Politiche di genere tra teorie e prassi. Percorsi di...

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1 Politiche di genere tra teorie e prassi. Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali Chiara Martucci (Università degli Studi di Milano) In conclusione del 2008, Anno Europeo del dialogo tra le culture, presento qui i risultati di un’indagine qualitativa che riprende e approfondisce il tema della libertà femminile nelle società multiculturali. Grazie a un finanziamento della Regione Lombardia nell’ambito del Progetto “Dote-ricercatori” (Bando Ob. 3 FSE D3-D4), ho intervistato alcune donne rappresentanti dell’associazionismo femminile straniero, delle istituzioni locali e del cosiddetto “privato sociale” sulla base di una traccia aperta, elaborata in collaborazione con le responsabili del Servizio Politiche di Genere e progetti speciali della Provincia di Milano, presso cui ho svolto uno stage formativo che mi dato occasione di conoscere dall’interno il funzionamento di un'istituzione che si occupa dell’analisi e della promozione di politiche di genere e di pari opportunità. L’obiettivo generale della mia indagine era di approfondire la conoscenza dei servizi esistenti e del loro livello di interconnessione, e di identificare gli aspetti positivi e quelli problematici legati alla sempre maggiore presenza di migranti, dando voce alle esperienze di alcune donne, italiane e straniere, che da anni vivono e operano sul territorio di Milano e provincia. Prima di entrare nel merito dell’analisi delle interviste raccolte, vorrei proporre una storia vera 1 – quella del matrimonio di Licu e Fancy – che credo possa costituire uno spunto interessante per ragionare sul tema della libertà delle donne nelle società multiculturali. Non certo perché rappresenti un caso che esaurisce le molte e diverse esperienze delle immigrate che vivono nel nostro paese, ma perché si tratta di un esempio che permette di cogliere e mettere a tema la delicata tensione tra il riconoscimento dei diritti culturali ai gruppi e la libertà delle donne che di quelle comunità fanno parte. Licu è nato in Bangladesh, è musulmano, ha ventisette anni e abita a Roma da otto, in una casa in affitto con altre otto persone. Da poco non è più clandestino, e per vivere lavora dodici ore al giorno: magazziniere in un laboratorio tessile la mattina, cassiere in un negozio alimentare la sera. Capelli alla Elvis, camicie griffate, tifoso della Roma, Licu sembra molto “integrato”. Improvvisamente riceve da sua madre, che abita in un villaggio rurale bangladese, la foto di una ragazza di diciotto anni: si chiama Fancy ed è la sposa che la sua famiglia ha stabilito per lui, senza che lui la scegliesse in nessun modo. Nonostante quella foto sia tutto ciò che sa di lei, Licu prende immediatamente un mese di ferie per raggiungere la famiglia e sposare la ragazza, consapevole che non avrà l’opportunità di conoscerla meglio. Quello di Licu, rappresenta un esempio paradigmatico di alcuni aspetti ambigui del processo di integrazione: da un lato il desiderio di “bruciare le tappe” dell’occidentalizzazione, dall’altro un ancoraggio profondo alla tradizione della propria cultura di appartenenza. Dal punto di vista di un occidentale contemporaneo l’idea di un matrimonio che non sia il frutto dell’amore romantico (o per lo meno – se non del sentimento – di qualche altro interesse personale) risulta particolarmente difficile da comprendere e accettare. Eppure, Licu non vede l’ora di sposarsi e non contempla neppure l’idea di rifiutare l’invito della sua famiglia. Anche Fancy desidera sposarsi ed é curiosa di 1 Questa storia è stata recentemente tradotta cinematograficamente in una docu-fiction dal titolo “Le ferie di Licu” (2007), per la regia di Vittorio Moroni.

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Politiche di genere tra teorie e prassi. Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali

Chiara Martucci

(Università degli Studi di Milano)

In conclusione del 2008, Anno Europeo del dialogo tra le culture, presento qui i risultati di un’indagine qualitativa che riprende e approfondisce il tema della libertà femminile nelle società multiculturali.

Grazie a un finanziamento della Regione Lombardia nell’ambito del Progetto “Dote-ricercatori” (Bando Ob. 3 FSE D3-D4), ho intervistato alcune donne rappresentanti dell’associazionismo femminile straniero, delle istituzioni locali e del cosiddetto “privato sociale” sulla base di una traccia aperta, elaborata in collaborazione con le responsabili del Servizio Politiche di Genere e progetti speciali della Provincia di Milano, presso cui ho svolto uno stage formativo che mi dato occasione di conoscere dall’interno il funzionamento di un'istituzione che si occupa dell’analisi e della promozione di politiche di genere e di pari opportunità.

L’obiettivo generale della mia indagine era di approfondire la conoscenza dei servizi esistenti e del loro livello di interconnessione, e di identificare gli aspetti positivi e quelli problematici legati alla sempre maggiore presenza di migranti, dando voce alle esperienze di alcune donne, italiane e straniere, che da anni vivono e operano sul territorio di Milano e provincia.

Prima di entrare nel merito dell’analisi delle interviste raccolte, vorrei proporre una storia vera1 – quella del matrimonio di Licu e Fancy – che credo possa costituire uno spunto interessante per ragionare sul tema della libertà delle donne nelle società multiculturali. Non certo perché rappresenti un caso che esaurisce le molte e diverse esperienze delle immigrate che vivono nel nostro paese, ma perché si tratta di un esempio che permette di cogliere e mettere a tema la delicata tensione tra il riconoscimento dei diritti culturali ai gruppi e la libertà delle donne che di quelle comunità fanno parte.

Licu è nato in Bangladesh, è musulmano, ha ventisette anni e abita a Roma da otto, in una casa in affitto con altre otto persone. Da poco non è più clandestino, e per vivere lavora dodici ore al giorno: magazziniere in un laboratorio tessile la mattina, cassiere in un negozio alimentare la sera. Capelli alla Elvis, camicie griffate, tifoso della Roma, Licu sembra molto “integrato”. Improvvisamente riceve da sua madre, che abita in un villaggio rurale bangladese, la foto di una ragazza di diciotto anni: si chiama Fancy ed è la sposa che la sua famiglia ha stabilito per lui, senza che lui la scegliesse in nessun modo. Nonostante quella foto sia tutto ciò che sa di lei, Licu prende immediatamente un mese di ferie per raggiungere la famiglia e sposare la ragazza, consapevole che non avrà l’opportunità di conoscerla meglio.

Quello di Licu, rappresenta un esempio paradigmatico di alcuni aspetti ambigui del processo di integrazione: da un lato il desiderio di “bruciare le tappe” dell’occidentalizzazione, dall’altro un ancoraggio profondo alla tradizione della propria cultura di appartenenza. Dal punto di vista di un occidentale contemporaneo l’idea di un matrimonio che non sia il frutto dell’amore romantico (o per lo meno – se non del sentimento – di qualche altro interesse personale) risulta particolarmente difficile da comprendere e accettare. Eppure, Licu non vede l’ora di sposarsi e non contempla neppure l’idea di rifiutare l’invito della sua famiglia. Anche Fancy desidera sposarsi ed é curiosa di 1 Questa storia è stata recentemente tradotta cinematograficamente in una docu-fiction dal titolo “Le ferie di Licu” (2007), per la regia di Vittorio Moroni.

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conoscere altri paesi. Nessuno dei due sembra minimamente attraversato dal dubbio. I due si incontrano e, adempiti i diversi riti previsti dal cerimoniale locale, dopo pochi giorni si uniscono in matrimonio.

La situazione si complica quando i due novelli sposi rientrano in Italia, dove Fancy (che nei suoi diciotto anni di vita non é mai stata fuori dal Bangladesh) si ritrova sola, senza nessun punto di riferimento se non il marito, che conosce a stento. Una volta arrivati a Roma Licu si scopre terribilmente geloso e rifiuta di far uscire la moglie da sola. Costruisce intorno a Fancy una gabbia dorata: non le permette di fare nulla al di fuori delle mura domestiche, ma si sforza di darle the best that money can buy (chiaramente, in proporzione al suo reddito). Ogni sera porta alla sua sposa bambina prelibatezze alimentari e dvd di film bolliwoodiani. Per reggere a questi ritmi, Licu deve lavorare il doppio di prima, ed é inoltre gravato dai debiti contratti per le spese del matrimonio in patria. Inizia allora a vivere un’esistenza apparentemente scissa: nella vita pubblica riproduce i comportamenti e gli orientamenti prevalenti nel contesto locale. In casa, fa propri i codici patriarcali della sua cultura d’origine che lo inducono a ritenersi autorizzato a negare a Fancy la libertà di muoversi e di scegliere per sé.

Dallo sviluppo della storia emerge come, all’origine del comportamento di Licu, si possa rintracciare un sentimento di paura. Paura che Fancy lo tradisca, paura che qualcuno la seduca e gliela possa portare via, paura – soprattutto – che lei si accorga di essere libera. Parlando con un amico, Licu spiega la situazione dal suo punto di vista:

“si sentono italiane, pensano: noi non abbiamo meno potere di loro. Lei va a scuola,

passano uno o due giorni poi uno le chiede: andiamo a prendere un caffè? E dopo altri due giorni: andiamo a casa mia? Devo stare attento, capito?”

La paura di perdersi nel cambiamento, di perdere con lei se stesso e il suo ruolo, induce Licu a

radicalizzare in maniera identitaria gli elementi più arcaici e patriarcali della sua cultura di origine, che lo fanno sentire giustificato ad esercitare il controllo sul corpo della “sua” donna. Che fare in un caso come questo, in cui – pur non essendoci segni evidenti di violenza fisica o psicologica – si eserciti nella sostanza una forma di dominio domestico, una violenza non denunciata (ma spesso neanche percepita come tale) dalle stesse donne che la subiscono? Che fare se i comportamenti e la credenze di Licu si dimostrano incompatibili con quello che, nella cultura occidentale, è considerato il fondamentale diritto di Fancy ad essere libera?

In un contesto in cui i flussi migratori e comunicativi si sono fatti globali e inarrestabili, la contrapposizione tra il riconoscimento delle identità collettive di gruppi e culture e il rispetto delle libertà dei singoli individui si identifica spesso nei termini di una tensione tra liberalismo e multiculturalismo. Gli effetti perversi di questa tensione sono evidenziati dalla filosofa politica Susan Moller Okin, che illustra con chiarezza le contraddizioni che possono subentrare laddove la multiculturalità si imponga a discapito di altri valori, come per esempio la libertà individuale (delle donne, ma non solo):

“[f]ino a pochi decenni fa, ci si aspettava tipicamente dai gruppi minoritari che si assimilassero nelle culture di maggioranza. Ora questa attesa di assimilazione è spesso considerata oppressiva e molti paesi occidentali cercano di escogitare nuove linee di condotta politica, più sensibili alla persistenza delle differenze culturali. Paesi che, come l’Inghilterra, hanno chiese nazionali o un’educazione religiosa patrocinata dallo stato, trovano difficile resistere alla richiesta di estendere il sostegno statale alle scuole religiose minoritarie; paesi che, come la

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Francia, hanno una tradizione di istruzione pubblica laica, sono lacerati da dispute sul permesso di vestire, nelle scuole pubbliche, gli abiti richiesti da religioni minoritarie. Ma una questione è ricorrente in tutti i contesti, sebbene non sia quasi stata notata nel dibattito attuale: che fare quando le pretese di culture o religioni minoritarie collidono col principio dell’eguaglianza di genere che è per lo meno formalmente sottoscritta dagli stati liberal-democratici – per quanto continuino a violarla nella pratica?”.2

Un autore classico come John Stuart Mill ha affrontato questa questione già nel 1859

prendendo in esame il caso della poligamia nelle comunità mormoniche. In On Liberty, Mill mette, come si usa dire, direttamente il dito nella piaga difendendo da un lato la libertà dei Mormoni da possibili interferenze coercitive di impronta paternalistica e, contemporaneamente, ponendo il problema di come trattare la violazione della libertà delle donne del gruppo originata dalla pratica della poligamia.3 Se si ritiene la libertà un valore irrinunciabile, difficilmente si potranno accettare culture e pratiche che ledano la libertà dei singoli, in questo caso le donne delle comunità mormoniche. D’altra parte, se si considera prioritario garantire una pluralità di punti di vista, non si potrà negare legittimità ad un sistema di valori quale quello dei mormoni, pena la negazione della libertà stessa.

Dirimente diventa allora la certezza del consenso delle interessate e la loro possibilità di exit, di lasciare cioè il gruppo, se insoddisfatte delle implicazioni dell’appartenenza. La questione del consenso delle donne al matrimonio poligamico presenta un problema che in letteratura viene presentato come questione delle “preferenze adattive”, ovvero di “voleri sottoposti a un ridimensionamento che li aggiusta a circostanze invalidanti”.4 L’esperienza ripetuta dell’insuccesso che spinge ad accantonare desideri esosi, la frustrazione che ridimensiona l’iniziativa individuale e fa desiderare solo ciò che si é in grado di ottenere, costituisce un’esperienza di libertà? E poi, come sapere se il consenso eventualmente ottenuto è volontario, oppure estorto?

Si intrecciano qui due questioni: da un lato, la verificabilità della dimensione interna della libertà (quella che attiene a motivazioni, aspirazioni, desideri del soggetto) che però, da sola, non è sufficiente per rispondere a questa domanda. Dall’altro, il problema della libertà in generale, e della libertà delle donne in particolare, si lega anche al fatto delle opzioni effettivamente disponibili, o anche solo pensabili.5 Per citare un esempio concreto, il matrimonio é stato a lungo (im)posto alle donne come unica opzione disponibile (a meno di non preferire la clausura) anche nella cultura occidentale, e lo era certamente nell’Inghilterra vittoriana di Mill in cui le donne venivano socializzate ed educate a credere che il loro carattere non prevedesse: “volontà autonoma o governo di sé attraverso l’autocontrollo, ma sottomissione e arrendevolezza al controllo degli altri.”.6 È dunque perlomeno problematico asserire che possa esistere una volontà

2 Susan Moller Okin, (1997), “Is Multiculturalism Bad for Women?”, Boston Review, ristampato con alcune revisioni in Cohen, J., Howard, M. and Nussbaum, M., (1999), (eds.), Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton University Press, Princeton. 3 Mill, J. S., (1859), On Liberty, ed. Italiana, Saggio sulla libertà, Il saggiatore, Milano 1999. 4 Besussi, A., (2004), “La libertà di andarsene. Autonomia delle donne e patriarcato” in Ragion pratica n. 23, cit. p. 438. 5 Il ruolo delle “opzioni disponibili alla scelta” autonoma è stato messo a fuoco da Joseph Raz alla fine degli anni ottanta. Secondo Raz: “[p]er mostrare che una persona è autonoma, dobbiamo considerare non solo lui, ma anche il suo ambiente. Si è autonomi solo se si vive in un ambiente ricco di possibilità”, cit. da Raz, J., (1994), Ethics in the Public Domain. Essays in Morality of Law and Politics, Oxford, Clarendon. 6 Mill, J.S., (1869), op. cit., p. 90, ed. ita.

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autonoma in chi sia stata allevata con il preciso mandato di non svilupparne una e sia anzi ritenuta (e stata indotta a ritenersi) costitutivamente incapace di farlo.

Analogamente, quando Mill, esaminando la condizione femminile presso i Mormoni, individua nella possibilità di lasciare il gruppo la condizione che rende accettabile la difesa della libertà dei gruppi (anche quando questa comporti oppressione per le donne), ciò che omette di considerare – in stretta osservanza al principio antipaternalistico che vieta di definire dall’esterno ciò che è bene/male per un individuo o gruppo – è che questo consenso e questa accettazione possano essere il prodotto della consuetudine, dell’incapacità di pensarsi in una condizione diversa da quella in cui ci si è trovate ad essere o, ancora, dipendere dagli alti costi che l’opzione di exit può comportare.7

L’argomento di Mill può schematicamente essere riassunto come segue: se le donne danno il loro assenso alla poligamia e non se ne vanno dal gruppo, non c’è ragione per ritenerle costrette nel contesto di appartenenza. Ma se la capacità di scegliere chi essere, e come relazionarsi all’altro sesso, è difettosa perché costruita in circostanze deprivanti, o se il rifiuto delle regole della comunità comporta il divieto di rivedere la propria famiglia per il resto della vita, il mancato esercizio del diritto di exit dal gruppo e l’accettazione delle sue regole non possono di per sé costituire una prova sufficiente della volontaria accettazione delle stesse regole da parte delle donne. Quanta libertà può essere esercitata in condizioni di soggezione e assoggettamento? In che misura l’essere socialmente costruito del soggetto della libertà inficia le condizioni del suo esercizio?

Un eccesso di zelo antipaternalistico non dovrebbe indurre a non riconoscere le circostanze di oppressione e le ingiustizie che vengono perpetrate nelle diverse culture e comunità. In questo senso, parlando della libertà individuale, e della libertà delle donne in particolare, è necessario porsi non soltanto nella prospettiva di esaminare le condizioni esterne, sottratte al controllo del soggetto, ma anche interrogarsi sulle condizioni interne del soggetto che di quel “fuori” è, in certa misura, il prodotto. Quanta autonomia e quale libertà sono possibili in circostanze di vita che insegnano a rimettere i propri desideri e le proprie aspirazioni nelle mani di altri? Laddove la propria identità dipenda dal fatto di essere una “buona figlia” o una “buona moglie”, il venire allontanata dalla casa del padre o del marito equivale a cessare di esistere. Chi non si conforma al modello che viene indicato come appropriato all’essere donna, chi non sta “nel cerchio”, perde il diritto all’umanità tout court.

L’esempio di Fancy e Licu può allora essere considerato paradigmatico di questa tensione tra libertà e pluralismo che si ripropone, oggi, in modo sempre più frequente e spesso drammatico, in una serie di questioni controverse che, non a caso, riguardano ancora la libertà delle donne (che vanno dalla nota questione del velo, ai matrimoni combinati; dalla segregazione domestica fino ai casi di mutilazioni genitali). La tensione teorica tra il rispetto della pluralità e della diversità delle culture e la salvaguardia della libertà delle singole donne, o di altri individui membri del gruppo, emerge in tutta la sua pregnanza quando si tratta di dover prendere decisioni politiche nella pratica. Gli interrogativi urgenti sollevati da un caso del genere – che si ripete nei contesti differenti di tutte le democrazie contemporanee – spingono e sostengono la necessità di confrontarsi con le contraddizioni che comporta il fatto di trovarsi sospesi tra più mondi e più universi di valori, come inevitabilmente accade in un contesto irriducibilmente plurale, ma non perciò immobile ed immutabile.

La storia di Licu e Fancy si conclude con l’immagine di Fancy che guarda da dietro i vetri “un mondo infinitamente più lontano dei pochi metri che la separano dalla porta di casa”, come si 7 Mill, J. S., (1859), op. cit., pp.105-107, ed. ita.

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legge nella sinossi del film. Ma, seppure dalla finestra, lei vede: vede uomini che non sono Licu, vede altre donne come lei che invece vivono la città (e le danno vita) e – vedendo altri possibili stili di vita e modi di essere – comincia a concepirne la possibilità, inizia ad immaginare diversi modi possibili di essere. Comincia a fare confronti, a porsi domande e, più o meno consapevolmente, a mettere in discussione ciò che le é stato insegnato. Nelle sue brevi uscite per le commissioni domestiche acquisisce informazioni e inizia a conoscere, o almeno a desiderare di conoscere, e a crearsi nuovi strumenti (si procura opuscolo di una scuola di italiano e studia il percorso per arrivarci sulla cartina) e, infine, trova il coraggio dapprima di esprimere ciò che desidera al suo marito/padrone, e poi di entrare in conflitto con lui. Nel cominciare a mettere in discussione il suo stato di schiavitù, Fancy non é già più una “schiava contenta”, perché comincia a vedersi con i propri occhi e a concepire nuovi possibili percorsi e progetti per sé. Ovvero, inizia ad avviare quel processo critico e deliberativo che costituisce il quid imprescindibile dell’idea di autonomia individuale e di libertà. Naturalmente, non si tratta di un passaggio netto da uno stato di “non-libertà” ad uno di “libertà”, ma piuttosto di un processo graduale che inizia proprio dal fatto di poter avere accesso ad altri modi di pensare, intendere le cose e di posizionarsi rispetto ad esse e anche a se stessi, facendo un passo indietro rispetto alla cultura che si è ricevuta.

Imparare a vedere e a vedersi diversamente non é tuttavia scontato, e nemmeno di per sé sufficiente. Una volta che si sia visto, diviene fondamentale poter comunicare con l’esterno (superare le barriere linguistiche e culturali che impediscono l’incontro), potersi identificare con il contesto (poter concepire come pensabili per sé questi modi di essere), avere strumenti pratici e risorse materiali per poter accedere effettivamente a queste altre possibilità (conoscere e avere accesso ai servizi offerti dal territorio) e, infine, poter essere visti e partecipare (poter, cioè, rendere visibile nello spazio della città il proprio modo di essere e contribuire all’elaborazione delle norme che ci riguardano). Obiettivo di una società multiculturale sarà allora quello di assicurare e massimizzare la possibilità della formazione di giudizi autonomi per ciascun individuo, e di facilitare una “visibilità distintiva” di ciò che rende ciascuna e ciascuno un essere unico e diverso dagli altri. È questa una dimensione della libertà individuale che risulta particolarmente pertinente sullo sfondo di un incremento della complessità e dell’eterogeneità del contesto sociale e della moltiplicazione delle richieste di riconoscimento identitario che caratterizzano le società pluralistiche contemporanee.

Negli ultimi vent’anni i processi di migrazione che hanno interessato la società occidentale hanno trasformato gli scenari dei nostri contesti sociali e prodotto nuove rappresentazioni culturali, appartenenti ad universi “altri” rispetto a quello della cultura occidentale. Secondo le statistiche ufficiali, gli stranieri sono oggi in Italia oltre 4.000.000 e producono il 9% della ricchezza nazionale, e la Lombardia è la regione più massicciamente interessata da questo fenomeno.

In seguito all’aumento dell’immigrazione femminile, le donne come Fancy che abitano a Milano e provincia sono oggi molte, sempre di più. Ma molte sono anche le donne che arrivano da sole per studiare o lavorare, e ancora molte sono quelle che raggiungono mariti o parenti attraverso il ricongiungimento familiare; sempre in aumento sono poi le seconde generazioni di bambine e ragazze, nate e cresciute in Italia. Ci sono donne laureate e analfabete, poliglotte o capaci di parlare solo la propria lingua, donne che arrivano in Italia con progetti migratori liberamente scelti e altre che arrivano come vittime di tratta o richiedenti asilo politico. L’aumentato afflusso di donne immigrate porta con sé un’ampia e variegata tipologia di tematiche e problematiche, di opportunità e sfide.

La palese evidenza per cui le donne sono molte e diverse tra di loro vale evidentemente, e tanto più, per le straniere. Emergono allora esigenze molteplici e stratificate (dai corsi di lingua italiana alla formazione per la creazione di nuova imprenditoria femminile, dagli spazi di

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aggregazione e socializzazione, al bilancio e alla valorizzazione delle loro competenze, non solo lavorative). Vi sono bisogni e risorse già attive sul territorio (reti di comunità, consulte dei migranti, associazionismo straniero e piccole imprese autonome) che spesso non corrispondono agli stereotipi che, più o meno implicitamente, descrivono le donne migranti come bisognose di tutela tout court. Anche se resta vero che ancora troppo spesso le donne, e in particolare quelle straniere, continuano a subire le peggiori violenze, dentro e fuori la sfera domestica, qualcosa sta cambiando. Il volto pubblico delle città e del paese si sta trasformando sempre più, occorre saper cogliere le nuove esigenze esistenti ed essere orientati a captare il mutamento sociale.

Veniamo ora ad approfondire nel merito le suggestioni e le informazioni raccolte durante l’indagine qualitativa. Le intervistate

Si è scelto di intervistare nove donne tra i trenta e gli “anta”, di diversa provenienza

geografica: quattro sono italiane, le altre provengono da diversi paesi: Albania, Ecuador, Marocco, Tunisia e Somalia. Le accomuna il fatto di essere attive, appassionate, competenti e coinvolte in prima persona nella loro professione. Tutte vivono e lavorano a Milano e provincia, e sono per lo più esponenti dell’associazionismo o operatrici di servizi pubblici e privati rivolti al supporto delle donne migranti e alla promozione del dialogo interculturale. I contatti per queste interviste sono stati selezionati attraverso una serie di segnalazioni ad personam, e si tratta di donne che in gran parte non si conoscono direttamente.

Dounia Ettaib è la presidente dell’Associazione Donne Arabe d’Italia, Marian Ismail presiede l’ Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace (ADIR), Ouejdane Mejri è la presidente dell’Associazione dei Tunisini a Milano, Almira Myzyri è una mediatrice culturale della Cooperativa Progetto integrazione e coordinatrice del servizio “Telefono mondo”, Patricia Bermeo, è una stilista, talent scout e manager di spettacolo che ha creato una sua piccola impresa che dà lavoro a molte altre donne straniere. Le italiane sono in due casi operatrici di servizi privati e del volontariato sociale e in due rappresentanti delle istituzioni pubbliche locali che seguono politiche e servizi rivolti in particolare alle donne straniere: Gina Bruno è una volontaria della sezione Naga-Har (che si occupa di rifugiati politici e richiedenti asilo), Eleonora Dall’Ovo è un’operatrice del servizio ginecologico privato per donne straniere e italiane YONI, Marina Locatelli è operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano e Carmen Marchetti è la coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano.

Le attività di cui si occupano spaziano a 360 gradi su tutte le tematiche e problematiche legate alla presenza delle donne straniere sul territorio: dall’assistenza nelle procedure per il permesso di soggiorno e per il ricongiungimento familiare, all’accompagnamento e orientamento alla formazione e al lavoro; dal sostegno all’imprenditoria femminile, alla protezione per le vittime di tratta o richiedenti asilo politico (per maggiori dettagli, si veda la scheda informativa in Appendice).

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Le interviste

Alla domanda se vi sia, secondo la loro esperienza, un livello sufficiente di connessione e comunicazione tra le risorse esistenti sul territorio, si lamenta in molti casi l’assenza di circuiti integrati e di una reale conoscenza reciproca: No non c’è una sufficiente connessione tra i diversi servizi offerti dalle istituzioni e spesso ci sono delle clonazioni: un ente eroga medesimi servizi offerti da altri. I servizi sul territorio non dialogano tra loro. C’è una dispersione di energia per gli utenti che continuano a girare senza concludere niente. […]. Non c’è attenzione verso l’utente, c’è attenzione a erogare e concludere il servizio, ma non c’è metodologia nel come erogarlo. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Non c’é omogeneità. Manca una banca dati sull’associazionismo, sia straniero che italiano. […]. Non c’è un coordinamento territoriale. Non c’è la facilitazione a reperire informazioni su quello che offrono le istituzioni. Si va per sentito dire, ed è tremendo. Non c’è contatto e conoscenza tra le varie associazioni, ognuna è un’isola a se stante. In assenza di risorse, ognuno tende a difendere il proprio “orticello”, e a non socializzare le informazioni. Ognuno si specializza e si chiude. E questo non fa bene alla cittadinanza. Non c’è comunicazione. Ognuno è un vaso non comunicante. È la rete che fa forza, non la singola realtà. […] Anche le istituzioni devono essere più trasparenti e chiare nel dare i loro servizi, molto è stato fatto, ma c’è tanto ancora da fare. (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace) Si creano a volte dei veri e propri circoli viziosi creati da “ingranaggi perversi”, come racconta Gina Bruno: Noi abbiamo segnalato il caso di una ragazza richiedente asilo politico al Comune di Milano che è intervenuto. La ragazza è andata in commissione in breve tempo, ha avuto la protezione sussidiaria che dura tre anni. Sta cercando un lavoro, ha trovato offerte lavorative anche molto vantaggiose per lei ma non può lavorare perché non ha la carta di identità, perché le agenzie interinali chiedono la carta di identità. Per andare a fare la carta di identità devi andare al Comune e il Comune risponde: “abbiamo troppi accertamenti da fare. Puoi avere la carta d’identità tra nove mesi, ma devi aspettare e nel frattempo devi avere la residenza”. Il centro di accoglienza, per una sua politica interna, non rilascia la residenza prima di tre mesi di permanenza all’interno del centro. Quindi lei avrebbe già potuto lavorare da due mesi, però il centro di residenza non le fa la dichiarazione di ospitalità. Una volta che l’ha ottenuta, può andare al Comune a richiedere la carta di identità…Però non le viene rilasciata prima di sette/otto mesi… Nel frattempo il periodo in cui lei può stare nel centro di accoglienza sta per finire, perché ha finito i sei mesi. E quindi finirà per strada. Finirà per strada senza lavoro…Questi sono gli ingranaggi perversi in cui ci si viene a trovare. (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) Le rappresentanti dei servizi offerti dalle istituzioni pubbliche e private, a loro volta, sottolineano che molto lavoro è già stato fatto, ma che moltissimo resta da fare per consolidare e implementare le connessioni esistenti. Anch’esse evidenziano poi le difficoltà pratiche a entrare in contatto con il variegato arcipelago dell’associazionismo, e in particolare con quello straniero: Noi cerchiamo per quello che ci riguarda di ampliare le conoscenze dei servizi e, dove possibile, manteniamo un contatto, una continuità, con associazioni o servizi sociali. Non è così facilmente riscontrabile questa collaborazione tra i vari enti, perché spesso anche all’interno dello stesso ente non si sa chi c’è e che cosa fa. Noi stiamo cercando di fare il più possibile questa cosa […],

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annualmente facciamo l’aggiornamento dei nostri dati. […] Però è difficile. Come è difficile contattare le associazioni di donne straniere. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano) Noi abbiamo provato a fare una rete con “Todo Cambia” e con diverse altre associazioni […] però quello che è risultato difficile non è stato trovare i contatti, ma mantenerli nel tempo… poi ci siamo perse […]. La figura fondamentale è la mediatrice, se è una brava mediatrice lei ti mette in contatto con le associazioni, con le donne migranti, ti dice dove andare, quali sono i progetti in corso delle associazioni ecc. Io a un certo punto ho iniziato a usare le loro feste per contattare le donne e le associazioni, tipo la festa dei filippini quando si incontrano davanti alla chiesa di S. Lorenzo, oppure il festival sud americano; però questi per loro sono dei momenti di festa, c’è poco tempo per parlare di altre cose e le associazioni, le referenti delle associazioni, è difficile trovarle. (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere) Creare e far sopravvivere delle associazioni, specie se di donne straniere, è a sua volta un compito complesso sia per mancanza di informazioni sulle possibilità esistenti per mancanza di risorse sia economiche, sia di tempo ed energie personali, in particolare per le donne, su cui più spesso grava il peso della conciliazione: In Italia per fortuna i diritti ci sono, almeno sulla carta: accesso all’istruzione, al servizio sanitario. E invece c’è poco l’associazionismo. Nel senso che spesso associazioni di donne nascono, ma poi non riescono a reggere perché non c’è supporto non solo economico, ma proprio nella gestione. Per cui magari il desiderio a volte c’è, dopodiché non riesci a reggere e conciliare lavoro, famiglia eccetera…è un problema trasversale, lo so. […] Incontro donne che vorrebbero fare qualcosa, ma non sanno proprio da dove partire, magari le realtà poi ci sono, è che sono poco conosciute. È che non si pensa tanto di far conoscere queste possibilità e servizi alle comunità straniere (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) [Per il mio progetto di corsi e incontri] ho chiesto aiuto alla regione, ho chiesto aiuto al Comune, ho chiesto aiuto a tutto il mondo ma non me l’ha dato nessuno! Ho detto “non mi arrendo”. Sono andata al parco e lì ho fatto lezione! In inverno normalmente ci riuniamo in casa in gruppo. Perché casa mia sono due locali, non è che possa entrare tanta gente… Ci sono italiane e straniere. La nostra casa è un porto di mare! Ho convinto mio marito e una mia amica a metterci dei soldi. Perché questo ci vuole, parliamoci chiaro. Questo piccolo progetto è il mio figlio! […] Associazione ancora no. Bisogna trovare le persone giuste. Perché la maggior parte delle persone vuole entrare solo per lucrare. Vogliono uno stipendio… ma non funziona così. Prima devi mettere i soldi e poi dopo viene… Tutto quello che vedi, anche su internet, lo faccio io, con l’aiuto di mio marito e di un’amica. Abbiamo imparato a essere un’équipe. Ognuno ha la propria area, ma deve tenere conto degli altri. Io faccio la direttrice dell’équipe. Un’associazione deve essere basata sul rispetto, si devono creare idee. Io me la cavo in tutto, grazie ai miei studi (laureata in Regia e Stilista). Tutti collaborano nelle nostre attività. Da noi le mamme mi aiutano a truccare... Siamo un’équipe! (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) Emerge la presenza di alcuni micro-circuiti consolidati e virtuosi tra enti pubblici e privati e l’esistenza di ricerche o sperimentazioni di eccellenza, che restano però troppo spesso esperienze parallele e non comunicanti, confinate al singolo progetto e alle persone che vi sono coinvolte: L’Associazione Donne In Rete è in contatto con enti pubblici e con altre associazioni che si occupano di altre aree di disagio, per esempio di carcere e salute mentale. […] Sul tema dei rifugiati politici c’è una collaborazione con la Prefettura tutelata e veicolata dalla Provincia. […] Stiamo facendo ancora un percorso con il Ministero degli Esteri e con altre istituzioni locali sulle

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donne e i conflitti, a partire dalla risoluzione 13/25 delle Nazioni Unite per donne provenienti da paesi con conflitti. Altro tema attuale, che attira curiosità e repulsione, è quello delle mutilazioni genitali. Noi collaboriamo con il tavolo della Commissione nazionale della Camera Affari Sociali e Giustizia nella preparazione della legge contro le mutilazioni genitali femminili. Siamo la prima associazione che ha presentato un progetto pilota alla Regione Lombardia all’Assessorato Sanità su questo tema. Con l’expo 2015 si è aperta un’altra area: come il migrante può fare da ponte tra la cultura di origine e quella italiana? […]. Stiamo progettando una mostra di arte contemporanea Africana gemellando l’accademia di Brera con l’accademia di belle arti del continente con curatori italiani e africani. Con patronati delle varie istituzioni locali, nazionali e internazionali, coinvolgendo anche le first ladies delle varie accademie con cui collaboriamo. Non solo la risoluzione dei problemi, ma anche veicolare la cultura africana che ha in sé ottimi semi da far crescere. (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace) L’Ufficio Stranieri si avvale molto del privato. Le risorse vengono spesso date in appalto, in gestione ad associazioni o cooperative private, con varie formule di collaborazione. […] Non siamo assolutamente isolati, ci sono già diversi percorsi di collaborazione. Siamo in contatto con le risorse del privato sociale che si occupano di procedure relative ai permessi di soggiorno, o di ricongiungimento familiare, per esempio. Ora stiamo cercando di creare una rete con le risorse esistenti […] e stiamo terminando il monitoraggio di tutte le associazioni e comunità straniere su Milano. (Carmen Marchetti – coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano) Fondamentalmente noi abbiamo continui contatti giornalieri con l’ufficio stranieri del Comune di Milano. Questo è proprio l’Ente istituzionale a cui facciamo riferimento. Questo è legato soprattutto al fatto che le persone che seguiamo hanno bisogno di avere un posto letto, cosa che non possiamo fare noi come associazione di volontariato. Quindi rimandiamo tutto all’ufficio stranieri dove ci sono persone molto competenti (assistenti sociali, avvocati, operatori/trici) che lavorano bene, il grosso limite è che non ci sono sufficienti posti letto che riescano a garantire una sistemazione per tutte le persone. […] Io comprendo che il Comune sia oberato da richieste, ma l’offerta resta insufficiente a coprire la domanda e, soprattutto, non c’è una volontà istituzionale. Se una persona è inserita nel sistema SPRA (sistema di protezione per rifugiati politici e richiedenti asilo) e dopo sei mesi ne esce senza aver imparato la lingua e senza avere un orientamento lavorativo […] vuol dire che c’è un problema a monte perché si presume che una persona in sei mesi debba aver avuto gli strumenti necessari all’integrazione. Se l’integrazione non è riuscita, si avrà un soggetto fragile che non riuscirà a integrarsi e circolerà per cercare dei cuscinetti a cui appoggiarsi. E sarà sempre così. Invece, un buon sistema di integrazione è quello che fa sì che una persona diventi autonoma il più presto possibile. (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) Si evidenzia quindi l’esigenza di creare una banca dati dei servizi e delle associazioni esistenti sul territorio che sia consultabile direttamente e liberamente, e di moltiplicare le occasione di scambio e messa in rete delle esperienze esistenti anche per conoscersi, incontrarsi fisicamente, scambiarsi opinioni, consigli e punti di vista.

Abbiamo poi chiesto di indicarci quali sono le principali domande ed esigenze esistenti

da parte delle donne straniere, se si differenzino a seconda dei Paesi di provenienza e quali siano i maggiori ostacoli all’utilizzo dei servizi sul territorio da parte loro, se di natura materiale e/o culturale.

Il “percorso a ostacoli” per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno e la paura di perderlo, che accomunano indistintamente ogni migrante, costituiscono una prima e fondamentale barriera che inibisce spesso ogni ulteriore forma di dialogo, sia per le lungaggini e la

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disorganizzazione della procedura burocratica, sia per il trattamento riservato dagli operatori addetti al contatto con il pubblico: […] c’è la disorganizzazione burocratica. È incivile e anticostituzionale che uno straniero debba attendere un anno per avere il permesso di soggiorno! Significa che se scade la patente non può rinnovarla, la tessera sanitaria non può essere rinnovata, non si può viaggiare. E ora che te lo danno è già scaduto! Questo riguarda i diritti civili e umani. Non ha senso che queste cose siano seguite dalla prefettura e della questura che non comunicano tra loro e non conoscono la legislazione specifica. Sbagliano, danno consigli imprecisi […] disinformano. In altri paesi europei (Spagna e Francia per esempio) quando sta per scadere il permesso è il comune in cui lo straniero risiede che manda una lettera e dà un appuntamento, come per rinnovare la carta d’identità. Il permesso di soggiorno richiede una giornata massimo. Lo straniero si presenta con la documentazione richiesta inviatagli a casa e il giorno stesso ce l’ha. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Il sistema burocratico è folle […]. Si dice che entro 8 giorni si deve andare in Questura, ma molte informazioni non vengono date. Allora una persona si trova in una città come Milano in cui gli uffici della Questura sono tanti e non è facile capire quali sono le competenze, la modalità di accesso. Adesso in tanti uffici si accede solo per via telematica. Si pretende dal cittadino immigrato appena arrivato, che magari non sa la lingua e non conosce niente di stabilire un appuntamento entro otto giorni per via telematica. Per alcuni può essere un vantaggio, ma per altri no. Anche per chi sa usare il computer se i moduli on line sono, come succede, solo in lingua italiana. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) […] c’è una barriera psicologica che è veramente devastante e che nessuno prende in considerazione. L’essere accolta da un poliziotto nervoso senza aver fatto un piffero di niente […] è veramente mortificante. Questuare un tuo dovere! Neanche un tuo diritto…ha un qualcosa di raccapricciante. Io non devo abbassare la testa perché devo andare a fare un permesso di soggiorno che mi mette in una situazione di legalità. È un dovere, un obbligo per stare in questo paese. Devo adempiere al mio dovere, non vedo perché mi devono mettere anche i piedi in testa. La cosa peggiore è quando lo devi fare davanti ai tuoi figli che ti vedono veramente in ginocchio. È umiliante. Io devo adempiere a un dovere e lo devo fare anche in ginocchio! Questo è un aspetto centrale che mai nessuno tocca. (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace) […] vedo la realtà sulla mia stessa pelle: manca molta pazienza. Soprattutto nei servizi sociali (ospedali, uffici dove si fanno i documenti) bisogna mettere persone che amano il contatto con la gente. Non voglio generalizzare, ma a me sono capitate persone con un caratteraccio. Manca l’educazione, trattano male persino gli italiani. Manca questa sensibilità. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) D’altra parte, a rendere difficoltosa la comunicazione sono anche alcuni comportamenti scorretti da parte dei migranti, a volte in termini di resistenze e di mancanza di investimento sul paese di accoglienza, a volte proprio per disonestà deliberata: È una cosa incredibile, però noi quando arriviamo qua abbiamo problemi con i nostri stessi connazionali perché la gente vuole approfittare delle persone che arrivano per guadagnarci dei soldi. Dentro ogni comunità c’è sempre un furbo che approfitta dell’ ignoranza di chi è appena arrivato. A me hanno detto un sacco di cose false: che non si può fare il codice fiscale, che costava un sacco di soldi…Bisogna stare attenti! (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere)

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[C’è anche] la cattiva volontà dei migranti: chi è qui per un soggiorno breve che pensa di stare qui per poco e tornare nel suo paese e del resto non si interessa. Questa forma non è fattibile perché si hanno tante esigenze, si pensa al ricongiungimento, alla casa, alla scuola… e si combatte contro questa integrazione voluta e cercata e non voluta e non cercata da chi pensa che tornerà nel paese di origine e così risolve tutto. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Esistono poi esigenze più specificamente femminili, come quelle legate alle pratiche per i ricongiungimenti familiari, l’inserimento scolastico dei figli, l’assistenza ginecologica o l’aiuto in casi di violenze. Resta in generale vero che quello italiano appare un contesto maschilista, specialmente per quanto riguarda la divisione del lavoro di cura e il trattamento delle donne nel mercato del lavoro, tanto per le straniere che per le italiane: Per le donne c’è ancora tanto maschilismo, qui in Italia come fuori. Nel mercato del lavoro c’è discriminazione per le donne, c’è ancora molto maschilismo: “un attimo, dopo parli tu”. Non ci sono stimoli per le donne, anche per quelle che hanno studiato, come per esempio le russe. Forse, dopo tanto tempo, quando vedono che sei valida…Però non è giusto. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) L’Italia è un paese arretrato rispetto all’Europa. Ancora oggi le donne scelgono percorsi umanistici perché, come diceva Simone de Beauvoire, noi siamo socializzate a questo: ci sono più maestre che maestri, più infermiere che infermieri, più badanti donne che uomini, la cura della casa e dei figli e degli anziani è delle donne e non degli uomini. Se vuoi fare un figlio devi comunque scontrarti col fatto che non avrai un asilo nido, o è privato e costa tanto. Se riesci ad avere quello pubblico apre in orari in cui o sei al lavoro o porti il figlio a scuola. […]. È un dramma! In altri paesi non è così. Gli asili nido restano aperti fino a tardi, le donne si auto organizzano, hanno sovvenzionamenti per restare a casa a crescere i figli. Qui pochi uomini richiedono il congedo di paternità perché lo stipendio dell’uomo è più forte di quello della donna e allora è da pazzi in un paese come questo in cui fatichi ad arrivare a fine mese che l’uomo rimanga a casa mentre tu che hai un contratto precario e guadagni 800 euro vai a lavorare e non puoi nemmeno pagare l’affitto e le bollette. (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) Come sottolinea una delle intervistate, non sempre è utile cercare di identificare problemi specifici per genere o area di provenienza: i problemi sono fondamentalmente gli stessi per tutte e tutti, a fare differenza sono gli ostacoli e le risorse specifici di ciascuna/o: Le domande che pongono ai servizi sono trasversali. È ovvio che se si vanno a vedere i dati specifici ci possono essere delle differenze, però credo che le domande principali siano ottenere il permesso di soggiorno e mantenerlo, ricongiungimento familiare, corsi di lingua per chi è appena arrivato, tutela e chiarezza per quello che riguarda le condizioni di lavoro…Non sono molto legate alla provenienza. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) Se le esigenze di uno studente sono “x”, le esigenze di uno studente straniero saranno “x + y”, non sono qualcosa di diverso. Le esigenze sono quelle di tutti più un “fattore delta”. I bisogni sono gli stessi, sono i bisogni della città. […] Non ci sono bisogni specifici. Nel bisogno siamo tutti uguali. È in quello che possiamo dare che siamo diversi; poi ci sono problemi di comunicazione specifici. (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano)

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Un grosso problema è, appunto, quello della mancanza di una comunicazione chiara sui servizi offerti sul territorio agli stranieri e di occasioni di ascolto delle loro esigenze da parte delle istituzioni e, in più in generale, della città, dove spesso vige un clima di sospetto e criminalizzazione dei soggetti migranti: Uno straniero ha il diritto/dovere di accedere ai servizi senza avere mediazioni. Bisogna incentivare corsi di italiano decentrati e diversificati sul territorio. Corsi mirati. Ascoltare veramente le loro esigenze, ascoltando si riescono a migliorare i servizi. Non mancano i servizi in sé, ma non c’è comunicazione non sono sponsorizzati. Spesso gli stranieri non capiscono cosa le istituzioni offrano loro. Non lo capiscono nemmeno gli italiani! C’è un buco nero sulla comunicazione di quello che la città offre. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Con tutto il rispetto sento delle cose mai sentite in questo paese. Io capisco la paura, però quello che non funziona non si combatte con la paura. La gente non ride, nemmeno sorride. Non c’è leggerezza, comunicazione. Solo al computer funziona e dopo, di persona, non sanno che dire… Si è persa la comunicazione. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) Gli ostacoli alla comunicazione non sono solamente quelli materiali delle barriere linguistiche, ma anche, e in alcuni casi soprattutto, quelli culturali che rendono difficoltosa la comprensione e la decodificazione delle offerte esistenti. Molte donne immigrate non si rivolgono ai servizi pubblici e privati proprio perché, in molti casi, non hanno idea né della loro esistenza né della possibilità che siano rivolti anche a loro: C’è un’assenza totale di comunicazione […]. Non c’è un messaggio, un mittente e un destinatario. In realtà ci sono tutti e tre, ma ci sono faglie a tutti i livelli. Poni i servizi per le donne migranti. Il problema non è solo la lingua diversa, che pure conta. C’è proprio una distanza culturale. Se nei paesi di origine non esistono questo tipo di servizi, [una donna] non si sognerà nemmeno di cercarli. […] Bisogna identificare i problemi e dire che qui non è male essere madri single, divorziate, ecc…che si può chiedere assistenza. In Tunisia per esempio ci sono i diritti, ma non i servizi. Ci sono 50.000 associazioni in Tunisia, ma pochissime sono realmente attive. c’è solo il servizio sanitario: se ti ammali vai in ospedale, basta. Non ci sono servizi per le donne, per gli anziani…se ne occupa la famiglia, la famiglia allargata. Arrivata qui, una donna non si sognerà mai di andare a bussare da uno straniero a chiedere aiuto. Non è perché non può, è che non sa come. […] La città offre un mondo intero (conferenze, incontri, servizi) e la gente non ci va…perché? Primo, perché non lo sanno e secondo perché non sanno che è per loro. Credono che non ci sia posto per loro […] bisogna aprire dei punti di incontro dove non si sentano giudicati o esclusi. Dire: voi avete diritto, siete dentro. Bisogna insegnare come a un bambino ad appartenere a una società. Cosa si fa con i bambini per dare senso di appartenenza? (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) Quello che mi viene in mente è migliorare le politiche di accoglienza e essere più chiari nelle possibilità che offre il territorio. La chiarezza delle informazioni, la spiegazione degli interventi e degli accessi possibili. Il problema per la mia esperienza è che le persone sono digiune, povere di informazione. Nel momento in cui tu sei povero di informazione, non sai dove ti devi rivolgere. Non sai che hai diritto all’assistenza sanitaria, per esempio, perché nessuno te l’ha detto. Nessuno ti spiega come devi fare e ti accompagna per diventare un soggetto autonomo. Il problema delle persone che vediamo, che poi in assoluto sono le più fragili (alcune sono analfabete, alcune non parlano la lingua…), è che non hanno necessari percorsi di accompagnamento verso l’autonomia e quindi verso l’uscita dall’esclusione. Se tu non sai come devi fare come devi per farti serve il codice fiscale o la tessera sanitaria. E non sai a che cosa serve il codice fiscale o la tessera sanitaria in questo paese. Se tu non sai cosa sono questi strumenti, difficilmente potrai diventare padrone di

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te stesso in un sistema che è completamente diverso da quello di appartenenza. E già tutto quello che vedi è shockante. Si tende a dare per scontato che le persone debbano capire come funziona. Ti faccio un esempio molto banale: una persona non è mai entrata in un bar perché non sa che cosa vuol dire andare a fare lo scontrino per prendere una brioche. I primi tempi sono duri, crudi. Loro non lo sanno, perché nessuno glielo spiega, perché nessuno li accompagna. In alcuni discorsi che abbiamo fatto con loro sulle cose che si aspettano, c’è stata la risposta bellissima di un ragazzo che ha detto: “Non si possono fare dei corsi sulla cultura italiana in cui voi ci spiegate come si vive in questo paese? Come si parla con la gente, come si esce… Come si fa ad approcciare una ragazza?” (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) C’è poi proprio una difficoltà pratica nella comunicazione dovuti, banalmente, al fatto che non si sa dove andare e come incontrarsi: C’è mancanza di informazione [anche] da parte nostra. Forse il tempo… Qua è un caos, soprattutto nelle città grosse come Milano e Roma dove si lavora e si fa tutto in fretta. Manca informazione, una specie di pubblicità mediatica. Non televisiva, più volantinaggio. La tv non si guarda perché non c’è tempo. Io per esempio non la guardo. Ci sono molti che lavorano dalla mattina alla sera, tornano la sera stanchi […]. Penso che si debba fare un altro tipo di pubblicità. Bisogna andare dove la gente c’è. Alle ambasciate vanno tutti e poi centri sportivi, supermercati. Oppure, andando al cuore del problema, all’uscita delle discoteche: lì non manca mai nessuno! (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) Da parte loro le operatrici dei servizi italiani confermano le difficoltà nel contattare e rintracciare le donne straniere, specialmente quelle con lingue e culture più distanti dalla nostra, e di far capire loro che hanno la possibilità e il diritto di rivolgersi ai servizi pubblici e del privato sociale: Probabilmente gli ostacoli sono soprattutto di tipo culturale. Devono sapere soprattutto che hanno dei diritti […]. Poi quando conoscono i servizi, molto dipende dal loro contesto familiare, quanta autonomia di movimento hanno. […] Per avere le straniere abbiamo scoperto che devi proprio invitarle. Noi abbiamo sperimentato un corso specifico per l’avvio di attività imprenditoriale per donne straniere l’anno scorso che ha avuto un ottimo successo, tanto che ci è stato chiesto di ripeterlo. Il problema con le donne straniere è che non tutte sono facilmente raggiungibili. Noi pubblicizziamo via mailing list un mese prima e registriamo le iscritte. Le straniere tendono a iscriversi all’ultimo, mentre noi dobbiamo prenotare le aule prima e definire il numero delle corsiste. […] Le sudamericane arrivano anche da sole a contattare il servizio, le altre si fa più fatica a raggiungerle. Io quelle che ho avuto in aula a corsi o incontri a tema sono arrivate tramite servizi o grazie ai volantini che distribuiamo in enti, associazioni, Caritas, centri d’ascolto, ecc. […] Quest’anno abbiamo avuto l’invio da parte di molti assistenti sociali a cui noi inviamo il nostro volantino informativo. Sono arrivate molte signore alla ricerca di lavoro […]. Le utenti straniere sono aumentate leggermente dall’anno scorso, ma noi non siamo ancora in contatto con tutte le associazioni esistenti per poter far conoscere i nostri servizi e poter aiutare loro a inserirsi in maniera efficace sul territorio. […] Perché per loro la cosa fondamentale è conoscere, poi sono bravissime a organizzarsi. Ho visto che in molti casi non sanno che ci sono dei servizi per loro, o anche che spesso, se sono senza permesso di soggiorno, non sanno di avere accesso al servizio sanitario gratuito, soprattutto se in gravidanza. E allora basta indicare loro a chi rivolgersi, e loro si sanno anche muovere molto bene in autonomia. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano) Per il servizio telefonico, negli ultimi anni, c’é molto dall’est Europa, Albania, Romania… sicuramente ha inciso anche la presenza delle mediatrici provenienti da questi paesi, il servizio

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copre cinque giorni alla settimana, ogni giorno una lingua diversa. È impossibile accontentare tutte le esigenze, allora si sono fatte delle scelte, tenendo presenti anche le lingue veicolari che i mediatori conoscono. Tutti i nostri operatori sono mediatori culturali immigrati. […] Negli sportelli invece si è cercato di fare il contrario: analizzando i dati esistenti dei cittadini stranieri residenti a Milano (sugli irregolari non ce ne sono) si è cercato di andare incontro alle esigenze del territorio. Io per esempio lavoro molto nella zona a est di Milano perché c’è una provenienza forte di immigrazione albanese. […]. Anche perché essendo servizi finanziati dai Comuni o dai piani di zona, c’è l’interesse che risponda alle esigenze dell’utenza esistente a livello locale. E funziona abbastanza bene. Il servizio telefonico funziona con il passaparola o con internet. Tieni presente che sono dei servizi a progetto: ci sono dei momenti finanziati e dei momenti vuoti. Normalmente quando inizia un progetto si investe tanto sulla pubblicizzazione, poi si cerca di mantenere l’informazione come possibile. Per esempio funzionano molto bene i giornali delle comunità. Funziona molto bene il fatto che tanti dei nostri operatori lavorano anche in altri servizi (Comuni, ospedali, consultori familiari). Piuttosto che quando lavoravamo in questura, dove c’è un accesso molto forte, abbiamo pubblicizzato sia tramite il passaparola, sia ragionando un po’ dove c’è una forte presenza di immigrati. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) Le donne africane di cultura islamica qui da noi sono l’1,8%. Non vengono e non riusciamo a trovare il contatto. Abbiamo provato ad andare a parlare con loro, ma c’è molta diffidenza soprattutto per quanto riguarda la cultura legata al corpo, soprattutto genitale e ancora di più rispetto alla psicologia, nel senso che andare dallo psicologo per loro, come del resto per molti italiani, è ancora un problema, un tabù: non c’è l’idea che si possa stare male di testa,d’animo, si sta male di corpo e non di psiche, non so perché […]. Una volta siamo andate in V.le Jenner a provare a volantinare, ma è stato problematico perché il maschile ci ha allontanate, abbiamo volantinato anche in Bovisa soprattutto nei mercati e devo dire che quando abbiamo dato i volantini tradotti in arabo all’inizio erano un po’ stranite, poi il fatto stesso di vedere che il volantino fosse scritto in arabo le spingeva a prenderlo. Noi non dicevamo mai che si trattava di ginecologia, dicevamo che era un centro per la salute delle donne e allora lo prendevano. Però, ecco, il ritorno è stato nullo. Poi abbiamo contattato la comunità Marocchina, ma niente. Per contattare e donne nord africane siamo andate anche nei money transfert center e abbiamo lasciato dei volantini, ma purtroppo anche in questi luoghi ci sono sempre gli uomini come responsabili e gestori e non si riesce ad avere un contatto diretto con le donne. […]. Mentre per le donne cinesi le nostre mediatrici fanno un grande lavoro. Su loro consiglio abbiamo raccontato del nostro centro sui loro giornali, lo abbiamo fatto anche per i giornali della comunità filippina e moltissime donne hanno contatto il nostro centro. […] Diciamo che la differenza culturale è più pesante dove la religione è più pressante, invadente; la religione musulmana è una religione molto pressante, maschilista, cioè è impossibile riuscire a bypassare il maschio per contattare la donna su questioni legate alla sfera del corpo, mentre nella cultura filippina, essendo in parte legata alla religione cristiana e quindi più simile alla nostra, riesci più facilmente a contattare le donne, a parte che c’è l’associazione “FilWomen” che fa un lavoro con le mediatrici stupendo. Quindi le migliori in assoluto con cui abbiamo un contatto sono le filippine, dopodiché vengono le sud americane, e anche qui è una questione culturale nel senso che la cultura è quella cattolico-cristiana e soprattutto anche la lingua aiuta, poi le cinesi […]. Noi abbiamo tutti i volantini in diverse le lingue in modo tale che le donne possano essere autonome nell’interpretare il testo pubblicitario- informativo del nostro centro e poi ti devo confessare che molte donne si sono messe in contatto con noi grazie il passaparola, anche questo è un mezzo di comunicazione da tenere sempre presente perché funziona. […] (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere) La testimonianza di Patricia chiarisce meglio l’entità della resistenza delle donne straniere ad affidarsi al sistema sanitario italiano, e il bisogno che invece ci sarebbe di una maggiore

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conoscenza dei servizi pubblici e privati offerti dal territorio, specialmente per le giovani donne migranti: Sono sincera, io conosco molte persone. In questo momento la gente va solo quando sta morendo al centro per la salute. Si sentono notizie e quando si va all’ospedale non si ha un buon servizio. Allora preferisci stare a casa e morire in casa. Io stessa sto aspettando di tornare alla fine dell’anno al mio paese a farmi vedere tutto. Preferisco stare a casa stando male e non andare all’ospedale. Quando vado all’ospedale sto ore e ore, che mi fa male davvero… perché a me non piace fare teatro, perché tanti mi dicono di piangere e urlare per fare prima… ma io non ci riesco. Anche se a volte mi viene sul serio da piangere per il dolore. Non c’è umanità. L’anno scorso ero piena di cisti all’utero e qua mi hanno detto che non avevo nulla. Mentre nel mio paese mi hanno curata. L’altro giorno sono stata malissimo tanto che non riuscivo a camminare… ho chiamato l’ambulanza e quello dell’ambulanza mi ha detto: “Non ha niente signora, si tiri su…” Non sono l’unica: nessuno vuole andare all’ospedale, inclusa me. E anche nel privato mi hanno fatto un male pazzesco visitandomi e non hanno risolto nulla. […] Le giovani soprattutto sono disinformate sulle malattie a trasmissione sessuale [e la prevenzione delle gravidanze]. Sanno solo che devono prendere la pillola del giorno dopo, ma non sanno che cosa causa quella pillola. Quando una ragazzina di 16 anni ha i genitori che lavorano 8 ore, quando possono avere il tempo di educarla? Loro pensano che a 20 anni sono vecchie per avere figli! È una mentalità atroce. Loro non sanno niente. Vogliono lasciare la scuola per andare a lavorare e stare insieme a qualcuno… senza sapere che il mondo è un altro. Poi non è che stanno insieme tutta la vita. Ogni anno cambiano compagno, e ogni anno è un figlio diverso. Pensano che quello che verrà dopo sarà meglio, che hanno sbagliato con quello precedente. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) A fare maggiormente da ostacolo alla creazione di un dialogo interculturale e di un linguaggio comune è in definitiva la mancanza di occasioni di ascolto attivo e di incontro su basi paritetiche che permettano di superare barriere e stereotipi incrociati che si tende a proiettarsi addosso: Non bisogna “parlare per”, ma “dare voce”. Lasciare spazio all’ascolto. Non si deve cedere alle proprie rappresentazioni che si hanno sull’altro/a. Il bagaglio con il quale un immigrato arriva in Italia è diverso. Voi avete una storia di libertà, mentre spesso nei paesi da cui proveniamo non esiste la libertà di espressione. Non puoi guardarmi solo con i tuoi occhi! […] Non puoi guardare da fuori e dire poi di cosa abbiamo bisogno. […] In Italia il problema migranti si è posto dopo l’11 settembre a cui è seguita tutta la strumentalizzazione della migrazione per sfruttare la paura e il terrore. Io quando sono arrivata nel 1998 non mi sentivo un’immigrata. Dopo l’11 settembre ho visto cambiare le cose nella mia vita quotidiana. Io non ho personalmente problemi di discriminazione, ma vedo che le persone hanno bisogno di classificare […]. Anche lo stereotipo può essere positivo, ma è il pregiudizio, è l’evoluzione di quello stereotipo, che non va per niente bene, da una parte e dall’altra. Perché anche noi abbiamo degli stereotipi. Noi arriviamo da una storia giovanissima di colonizzazione. Questo l’Italia non lo sa. Non si percepisce come paese ex colonizzatore. Ma per noi gli europei sono tutti ex colonizzatori! Non sono più pregiudizi, sono parte di te. Sono sentimenti intrinseci di inferiorità. Anche nella gente più colta. È incredibile. Arrivi con l’idea di essere inferiore, poi ti ritrovi a non esserlo, e allora diventi supponente e superba. C’è chi invece sviluppa odio, rifiuto, pensa: “chi ti credi di essere?”. Gli italiani questa cosa non la percepiscono. E allora non le vanno nemmeno a cercare. (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) Emerge qui l’esigenza di creare una rete tra donne italiane e straniere che rovesci la prospettiva e, prima di proporre un intervento, provi a creare un processo partecipativo che veda l’interazione di diversi soggetti, coinvolgendoli ex-ante nella progettazione e poi nella

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co-gestione delle iniziative, in modo che ci possa essere una verifica in itinere a seconda delle esigenze che emergono via via e, possibilmente, un miglior esito di ciò che si va a realizzare, piuttosto che spendere risorse per iniziative poco partecipate.

Per sviluppare un empowerment femminile diffuso e favorire la creazione di reti sociali tra donne italiane e straniere le nostre intervistate ci hanno fornito molti suggerimenti e esempi concreti per creare occasioni e modalità di incontro e scambio: Negli ultimi corsi e incontri che abbiamo tenuto, le donne straniere ci hanno proprio chiesto di farlo insieme alle italiane, per avere uno scambio di idee. […] Nella parte delle domande c’è spazio per un confronto, un aiuto e uno scambio di informazioni tra chi ha già esperienze. Spesso le donne che frequentano i nostri corsi rimangono poi in contatto tra di loro e quindi creano una piccola rete. E dove possibile mi tengono informata di quello che stanno facendo, mi scrivono, mi ricontattano. È importante che si crei una rete tra di loro, anche se magari diventa poi difficile incontrarsi regolarmente. Però poi si scrivono e si scambiano le informazioni […]. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano)

Bisognerebbe fare degli incontri su tematiche comuni. Parliamo insieme dell” “x”, scopriremo il “delta” in più. I problemi sono il lavoro, il rapporto con la famiglia (la donna nella famiglia, divorzi e separazioni, violenza). È da li che nasce tutto. Poi la salute del corpo. Le donne tutte partoriscono, però lì c’è il “delta”. Non sono cose complicate, ci sono delle differenze di cui tener conto. Non ci vorrebbe molto. Sarebbe bello pensarci, discuterne, avere delle idee. [Creare momenti di confronto] dove ognuna racconta la sua storia di vita. Con un’introduzione su come funzionano le cose in Italia. Non “il problema delle donne immigrate” […] ma parlare dei problemi che ci sono in generale, aprire il dialogo e poi chiedere quali sono i problemi e pensare insieme a delle possibili soluzioni. A partire dalle storie di vita, dagli aneddoti. Le persone sono interessate a questo […]. E poi magari bersi un the insieme. A latere di questi incontri si potrebbero creare momenti conviviali di scambio (cucina, vestiti, usi e costumi…). Secondo me questo permetterebbe di abbattere delle barriere. Ma questo le persone lo sanno già, anche le straniere lo sanno. […]. Bisognerebbe fare incontri, brevi cicli, in cui le persone si possono rincontrare. Incontri non troppo vicini ma nemmeno troppo lontani, tipo ogni due settimane. […] Bisognerebbe pensare a iniziative a lungo termine, a innescare un processo. Non fare le cose a spot. Percorsi pensati che si rendono disponibili a cambiare e rivedersi nel tempo, a creare interazione. (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) Esistono già alcune esperienze di reti di donne italiane e straniere e, in generale, la necessità di creare di momenti di incontro e confronto di idee e racconti di vita è riconosciuta come fondamentale da tutte; ci sono invece pareri diversi rispetto alla possibilità di creare un luogo fisico fisso: [Ci vogliono] momenti di incontro e scambio di esperienze, perché ci si rende conto che poi le difficoltà sono le stesse nell’affrontare il ruolo di madre, di donna che lavora, il ruolo nostro nell’attuale società. Se le “mie donne”, io le chiamo così, riuscissero ad avere questo confronto con le donne italiane, si renderebbero conto che non sono delle marziane, ma sono semplicemente delle donne. Non essendoci la conoscenza dell’altro, e essendoci anche tantissima timidezza da parte delle donne arabe… ti basta guardare fuori dalle scuole, il gruppo di donne arabe con il velo da un lato, e il gruppo di donne italiane da quest’altro lato. […] Ci vorrebbe un luogo, un centro di incontro. Ci vorrebbe un luogo fisico dove le donne si sentono tutelate. Nell’ente pubblico si sentono violate nel loro intimo. Si sentono scrutate dall’operatore che sta dall’altra parte e non sa niente di me, ma anche dal mediatore stesso, colui che conosce la mia tradizione ma che, se provo a parlare, magari mi giudica. Le donne hanno bisogno di un luogo dove si possano sentire libere e tranquille, non giudicate, per potersi aprire e per poter avere indicazioni per avere accesso ai servizi presenti sul territorio. […] Un altro servizio utile sarebbe che ci concedessero la possibilità di

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fare un osservatorio sulla donna che monitori il percorso dal momento in cui arriva e come si integra. Ho in mente un censimento a tappeto, un questionario per capire come sono arrivate (studio, ricongiungimento, matrimonio) e chiedendo cosa si aspettano dal loro nuovo territorio, dalla loro nuova città, e come la vivono e cosa pensano loro dei servizi che non ci sono nel loro paese. Noi offriamo ma non ascoltiamo mai le esigenze. Ascolto per produrre e migliorare i servizi e non clonare mille sportelli che nascono e muoiono. C’è l’interesse di vivere e capire quella molla che fa fare ad alcune donne alcune cose e ad altre no. C’è curiosità da parte delle donne arabe nei confronti delle donne sud americane, per esempio. O la voglia di confrontarsi con le donne filippine che mandano i figli a studiare in patria per capire cosa spinge una donna a rinunciare a stare con i suoi figli. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Secondo me non basta identificare un luogo fisico, ma bisogna starci dietro. Perché anche la modalità di accesso e gli orari sono molto diversi. C’è un mondo da scoprire e bisogna investire abbastanza come tempo e pazienza per identificare modalità di accesso e di frequenza. Ma anche per valutare quello che si offre. Ci sono già esperienze […] a Cologno Monzese c’era un esperienza di questo tipo di donne italiane e straniere. Non so come sia andata a finire. Ma se si riesce a mettere insieme donne straniere da cinque continenti, il fatto di inserire anche donne italiane non crea una difficoltà in più. Io credo che le esperienze miste compresa la popolazione autoctona siano sempre positive. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) Io vedo che hanno molte difficoltà a incontrarsi per ragioni pratiche. Risulta difficile. Pur avendo il luogo dove trovarsi, il problema è sempre quello della conciliazione tempi. Tra loro, donne della stessa etnia, si aiutano molto, [ma] tranne quelle che già fanno parte di associazioni che hanno l’abitudine di ritrovarsi alla sera è molto difficile che riescano a incontrarsi. Sono argomenti che ho sentito in aula da loro stesse. Io non saprei come riuscire. Sarebbe bello sentirle, sentire le loro esigenze di volta in volta. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano) C’è da un anno una sperimentazione molto interessante all’Ufficio stranieri del Comune di Milano: gruppi di auto-aiuto che sono si sono formati tra donne, a partire dal tema del ricongiungimento familiare. L’ufficio Stranieri ha organizzato delle riunioni pubbliche dalle 18 alle 20 per dare informazioni sul ricongiungimento familiare con un approccio multidisciplinare (psicologi, assistenti sociali, esponenti dell’associazionismo). Gli inviti sono stati fatti circolare in tutti i consolati in diverse lingue. Ci sono state 20/30 persone per serata. La maggior parte delle richieste era, all’inizio, di tipo procedurale, ma poi si riusciva sempre a inserire dei momenti di riflessione su cosa significa dal punto di vista pratico e psicologico l’arrivo di un figlio che non si vede magari da anni. Questo lavoro ha portato con il tempo alla richiesta da parte delle donne straniere di continuare a ritrovarsi. È stato allora organizzato un secondo gruppo, sempre con la presenza delle assistenti sociali italiane. La maggioranza sono donne del sud america. Ma non solo. Si è ragionato sulla cosa che le accomunava tutte: l’essere madri e avere i figli lontani. […] Ci sono state grandi feste ogni volta che si concludeva un ricongiungimento, c’è un forte sostegno del gruppo, indipendentemente dalle questioni politiche che ci sono nei loro paesi di provenienza. (Carmen Marchetti – coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano) Una cosa positiva che vedo è che c’è gente che vuole cambiare e aspira a un futuro migliore. Sono a contatto con tante donne italiane e straniere e tutte vogliono lo stesso. Io pensavo: perché non unirle? Io do lezioni gratuite a tante: di relazioni umane, amare se stesse, avere un po’ più di amor proprio. […] Tutte le donne del mondo in questo momento, non solo le straniere, tutte le donne del mondo sono chiamate a fare qualcosa. Perché siamo le donne di casa, sappiamo amministrare […]- [C’è bisogno di] momenti in cui ci si può raccontare. Per me è stato molto bello fare interviste, per raccontare come si è arrivati a svolgere delle attività, il lavoro arduo che c’è dietro a

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una sfilata. Mentre la gente pensa che lo facciamo solo perché siamo ricchi, ma non è così. Non c’è bisogno di avere milioni. Io ho cominciato con una macchina piccola che mi ha regalato mio marito quando eravamo fidanzati. Bisogna credere in quello che si fa, perché quando muoiono i sogni la persona muore. Bisogna mettercela tutta [… ]. Ci sono tante donne che non possono avverare i loro sogni per questioni economiche. Perché magari sono genitori e pensano prima ai figli, è ovvio. Questi incontri dovrebbero servire a unirsi, per fare delle cose più grandi. Sarebbe bellissimo. Anche per i progetti senza fini di lucro, se uno vede che si riesce a portarli avanti, allora ci crede, viene voglia. È importante credere nei sogni, avere fede in se stessi. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) La necessaria opera di accompagnamento all’integrazione non va allora intesa in senso di maternage o di vittimizzazione delle donne straniere ma, al contrario, in termini di empowerment e valorizzazione della libertà femminile. Dare visibilità alle eccellenze, fornire rappresentazioni positive, valorizzare le capacità e le potenzialità dei soggetti, coinvolgerli e responsabilizzarli direttamente possono tutte costituire ottime strategie:

Elementi qualificanti per la costruzione di una rete come l’incontro e la condivisione, lo scambio e la progettazione paritetica e partecipata […] sono strumenti e formule che io caldeggio e sposo. Manca però fondamentalmente una cosa: non si può continuare a trattare l’argomento, accogliere le persone senza poi lasciare spazio alla comunicazione. In Italia c’è un grosso problema di racial profiling: non si può parlare di migrazione e chiamare gli esperti che, guarda caso, sono sempre italiani. Su bollettino della Provincia, per esempio, perché non prevedere nel futuro […] di far scrivere le associazioni per farsi conoscere e far conoscere il loro punto di vista? Dopo il caso di Abdul noi siamo terrorizzati per i nostri figli/ie di seconda generazione… se dovessero fare una monellata verrebbero sprangati? Perché la televisione ci vuole solo analfabeti, che non parliamo italiano? Io parlo perfettamente italiano, come molti altri, potrei andare in tutte le serate televisive… non posso demandare la mia angoscia al solito cinese o africano che non sa spiccicare una parola. Non è così! I nostri figli non accettano più queste cose. Sono cittadini italiani. Parlano la lingua e vivono qui. Questo è il loro habitat e sono cittadini. Fateci parlare!!! Fateci vedere!!! Lasciamo emergere le differenze politiche e umane tra migranti. Che sia regolamentato in maniera democratica anche questo aspetto, altrimenti non si capisce più dove si sta andando e salta tutto. Una delle regolamentazioni che possono dare molto aiuto in questo è il voto amministrativo. […] I nostri figli e figlie sono arrabbiati. [Vorrei] che la loro possa essere una rabbia costruttiva: che possano essere giornalisti, industriali, annunciatori televisivi… Noi li stiamo preparando per questo, perché l’Europa ci sta dando questa possibilità di crescita. Bisogna dare visibilità pubblica in positivo, non solo in negativo! (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace) Un altro finanziamento che facciamo è al teatro San Calogero per serate a tema su vari paesi. C’è un’attrice che raccoglie materiale ogni volta su un Paese diverso che poi presenta dando visibilità ai suoi pregi e non agli aspetti problematici. Ci sono molti progetti. […]. Abbiamo fatto un bel lavoro con le donne romene che ha funzionato bene, con l’Assessorato alle Pari opportunità. La cooperativa che aveva gestito e accompagnato ha funzionato bene, con operatori/trici romeni. Il concetto era: diamo gli strumenti e formiamo gli stranieri perché diventino loro care-givers e diano aiuto ai loro connazionali. Con le cinesi non ha funzionato, con le romene sì. […] Sono stati fatti esperimenti che in parte hanno funzionato bene, in parte no. (Carmen Marchetti – coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano) La lingua è in assoluto il primo fattore di integrazione. Senza non vai da nessuna parte. Sei sempre un escluso e una persona che si brucia tante possibilità. Quindi potenziare l’insegnamento della lingua. Fare corsi di alfabetizzazione continua. E poi corsi di formazione professionale finalizzata all’orientamento. Le persone che noi incontriamo ce lo chiedono continuamente. Vengono fatti

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anche dei corsi di formazione, ma nel momento in cui il corso di formazione è fine a se stesso non ha tanto senso. E allargare le prospettive di questi corsi, non fare solo quelli per tornitore. I corsi di formazione sono finalizzati all’inserimento lavorativo là dove c’è l’offerta. Quindi le grandi aziende metalmeccaniche, siderurgia, carico scarico merci… Soprattutto lavori di basso profilo, non necessariamente in senso dispregiativo. Però implicitamente si va a sostenere che l’immigrato può essere manovalanza soltanto per quel tipo di professionalità. Il che non è vero. Noi vediamo persone pluridiplomate, molti hanno la laurea. Persone che facevano anche lavori di insegnamento, lavori di segreteria, alcuni erano anche politici. Sono persone che possono fare molto. Quindi valutare di più le loro capacità e potenzialità e indirizzare i corsi di formazione in relazione alle potenzialità di ciascuno. Empowerment ma anche valutazione del potenziale. Capire che cosa abbiamo, non considerarli tutti braccia. Questo crea un problema molto grave, che è quello della depressione. (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) Un’altra strategia utile è quella di incentivare la partecipazione femminile andando a contattare le donne là dove esse si trovano e facilitando loro la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro: Secondo me dei luoghi dove si potrebbe collaborare sono le scuole, oppure i consultori, i luoghi dell’associazionismo dove le donne si incontrano. Perché non è possibile andare a casa delle persone così. Si devono organizzare incontri, si chiede se qualcuno è disponibile a partecipare…nelle comunità in cui le donne lavorano meno, il contatto sono i figli: la scuola, gli educatori […]. Se arriva qualcosa da fuori senza avere una conoscenza, sembra un coinvolgimento un po’ imposto… tutti i comuni dovrebbero mandare lettere in lingua in cui invitano le famiglie interessate a rivolgersi ai servizi che ci sono. Bisogna trovare il modo di offrire dei servizi particolari per le donne straniere. Aiuto per i figli, per fargli fare i compiti, per la conciliazione visto che spesso lavorano e non hanno assistenza per la cura dei figli, sia per questioni economiche, sia per mancanza di abitudine ad affidarsi ad una babysitter. Viene più spontaneo chiedere un favore o organizzarsi tra amiche, parenti, conoscenti. Le banche del tempo possono fare molto, non solo nell’accompagnamento, ma anche per seguire i compiti, che spesso è un compito complicato se si hanno difficoltà linguistiche. Solo che le banche del tempo sono poco conosciute. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) La scuola è un punto fondamentale. Bisognerebbe coinvolgere di più i genitori stranieri a seguire i figli. Cosa che fanno benissimo le comunità sudamericana e filippina che sono molto presenti. […] La comunità arabofona no. Le donne hanno problemi di lingua e non gli viene concesso da parte degli uomini di seguire, gli uomini lavorano… e quindi questi figli vengono un po’ lasciati a se stessi. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Gli spazi che funzionano per entrare in contatto con le donne migranti sono: A) le farmacie; B) i mercati rionali parlando direttamente con loro; C) mettere degli annunci sui loro giornali e andare alle loro feste; D) la mediatrice: andare per le strade con la mediatrice e presentarsi con lei, presentare insieme il centro. Ad esempio a Chinatown se ti vedono sola e occidentale sei trasparente, se con te c’è anche una mediatrice è più facile relazionarsi e poi, secondo me, è fondamentale creare una rete tra le varie associazioni. (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere) È poi importante poi creare setting formativi e occasioni di incontro in cui possa crearsi un’atmosfera di agio e fiducia, che possa facilitare l’apertura, il dialogo e lo scambio di esperienze:

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È importante il clima che si crea per poter raccontare la propria esperienza. Far sì che chi ha bisogno di parlare lo faccia tranquillamente. […] La capacità sta alla persona che gestisce il corso o l’incontro. Tant’è che noi insistiamo molto sui relatori. […] È fondamentale perché la persona si senta libera di parlare/non parlare, fare quello che si sente lei. […] Noi cerchiamo di fare un’attenta selezione precedente. Ecco anche perché ci muoviamo molto prima per creare un’aula omogenea, perché ci possa essere agio. Il relatore deve saper gestire l’aula. Il relatore ha un programma, ma il bravo relatore si sa adeguare a chi ha di fronte. È fondamentale la capacità di chi sta in aula di capire come passare le informazioni corrette. […] Le utenti devono poter partecipare in maniera attiva e segnalare tutto nel bene e nel male, per riuscire a capire cosa tenere e cosa migliorare. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano) L’obiettivo generale di favorire un migliore output delle politiche future e di ottimizzare l’utilizzo delle risorse esistenti si scontra in parte con quella che è una contraddizione intrinseca delle politiche di pari opportunità. La normativa europea vuole che si applichi il principio del mainstreaming di genere, secondo cui l’impatto di genere deve essere verificato in ogni politica, mantenendo contemporaneamente politiche mirate di azioni positive per le donne o comunque per il sesso sottorappresentato, che è spesso ancora quello femminile. L’effetto perverso e imprevisto dell’introduzione del principio di trasversalità della dimensione di genere è che produce un disincentivo all’uso delle “azioni positive” per le donne e una frammentarietà e non sistematicità dei risultati ottenuti. Appare dunque importante che, oltre a implementare un approccio trasversale, permangano anche azioni e misure mirate, rivolte specificamente alle donne, e alle donne straniere in particolare: In futuro però a Yoni non ci sarà più il centro della donna, dove le donne trovano un centro rivolto solo a loro, ma ci sarà un centro medico più grande e con un settore di ginecologia e non un consultorio con diverse competenze integrate (ginecologica, psicologica, legale). La specificità del femminile andrà a perdersi. (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere) Bisogna trovare il modo di offrire dei servizi particolari per le donne straniere (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) Non ci sono servizi specifici per le donne straniere […]. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) Fondamentale è infine, o forse principalmente, aprire spazi di interlocuzione e di ascolto che diano voce alle esperienze dei nuovi soggetti che abitano la polis e li coinvolgano nei processi di policy making che li riguardano direttamente come cittadini/e: Io sono un animale politico da quando ho iniziato a respirare. Non c’è nessuna azione se non viene da una riflessione politica sulla mutazione e il cambiamento di questa società. Fintanto che le porte della politica sono chiuse nell’ascoltare l’altro, ci sarà sempre uno scontro. [Quello a cui] noi siamo chiamati, almeno io la considero una mia missione, é di bussare quelle porte. Credo che si possa creare una rete di confronto delle donne istituzionali e politiche, di origine europea e non europea. […] Esistono sia in Italia che in Europa esempi di eccellenza e best practices, politicamente parlando. Mettiamole insieme attorno a un tavolo e vediamo che percorso fare. […]. La politica deve aprirsi nel confrontarsi con i diretti interessati. […] Non puoi fare una politica sulla confindustria senza sentire la confindustria, eccetera eccetera. È tutto così: ci sente. E allora perché con noi non ci sente? […] Il nodo è un nodo politico. Noi immigrati e immigrate dobbiamo essere capaci di parlare senza paura con chiunque: dal “rifondarolo” al leghista più puro. Io non ho nessun problema a confrontarmi, non ho fatto nulla di male! (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace)

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Come domanda conclusiva, abbiamo chiesto a tutte che cosa fosse per loro personalmente la libertà, come la definivano. E se nelle loro esperienze di vita e lavoro avessero identificato delle differenze nel modo di intendere e praticare l’idea di libertà nelle donne di diverse culture. L’idea di libertà ha molti significati, e questo si sa. Alcune delle nostre intervistate hanno teso a non identificare differenze sostanziali tra l’dea della libertà delle donne italiane e quella delle donne migranti, mentre altre hanno distinto nettamente i due piani. Libertà come poter essere soggetti di diritto: Sicuramente ci sono idee diverse. Ma io credo che la prima la libertà che una donna straniera vuole è di avere i suoi diritti di permanenza. Perché oggi va che aspetti più di un anno per avere il permesso di soggiorno. Più che diritti in più, far rispettare i diritti che esistono già sulla carta che le leggi prevedono. Per un ricongiungimento familiare con i figli si superano i due anni. Anche quando si hanno le condizioni per averlo. Penso che il primo problema per le donne è poter aver vicino la famiglia; il secondo è rispettare i diritti del lavoro, soprattutto per le persone che lavorano in famiglia. Le donne immigrate hanno spesso delle tipologie di lavoro dove è ancora più difficile far rispettare i diritti. Se lavori in una famiglia fissa è difficile farlo rispettare, anche se c’é. Le badanti lavorano spesso 7 giorni su 7, anche se la legge prevede un giorno e mezzo di riposo, danno due ore giornaliere. Prendere o lasciare. Lasciare e andare dove? L’idea di libertà [è] di avere i diritti che ci sono, dove ci sono. L’altro è avere una libertà libera dai pregiudizi, di uscire dagli stereotipi […]. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo) Libertà come responsabilità laica: Libertà per me è una grande responsabilità laica, avulsa da politica e religioni. È un diritto e dovere, è un diritto personale e un dovere perché non deve ledere la libertà altrui. Libertà è riuscire a dire anche le cose sgradite o contrapposte senza che alla tua persona, famiglia, comunità venga torto un capello. Naturalmente la libertà degli altri mi impone di usare un linguaggio corretto e di rispettare una consuetudine lessicale e quindi io sono, dalla mia libertà, obbligata a rispettare le libertà degli altri. Ci sono certamente grandi differenze nel modo di concepire la libertà. Ci sono vari tipi di libertà. Ci sono dittature, strumentalizzazioni politiche e religiose. Ci sono libertà non libere intese come sopravvivenza, quando per esempio quando ti metti il burka in Pakistan per non essere perseguitata. Da rifugiata politica ho un concetto di libertà molto legato alla libertà di espressione e dissenso. (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace) Libertà come partecipazione: È una domanda bellissima! Per quanto riguarda le persone che ho incontrato, che veramente sanno che cosa vuol dire privazione della libertà rispetto a noi, perché in molti casi se la sono vista privare per motivi che per noi sono scontati come manifestare le proprie opinioni politiche o le proprie tendenze, o le proprie idee in generale. Per loro la libertà è proprio poter dire quello che pensano liberamente, poter vivere in un contesto in cui non vieni represso per quello che sei e per quello che rappresenti. Poter essere se stessi senza per questo essere incriminati, torturati, giudicati. È una cosa fortissima. Loro si aspettano la libertà, lo dicono, la libertà e la democrazia. Quello che non hanno potuto avere né loro né le loro famiglie semplicemente perché pensano una cosa. Pensano che sia atroce. Per me, lo posso dire con le parole di Gaber perché lo sento veramente mio questo pensiero, per me libertà è partecipazione. Ci ho pensato molto in questi ultimi anni, io non riesco a sentirmi una donna libera se vedo, perché posso testimoniarlo, che ci sono persone che intorno a me non hanno i miei stessi diritti e sono persone come me. Partecipo

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affinché gli altri possano avere la mia stessa forma di libertà. […] Per questo motivo faccio volontariato perché la ritengo un’azione politica fortissima che nel quotidiano che ti fa avere dei piccoli successi, e ci sono delle lotte che anche se in piccolo contribuiscono a creare libertà per gli altri. (Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) Libertà come autonomia: Dare informazioni per essere autonome è un contributo alla libertà individuale […]. Per me la libertà è la libertà di poter dire quello che penso liberamente. Cioè io devo potermi esprimere, io sono fatta così. Punto. Quindi la libertà vuol dire tu mi accetti per quella che sono e io sono così. Poi mi posso adattare, come tutte noi. Però già la libertà di poter dire il proprio pensiero senza la paura di qualcuno che ti opprime. Già quella è la libertà. O, banalmente, la libertà di circolare per strada con o senza il cappello, senza o con gli occhiali… (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano) Libertà come espressione di sè: Libertà può avere moltissime sfumature. Innanzitutto io intendo poter parlare delle proprie esigenze e difficoltà. Di sentirsi libere di fare una visita ginecologica, che è importante per le donne. Di sentirsi libere di accompagnare i figli dai pediatri. Di sentirsi libere di ridere. Di sentirsi libere di cercare un corso di formazione per la cucina, per il cucito….Hanno tante esigenze le donne, ma tutte le donne in assoluto. E di confrontarsi tra di loro per rendersi conto che le esigenze sono uguali per tutte. Per le italiane, le cinesi, le arabe… (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) La libertà è essere se stessi. Penso che quando una persona trova dio dentro sia già libera. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) Libertà come scelta: Per me la libertà è poter fare tutto compatibilmente con la relazione con gli altri. È la possibilità prima di tutto di scegliere, sicuramente. Poi anche di agire o di vivere secondo le proprie aspettative, idee, i propri desideri, compatibilmente con il rispetto delle altre persone. Certo che è assolutamente diverso per le donne straniere, perché vengono spesso da paesi non democratici. Ci sono proprio concetti di libertà diversi in relazione alla religione, il ruolo della donne in quella religione e del contesto politico del paese di provenienza. Probabilmente, anzi senza probabilmente, una donna islamica si sente libera così. Io non sono così. Contrariamente a quello che per esempio penso io a come muoversi dentro una famiglia e a certi ruoli. Per me non è una persona libera, e per lei è libera e le va bene così. Si adegua, ognuno ha la propria scala di valori… (Carmen Marchetti – coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano) Per dire cosa la libertà non è, Ouejdane Mejri e Eleonora Dall’Ovo ci ricordano l’ambivalente problema sopra citato delle “preferenze adattive”: Libertà è questa la questione. Quanto ci si autocensura nella propria libertà perché si crede di non avere la libertà?[…] Posso dirti che le donne si autolimitano abbastanza, si autocensurano per corrispondere a dei modelli. C’è chi ancora non sa nemmeno di avere dei diritti, non sa nemmeno che esistano perché nel suo contesto tutti fanno così; poi c’è invece chi se le prende queste libertà, con gli alti e bassi di chi è libero. Nella strada e nella città tu vedi altri modi di essere, ma per avere la libertà devi avere senso di appartenenza, devi identificarti. Spesso e volentieri queste donne si trovano a guardare la città come se fosse la televisione. Vedono una realtà che non è

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loro. […] Spesso e volentieri queste persone non si danno nemmeno la possibilità di pensare di appartenere. Pensano “io sono di un altro mondo”. […] Se però inizi a rapportarti (con vicini, maestre, postini…), se cominci ad avere dei rapporti umani: è da lì che nascono le cose e cominciano a sciogliersi i pregiudizi: “ma lo sai che gli italiani non sono così cattivi?”, “Ma sai che gli italiani sono disponibili?”, “Ah, lo sai che non sono così razzisti?” (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) Noi abbiamo minorenni che ci chiedono di far loro la visita ginecologica e se possiamo metterle in contatto con i servizi sociali o ospedali per fare l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza). Noi diamo loro tutte le informazione e offriamo loro anche la possibilità di parlarne, di valutare un supporto psicologico, ma spesso non ne vogliono sapere niente. Ci sono donne battute a cui diamo informazioni su come reagire, diamo loro assistenza psicologica, diamo loro informazioni legali e non solo ma, anche per loro, spesso si è trattato di un solo incontro e poi sono sparite. C’e’ stata ad esempio una ragazza mussulmana che vive in Italia da quando aveva nove anni che non voleva sposare l’uomo che aveva scelto per lei la famiglia e voleva un certificato che dimostrasse che avesse subito violenza sessuale per farsi rifiutare dal futuro marito. Noi offriamo alle donne straniere un servizio legale gratuito, e molte non capiscono che hanno la possibilità di difendersi. Lei non è più venuta, non voleva assistenza legale, né un aiuto psicologico: “tu non capisci, io non posso deludere la mia famiglia. Io posso solo lavorare e andare via”. […]. Ho capito che per loro prima devi risolvere il problema pratico che hanno, poi in un secondo tempo mettere in rete tutte le professioniste del centro e far capire alle ragazze che sono degli individui e che hanno dei diritti. Alcune non sanno nemmeno che se già sono sposate nel loro paese di origine non possono risposarsi qui. Vivono come due vite scisse. (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere) Come per Fancy, quello che occorre è non solo poter avere accesso alle informazioni, ma anche iniziare a pensarsi e sentirsi parte della comunità politica e a entrare in relazione concreta con altre donne e uomini con esperienze e punti di vista differenti, con cui però si condivide l’appartenenza alla cittadinanza. Nel caso delle donne, e delle donne straniere in particolare, forme di consultazione e coinvolgimento pubblico risultano non solo coerenti con il principio fondamentale della tradizione democratica, ma anche strumento imprescindibile per la tutela della loro autonomia e dei loro interessi nei confronti delle loro comunità di appartenenza, laddove esse perpetuino forme di dominio domestico nei loro confronti.

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Appendice Le intervistate (in ordine alfabetico)

- Patricia Bermeo – Stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere – Cosmos International

- Gina Bruno – Operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) - Eleonora Dall’Ovo – Operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e

straniere - Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia - Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace (ADIR) –

sportello donne straniere - Marina Locatelli – Operatrice e formatrice dello “Spazio rosa” della Provincia di Milano - Carmen Marchetti – Coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di

Ouejdane Mejri – Presidente Associazione Tunisini a Milano - Almira Myzyri, – Mediatrice culturale – Telefono mondo – coop. Progetto Integrazione - Milano

Traccia delle interviste

1. Breve descrizione delle proprie attività ed esperienze. 2. Secondo lei, c’è sufficiente connessione e comunicazione tra le risorse esistenti sul

territorio? (singole donne, associazionismo, consulte e consigli dei migranti, esponenti di comunità locali, servizi pubblici e privati…)

3. Quali sono le principali domande ed esigenze esistenti da parte delle donne straniere?

Come si differenziano, a seconda dei Paesi di provenienza? 4. Quali sono i principali ostacoli all’utilizzo dei servizi sul territorio da parte delle donne

straniere? (barriere linguistiche e/o culturali?) 5. Per quello che ha potuto verificare, cosa fa maggiormente da ostacolo alla creazione di un

dialogo interculturale, di un linguaggio comune? (quali sono e come superare barriere, stereotipi incrociati e diffidenze reciproche?)

6. Secondo la sua esperienza, come si potrebbe sviluppare un empowerment femminile

diffuso e favorire la creazione di reti sociali tra donne italiane e straniere? 7. In quali modi concreti si potrebbe favorire un circuito per facilitare un migliore output,

ottimizzare l’utilizzo delle risorse esistenti e migliorare la progettazione di politiche future? 8. Come si differenzia la concezione della libertà per le donne di diverse culture? Libertà da

chi? (famiglia, istituzioni, chiese…) Libertà per cosa? Da chi ci si aspetta che cosa? Cosa ci si aspetta di dover fare/dare in cambio? Per lei come si declina l’idea di libertà?

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Brevi schede descrittive delle associazioni e delle istituzioni coinvolte Associazione Donne Arabe d’Italia (DARI) L’Associazione Donne Arabe d’Italia nasce dall’associazione madre Associazione delle Comunità delle Donne Marocchine in Italia, che si occupa prevalentemente di donne con difficoltà che subiscono violenze fisiche o psicologiche, sottrazione di figli, ricongiungimenti familiari, rimpatri e quant’altro. Il DARI (acronimo che in lingua araba significa “casa mia”) nasce a Milano per continuare a rispondere a queste esigenze. La nostra associazione si occupa di tutte le donne, non solo da quelle arabe, ma anche italiane, perché i soprusi sulle donne non hanno nazionalità. Attualmente siamo in attesa di una sede e diamo consulenze telefoniche con cui offriamo assistenza legale, supporto psicologico e informazioni sui paesi di origine (per ora solo per Marocco e Egitto). Ci contattano donne che chiedono assistenza su tutte le tematiche che riguardano materie di migrazione: rilascio permesso di soggiorno, ricongiungimenti, iscrizione dei figli a scuola, consulenze in casi di divorzio, mediazione per fissare visite presso i consultori. Per quanto riguarda le italiane diamo consulenze giurislavorativa e giuridica a donne in difficoltà con il lavoro, la maternità o in corso di separazione. Vengono anche molte ragazze di seconda generazione che non vogliono acconsentire ai matrimoni imposti loro dalle famiglie. Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace (ADIR) – Sportello donne straniere L’Associazione Donne in rete si è costituita formalmente nel 2002, ma era già operava sul territorio come operatrici dal 1999. Le socie fondatrici sono donne italiane e africane provenienti da più parti dell’Africa. Si tratta di un’Associazione senza scopo di lucro che si occupa principalmente di counseling alle donne immigrate, ivi comprese le etnie in cui si pratica la mutilazione genitale femminile, con l’aiuto di psicologi e mediatrici culturali esperti/e. Le nostre attività spaziano su tutte le problematiche legate a donne e migrazione, con particolare attenzione alle politiche di partecipazione attiva e pari opportunità. In questo senso ci occupiamo anche di famiglie e minori. In questo ufficio che è il Centro Internazionale della Donna dato in gestione all’Ass. Donne in rete, stiamo portando avanti un percorso di accompagnamento e di tutela delle donne e delle loro famiglie ponendo una particolare attenzione al tema della mutilazione genitale femminile, in particolare delle minori. Nel 2004 la Regione Lombardia (dgr n. 18856 del 30-09-2004) ha stipulato con ADIR una convenzione con l’obiettivo di monitorare e quantificare l’analisi delle nazionalità straniere sul territorio, le eventuali e possibili entità del rischio di mutilazione genitale femminile per le bambine appartenenti alle specifiche comunità nonché di costituire un programma specifico di monitoraggio della pratica di MGF nelle Aziende Sanitarie Locali. È stata effettuata una ricerca tramite web per quantificare l’entità del fenomeno i cui dati sono stati divulgati tramite opuscoli informativi in varie lingue rivolti alle comunità e agli operatori delle ASL. Lunedì e mercoledì ore 12-15 sportello per le mutilazioni genitali nell’ambito del Centro Internazionale delle Donne della Provincia di Milano – Via Pancrazi, 10 a Milano - tel 02/77404486 Associazione Tunisini a Milano L’Associazione delle Tunisini a Milano è un associazione mista con un’importante impronta culturale per il ravvicinamento mutuale tra il Sud ed il Nord del Mediterraneo e in un modo specifico tra la Tunisia e l’Italia. Questa giovane associazione fondata nel 2006 si muove nella realtà lombarda e in particolare in quella milanese per organizzare degli incontri, dibattiti e proiezioni di film e documentari per promuovere la conoscenza della cultura tunisina, impronta dall’identità arabo-mussulmana e mediterranea, in Italia e per la creazione di una cultura e politica della solidarietà e di educazione alle diversità. I temi trattati fino ad oggi negli incontri organizzati dall’associazione riguardano le problematiche delle donne tunisine in Italia e di quelle legate all’immagine e percezione delle donne arabe-mussulmane in Italia. Altre iniziative dell’associazione

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riguardano lo sviluppo di una azione informativa attraverso l’implementazione di un portale informativo (sito web, forum, comunità virtuale, newsletter…) indirizzato all’assistenza dei Tunisini in Italia, che si è concretizzato fino ad ora con la realizzazione di una “Guida allo studente tunisino nel nord Italia” in supporto al progetto migratorio dalla loro partenza dalla Tunisia fino e durante il loro soggiorno in Italia. Finalmente, l’associazione attraverso lo sviluppo di una rete di conoscenze tra enti, istituzioni e aziende vuole promuovere e favorire la cooperazione economico-sociale tra la Tunisia e l’Italia favorendo progetti di caratteri multipli inclusi i campi di ricerca scientifica, tecnologica, sociale ed artistica. Due progetti di cooperazione scientifica sono nati nel campo dell’e-health e dell’e-government tra università italiane e università e istituzioni in Tunisia. Cooperativa Progetto integrazione e servizio Telefono Mondo La cooperativa Progetto integrazione nasce nel 1991, riunendo un gruppo di operatori e ricercatori da anni impegnati sulle problematiche dell'immigrazione straniera. Da allora, conduciamo un'attività a vasto raggio, tesa a sperimentare metodologie di intervento innovative per favorire l'integrazione sociale e culturale degli immigrati e rifugiati, e a realizzare servizi in grado di rispondere alle esigenze conoscitive e operative di quel sempre più vasto pubblico a confronto con i cambiamenti sociali e culturali legati all'immigrazione. Progetto integrazione è divenuta nel tempo sempre più 'multiculturale'. Il nostro staff è formato da persone italiane e straniere con diverse competenze: ricercatori e ricercatrici, formatori e formatrici, esperti ed esperte sulle tematiche giuridiche e sociali dell’immigrazione, mediatori e mediatrici linguistico culturali con una formazione specifica in materia, provenienti da diverse aree geografiche del mondo (lavorano con noi persone di madrelingua albanese, arabo, ashanti, cinese, francese, ingala, inglese, portoghese, rumeno, serbo-croato, somalo, spagnolo, tagalog, tigrino, urdu, wolof; con la possibilità di altre lingue nel caso di specifiche necessità). Svolgiamo attività di informazione e consulenza sui temi dell’immigrazione, di formazione rivolta a operatori dei servizi e cittadini stranieri, di mediazione linguistico culturale e animazione interculturale, di ricerca sulla condizione migratoria e di sensibilizzazione sui temi dell’integrazione.Nel 1994 abbiamo dato vita a Telefono Mondo, il primo servizio nato in Italia che offre gratuitamente informazioni e consulenze telefoniche per gli immigrati e gli operatori dei servizi. Tutti gli immigrati che vivono in Italia, chiamando Telefono Mondo da qualsiasi città possono avere facilmente indicazioni, consigli e spiegazioni su come fare e a chi rivolgersi per tutti i problemi degli immigrati relativi a soggiorno, lavoro, diritti sociali, studio, cittadinanza, ricongiungimento familiare, asilo politico, e altro ancora. Telefono Mondo è una risorsa di pronta consulenza anche per operatori di servizi pubblici e del privato sociale, volontari di associazioni, datori di lavoro. Telefono Mondo numero verde gratuito 800.513.340 risponde tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle ore 14 alle ore 18. Rimane attivo il numero 02.66.98.20.30 per la consulenza agli operatori dei servizi, istituzioni ed enti del privato sociale, il martedì e il giovedì mattina. http://www.progettointegrazione.it; http://www.telefonomondo.it Patricia Bermeo – Cosmos International Patricia Bermeo,stilista, nasce a Santo Domingo De Los Colorados in Pichincha - Ecuador, da una famiglia di modeste condizioni economiche, in cui tutti devono rimboccarsi le maniche per il bene comune. Primogenita di tre figli, con la passione per il disegno e la moda ma con tutto il senso di responsabilità di chi è capace di mettere il dovere davanti ai propri sogni e al proprio vero talento. Conseguito il diploma, si iscrive alla facoltà di Economia e Commercio, con l'intento di premiare i sacrifici dei nonni ma ben presto capisce che il miglior modo per ripagare la propria famiglia è seguire la vera vena artistica, negli anni Patricia frequenta la scuola di recitazione dell'Attore Fabbian Danner che le consente di partecipare ai provini nel corso dei quali presenta i primi bozzetti dei propri disegni. Partecipa come attrice ad una Fiction che le assicura una borsa di studio All'Istituto Audio Visuales Cievis, in Buenos Aires - Argentina. Si scrive alla facoltà di regia all'Università di Buenos Aires dove si Laurea nel 1996. Terminati gli studi organizza Stage per Modelle, come Regista ed insegnante di passerella. Arriva anche la prima Sfilata con una collezione tutta sua. Rientrata in Ecuador nel 1996 fonda la sua scuola ed agenzia di moda in Quito, la

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"COSMOS INTERNATIONAL" dalla quale negli anni escono modelle di fama internazionale. Lavora come assistente di direzione e truccatrice ne film "Trailer 2" di produzione USA e Belga. Nel 2000 collabora come Stilista con Dail Chioi presso l'omonima azienda di moda Chioi's Parck. Le si presenta l'occasione di viaggiare in Italia, dove decide di rimanervi per sviluppare i suoi progetti. Patricia con le sue collezioni si ispira alle proprie radici, al multietnico e solare mondo dell'America Latina, confezionando abiti che richiamano soprattutto alla civiltà Incas, i suoi valori intramontabili costituiscono insieme al Sole che unitamente li rappresenta il faro guida della sua vita. http://patriciabermeo.com Naga e Naga-Har Il Naga è un'associazione di volontariato laica e apartitica che si è costituita a Milano nel 1987 allo scopo di promuovere solidarietà ed interventi socio- assistenziali in difesa dei diritti sanitari e legali di immigrati temporaneamente presenti, rifugiati politici e nomadi, senza alcuna discriminazione di razza, religione, partito. Il nostro ambulatorio con sede a Milano in via Zamenhof 7 ha dato assistenza medica di base e specialistica a più di 100.000 stranieri provenienti da tutti i continenti. L'utenza è di circa 80 persone al giorno. Si tratta soprattutto della fascia più debole dell'immigrazione: stranieri di recente arrivo con problemi sociali, economici, lavorativi, linguistici e di marginalità relazionale. L'impegno dei volontari del Naga, in questi ultimi anni, ha dato vita, oltre all'ambulatorio medico, a numerosi gruppi di lavoro, tra i quali medicina di strada per immigrati e nomadi, sostegno ai detenuti e alle vittime dello sfruttamento, servizi di etnopsichiatria, psicologia e farmacia, attività di ricerca e documentazione, servizi di consulenza legale, un centralino antiespulsioni, formazione di mediatori linguistico-culturali e di volontari. Nel 2001 il Naga ha aperto un Centro per richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura, luogo in cui vengono offerti servizi di orientamento, sostegno psicologico, consulenza legale oltre a corsi di italiano e informatica, recupero scolastico, e la possibilità di trascorrere alcune ore della giornata in un ambiente confortevole. È rivolto a migranti che vogliono chiedere asilo politico, richiedenti asilo politico e rifugiati riconosciuti. Una persona che per la prima volta arriva al centro riceve: prima accoglienza; colloquio per le prime informazioni e analisi dei bisogni; appuntamento (se opportuno) con medico, avvocato, psicologo, volontario anziano; consulenza legale (specifica su questioni che riguardano diritto d'asilo per rifugiati); orientamento verso i servizi disponibili a Milano (lavoro, casa, altri uffici che si occupano della problematica dei rifugiati); accompagnamento presso uffici (per le pratiche di richiesta d'asilo); corso di lingua italiana; laboratorio artistico aperto; assistenza all'utilizzo del computer. Il centro è aperto anche a tutti coloro (operatori sociali, studenti etc.) che sono interessati ad approfondire le tematiche riguardanti l'asilo politico (dal punto di vista giuridico, psicologico, sociale, politico). Il Centro Naga - Har per richiedenti asilo, rifugiati politici e vittime della tortura ha sede a Milano - Via Grigna 24 - tel./fax 023925466. Dal lunedì al venerdì 14.30 - 18.30. Corso di italiano il sabato alle 15. Laboratorio artistico la domenica alle 15. http://www.naga.it Spazio rosa della Provincia di Milano Lo Spazio rosa è un “luogo d’incontro” dedicato alle esigenze specifiche delle donne in ambito lavorativo, situato presso il Job Caffè, con cui collabora per alcune iniziative. Il servizio è nato con l’obiettivo di offrire interventi che tenessero conto sia delle esigenze personali, sia degli elementi di contesto familiare, culturale e sociale che costituiscono lo scenario complesso della condizione femminile. È un fatto che il lavoro di cura familiare ricade per la maggior parte sulle donne. La scarsità di strumenti di conciliazione (flessibilità d’orario, banche dei tempi, part-time, telelavoro, condivisione dei carichi con il partner) comporta difficoltà nell’ingresso o nel reingresso nel mondo del lavoro, minori possibilità di carriera, un diverso riconoscimento economico. Persistono inoltre pratiche discriminatorie come il mobbing e le molestie sessuali. L’attività dello Spazio Rosa si è focalizzata dunque sulla realizzazione di:

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• Brevi corsi specialistici. Sono percorsi formativi per gruppi di 12 donne della durata di 15/20 ore circa, studiati per rafforzare e migliorare le proprie competenze e le proprie relazioni personali e professionali.

• Incontri a tema. Sono incontri di due ore circa in cui esperte/i affrontano la tematica proposta in modo concreto, dando alle donne le istruzioni per l’uso sui propri diritti e sugli strumenti necessari alla loro tutela, in base alle nuove normative che regolano la vita sociale, familiare e lavorativa.

• Colloqui individuali e di gruppo. È possibile fissare un appuntamento con la nostra operatrice per ricevere un aiuto per definire meglio il proprio obiettivo professionale e imparare a trovare e utilizzare i servizi per conciliare lavoro e famiglia. Oppure iscriversi ai Gruppi di Ricerca Attiva del Lavoro: sono incontri di 4 ore in cui affrontare i diversi aspetti della ricerca di lavoro: canali di ricerca, stesura del curriculum, lettera di presentazione e colloquio di preselezione.

http://temi.provincia.milano.it/donne/spaziorosa/spaziorosa.php Ufficio stranieri del Comune di Milano L'ufficio stranieri offre i seguenti servizi nelle diverse sedi:

• In via Tarvisio 13 Tel. 02 67391357 - 02 6700944 Fax 02 66981607 Sportello informativo: il servizio offre informazioni a tutti i cittadini sui diritti e i doveri delle persone straniere presenti in Italia, sulla normativa, sui servizi disponibili sul territorio, sulle procedure che riguardano gli immigrati (visti, permessi di soggiorno, rinnovi, ricongiungimenti familiari, assistenza sanitaria, residenza, cittadinanza, domanda di casa popolare, ecc.). Segretariato e servizio sociale: le persone straniere adulte, che si trovano in difficoltà, possono rivolgersi al servizio che attiva interventi di assistenza sociale per aiutare a superare le difficoltà e ad inserirsi autonomamente nella società. Lunedì: ore 13.30-16.30; martedì, mercoledì e giovedì: ore 9.00-12.00 Pronta accoglienza: offre pronta accoglienza e tutela a donne straniere in difficoltà. Orientamento al lavoro e formazione: questo servizio offre consulenza per gli immigrati che desiderano frequentare corsi di studio o di formazione professionale, avviare un'attività in proprio o cercare un lavoro adeguato alle proprie attitudini (con informazioni sul mercato del lavoro, le procedure, i bandi, i titoli di studio, ecc.). Lunedì, martedì, mercoledì: ore 9.00-12.00

• In via Barabino 8 Tel. 02 55230509 - 02 56611096 - fax 0257308936 Sportello Centri di accoglienza: l'ufficio si occupa dell'ammissione dei cittadini extra-Cee nei centri di prima accoglienza del Comune di Milano: via Novara 451, via Giorgi 31, viale F. Testi 302/A - per uomini; via Gorlini 1 e via Sammartini 75 - per donne e donne con bambini. I centri offrono ospitalità temporanea. Accoglienza delle domande: lunedì, martedì e mercoledì: ore 9.00-12.00 giovedì: ore 14.00-16.30 Tel. 02 56611096 Sportello Richiedenti Asilo e Rifugiati: offre orientamento e assistenza ai cittadini stranieri che sono venuti in Italia per chiedere asilo politico o che sono rifugiati secondo la convenzione di Ginevra del 1951. Lunedì, martedì e mercoledì: ore 9.00-12.00 giovedì: ore 14.00-16.30 Tel. 02 55230509 Orientamento e consulenza giuridica: offre orientamento e consulenza giuridica ad operatori di Enti Pubblici e privati, e, su segnalazione degli operatori, agli stranieri. Ricevimento: dal lunedì al giovedì solo su appuntamento. Tel. 02.55230509

• In via Edolo 19 Tel. 02.8846.7581 - Fax 02.8846.7588 Interpretariato: l'ufficio dispone di interpreti (inglese, francese spagnolo, cinese, arabo, rumeno, albanese, tagalog, cingalese, russo, portoghese, serbo-croato-bosniaco) per la traduzione di documenti e durante i colloqui con i cittadini stranieri. Il servizio è anche a disposizione di altri Uffici della Pubblica Amministrazione. Documentazione: l'ufficio dispone di una buona documentazione sul fenomeno migratorio e fornisce consulenza a quanti sono interessati alla materia. Elabora annualmente i dati relativi alla popolazione straniera residente a Milano, coordina progetti e approfondisce tematiche specifiche, dispone di studi relativi a Paesi stranieri. Consulenze: su appuntamento.

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http://www.comune.milano.it Yoni, Centro medico delle donne Yoni è un’associazione senza scopo di lucro nata nel 2006 da un gruppo promotore di donne e uomini impegnati a vario titolo nel sociale, nel campo dell’assistenza sanitaria e psicologica e della finanza etica. YONI si propone di svolgere interventi nell’ambito del servizio alla persona finalizzati al sostegno della donna, della famiglia e dei suoi componenti qualunque sia l’etnia, la religione e l’origine; pone alla base della sua attività la cooperazione, lo scambio culturale e professionale tra donne e uomini di diverse culture nel rispetto delle reciproche differenze. Yoni vuole promuovere il benessere delle donne nel loro percorso di vita soprattutto nei campi della salute fisica e psicologica; vuole sostenere la promozione sociale e l’integrazione delle donne immigrate nel nostro Paese; vuole rispondere alle esigenze delle donne italiane e straniere e delle loro famiglie attraverso iniziative in ambito sanitario, sociale, culturale, psicologico, educativo e ricreativo; vuole contribuire a migliorare la parità tra i sessi e le pari opportunità; vuole promuovere la solidarietà tra le donne e le famiglie con forme di auto-organizzazione e mutualità familiari. Yoni é iscritta al registro regionale delle associazioni femminili al numero 365 e al registro regionale delle associazioni di solidarietà familiare e gestisce il Centro Yoni, uno spazio medico ostetrico-ginecologico e psicologico che ha iniziato a marzo 2006 ed è aperto a tutte le socie dell’associazione con tariffe calmierate per le prestazioni mediche e psicologiche, mentre il servizio di ascolto e orientamento, di mediazione linguistico culturale e di educazione sanitaria vengono offerti a titolo gratuito. Le mediatrici linguistico – culturali presenti sono attualmente di lingua filippina, cinese, araba, rumena, ucraina e spagnola. Yoni attualmente ha 850 socie iscritte e ha una sede operativa in via Felice Casati 42 a Milano ed è aperta dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 20.00- Telefono 02 39325616