazione delle forme strutturali che vengono presentate non in necessaria evoluzione ma continuano ad essere interpretate secondo la dicotomia strutture burocratiche (rigide)/strutture organiche (flessibili) tipica dell’approccio contingentista.

9.4.3 CRITERI DI PROGETTAZIONE E DI VALUTAZIONE DELLE SOLUZIONI STRUTTURALI

Di seguito viene descritto il metodo suggerito dalla letteratura contingentista per la progettazione delle strutture organizzative (punto A) e per la loro valutazione comparata ai fini di scelta della soluzione da adottare (punto B).

A) Circa le scelte da compiere per il disegno delle “strutture organizzative”, intese come configurazioni formali, la letteratura individua due ambiti di decisioni.

1) La scelta del criterio di raggruppamento da utilizzare per aggregare le attività in unità organizzative (si parla di scelta del criterio di specializzazione orizzontale). Si distinguono due criteri o “basi” principali di raggruppamento: a) il raggruppamento in base alle attività svolte, alle funzioni e/o alle conoscenze richieste dalle attività che implica di aggregare in unità separate le posizioni caratterizzate dallo svolgimento di attività analoghe sotto il profilo della funzione svolta o dalla affinità delle conoscenze tecnico-disciplinari richieste dalle attività svolte (ne sono esempi l’articolazione in unità organizzative, destinate ad acquisti, vendite, produzione, di un’impresa manufatturiera o la suddivisione in reparti specialistici - chirurgia, medicina generale, radiologia, ecc. - di un’ospedale). Cruciale per questa distinzione è il concetto di funzione, che gli studiosi contingentisti recuperano, come abbiamo visto, da Fayol e dalla sociologia funzionalista, e che consiste nella scomposizione delle attività costitutive d’impresa in gruppi di attività separate e finalizzate agli scopi necessari al funzionamento dell’impresa, intesa come sistema aperto o organismo vivente (funzioni di reperimento e adattamento di risorse, conseguimento degli scopi, mantenimento, integrazione e supporto); b) il raggruppamento in base agli output ossia ai risultati dell’attività svolta (prodotti o servizi), ai loro destinatari (clienti o mercati) che implica di aggregare in unica unità organizzativa le attività richieste per la realizzazione dell’output finale e/o per la soddisfazione delle esigenze del segmento di clientela/mercato servito. Rientra in questo criterio anche la scelta di raggruppare le attività sulla base del processo (si veda fig. 2).

Fig. 2 all’incirca qui

2) La scelta del criterio di distribuzione del potere decisionale formale e di

assegnazione delle responsabilità gerarchiche. Da queste decisioni derivano il grado di accentramento/decentramento della struttura, il numero dei livelli gerarchici, l’articolazione in organi di staff e di line (si parla a tal proposito di criteri di specializzazione verticale).

Con riferimento a questo secondo ordine di scelte, la letteratura non offre, a differenza del punto precedente, indicazioni altrettanto chiare. In particolare, non esiste un’interpretazione univoca del concetto di accentramento (e simmetricamente di decentramento) con la conseguenza di rischi di ambiguità e confusione nella valutazione

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delle strutture. Ciò è evidente nella ricerca empirica che dovendo utilizzare parametri e indicatori diversi per rilevare il grado di accentramento/decentramento (ad esempio, numero di decisioni, contenuto delle decisioni, margini di discrezionalità, processi decisionali, ecc.) spesso non giunge ad un’indicazione chiara e definitiva della logica organizzativa ma piuttosto rileva la comprensenza all’interno di una stessa struttura di soluzioni accentrate e soluzioni decentrate. In conclusione, l’utilizzo della dicotomia accentramento/decentramento, se da un lato si ispira ad obiettivi di sintesi e semplificazione, dall’altro rischia di non riuscire a cogliere la complessità dei processi decisionali concreti e richiede a livello di indagine empirica il ricorso ad altri concetti per la sua qualificazione.

Un’ulteriore precisazione riguarda una convenzione adottata in letteratura per “etichettare” le varie strutture e procedere alla loro identificazione. Secondo questa convenzione le forme organizzative “fondamentali”, c.d. “modelli”, si distinguono in base al criterio di raggruppamento e di distribuzione del potere decisionale utilizzato per le unità poste al livello gerarchico più alto (unità di primo livello), collocate alle dipendenze del vertice strategico o della direzione generale d’impresa. In tal modo si identificano tre modelli o schemi fondamentali (“funzionale”, “divisionale” e “a matrice”) e le loro principali varianti (quali ad esempio, “funzionale accentrata o decentrata”; “divisionale per prodotto, area geografica, segmento di clientela”; “a matrice per progetto, per prodotto, per processo”). Tuttavia nella creazione di una configurazione, la scelta dei criteri di specializzazione orizzontale e verticale si pone in corrispondenza di tutti i livelli in cui si articola la struttura organizzativa. Può accadere così che ai diversi livelli vengano effettuate scelte diverse (ad esempio, si utilizzi il raggruppamento su base funzionale al primo livello e quello su base del prodotto o dell’area geografica per la strutturazione delle unità di secondo livello – come il marketing o la produzione – ).

Ciò rende difficile interpretare in modo univoco la natura della configurazione organizzativa di un’impresa (nei casi illustrati si può parlare ancora di struttura funzionale o si deve parlare di struttura divisionale?). La letteratura parla a questo proposito di “ibridi organizzativi”, intesi come strutture organizzative che presentano caratteristiche proprie di più di una configurazione, ossia sono costruite utilizzando in modo combinato più basi di raggruppamento e criteri di distribuzione del potere decisionale e afferma che nella realtà è difficile riscontrare le forme organizzative allo stato “puro” mentre gli “ibridi” rappresentano le forme strutturali più frequenti.

B) Quest’ultima considerazione ci conduce al secondo aspetto che vogliamo

trattare relativo al metodo indicato per procedere alla valutazione comparata delle alternative strutturali e alla scelta della configurazione “più adatta” alle esigenze aziendali. Il metodo adottato nei manuali di progettazione organizzativa risale agli studi contingentisti, in particolare alla proposta di Ansoff e Brandenburg. Le forme strutturali “fondamentali” e le loro principali varianti vengono illustrate presentandone: a) i principi costitutivi, b) i vantaggi (espressi in termini di efficienza/flessibilità; specializzazione/innovazione; ecc.) e gli svantaggi o punti di debolezza (espressi in termini di costi e difficoltà di realizzazione); c) le condizioni di contesto che rendono efficace ed efficiente il loro utilizzo (anch’esse presentate secondo le dimensioni dicotomiche stabilità/dinamicità; certezza/incertezza; semplicità/complessità).

Le indicazioni normative suggeriscono che l’adozione di una specifica alternativa di progettazione, tra quelle descritte in letteratura, risulta “conveniente” quando le

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condizioni di contesto consentono di sfruttarne i benefici e ne rendono sopportabili i “costi” per l’impresa. I problemi sorgono quando, e sono i casi più frequenti, il successo dell’impresa è legato alla realizzazione di obiettivi multipli e contrastanti tra di loro che richiedono scelte strutturali in grado di garantire lo sviluppo di conoscenze specializzate e la capacità di innovazione; l’efficienza e al tempo stesso la flessibilità. Storicamente la risposta data all’aumentata complessità ambientale è stata l’introduzione di forme organizzative più articolate (forme a matrice o adhocratiche) in grado di coniugare esigenze contrapposte.

E’ pur vero che nessuna di tali forme strutturali ha trovato mai ampia diffusione allo stato “puro” nella realtà delle imprese, a causa delle difficoltà di implementazione rivelatesi superiori agli attesi presunti vantaggi. Come si è detto questo elemento è stato ampiamente riconosciuto dalla letteratura mainstream che individua nella diffusione di “ibridi” organizzativi, la costruzione da parte delle imprese di soluzioni strutturali più adatte a rispondere ai cambiamenti in atto nel contesto stategico-ambientale.

Queste considerazioni portano a sollevare alcuni interrogativi circa la capacità di una teoria, che si basa sulla identificazione di un numero limitato di strutture “tipiche”, di interpretare le scelte di disegno organizativo concretamente effettuate dalle imprese e di fornire indicazioni utili per la loro assunzione (si veda, al riguardo, Grandori, 2003).

9.4.4 LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE

In questo paragrafo vengono presentate le forme organizzative “di base”, identificate dalla letteratura che segue l’approccio situazionale. Le loro caratteristiche sono illustrate seguendo lo schema utilizzato nei manuali di progettazione organizzativa (punti A e B precedenti).

La struttura funzionale

Si caratterizza per l’adozione del raggruppamento su base funzionale delle unità di primo livello (funzioni) e la conseguente assegnazione di responsabilità gerarchiche funzionali separate (si veda fig. 3). Il vertice mantiene l’accentramento delle decisioni strategiche e delega ai dirigenti funzionali di primo livello le decisioni di tipo operativo e direzionale.

Fig. 3 all’incirca qui

La struttura funzionale favorisce l’efficienza in condizioni di stabilità ambientale e lo sviluppo di conoscenze specialistiche ma è una struttura “rigida” che rende difficile la rapidità di risposta in situazioni di complessità ambientale, a causa del sovraccarico informativo e decisionale del vertice e delle difficoltà di comunicazioni tra le unità funzionali che ostacolano la realizzazione di innovazioni. I suoi limiti hanno portato allo sviluppo di forme c.d. “funzionali modificate”.

Tali modifiche consistono nell’inserimento di posizioni di collegamento di tipo commerciale come product manager, brand manager, ecc. o di tipo tecnico- produttivo come project manager o nell’istituzione di organi di integrazione come comitati o task force con assegnazione di responsabilità di tipo orizzontale, consistenti nel raggiungimento di obiettivi specifici di prodotto, marca ecc. o di progetto. Tali ruoli, non disponendo di autorità gerarchica formale sulle risorse dipendenti dalle funzioni, non possono imporre le proprie decisioni all’interno delle aree di competenza delle direzioni funzionali. Pertanto, per il raggiungimento degli obiettivi commerciali o tecnici che gli

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sono stati assegnati, devono ricorrere ad altre basi di potere (quali l’influenza, il convincimento, la persuasione) cercando, in tal modo, di orientare le scelte delle unità funzionali le cui attività risultano necessarie per la realizzazione del prodotto/progetto in questione. La struttura divisionale

Nella struttura divisionale le unità organizzative di primo livello (divisioni) vengono costituite raggruppando le attività collegate a) ad uno specifico prodotto/servizio offerto, oppure b) svolte in una determinata area geografica, o c) destinate alla soddisfazione dei bisogni di un gruppo di clienti/segmento di mercato/canale di distribuzione. Il vertice delega ai responsabili di divisione le decisioni operative relative alla specifica combinazione produttiva o all’area geografica/segmento di mercato oggetto di divisionalizzazione mentre mantiene l’accentramento delle seguenti decisioni: elaborazione della strategia complessiva d’impresa; definizione del sistema di controllo delle performance delle divisioni; allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse divisioni. Inoltre, può mantenere sotto la propria direzione alcune unità di staff, specializzate secondo una logica funzionale e finalizzate a produrre ed erogare alle divisioni servizi e attività comuni - ad esempio finanza, servizi legali, acquisti, ricerca di base, ecc.- (si veda fig. 4).

Fig.4 all’incirca qui

Si è parlato a proposito di questa configurazione di una struttura “decentrata”, in

ragione della delega di potere formale e di responsabilità di profitto attribuite ai dirigenti di primo livello, definiti “quasi-imprenditori”. Il principale vantaggio della struttura divisionale è rappresentato dall’opportunità di focalizzare attenzione, decisioni e competenze del management e delle risorse su ambiti di attività differenziati tra loro, consentendo una maggiore capacità di adattamento (“flessibilità operativa”) ai bisogni specifici delle diverse aree di business, geografiche o di mercato in cui l’impresa opera. Tra gli svantaggi si rilevano: problemi di inefficienza dovuti alla duplicazione delle attività funzionali presso le divisioni e alla proliferazione delle staff centrali con compiti di produzione di standard, sistemi di controllo e servizi comuni; rischi di elevata conflittualità tra le divisioni per l’attribuzione delle risorse e tra direzione centrale e divisioni in merito ai rispettivi ambiti di potere decisionale; difficoltà di controllo dei comportamenti delle divisioni da parte del vertice; problemi di comunicazione, pianificazione e gestione dei rapporti tra le divisioni (un esempio è rappresentato dalla difficoltà di definizione dei c.d. prezzi interni di trasferimento). Inoltre, quando le scelte di strutturazione delle attività svolte nell’ambito delle singoli divisioni si orientano verso l’adozione di una forma funzionale, possono emergere gli stessi inconvenienti già rilevati per questa struttura (rischi di eccesso di verticalizzazione e di scarsa capacità di innovazione). La configurazione “a gruppo” rappresenta una variante della struttura divisionale, dove le varie divisioni sono società dotate di autonomia giuridica. La struttura a holding, o gruppo verticale rappresenta la formula più diffusa con la presenza di una società (holding o capogruppo) che controlla le altre imprese attraverso il possesso di partecipazioni azionarie.

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La struttura a matrice Questa configurazione si definisce “a matrice” in quanto utilizza un duplice

criterio di raggruppamento delle attività (per funzione e per risultato). Al primo livello gerarchico si nota infatti la presenza combinata di unità organizzative di tipo funzionale o “gruppi di sviluppo”, con compiti di svilupppo e di mantenimento delle risorse e delle specializzazioni d’impresa e di unità organizzative specializzate per programma/progetto o “gruppi di progetto”, cui è assegnata la responsabilità del conseguimento e del controllo dei risultati di uno specifico output, per la cui realizzazione è previsto l’utilizzo di risorse messe a disposizione dalle funzioni o gruppi di sviluppo (si veda fig. 5). Due le principali caratteristiche distintive di questa configurazione: a) l’istituzione di una duplice linea di autorità gerarchica (le due dimensioni della matrice), derivante da processi di delega di potere decisionale formale dal vertice ai managers funzionali e ai responsabili di progetto; b) la doppia dipendenza dei membri della struttura dal responsabile dell’unità funzionale da cui provengono e dal responsabile di progetto cui sono temporaneamente assegnati.

Fig 5 all’incirca qui

La forma a matrice o “adhocratica”, come successivamente è stata denominata,

viene indicata come la soluzione organizzativa adatta in presenza di attività che richiedono, al contempo, la necessità di mantenere e sviluppare competenze professionali differenziate e specializzate e il loro variabile utilizzo per soddisfare le esigenze di progetti complessi ma di durata temporanea. Nella struttura a matrice le unità specializzate per funzione rappresentano aggregazioni di specialisti che vengono assegnati alle unità di progetto per il periodo necessario alla loro realizzazione. Questa configurazione presenta analogie con la struttura “funzionale modificata”, da cui differisce principalmente per l’attribuzione di potere decisionale formale (autorità gerarchica) alla posizione o organo di integrazione di primo livello (product manager o project manager). Il suo funzionamento si basa su un ampio ricorso al team come modalità prevalente di organizzazione del lavoro delle persone coinvolte nella realizzazione dei vari progetti (project team).

Il principale vantaggio riconosciuto a questa configurazione riguarda la capacità di coniugare un’elevata flessibilità con il mantenimento di economie di specializzazione.

Nel tempo ha conosciuto una scarsa diffusione a causa della complessità di gestione e delle difficoltà di funzionamento rivelatesi molto superiori ai vantaggi attesi. I principali incovenienti, connessi alle caratteristiche proprie della forma a matrice, sono: conflitti di autorità tra i managers di unità appartenenti a raggruppamenti diversi in relazione alle decisioni sull’utilizzo e controllo delle risorse comuni; problemi di ripartizione del potere decisionale formale, in particolare del suo bilanciamento tra le due dimensioni della matrice; confusione nelle attribuzioni di compiti e di responsabilità che derivano dalla doppia dipendenza e sono fonte di tensioni, ambiguità di ruolo e insicurezza per i membri della struttura; sovraccarichi informativi connessi alla necessità di disporre di dati e informazioni sulle performance economico-finanziarie e sullo stato di avanzamento dei progetti; elevati costi amministrativi a causa della proliferazione di figure manageriali; tempi eccessivi dedicati a incontri e a riunioni.

La struttura per processi

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Nella letteratura manageriale e organizzativa si inizia a parlare di struttura per processi nei primi anni Novanta, in corrispondenza all’emergere e affermarsi di pratiche e tecniche manageriali che privilegiano la dimensione del “processo” come criterio guida degli interventi di ristrutturazione e ridisegno organizzativo delle imprese (si veda par. 9.3.2).

Nella sua forma “pura” la struttura per processi implica la costituzione di unità di primo livello individuate raggruppando le attività appartenenti ad un medesimo processo aziendale (si veda fig. 6). Le caratteristiche base di questa configurazione sono: a) l’individuazione di un numero limitato di processi chiave o core processes e l’attribuzione di potere decisionale formale a managers di primo livello (process owner), responsabili dei risultati e del goveno dei processi e con un ruolo di guida, supervisione e coordinamento delle persone coinvolte nella realizzazione delle attività; b) il ricorso al lavoro di gruppo come modalità base di organizzazione del lavoro per lo svolgimento delle attività che compongono il processo primario; c) l’abolizione del criterio di raggruppamento delle attività su base funzionale o un suo utilizzo limitato solo ad alcune attività di supporto (gestione del personale, gestione dei sistemi informatici ecc.); d) il monitoraggio continuo dei risultati del processo tramite utilizzo di parametri e indicatori; e) il consistente ricorso a tecnologie informatiche per il monitoraggio dei risultati di processo e la gestione degli scambi informativi all’interno dei singoli processi e tra processi diversi; f) il cambiamento delle modalità di gestione delle persone (soprattutto in termini di incentivazione e sviluppo).

Fig 6 all’incirca qui

I vantaggi riguardano: il miglioramento delle performance di processo in termini

di ottimizzazione e riduzione degli sprechi e di maggiore focalizzazione sulle esigenze dei “clienti” interni od esteni del processo; la riduzione dei costi di struttura dovuti all’eliminazione/riduzione dei livelli intermedi della gerarchia funzionale (appiattimento o deyalering) e al trasferimento della maggior parte delle attività di supporto all’interno dei processi operativi; i benefici derivanti dall’utilizzo del lavoro in team descritti nel par. 9.2.4.

Le difficoltà incontrate dalle imprese nella transizione verso questa configurazione si sono rivelate tuttavia così elevate che fino ad oggi non si è riscontrata in nessuna impresa la presenza di una struttura organizzativa per processi nella sua forma pura, mentre sono diffuse forme ibride con caratteristiche simili alla configurazione a matrice.

9.5 SCELTE DI PROGETTAZIONE DEI CONFINI ORGANIZZATIVI

Nei paragrafi precedenti sono state presentate le principali scelte che l’impresa

deve affrontare per risolvere problematiche organizzative inerenti il contesto “interno” e si sono illustrate alcune delle proposte individuate per la loro soluzione.

Il tema della progettazione organizzativa riguarda, tuttavia, anche i rapporti con l’esterno e, in particolare, le scelte di divisione del lavoro tra l’impresa e gli altri soggetti

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con cui essa intrattiene relazioni di scambio (note in letteratura come scelte di make or buy) e le scelte di coordinamento e di governo delle attività esternalizzate.

Nella visione dell’impresa come sistema aperto la distinzione tra “interno” ed “esterno” è sempre stata fondamentale e, dal punto di vista organizzativo, è stata concettualizzata come un problema di definizione dei “confini organizzativi”.

Negli ultimi tempi, il tema del cambiamento dei confini esterni (scelte di assetto delle relazioni inter-organizzative) ha acquisito una posizione di rilievo anche negli studi organizzativi in relazione alla tendenza, sempre più frequente da parte delle imprese, a rinunciare al presidio diretto di attività e a privilegiare soluzioni di outsourcing e di costruzione di rete d’imprese3. Si è così registrata una crescita di contributi interessati a individuare e a classificare l’avvento di “nuove forme organizzative”. Le forme a rete (rete interna e rete esterna), l’organizzazione “modulare”, l’organizzazione “virtuale”, l’organizzazione “invisibile” sono solo alcune delle etichette utilizzate per indicare le più recenti soluzioni di cambiamento degli assetti inter-organizzativi delle imprese che vedono nella esternalizzazione di parti sempre più importanti della propria attività una delle leve critiche per il raggiungimento e il consolidamento del proprio vantaggio competivo.

A questo livello di analisi e di intervento, la progettazione organizzativa ha per oggetto le decisioni sulle modalità di presidio delle varie attività collegate all’ottenimento dell’output desiderato ed è guidata dalle seguenti domande: come scegliere tra make or buy? Come coordinare attività sotto il presidio di soggetti diversi ma finalizzate alla realizzazione di un medesimo output ? Come controllare e governare le attività esternalizzate a terzi?

Anche in questo caso è possibile rintracciare nel pensiero organizzativo teorie che hanno fornito concetti e criteri metodologici per le azioni di analisi e di intervento organizzativo. Qui è sufficiente ricordare la teoria dell’Economia dei Costi di Transazione di Williamson (1975), una proposta interpretativa tra le più utilizzate in letteratura, e il contributo di Coase (1937) da cui essa ha origine.

Secondo l’approccio transazionale, che assume come concetto base e unità di analisi la “transazione” e considera l’organizzazione come “struttura di governo delle transazioni”, la scelta di internalizzare (ricorrere alla gerarchia) o esternalizzare (ricorrere al mercato) si basa sull’analisi della natura e dei costi associati alle transazioni necessarie alla produzione e allo scambio. Viene descritta una corrispondenza tra situazioni diverse relative all’ammontare dei costi di transazione, determinate da alcune dimensioni critiche (incertezza e specificità degli investimenti), e soluzioni organizzative, poste su un continuum, ai cui poli si trovano forme basate sul controllo gerarchico e forme basate sulle relazioni di mercato. Il disegno dei confini si pone per Williamson (1975) come un problema di scelta dei “confini efficienti” da risolvere attraverso valutazioni di costo orientate dalla ricerca della soluzione più efficiente. L’impresa internalizza ogni volta che, data la natura della transazione, la gerarchia consente di evitare i costi d’uso della strutura di governo rappresentata dal mercato e nella misura in cui i costi legati al controllo gerarchico delle attività non superano i primi.

L’approccio transazionale offre un’interpretazione del disegno dei confini molto semplificata come un problema di ottimizzazione, di natura essenzialmente economica, tra insiemi di transazioni. Uno dei limiti rilevati nei confronti di questa teoria riguarda il

3 Su questo tema si veda, in particolare, il cap. 15 del presente volume.

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criterio adottato per la scelta tra il make o il buy, basato esclusivamente su considerazioni di natura economica e valutazioni di efficienza, che tende a trascurare valutazioni di efficacia, legate al maggior valore che può scaturire dalle scelte di internalizzazione ed esternazionalizzazione (Quinn, 1999), e fenomeni, tipicamente di natura sociale, relativi ai processi di produzione e acquisizione di capabilities e conoscenze (Barney, 1999).

Secondo alcuni studi che si collocano all’interno dell’indirizzo rappresentato dalla Resource Based View (Prahalad, Hamel, 1990 ; Teece, Pisano, 1994 ), le imprese tenderebbero a ridefinire i propri confini, affidando all’esterno parti importanti dell’attività d’impresa, sotto la guida di considerazioni strategiche (accesso a risorse critiche e focalizzazione sulle proprie core competencies) oltre che di ricerca di flessibilità sul piano dei costi (risparmio dei costi della gerarchia). La concentrazione sulle core capabilities presenterebbe tuttavia alcuni rischi sintetizzabili nella possibilità di mancato sviluppo di capacità e conoscenze rilevanti inerenti soprattutto le tecnologie di prodotto e la comprensione del mercato.

La crescente permeabilità e variabilità dei confini organizzativi d’impresa si lega alla diffusione di scelte di definizione degli assetti che cercano di valorizzare l’interazione dell’impresa con i soggetti esterni, identificate in letteratura come “nuove forme organizative”.

La fabbrica modulare L’idea di modularità organizzativa, entrata a far parte del linguaggio

organizzativo alla fine degli anni Novanta, è strettamente connessa al concetto di modularità progettuale e produttiva, in quanto presuppone la possibilità di distinguere il processo di progettazione e di produzione del prodotto in un insieme di componenti complessi contigui (“moduli”) che possono essere osservati da un punto di vista funzionale e progettuale come sottosistemi o parti del prodotto finito. Ciò consente di assegnare lo svolgimento dell’attività di produzione e/o di progettazione a fornitori che diventano responsabili dello sviluppo e della produzione dei vari moduli. All’impresa committente restano completamente affidate soltanto la fase di pianificazione (ossia la determinazione dell’architettura complessiva del prodotto, compresa la scomposizione del processo produttivo in moduli, la definizione delle loro interfacce e degli standard di progettazione) e la fase di assemblaggio dei moduli.

I vantaggi connessi alla scelta di affidare a terzi parti rilevanti delle attività di produzione/progettazione sono legati a: riduzione della complessità produttiva e dei tempi di ciclo, diminuzione di costi e di investimenti diretti, snellimento della struttura, focalizzazione sulle attività a maggior valore aggiunto, specializzazione dei livelli operativi. I possibili rischi, evidenziabili soprattutto nel medio-lungo periodo, sono connessi ad un disimpegno in attività ad elevato contenuto intellettivo che può mettere in pericolo la capacità dell’impresa di sviluppare e trattenere il capitale intellettuale, specie nel caso di prodotti a rapida obsolescenza.

L’impresa a rete La ricerca organizzativa sulle relazioni reticolari ha prodotto numerosi contributi,

distinguibili in base all’oggetto di studio assunto nell’analisi (Lomi, 1991). Alcuni contributi focalizzano l’attenzione sulle relazioni tra imprese all’interno di comunità interorganizzative (Laumann et al., 1978); altri partono dall’analisi di un’impresa “guida”

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o azienda “focale” per studiare la “costellazione” o rete di imprese in cui essa è collocata (Lorenzoni, 1990).

Nella manualistica organizzativa con il temine network, o forma-N (Perrone, 1997) si identificano sia la rete interna sia la rete esterna o rete di imprese. La prima presenta rilevanti analogie con l’organizzazione modulare e l’organizzazione per processi. La seconda comporta per l’azienda focale due ordini di scelte: a) le scelte di divisione del lavoro tra impresa guida e imprese partecipanti alla rete (nodi o attori della rete); b) le scelte di governo e di coordinamento strategico della relazione contrattuale con gli attori della rete. L’assegnazione ai fornitori di parti rilevanti e sempre più complesse del processo produttivo, solleva per l’impresa un problema di controllo delle attività e dei processi critici esternalizzati. Le soluzioni concretamente adottate per far fronte a questa criticità vanno nella direzione di costruzioni di relazioni di partnership strategico-operativo con i fornitori e consistono, tra le altre, nelle seguenti scelte: a) sviluppare con i fornitori critici o di primo livello relazioni contrattuali di tipo diverso dal contratto di fornitura (accordi, consorzi, alleanze strategiche, joint venture); b) condivisione con i fornitori di spazi, risorse, strumenti per lo svolgimento delle attività produttive e di progettazione; c) condivisone di tecnologie e strumenti informativi per lo scambio di informazioni ai fini di standardizzazione, omologazione delle informazioni.

9.6 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

a) Il principio guida che orienta la ricerca di nuove soluzioni strutturali è il

perseguimento di obiettivi multipli di efficienza/specializzazione e di flessibilità/polivalenza, connessi all’evoluzione dei contesti competitivi. Sul piano delle scelte organizzative, la realizzazione di questi obiettivi “spingerebbe” secondo la letteratura ad adottare i seguenti orientamenti:

- assegnazione di responsabilità di tipo orizzontale (per prodotto, per processo, per modulo, per progetto) e impiego del lavoro in team che favoriscono l’orientamento ai risultati e il raggiungimento di obiettivi comuni;

- interventi di decentramento decisionale e di empowerment allo scopo di rendere possibile l’assunzione delle decisioni laddove il patrimonio informativo e di competenze pertinente ai problemi si rende disponibile;

- rinuncia al presidio diretto di parti importanti di attività e tendenza a privilegiare soluzioni di outsourcing e costruzione di reti d’imprese.

Come conseguenza del diffuso ricorso alle logiche organizzative sopra descritte, sarebbe possibile individuare nelle nuove soluzioni strutturali alcune caratteristiche comuni e ricorrenti, quali:

- riduzione del numero dei livelli gerarchici (delayering) e delle unità di staff con conseguente appiattimento, snellimento e riduzione dei costi di struttura;

- impiego dei team e dei gruppi interfunzionali che operano come unità semi-autonome (self-autonomous team) con conseguente attenuazione dei confini formali interni;

- attuazione di politiche di esternalizzazione e creazione e governo di reti collaborative con soggetti esterni con conseguente aumento della variabilità/mobilità dei dei confini formali esterni;

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- uso intensivo delle tecnologie dell’informazione che rappresentano lo strumento di supporto per la realizzazione delle scelte precedenti.

b) Questi elementi comuni e i criteri organizzativi ad essi sottesi inducono la letteratura a parlare delle nuove forme organizzative come di soluzioni “radicalmente” diverse rispetto a quelle fin qui conosciute, in quanto fondate su logiche opposte (decentramento- orizzontalità- frantumazione dei confini esterni vs accentramento- verticalità – stabilità dei confini esterni). Il dibattito teorico su questi temi è molto ampio, tuttora in corso e offre interpretazioni non univoche e condivise; d’altra parte anche le esperienze concrete di cambiamento effettuate dalle imprese non offrono indicazioni chiare circa l’affermazione delle tendenze rilevate in letteratura. Già a partire dalla metà degli anni Settanta, come ha evidenziato la letteratura contingentista qui analizzata, le imprese intraprendono cambiamenti sostanziali e importanti nelle scelte di strutturazione che testimoniano uno sforzo concreto a superare le soluzioni organizzative basate sulla rigida separazione tra esecuzione e direzione nell’attività di lavoro, sull’aggregazione delle attività d’impresa secondo la logica funzionalistica, sull’accentramento al vertice delle decisioni e sul presidio diretto delle attività collocate all’interno dei confini d’impresa. Tuttavia, le nuove soluzioni organizzative, più che un superamento delle logiche organizzative tradizionali, sembrano presentare la combinazione di molteplici criteri, in relazione alla soddisfazione di esigenze strategiche e di equilibri di potere che spesso risultano contrastanti tra loro.

Il ricorso al team costituisce una tendenza ormai diffusa, tuttavia le modalità concrete di definizione dei compiti e di attribuzione delle responsabilità ai membri del gruppo possono continuare ad essere guidate da una logica taylorista. Il criterio di raggruppamento per “funzione” stenta ad essere completamente abbandonato, anche per motivi legati a questioni di potere interno e di status, e le “nuove” configurazioni presentano caratteristiche simili alla soluzione a matrice, seppure in forme rinnovate. Il ricorso a pratiche e tecniche di TQM, ai fini di miglioramento della qualità dei processi e dei prodotti, seppure richieda un maggior coinvolgimento delle risorse umane, capacità di iniziativa ed esercizio della discrezionalità, può originare una proliferazione di standard con il rischio di una “burocratizzazione” delle attività di lavoro. Infine, la tendenza a costruire, da parte dell’impresa focale, relazioni inter-organizzative basate sulla cooperazione e sulla collaborazione non riguarda tutti i soggetti con cui l’impresa è in rapporto ma solo un segmento attentamente selezionato di interlocutori che detengono risorse critiche per il successo dell’impresa. Con gli altri interlocutori l’impresa continua a sviluppare relazioni di natura conflittuale.

c) Il risultato di un orientamento diretto a sovrapporre e combinare logiche

organizzative diverse è la costruzione di assetti organizzativi generali di non facile decifrazione. Le soluzioni strutturali concretamente adottate sono, infatti, sempre meno riconducibili a “modelli” o soluzioni “tipiche”. E’ questa la ragione per cui in letteratura, come già detto, si parla di “ibridi” organizzativi. D’altra parte, già nel 1971, Ansoff e Brandeburg affermavano che l’identificazione di alcune strutture organizzative tipiche è solo uno strumento di supporto al management per ragionare sulle possibili alternative. Ma il disegno organizzativo è un processo “creativo” che implica per il manager, una volta valutata l’inadeguatezza delle soluzioni tipiche, di procedere alla progettazione scegliendo i criteri “più adatti” alle esigenze specifiche della singola impresa.

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SINTESI DEL CAPITOLO Questo capitolo affronta il tema della progettazione organizzativa illustrandolo

secondo i quattro livelli indicati nei manuali di organizzazione aziendale. Per ciascuno di essi vengono presentate le scelte da affrontare e i concetti base, i criteri metodologici e le principali soluzioni elaborati in letteratura. L’argomento è sviluppato con l’obiettivo di illustrare le proposte teoriche e le indicazioni operative che si sono affermate nel pensiero organizzativo e nella pratica aziendale nel corso di quasi un secolo di studi e di azioni concrete. Il capitolo presenta le tendenze più recenti indicate in letteratura e pone in evidenza l’impossibilità di individuare direzioni univoche di cambiamento, a partire dalle soluzioni organizzative concretamente adottate dalle imprese che, in una logica di multifinalità, possono presentare combinazioni di molteplici criteri.

DOMANDE DI VERIFICA

- Cosa s’intende per progettazione organizzativa e secondo quali livelli può essere analizzata.

- In che cosa consistono le scelte di progettazione dell’organizzazione del lavoro (d’ora in avanti o.d.l.).

- Quali sono i principi dello Scientific Management proposti da Taylor e le caratteristiche della logica taylorista-fordista di o.d.l..

- Cosa implica, dal punto di vista delle scelte di o.d.l., adottare il riferimento all’ “organismo umano” in sostituzione dell’idea di “macchina”.

- Cosa s’intende con i termini job enlargement, job enrichment, job rotation, ruolo.

- In che consiste la soluzione di o.d.l definita “gruppo semi-autonomo di lavoro”, quali vantaggi presenta; cosa s’intende per “autoregolazione”.

- Come possono essere definiti dal punto di vista organizzativo il Total Quality Management e il Business Process Reengeneering

- Quali conseguenze può avere, in termini di scelte di o.d.l., l’adozione di un orientamento alla qualità e al miglioramento continuo di prodotti e processi ottenuto attraverso il ricorso a pratiche di TQM.

- Come può essere definito un “ processo” e perchè nel linguaggio organizzativo e gestionale si assiste ad una diffusione del suo utilizzo.

- In che cosa consistono il BPR incrementale e radicale e quali sono le principali differenze.

- Quali sono i compiti e le responsabilità di un process owner e quali problemi può incontrare per il raggiungimento degli obiettivi assegnati.

- Che cosa s’intende per struttura organizzativa di un’impresa; in che cosa consiste il disegno della struttura; quali sono i criteri suggeriti dalla letteratura per

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procedere al confronto tra forme organizzative diverse e scegliere la struttura da adottare nell’impresa.

- Osserviamo un’organigramma: in base a quali elementi descriviamo le caratteristiche della struttura in esso rappresentata.

- Vantaggi e svantaggi delle principali configurazioni organizzative - Cosa s’intende per disegno dei confini organizzativi di un’impresa. - Quali sono le caratteristiche dell’impresa a rete e della fabbrica modulare. - Quali sono le principali tendenze che, secondo la letteratura, caratterizzano le

scelte organizzative delle imprese e quali sono i motivi alla base della loro affermazione.

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