Prima Lezione Di Diritto Storia Del Diritto Medievale

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1. Il diritto tra ignoranza, fraintendimenti, incomprensioni Ciò che bisogna premettere è che non si può ricollegare il diritto al mondo dei segni sensibili: es. se possiedo un fondo rustico, rischio che esso si confonda con quello del mio vicino se non vi appongo una recinzione. Il diritto fa ricorso a dei segni sensibili solo per un’efficace comunicazione, ma anche senza di essi (ritornando all’esempio di prima) il mio fondo rustico resta realtà caratterizzante e differenziata del marchio immateriale del diritto. Visto dall’uomo moderno, il diritto si caratterizza per due aspetti fondamentali che non contribuiscono a renderlo benaccetto: 1) sembra “cadere” dall’alto; 2) sa di potere, di comando. Ecco perché si viene a caratterizzare come una realtà ostile, con un risultato doppiamente negativo per il cittadino e per il diritto stesso: la separazione del diritto dalla società. 2. Le ragioni storiche di fraintendimenti e incomprensioni Il risultato menzionato altro non è che il risultato di scelte operate nello scenario della storia giuridica del nostro continente durante gli ultimi secoli e che si sono consolidate in un nuovo strettissimo vincolo tra potere politico e diritto. Il potere politico, divenuto sempre più uno Stato, ha riconosciuto nel diritto un elemento importante per la creazione della sua stessa struttura (tanto da arrivare, alla fine del Settecento, ad una vera e propria monopolizzazione della dimensione giuridica). La legge, espressione del potere sovrano, viene identificata nell’espressione della volontà generale come unico strumento produttivo del diritto meritevole di rispetto. Proprio in questo ultimo passaggio si capisce come identificando la legge nella volontà generale, si identifica il diritto nella legge stessa e ne consegue la sua completa statalizzazione. Il processo di involuzione del diritto moderno è stato inarrestabile: la legge è come un comando indiscutibile, al quale bisogna prestare obbedienza. *(Da questo deriva la sua propensione a consolidarsi in un testo scritto alla portata di tutti; un testo immobile che invecchia sempre più in relazione alla vita che continua a scorrergli intorno). Con lo spostamento forzato dei diritto nella società, il giurista si rende conto che il diritto è stato sottoposto ad una operazione riduttiva fuori dal divenire quotidiano, portandolo così alla consolidazione in una realtà di comandi imperativi: un corpo estraneo e ostile per tutta la società.

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1. Il diritto tra ignoranza, fraintendimenti, incomprensioni

Ciò che bisogna premettere è che non si può ricollegare il diritto al mondo dei segni sensibili:

es. se possiedo un fondo rustico, rischio che esso si confonda con quello del mio vicino se non vi appongo una recinzione.

Il diritto fa ricorso a dei segni sensibili solo per un’efficace comunicazione, ma anche senza di essi (ritornando all’esempio di prima) il mio fondo rustico resta realtà caratterizzante e differenziata del marchio immateriale del diritto.Visto dall’uomo moderno, il diritto si caratterizza per due aspetti fondamentali che non contribuiscono a renderlo benaccetto:

1) sembra “cadere” dall’alto;2) sa di potere, di comando.

Ecco perché si viene a caratterizzare come una realtà ostile, con un risultato doppiamente negativo per il cittadino e per il diritto stesso: la separazione del diritto dalla società.

2. Le ragioni storiche di fraintendimenti e incomprensioni

Il risultato menzionato altro non è che il risultato di scelte operate nello scenario della storia giuridica del nostro continente durante gli ultimi secoli e che si sono consolidate in un nuovo strettissimo vincolo tra potere politico e diritto.Il potere politico, divenuto sempre più uno Stato, ha riconosciuto nel diritto un elemento importante per la creazione della sua stessa struttura (tanto da arrivare, alla fine del Settecento, ad una vera e propria monopolizzazione della dimensione giuridica).La legge, espressione del potere sovrano, viene identificata nell’espressione della volontà generale come unico strumento produttivo del diritto meritevole di rispetto. Proprio in questo ultimo passaggio si capisce come identificando la legge nella volontà generale, si identifica il diritto nella legge stessa e ne consegue la sua completa statalizzazione.Il processo di involuzione del diritto moderno è stato inarrestabile: la legge è come un comando indiscutibile, al quale bisogna prestare obbedienza.*(Da questo deriva la sua propensione a consolidarsi in un testo scritto alla portata di tutti; un testo immobile che invecchia sempre più in relazione alla vita che continua a scorrergli intorno).

Con lo spostamento forzato dei diritto nella società, il giurista si rende conto che il diritto è stato sottoposto ad una operazione riduttiva fuori dal divenire quotidiano, portandolo così alla consolidazione in una realtà di comandi imperativi: un corpo estraneo e ostile per tutta la società.

3. L’avvio di un recupero: umanità e socialità del diritto

Proponendo un recupero del diritto nelle varie deformazioni moderne, bisogna sapergli ritrovare una dimensione più obiettiva come si è avuta nel passato in altri paesaggi storici e come si ha nella consapevolezza dei giuristi più sensibili e aperti.

Umanità del diritto: se il chimico, il fisico, il naturalista leggono nel libro del cosmo le trame delle proprie scienze, il giurista non può fare lo stesso: laddove non ci sono uomini non c’è spazio per il diritto che si è originato, sviluppato e consolidato hominium causa (nato con l’uomo); è scritto (inserito) nella storia che gli uomini hanno costantemente tessuto con le loro idealità ed i loro interessi.Abbiamo parlato di realtà di uomini, ma dobbiamo precisare che si tratta di una realtà plurale:

es. un astronauta sbarca da solo e vive da solo su un pianeta remoto e deserto finchè resta solo, questo individuo non ha bisogno del diritto, che è espressione di relazioni fra più soggetti (socialità), molti o pochi che siano.Il diritto, quindi, necessita dell’incontro fra soggetti umani ed ha per contenuto l’incontro stesso.

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4. Sulla genesi del diritto nella in distinzione del “sociale”

A questo punto ci si può chiedere: “ma ogni agglomerato sociale può, di per sé, considerarsi anche giuridico?”.Una prima risposta che si può dare è che dovunque si verifichi un incontro fra più uomini, ci può essere diritto.Il “può” provoca però un’ulteriore domanda: “ci può essere, ma quando c’è?”.Ecco quindi che bisogna precisare che non ogni manifestazione sociale è di per sé anche giuridica (se così fosse, staremmo parlando di sociologia).Per meglio capire, proponiamo un esempio:

es. una file di fronte ad un ufficio pubblico: ci troviamo di fronte ad un breve agglomerato casuale di persone senza alcun collegamento tra loro; agglomerato che sembra non avere alcuna rilevanza sociale. Se, però, in mezzo alla fila, un soggetto intraprendente fa alcune proposte per una migliore organizzazione, e tutti i componenti ritengono giuste tali proposte e le osservano, ecco che (in quella minima unità di tempo e in quel piccolo spazio) si ha la genesi del diritto: la fila è diventata comunità giuridica produttrice di diritto.Riassumendo, i fattori diversificanti della fila sono due:

1) organizzazione (o auto-organizzazione);2) osservanza spontanea delle regole organizzative.

Questo è il diritto.

5. Un primo recupero: il diritto esprime la società e non lo Stato

È necessaria una precisazione per sottrarre il diritto al potere e restituirlo alla società.Non necessariamente lo si deve collegare ad una entità socialmente e politicamente autorevole; e lo Stato moderno non è suo referente necessario, in quanto questi è costituito dalla società, con le sue articolazioni ognuna capace di produrre diritto (anche la fila all’ufficio pubblico).

6. Un recupero rilevante : il diritto come ordinamento del “sociale”

Organizzazione: il diritto che organizza il sociale è innanzi tutto ordinamento termine frequentemente usato perché evocativo di una nozione corretta e ricuperatrice del fenomeno giuridico.Lo specificare che l’essenza del diritto sia nell’atto di ordinare, opera uno spostamento dal soggetto produttore all’oggetto bisognoso di organizzazione.Col “mettere ordine” si intende fare i conti con la società nel cercare di ordinarla, rispettandone la complessità sociale in modo tale da evitare una valutazione soggettiva (arbitrio).Possiamo intendere per organizzazione anche la coesistenza di più soggetti (diversi tra loro) coordinati ad uno scopo comune; questo può anche concretarsi in una scansione in gradini con posizioni di superiorità ed inferiorità. Queste ultime, tuttavia, possono essere attenuate e assorbite dal coordinamento collettivo che porta al superamento delle posizioni singole e il conseguimento dell’ordine necessario alla vita della comunità.

Il diritto non piove dall’alto, ma appartiene alla natura stessa della società (alla sua fisiologia). Tuttavia non potrà mai essere una realtà mite perché questo gli viene impedito dalla sua dimensione ordinante.Un diritto concepito come una serie di comandi autorevoli rischia sempre di separarsi dalla società che, invece, sfugge alla rigidità dei comandi, è svincolata da imposizioni che ne soffocano lo spontaneo adeguamento e accoglie una misura in grado di rispettare la sua storicità.Ecco, quindi, il recupero che ci siamo prefissati: la società si riappropria di ciò che da sempre è stato suo come ineliminabile dimensione esistenziale e che alterazioni storiche contingenti le avevano tolto.

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7. E come “osservanza”: il diritto come ordinamento “osservato”

Bisogna precisare che il diritto non è solo ordinamento, ma ordinamento osservato (l’osservanza è anche l’obbedienza passiva ad un comando autoritario).Si staglia qui l’esempio dell’assolutismo giuridico moderno con le sue leggi ripugnanti alla coscienza comune, interiormente rifiutate dall’uomo di buonsenso ma osservate per evitare le reazioni del potere costituito (es. le leggi razziali).Per meglio capire, ritorniamo all’esempio della fila: l’osservanza fisiologica che ne fa un ordinamento giuridico, si fonda sulla consapevolezza del valore che lo sorregge. Le proposte ordinatrici fatte dal membro intraprendente, vengono osservate dagli altri membri perché ritenute oggettivamente buone per trasformare il disordine presente in ordine futuro.Questo ordine (giuridico) attinge allo strato dei valori: il valore è un principio o un comportamento che la coscienza collettiva ritiene di sottolineare isolandolo dal fascio indistinto dei tanti principi e comportamenti: quindi, lo costituisce come un modello.Stiamo parlando dell’ethos (costume) che caratterizza un ethnos (popolo), con due precisazioni:

1) non è mai scritto, ma vive nella storia (dalla quale ne trae vitalità);2) è un modello (altrimenti non sarebbe osservato), ma aperto alle trasformazioni dei tempi.

Va sottolineato un altro punto: abbiamo detto che il diritto è forma che riveste una sostanza sociale (la società). Questa affermazione la si può accettare parzialmente perché, in realtà, la forma è solo la manifestazione più esterna della società che, invece, pesca a quella realtà radicale costituita dai valori.Da questo punto di vista, l’esempio della fila è fuorviante perché la fila è collocata in un momento di tempo limitato (effimero), e in questa analisi la scansione dei tempi brevi non si addice al diritto (i grandi alberi hanno bisogno della lunga durata per radicarsi adeguatamente).In tal modo, definendo il diritto realtà di radici, individuiamo il modo più significativo che ha una comunità per vivere la sua storia.

8. Ancora sulla osservanza del diritto: il diritto, regola imperativa?

Finora si è sempre parlato di osservanza e non di obbedienza, a causa della passività psicologica che essa esprime: obbedire significa inchinarsi passivamente ad un atto di comando.Se il diritto è ordinamento osservato, è ovvio che ne derivano delle regole (che contengono un grado di imperatività). Però, esso si origina nell’osservanza e l’osservanza si origina nel valore connesso all’ordinamento attuato: ecco perché non è immediatamente e direttamente un comando, ma nasce prima della regola (è già nella società).

Non stiamo riducendo la sua dimensione normativa, ma la sua portata: nella sua genuinità, soggettività ed imperatività sono attenuate dalla prevalenza di una dimensione oggettiva. L’ordine, che vuol dire costruzione superpartes (al di là delle posizioni individuali) ha, quindi, la sua base nella totalità e complessità dell’organismo sociale.

Possiamo parlare di trasformazione in regola imperativa, quando il diritto si inserisce in un apparato di potere (es. lo Stato), dove la dimensione politica ha il sopravvento sulla dimensione sociale e dove l’ordine sociale fa i conti con l’ordine pubblico (che è governato dall’alto, da un carattere potestativo).Per occhi superficiali, lo Stato può sembrare la nicchia naturale per il rigenerarsi e il vivere del diritto; invece lo Stato è soltanto un accidente storico a fronte di quel recupero del diritto che è valso a restituirlo alla società.

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9. La qualità dell’osservanza nel diritto e una comparazione preziosa: diritto e linguaggio

La comparazione tra diritto e linguaggio si è rivelata frequente soprattutto dagli inizi dell’Ottocento con le intuizioni della Scuola storica del diritto (corrente di pensiero che si sviluppa maggiormente in Germania ed

ha come maggiore esponente Federico Carlo di Savigny).Malgrado possano apparire distanti tra loro, diritto e linguaggio hanno innanzitutto in comune la loro natura intersoggettiva: un solo uomo vivente su un pianeta remoto, finché resta in solitudine, non ha bisogno né dell’uno né dell’altro.In secondo luogo, sono entrambi strumenti che ordinano la dimensione sociale del soggetto, il linguaggio permettendo un’efficiente comunicazione, il diritto permettendo una pacifica convivenza.es. chi parla in un modo idoneo e corretto, non per forza lo fa per obbedire ad una regola ma perché è convinto di instaurare in tal modo un efficace rapporto di comunicazione con i suoi simili. Questo è lo stesso atteggiamento dei membri della fila, che osservano le proposte non per obbedienza ma perché sono convinti del loro valore organizzativo.Ecco perché viene utilizzato il termine osservanza al posto di obbedienza, proprio per sottolineare non un’accettazione passiva della regola ma una convinzione (consapevolezza) psicologica: si tratta quindi di un gesto spontaneo.Se si guarda ad un piano fisiologico, ciò non può essere smentito; ma se si passa ad un livello patologico, si possono avvertire delle differenze: nell’ordine giuridico le sanzioni talvolta sono perentorie, arrivando a rendere nullo un atto o a penalizzare una persona.La sanzione (espediente estraneo alla struttura del diritto) è la misura messa in atto per assicurare l’osservanza e/o castigare l’inosservanza. Questo vale ancor di più per la coazione, rappresentata dalla forza fisica messa in atto da un ordinamento autoritario per la repressione dell’inosservanza (es: privare un soggetto della propria libertà con il costringimento in un carcere).

10. Diritto e linguaggio come complessi “istituzionali”

11. Il diritto come “ordinamento giuridico” e la sua vocazione pluralistica

Identificato come referente del diritto la società e non la sua cristallizzazione che è lo Stato, la conseguenza più rilevante è di recuperarlo al pluralismo di quella e di sottrarlo al monismo di questo.Lo Stato, visto come un’entità tendenzialmente totalizzante, si realizza nella compattezza (qualità che consegue grazie all’intolleranza).Lo Stato, nella sua insularità, dialoga solo con l’esterno (altre entità similari); al suo interno si limita a dettare le condizioni in base alle quali una regola diventa giuridica; l’inosservanza delle condizioni genera l’illiceità o l’irrilevanza (qualora lo Stato non ritiene troppo turbato il proprio ordine pubblico).L’esperienza giuridica deve conformarsi ai modelli d’azione fissati dalla volontà sovrana, e perché il controllo sia perfetto, la legge dovrà essere generale e rigida ma anche chiara e certa; e sarà scritta in un testo aperto ad ogni cittadino (sancendo che l’ignoranza dei suoi dettami non scusa). (Insomma, lo statalismo moderno si traduce per il diritto in un soffocante monismo giuridico che ben convive con il liberalismo economico).

Avendo l’ordinamento come referente la società, tutta la sua complessità di questa si rispecchia in esso.Complessità significa diversità, significa che all’interno della globalità possiamo riscontrare varie articolazioni a seconda delle diverse comunità viventi e operanti (da quella politica a quella economica ecc..).es. la Chiesa romana ha sempre preteso non soltanto la produzione di regole giuridiche per i propri fedeli ma addirittura di edificare un vero e proprio ordine giuridico (il diritto canonico) che gli altri Stati devono osservare e rispettare (es. art.7 Cost. It. indipendenza tra Stato e Chiesa).Questo per farci capire che accanto allo Stato (che con le sue leggi sembra essere l’unico produttore di diritto) ci sono comunità che si autoordinano con regole, Codici e corti giudiziarie in nome di determinati valori.Il loro carattere di ordinamento giuridico risalta se le si guarda dall’interno dei loro confini (da un punto di vista pluralistico).

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Oggigiorno lo stato è in crisi e con esso il vecchio legalismo: di fronte a tutto questo, l’impotenza e l’inefficienza degli Stati porta alla formazione e allo sviluppo di diritti paralleli al diritto ufficiale statale, con l’invenzione di nuovi istituti giuridici. Questa è la cosiddetta GLOBALIZZAZIONE GIURIDICA che si mostra come un ordinamento giuridico privato.

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1. Un conciso trattato del nostro itinerario

Essendo vocato ad ordinare la storia dell’uomo, è scontato che il diritto abbia in sé una vocazione ad incarnarsi nell’esperienza storica, divenendone dimensione inobliabile. Così inteso, il diritto si costituisce come un essere che vive una vita propria, inserito nel tessuto sociale economico politico.Spostando l’attenzione proprio sulla vita del diritto, andremo da analizzare i tempi e gli spazi più diversi; le varie manifestazioni che può avere a seconda delle diverse esigenze dei climi storici in cui il diritto si immerge (manifestazioni che vanno interpretate ed applicate affinché divengano concreto tessuto storico).

2. I tempi storici del diritto. L’età antica: il diritto romano

Gli etnologi (cultori dell’etnologia giuridica) ci hanno spalancato le porte allo studio delle più diverse e antiche costumanze giuridiche, magari relative a micro – organizzazioni sociali di indole tribale.Anche se perpetuatesi in tempi lunghi e giunte intatte fino a noi, queste manifestazioni giuridiche non hanno affatto inciso nel solco profondo della storia.L’età antica, invece, ci riserva manifestazioni culturalmente raffinate (es. diritto greco) messe, però, in ombra da quell’esperienza durata un millennio che prende il nome di “diritto romano”.Si tratta di un sintagma:

- molto sbrigativo: se si pensa che non ci dà conto dello sviluppo complesso e variegatissimo che questo periodo ha attraversato (dal V sec. a.C. al VI sec. d.C.);

- ma anche preciso e puntuale: perché restituisce al mondo romano il privilegio di aver costruito una delle più rilevanti civiltà giuridiche della storia occidentale di ogni tempo.

È indubbio il fatto che la cultura greca abbia dato all’uomo occidentale una coscienza filosofica (Platone e Aristotele) e una maturazione mentale di carattere scientifico (Euclide); così come è indubbio il merito per la cultura romana di aver letto il mondo socio – economico – politico in termini giuridici.È vero che nell’oriente del Mediterraneo e nella Grecia le esperienze sociali cominciarono ad essere tradotte in espressioni giuridiche, ma fu solo a Roma che queste espressioni divennero una compiuta grammatica in cui e con cui ordinare e stabilizzare la riottosità dei fatti socio – economici.Ecco, quindi, che sul palcoscenico della storia apparve la figura del giurista: generazioni di giuristi romani elaborarono nuove e più agevoli tecniche di lettura e di analisi, consolidate poi in concetti e categorie (di indole logica) appresi da filosofi e matematici.In tal modo, si va delineando sempre più una scienza autonoma dove la realtà socio – economica viene vista in una dimensione nuova: quella giuridica. Accanto alla metamerica e alla filosofia ora si poteva parlare anche di pensiero giuridico.Possiamo quindi capire che il primo tratto caratterizzante dell’esperienza giuridica romana è soprattutto l’opera di quei giuristi che, dal II sec. a.C. al III secolo d.C., dettero vita ad una attività scientifica di altissimo livello: il diritto romano, così, si caratterizza come un diritto scientifico; come opera di scienziati coinvolti nel potere e nel suo esercizio, al quale volevano offrire un sostegno (rappresentato dal diritto stesso).Bisogna fare, però, una precisazione: essi non disdegnarono la costruzione sistematica il sistema (struttura organicamente unitaria sorretta da una coerente ossatura logica) ben traduceva sul piano giuridico la stabilità del dominio politico romano.Da questo ne scaturì un doppio modello per le civiltà successive:1° modello: deriva dal suo proporsi come analisi scientifica modello di perfetta rigorosità argomentativa, formalità ed eleganza sistematica, ammirato ed imitato anche nell’età moderna;2° modello: riguarda il coinvolgimento dei giuristi nel tessuto politico romano e nella classe dirigente. Le loro categorie formalizzavano una civiltà valorizzatrice della dimensione dell’avere: l’individualismo economico (proprietà, contratti, obbligazioni ecc..), privilegiando così l’abbiente ed il possidente. Si capisce quale importanza abbia rivestito nel supportare lo sviluppo tecnico – giuridico per la futura età borghese, malgrado l’enorme distanza di tempo.Da tutto questo, si capisce che il diritto romano svolgerà un ruolo esemplare ben oltre i termini storici della vita e dell’espansione della civiltà romana.

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all’eterno problema umano di un diritto giusto.3. I tempi storici del diritto. L’età medievale: il “diritto comune”

Il diritto medievale seguì la sorte della civiltà di cui era espressione: sepolta quest’ultima nella coscienza comune, anche il diritto restò sepolto e ignorato.Perché si ritornasse a parlarne bisognava che la mentalità borghese avviasse un moto di arricchimento della consapevolezza storico – giuridica, che fino ad allora si era limitata a cogliere la mera continuità tra antico e moderno rimovendo quasi mille anni di esperienza giuridica: la media etas (età di mezzo) o età di passaggio, e per questo non meritevole di attenzione.Fu proprio questo moto a permettere, poi, ai giuristi novecenteschi di poter constatare quanto il diritto medievale avesse un linguaggio ed una struttura tali da offrire un valido sostegno alla costruzione di un nuovo edificio giuridico.

Ripercorrendo per un attimo la formazione di questo tipo di diritto, esso si origina, prende forma e si caratterizza in seno a dei vuoti: il vuoto statuale connesso alla caduta dell’edificio politico romano. È infatti questa la nicchia storica che ha permesso lo sviluppo di una più nuova ed originale esperienza giuridica. Nell’età nascente, l’assenza dello Stato sottrae il diritto al suo legame col potere politico e la sua funzione di controllo sociale; è un diritto designato poco dai legislatori, ma piuttosto dal variegarsi della società nel corso del tempo e in spazi diversi (le consuetudini).Teorizzante del diritto non è più lo scienziato bensì chi lo applica (giudice, notaio…), povero di tecnica giuridica ma ricco di sensibilità e disponibilità ad introdurre nuove forme giuridiche rispondenti ai vari bisogni.La mancanza di un controllo centrale fece sì che il diritto divenisse l’espressione fedele di una società frammentata in tante comunità (famiglia, corporazioni…) che, ponendosi quali strutture portanti dell’assetto socio – politico – economico, miravano a proteggere l’individuo e a consentirgli la sopravvivenza.Il primo Medioevo si delinea, quindi, come un’esperienza giuridica fattuale, consuetudinaria e pluralistica (con fonti plurali produttrici di diritto).

Nel secondo Medioevo le linee del paesaggio giuridico formatosi precedentemente non variano, nonostante perdurasse l’assenza statuale. Forse l’unica differenza sostanziale è che l’interpretazione del tessuto consuetudinario passa nelle mani di uomini di scienza che insegnano nelle università.Ma la società europea stava assumendo sempre più una struttura complessa e movimentata e, quindi, risultava difficile ordinarla in base a fatti consuetudinari: occorrevano nuove categorie generali che dovevano essere offerte dalla nascente scienza giuridica (universitaria); ecco perché si ha la definizione di diritto scientifico.Questa nuova scienza giuridica:

- non dispregiò il vecchio materiale consuetudinario, ma se ne fece portatrice ponendo alla sua base antiche fonti romane e aggiungendovi principi e regole che la Chiesa romana aveva elaborato e che si andavano solidificando;

- appoggiandosi al diritto romano e a quello canonico, volle qualificarsi come interpretazione (ossequiosa delle fonti) fra testi autorevoli e bisogni della società.

Molto importante fu anche il pluralismo giuridico dell’età di mezzo, che permise ed agevolò la convivenza tra i due strati del diritto: iura propria (strato inferiore autonomie locali) e ius comune (stato superiore). Quest’ultimo così chiamato sia per la sua proiezione geografica comune a tutte le terre civilizzate, sia perché costituiva l’unione tra giuridicità romana e canonica.

Uno strumento efficace per l’opera di questi scienziati, fu la loro visione imperniata sull’equità: la coscienza della mobilità dell’ordine giuridico a fronte dell’immobilità di un testo normativo; e, quindi, anche l’esigenza di verificare questo testo nello scorrere della vita.Sostanzialmente, il diritto della matura età medievale si presenta come costruzione scientifica ma ha tratti diversi dalla costruzione scientifica del diritto romano: in quest’ultimo vi è la presenza dello Stato, un rigido apparato di potere che dette agli scienziati la sicurezza di poter fissare solide conclusioni; gli scienziati del medioevo non ebbero questa sicurezza e, quindi, la loro fu una costruzione meramente teorica, sempre alle prese col rinnovamento continuo dei fatti e dei bisogni ma nella consapevolezza di un ordine giuridico in continuo assestamento.

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Ci troviamo così di fronte al diritto comune, un’opera plurisecolare che è: - opera di scienziati e giuristi;- sottratto ai politici;- riservato a chi è in grado di maneggiare il patrimonio tecnico delle categorie;- ordina la realtà medievale e post – medievale;- è insofferente a confini nazionali.

Il suo unico difetto di fondo è l’incertezza della disciplina giuridica: il progredire del corso storico la mette in evidenza portando così il diritto comune ad una “crisi di certezza” che arriva fino al Settecento. Proprio questa crisi farà sì che venga invocato un nuovo modo di concepire il diritto e di realizzarlo, magari ovviando all’errore precedente.

4. I tempi storici del diritto. L’età moderna: il divario storico fra “civil law” e “common law”

La modernità giuridica consegue alla sempre più totalizzante presenza dello Stato, la cui assenza aveva consentito l’affermazione dell’esperienza giuridica medievale trovando le sue fonti, prima in un consuetudini, e poi in una grande scienza giuridica percettrice dei bisogni sociali.

Nel Trecento si ha una radicale trasformazione della sovranità che trova riscontro nell’identità del Principe (soggetto detentore di un potere assoluto). Infatti, a differenza del Principe medievale che produceva poche leggi lasciando alla prassi e alla scienza l’ordinamento giuridico della società, il Principe moderno vede nel diritto un potenziale fondamentale per la dimensione politica ed è, pertanto, determinato a controllarlo. Il sovrano inserisce la produzione giuridica tra i suoi strumenti di potere, divenendo sempre più un legislatore (e il diritto diviene sempre più legislativo).

Lo sviluppo di questa “concezione” porta a pesanti conseguenze:- il diritto si statalizza;- si particolarizza in una proiezione geografica limitata a quella del singolo Stato.

All’interno di questi Stati venutisi a formare, volendo essere il Principe il controllore del fenomeno giuridico, questo perde sempre più i vecchi connotati pluralistici diventando una realtà all’ombra del Sovrano: dal pluralismo (o convivenza di ordinamenti diversi nello stesso territorio) ci si avvia sempre più al monismo, in cui si afferma anche quello che è il primato della legge su ogni altra manifestazione giuridica.Il risultato più negativo fu una vincolazione fra potere politico e diritto, risentendo quest’ultimo dell’unilateralità del primo. Inoltre, congiungendosi sempre più con il crescente ceto borghese, il diritto ne assume una coloritura consequenziale, fino a che la borghesia non impose una disciplina giuridica dove primeggiavano i valori borghesi.Al fondo di questo imbuto storico, durato più di 3 secoli, sta l’evento più significativo della storia giuridica continentale: la codificazione del diritto ad opera di Napoleone I tutto il diritto fu “catalogato” in articoli sistemati e contenuti in libri chiamati codici.Questa fu sì un’opera grandiosa, ma fu anche un atto di presunzione perché si pretese di poter immobilizzare il diritto in un testo cartaceo.Il codice tendeva a due a due risultati (anche se non conseguiti pienamente):

1) essere norma esclusiva di uno Stato;2) proporsi come raffigurazione completa della dimensione giuridica di uno Stato.

La civiltà moderna credette nel codice, tanto che in altri Stati ci furono iniziative simili ad imitazione della Francia.Quello che, però, vogliamo sottolineare è la giuridicità vincolata alla statualità:

- lo Stato visto come unico soggetto storico in grado di trasformare una vaga regola sociale in una regola giuridica;

- è solo nella voce dello Stato (la legge) che si manifesta il diritto;- il pluralismo giuridico viene cancellato in favore dell’assolutismo giuridico.

Al cuore della società c’è il principio di legalità (corrispondenza di ogni manifestazione giuridica alla legge): garanzia del cittadino contro gli arbitrii dei pubblici poteri e di altri cittadini più forti.La figura del legislatore è, invece, immune all’arbitrio e all’abuso di potere, in quanto proposto come interprete e realizzatore del bene comune grazie alla sua scienza e onnipotenza.

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Analizzando quanto finora detto, ci rendiamo conto di come il nostro sguardo sia sempre ristretto all’Europa continentale e alle sue colonie.Volendo chiarire questo punto, ci rendiamo conto di come questo possa aiutarci a definire anche i due sintagmi inglesi (civil law e common law) ai quali si fa riferimento nel titolo.Partiamo dal fatto che quanto finora affermato è riferito non ad uno svolgersi mondiale della modernità giuridica (e nemmeno all’intera Europa), ma rispecchia gli Stati del nostro continente dove gli effetti della Rivoluzione francese si fanno sentire con più incisività; Stati dove regna lo statalismo giuridico e dove il diritto va incontro alla codificazione. E questo “agglomerato” di grandi Stati dell’Europa continentale lo si suole raggruppare sotto il sintagma civil law.

Discorso diverso va fatto per le esperienze giuridiche, ricomprese nella dizione common law (il riferimento qui va all’Inghilterra e alle sue colonie, compresi gli attuali USA) questa è il frutto di una storia giuridica inglese che ha tratti diversi rispetto a quella continentale. In essa batte un cuore medievale; il suo tratto più peculiare è che il diritto è cosa da giuristi, unici in grado di garantirne lo sviluppo in relazione ai bisogni della società (tratto, come si è visto, tipicamente medievale).Precisiamo però che:

- in seno alla continuità dei valori medievali, un ruolo di notevole importanza è rivestito dal diritto canonico con la sua valorizzazione dell’equità, e ciò è dovuto alla presenza di ecclesiastici in molte corti giudicanti fino alla rottura di Enrico VIII (pieno Cinquecento);

- nel Medioevo la produzione del diritto era affidata ai giuristi, che affermavano il primato della scienza giuridica; nella visione inglese, tale primato è affidato al giudice immerso nella carnalità dell’esperienza.

A livello di fonti, diverse sono le scelte: modesto è il valore della legge, che in Gran Bretagna trova spazio solo a partire dal secondo

dopoguerra con l’instaurazione di uno Stato sociale; il diritto non ha conosciuto la codificazione, restando consegnato (ancora oggi) nelle mani di

un ceto giudiziale che diffida della cristallizzazione del diritto in un testo cartaceo: il Regno Unito non ha né Codici scritti, né una Costituzione scritta.

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5. I tempi storici del diritto. Oltre il moderno, fino alla odierna “globalizzazione giuridica”

Il tempo moderno ha durata assai più breve rispetto a quello medievale: il Novecento si propone solo come un secolo di transizione pervaso da profonde incrinature.L’uso del termine incrinature non è casuale dato che è proprio la compattezza dello Stato e della sua proiezione giuridica ad incrinarsi e complicarsi.Questo perché la civiltà moderna è diventata sempre più complicata: una civiltà nella quale, oltre allo Stato e all’individuo, crescono sempre più nuove collettività (masse in azione, masse di lotta sociale…). È facile capire, quindi, che l’ordine giuridico borghese non poteva ovviare all’urto di tanta clamorosa novità (e complessità): il Novecento mostra, dal punto di vista socio – giuridico, la sempre maggiore presa di coscienza di questo divario che genera la crisi, e la crisi genera incrinature.Ecco perché il Novecento giuridico si colloca oltre il moderno: perché è la progressiva presa di coscienza della complessità dell’universo giuridico.Il primo percettore di quest’ultima è stato Santi Romano che, già nel 1909, la denuncia parlando di “crisi dello Stato moderno” per il suo frazionarsi a causa di insorgenze sociali sempre più indomabili.La semplicità del paesaggio liberal – borghese sfuma, e lo Stato perde nel diritto la sua ombra, la sua corazza protettiva.Volendo individuare i fattori che hanno portato a tutto ciò, si può partire col parlare del tentativo di sopperire alla complessità con una sempre maggiore attività legislativa: i Codici vengono affiancati, soffocati ed espropriati da atti legislativi speciali occasionati da bisogni particolari.Questa attività normativa:

- rivela che lo Stato è incapace di ordinare, con i soli strumenti legislativi, la crescita sociale;- mortifica la chiarezza/certezza dei Codici, scavando un fossato di incomprensione tra potere

politico e cittadini.

Un altro fenomeno che aggrava la crisi dello Stato moderno è il moltiplicarsi/sovrapporsi di vari strati di legalità. Per meglio intendere, basti pensare che la legalità dell’Ottocento aveva un solo significato, e cioè il rispetto della volontà parlamentare (in quanto il Parlamento era l’unico organo a cui spettava il potere legislativo); nel corso del Novecento tutto si complica:

sul piano intra – statuale appare la Costituzione : questa non è più un insieme di principi a carattere filosofico – politico, ma è un complesso organico normativo che vincola i cittadini e gli organi dello Stato (primo fra essi il Parlamento), facendo propri i valori circolanti nella società. La Costituzione è, dunque, l’immagine della società che si auto – ordina realizzando il suo primato sullo Stato;

sul piano trans – statuale appaiono norme derivante da strutture comunitarie internazionali : organismi sopranazionali come ad esempio la Comunità Europea.

Sul piano delle fonti del diritto, assistiamo ad un processo di privatizzazione e di frammentazione che trova il suo aspetto più vistoso nella odierna globalizzazione giuridica; il monopolio statale delle fonti viene sempre più profanato ed eluso.Questo fenomeno globalizzatorio rappresenta una auto – organizzazione dei privati di fronte all’impotenza e lentezza del diritto ufficiale degli Stato. Questi privati, inventano strumenti mirati a regolare i loro traffici giuridici, dando vita ad un diritto parallelo a quello dello Stato (prevedendo addirittura giuridici privati).es. L’UNIDROIT (Istituto per l’Unificazione del diritto privato) per i contratti commerciali.Si tratta di un esempio di rilievo perché:

- mostra una scienza giuridica svincolata dal plagio psicologico statalistico, e che mira alla costruzione di un futuro diritto europeo;

- è un’iniziativa privata che si colloca al di là degli Stati e della stessa Comunità Europea.

Dipendendo da tutti questi fattori, il paesaggio giuridico va sempre più sfaccettandosi pluralisticamente.

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6. Gli spazi del diritto. Uno spazio geografico: il territorio

Siamo soliti pensare al diritto con una sua ben definita proiezione geografica; questa abitudine deriva dall’avere immedesimato il diritto nello Stato e dal vederlo in connessione col potere politico. Ovviamente la statualità del diritto esige una proiezione geografica, che viene riscontrata nel territorio: elemento essenziale dello Stato.Questo, per meglio chiarire, consegue dall’essere lo Stato l’incarnazione del potere politico, che ha bisogno di un ambito geografico (con frontiere invalicabili e/o controllabili) per poter esercitare la propria sovranità ed attuare i propri comandi.Anche volendo proiettare la politica a livello mondiale, ci ritroveremmo comunque di fronte ad una somma di territori.Lo spazio della politica risulta essere, quindi, uno spazio essenzialmente fisico; ed è uno spazio liscio: inteso non nel senso della geografia fisica, ma come assenza di ingombri socio – giuridici.La compattezza che caratterizza lo Stato moderno esige anche una compattezza per la sua ombra (il diritto) che non deve mostrarsi frazionata o articolata. A tal proposito si fa di tutto per eliminare le autonomie al suo interno.Scrivendolo in una formula:

UNO STATO – UN TERRITORIO – UN DIRITTO

È questa la vocazione dell’assolutismo giuridico moderno, resa evidente dal connubio tra Stato e diritto.

6. Gli spazi del diritto. Spazi immateriali: la società

Se si sposta l’asse del diritto dallo Stato alla società, le prospettive cambiano di parecchio: la società, infatti, si organizza prescindendo da una proiezione geografica.es. nell’età medievale era solita la co – vigenza in uno stesso territorio di più ordinamenti giuridici; possono vigere assieme un diritto locale territoriale (consuetudine o statuto) con il diritto canonico, feudale, comune ecc ecc..Il territorio, quindi, non è più l’oggetto necessario del diritto; questo perchè nuovo oggetto diviene il complesso tessuto delle relazioni tra gli uomini a seconda dell’organizzarsi della società.

Un esempio è dato dalla de – territorializzazione del globalizzazione giuridica: in primo luogo c’è l’economia che, al contrario della politica, è insofferente a spazi conchiusi e trova quindi congeniali spazi sempre più aperti (più globali).I moderni uomini d’affari vedono nello Stato un nemico da eludere; questo spiega il carattere transnazionale dei traffici da loro posti in essere.I canali privati della globalizzazione giuridica, infatti, sono governati non dalle norme imperative dello Stato, ma da regole più duttili basate su princìpi derivanti da una scienza sensibile (es. i contratti) immune alle imposizioni gerarchiche; tale scienza può essere vista come una fitta rete di regole in rapporti interconnessi originati dal mercato.Proprio l’immagine della rete viene evocata da giuristi, politici ed economisti per identificare i movimenti della globalizzazione. Per meglio intendere, la loro vocazione è quella di volare al di sopra degli smembramenti della politica; essere de – territorializzati e de – territorializzanti.Per raggiungere tale “obiettivo”, un utile supporto viene offerto dalle moderne reti info – telematiche che consentono una maggiore libertà nei confronti delle barriere geografiche: il loro è uno spazio virtuale, ripugnante per la politica ma congeniale all’economia (o anche per il diritto nel momento in cui lo si svincola dal potere politico).

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8. Storicità del diritto e sue manifestazioni

Il diritto, se lo intendiamo come storia vivente, non galleggia su tempo e spazio ma è tende continuamente ad incarnarsi entro i tempi e gli spazi più diversi: è questa una condizione necessaria perché scatti il meccanismo dell’osservanza e l’organizzazione sociale si trasformi in diritto (osservato).Alle manifestazioni che il diritto assume nelle varie esperienze storiche, i giuristi danno il nome di “fonti”: un nome che però mostra un’eccessiva staticità e, quindi, incapacità a cogliere la dinamica giuridica (law in action).Sotto un altro punto di vista, il termine “fonte” esprime bene l’essenza del fenomeno giuridico, visto come manifestazione alla superficie storica proveniente però da strati profondi: questo perché sappiamo che il diritto è una realtà radicale, attinente alle radici della società (ecco perché può ordinare il sociale).Il messaggio dato da questa metafora della “fonte” consente anche l’affondamento nell’esperienza di quello che soltanto apparentemente viene racchiuso nella statica di un testo. Se la si vede in questo modo, per il giurista il nemico da battere è rappresentato dalla riduzione di una “costituzione” o di una “legge” in un testo cartaceo, riducendo la giuridicità in ossequio a quel testo.

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9. Le manifestazioni del diritto. Il diritto naturale

Dall’antichità classica a oggi si è sempre parlato di diritto naturale, ma diverse appaiono le definizioni che gli sono stati attribuiti: c’è chi prende spunto dalla tradizione cristiana e lo identifica in un messaggio di Dio instillato nel cuore di ogni uomo; chi lo riscontra nella struttura razionale del cosmo; e chi nella tradizione storica.Partiamo dall’invito che faceva un giurista italiano (Matteucci) quaranta anni fa nel “rinunciare a vedere nel diritto naturale qualcosa di mortificante” (il termine mortificante è da intendere come arretrato, sepolto e quindi senza recupero). Si tratta, però, di un “cadavere con ricorrenti sepolture e resurrezioni fino ai giorni nostri”; di fronte alle quali sorge spontaneo il dubbio che il diritto naturale sia in stretta connessione con i ricorrenti problemi della storia giuridica umana e che in essa trovi la sua vitalità.Limitandoci al secolo appena trascorso, abbiamo vari riferimenti al diritto naturale con svariate opere:es. “l’eterno ritorno del diritto naturale”, opera di una schiera di giuristi cattolici italiani negli anni Sessanta;es. “la restaurazione del diritto di natura”, opera di Carlo Antoni che interpreta il diritto naturale come il segno del primato dell’etica della coscienza individuale contro l’etica della legge.

Tornando al discorso generale, possiamo dire che il ricorso al diritto naturale va strettamente correlato al modo vincolante con cui il mondo moderno ha inteso e realizzato il diritto positivo: la fiducia nel diritto naturale va di pari passo con la sfiducia nel diritto positivo.Per meglio intendere quest’ultimo passaggio, possiamo dire che si è parlato di diritto posto e imposto da una autorità legittimata a esercitare su un certo territorio poteri sovrani; un diritto positivo, inteso come l’unico possibile, esaurisce ogni forma di giuridicità e si viene ad identificare con quello statuale. Questo diritto veniva preso per buono purché derivante dall’autorità sovrana (soggetto di provenienza), senza controllo sui suoi contenuti: è questo il monismo giuridico un solo volto del diritto. Volto che quando si deturpa porta serie conseguenze, come ci insegna l’esperienza novecentesca con i suoi momenti di crisi profonda:

es. le dittature: nella Germania nazista e post – nazista il diritto naturale appare come l’unica ancora di salvataggio a fronte di una diritto positivo fatto di violenza e tirannia. Grazie a questo esempio possiamo vedere una legge positiva (che per la sua iniquità è non – diritto e anti – diritto) che si oppone a un diritto autentico anche se collocato al di sopra della positività statuale nazista; ed è singolare che in Germania oltre alla riflessione teorica vi faccia ricorso anche la giurisprudenza pratica.A questa si accompagna un’altra illuminante osservazione data da un dibattito tedesco conseguente alla caduta del muro di Berlino e della DDR (Repubblica Democratica Tedesca): il dibattito si incentrava sul problema se quella Repubblica fu uno Stato antigiuridico (Unrechstaat) e se l’ubbidienza cieca delle sue guardie confinarie abbia costituito, malgrado l’ossequio ad un comando formalmente legittimo, un atto anti – giuridico.

Queste testimonianze sono utili per capire che il ricorso al diritto naturale lo si fa per avere un diritto superiore che funga da criterio di misura e di validità per un diritto positivo concretissimo nei suoi comandi specifici e nei suoi testi normativi, ma ripugnante nella coscienza collettiva ispirata a comune ragionevolezza.

Questi aspetti del diritto positivo portano a guardare ad un livello superiore che rifiuti i particolarismi e in cui si serbino valori che la coscienza collettiva avverte (la vitalità della vicenda storica). Questo livello superiore è un diritto in cui è impossibile scindere la giuridicità formale dalla giustizia; cosa che invece le correnti positivistiche avevano fatto: se in esse “giustizia vuol dire mantenimento di un ordinamento positivo mediante la sua coscienziosa applicazione”, il ricorso al diritto naturale non è altro che un tentativo di soluzione (forse ingenuo e/o illusorio)

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Riprendendo un termine già espresso, si parla anche in questo caso del cosiddetto Stato di diritto.10. Le manifestazione del diritto. La Costituzione

Per il giurista moderno, il ripetuto riferirsi alla “natura dei fatti” ha il significato di rivestire il diritto di terrestrità, rendendolo così più accettabile.Ma restava (e resta tuttora) un grande bisogno di valori cui ancorare le costruzioni giuridiche in un tempo, come quello di ieri e di oggi: a questo bisogno ha corrisposto, nel corso del Novecento, una nuova manifestazione del diritto che va sotto il nome di Costituzione.Ora ci chiediamo “perché nuova?”.Partendo da qualche anno addietro, ma rimanendo nei termini del “moderno”, possiamo fare delle precisazioni preliminari:

non sembra fuori luogo parlare di una “costituzione” già nel regno di Francia durante l’antico regime prima della rivoluzione; si tratta tuttavia di un patrimonio di consuetudini non scritte ma vincolanti per lo stesso sovrano;

non è scorretto parlare di una “costituzione” inglese: un patrimonio consuetudinario con qualche affioramento scritto nei “Bills of Rights”;

possiamo anche parlare di “costituzione” per le carte rivoluzionarie e post – rivoluzionarie dell’Europa continentale, tenendo presente che sancivano il primato del potere politico (lo Stato) sulla società ed affermavano il ruolo della legge come espressione della volontà generale per non turbare la sovranità dello Stato visto come unità centralizzata.

La modernità liberale, nel suo carattere statualistico, ha sempre mostrato diffidenza nei confronti di ogni costituzione che potesse essere espressione di un potere costituente di matrice popolare.Lo Stato Liberale, espressione di questa modernità, è sempre stato impegnato nel controllare il sociale, sapendo di poterlo fare impedendo l’accesso diretto delle masse a disegnare i principi ordinativi della società. Per questo motivo, i fermenti popolari della rivoluzione del 1789 vengono spenti durante il XIX secolo e si afferma una concezione meramente statualistica della Costituzione, mentre il potere costituente si identifica con la legislazione dello Stato.Lo “Stato di diritto” che si afferma nell’800, riconosce i diritti di libertà dei cittadini, ma solo come un’auto – limitazione nell’esercizio della propria sovranità: in quanto le libertà non sono più un complesso di valori pre – statuali, bensì il risultato di una corretta applicazione delle leggi statali.

Guardando a tutti questi esempi, ci accorgiamo che la Costituzione Italiana del 1947 è realtà profondamente nuova (come nuove sono le Costituzioni del secondo dopoguerra ispirate alla Repubblica di Weimar).In primo luogo, è diversa perché espressione del popolo sovrano e non dello Stato, e quindi della società che può esprimersi grazie ad un potere costituente eletto dopo la guerra, con la caduta del regime autoritario e la struttura istituzionale monarchica (e l’art. 1 della Cost. It. sta ad indicare che il popolo è

ben più di quel semplice elemento costitutivo dello Stato, così come veniva visto in ottica liberale).In secondo luogo, perché si pone come un ordinamento giuridico al di sopra dell’ordinaria struttura legale, perché attingendo alle radici della società attinge ad uno strato di valori e li manifesta a cominciare dal potere legislativo.L’ordinamento giuridico italiano, inoltre, ha nella Costituzione i suoi confini assoluti: grazie a essa l’identità politica (che tende ad immedesimarsi nello Stato) diventa qualcosa di più ampio e complesso, diventa identità giuridica del popolo italiano, che ha in essa un ordinamento giuridico fatto di regole e principi che ne costituiscono le radici identificatrici.Indubbiamente la Costituzione appartiene ad una dimensione giuridica, perché ordina giuridicamente la società civile: non si tratta, però, di comandi secchi e imperativi, bensì di principi e regole (dalla valenza ordinativa) che, per essere specchio di valori circolanti, si connotano di una normatività di qualità superiore e alla quale corrisponde un’osservanza degli utenti basata su una sostanziale adesione. Il testo costituzionale, pertanto, non è una carta che si impone dall’alto sulla società, ma è in essa radicata.Ed ecco, quindi, che la vecchia mistica a carattere liberal - statalistico della legge (che vede nel Parlamento – produttore di leggi – una sorta di Zeus onnipotente e onnisciente che si impone dall’alto) cede al protagonismo nuovo della società e dei suoi valori.

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È questo il motivo che rende la Costituzione – in uno Stato costituzionale – rigida: questo vuol dire che può essere modificata solo con procedure speciali ed ha una valenza superiore alla legge ordinaria del Parlamento, la quale non può violare i dettami costituzionali (come invece avveniva sotto il regime monarchico, quando lo Statuto Albertino era una costituzione flessibile e poteva essere modificata dal Parlamento).Per salvaguardare questo aspetto, le costituzioni moderne prevedono espressamente l’istituzione di una magistratura suprema che si pone come giudice di leggi, è cioè chiamata a giudicare la coerenza tra le disposizioni di una legge e i valori contenuti nella Costituzione.In Italia questo compito è affidato alla Corte Costituzionale (divenuta effettiva nel 1956) che fa da mediatore tra pluralismo dei valori della società e sordità dei testi legislativi. L’esempio più lampante è l’elaborazione del principio di ragionevolezza, adoperato per misurare l’attività del legislatore: il suo arbitrio, fino a ieri insindacabile (in una visione assolutistica della potestà parlamentare), trova ora un limite nella ragionevolezza dell’atto; in questo modo il diritto legale non sfugge alla verifica della coscienza collettiva e dei suoi valori.

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11. Le manifestazione del diritto. La legge

Partiamo col dire che la Costituzione è legge suprema. Ci riferiamo, però, alla legge ordinaria, lo strumento che permette al Parlamento di manifestare la sua volontà.Nella modernità giuridica, abbiamo assistito alla nascita di un vero e proprio legicentrismo che porta con sé un’ulteriore nascita, quella di un modello di Stato imperniato sull’assoluto protagonismo della legge e su un dominante principio di legalità, cioè di conformità alla legge di ogni atto (che può essere un atto della pubblica amministrazione, di giudici, di privati…). Riprendendo un termine già espresso, si parla anche in questo caso del cosiddetto Stato di diritto, inteso come “continentale” così come, cioè, si viene definendo nel corso dell’Ottocento sul continente europeo: in vari aspetti e sfumature, avendo il cosiddetto Rule of Law anglosassone diversità sostanziali scaturenti dalle diverse matrici storiche.Questo Stato:

- è sovrano: perché munito di ogni potere che la sovranità conferisce;- è parlamentare: perché assume il Parlamento (onnisciente e onnipotente) come organo

centrale e caratterizzante, e perciò insindacabile;- grazie al principio della divisione dei poteri, stabilisce il monopolio parlamentare nella

produzione del diritto e si esprime mediante la legge (voce del Parlamento), la fonte più democratica perché pretesa manifestazione della volontà generale;

- è, perciò, legalitario: perché vede l’assoluto primato della legge (norma impersonale, assoluta, astratta, uguale per tutti e di fronte alla quale tutti sono uguali), soggetto disciplinante della complessità sociale;

- protegge i diritti individuali di libertà con la propria auto – limitazione nell’esercizio della sua sovranità.

Si può dire che è tutto un castello di finzioni: l’ipervalutazione della legge, il culto della legge, l’ordinamento giuridico ridotto ad un insieme di leggi viste come comandi autorevoli meritevoli di ossequio a prescindere dal loro contenuto.E il principio di legalità è visto come una garanzia suprema del cittadino, affiancato dal principio della certezza della legge.Sono queste garanzie formali, che fino a ieri si arrestavano di fronte all’arbitrio del legislatore. È infatti un paesaggio giuridico di ieri quello di cui abbiamo parlato, e l’abbiamo fatto per sottolineare che l’assolutismo giuridico persiste nel plagiare il giurista anche oggi, relegando il legalismo ad un rango sempre più marginale.Le cause sono:

- le leggi: troppo spesso abdicano alla vecchia “virtù” della generalità e, quindi, sono mirate a tutelare interessi particolari; sono leggi malfatte, improvvisate, talvolta incoerenti e linguisticamente oscure;

- il Parlamento: impotente nella sua divisione/contrapposizione partitica, e pertanto incapace nel rispondere alle richieste della collettività. In Italia, un risultato lo si può riscontrare nella legge annuale di bilancio (legge finanziaria) che ha il compito di celare i provvedimenti più disparati con la scusante che, separatamente, il Parlamento non sarebbe stato in grado di affrontarli ed approvarli. Accanto a questo risultato “interno”, si generano anche contraccolpi esterni: un esempio può essere una crisi di fiducia alla quale fa riscontro, in positivo, l’emergere ed il consolidarsi di altre forze a integrare, a supplire e a sostituirsi;

- l’ingigantire il ruolo dei giudici: punto a sfavore del principio della divisione dei poteri che porta all’affermazione di un vero e proprio “diritto vivente”, espressione dell’orientamento concorde dei giudici superiori;

- l’ingigantire il ruolo della prassi: avvocati, notai… non badano alla sordità del Parlamento e si danno da fare in seno ai loro interessi;

- l’ingigantire il ruolo della scienza giuridica.

Queste ultime tre forze possono anche dar luogo ad un canale autonomo di produzione giuridica, parallelo a quello ufficiale: la globalizzazione giuridica.

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Ulteriori problemi vengono dati dai tanti strati di legalità sovrastanti a quella ordinaria, ad esempio:- lo strato comunitario: produce normative che incidono direttamente nell’ordinamento

italiano;- lo strato costituzionale: in presenza di una Costituzione lunga e rigida come la nostra,

rappresenta un livello superiore normativo.

La legge ordinaria oggi è in profonda crisi, data la sua incapacità a ordinare giuridicamente la società civile e soprattutto a governare il mutamento socio – economico che viviamo (e vivremo domani). Conseguenza logica di tutto questo è che anche il sistema delle fonti normative soffre una crescente dispersione.Nel primo dopoguerra il filosofo italiano del diritto Capograssi definì lo Stato “un povero gigante scoronato”; ottantacinque anni dopo possiamo ripeterlo, notando che la corona sottratta al gigante e fatta a pezzi è proprio la legge.

12. Le incarnazioni del diritto: parole liminali

Sappiamo che il diritto si annida alle radici della società ma, essendo vocato ad ordinarla, non può non manifestarsi. Infatti è proprio la sua vocazione che lo spinge a diventare trama della società, in quanto manifestazioni ed esperienze costituiscono un processo unitario non scomponibile; e il momento dell’incarnazione del diritto compie e realizza proprio questa unità.Si tratta di una verità assoluta perché strettamente connessa alla natura stessa del diritto; chi lo coglie come norma, comando… è portato a valorizzare solo il momento e la qualità del comando trascurando il distendersi della regola nello spazio e nel tempo. Quest’ultimo è un atteggiamento non giustificabile, giacché l’ordinamento si intride con la materia sociale da ordinare, e il tessuto sociale assume carattere giuridico, diventando esperienza/storia vivente.

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13. Le incarnazione del diritto: la “consuetudine”

Tra le fonti giuridiche, alla consuetudine spetta un primato cronologico, essendo di stampo consuetudinario il formarsi di un ordine giuridico nelle civiltà primitive.Si tratta di un fatto umano che viene ripetuto nel tempo, perché in esso la coscienza collettiva rinviene un valore da serbare ed osservare.È così che nasce il diritto nei primordi della storia umana: non da un testo scritto, bensì da un fatto che si ripete nel tempo, da un’osservanza collettiva che non è obbedienza passiva ma piuttosto adesione. Tra le sue dimensioni necessarie:

1) dimensione plurale: trova la sua espressione spaziale nella comunità e quella temporale nella tradizione;

2) dimensione della durata: in quanto il diritto è una realtà radicale incapace di maturarsi nell’effimero e, quindi, ha bisogno di più tempo per poter venire ad esistenza;

3) dimensione dell’osservanza: ha bisogno di rispetto ed adesione.

La consuetudine, seppure elementare è la fonte che meglio rispecchia il diritto nella sua purezza originaria; e forse questo è uno dei motivi che la rende la sua matrice storica, destinata però ad essere soppiantata appena la civiltà diviene complessa o inglobata in un sistema politico (in quanto incapace di ordinare la complessità) e necessita, quindi, di schemi generali ordinanti, di categorie, come solo la legge e la scienza possono fornire.

Dall’essere un fatto durevolmente ripetuto, la consuetudine trae il suo particolarismo: nasce dal particolare; il fatto si colloca sempre nel particolare, anche se poi trova adesioni diffuse e si estende.Questa fonte nasce dal basso ed esprime bisogni che provengono dal basso: Savigny direbbe che esprime lo spirito del popolo.Per questo motivo si configura come la più riottosa delle fonti, impossibile da racchiudere in un programma unitario e centralizzante; e quando, come nell’età moderna, il diritto diviene cemento dello Stato, la conseguenza è la riduzione del diritto a legge e la collocazione della consuetudine all’ultimo gradino della scala gerarchica, in una posizione ancillare (di secondo piano) rispetto alla legge.Anche se in un momento di crisi delle fonti ufficiali come quello che stiamo vivendo, dove la prassi giuridica si ritaglia sempre maggiore terreno nel disegnare quel nuovo diritto che la legge è incapace a progettare, anche la consuetudine avrà un ruolo di maggiore rilevanza.

Se abbiamo detto che la Costituzione e la legge ordinaria sono semplici manifestazioni in attesa di diventare esperienza vissuta (in attesa che la interpretazione/applicazione consenta la loro incarnazione), nella consuetudine manifestazione ed incarnazione sono tutt’uno: questo perché la consuetudine non è un principio/previsione, bensì un fatto che si manifesta nel momento in cui una collettività lo vive.

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14. Le incarnazioni del diritto: l’interpretazione/applicazione

Il più delle volte, nella nostra esperienza quotidiana, non sorgono problemi relativi all’applicazione del diritto.Come primo applicatore si può parlare dell’utente/osservatore con le sue applicazioni quotidiane (comprare, vendere, mutuare…). Unica limitazione è che egli vive questi atti come delle semplici esperienze di vita; questo ne riduce la giuridicità, che viene sepolta dal fatto della spontanea vita associata prima ancora che una regola scritta, l’utente/osservatore segue un costume e/o buonsenso a cui il costume stesso si ispira.Discorso analogo lo si può fare per la consuetudine (fonte orale per eccellenza) che da una scrittura non può soffrire che di una profonda snaturazione; ma la storia giuridica ci insegna che il diritto è stato spesso immobilizzato in un testo.Questo per vari motivi:

1) fisiologico: il valore deve essere noto universalmente per poter essere osservato;2) patologico: dato che il potere politico si è impossessato del diritto e lo ha trasformato in un

comando imperativo, tanto più obbedito quanto più conosciuto (e la scrittura non consente scusanti all’ignoranza).

Insomma il diritto, nel momento dell’immersione/applicazione nella vita, porta con sé vari problemi per chi ha la funzione di applicarlo. Fonte primaria di problemi è proprio la scrittura/cristallizzazione in un testo scritto; questo perché:

- la norma è distante dell’applicazione a livello temporale/spaziale;- i fatti sono profondamente diversi e quindi difficilmente disciplinabili dalla norma.

In un secondo momento, sempre in termini di applicazione, sorge un problema di interpretazione: in questo caso, l’applicatore per eccellenza è il giudice (limitato nell’area di civil law, più libero nell’area di common law), ma può esserlo anche lo scienziato (doctor iuris).Ritornando al discorso, il problema è stato eluso, in un primo momento, confinando l’interpretazione/applicazione fuori dal processo di produzione del diritto (perché già perfettamente compiuto e concluso nel momento della manifestazione di un testo normativo); successivamente esorcizzandolo grazie alla divisione dei poteri; ma si risolveva anche con l’elusione del problema rappresentato dalla non evitabile frizione tra testo e vita, fra immobilità del comando e mobilità della società.

Oggi, tra i giuristi di civil law, circola una coscienza frutto di un decennale fitto dialogo culturale da parte di alcuni giuristi che rientrano sotto la corrente di pensiero filosofico denominata ermeneutica; e frutto dell’incontro di quei giuristi con il filosofo tedesco Gadamer.Quella che oggi chiamiamo ermeneutica, supera i canoni dell’ermeneutica classica, tentando ci cogliere il rapporto tra testo scritto e suo interprete (cifra autentica di ogni interpretazione): alla dominanza del testo e alla passività dell’interprete, si sostituisce la convinzione che il testo non è un elemento autosufficiente ma trova la sua compiutezza solo grazie all’interpretazione; la quale non è soltanto conoscenza, ma anche comprensione: questa viene intesa come intermediazione fra il messaggio del testo (estraniato dalla storia per l’immobilizzazione della scrittura) e l’attualità di chi la interpreta (con il patrimonio di conoscenze/convinzioni a lui attuali).In parole povere, il messaggio ermeneutico viene a spostare l’attenzione sull’interprete, visto come attore primario di questa opera di intermediazione.Seguendo l’esempio di Gadamer, si deve andare all’interno dell’universo giuridico, dove il problema centrale risiede nel rapporto tra regola e vita e nel ruolo svolto dall’interpretazione/applicazioni per tradurre la vita in regola. Per questo motivo si fa cenno a Gadamer: anello di connessione tra riflessione filosofia e riflessione giuridica.Grazie a questa coscienza ermeneutica, possiamo fare delle rilevanti precisazioni:

- il diritto consiste in un perenne rapporto di interconnessione tra “manifestatore” e interprete/applicatore, fra norma ed esperienza giuridica;

- il “manifestatore” senza l’interprete/applicatore è privo di comunicazione con la società (parla a se stesso) perché l’interpretazione/applicazione priva la disposizione della sua astrattezza e la inserisce nel concreto, rendendola storia vivente (diritto).

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Ciò che ne consegue, è la consapevolezza:- di aver concepito il testo normativo come indipendente dal caso concreto che avrebbe

dovuto disciplinare;- dell’importanza dell’interprete/applicatore: la voce della società su cui incide la

disposizione, con contenuti diversi da quelli voluti dal “manifestatore”;- dell’incompiutezza della regola astratta, che si completa solo con l’interpretazione in un

processo di previsione universale e applicazione particolare;- della complessità del processo di produzione del diritto, che si perfeziona solo con

l’interpretazione.

Quindi, il diritto positivo non è quello imposto da un’autorità, bensì quello che l’interprete/applicatore pone nella società.Come già detto, si valorizza la posizione dell’interprete come mediatore; ma l’importanza primaria ricade sulla comunità, che non rappresenta più un gregge passivo destinatario di comandi repressivi, ma una parte rilevante nel processo di produzione del diritto (e l’interprete è la voce di questa comunità): ecco perché si sta sempre più prendendo coscienza di dar vita ad un diritto vivente (della società) che si affiancchi al diritto ufficiale.Tutto questo si potrà conseguire grazie anche all’immersione dei giudici nel loro tempo a dimostrazione della crisi della legge, con la sua conseguente trasformazione da durissima a più elastica: il giurista dovrà riconquistarsi un ruolo rilevante nella società, alla condizione che deponga la veste di interprete di un testo legislativo (quasi fosse un testo sacro) e si senta realizzatore del diritto visto come storia vivente.