Per una filosofia dell’ospitalità - Liceo Classico D ... · dello sguardo e l’oggetto...

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Oreste Aime Alberto Martinengo Pier Giuseppe Pasero Paul Ricoeur tra fenomenologia ed ermeneutica Per una filosofia dell’ospitalità Sussidio didattico relativo alla Conferenza tenuta presso il Liceo Classico Statale «Massimo D’Azeglio» Torino, 28 ottobre 2008

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Oreste Aime

Alberto Martinengo Pier Giuseppe Pasero

Paul Ricoeur tra fenomenologia ed ermeneutica

Per una filosofia dell’ospitalità

Sussidio didattico relativo alla Conferenza tenuta presso il Liceo Classico Statale «Massimo D’Azeglio»

Torino, 28 ottobre 2008

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Sulle tracce di un progetto didattico

Nei giorni 28 e 29 settembre 2006, a poco più di un anno dalla scomparsa di Paul Ricoeur (27 febbraio 1913 - 20 maggio 2005) si tenne, presso la Facoltà Teologica di Torino, un Convegno di studi dedicati al grande pensatore francese, un susseguirsi di relazioni prospettate da alcuni tra i più celebri studiosi dell’autore in questione e impostate sul tema: «Saggezza pratica e riconoscimento. Il pensiero etico-politico dell’ultimo Ricoeur». Di lui il prof. Domenico Jervolino (Università Federico II di Napoli) disse in apertura, come primo relatore: «Molto riverito, non sempre riconosciuto». La definizione era un evidente richiamo, probabilmente anche sotto forma di gioco, al titolo dell’ultima opera che Ricoeur lasciava in eredità ai posteri, Parcours de la reconnaissance, dov’è contenuta una parola che in italiano si sdoppia sia nel significato di «riconoscenza», sia di «riconoscimento», ma che in lingua francese possiede un’ampiezza semantica che ne segna ambivalenza e profondità. Se la complessità è uno dei tratti caratteristici che configura la modernità a designarne la vastità di orizzonti e i loro intrecci infiniti, tutta l’opera di Paul Ricoeur si proietta da questa complessità e al contempo verso questa complessità, entro la quale la sua opera è anzitutto impegno nell’ascolto per divenire infine impresa di responsabilità. Lasciarsi istruire prima di istruire e per poter davvero istruire. Una splendida lezione di filosofia e un grande atto di civiltà come testimonianza per la società attuale e futura. Ma Ricoeur è anche un filosofo che muove il suo pensare all’insegna di un programma rivolto alla reciprocità, un compito che in sintesi è ben enunciato nell’espressione «ontologia dell’interrelazionalità», usata in una relazione del Convegno dal prof. Luca Alici (Università di Perugia). Non solo il «soggetto» entra nell’ambito di una filosofia riflessiva, ma anche tutto ciò che rispetto al soggetto è «altro» e che nella sua alterità non può non contribuire a costituirlo ed orientarlo. Il rapporto con l’alterità non può a sua volta evitare di affrontare la questione dell’ospitalità. Un esempio della sua importanza è già offerto nell’ambito della traduzione. «Tradurre, dichiara Antoine Berman, è sia abitare nella lingua dello straniero, sia dare ospitalità allo straniero nel cuore della propria lingua», scrive Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare (p. 16). E visto che si è di fronte a un filosofo che s’è applicato all’ermeneutica, perché non interpretare l’intero suo filosofare come un grande atto di ospitalità nei confronti dei vari temi e dei vari autori coi quali s’è misurato, dai classici più illustri fino ai maestri del sospetto, dai percorsi di senso che attraversano l’ambito del politico alle aperture di senso che s’addensano tra i confini del sacro? È in questa prospettiva che è nata l’ispirazione di tornare a parlare di Ricoeur in un contesto di studi liceali, proponendo a giovani studenti un modo di filosofare certamente complesso, ma altrettanto fondato su capacità di apertura e di interrelazione. I due relatori invitati a parlare erano entrambi protagonisti al Convegno del 2006: il prof. don Oreste Aime (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Torino), autore di un saggio su Ricoeur tra i più documentati e notevoli, e il prof. Alberto Martinengo (Università di Torino). A loro un grazie sincero sia per la disponibilità alla realizzazione di una conferenza in procinto di attuazione il prossimo 28 ottobre, sia per l’invio anticipato del materiale ad essa relativo, ormai convogliato a formare il presente libretto, pronto per essere distribuito ed utilizzato con finalità didattiche. Data l’indipendenza dei lavori, si noteranno in alcuni luoghi del libretto riprese tematiche che sarebbe stato possibile accorciare o tagliare del tutto, ma infine la preferenza è caduta sul lasciare intatti i vari elaborati, offrendo così più di una versione alla scelta del lettore. Ciò avviene in particolare a proposito del tema «Leggere e pensare la Bibbia», titolo del secondo articolo di O. Aime (pp. 10-23), costituito da un’abbreviazione del capitolo conclusivo dell’ultima sezione del suo saggio, e la ripresa dello stesso capitolo in forma di sintesi nella parte elaborata dal sottoscritto (pp. 67-71). Altrove le riprese andrebbero accostate non come ripetizioni, ma come avvolgimenti a spirale su un medesimo nodo tematico. La conferenza avrà per titolo «Filosofia riflessiva e identità narrativa in Paul Ricoeur», due temi rispetto ai quali il libretto nella sua funzionalità didattica deliberatamente sovrappone del materiale in eccedenza a favore dei lettori di buona volontà.

P. G. P. Torino, 21 ottobre 2008

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Una filosofia riflessiva: tra autoritratto ed avventura relazionale

ORESTE AIME

1. Ciò che dà a pensare Dovendo dare una figurazione alla propria filosofia, Paul Ricoeur, in un’intervista, è ricorso al famoso quadro di Rembrandt, Aristotele che contempla il busto di Omero (1653). Aristotele vi rappresenta contemporaneamente la storia del pensiero filosofico e una sua versione singolare. Nei suoi confronti, nel duplice significato accennato, siamo in una posizione di debito, ma non a motivo della cronologia che ci colloca storicamente dopo di lui, bensì perché, come mostra l’antico filosofo rivestito di abiti moderni, il compito svolto da lui un tempo si rinnova oggi e l’impegno dell’interpretazione rincomincia sempre da capo. Pur evidenziando cromaticamente la figura del filosofo, la composizione, mostrando Aristotele nell’atto di posare la mano sul busto di Omero, suggerisce che la filosofia non vive in un mondo a sé e non inizia da zero, ma da un senso dato e perciò il contatto con il lato poetico dell’esperienza umana, il lato della creazione di senso, le è necessario. La filosofia nasce in un’aura di senso da cui prende le mosse per svolgere il suo compito, incomincia da sé ma le sue fonti le sono esterne. Il contatto vitale con la «poesia», pur indispensabile, non determina tuttavia il pensiero. Infatti il filosofo guarda altrove, per quanto resti difficile stabilire la direzione dello sguardo e l’oggetto guardato: poesia e pensiero appartengono ad ambiti diversi, che non si confondono; Omero rappresenta quel mythos da cui il logos si diparte ma che è chiamato a riscoprire in una interpretazione creatrice di senso. “Il simbolo dà a pensare” - sempre da capo, inesauribilmente. Un particolare del quadro, infine, non deve essere trascurato: proprio sulla spalla di Aristotele è appuntato il ritratto di Alessandro Magno. La politica - la sua ragione e la sua forza - sono una responsabilità per il filosofo; il politico, nel senso categoriale e non solo effettuale, è parte costituente dell’umano e perciò richiede quell’intelligibilità che la filosofia non può non cercare di realizzare. Non solo il simbolo, dunque, ma anche la forza (e la violenza) danno a pensare. Per la filosofia il rapporto con il suo altro è essenziale. Il senso e la forza, a cui si deve aggiungere il vero delle scienze, il bello dell’arte e il sacro/santo della religione, costituiscono quelle esperienze da cui il pensiero attinge ma su cui ritorna nell’autonomia di un compito riflessivo e speculativo, critico e argomentativo. 2. Una filosofia del soggetto Come realizza la filosofia il suo compito? Ricoeur si è riconosciuto e ha inscritto il proprio pensiero nella filosofia riflessiva, quella che da Socrate va ad Agostino, da Cartesio a Kant, da Fichte a Husserl e Nabert. Anche in questo caso tutto è già dato, ma tutto è da ripetere, se non altro perché la filosofia del soggetto continua ad essere contestata e occorre riqualificarne la possibilità e le pretese. Per realizzare questo progetto Ricoeur ha attraversato la fenomenologia e l’ermeneutica, che nella sua opera diventano variazioni

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sul tema del soggetto, più facile nel caso della fenomenologia, da inventare in quello dell’ermeneutica. Che cosa si può affermare del soggetto, o del sé come da un certo periodo in poi Ricoeur preferisce dire, dal momento che non si può più riproporre la versione assolutistica di Cartesio e ciò che ne consegue nella filosofia moderna, né se ne può accettare la dissolutiva frantumazione operata da Nietzsche e dai suoi epigoni? Anche in questo caso possiamo far tesoro di una breve meditazione proposta da Ricoeur su un altro quadro di Rembrandt, un Autoritratto del 1660, sei anni prima della morte del pittore, la cui carriera, forse non è un caso, corre quasi parallela a quella di Cartesio. Messo a confronto con gli autoritratti che precedono, se ne coglie la somiglianza e la differenza. Il tempo ha scavato le rughe sul volto e il pittore si rappresenta mostrando il lavoro degli anni mentre luce e ombra, come al solito, giocano in un accentuato contrasto. Nelle movenze del ritratto che il pittore fa di sé si nascondono alcune domande: perché e come è possibile un autoritratto? Che cosa ci permette di procedere all’identificazione? Che senso e che legame ha nei confronti di quelli che lo precedono (e lo seguiranno)? La breve e incisiva lettura data da Ricoeur è quasi un commento - attraverso la deviazione pittorica - sulla possibilità stessa della riflessione del soggetto su di sé. La filosofia riflessiva è una forma di autoritratto del sé, del suo desiderio e del suo sforzo di esistere, del suo essere al tempo stesso idem e ipse, aperto attraverso il linguaggio e l’azione al mondo e alla relazione con l’altro oltre che con se stesso. Di questo soggetto Ricoeur ha messo in evidenza alcuni tratti: a differenza di M. Heidegger e J.-P. Sartre, l’accento cade più sulla nascita che sulla morte e dunque sulla sua capacità di iniziativa; la sua identità, che si mostra e si nasconde in una narrazione, è connotata dalla responsabilità morale; in termini antropologici l’attestazione che il soggetto ha e dà di sé può essere tradotta in termini di capacità a riguardo della parola e dell’azione, della responsabilità e della memoria. E se la lunga attenzione rivolta all’azione ha dato una preminenza a questo aspetto «interventista», la meditazione più recente ha bilanciato la descrizione con una sempre maggior insistenza sulla passività in tutte le sue forme. Il soggetto è un homo capax, agens et patiens. Per tutti questi motivi il Cogito della filosofia riflessiva nella versione di Ricoeur diventa un Cogito brisé e tuttavia in grado di cogliersi capace e dunque responsabile. 3. Nel mondo e nella storia L’iscrizione nell’alveo della filosofia riflessiva potrebbe far pensare a un soggetto acosmico e astorico tipico delle filosofie coscienziali. Non è il caso di Ricoeur, per il quale del soggetto si può parlare solo in relazione al mondo e alla storia e attraverso la deviazione in ogni sorta di segni in cui la coscienza si proietta e si esprime. Alla tensione centripeta dell’attestazione, corrisponde la tendenza centrifuga della testimonianza che lo «disperde» nella storia. Per illustrare questo aspetto, sulla scia dell’indizio rembrandtiano ci prendiamo la libertà di attingere ancora al pittore neederlandese, a partire da una delle sue tele più famose e discusse, La ronda di notte (1642), un quadro ampio, innovativo, pieno di personaggi, ben diverso dai ritratti di gruppo dell’epoca, statici e celebrativi. Le persone raffigurate sono in movimento, in un’azione complessa, sfaccettata e piena di tensioni, dominabile nell’insieme ma anche fratta nelle masse che la compongono. In quel groviglio quasi inestricabile c’è anche lo spazio per la scomposizione sequenziale di alcuni movimenti (preparazione dell’archibugio). I personaggi sono storici, appartengono a una corporazione importante e potente, ma sono trasferiti in una dimensione che va oltre la cronaca; messi in movimento, squarciano lo spazio e il tempo con la loro vorticosa iniziativa. E che non sia solo una magistrale «fotografia di gruppo», lo rivelano alcune figure con tratti marcatamente simbolici (i due ragazzini in vesti femminili), che per la loro luminosità investono anche i personaggi «reali».

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Da un capo all’altro della ricerca di Ricoeur il tema unificante è stato l’azione e il soggetto è colto innanzitutto nella sua potenza di agire, sul piano individuale e su quello sociale. La stessa temporalità, grande capitolo del Novecento filosofico, è indagata a partire dall’azione e da ciò che ce ne permette la decifrazione, il racconto. Azione e linguaggio in tutte le loro stratificazioni e varianti, dunque, collocano il soggetto nel mondo e nella storia. La ricerca sulla parola - la traduzione in atto del sistema linguistico - è un aspetto divenuto fondamentale e strategico. Solo se la parola può dire il soggetto, l’altro e il mondo, possiamo varcare quella soglia della prigione dorata che lo strutturalismo e talvolta la filosofia analitica gli hanno disegnato intorno, concentrando e risolvendo la realtà nel sistema dei segni. I confini del linguaggio e dei linguaggi, non solo quello ordinario o scientifico, sono invece i confini del mondo e del tempo. Nella parola, in particolare nella metafora, urge una veemenza ontologica che la apre al mondo, con tutti i suoi valori sensibili e patici. Il mondo però non prende senso solo dalla parola proferita dall’uomo ma anche dalla sua azione, anche se la parola è ancora necessaria per dire nel racconto l’azione che si distende nel tempo e da cui dipende l’identità del soggetto. Più si passa dal livello personale a quello intersoggettivo, più diventa difficile discriminare la struttura dell’agire umano, la trama delle casualità, delle responsabilità e degli effetti vicini e lontani. Andando al di là del racconto e della memoria, la storiografia pretende di metter capo in qualche modo a queste questioni, sia che si occupi di microstoria o di storia di lunga durata e il suo sguardo a distanza sembra alternativo a ogni pretesa di riflessività e di speculazione, ma con la cancellazione di quel tratto interpretativo che attraversa ogni sua operazione. Per una filosofia del soggetto la storia è sempre un capitolo impegnativo, quasi impossibile, ma non è questo il motivo per il quale Ricoeur propone di rinunciare a Hegel. Uscire dalla filosofia della storia non significa rinunciare a misurarsi con la storia; solo la filosofia impara a farlo più umilmente, per il tramite di una filosofia critica che si elabora a partire dalla stessa operazione storiografica, con l’impegno di connetterla tanto con la memoria quanto con l’oblio. Una certa felicità della memoria e dell’oblio non sopperiscono, però, all’estraneità alla storia che caratterizza la storicità stessa dell’uomo. Dall’insieme delle riflessioni dedicate alla storia e al tempo, Ricoeur ricava un’ontologia della condizione e della coscienza storiche declinata in termini di debito, di iniziativa e di promessa. In ognuno di questi tratti si fa sentire un’eccedenza, sia nell’accogliere il passato ricco di possibilità non attuate, sia nel protendersi al futuro nell’impegno di una durata che nulla garantisce, sia nell’assumere il presente nel modo dell’iniziativa responsabile. Per espletare tutti questi compiti, dalla delineazione della condizione storica a una vera e propria ontologia o almeno a un suo abbozzo, è sufficiente l’impianto riflessivo? Solo al termine del suo lungo percorso Ricoeur ha osato esplorare ciò che peraltro era intravisto fin dall’inizio: l’indagine ontologica che chiude - e apre - Soi-même comme un autre ricorre a un complemento speculativo che al tempo stesso integra e svolge la stessa riflessione. Le metacategorie di atto e potenza, di medesimo e altro sono quelle che sorreggono l’intera indagine fenomenologica del sé e quella ermeneutica della condizione storica. 4. Un filosofo legge la Bibbia Tirando le fila della ricerca sulla natura mimetica del racconto, Ricoeur giunge alla seguente conclusione al confine tra ermeneutica e ontologia: “A mio parere, il mondo è l’insieme delle referenze spalancate da tutti i diversi testi descrittivi o poetici che ho letto, interpretato e amato. Comprendere questi testi, vuol dir interpolare tra i predicati della nostra situazione tutti i significati che, di un semplice ambiente (Umwelt), fanno un mondo (Welt). È proprio alle opere di finzione che noi dobbiamo in gran parte la dilatazione del nostro orizzonte di esistenza” (Temps et récit 1, p. 121, trad. it. p. 130).

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L’ermeneutica non è solo un capitolo della filosofia riflessiva ma un suo modo di articolarsi e realizzarsi, perché grazie al linguaggio - testo e lettura - approdiamo al mondo e alla vita. Nata intorno al simbolismo, l’ermeneutica di Ricoeur si è spostata, allargandosi, dapprima al testo e poi alla lettura, lasciando il simbolo sullo sfondo. Testo e lettura sono l’occasione per la fusione di orizzonti nel modo inteso da Ricoeur, il quale, rispetto a H. G. Gadamer che privilegia l’esperienza estetica, ha maggiormente evidenziato la configurazione testuale e il corrispondente atto di lettura. Testo e lettura diventano canone per qualunque interpretazione, la quale però può vantare una singolarità irriducibile al paradigma generale, in quanto le ermeneutiche regionali eseguono con libertà ciò che viene trovato e indicato dall’ermeneutica generale. È importante ricordare che nell’atto interpretativo il soggetto giunge a sé collocandosi davanti al testo e passando attraverso il testo. Per fare questo ogni approccio è utile e in qualche caso indispensabile, secondo l’adagio in cui si concentra tutta l’impresa: “spiegare di più vuol dire comprendere meglio”. Sulla base di questo assunto, grazie al quale Ricoeur cerca di oltrepassare lo iato tra spiegare e comprendere stilato da W. Dilthey e confermato da Gadamer nella contrapposizione tra verità e metodo, l’attraversamento del testo può far tesoro di tutto ciò che ne permette la più ampia misurazione ai livelli strutturale, semantico e storico. Che cosa avviene quando si legge la Scrittura? Un altro quadro di Rembrandt, l’Autoritratto in veste di san Paolo apostolo (1661), permette di sorprendere un gioco di sovrapposizioni che si trova nello stesso Ricoeur e potenzialmente in ogni lettore. L’autoritratto che rappresenta un uomo quasi stranito con un fascio di carte in mano nell’atto di volgersi - a se stesso nello specchio o ad altri? - assomiglia ai tanti altri, una quarantina, di tutte le età, nella catena che va dalla giovinezza all’estrema vecchiaia - sì, il soggetto invecchia, anche se il declino non impedisce alla vita di rappresentarsi. Questa versione però è particolarmente sorprendente, perché le linee dell’autoritratto giungono a coincidere con il ritratto di san Paolo in perfetta sovrapposizione. Perché offrire le proprie fattezze a san Paolo? È Paolo o Rembrandt a leggere (o scrivere)? E se il lettore è Rembrandt perché ha i tratti di Paolo? Si deve accettare che quell’uomo con le carte in mano sia al tempo stesso l’apostolo e lo stesso pittore, in una forma inusuale di identificazione e di autocomprensione. Ma non avviene qualcosa di simile in ogni lettura? Ricoeur è stato un attento lettore della Bibbia ed esploratore di quel mondo testuale, con una preferenza per il Primo Testamento. Si tratta di una lettura ben caratterizzata, en philosophe, non da esegeta né da teologo, ma ben informata di quanto soprattutto l’esegesi ha rivelato delle Scritture. La parola che diventa Parola spetta ad altri, al predicatore o al credente - e talvolta Ricoeur si è esercitato anche in questa funzione. En philosophe vuol dire un lettore che si lascia condurre da quella scrittura, che è la Scrittura in tutta l’ampiezza e ricchezza delle sue possibilità, alla ricerca del pensiero che lì è contenuto. La teoria dei generi letterari che a partire dagli inizi del Novecento ha liberato l’esegesi biblica da tanti lacci e impacci, diventa in Ricoeur la legenda stessa del testo. Il lettore per cogliere le virtualità di ciò che sta leggendo deve certamente ricorrere a chi quel testo decifra sul lato filologico e storico; ma quella parola deborda il proprio tempo e ha un senso che cresce in ogni tempo con il suo lettore. Forse il contributo maggiore di Ricoeur è questa pratica di lettura, in cui il mondo del testo biblico e il mondo del lettore si intersecano in maniera polifonica. M. Bachtin ha coniato a proposito di F. Dostoevskij la formula di romanzo polifonico per segnalare che la voce dell’autore s’aggiunge e conversa con quella dei protagonisti. Analogicamente si può parlare di una lettura polifonica della Scrittura da parte di Ricoeur, sia perché lascia ai testi la loro voce propria nella diversità dei generi letterari e dei «protagonisti», sia perché accoglie generosamente e accuratamente nella lettura la storia della ricezione e la stessa voce del lettore chiamato a interloquire con il testo. Quest’ultima non è né può essere puramente passiva, anzi il massimo di ricettività coincide con il massimo di attività interpretante in termini di decifrazione di senso, di immaginazione e di iniziativa.

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5. Filosofia e teologia L’ermeneutica biblica non esaurisce la questione dei rapporti tra filosofia e teologia e se a questo proposito ci chiediamo qual è stato il contributo di Ricoeur non è facile fare un bilancio. Infatti il lascito più cospicuo non è da cercare sul lato delle non molte affermazioni in merito ai rapporti tra filosofia e teologia, quanto nella teorizzazione di un’ermeneutica generale e di quella biblica in particolare. Di quest’ultima i saggi realizzati sono di una finezza del tutto singolare, in grado di collegare esegesi storico-critica, storia della ricezione ed estrazione di un pensiero che per la sua qualità e forza è una realtà di grande rilievo e interesse per la stessa ricerca filosofica. Mossosi alla ricerca di un Dio filosofico, pensato in termini di Trascendenza al confine tra idea limite e esperienza limite a partire dalla libertà solo umana di un soggetto che vuole ma si trova anche preceduto, subito dopo egli opta per una formula che comprime la filosofia in un’assenza di assoluto e poi in una professione di agnosticismo, per disegnare e iniziare a delineare infine, negli ultimi anni, un rapporto simile a quello che più in generale stabilisce tra la convinzione e l’argomentazione. Ci troviamo dunque di fronte all’oscillazione di un pensiero che va da un dichiarato agnosticismo all’ammissione di una possibile convenienza, non tanto tra filosofia e teologia quanto tra la filosofia come Ricoeur ritiene si possa e si debba praticare e la fede biblica. L’agnosticismo, la filosofia senza assoluto, ha una qualche giustificazione nella molteplicità dell’alterità, tra cui potrebbe annoverarsi anche quella del Dio. Ma tale ricorsività non permette di privilegiare questa possibilità sulle altre. Si può osservare che si tratta più di un’affermazione che di una vera argomentazione, la quale però ha dalla sua i confini che l’ontologia del sé consente. Da un lato l’essere non può essere identificato con Dio e dall’altra la dispersione delle figure dell’alterità impediscono un percorso che sbocchi unicamente e inequivocabilmente su una qualche trascendenza divina. Su questo orientamento ha sicuramente influito il contesto culturale e istituzionale francese, con l’incombente accusa, talora diventata esplicita, di criptoteologia. C’era sicuramente una posizione personale, probabilmente di derivazione riformata, e una pratica dell’insegnamento che voleva demarcare nettamente la filosofia dalla teologia per evitare fraintendimenti e sconfinamenti. L’ultima meta ha cercato di trovare delle assonanze o delle consonanze, ma forse quelle si davano già prima. Al proposito si può far tesoro di una considerazione che Ricoeur fa, soppesando complessivamente l’impresa di E. Husserl, nella cui opera distingue un metodo praticato, la descrizione fenomenologica, e un metodo teorizzato, l’idealismo fenomenologico. Un’osservazione analoga fa nei confronti di R. Bultmann, distinguendo l’opera dell’esegeta da quella del teologo. In entrambi i casi Ricoeur, dovendo esprimere una valutazione, sceglie a favore della pratica della descrizione fenomenologica e dell’esegesi. Lo schema potrebbe essere applicato allo stesso Ricoeur. L’approccio al testo biblico, sia nel versante analitico sia nel versante speculativo, è molto più ricco di quanto si trova poi cristallizzato in alcune formule. Il privilegio concesso al momento dell’esegesi, lettura in atto, rispetto alla teologia ha impedito una riflessione più articolata sulla stessa teologia. La definizione di quest’ultima solo in rapporto alla predicazione, di fatto non riconosce l’opera di pensiero che gli stessi sostenitori della tesi (K. Barth, E. Jüngel) riescono a comporre. La teologia è solo un’ermeneutica biblica ai fini della predicazione? Perché vietarle un qualche momento speculativo, analogo a quello su cui sbocca la stessa filosofia riflessiva? Nel metodo praticato rientrano le indagini dedicate ad alcuni temi biblici, che si segnalano per la novità dell’esame svolto, che non si limita ai dati consolidati dell’esegesi, ma osa proporre un’interpretazione pensante del testo biblico, che ridonda sullo stesso pensiero filosofico. A parte merita un richiamo particolare il capitolo finale di La mémoire, l’histoire, l’oubli dedicato al perdono, capitolo strettamente filosofico nelle finalità e nella struttura argomentativa, nel quale però non manca l’eco di un orizzonte escatologico che ha una profonda radice biblica e anche teologica per la versione (origenista piuttosto che agostiniana) che si impone a Ricoeur.

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Qual è l’apporto diretto che la teologia può accogliere da Ricoeur? Come si è detto, è l’approccio alla consistenza del testo sui cui il teologo lavora e alle imprescindibili qualità del lettore che vi si accosta. Certo il teologo non è soltanto un lettore qualunque, bensì qualificato, e tuttavia anch’egli porta in se stesso i tratti di quel sé che la lunga ricerca di Ricoeur ha cercato di illuminare. D’altra parte la rinuncia a Hegel suggerisce, se non di abbandonare definitivamente la categoria di Heilsgeschichte, almeno di adottarla con maggiori cautele, e questo non può non richiedere dei riaggiustamenti di diversi contesti. Il teologo o l’esegeta non sono soggetti «assoluti» davanti al testo e neppure nella storia della salvezza. Ci sono dei lutti che anche la teologia e i teologi debbono imparare a praticare, senza nulla togliere al loro compito di indagare ed esprimere quella verità che il kérigma - o meglio i kerígmata - sedimentati nelle Scritture ebraico-cristiane pretendono di esprimere e donare. Nello stesso tempo il teologo, proprio perché si occupa della verità del pensiero biblico, che pur non essendo di natura filosofica non è estraneo alla filosofia, può e deve partecipare all’agorá delle argomentazioni, al dialogo delle convinzioni e al conflitto - combat amoureux - delle interpretazioni. Per concludere su quest’ultimo tema, ricorriamo ancora una volta liberamente a Rembrandt e al suo Cristo risorto appare a Maria Maddalena (1638). L’interpretazione del «noli me tangere» è particolare, anzi sfuma nella meraviglia attonita di due sguardi che si sfiorano nell’evocazione di un nome che il muto quadro lascia comunque risuonare. Sulla tela si imprime la difficoltà del riconoscimento nell’attimo stesso in cui esso avviene. Il Risorto - che davvero è vestito ed equipaggiato come un ortolano, dunque un estraneo: chi avrebbe potuto riconoscerlo? - si presenta, si dà a vedere e al tempo stesso già si sottrae alla presa. Maria di Magdala nel voltarsi incontra lo sguardo del Maestro non direttamente ma davanti a sé. Alle sue spalle gli angeli, appollaiati sulla tomba vuota, hanno già fatto risuonare sul luogo dell’assenza il loro annuncio e sono ora testimoni di un incontro che si disegna nella luce diafana di un’alba nuova, che si spalanca su una sconnessione del suolo e nell’orizzonte di un vasto e popolato mondo. La frattura verticale del quadro e lo scontro di luce e ombra fissano il duello di morte e vita e il trionfo della vita di cui parla la sequenza pasquale. In quel quadro, come nella filosofia di Ricoeur, è disegnato un incontro, un difficile ma possibile riconoscimento, nell’oscuro di un’assenza e nella luce di una parola di senso che nel loro farsi sia la filosofia sia la teologia possono lasciar risuonare. Quell’incontro è un compito che ancora appartiene a chi si lascia introdurre nella scena dipinta da Rembrandt, ma anche a chi da lettore si sente amico di un pensiero come quello di Ricoeur che, proprio perché intensamente dialogico, chiede di essere continuato nel segno del riconoscimento, del debito inestinguibile e dell’interpretazione accurata e creativamente libera.

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Leggere e pensare la Bibbia

ORESTE AIME

a) DALL’ESEGESI ALL’ERMENEUTICA 1. Alla ricerca del metodo Tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale. La prima produzione filosofica di Ricoeur, quando ricorre alla fonte biblica, si svolge sotto il segno della Heilsgeschichte e la connessa teologia dell’Alleanza, che domina la teologia riformata degli anni Trenta e Quaranta (Karl Barth, Gehrard von Rad, Oscar Cullmann). Il metodo escogitato e praticato in Finitudine e colpa risulta dalla convergenza della fenomenologia eidetica che mette in luce la struttura a duplice intenzionalità del simbolo, dell’esegesi come esercizio sulla semantica del linguaggio simbolico e dell’ermeneutica che spezza l’incanto della neutralità fenomenologica che si autolimita a una dettagliatissima descrizione. La lettura dei singoli testi biblici, pur dando risalto alla dimensione mitico-simbolica, ricorre ampiamente alla produzione storico-critica. Il momento critico è necessario per attingere il senso: “soltanto a prezzo dell’esegesi e del passaggio attraverso l’esegesi e della comprensione filosofica, il mythos può dare adito ad una nuova fase del logos” (FC 310, 420). L’esegesi adottata osserva parametri precisi, in particolare abbandona l’allegoria a favore del significato letterale, che in questo caso non può essere che simbolico; ma l’orizzonte interpretativo è dominato dal quadro unitario della Heilsgeschichte, capace di congiungere nel segno della fede e della speranza l’Origine con la Fine. Proprio la lettura del testo, il superamento della distanza culturale e l’appropriazione del significato, al di là di alcuni significati considerati caduchi, fanno ricuperare a Ricoeur la lezione di R. Bultmann. Se il quadro «teologico» resta quello degli autori succitati il modo di lavorare si avvicina sempre più a quello di Bultmann; anzi già Finitudine e colpa, quando vengono tratte le linee riflessive finali, si conclude nel suo nome e nel segno del suo adagio ermeneutico: «Bisogna comprendere per credere, ma bisogna credere per comprendere». A Bultmann però, qualche anno dopo (1968), Ricoeur rivolge alcuni rilievi fondamentali. Bultmann, anche per non aver sufficientemente distinto l’opera di demitizzazione (che non deve avvenire: il mito e il simbolo danno a pensare) dalla demitologizzazione (lettura interpretativa del mito che ne lascia cadere solo gli aspetti che potremmo definire «datati»), sovrappone esigenze diverse: “di volta in volta è l’uomo moderno, poi il filosofo esistenziale, infine il credente che conduce il gioco. Tutta l’opera esegetica e teologica di Rudolf Bultmann è la messa in opera di questo grande circolo in cui la scienza esegetica, l’interpretazione esistenziale e la predicazione di stile paolino-luterano scambiano i loro ruoli” (CI 385-386, 406). Nell’evidenziare le componenti della precomprensione, Bultmann ha assolutizzato il versante esistenziale della filosofia di Heidegger, quando questa si voleva da subito come propedeutica a una nuova ontologia. Nello stesso contesto si può rilevare la mancata tematizzazione del linguaggio, anche di quello teologico, a cui Bultmann ricorre per esprimere in modo apparentemente demitizzato il kérigma neotestamentario; le premesse critiche non sono state utilizzate fino in fondo e il risultato a cui il teologo perviene è contestabile sotto il profilo critico che egli stesso ha istituito. Infine Bultmann ha ridotto

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dogmaticamente a una teologia della Parola e della decisione l’amplissimo repertorio polifonico biblico: la teologia sistematica ha fatto un cattivo servizio all’esegeta. L’uscita dalle strettoie dell’interpretazione esistenziale è stata favorita anche dal ricorso ai metodi e ai risultati della fenomenologia delle religioni che danno risalto alle componenti cosmiche, psichiche e poetiche del simbolo, e allo studio di quelle ermeneutiche rivali che a un primo approccio sembrano soltanto tecniche del sospetto. La poliedricità del simbolo esige un concorso di metodi di lettura, secondo uno schema che Ricoeur mette a punto nello studio sulla psicanalisi. Dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica. Che dire dell’esegesi così come si è venuta configurando negli ultimi centocinquanta anni? La si deve accettare senza riserve o basta innestare opportune correzioni di metodo che, come in ogni disciplina, si rendono necessarie sulla base dell’avanzamento degli studi? La prima riflessione esplicita di Ricoeur sul metodo esegetico rappresenta una considerevole presa di distanza dal metodo storico-critico o, meglio, da alcuni suoi presupposti non dichiaratamente esplicitati o fondati. Al metodo generale detto storico-critico concorrono metodi particolari accomunati dal riferimento storico: storia della lingua, del senso e dell’impiego delle parole; storia delle istituzioni; storia delle influenze e dei rifiuti culturali; storia delle fonti, delle forme e della redazione, ecc. “Questa predominanza dello storico, nel senso di historisch, pone il problema dell’affinità di questa metodologia con lo storicismo filosofico”. L’esame di un metodo, qualunque sia, deve avvenire sulla base di un principio generale fondamentale: non c’è metodo innocente. Il metodo storico-critico per sua parte, data l’affinità con lo storicismo, seppure indirettamente partecipa di alcuni suoi presupposti filosofici e metodologici. A questo proposito Ricoeur formula alcune regole atte a presiedere alla risoluzione di alcuni aspetti della questione esegetica storico-critica. La prima si ricollega all’osservazione generale che afferma l’inesistenza di un metodo innocente, vale a dire scevro di presupposti. Anche il metodo che, costituendosi come storico e critico, ritiene di porsi come giudice sovrano, ha i suoi presupposti e deve imparare a riconoscerli, se non vuole immiserirsi in una forma ideologica. La seconda prescrive di evitare sintesi affrettate; il motivo sta nel fatto che ogni metodo ha la sua assiomatica, da cui dipendono le disposizioni operazionali. Dovendo necessariamente scegliere un metodo, l’esegeta non potrà evitare di dire solo ciò che percepisce entro il campo prescelto o attraverso la griglia metodologica adottata. La cautela esige che si eviti la sintesi che dipende troppo direttamente da questi assiomi. La terza è una regola di vigilanza sulle “frontiere del metodo” grazie alla “coscienza dei punti deboli dei nostri punti forti”. Ma la debolezza in questo caso diventa possibilità e occasione di confronto con altri e da questo incontro nasce la “ecclesia della ricerca”1. Se l’esame intentato da Ricoeur a questo metodo risulta particolarmente severo, è pur vero che egli lo dichiara insostituibile, “essenzialmente perché i testi che noi leggiamo non sono in ultima istanza dei testi su testi ma su testimonianze che rimandano esse stesse ad avvenimenti. Questa è la mira intenzionale del testo”2. La critica del metodo storico-critico, una sorta di metacritica ermeneutica, si propone così come una sua rettifica, in particolare su tre aspetti ritenuti vere e proprie illusioni3. “Illusione della fonte. Non è la fonte che fa comprendere il testo, ma il testo che sceglie e articola le sue fonti”4. L’atomismo critico, che predilige la fonte come elemento

1 P. RICOEUR, Esquisse de conclusion, in X. LEON-DUFOUR (éd.), Exégèse et Herméneutique, Seuil, Paris 1971, pp. 286-287. 2 RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 291. 3 La successiva ricognizione epistemologica dell’operazione storiografica di fatto modifica il quadro generale di questa metacritica ermeneutica, calibrando maggiormente ciò che è della ricerca storica e ciò che tocca all’interpretazione. Come pensare la Bibbia mostra però la non facile integrazione del momento storico-critico (A. LaCoque) con quello ermeneutico (Ricoeur). 4 RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 292.

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esplicativo ultimo, assume acriticamente la tesi che l’anteriorità cronologica spieghi sempre e comunque ciò che viene dopo. “Illusione dell’autore. L’intenzione dell’autore non è il suo vissuto psicologico, la sua esperienza, né l’esperienza della comunità per sempre irraggiungibile perché già strutturata dal suo discorso”5. L’autore non è che una funzione del testo ovvero una grandezza ermeneutica. In Ricoeur non sopravvive quasi nulla dell’ermeneutica romantica della congenialità né la sua riformulazione proposta da Dilthey nel codificare i procedimenti delle scienze dello spirito come psicologia comprendente, che in qualche modo continua ad ispirare l’esegesi storico-critica allorché cerca di determinare il senso inteso dall’autore. “Illusione del destinatario. È forse qui che lo psicologismo deve essere ricusato con più vigore”6. Il testo non si spiega a partire dal destinatario storico, perché, contro la sua stessa dinamica interna, lo vincolerebbe al passato. Il discorso, quando diventa testo, assume un’autonomia che lo sottrae all’autore e al primo destinatario, che non gode più alcun privilegio rispetto ad altri destinatari contemporanei o successivi; è il testo stesso a crearsi il suo pubblico7. La neutralizzazione dei postulati dell’approccio storico-critico è favorita dalla ripresa della lezione strutturale. Simile all’epoché fenomenologica, l’accostamento semiotico al testo sospende ogni sua funzione referenziale e la spiegazione messa in opera si regge unicamente sui suoi elementi interni: il testo va spiegato con il testo, grazie alla struttura che esibisce a livello di superficie e in profondità. Ricoeur, tuttavia, nel suo studio dei testi biblici non utilizza la strumentazione strutturale. Il passaggio attraverso la struttura in fin dei conti serve a liberare l’esegesi o il trattamento di un testo dalle implicazioni storiciste e a scoprire stratificazioni e componenti del testo che il ricorso a spiegazioni di tipo storico-contestuale omettono di prendere in esame. Ricoeur, se accoglie il metodo strutturale, ne respinge l’ideologia che fa coincidere il senso di un testo con la logica della sua struttura. Perché non è sufficiente l’esegesi secondo i tanti possibili approcci disponibili? Grazie all’ermeneutica siamo in grado di comprendere meglio ciò che si fa sul piano esegetico e di portare alla luce alcune questioni di importanza capitale, che restano sullo sfondo dello studio esegetico. Ad esempio: che cos’è un testo? Che cos’è la lettura? Quale rapporto c’è tra un testo e il suo «oggetto» (evento storico, mondo, invenzione...)? Queste domande, proprie dell’ermeneutica generale, acquistano un significato specifico nel campo biblico, perché la peculiarità della Bibbia si riverbera sull’ermeneutica che se ne occupa. La lettura. Si parte dalla lettura, a motivo della priorità che ha acquistato nell’ultimo Ricoeur, per arrivare gradualmente alla multiformità del testo e al suo mondo. Ricoeur distingue tre tipi di lettura della Bibbia. Nei loro rapporti non è difficile trovare, in forma rinnovata, uno dei primi problemi individuati dalla nascente arte ermeneutica moderna, la relazione tra parte e tutto, che costituì anche il primo caso esplicitato di circolo ermeneutico. Il primo tipo è la lettura parcellare, che nell’ambito biblico si applica al cosiddetto genere letterario. Individua il modo del discorso biblico, ad esempio il genere narrativo, e

5 Ibidem. 6 RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 293. 7 “Mentre il metodo storico-critico si occupa della differenza tra i diversi strati letterari confusi nella redazione finale, in vista di ristabilire il Sitz-im-Leben di questo o quel racconto o di questa o quella istituzione, la lettura che praticheremo parte dal fatto che il senso degli avvenimenti raccontati o delle istituzioni proclamate è stato staccato dalla scrittura del suo Sitz-im-Leben originario e che la scrittura gli ha sostituito ciò che si potrebbe chiamare un Sitz-im-Wort. La nostra lettura comincia di qui, con il Sitz-im-Wort di avvenimenti, di azioni, di istituzioni che hanno perduto il loro primo radicamento e di conseguenza hanno solo più un’esistenza testuale. Ora questo statuto testuale dei racconti, delle legislazioni, delle profezie, delle parole di sapienza, degli inni, ha l’effetto di rendere vicendevolmente contemporanei questi testi nell’atto di lettura” (P. RICOEUR, Temps biblique, in «Archivio di Filosofia» 53, 1985, 1, p. 26). A questa ricostruzione ricca e articolata del testo, e del testo biblico in particolare, manca l’apporto critico e l’aura della filologia. Il testo è già sempre dato, senza tener conto della sua produzione, ricostruzione, edizione.

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ne ricava le implicazioni, non tanto con l’imposizione di uno schema esterno quanto piuttosto seguendone le indicazioni interne. Svolta in questa modalità “l’interpretazione non è un atto di violenza esercitato sul testo dall’esterno da parte degli studiosi, degli esegeti e dei teologi, ma una operazione ermeneutica interna al testo stesso (si può dire un lavoro del testo nel testo sul testo)”8. Ma che avviene quando si passa da un genere letterario all’altro? Si opera, in questo secondo caso, una lettura intertestuale, in cui ogni modo del discorso mantiene le proprie caratteristiche pur nella disponibilità a intersignificare con altri generi letterari fino alla contaminazione reciproca. Occorre garantire a ogni genere la sua specificità. “Ciò che fa la bellezza, la grandezza, la ricchezza della Bibbia, è che si possa passare da un genere all’altro [...] La Bibbia è in qualche modo... un luogo d’intersezione. Si potrebbe, grazie a queste molteplici intersezioni, far apparire la Bibbia essenzialmente come un grande intertesto”9. Un passo ancora e siamo alla lettura globale della Bibbia, piena di fascino e estremamente rischiosa perché, se mira a intempestive sintesi, potrebbe alterarne il testo e il significato. Globalità per Ricoeur vuol dire innanzitutto rispetto della polifonia. Si chiude così il circolo ermeneutico della lettura. Quella globale tuttavia non cancella né sostituisce le precedenti né deve fornire la giustificazione a una lettura che sia una sorta di omogeneizzazione concettuale10. I generi letterari. Se la lettura è la risposta creativa alle suggestioni contenute nel testo, quella parcellare introduce all’individuazione e all’esplorazione dei generi letterari. Sulla scorta di una lunga e consolidata tradizione esegetica se ne può ricavare un elenco essenziale, tenendo presente che l’indagine di Ricoeur di fatto si concentra soprattutto nello studio dell’Antico Testamento11: narrativo, profetico, prescrittivo, sapienziale, innico. Senza entrare nel merito dell’uso specifico di queste categorie, possiamo ricordare alcuni criteri di lettura che egli ne ricava. A un primo approccio i generi letterari possono essere percepiti come una forma ancora immatura di pensiero. Come nel caso del simbolo, anche qui occorre seguire il percorso inverso: il contenuto di pensiero non è indifferente alla forma letteraria, anzi ne è indisgiungibile; Ricoeur dichiara di aver imparato da von Rad che il contenuto è strettamente connesso con il genere letterario da cui è portato. Forma e contenuto sono indissociabili: la confessione di fede “che si esprime nei documenti biblici è direttamente modulata dalle forme di discorso nelle quali essa si esprime”12. Altre conseguenze riguardano il contenuto. La molteplicità dei generi letterari suggeriscono e impongono la considerazione polifonica di alcuni concetti. Ad esempio 8 P. RICOEUR, Herméneutique. Les finalités de l’exégèse biblique, in D. BOURG, A. Lion (éd.), La Bible en Philosophie, Cerf, Paris 1993, pp. 37-38. 9 RICOEUR, Herméneutique, cit., p. 40. 10 È un criterio che vale innanzitutto in ermeneutica generale. “Non esiste intrigo di tutti gli intrighi, in grado di mettersi allo stesso livello dell’idea dell’umanità una e dell’unica storia” (Temps et récit 3, p. 372, trad. it. pp. 392-393) - come non esiste il gioco dei giochi linguistici in Wittgenstein. Con questa precisazione in nota per quanto riguarda l’ermeneutica e la teologia biblica: “Anche se un pensiero di tutt’altro ordine, quello di una teologia della storia, che qui non è affrontata, propone di unire una Genesi ad una Apocalisse, non è certo proponendo un intrigo di tutti gli intrighi che questo pensiero può mettere in relazione il Principio e la Fine di tutte le cose. Il semplice fatto che noi disponiamo di quattro Evangeli per raccontare l’avvenimento considerato cardine della storia dalla confessione di fede della Chiesa cristiana primitiva, basta per impedire al pensiero teologico di costruirsi su di un unico super-intrigo univoco”. Questa osservazione è da ricollegare a quanto si è detto precedentemente sul concetto di Heilsgeschichte. 11 Manca una vera e propria analisi del discorso apocalittico e del genere epistolare, in particolare quello paolino, con le loro implicazioni di ordine teologico. In particolare il discorso paolino sembra autorizzare un discorso religioso che porta con sé un orientamento concettuale non trascurabile e non sufficientemente preso in carico dall’ermeneutica di Ricoeur. Solo tardivamente Ricoeur ha preso in considerazione il genere epistolare a partire da sollecitazioni filosofiche (S. Breton, A. Badiou, J. Taubes, G. Agamben). Nelle lettere di Paolo si intrecciano in modo singolare proclamazione e argomentazione, che nella teoria ermeneutica corrispondono a interpretazione a argomentazione. 12 P. RICOEUR, Herméneutique de l’idée de Révélation, in AA. VV., La Révélation, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1977, p. 31.

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l’idea di rivelazione; Ricoeur l’ha fatto in varie occasioni per il tempo, la salvezza, la legge e la nominazione di Dio. L’ultimo soccorso che la lettura per generi offre alla meditazione teologica è la salvaguardia dall’insidiosa tentazione che riconduce e conseguentemente riduce le forme di rivelazione al sapere. Proprio l’attenzione alla multiformità dei generi garantisce una maggior dialettica tra il segreto di Dio e la sua epifania che si media nell’idea stessa di rivelazione13. Quasi parallelamente, più sul versante del Nuovo Testamento, Ricoeur ha sviluppato altre letture parcellari ispirate in particolare ai risultati raccolti dalla ricerca sulla metafora e sul racconto. Nella letteratura neotestamentaria le parabole evangeliche occupano un posto del tutto particolare. Il campo di applicazione biblico della ricerca sul racconto non ha trovato nella produzione di Ricoeur ampi svolgimenti e si limita a un breve saggio dedicato al racconto della Passione in Marco, che vale però da modello per intendere il trattamento poetico del testo narrativo. Si tratta di una lettura, com’è ormai prevedibile, più attenta all’arte della composizione letteraria che ai guadagni storico-critici. Sul piano teorico Ricoeur, sulla scorta di Robert Alter, insiste sull’indissociabilità del kerigma dalla narrazione. Solo affidandosi alla narrazione, al suo ritmo che si propone attraverso precise strategie, si possono cogliere le valenze, che vanno perdute sia nell’indagine mirata alla dissezione storica sia nella sintesi teologica che astrae dal contesto narrativo. Il Grande Codice. Tra le letture globali Ricoeur ne predilige alcune, che gli permettono di evitare il rischio della frammentazione, a cui anche la stessa lettura intertestuale è esposta. Paul Beauchamp ha rilanciato per l’Antico Testamento la suddivisione rabbinica - Legge, Profeti, Scritti - in uno schema di lettura che, senza cancellare l’alterità dei due testamenti, trova l’antico nel nuovo (la teleologia) e il nuovo nell’antico (l’archeologia). L’uno e l’altro testamento si corrispondono, al di là dei generi letterari e della stessa opposizione estrinseca di antico e di nuovo14. Claus Westermann dal canto suo invita alla lettura polifonica della Bibbia ebraica senza privilegiare un aspetto sugli altri, dal momento che a suo parere manca un vero e proprio centro teologico nell’Antico Testamento. “Il lettore è chiamato a identificarsi di volta in volta, in immaginazione e simpatia, al sé confrontato al Dio che benedice, punisce, consola, senza mai fissarsi in un atteggiamento certo di sé, fisso, definitivo”15. Una predilezione del tutto particolare Ricoeur manifesta per la lettura tipologica proposta da Frye16. Confessa: “Se mi sono interessato a questo libro estraneo alle principali correnti dell’esegesi, è perché mette il testo al riparo della pretesa di ogni soggetto a reggerne il senso, sottolineando, da una parte, l’estraneità del suo linguaggio in confronto a quello che parliamo oggi, dall’altra la coerenza interna della sua configurazione in virtù dei suoi criteri interni di senso. Questi due tratti hanno una capacità estrema di decentramento rispetto a ogni impresa di autocostituzione dell’ego”17. Grazie a questa proposta è possibile cogliere che alla massima autonomia del testo

13 Su questo punto si possono leggere i saggi Entre philosophie et théologie II: nommer Dieu e Fides quaerens intellectum: antécédents bibliques?, ora in Lectures 3. 14 P. BEAUCHAMP, L’un et l’autre Testament. 1. Essai de lecture. 2. Accomplir les Écritures, Seuil, Paris 1976, 1990; L’uno e l’altro testamento. 1. Saggio di lettura, trad. it. di A. MORETTI, rev. di L. ARRIGHI, Paideia, Brescia 1985; 2. Compiere le Scritture, trad. it. di M. MILAZZO, rev. di L. ARRIGHI, R. VIGNOLO, Glossa, Milano 2001. Ricoeur prende in esame la lettura di Beauchamp in «Comme si la Bible n’existait que lue…», Exorde a ‘Ouvrir les Écritures’. Mélanges offerts à Paul Beauchamp, Paris, Cerf, 1995, pp. 21-28; Accomplir les Écritures selon l’un et l’autre Testament, in «Esprit» 275 (2001), 6, pp. 36-45. 15 RICOEUR, Herméneutique, cit., p. 50. 16 N. FRYE, The Great Code. Bible and Literature, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London 1982; Il Grande Codice. La Bibbia e la letteratura, trad. it. di G. RIZZONI, Einaudi, Torino 1986. 17 RICOEUR, Expérience et langage dans le discours religieux, in J.-F. COURTINE (dir.), Phénoménologie et Théologie, Criterion, Paris 1992, p. 25.

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corrisponde una massima responsabilità per il lettore, che giunge a sé solo immergendosi nel senso di un testo, proprio perché gli si mostra altro. Un’interpretazione poetica. Al termine di questa ricostruzione dell’ermeneutica biblica di Ricoeur, volendo ricondurla a una caratterizzazione unitaria, su suo suggerimento la possiamo chiamare poetica. Senza negare il valore del procedimento analitico proprio dell’esegesi storico-critica e strutturale, essa punta sulla totalità da cui dipendono le rispettive parti: l’unità letteraria guida la comprensione dei singoli passi; in questo caso la priorità appartiene alla configurazione globale che il testo possiede. Ma poetica rinvia anche all’aspetto creativo della lettura di cui avremo ancora occasione di parlare; propone un rapporto diverso con il testo, fondato sull’atto apparentemente più semplice, la lettura, preferito alla critica o alla spiegazione, le quali peraltro non possono fare a meno della lettura stessa, anzi ne sono un’attuazione specifica. Il pericolo del tentativo di Ricoeur potrebbe essere l’eclettismo, pericolo non scongiurato se i metodi storico-critico e strutturale fossero accolti e utilizzati a livello di mera giustapposizione e di controllo critico reciproco; oppure una forma di olismo ermeneutico, se il ricorso all’analisi fosse rifiutata e la sfida ontologica fosse lasciata cadere. Il livello integrativo della poetica cerca di evitare giustapposizioni o facili scorciatoie; rivendica per sé ciò che altri metodi non danno o singole imprese non codificano18. 2. Questioni di ermeneutica Il circolo ermeneutico. L’interpretazione poetica permette al lettore di cogliere in una unità letteraria la biblioteca e la polifonia della Bibbia, nelle sue unità parziali e nella sua interezza. Il testo diventa opera nell’interpretazione del lettore e dell’esegeta, che vengono coinvolti nel processo di appropriazione dal mondo del testo nella sua proposta positiva e insieme critica. Il compito della riflessione non si conclude con la qualificazione dell’ermeneutica come poetica (e viceversa). Restano ancora da affrontare alcune questioni, che vanno al di là della poetica e si pongono a un livello generale come pregiudiziali sotto il titolo di circolo ermeneutico. La questione del rapporto tra la parte e il tutto è presente nei vari tipi di lettura biblica elencati da Ricoeur - parcellare, intertestuale, globale -, tipi che nelle loro relazioni reciproche richiamano la circolarità assunta in vario modo dall’ermeneutica filosofica. Sul versante biblico-teologico è opportuno partire dalla formulazione che ne ha dato Bultmann: «Credere per comprendere, comprendere per credere». Fede e comprensione si implicano a vicenda; nella versione bultmanniana, come del resto in tutta la sua ermeneutica, si tratta del rapporto personale e singolare dell’individuo con la Parola che gli si rivolge e lo invita alla decisione. Ricoeur riprende questa formulazione all’interno di una strategia ermeneutica biblica più vasta. Infatti lo stesso circolo si presenta in modi diversi, sebbene la sua struttura di mutua implicazione non muti nelle sue linee generali. Il primo circolo è quello che si instaura tra la Parola (di Dio) e la Scrittura. La Scrittura per attestarsi come sacra deve appellarsi al fatto che trasmette la Parola di Dio; viceversa, la Parola di Dio, oggi, non ha modo di farsi udire che attraverso le Scritture. In questa attuazione del circolo, a dire il vero, si manifesta un’implicazione che è possibile trovare anche altrove; la parola viva scaturisce dalla scrittura, che si legittima per il fatto di far

18 Si può tuttavia consentire con l’osservazione di A. LACOQUE che ricupera il nocciolo dell’ermeneutica di ispirazione romantica: “Né il testo né l’autore scompaiono dal processo. L’idea non è separabile dal suo veicolo, l’anima dal corpo. L’ermeneutica resta l’ermeneutica del testo, prodotta dal suo autore. […] Il «su che cosa» è profondamente influenzato dal «che cosa» del testo. E, in definitiva, il «su che cosa» e il «che cosa» sono rivelatori di un genio con il quale vogliamo dialogare e dal quale vogliamo essere condotti…” (À propos de l’herméneutique de Paul Ricoeur, in L’Herne, p. 124).

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risuonare la parola, ma “se c’è una scrittura in ogni parola, come afferma Jacques Derrida, c’è una parola nella scrittura”19, ribatte Ricoeur. Il circolo si attua in un secondo modo: la Parola-Scrittura è tale solo perché c’è una comunità di credenti che la accoglie come dotata delle prerogative che essa si attribuisce; dunque la Parola-Scrittura è debitrice alla comunità, che a sua volta è ciò che dichiara di essere solo con il sostegno e l’attestazione di quella stessa Parola-Scrittura cui si appella. Senza Scrittura non c’è comunità; ma la testimonianza della comunità è essenziale alla Scrittura per essere riconosciuta come tale. Ricoeur include in questa modalità del circolo il rapporto tra Scrittura e Tradizione: la Tradizione si presenta come l’interpretazione autorevole della Scrittura e non c’è scrittura senza tradizione, come non c’è Scrittura senza comunità confessante. Ora, questo rapporto non è dato una volta per tutte, ma si arricchisce di tutte le sfide della storia della fede e le relative risposte, nella tensione tra la fedeltà alla Parola originaria e la necessaria creatività dell’interpretazione. Lo stesso circolo si allarga nella misura in cui la Scrittura entra in rapporto con la cultura nel suo senso più lato. Da sempre è stato così: la Scrittura mantiene profonde relazioni con le culture vicine ad Israele e d’altra parte la tradizione cristiana non ha mai cessato di allacciare rapporti fecondi tra la Scrittura e le culture dei popoli e dei tempi, rapporto che continua fino a noi e che di diritto appartiene alla storia dell’interpretazione. Il circolo, infine, si stabilisce anche tra singolo credente e Scrittura. La Scrittura è per lui parola di rivelazione, ma solo la sua risposta, l’obbedienza della fede, permette alla parola di risuonare come Parola di Dio. In questo ascolto la libertà del credente si realizza come scommessa; senza scommessa la circolarità diventa viziosa. Qual è però la vera ultima garanzia nell’interpretazione? “È lo Spirito che disegna il circolo più grande all’interno del quale la Parola e la Scrittura, la Scrittura e la comunità confessante, si costituiscono vicendevolmente. La fede, come è professata dai credenti, ma anche come può essere compresa in immaginazione e con simpatia nella sospensione della credenza, consiste allora nel credere che la «testimonianza interiore dello Spirito Santo» - dalla parte delle comunità di ascolto e di interpretazione - e l’ispirazione attribuita alle Scritture da queste comunità sono l’opera di un solo e stesso Spirito” (L3 326-327). Il mondo del testo: l’essere nuovo. Il mondo del testo, categoria centrale dell’ermeneutica, si ripropone anche nell’ermeneutica biblica, sebbene in una peculiarità irriducibile. Diversamente da Bultmann non si fa perno innanzitutto sulle categorie esistenziali o esistentive, perché “il compito primario dell’ermeneutica non è quello di suscitare una decisione nel lettore, ma anzitutto quello di lasciare che si dispieghi il mondo d’essere che è la «cosa» del testo biblico” (TA 126, 122). In questo mondo del testo troviamo le grandi «categorie bibliche»: alleanza, regno, ecc. Proprio di questo mondo è d’essere rivelante; la rivelazione non è una categoria generale, che trova poi una realizzazione tra le tante nella Bibbia. Solo la Bibbia apre alla possibilità di capire che cos’è rivelazione20 - e questa è colta non attraverso una comprensione psicologizzante dell’ispirazione, ma nell’individuazione degli assi strutturali di questo mondo, cioè di tutta la realtà com’è configurata nel e dal testo biblico. Questo mondo del testo non privilegia il singolo lettore, va oltre l’Io-Tu. “Il mondo biblico ha dimensioni cosmiche - è una creazione -, comunitarie - si tratta di un popolo -, storico-culturali - si tratta di Israele, del regno di Dio -, e personali. L’uomo è coinvolto secondo le sue molteplici dimensioni che sono anch’esse cosmiche, storico-mondiali e al tempo stesso antropologiche, etiche e personalistiche” (TA 127, 123). La Bibbia come testo ha una dimensione poetica che, se lo distanzia dal mondo ordinario, per altro verso ne dà una nuova comprensione: “andando fino in fondo e

19 RICOEUR, Le récit interprétatif. Exégèse et Théologie dans les récits de la Passion, «Revue des Sciences religieuses» 73 (1985), 1, p. 28. 20 Ricoeur distingue manifestazione (ierofania), rivelazione e proclamazione. Cf. Manifestation et proclamation, in «Archivio di Filosofia» 44 (1974), 2-3, pp. 57-76.

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ricavando le conclusioni estreme, non si giungerà allora a dire che, quanto si è così aperto nella realtà quotidiana, è un’altra realtà, la realtà del possibile?” (TA 128, 123). In questo possibile assume un posto determinante la relazione con il Dio che si manifesta e di cui si impara a conoscere il Nome; la Bibbia è il poema di Dio e del suo Cristo. Nel passaggio dall’uno all’altro testamento, nella polifonia dei testi, noi impariamo a raccoglierne e a interpretarne le testimonianze non come semplici spettatori, ma proprio esercitando la nostra lettura e, dunque, mettendo in gioco noi stessi. Se si deve abbandonare il quadro teorico e sistematico della Heilsgeschichte21 e se non si vuole rinunciare a una qualche unitarietà non solo formale, come quella offerta dalla lettura globale, ma anche di contenuto, si possono rintracciare alcuni concetti biblico-teologici che, rispettando la duplicità del discorso religioso e senza costituire un quadro interpretativo esterno, guidino il lettore all’Essere nuovo che si annuncia nel testo. Questo «nuovo» si annuncia come un «di più» ed è traducibile in concetti teologici attraverso la logica della sovrabbondanza e l’economia del dono, che troviamo nelle parabole e nella riflessione paolina. “In ambedue i casi una «logica» di Dio - che non è la logica dell’identità, ma del «qualcosa di più» emerge. Oppure, come dice Funk, in ambedue i casi «la rottura della tradizione lascia filtrare attraverso le spaccature un fugace barlume di un altro mondo»” (HB 246, EB 150). Il mondo del lettore. Siamo al punto culminante dell’impresa ermeneutica. Il testo che diventa opera nella lettura è il plesso di Parola-Scrittura-Tradizione-Spirito. Si tratta di precisare, attraverso il richiamo di alcune parole chiave, che cosa è in gioco nei vari tipi di lettura precedentemente elencati sotto il profilo dell’appropriazione. Per prima viene la fede: scaturisce dal mondo del testo in una dimensione iperlinguistica che sfugge all’ermeneutica, pur non potendo fare a meno del linguaggio per esprimersi. La fede in quanto tale è “il limite di ogni ermeneutica così come l’origine non ermeneutica di ogni interpretazione; il movimento senza fine dell’interpretazione comincia e si compie nel rischio di una risposta che nessun commento sa né produrre né esaurire” (TA 130, 126). La fede dunque precede e segue l’ermeneutica, sebbene si articoli sempre in un linguaggio e in un’interpretazione. Nell’atto stesso dell’appropriazione che si realizza come comprensione di sé davanti al testo, permane la distanza che in questo caso assume il tratto della critica delle illusioni e dunque del soggetto. Con ciò si palesa che l’insistenza sulla lettura non vuol dire soggettivismo; anzi si richiede un alto esercizio di responsabilità e, quasi in proseguimento dell’istanza profetica della Scrittura, si deve osare includere la critica del sospetto. “Un’«ermeneutica del sospetto» è oggi parte integrante di ogni appropriazione di senso. Con essa si persegue la «de-costruzione» dei pregiudizi che ostacolano il venire all’essere del mondo del testo” (TA 132, 127). La fede incorpora la sfida che le viene da altre letture e le risponde con le risorse del mondo del testo che esplora. Nel progetto di ermeneutica biblica di Ricoeur l’attenzione posta all’immaginazione è forse la sottolineatura più singolare. La Parola prima ancora che dirigersi alla volontà si volge ad essa, perché ogni risposta la include. “L’immaginazione è questa dimensione

21 La categoria ha a che fare con quella di die Geschichte selber e la sua dinamica progressiva. In La memoria, la storia, l’oblio Ricoeur porta a conclusione la critica a quella categoria: “L’effetto devastante fu particolarmente visibile riguardo alla versione teologica del topos del progresso, e cioè all’idea di Heilsgeschichte - «storia della salvezza» - che deriva dall’escatologia cristiana. In verità, il topos del progresso aveva innanzitutto beneficiato di un impulso venuto dalla teologia grazie allo schema della «promessa» e del «compimento», che aveva costituito la matrice originale della Heilsgeschichte all’interno della scuola di Göttingen fin dal XVIII secolo. Ora, questo schema ha continuato a nutrire la teologia della storia fino alla metà del XX secolo. Il contraccolpo del tema della relatività storica sulla Heilsgeschichte fu severo. Se la Rivelazione è essa stessa progressiva, si impone il suo reciproco: la venuta del regno di Dio è essa stessa uno sviluppo storico e l’escatologia cristiana si dissolve in un processo. Anche l’idea di salvezza eterna perde il suo referente immutabile. Così, il concetto di Heilsgeschichte, proposto innanzitutto come un’alternativa alla storicizzazione, salvo a funzionare come un doppione teologico del contenuto profano di progresso, si è rovesciato in un fattore di storicizzazione totale” (La mémoire, l’histoire, l’oubli, pp. 398-399, trad. it. pp. 439-440).

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della soggettività che risponde al testo come Poema. ... una poetica dell’esistenza risponde alla poetica del discorso”. La Bibbia parla anzitutto all’immaginazione “offrendole i «figurativi» della mia liberazione” (TA 132-133, 128-129); se non cambia l’immaginazione con l’apertura al possibile, non c’è conversione della volontà e dell’esistenza. “Niente azione senza immaginazione” (TA 224, 215). Al possibile fa seguito l’azione - forse il punto più alto dell’applicazione. Questo aspetto, mai approfonditamente indagato da Ricoeur in campo biblico, affiora continuamente nella sua riflessione sull’azione; se l’azione può essere letta come un testo, se il racconto articola la struttura prenarrativa dell’azione, ciò che si può dire dell’interpretazione del testo, in particolare della sua applicazione, può anche essere trasferito all’azione. L’azione presentata dalla Bibbia diventa allora azione regolativa - nel senso di attività interpretante creatrice - per l’azione singola o comunitaria dell’interprete. Di qui potrebbe prendere l’avvio di una poetica biblica della libertà che si misura con l’azione e la ragion pratica. “L’ampiezza del mondo del testo richiede un’ampiezza uguale dal lato dell’applicatio, che sarà tanto praxis politica quanto lavoro di pensiero e di linguaggio” (L3 304)22. Ma il raccordo più potente tra mondo del testo e mondo del lettore, si potrebbe dire l’interfaccia, sembra proporsi nella testimonianza, che assume in questo modo il ruolo di categoria ermeneutica per eccellenza. Nel senso religioso il significato profano di testimonianza (constatazione oculare che si deposita in un racconto, entro un contesto giudiziario o documentario) assume i tratti della proclamazione e dell’impegno personale. Questi conferiscono al racconto, si veda il caso del Vangelo di Giovanni, una tensione acutissima per il suo stile di confessione. È la natura duplice della testimonianza a farne una categoria ermeneutica fondamentale, “un atto della coscienza di sé su se stessa e un atto della comprensione storica sui segni che l’assoluto dona di sé” (L3 129). Nell’indagarla Ricoeur ha fatto ampio ricorso alla meditazione di Nabert23. Ermeneutica e testimonianza sono solidali nel respingere un sapere assoluto, a cui oppongono l’umile e perseverante impegno nella decifrazione dei segni dell’Assoluto. Della testimonianza l’ermeneutica condivide la fragilità storica e l’assolutezza dell’attestazione; a sua volta la testimonianza, grazie all’interpretazione, può, pur restando solo un segno, una parola o un’azione, indicare l’Altezza e l’Esteriorità della sua provenienza secondo la logica della sovrabbondanza che lo connota. L’ultima parola della filosofia del sé sulla via dell’ontologia è l’attestazione; la prima e l’ultima dell’ermeneutica e della teologia biblica è la testimonianza. Sul confine si richiamano per quel di più che caratterizza entrambe e in cui si fa presentire, in una, l’alterità del sé, nella seconda, l’Alterità tout court. “L’attestazione punta verso l’estrema interiorità, la testimonianza - sarebbe meglio dire le testimonianze - si dispiega nell’esteriorità della storia. Riguardo al carattere centripeto dell’attestazione, vorrei dire che l’ermeneutica del sé ne dona un presentimento facendo dell’attestazione la convinzione intima dell’uomo capace, la certezza e la fidatezza, la fiducia e la confidenza, che «io posso», che io posso parlare, agire, raccontarmi, ritenermi responsabile dei miei atti. È nel prolungamento di questa intima convinzione che la confessione propriamente religiosa può appellarsi a ciò che l’apostolo chiama «la testimonianza interiore dello Spirito Santo». Ma il movimento centripeto dell’attestazione esige la sanzione, la verificazione, l’incoraggiamento delle testimonianze date fuori di noi, nella storia esterna, in quegli atti con cui degli esseri rendono testimonianza, secondo l’espressione di Jean Nabert, al divino: sacrificio, sublime, perdono, tutti segni dispersi della presenza dello spirito nella storia”24. 22 Anche la saggezza tragica ha il potere di convertire lo sguardo e riorientare la praxis. Cf. Soi-même comme un autre, p. 288, trad. it. p. 352. 23 Oltre a Herméneutique du témoignage (Lectures 3) si devono tener presenti L’atto e il segno secondo Jean Nabert (Le conflit des interprétations) e Emmanuel Lévinas, penseur du témoignage (Lectures 3). 24 RICOEUR, De l’Esprit, in «Revue philosophique de Louvain» 92 (1994), 2-3, pp. 251-252.

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b) EN PHILOSOPHE: IL PENSIERO DELLA BIBBIA Pensiero biblico e pensiero filosofico. Per pensare la Bibbia, il filosofo si mette alla scuola dell’esegesi attraverso un apprendistato che comporta diverse esigenze. La decisione è guidata da un’ipotesi che la ricerca deve consolidare: “Vi è un pensiero fuori della filosofia, sia essa di tipo greco, cartesiano, kantiano, hegeliano, ecc. D’altra parte non c’è un pensiero nei grandi testi religiosi dell’India, un altro nelle espressioni metafisiche del buddhismo? La prima cosa su cui scommette il filosofo è che i generi letterari… sono modi di discorso che danno di che pensare filosoficamente” (PB 14, 15). La filosofia è giustificata nell’avviare questa fase di ascolto e dialogo perché ritiene di poter presupporre che nei testi religiosi sia contenuto un pensiero, non riducibile a soli aspetti emozionali e irrazionali o anche solo non pertinenti. Il secondo presupposto impone come indispensabile un’attenta e paziente indagine letteraria; il pensiero, se c’è, si dà nella trama di un testo dotato di caratteristiche specifiche: “Questo pensiero si legge in un corpus di testi irriducibili a quelli che egli è solito scandagliare quando «fa filosofia», nel senso accademico e professionale del termine” (PB 14, 15), testi differenti dal dialogo socratico, dal trattato aristotelico, ecc. Come suggerisce Frye, bisogna risalire al di qua tanto del discorso scientifico descrittivo ed esplicativo quanto del discorso apologetico, argomentativo e dogmatico, fino al linguaggio metaforico, di cui la poesia è l’equivalente profano più vicino. C’è ancora un’ulteriore rilevante differenza. Occorre considerare e rispettare il rapporto tra i testi del corpus biblico e le loro comunità storiche di lettura e di interpretazione. “Si presenta qui un vero circolo ermeneutico, che per il filosofo è fonte di stupore e di perplessità, soprattutto quando in lui la critica prevalga sulla convinzione. Il circolo è questo: interpretando queste scritture, la comunità in questione interpreta se stessa. Si produce qui una sorta di elezione reciproca” (PB 15, 15-16). Il circolo non è vizioso perché il ruolo di fondazione attribuito ai testi sacri e la condizione fondata della comunità storica non sono intercambiabili. “Il testo fondatore istruisce: è il senso del termine «torah», mentre la comunità riceve l’istruzione. Anche quando questa relazione oltrepassa quella tra autorità e obbedienza per elevarsi ad un legame d’amore, la differenza di altezza tra la parola che istruisce con autorità e quella che risponde con riconoscenza non può essere abolita. A questo proposito, la fede non è altro che la confessione di questa dissimmetria tra la parola del maestro e quella del discepolo e tra le scritture nelle quali questi due tipi di parole si inscrivono” (PB 15-16, 16). Il rapporto tra testo e comunità suggerisce di considerare la chiusura del Canone “come la causa e insieme l’effetto di questa affinità elettiva tra testi fondativi e comunità fondate” (PB 16, 16). Il filosofo deve entrare in questo circolo se vuole conoscere qualcosa come il pensiero biblico. Sotto il segno di questa triplice presupposizione “è possibile creare lo spazio per quella forma mista di pensiero che nasce dall’intersecarsi del pensiero biblico con le forme di pensiero delle culture che lo accolgono, diverse da quelle di ebrei e cristiani” (PB 16, 16). L’incontro con le filosofie greche non è stato una sfortuna né una perversione; grazie a questo rischio fu assicurata la perennità dei testi biblici. L’incontro è diventato il destino costitutivo della nostra cultura, “un compito con cui la nostra riflessione deve misurarsi con onestà e responsabilità totali” (PB 17, 17). Ma oggi la traiettoria di lettura ha raggiunto una portata più vasta, a contatto con una grande varietà di culture, con una filosofia nel frattempo mutata, in un contesto non sempre predisposto all’ascolto. “La flebile voce delle scritture bibliche si perde nel chiasso incredibile di tutti i segnali che ci si scambiano. Ma il destino della parola biblica è quello di tutte le voci poetiche. Potrebbero, forse, queste essere intese al livello del discorso pubblico? La mia speranza è che ci siano sempre poeti e orecchie per ascoltarli. Il destino minoritario di una parola forte non è soltanto quello della parola biblica” (CC 254, 235). Pensare la Bibbia vuol dire pensare Dio a partire da quel grande contenitore di testi che è la Bibbia, i libri per antonomasia nella loro molteplicità e varietà. La scelta dei testi in Come pensa la Bibbia non è affatto casuale, in quanto l’antologia si propone di

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individuare i generi letterari fondamentali attraverso cui il pensiero biblico si esprime. La scelta cade in particolare su passi dell’Antico Testamento, attraverso cui però viene fatto filtrare, più in continuità che in rottura, il Nuovo Testamento25. L’attraversamento dei contributi di Ricoeur ha per filo conduttore principale il molteplice e biblico dire Dio, nella prospettiva generale già indicata: di più e altrimenti. In questo esercizio sono coinvolti il pensiero e, conseguentemente, la filosofia, quella di Ricoeur e quelle che non si siano già pregiudizialmente definite in forma autarchica. Bibliografia ricoeuriana (abbreviazioni nel testo) CC La critique et la conviction, 1995. CI Le conflit des interprétations, 1969. FC Finitude et culpabilité, 1988. HB L’herméneutique biblique, 2001. L Lectures 3. Aux frontières de la philosophie, 1994. PB Penser la Bible, 1998. TA Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, 1986. TR Temps et récit 1, 1983.

Osservazioni a. Nelle citazioni il primo numero indica la pagina relativa al testo in lingua originale, il

secondo si riferisce alla traduzione italiana. b. Per la completezza dei dati bibliografici si rimanda all’elenco delle opere di Ricoeur

riportato in fondo al libretto. 25 La scelta è dettata dal dialogo con LaCoque che è un anticotestamentarista. C’è però anche dell’altro, che crea l’affinità con Beauchamp: “Ciò che mi è parso l’originalità della sua scelta di lettura, è quel tipo di ritardo che egli impone a se stesso prima di entrare nel Nuovo Testamento: «La cosa strana è che una lettura che prende forma dal Vangelo sia portata a tenere a distanza il Vangelo»” (Comme si la Bible n’existait que lue…, cit., p. 28).

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L’identità narrativa e il perdono nel pensiero di Paul Ricoeur∗

ALBERTO MARTINENGO

Pagine 20-29: in attesa di permesso per pubblicazione

∗ Questo testo riprende, con qualche modifica, il saggio “Ermeneutica del soggetto ed esperienza del perdono nel pensiero di Paul Ricoeur”, pubblicato in MAURO PIRAS (a cura di), Saggezza pratica e riconoscimento. Il pensiero etico e politico dell’ultimo Ricoeur, Meltemi, Roma 2007, pp. 189-207.

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Uno sguardo all’opera di Paul Ricoeur

Tra sintesi e scorci panoramici sul saggio di Oreste Aime: «Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur»

(Cittadella, Assisi 2007. Pagg. 812) Ad uso didattico

PIER GIUSEPPE PASERO

* Dai testi di Ricoeur a un testo su Ricoeur Ripercorrere a grandi linee un testo denso per contenuti e visioni prospettiche, laborioso per struttura e voluminoso per estensione (si sfiorano le 800 pagine, le si superano con la Bibliografia e gli Indici) è impresa destinata a portare il sigillo dell’incompiuto. Si tratta infatti di un testo che è a sua volta sintesi e versione interpretativa del pensiero di uno dei filosofi tra i più significativi del Novecento, una sorta di esame critico a tutto campo e dettagliato, con una calibratura che agli occhi del lettore non può non risultare quale maturazione effettuata in anni e anni di paziente studio e lavoro. Senza dubbio si è in presenza di un’attività nel cui svolgimento è richiesta la capacità di mettersi con rigore e vigore alla scuola del maestro che diventa pretesto di riflessione, accogliendone punti di vista da vagliare e pregi da interiorizzare. E in coerenza con la filosofia che l’autore richiamato sottende, la riflessione si concretizza nella forma di un rimanere instancabilmente nel dialogo e nell’apertura. È quanto il professor Oreste Aime ha cercato di attuare nell’elaborazione del suo notevole saggio «Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur» (Cittadella, Assisi 2007). Nel filosofo francese preso in considerazione, la molteplicità di interessi e l’ampiezza di orizzonti si fondono con il fecondarsi reciproco degli approcci. Attraversare il XX secolo prestando attenzione a tutta la sua complessità e con libertà da schieramenti ideologici, ma non disconoscendo nulla di quanto profilato su ogni fronte, anzi, cercando di valutarne la portata semplicemente perché si comincia a fare storia quando ci si riconosce parte della sua totalità, comporta assumere un atteggiamento intellettuale e morale che non di rado esorbita dalla visibilità e dal successo. Forse per questo il nome di Paul Ricoeur (1913-2005) non sempre risuona nell’elenco dei nomi celebri che si riconoscono almeno come un’eco per sentito dire, benché più rara sia anche di loro l’autentica conoscenza. Ma star fuori dalla filosofia dominante non implica un non esser grandi. Quell’esorbitare potrebbe coincidere con un eccedere i limiti. Non quindi un essere al di sotto, ma al di sopra. D’altra parte è giusto dubitare del fatto che il meglio risieda laddove un qualsiasi prodotto si fa oggetto di consumo di massa, e pensare che lo stesso dubbio sia estensibile ai risultati che, in modo analogo, lungo i tempi della storia è lo spirito umano a conseguire. Tra le caratteristiche della riflessione di Ricoeur va anzitutto ricordato che la sua è una filosofia che si misura sì con voci autorevoli della storia del pensiero, ma altrettanto con voci meno imponenti, quasi una convocazione in tavola rotonda di autori la cui originalità consiste nell’essere inesauribili fonti cui attingere freschezza ad ogni ritorno, autori che non perdono il carisma della provocazione. Ne deriva come corollario la capacità di aprire anche ciò che a prima vista può apparire chiuso, per esempio un sistema filosofico. Se si discende più in profondità è il caso di dire, parlando di Ricoeur, che nella sua rievocazione di un autore qualsiasi occorre prestare attenzione alla messa in gioco non solo dell’autore, ma più in generale della stessa storia del pensiero che

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rimbalzando anche solo frammentariamente in quell’autore riflette orizzonti ben più estesi e, con essi, i vari ambiti del sapere e dell’agire. Si delinea così una ricerca tenace che si misura ininterrottamente con vecchie e nuove acquisizioni. Una ricerca che per di più non dimentica che un percorso di riflessione non soltanto rivede, lascia cadere, valorizza o riprende un passato che non passa, ma si fa carico di sottoporre al medesimo processo critico il proprio percorso di riflessione. Al tutto s’aggiunga che una sapiente azione di coordinamento tra fronti che sembrano opporsi ed orizzonti che s’intersecano costituisce un’esemplare espressione di trascendimento di quel relativismo troppo facile e solo apparentemente dimissionario il quale, mentre ha la pretesa di stare al di sopra di ogni verità, si pone come nuova indiscussa verità, con fare militante che deride ma di cui si può ridere, più frutto di fiacchezza di pensiero che non di ricerca in spirito di credibile apertura. Perché questa si dà non quando ci si mette davanti un presunto «tutto» eguagliandone col giudizio le manifestazioni, ma quando in quel «tutto» si entra responsabilmente, s’individuano fattori positivi da rilanciare nell’attualità almeno come criteri di lettura, onde in primo luogo si percepiscono prossimità più che distanze, spinte attive che implicano scelte sia lungo il corso della storia che lungo il corso della propria storia. Dunque «riflettere» richiamandosi ai filosofi e alla storia del pensiero significa far interagire pensatori e filosofie estrapolando da entrambi nodi problematici e luoghi di latenza, un compito straordinario e uno straordinario destino per chi in sé e intorno a sé voglia far interagire in armonia senso ed essere, pensare ed agire. Così la diacronicità attraverso cui s’estende la produzione umana interpella ogni sincronicità, ovvero il presente in quanto molteplicità, mentre il passato non resta confinato in un semplice «non più» e si fa invece contemporaneità. L’estensione dell’opera ricoeuriana risulta davvero oceanica. L’impronta di apertura che non omette e non censura, che procede senza sosta con calibro e misura, che lungo il tempo della creatività umana cerca germogli sparsi, li coltiva ed irrora… restituisce alla medesima un grado di elevata complessità. Un merito incomparabile risiede inoltre nel fatto che al giudizio dualizzante della cernita e dello scarto si sostituisce il motto del «lasciarsi istruire», una modestia intellettuale che prima di ascriversi al regno delle virtù va considerata nell’efficacia del risultato che ne deriva. Ad un primo approccio non deve stupire se dall’insieme si resta incalzati da un’impressione di rapsodia che sospende il giudizio sull’unitarietà dell’opera. In realtà, se di attività rapsodica si tratta, essa non è che l’incipit a numerose riprese di un lungo percorso che sempre cessa e sempre ricomincia, un salire a spirale e uno stare in cammino dove il tutto è un evento e non un sistema. L’attenzione a quell’evento, che s’estrinseca come varietà e molteplicità, richiede un discendere nei pressi, un passare e tornare, un retrocedere per poter nuovamente avanzare, un riprendere per approfondire. L’immagine potrebbe essere quella del sassolino gettato in acqua, il cui affondamento produce in superficie piccole onde che ne segnano la presenza in cerchi sempre più ampi. Un diversificarsi ed ingrandirsi con punto di riferimento nel medesimo centro. La liberazione dal sistema va letta come pregio e non come limite, riflesso di un tragitto itinerante che in qualche modo è già meta nel semplice porsi in atto. La verità non si dà nell’esclusività di un luogo, dunque non si chiude in nessuna struttura e in nessun apparato, ma emerge con gradualità grazie ad una ricerca di soggetti in attiva relazione reciproca. Verità e senso attraggono l’uomo da un già e da un non ancora, sono dunque la fonte del suo lungo peregrinare, che però non è un vagare a vuoto, ma un’espressione di libertà sul non limite di tutto quanto, pur avendo forma, richiede pensiero senza togliere spazio a riformulazioni, in quel percorso ontologico dell’interpretazione non di rado conflittuale, e tuttavia assolutamente reale, da cui ogni effettivo riflettere non può prescindere. Perché quel conflitto apre uno spazio di ricerca e in definitiva richiede un’attività filosofica che, oltre il frammentario, e pur tra il volutamente incompiuto ed asistematico, riconsegna all’opera uno spirito di organicità, come sottolinea Aime quando scrive: «Pur non volendo realizzare un sistema, il suo è un pensiero organizzato e non solo rigoroso, organico nonostante l’andamento saggistico» (761).

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L’articolarsi del libro in cinque parti non offre una struttura rigida, anzi, sono proprio le riprese interne alla trattazione a conferirle elasticità e movimento, un progredire nella ricerca che qualche volta procede per passaggi solo lievemente percettibili, ma che, dato il metodo e il contesto, s’armonizza con coerenza sul piano programmatico di fondo. Anche quelle che possono sembrare ripetizioni in realtà lo sono solo apparentemente. Una lettura più concentrata vi riscontra invece svolgimenti e scioglimenti, nuove sintesi, un modo intenzionale di avanzare che da un unico centro d’irradiazione tenta di seguire ogni volta una radiazione diversa. Così è della replica di alcune citazioni: non tanto un ridire, ma, se può valere un’immagine carpita all’arte pittorica, un mostrare l’effetto differente di un medesimo cielo in dipinti in cui quel cielo si staglia come sfondo su scene diverse. D’altro canto le citazioni di Ricoeur nell’opera di Aime sono talmente numerose e non sempre brevi, da giungere a costituire una sorta di significativa antologia lungo il corso della trattazione. La suddivisione delle cinque parti in singoli capitoli - composti a loro volta di paragrafi e brevi sottoparagrafi (una necessità assoluta per qualsiasi principiante o non, in cerca di orientamento) - ne alleggerisce l’andamento e ne distilla con gradualità la recezione. Un pregio da non sottovalutare è la scelta di brevi passi epigrafici riportati in fronte ad ogni capitolo. Scelte efficaci e felicemente riuscite, per la maggior parte desunte, senz’altro non a caso, da testi di poeti di varie nazionalità e mai estrinseche, segno che la lezione di Ricoeur ha inciso profondamente nell’animo di un suo studioso, o forse, capovolgendo la prospettiva, segno che solo chi dimora in una molteplicità e multiformità di interessi può trovare consonanza d’animo ed intesa con un autore come Ricoeur, divenendo così candidato a interpretarlo e riferirne. Le cinque parti portano rispettivamente i seguenti titoli: I. Una filosofia riflessiva. II. Fenomenologia ermeneutica e ontologia. III. Uomini nel tempo. IV. Antropologia filosofica. V. La filosofia e il suo altro. Conclude il testo un finale dal titolo «Opera aperta». In analogia con la medesima distribuzione procederà lo strutturarsi delle pagine sottostanti. Data la vastità dell’opera che ne costituisce l’oggetto di rimando, risonanza della suddetta vastità oceanica e del valore poliedrico dell’opera dell’autore che ne sta a monte, più che riassumere o recensire si cercherà di procedere almeno per scorci panoramici, non da ultimo con l’utilizzo di citazioni, il cui scopo risiede nel costituire una piccola antologia intratestuale dei passaggi più significativi che vi sono evidenziati. 1. Una filosofia riflessiva (parte prima)

♦ Il capitolo di ouverture, Lo stupore, le domande, le opere, s’imposta chiarificando quale sia per Ricoeur l’incarico del filosofo: non tanto un uomo che risponde, quanto un uomo che pone domande. Lo stupirsi per l’essere nel mondo lega uno specifico domandare alla singolarità del «qualcuno» in cui la domanda si fa strada. Si precisa allora che «la filosofia di Ricoeur è la filosofia riflessiva alla ricerca di se stessa in dialogo con la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, la filosofia del linguaggio e in rapporto costante con le scienze, quelle umane in particolare» (10-11). L’asse del progetto iniziale di una Philosophie de la volonté si sposta pian piano verso l’asse tematico della filosofia del linguaggio, ma il tema dell’azione nell’ultimo Ricoeur mostra un ricongiungimento agli esordi. Tra iniziazione, maturazione e fondazione di un pensiero autonomo, l’opera filosofica di Ricoeur s’instaura sul principio di un «consenso al mondo», quindi all’essere, che oltrepassi «tanto l’estatico sì quanto il no della rivolta», fino al delinearsi di «un’ontologia della conciliazione, nel segno non della dialettica ma della speranza» (16). Non meno importante è il problema della storia affrontato in Histoire et vérité, di fronte alla quale sia la ricerca filosofica che l’attività concreta sono chiamate ad evitare la polarizzazione su dogmatismo o scetticismo, col pericolo della totalizzazione. La seconda parte dell’opera Philosophie de la volonté appare distinta nei due tomi di Finitude et culpabilité. Nel primo, L’homme faillible, «la costituzione dell’uomo, teso tra

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finito e infinito, si palesa a tre livelli: nel suo essere al mondo, nella relazione pratico-etica con l’altro e nella relazione con se stesso» (18). Nel secondo, La symbolique du mal, il problema del male in quanto errore e colpa lascia trasparire un’opacità che dissolve i tentativi di comprenderlo in un rapporto etico con la libertà. Qui ogni riflessione svela la propria insufficienza e deve perciò trasfigurare se stessa grazie ad un innesto sull’ermeneutica, col ricorso all’interpretazione di simboli e miti in cui sono custodite intuizioni essenziali. L’accoglienza della sfida della psicoanalisi, che irrompe tramite l’opera di Sigmund Freud, induce Ricoeur ad un’interessante e proficua lettura filosofica di questo grande momento della storia della cultura, che lo porta alla stesura di due saggi notevoli: De l’interprétation. Essai sur Freud e Le conflit des interprétations. In antitesi con la fenomenologia, la psicoanalisi riduce la coscienza a pulsione e nell’indagine si qualifica, secondo un’espressione sintetica, come «archeologia del soggetto». L’originalità di Ricoeur consiste in un passaggio che connette «indagine sull’origine» e «sguardo verso il fine». Esso è presagibile «o in una teleologia dello spirito, polarmente opposta all’archeologia e detentrice di un significato filosofico ultimo della storia (Hegel), o in una escatologia del Sacro, che ha fatto sua la critica al simbolo nella misura in cui questo, irrigidendosi nella sua funzione di appagamento delle istanze psichiche, si trasforma in idolo» (21). Sotto il magistero di Ferdinand de Saussure un’altra sfida attende Ricoeur, una sfida che lo condurrà alla svolta linguistica e semiologica. In La métaphore vive è rivendicata alla metafora una carica euristica ed ontologica, perché nel dire ed immaginare di più ed altrimenti che la metafora profila viene richiesto per suo tramite di pensare di più ed altrimenti sul piano concettuale. Alla domanda fondamentale nella fenomenologia di Edmund Husserl e di Martin Heidegger su che cosa sia il tempo, Ricoeur cerca di far fronte in un’opera in tre tomi, Temps et récit, ove si confrontano filosofia, storiografia e poetica (narratologia). Nell’opera Soi-même comme un autre si effettua un passaggio dall’ermeneutica del sé, una categoria introdotta per sostituire la più classica categoria del soggetto, all’ontologia, passando attraverso l’etica. Nei tre volumi delle Lectures, Ricoeur affronta il problema del rapporto tra filosofia e politica, sostenendo «l’autonomia della politica come prassi e come teoria dall’economia e dall’etica» (28). Il terzo volume contiene numerosi articoli riguardanti la filosofia della religione. Del tutto particolare è il rapporto di Ricoeur filosofo con le Scritture ebraico-cristiane, questione che egli ha cercato di chiarire in Penser la Bible. All’etica e al diritto sono dedicati i due tomi Le Juste, che aprono un capitolo finora inedito. «La vita etica, ma anche quella politica e culturale, è un’ininterrotta mediazione di convinzione e argomentazione». L’economia del “Giusto” «andrà compensata dal richiamo all’eccedente, che si annuncia nel dono e si realizza nell’amore e nel perdono, entrambi difficili» (29). Appartiene ad un analogo contesto Parcours de la reconnaissance, ultima pubblicazione che, se chiude un cammino storico di ricerca, in realtà ne mostra ancora una volta l’apertura. L’impronta etico-politica e giuridica dell’indagine apre infatti a spazi che oltrepassano quell’impronta e interrogano l’uomo contemporaneo tra dimensione di finitezza e rapporto con l’alterità. In La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, in collegamento ideale con le intuizioni esposte in Histoire et vérité, «Ricoeur approfondisce la struttura epistemologica dell’operazione storiografica in tutte le sue fasi (dall’archivio alla rappresentazione) e la colloca, con maestria, tra due “grandezze” antropologiche, la memoria e l’oblio, indagate attraverso i percorsi della fenomenologia ermeneutica». Uno studio sul «perdono difficile» fa da epilogo al saggio. Dopo questa carrellata sulle opere, lo studio di Aime precisa le fasi della ricerca ricoeuriana (fase di formazione, fenomenologia esistenziale, riflessione ed ermeneutica, filosofia del linguaggio e fenomenologia ermeneutica, etica ed approdo ontologico), con l’intento di indicarne, oltre i mille rivoli tematici, l’unità di fondo. Sbocciata come filosofia della volontà e passata per un’enorme quantità di variazioni, in Ricoeur resta costante il perseguimento di una filosofia del soggetto.

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♦ Le avventure della riflessione. Che cosa s’intende con l’espressione «filosofia riflessiva»? Essenzialmente una «filosofia del soggetto» in una prospettiva non univoca e quindi sempre riformulabile sotto la pressione delle contestazioni. L’articolazione della fenomenologia sul pensiero riflessivo costituisce un primo passaggio originale. Al contempo l’impianto fenomenologico si colora di una variante esistenziale incentrata su tre temi: il corpo proprio, l’altro, la libertà. Né deve essere dimenticata l’importanza per la fenomenologia della filosofia analitica (Ludwig Wittgenstein), se non altro per il fatto che «il linguaggio custodisce il campo dell’esperienza fenomenologica» (c56). Il lungo percorso dell’ermeneutica si apre come necessità di far fronte alla riflessione nel momento della sua incapacità a rendere conto del male. Il recupero dei miti e dei simboli del male, affrontato con audace capacità di interrogare, inaugura un rapporto straordinario con quelli che si possono definire «segni culturali» (58), mentre la filosofia ridefinisce il proprio compito e il proprio metodo cominciando da qualcosa che è altro da sé. Oltre la storia dell’ermeneutica, i cui contributi imprescindibili rinviano ai nomi di Friedrich Schleiermacher, Wilhelm Dilthey, Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, e la critica dell’ermeneutica, basata in particolare sulle contestazioni provenienti dalla psicoanalisi e dalla linguistica strutturale, ma per recuperarne la forza all’interno dell’ermeneutica stessa, onde il significato dell’espressione ermeneutica restauratrice o di ermeneutica creatrice di senso, essa si determina con l’effettuazione di tre passaggi: l’interpretazione dei simboli e dei miti, l’interpretazione dei testi, l’interpretazione dell’azione e del sé. Vengono così a correlarsi riflessione, fenomenologia ed ermeneutica. Detto in formula sintetica: «una filosofia riflessiva in stile fenomenologico ed ermeneutico» (69). Ma mentre la fenomenologia predilige distinguere profilandosi come arte del saper differenziare, l’ermeneutica indugia e rinvia escludendo la conclusività. Fuori dalle estremizzazioni, «colui che interroga e la cosa interrogata, prima di assumere lo statuto di soggetto e di oggetto polarmente correlati, si coappartengono in una relazione di inclusione. Espressa in modo negativo questa condizione ontologica può essere indicata come finitezza, che costringe il soggetto a rinunciare alla pretesa di erigersi a fondamento ultimo» (73). Altro fattore che rende intercomunicanti fenomenologia ed ermeneutica è la scelta per il senso, con un appello all’intenzionalità del primo Husserl. Nel portare avanti un’impresa così complessa non si deve infine prescindere dall’imprimerle una movenza dialettica, in accoglienza di un’ispirazione ed istruzione hegeliana che non comporta un riflusso del suo sistema. Il terreno d’applicazione resta soprattutto quello dell’esperienza storica e della prassi.

♦ Che cos’è la filosofia? Immediatamente viene posto il problema del rapporto tra filosofia e non filosofia. Forma specifica ed autonoma di sapere, grazie a cui riceve un’identità propria e inconfondibile, alla filosofia compete un compito di «controllo critico riflessivo e speculativo», che include un’azione di arginatura di qualsivoglia pretesa totalizzante. Interessante diventa la questione delle sue fonti. «Dove comincia la filosofia? Dall’universo di senso che la precede e l’avvolge. Dove finisce? Non c’è un termine, perché il lavoro di riflessione, descrizione e interpretazione non è mai concluso. Per la filosofia ci sono radici, ma non limitazione di indagine» (84). L’originalità della questione sulle fonti emerge però dal riconoscimento che la filosofia, che riflette su varie forme di esperienza (scientifica, etica, estetica, religiosa), le trova soltanto fuori di sé, in ciò che propriamente filosofia non è. Dunque le riceve per il fatto stesso di andare in cerca del suo punto di partenza. E il legame della filosofia con la non-filosofia resta un fatto vitale, salvaguardia di una differenza. Delicata è la questione del rapporto tra filosofia e scienza. Il concetto di episteme caratterizza il divenire del pensiero occidentale fin dai suoi primordi. Ma il pensiero moderno è spesso rimasto all’insegna del puro conflitto tra filosofia e scienza. Alla filosofia si richiede di non rompere il dialogo con le scienze, siano esse le scienze della natura o le

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scienze dello spirito. La loro continuità risiede nell’omogeneità delle procedure esplicative, mentre la comprensione ne fa spiccare la differenza in quanto costituisce lo specifico delle scienze umane. La scienza, che l’idealismo svaluta e il positivismo enfatizza, costituisce comunque e sempre un vigoroso preambolo per una conseguente retta comprensione. Infine, per la sua duplice appartenenza al campo teorico e pratico, la scienza ha a che fare con idee regolatrici aventi una funzione meta-, che nel caso in questione sono date da verità e giustizia. Se in relazione alla verità si può far echeggiare l’antica definizione adaequatio rei et intellectus, «la scienza come impresa e istituzione, paragonabile alla politica e alla tecnica, esige il raccordo con la giustizia» (93), richiesta nel passaggio che va da un progetto scientifico alla sua realizzazione entro una comunità di ricerca tesa tra conflitti e consensi. Una domanda inevitabile riguarda la relazione che intercorre tra storia della filosofia e filosofia. Verso il passato della filosofia, in un cammino di anamnesi, ci si dirige sul binario di debito e possibilità. Il primo è riconoscimento di momenti vitali e inestinguibili della storia dello spirito. La seconda è invece evocazione di dimensioni inesplorate o rimosse, quindi ancora futuribili. Il passato consegnato come storia della filosofia non è solo eredità di conoscenza, ma luogo ancora predisposto allo sbocciare di interpretazioni e sollecitazioni, un’«opera aperta» (95) da cui sospingere verso l’attualità una serie imprevedibile di «potenzialità sopite» (96). La differenza tra riflessione e speculazione viene invece esposta a partire dalla presentazione di un quadro di Rembrandt la cui lettura ricoeuriana mette in gioco poesia e politica. Si tratta del quadro che ha per oggetto Aristotele che contempla un busto di Omero (1653). Scrive Ricoeur in L’unique et le singulier: «Per me è il simbolo dell’impresa filosofica, quale io la concepisco. Aristotele è il filosofo, così veniva detto nel medioevo. Ma il filosofo non comincia da niente. E, ugualmente, non comincia a partire dalla filosofia, inizia a partire dalla poesia. È, d’altra parte, evidente che la poesia è rappresentata dal poeta, come la filosofia dal filosofo, ma è il poeta ad essere immortalato nel marmo, mentre il filosofo è vivo, cioè continua sempre a interpretare. […] Contrariamente al titolo, Aristotele non guarda il busto di Omero; lo tocca. Significa che viene a contatto con la poesia. La prosa concettuale del filosofo va a contatto con il linguaggio ritmato della poesia. Aristotele guarda altro. Che cosa? Non lo sappiamo. Ma guarda altro dalla filosofia. Tocca la poesia, ma per rivolgere lo sguardo verso altro: verso l’essere? La verità? Qualsiasi cosa che uno voglia immaginare» (c96-97). Dal petto del filosofo, precettore di Alessandro il Grande, pende una medaglia che raffigura il celebre conquistatore. Continua Ricoeur, fissando quel dettaglio: «Ma il suo rapporto con il politico non è solo una relazione da educatore, è anche di chi ha pensato il politico, al punto di fare dell’etica la prefazione della politica. […] La medaglia sta a ricordarci che la filosofia non può continuare la propria opera di riflessione su una parola che non è la sua, la parola poetica, se non continuando ad intrattenere un rapporto antico con la politica. Oserei dire: il personaggio del quadro ha in carico questa medaglia» (c97). Aime rileva che se il commento ricoeuriano al dipinto di Rembrandt si mostrasse infondato, quell’interpretazione svelerebbe comunque l’autoritratto filosofico di chi la compie. È nel linguaggio e nelle opere del linguaggio, di cui la «poesia» intesa in senso lato è fonte, che si stratifica l’orizzonte di «senso» da cui intraprendere a guardare altrove, fino ad assumere nella responsabilità il politico. Ora però si pone la questione del nesso tra versante riflessivo e versante speculativo. Il Sé della riflessione, con fondamento nel Cogito cartesiano, è ad un contempo «la posizione di un essere e quella di un atto, la posizione di un’esistenza e di un’operazione di pensiero: io sono, io penso». Ma «il soggetto concreto è raggiungibile solo per la via mediata dei suoi segni e delle sue opere; in particolare, la riflessione si deve convertire in riappropriazione del desiderio e dello sforzo di esistere», recuperando del Cogito la qualità ontologica di atto, perché «la posizione non è un dato, ma un compito, non è gegeben, ma aufgegeben» (c99).

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In una prospettiva riflessiva, il rapporto tra soggetto ed oggetto viene caratterizzato come un evento di reciproca appartenenza e di reciproca determinazione, fuori da ogni circolo vizioso e da una precomprensione spregiativamente qualificata nella forma del pregiudizio. Si dà invece un circolo ermeneutico in cui, come giustamente intuisce l’ontologia fondamentale heideggeriana, il presunto pregiudizio si risolve nella struttura anticipativa del comprendere (Vorverständnis). Anche Ricoeur sostiene che decisivo non sia «l’uscire dal cerchio, ma il penetrarvi correttamente» (c100). Che cosa intenda Ricoeur per speculazione è questione da vedere entro confini fluidi. In linea generale indica il carattere teoretico della filosofia, che se da un lato, per via di una molteplicità di limiti, non si identifica col sapere assoluto, dall’altro si oppone alle filosofie che contestano quel carattere (esistenzialismo, neopositivismo, filosofia analitica e decostruzionismo). Nonostante il livello speculativo cui la filosofia si erge, essa non deve perdere di vista il campo pratico, oltre ogni sistema. È in questa direzione che l’ultimo Ricoeur rafforza il ruolo dell’azione, del sentimento e addirittura dell’immaginazione, entro un dialogo tra orizzonti che sa circostanziare la tendenza egemonica del concetto ed ogni sorta di violenza interpretativa. 2. Fenomenologia ermeneutica e ontologia (parte seconda)

♦ Con l’espressione poetica Le parole come il cielo, desunta da un verso di Yves Bonnefoy, si apre un capitolo dedicato alla lingua e al linguaggio, quindi alla filosofia del linguaggio e alla teoria generale dell’interpretazione. Il valore antropologico della parola si estende ben oltre il campo filosofico, perché è l’uomo stesso ad essere parola, «una parola plurima, nella varietà delle sue esecuzioni e delle lingue» (110). E non si può dimenticare che il panorama filosofico novecentesco si caratterizza per quella che solitamente viene denominata svolta linguistica. L’incarico della filosofia verso il linguaggio si muove in tre direzioni, secondo un piano programmatico ben preciso esplicitato da Ricoeur stesso (Filosofia e linguaggio), che sono: 1) La prospettiva ontologica di referenza al mondo: «riaprire il cammino del linguaggio verso la realtà, nella misura in cui le scienze del linguaggio tendono ad allentare, se non addirittura ad abolire, il legame fra il segno e la cosa». 2) La prospettiva psicologica di rapporto col sé: «riaprire il cammino del linguaggio verso il soggetto vivente, verso la persona concreta, nella misura in cui le scienze del linguaggio privilegiano, a spese della parola viva, i sistemi, i codici indipendenti da ogni soggetto parlante». 3) La prospettiva etica di relazione con l’altro: «riaprire, infine, il cammino del linguaggio verso la comunità umana, nella misura in cui la perdita del soggetto parlante è accompagnata dalla perdita della dimensione intersoggettiva del linguaggio» (c115; cf. anche c148). Nella varietà di approcci, discipline e campi, Ricoeur cerca nella loro frammentarietà una «concertazione sinfonica» (121), pur nella consapevolezza di starne solo in prossimità a motivo di una precedenza e di un’eccedenza del linguaggio su qualunque teoria venga formulata al suo riguardo. Nella teoria generale dell’interpretazione, a fungere da apertura è il tema del simbolo, visto in un’estensione tra la sfera vitale e la sfera razionale. Nell’orizzonte del simbolo avviene il passaggio dalla filosofia riflessiva all’ermeneutica, e precisamente attraverso la simbolica del male. «Le symbole donne à penser»: l’espressione indica da un lato la ricchezza del senso quale «donazione» che risiede nel simbolo, dall’altro la provocazione da parte dello stesso alla comprensione quale «posizione» dell’atto del pensiero. Da un lato l’immediatezza, dall’altro la mediazione. A differenza della metafora, che si proietta dal terreno del logos, il simbolo esita fra bios e logos, «nasce nel punto in cui Forza e Forma coincidono» (c132). Ma nello stesso tempo la sua «eccedenza semantica» (133) affiora solo grazie al ricorso al concetto, che non abbassa la filosofia al pensiero simbolico, ma innalza quest’ultimo alla sua autentica dignità.

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Oltre il simbolo, la teoria dell’interpretazione guarda al farsi evento e significato della parola in quello scaturire di momenti interconnessi che sono il discorso, il testo e l’opera. Il discorso suppone un «chi» come soggetto parlante, un «a chi» come destinatario che ascolta e un «ciò di cui» come contenuto riferito. Il discorso può farsi testo e il suo significato cessa di coincidere con l’intenzione dell’autore. «L’autonomia del significato del testo e la conseguente universalizzazione del destinatario sono il luogo di insorgenza del conflitto delle interpretazioni. “L’ermeneutica incomincia dove il dialogo finisce”» (138). Il lessico della referenzialità cede qui il posto al lessico della configurazione, la quale si trasforma in rifigurazione nel farsi opera del discorso, ovvero mediante la lettura. Come uno spartito musicale o teatrale diventano opera soltanto nel momento dell’esecuzione, così è di un testo nel farsi lettura. Mondo del lettore e mondo del testo realizzano una «fusione di orizzonti», per ricorrere ad un’espressione di Gadamer, in cui si attua una nuova «produzione di senso», ma senza che il lettore rinunci al «delicato e grave compito di interpretare in verità e responsabilità quel mondo che il testo gli addita e gli affida» (142). Se si getta uno sguardo complessivo al fluire del discorso verso il testo e del testo verso l’opera si possono constatare permanenze, mutazioni ed aggiunte. Tra analisi mai del tutto esaurite e sintesi provvisorie il testo resta opera aperta. All’ermeneutica spetta il compito di «ricostruire l’insieme delle operazioni grazie alle quali un’opera si eleva sul fondo opaco del vivere, dell’agire e del soffrire per essere data dall’autore a un lettore che la riceve e in tal modo muta il suo agire» (c143). Proseguendo lo sviluppo tematico dell’interpretazione s’incontra la questione della traduzione, descritta come «sfida dell’alterità» (143). Innanzitutto essa rimanda ai rapporti tra le varie lingue col problema del trasferimento di un messaggio da una lingua ad un’altra. Varie scuole si contendono la discussione nell’alternativa fra traducibilità e intraducibilità, cui Ricoeur sostituisce l’alternativa tra fedeltà e tradimento. Pur nella consapevolezza della differenza tra il proprio e l’estraneo, egli si richiama ad indirizzi di pensiero, per esempio quello di Noam Chomsky, secondo cui le lingue suppongono strutture sotterranee universali che rendono possibile la traduzione. Nell’atto di sfida verso ciò che è altro, in spirito di «fraternità universale», si realizza ciò che Ricoeur chiama «ospitalità linguistica» (c146). In secondo luogo può essere detta traduzione la stessa recezione di un messaggio da interpretare all’interno di una medesima comunità linguistica. Tra due interlocutori, infatti, l’altro è in un certo senso lo straniero cui occorre non di rado ridefinire, riformulare, rispiegare un dato messaggio per poterlo davvero veicolare. Della funzione di mediazione del linguaggio si può in sintesi sottolineare il suo triplice risvolto: «mediazione tra l’uomo e il mondo, mediazione tra uomo e uomo, mediazione tra l’uomo e se stesso. Si può chiamare referenza la prima mediazione, dialogo la seconda, riflessione la terza. […] Ciò che il linguaggio muta è simultaneamente la nostra visione del mondo, la nostra capacità di comunicare e la comprensione che abbiamo di noi stessi» (c148).

♦ Nel capitolo L’iniziativa, azione sensata e potenza d’agire predomina il tema della filosofia dell’azione. Alla base di una fenomenologia dell’azione sta un’esposizione descrittiva e diagnostica della volontà. Nell’azione il volontario interseca l’involontario e la libertà si confronta con la necessità. Tre verbi riassumono i livelli dell’azione e della volontà: decido, muovo, consento. Decidere significa progettare responsabilmente motivando. Muovere è spingersi dal progettare al fare. Consentire «è convertire in sé l’ostilità della natura, la necessità in libertà. Il consenso è la marcia asintotica della libertà verso la necessità» (c167). Rifiuto e consenso restano possibilità aperte dinanzi ad esperienze limite. Diverse sono le forme di consenso, da quello stoico ed ancora imperfetto che promuove il distacco invece della conciliazione, a quello orfico di segno iperbolico che spinge verso un sì poetico ed estatico (Goethe, Rilke, Nietzsche), a quello escatologico che guarda alla sofferenza e al

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male, ma contemporaneamente sa guardare oltre la sofferenza e il male, facendosi speranza in attesa di liberazione. Dall’insieme emerge un quadro in cui la libertà umana non è assoluta, non è atto puro, ma un intreccio di attività e passività, un annodarsi di iniziativa e recettività.

♦ Nel capitolo Mondi possibili si delinea in primo luogo la pluralità dei discorsi e l’intertestualità, dalla polisemia del linguaggio ordinario che condensa la ricchezza dell’esperienza umana custodita nella parola all’univocità del discorso scientifico, dal discorso poetico al discorso religioso, dal discorso politico a quello filosofico. Ma la pluralità dei discorsi va eticamente difesa. Poetica del testo ed estetica della recezione rappresentano i movimenti in cui si chiarifica il passaggio dal mondo della vita (Lebenswelt) al mondo del testo e il rapporto tra mondo del testo e mondo del lettore, entro quella che infine diventa una «dilatazione del nostro orizzonte di esistenza» (c222). Metafora e racconto «si pongono al punto di incontro di poetica, ermeneutica ed estetica, con singolari valenze ontologiche ed etiche per i loro intrinseci rapporti con l’azione, il tempo e il mondo» (222). L’intero complesso del sapere è investito dal linguaggio della metafora. Nella metafora, «la sospensione della referenza reale rende possibile un’altra referenza, virtuale e l’appello al mood [stato d’animo] non designa una mera reazione psicologica ma un modo d’essere» (226). Altra questione è la verità metaforica e la sua conseguente valenza ontologica. «Non si può dire il mondo che per metafora; alla riflessione filosofica spetta riconoscere la via alla realtà che la metafora traccia e lasciarsene istruire nel momento in cui tenta di dire, per via concettuale, l’essere» (229). Il tema del racconto viene esplicitato come risignificazione del mondo nella sua dimensione di temporalità e come teatro dell’azione umana. In gioco è il soggetto che abita il mondo. L’identità narrativa del soggetto «si rivela solo nella dialettica tra medesimezza (identità senza mutamento) e ipseità (identità con mutamento) e questo è il contributo della teoria narrativa alla costituzione del sé» (232).

♦ In Desiderio d’essere e vita buona l’orizzonte riguarda la collocazione dell’etica e il suo sopraggiungere tardivo nella riflessione di Ricoeur, che in analogia con l’atteggiamento tenuto in altri campi si mantiene nel solco della tradizione filosofica e in dialogo con i grandi maestri. Il contesto fenomenologico dell’etica è quello pratico e storico in cui s’inscrive l’azione, donde la fragilità dell’etica stessa. Considerazioni più specifiche riguardano motivi, valori e progetto. Se si cerca di andare oltre la visione etica e si spezza il legame tra colpevolezza e finitezza, «l’uomo si mostra soltanto fallibile, teso nella costitutiva sproporzione tra finito e infinito» (249-250). Ma proprio attraverso la colpa e le passioni ci si può interrogare sull’innocenza primordiale, su «ciò che l’uomo è prima di essere sfigurato», perché «la presenza massiccia del male non cancella del tutto la traccia dell’innocenza» (249), ovvero, secondo l’asserto derivato da Kant che Ricoeur riprende in Finitude et culpabilité, «per quanto originaria sia la malvagità, la bontà è ancora più originaria» (c250). La predisposizione dell’uomo alla fallibilità non lo necessita alla colpa. Esorbitando da quella visione etica che tende a spiegare il male con la libertà, l’etica presuppone un uomo già smarrito, dimentico della sua origine, perciò si propone quale «necessario rimedio alla situazione di caduta» (251). Simboli e miti hanno per tema il male in quell’ampia connotazione che la filosofia designa con gli attributi di metafisico, morale e fisico. Anche il mito antropologico biblico, certamente il più vicino alla visione etica incentrata sulla libertà, lascia trasparire una potenza che rende l’uomo vittima e fa del mistero del male un mistero che la risposta etica non esaurisce. Significativo è il fatto che «la concettualizzazione in termini di servo arbitrio lascia all’ossimoro la funzione di fissare nella parola l’ambivalente condizione umana: libertà di agire ma anche servitù inspiegabile, che per ciò stesso invoca liberazione» (254).

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L’etica coinvolge l’esercizio del sospetto, in fondo un’autentica arte. L’attenzione va in primo luogo alla psicoanalisi. Il suo valore risiede nel porsi quale «tecnica della sincerità» (257) in un percorso che muove dal misconoscimento di sé per portare invece ad un riconoscimento di sé. Per la triplice valenza di metodo di indagine, pratica terapeutica e teoria fondamentale, la psicoanalisi assume una funzione etica che interroga l’etica stessa, costringendola a scendere dalla sua assolutezza e a passare da giudicante a giudicata. «Il solo modo di pensare eticamente consiste innanzitutto nel pensare non eticamente» (c260), scrive Ricoeur in Le conflit des interprétations, affermazione con la quale egli «ha in mente due prospettive da cui vuole prendere le distanze, l’accusa e la consolazione, istanze proprie alla morale e alla religione. […] Uscire dal regime dell’accusa significa risalire dalla morale della obbligazione ad un’etica del desiderio di essere o dello sforzo di esistere. D’altro lato, lasciarsi alle spalle la consolazione significa imparare a reggere la necessità, senza ricorrere a facili e infantili protezioni» (260). E il desiderio di essere si apre sugli orizzonti della libertà e della speranza. La riflessione sul rapporto tra etica e linguaggio fa avanzare la questione del linguaggio etico. «Il linguaggio è innocente ma la violenza parla, e la parola umana diventa il misto del discorso e della violenza, come esemplificano la politica, la poesia e la filosofia». Riconoscere i luoghi della violenza in un discorso è già mettersi sulla via del suo superamento, ma la «pratica non violenta del discorso consiste nel riconoscimento della sua esistenza al plurale» (261). Il fenomeno della promessa, «intesa come mantenimento del sé nel variare del tempo degli eventi», s’inserisce nella serie degli atti linguistici di particolare rilievo e costituisce «una condizione di possibilità trascendentale del linguaggio stesso e insieme una garanzia» (263). Ma implicazioni etiche si riscontrano anche nella narrazione e nella narratività, fino alla «problematizzazione dell’identità narrativa» che corre sul filo della domanda: «Come mantenere sul piano etico un sé che, sul piano narrativo, sembra eclissarsi?» (266).

♦ Al termine della seconda sezione del libro in questione, il capitolo Il sé e l’essere ne sintetizza e sviluppa ulteriormente i capisaldi. Ricoeur prende le distanze da quel percorso classico della filosofia intesa come domanda sull’essere che a sua volta identifica l’essere nella sostanza e affida alla filosofia un ruolo di theoria. Distinguendo ontologia e metafisica e abbandonando quest’ultima in favore della prima, per lui l’ontologia «si sviluppa a partire dall’azione e dal linguaggio che confluiscono nell’ermeneutica del soggetto, inteso come sé e definito dalle nozioni di volontà e potere, posizione e consenso, sforzo e desiderio, attestazione e capacità, medesimezza, ipseità e alterità». D’altro canto, «l’impossibilità della metafisica non cancella l’esigenza speculativa da cui nasce, articolata nella funzione meta-, rispetto alla quale tutte le filosofie, ontologia compresa, sono seconde» (286) e la cui individuazione è ambito di pertinenza di quel che egli chiama filosofia prima. Stretto è il nesso tra filosofia della volontà e ontologia. Dove l’io è inteso come volere e il mondo come il suo campo d’azione, afferma Ricoeur in Le volontaire et l’involontaire, il mondo «non è soltanto spettacolo, ma problema e compito, materia da lavorare; è il mondo per il progetto e l’azione» (c288). L’io vive nel mondo in costante tensione tra affermazione, negazione e alterità. Più che l’opposizione sartriana tra l’essere e il nulla, vale l’indicazione platonica della riconduzione del non-essere all’altro, dunque l’opposizione tra l’essere e l’altro. Inoltre, «sotto la pressione del negativo, delle esperienze in negativo, dobbiamo riconquistare una nozione dell’essere che sia atto piuttosto che forma, affermazione vivente, potenza di esistere e di fare esistere» (c293). Nel passaggio dal linguaggio all’essere resta imprescindibile il ruolo del simbolo. A sua volta la veemenza ontologica della metafora irrompe al di là del simbolo, nella catarsi del logos rispetto al semplice bios, mentre la via estetica all’ontologia si schiude attraverso l’opera d’arte in senso ampio, dove un che della singolarità trapassa in universalità. Il ricorso al concetto di mímesis viene effettuato non per indicare una copia, una funzione

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speculare o imitativa, quanto un «dinamismo dell’esperienza» (305) rivolto a un «sovrappiù rispetto a qualsiasi rappresentazione e a qualsiasi regola» (c305), fino a rimettere in discussione la concezione filosofica classica della verità come adeguazione tra intelletto e realtà. «L’arte è opera di emozione, mood, da intendersi non come qualcosa di meramente soggettivo, ma in termini di intenzionalità. L’emozione spalanca un mondo, il mondo, nel modo patico, diverso da quello teoretico o pratico. Il mood, che è insieme affezione e intenzione, ci apre una regione, spesso sconosciuta, dell’anima e un aspetto dell’abitabilità del mondo. La singolarità dell’opera d’arte, nella creazione e nella ricezione, si raddoppia come via all’essere, percepito in una pertinenza inedita di senso: per dire l’essere le vie del senso e della creatività sono indispensabili, singolari e innumerevoli» (305-306). Nel quadro di un rapporto tra fenomenologia ermeneutica del sé e ontologia l’orientamento va al «Cogito mediato da tutto l’universo dei segni» (c306). Però «l’ingresso nella terra promessa dell’ontologia avviene attraverso la fenomenologia del sé in tutta la sua ampiezza» (307), tra attestazione dell’identità e rapporto con l’alterità. La nozione della prima si sdoppia in medesimezza, «l’identità immutabile», e in ipseità, «l’identità in grado di includere il cambiamento senza smentirsi» (308). L’impegno ontologico, ossia l’esplorazione che va dal sé all’essere, s’incentra sulla nozione chiave di attestazione. L’opposizione cartesiana tra dubbio e certezza si trasforma qui in sospetto ed attestazione. L’obiettivo di quest’ultima sta nell’aprire lo spazio dell’ipseità, «ad un tempo nella sua differenza con la medesimezza e nel suo rapporto dialettico con l’alterità» (311). Questa ontologia dell’ipseità si qualifica a sua volta non come «un’ontologia dell’atto soltanto, bensì dell’atto e della potenza» (313), con richiami al conatus di Spinoza e all’appetitus di Leibniz. Nella filosofia di Ricoeur «spicca la centralità dell’idea di vita, cioè la potenza come produttività, non opponibile all’atto nel senso di effettività o compimento» (314). Al «contenuto di senso» dell’ipseità e alla sua «costituzione ontologica» appartiene anche l’alterità. «Mentre l’agire fa da attestazione all’ipseità, la passività evoca l’alterità» (315). Al riguardo l’ipotesi di lavoro attraversa una scansione triplice: la carne, l’altro, la coscienza. Nel rapporto tra la carne e il corpo appare l’alterità del sé. L’io può percepirsi come «un altro fra tanti altri» (c317). L’alterità dell’altro appare dai modi molteplici attraverso cui l’altro tocca o ferisce il sé. Infine, «anche la coscienza è alterità, anzi luogo di dialettica tra ipseità e alterità» (320). In tutti e tre i casi può avvenire uno sconfinamento dell’alterità in estraneità. A coronamento del capitolo sul sé e l’essere sta un lapidario ed incisivo passo di Ricoeur che riassume al meglio lo spirito dell’intera trattazione e lancia una singolare provocazione: «Dell’intima certezza di esistere sul modo del sé, l’essere umano non ha dominio; essa gli viene, gli accade sul modo di un dono, di una grazia, di cui il sé non dispone» (329). 3. Uomini nel tempo (parte terza)

♦ Il capitolo su La storia prende il via dalle questioni che concernono l’operazione storiografica. «Il primo sondaggio si avvolge nella polarità tra la filosofia della storia […] e la storia degli storici» (334). «Il secondo scandaglio avviene nello spazio concettuale che si apre tra tempo e racconto». «Nel terzo momento la storia, ancor più al centro dell’indagine, è stretta e allarmata da due grandezze con cui deve costantemente lottare, la memoria e l’oblio» (335). Nelle due opere Temps et récit e La Mémoire, l’Histoire, L’Oubli Ricoeur si occupa da filosofo del compito specifico dello storico. Nella seconda sono indicate chiaramente le tre fasi dell’operazione storiografica quale mestiere dello storico, dove per fasi non s’intendono «stadi cronologicamente distinti», ma «momenti metodologicamente connessi» dell’operazione storica che ricostruisce il passato. L’individuazione delle tre fasi è la seguente: «la fase documentaria (la dichiarazione dei testimoni oculari, la costituzione

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degli archivi, il programma scientifico della prova documentaria); la fase esplicativa/comprensiva (esame degli usi multipli del perché) e la fase rappresentativa (trasposizione in forma scritturale o letteraria offerta al lettore)» (341). Filosofia e storia s’intrecciano a più livelli. Se la filosofia della storia è un punto di partenza irrinunciabile, non si fa filosofia senza riferimenti alla storia della filosofia. Nelle pagine finali di Temps et récit 3, Ricoeur evoca a sorpresa la Seconda Inattuale di Nietzsche. Contro lo storicismo del tempo, la critica nietzscheana pone l’accento sulla forza del presente e sull’iniziativa. In quanto «lezione sul presente», le considerazioni di Nietzsche spingono Ricoeur a pensare il presente come «storia compiuta» e «fine della storia», ma anche in qualità di «forza che inaugura una storia da fare» (371). E in proposito scrive: «Il presente, nel primo senso, dice l’invecchiamento della storia e fa di noi gente venuta tardi; nel secondo senso, ci qualifica come primi venuti» (c371). Una «posizione vitalistica» che fa sorgere interrogativi, ma contemporaneamente capace di fondare «un presente che sia garanzia di hoffendes Streben, di uno slancio della speranza» (372). Ai fini di una filosofia critica della storia s’instaura una dialettica tra verità e interpretazione, all’interno della «tensione tra un’oggettività che non può mai essere piena e una soggettività che deve costantemente correggersi ed esige, come in altri ambiti scientifici, una continua rettifica su entrambi i fronti, in particolare ricorrendo al controllo intersoggettivo» (372). L’operazione della conoscenza storica si configura così come un complesso di atti linguistici dominato da numerose componenti, ciascuna delle quali merita il dovuto riconoscimento nel quadro globale.

♦ Il tempo è il tema che segue al capitolo sulla storia, un tema già sviluppato dalla sapienza antica, benché la riflessione moderna si sia maggiormente impostata sulla sua variante come storia. L’indagine ricoeuriana portata avanti nelle due opere già citate a proposito della storia prende le mosse dall’aporetica del tempo, fino ad immergersi nei suoi labirinti, dove il concetto di tempo avanza «dilaniato dal conflitto speculativo antinomico e irrisolvibile delle filosofie che se ne sono occupate. Il confronto si dispone in forma antitetica: tempo dell’anima (Agostino) e tempo cosmico (Aristotele), tempo fenomenologico (Husserl) e tempo inscrutabile (Kant)», senza scordare le questioni sospese nel pensiero di Heidegger e il confronto con la tesi hegeliana. L’intento è «l’elaborazione di una poetica del tempo, sulla base del contributo della storia e della storiografia, del racconto e della narratologia» (386), benché anche la risposta poetica si limiti ad illuminare la questione del tempo senza risolverla, ed anzi, per certi versi rafforzi l’aporia speculativa. «Solo passando attraverso il racconto possiamo cogliere la densità dell’azione e del tempo. Il tempo della storiografia e del racconto di finzione risultano alla fine fortemente delimitati dall’attività mimetica, ma restano una riserva di senso fondamentale per ogni indagine. La pretesa verità del passato cui mira la storiografia e le tante variazioni sul tempo suggerite da ogni forma di racconto, in particolare dal romanzo, consentono di tesaurizzare un tempo diverso rispetto a quello che la filosofia pensa di poter descrivere e legittimare» (412). Alla poetica sono affidate nuove funzioni, grazie a cui si raccolgono «l’elaborazione del tempo storico proprio della storiografia e del tempo narrativo della finzione, con i loro reciproci sconfinamenti in un tempo umano» (413). Per quanto riguarda il passato, si rileva che esso si mostra infine come un enigma, e più ancora come una serie di enigmi, primo fra i quali l’identità in negativo e in positivo di «ciò che non è più» e di «essente stato» (421). «L’altro enigma avanza con la questione dell’immagine (eikón), con il duplice significato di assente come irreale e di anteriore come passato» (422). Tutta questa complessa problematica rinvia la verità storica a rimanere - scrive Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato - «in sospeso, plausibile, probabile, contestabile, insomma, in continua ri-scrittura» (c423). Nel labirinto del tempo le distinzioni effettuate dalla riflessione e dalla speculazione sembrano minacciarne «l’intuitiva esperienza unitaria» (427). Ai confini tra antropologia ed ermeneutica, con la testimonianza, l’iniziativa e la promessa da un lato, la coscienza

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storica e la condizione storica dall’altro, una risposta appartiene al versante pratico, unica possibilità di ritrovare il filo di Arianna. «Il passato pur concluso non è esaurito nel suo significato; il futuro, non predeterminabile, non conosce discontinuità sul piano della responsabilità; il presente non è l’eterno presente hegeliano e neppure l’eterno ritorno nietzcheano, ma il tempo dell’azione e della parola responsabili, il tempo della confluenza della memoria e della traccia, del desiderio che si fa relazione e della capacità che si prova nella realizzazione. Su tutto poi si depone la parola poetica - dal mito al romanzo e alla poesia lirica - che allude all’origine di cui l’uomo non dispone ma senza la quale non è» (428).

♦ Dopo le tortuose vicende d’indagine sulla storia e sul tempo, si può affrontare con maggior ricchezza di elementi l’Ermeneutica della condizione storica, nella consapevolezza dell’inscrutabilità del tempo. «L’aporia attraversa la condizione temporale storica dell’uomo e degli uomini, il tempo trascolora nel mistero e l’abitazione nella storia in estraneità» (429). Ma le aporie possono essere rese produttive. Può la narratività replicare adeguatamente allo scacco speculativo che conclude con l’aporia della non rappresentabilità del tempo? Scrive Ricoeur in Temps et récit 3: «Il tempo raccontato è come un ponte gettato sulla voragine che la speculazione continua a scavare tra il tempo fenomenologico e il tempo cosmologico» (c431). Ed ancora: «Il germoglio fragile nato dall’unione della storia e della finzione, è l’assegnazione ad un individuo o ad una comunità di una identità specifica che possiamo chiamare la loro identità narrativa» (c431-432), con la quale si dice il sé di «una vita purificata, chiarificata grazie agli effetti catartici del racconto sia storico che di finzione portati dalla nostra cultura. L’ipseità è così quella di un sé istruito dalle opere della cultura che si è applicato a se stesso» (c432). Pur nella «mediazione imperfetta di orizzonte d’attesa, ripresa di eredità passate e incidenza del presente» (433), «è nel modo in cui la narratività è portata verso i suoi limiti che risiede il segreto della sua replica all’inscrutabilità del tempo» (434). Un approccio semantico-cognitivo «specifica la memoria come grandezza cognitiva. Più precisamente, la richiesta di verità dichiara se stessa nel momento del riconoscimento, sul quale si compie lo sforzo del richiamo. Noi sentiamo e sappiamo allora che qualcosa è accaduto, che qualcosa ha avuto luogo, che ci ha implicati come agenti, come pazienti, come testimoni. Chiamiamo fedeltà questa domanda di verità» (c439). All’approccio semantico-cognitivo si sovrappone l’approccio pragmatico. «La posta in gioco è la fedeltà come guardiana della profondità del tempo e della distanza temporale» (440). E se sul piano cognitivo è doveroso discernere tra memoria e immaginazione, sul piano pragmatico un analogo discernimento va mantenuto tra l’uso della memoria e il suo abuso. La fase attributiva è la fase in cui si cerca di stabilire chi sia il soggetto della memoria, nell’alternativa tra i titoli di «personale» o «collettiva». Il discorso sulla memoria non può prescindere dal discorso riguardante l’oblio, che «resta l’inquietante minaccia che si profila sullo sfondo della fenomenologia della memoria e dell’epistemologia della storia» (c442). Pur avendo il compito di lottare contro l’oblio, una memoria che non dimenticasse nulla si rivelerebbe mostruosa. Ma l’oblio può farsi strumento di manipolazione del racconto e della storia. In sintesi, l’intensificarsi aporetico della riflessione sul tempo «accompagna il passaggio dal problema al mistero» (448), ma «la lunga odissea speculativa e poetica di Tempo e racconto si conclude all’Itaca della saggezza pratica. L’aporia è abitabile, perché connaturale al tempo stesso. La condizione umana vi si esprime al livello più specifico: abitare il tempo vuol dire definire la propria identità nel rischio etico, assumere le responsabilità che la storia e l’immaginazione del possibile impongono, riconoscere il senso senza dominarlo, sperimentare e dire il limite del proprio pensiero» (449). Dall’ermeneutica della condizione storica si passa all’ontologia della condizione storica. Se la coscienza storica «articola in termini pratici le estasi temporali attorno allo spazio di esperienza, all’orizzonte di attesa e al loro intrecciarsi nell’iniziativa», la

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condizione storica «assume una valenza ontologica che si precisa in termini di debito, promessa e testimonianza» (453). Contro la prospettiva storiografica che risolve il passato nel passato disconoscendo il suo legame col presente e il futuro, la coscienza storica può farsi memoria futuri. Nel segno del passato la storia che viene subita offre anche la possibilità di agire. «Nel passato si possono rintracciare possibilità dimenticate, potenzialità abortite, tentativi repressi, che sono carne e sangue delle nostre attese. Attesa e memoria favoriscono insieme l’utopia di una umanità riconciliata» (457-458). Nel presente storico s’addensano invece l’iniziativa e la passività. La prima «scioglie in modo pratico l’aporia speculativa. La posta in gioco è la creatività, cioè la poeticità nella parola e nell’azione, nel tempo, nella storia, sul piano individuale e intersoggettivo» (458-459). La passività sottintende i non poteri e le incapacità. Da un confronto con Heidegger spicca la specificità di Ricoeur circa l’interpretazione delle estasi della temporalità e il loro inanellarsi. «Il futuro, nell’orizzonte d’attesa, è il tempo della possibilità aperta e, a livello immaginativo, lo stesso movimento utopico. La morte è sostituita dalla promessa» (461). La storia «è ciò che ci permette di rendere attuale il nostro legame o debito con chi ci ha preceduto, è ciò che mette in esercizio la nostra memoria e il nostro (necessario) oblio, rendendo possibile il perdono». Il presente in qualità di iniziativa è «il momento dello sgorgare, il tempo della capacità. Si nutre di passato, si apre al futuro, ma incide il tempo con l’azione, la parola, la relazione, la responsabilità» (462). Le categorie di debito, promessa, attestazione e testimonianza, disposte nello schema dei tempi, posseggono un tratto comune, dato dalla credenza come atto fiduciale, accettazione ed accoglienza. «Debito assume due significati, passivo e attivo: è ciò in cui dipendiamo da chi ci ha preceduti e, nello specifico senso storiografico, quanto dobbiamo in verità con l’operazione storiografica e con la fedeltà della memoria» (465). «Nella promessa il soggetto deve riconoscersi come il soggetto dei propri atti e riconoscere la sua potenza di agire» (466), mentre in essa «futuro e presente si legano indissolubilmente» (467), al di là dell’inganno come minaccia sempre in agguato. «Nell’attestazione è in gioco l’affidabilità del soggetto e la credibilità dell’iniziativa, nella testimonianza la significatività della storia e la possibilità della comunicazione. Il sé come ipseità, capace di com-prendere medesimezza e alterità, attività e passività è interamente dato ed esposto nell’attestazione, di cui la testimonianza è l’estroversione storica» (468). «Anche sulla testimonianza sovrasta perennemente il sospetto» (469), ma «solo ascoltando attori e vittime - tra memoria, storia e oblio - si ascolta la vita stessa» (471). 4. Antropologia filosofica (parte quarta)

♦ Anche per quanto concerne la riflessione sull’uomo ci si trova dinanzi ad un argomento che deve affrontare Il limite e l’aporia. Chiedersi chi l’uomo sia non è la prima domanda di pertinenza della filosofia. Ricoeur condivide l’impostazione kantiana secondo cui la risposta a quella domanda potrà affacciarsi dopo aver affrontato le «questioni preliminari quali: che cosa posso conoscere, che cosa debbo fare, che cosa mi è lecito sperare?». Non solo essa si qualifica come «opera di sintesi» (475), ma deve attingere anche presso fonti extrafilosofiche l’oggetto della sua trattazione, dal mito alle scienze umane. Importante è evitare l’estremizzazione di chi pensa che oggi lo sviluppo delle scienze umane renda superfluo l’affidamento del tema antropologico alla filosofia. E tuttavia la filosofia deve rendersi capace di un incontro e di un dialogo con le scienze umane, perché mancando della loro sollecitazione e del loro apporto essa «rischia di essere vuota o di non svolgere il suo ruolo epistemologico, trascendentale e critico» (478). Alla filosofia spetta l’importante obiettivo di «preservare l’avventura umana dall’oggettivazione» (477).

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È comunque opportuno ricordare che in Ricoeur l’assetto dell’antropologia filosofica risulta frammentario, ma si dispiega entro un’ampia gamma di interessi rivolti alle scienze umane. Forse solo il suo ultimo volume, Parcours de la reconnaissance, riscatta tale situazione di frammentarietà. L’antropologia non può prescindere dal riconoscere l’uomo presente in una situazione tra il limite e il senso. La nozione di limite s’affianca a quelle di mistero e di paradosso (dov’è l’eco di Marcel e di Jaspers), ma anche di enigma e di aporia. Diverse sono le esperienze del limite, dal corpo proprio all’inconscio, dalla storia al tempo della vita, dal mondo come orizzonte dell’azione alla limitazione in quanto fallibilità. Ma alle situazioni-limite si possono opporre le risposte-limite, quali la fiducia, la speranza e l’amore. Nascita e morte, vita e identità traducono nel linguaggio ricoeuriano quel che altrove la filosofia qualifica come l’essere in situazione. La predominanza del «momento aurorale» rispetto al «momento del tramonto» caratterizza il pensiero di Ricoeur. «È un orientamento che si potrebbe definire spinoziano - la filosofia non è meditazione sulla morte ma sulla vita e la sua potenza - e in significativa vicinanza a H. Arendt, che all’essere-per-la-morte di Heidegger ha sostituito il mistero della nascita. […] L’antropologia dell’uomo capace tende ad accentuare il mistero dell’inizio» (486). Poiché della morte non si dà esperienza, di essa può darsi solo un sapere, un’idea che penetra dall’esterno con carico d’angoscia. Ben altro valore acquista invece l’avvenimento della nascita, tra opacità ed inerzia da un lato, potenza di agire e creatività dall’altro. «Mescolanza di contingenza negli incontri e di necessità nel risultato» (c489): sono le parole con cui Ricoeur descrive il destino della nascita. «Vertigine reificante e alienante», e tuttavia, «per quanto si presenti con la forza dell’alterità fino all’estraneità, solo se si riconosce alla nascita il suo posto, la riflessione potrà assumere la condizione di incarnazione dell’uomo: la nascita è il simbolo dell’io posso, al tempo stesso e inestricabilmente ricettività e iniziativa, e cifra della trasformazione del destino in libertà» (489). L’affermarsi del desiderio di vita e dell’energia di vita precedono l’affermarsi del logos e del senso. In La critique et la conviction Ricoeur giunge fino all’«auspicio profondo di fare dell’atto del morire un atto di vita. […] La mortalità stessa deve essere pensata sub specie vitae e non sub specie mortis». Perciò contro il «vocabolario heideggeriano dell’essere-per-la-morte» vien fatto valere un principio inverso: «essere fino alla morte» (c490). Oltre la nascita, le età della vita, che nelle forme del divenire storicizzano il senso dell’uomo e rappresentano anch’esse un destino, tra limiti e ventaglio di valori, poteri e libertà. Tra nascita, età della vita e morte si configura l’identità di una persona. «Se il sé si conquista nello specchio dei segni e deve frequentare l’alterità per scoprirsi, l’identità è un processo, un potere all’opera, un’estraneità fatta propria, una casualità trasformata in destino attraverso atti creativi, che la memoria richiama dall’oblio, la parola fissa nel racconto, nell’elegia, nell’inno, e il pensiero tenta di portare al concetto» (492).

♦ A partire dalla volontà Ricoeur arriva, attraverso un affondo nell’attività della coscienza, alla trattazione inevitabile della Libertà incarnata. Filosofia dell’azione e filosofia della libertà vengono a coincidere, laddove l’ampio campo semantico del concetto di libertà implica intenzionalità, motivazione, progetto, decisione, responsabilità e così via. Una filosofia della libertà non trova una vera e propria elaborazione nel mondo dell’antichità greca. «Il concetto di libertà appare in tutta la sua determinatezza solo con il cristianesimo, vale a dire con l’avvento del concetto di soggettività e con l’introduzione dell’infinito nella riflessione» (496). Una nuova problematica della libertà avanza con la scuola del sospetto, nei classici nomi di Marx, Nietzsche e Freud. Davanti a diverse voci, Ricoeur percorre la sua strada dalla volontà alla libertà. «La libertà creata è quella libertà che cerca di accogliere nel suo orizzonte progettuale ciò che libertà non è e si realizza includendo la “necessità” del corpo e della natura, della vita e delle sue stagioni, dell’inconscio e della storia. Libertà creata però vuol anche dire libertà creativa» (499). Dai motivi per cui si agisce al consegnarsi a

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un ideale, la libertà si fa inventiva solo mediante l’azione concreta, si esplica quindi nella dimensione pratica. Con l’espressione «la carne della libertà» si fa riferimento ad uno spettro ampiamente dilatato della ricerca antropologica. La nozione di carne (chair), al di sopra della nozione di corpo (corps), allude alla proiezione di quest’ultimo nell’orizzonte del mondo e del tempo, in una dimensione relazionale e progettuale. Essa significa «l’unità indivisibile» e la «relazione triadica» (502) di tre elementi: parola, immaginazione e desiderio. Nelle sue varie forme la parola possiede una valenza antropologica innegabile. «In particolare il racconto dà a individui e collettività la possibilità di conoscere ed elaborare un’identità dinamica che sfida il trascorrere del tempo dell’anima e del cosmo» (504-505). «Il “segreto” legame tra la parola e il desiderio è l’immaginazione, crocevia di esistenza e possibilità, di creatività e azione» (505). L’immaginazione alimenta altresì il linguaggio del simbolo, dove «l’universo diventa Cosmo come intreccio senza fine di rimandi e di corrispondenze segrete» (508), la Psiche s’espande per i meandri del desiderio e il Logos poetico interpreta il sentimento, «relazione carnale con il mondo» (c508). «Alla parola, tramite la mediazione dell’immaginazione, corrisponde polarmente il desiderio. […] In Ricoeur le due linee tradizionali interpretative del desiderio, quella platonica e cartesiana che lo definisce come mancanza e quella spinoziana che lo concepisce come impulso e potenza tendono a fondersi: la mancanza orienta il progetto, l’impulso è il cuore stesso del potere» (512).

♦ Caratterizzare l’uomo in termini di capacità significa intraprendere a caratterizzarlo con termini che sembrano escludersi reciprocamente, ma che in realtà colgono bene il paradosso: «azione e passione, autonomia e vulnerabilità, potenza e fragilità. L’esplorazione della capacità rivela l’inestricabile contrario, l’incapacità» (518). Vulnerabile capacità è un ossimoro per esprimere il paradosso. L’homo capax è ad un contempo agens et patiens. Qui la centralità dell’azione spiega lo spostamento dell’asse dal teoretico al pratico. Esiste un coordinamento tra linguaggio, azione e racconto. «Con il linguaggio, da quello quotidiano a quello poetico, l’uomo esplora il mondo, instaura la relazione, dice se stesso; con l’azione abita quello stesso mondo e interviene nel corso degli avvenimenti; il racconto con i molteplici intrighi gli dà la possibilità di formulare, abitando il tempo, la sua identità personale e collettiva». Ma in controtendenza appare anche la vulnerabilità. «Il potere del soggetto parlante non è integro né trasparente. È nota l’ineguaglianza fondamentale degli uomini quanto a padronanza della parola, raddoppiata dal non credere in sé e dalla mancanza di approvazione, fino alla mutilazione dell’esclusione linguistica. Sul piano politico e giuridico si sa quanto la violenza possa imporsi sulla parola» (520). Perciò, «se è vero che un uomo è la sua propria storia, per esserne consapevoli occorre una competenza di buon livello: coerenza, educazione, apprendimento, sottomissione alla critica» (521), grazie a cui il soggetto esprime la sua autonomia. Intersoggettività e riconoscimento hanno a che fare con la capacità vulnerabile. La stessa esperienza del dono resta «inseparabile dal carico di conflitti potenziali, innescati dalla polarità tra generosità e obbligazione» (530). Ulteriori considerazioni provengono dall’antropologia filosofica della politica, sulla base del presupposto che «la politica, come manipolazione del potere, non esaurisce il politico come struttura della realtà umana» (c531-532). Nell’ambito del politico si presenta un duplice paradosso. Da un lato «si affrontano forma e forza, razionalità e decisione», dall’altro s’interpone uno iato «tra dimensione orizzontale e verticale, là dove il vivere insieme rischia di essere fagocitato dai rapporti di dominio» (532). «Il potere, proprio perché punto cieco e opaco, al tempo stesso trascendentale e fatto, può travalicare in violenza e dominazione; al tempo stesso è rivelatore della fragilità umana, che solo quando è consapevolmente confessata può trasformarsi in responsabilità. Il politico, come la religione e la morale, non sfugge alla problematica dell’anteriorità, della superiorità e dell’esteriorità» (534-535).

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La capacità che si manifesta in potere comporta una corrispettiva fragilità. Ma proprio la fragilità rinvia alla responsabilità, la richiede, «perché il fragile, in qualche modo, è affidato alla nostra cura» (c536). Potere non significa coincidenza col male, ma «l’ambito del potere è quello più soggetto alle devastazioni della passione umana. […] Alla grandezza di dar forma alla convivenza umana corrisponde in forma proporzionale la grandezza della possibile degenerazione» (536). «E forse - non detto, ma arguibile dall’antropologia dell’homo capax - l’avere e il valere trovano nel potere tanto la forza propulsiva per una loro mirabile realizzazione quanto il delirio supremo» (537).

♦ Situazioni limite, negazione del senso, il male: temi che s’affacciano costantemente nella ricerca ricoeuriana attraverso lo studio dei simboli e dei miti che ne riferiscono. L’implosione del senso è espressione efficace per coglierne la portata. La simbolica del male e l’interpretazione filosofica. Nel suo essere dispersione, il male non può fare sistema. La forma simbolica della macchia è un modo di rappresentare la colpa nella «dimensione primordiale dell’esperienza umana e religiosa». Descrivibile come violazione di un tabù, la macchia si produce per un contatto materiale con la sfera dell’impuro il cui segno è un’infezione. Tale simbolo «non è riconducibile alla nozione di responsabilità etica» (541). Un secondo simbolo consiste nel peccato «ed esige la personalizzazione della Potenza divina sentita come minaccia nell’esperienza dell’impurità». Si determina nella categoria biblica dell’essere davanti a Dio e il suo senso «si sviluppa nel contesto positivo dell’Alleanza stabilita da Dio con il suo popolo», dove «la relazione dialogica precede la formulazione del comandamento» (542). Terzo simbolo è il simbolo della colpevolezza, nel quale «al momento oggettivo del peccato subentra il momento soggettivo della colpa e il cattivo uso della libertà prende il posto dell’affezione esteriore dell’impurità» (543). Nel ciclo dei miti del male e della salvezza la simbolica trova espressione narrativa. Di questi miti Ricoeur elabora una quadruplice tipologia: «il dramma della creazione, il mito tragico, il mito antropologico biblico, il mito dell’anima esiliata» (544). Il passaggio da questa esposizione ad una ermeneutica dei miti del male avviene prediligendo il mito biblico, una scelta che «non manca di originalità se si tiene conto che secoli di teologia e filosofia esibiscono una contaminazione, implicita o esplicita, tra il mito biblico e il mito orfico» (549). Nel superamento di una concezione etica di Dio e del mondo, quale si dà nel Libro di Giobbe, riappare una «comprensione tragica di Dio stesso» (c549), che avrà come correlato la concezione di un Deus absconditus e la figura del Servo Sofferente di Isaia, «valida alternativa all’eroe tragico greco: la sua sofferenza, pur nella sua insensatezza e scandalosità, annunzia una qualità di dono che, evitando inutili giustificazioni razionali di Dio, apre ad una visione nuova della storia» (549). Entro una dimensione «cristologica», che include la sofferenza in Dio, si comprende il destino umano alla luce del dono. La riflessione sulla simbolica del male non può evitare di esercitare influssi sull’interpretazione filosofica. Proprio il problema del male offre alla riflessione un orientamento specifico, la quale «rinuncia a qualunque forma di sapere assoluto e s’immerge nell’interpretazione, assumendone lo stato di conflitto, peraltro già annunciato nel ciclo dei miti» (551). In Le conflit des interprétations Ricoeur si esprime così: «Lo scacco di tutte le teodicee, di tutti i sistemi concernenti il male testimonia dello scacco del sapere assoluto in senso hegeliano. Tutti i simboli danno a pensare, ma i simboli del male mostrano in modo esemplare che vi è sempre di più nei miti e nei simboli che in tutta la nostra filosofia e che un’interpretazione filosofica dei simboli non potrà diventare mai conoscenza assoluta» (c551-552). Non dunque una fenomenologia dello Spirito, ma una fenomenologia del Sacro, i cui segni rinviano ad un éschaton, «una ultimità verso la quale puntano le figure dello spirito» (c552). Di fronte al male e alla sofferenza occorre far valere un pensiero pratico ed una cultura della compassione. Distanziandosi dal mito e dalle teodicee, Ricoeur insiste sempre più su «una lettura che eviti lo scoglio della speculazione» (553) e s’interroga sui

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motivi dell’enigma del male. Ricostruisce così «i livelli di razionalità crescente che il discorso sul male ha attraversato: il mito, la sapienza, la gnosi e l’antignosi, la teodicea» (554). Al di là dell’analisi di tutte queste tentate soluzioni, Ricoeur riafferma l’indole aporetica del pensiero sul male invitando ad uscire dalla speculazione per trovare invece «convergenza di pensiero, azione e sentimenti» (558). Poiché il problema del male si apre nell’enigma e si conclude nell’aporia, si rende necessario un orientamento pratico, un passaggio dalla domanda unde malum all’azione che lo contrasta. «Prima di accusare Dio o di speculare, occorre agire eticamente e politicamente contro il male». Ed oltre la risposta pratica sta un varco ulteriore, quello di chi «riconosce il valore educativo ed espiatorio della sofferenza nella forma della partecipazione all’abbassamento del Cristo sofferente. Solo così si rinuncia al problema della ricompensa, all’esigenza di essere risparmiati, al desiderio infantile di immortalità, fino ad amare Dio per nulla, in modo da uscire definitivamente dal ciclo della retribuzione» (559). Scaturisce il valore di un pensiero pratico. «Lo scenario in cui collocare la Scrittura non è il mito protologico, ma gli altri generi (dal narrativo al profetico) che ne diventano l’ermeneutica demitologizzante con una funzione pratica» (560). Mentre i racconti fondatori spingono il pensiero verso un arretramento e trattano «in forma indistinta tanto l’ethos quanto il cosmos» (561), il problema del male esige un orientamento in avanti, un pensiero rivolto al futuro. «Il male è una categoria dell’azione e non della teoria. Il male è ciò contro cui si lotta, quando si è rinunciato a spiegarlo» (c562). Dunque «rovesciamento di prospettiva: dallo speculativo al pratico, dal passato dell’origine al futuro del fare» (562). In dimensione pratica si chiarifica il senso della fede come rischio nella categoria del «nonostante…». Sapienza non insegnabile, speranza personale: «celebrazione della vita, nonostante il male» (563).

♦ Dopo il capitolo sull’implosione del senso, il capitolo su Il senso in eccedenza. La riflessione viene subito indirizzata verso la libertà secondo la speranza, che è anche il titolo di un saggio di Ricoeur risalente al 1968. «Il consenso pratico al mondo […] si colora di speranza», che ne è l’anima, questa «eccellenza escatologica» (566) che al contempo «non rinuncia all’unità del vero ma non l’impone» (567), fino al corollario della speranza cristiana che consente senza riserve il rispetto della verità dell’altro nella sua alterità. «Il primo Adamo è comprensibile a partire dall’Ultimo» (567), ovvero la bontà originaria della creazione si percepisce nella prospettiva salvifica finale. Con un richiamo alla teologia della speranza di Jürgen Moltmann, Ricoeur prospetta un’interpretazione della «libertà religiosa» in conformità con «l’interpretazione della resurrezione in termini di promessa e di speranza» (c568), nonostante l’ineluttabilità della morte. Nella riflessione successiva, con l’affermarsi dell’antropologia dell’homo capax, è questi «il destinatario della religione, cioè della speranza», che «opera sempre in stretta connessione con l’immaginazione: al passato, al presente o al futuro la speranza è l’immaginazione del possibile, dell’innocenza e della riconciliazione, del senso nella sua esuberanza» (570). E intanto s’affaccia il tema dell’amore. Dalla reciprocità all’economia del dono. Il tragico dell’azione, nell’insolubile incongruenza da cui si dipana, richiede un superamento dell’etica, se «l’etica ha come misura fondamentale la reciprocità» (571). «Stima di sé, sollecitudine, senso di giustizia hanno un fondamentale tratto comune: l’etica è impresa di giustizia, innanzitutto. Dalla sua parte stanno l’argomentazione equanime, il sistema democratico e secoli d’affinamento giuridico. Ma la giustizia/equità è sufficiente? Dal punto di vista strettamente etico, Ricoeur sembra dire di sì. Da un altro punto di vista, cristiano ma non solo, s’apre un capitolo, in cui la logica dell’equivalenza e della reciprocità sono convocate a misurarsi con la logica della sovrabbondanza e della dissimmetria. Fanno corona parole ricche di altri significati e di valenze: amore, dono, perdono» (572). La reciprocità provoca verso nuovi orizzonti. «La vita è buona se e solo se è con l’altro e per l’altro. […] L’intervento a favore di altri tende però a sfuggire alla sola regola della reciprocità e preannuncia l’uscita dal regime circoscritto dell’etica» (572-573).

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Tra amore e giustizia, l’amore sconfina nell’ambito delle cosiddette esperienze-limite. Alle sue varianti in lingua greca di eros, philía e agape Ricoeur aggiunge la sollecitudine e il rispetto. «A fare da ponte e ad evitare negazioni reciproche tra l’amore e la giustizia sta la saggezza della Regola d’oro. Regola d’oro e comandamento dell’amore non si escludono. Il comandamento opera una conversione della regola, trasforma la tendenza in capacità di accoglienza, l’intenzionalità interessata in economia del dono. Viceversa la regola preserva il comandamento da una possibile perversione» (573). Frapposta tra l’interesse e il sacrificio di sé, la Regola d’oro ha la funzione di portare equilibrio, mentre amore e giustizia cercano una mutua collaborazione, con l’obiettivo fondamentale di non sostituire l’amore alla giustizia. «Fare dell’amore il motivo profondo della giustizia e della giustizia il braccio efficace dell’amore», afferma Ricoeur. Poi ancora, dato il carattere sovversivo dell’amore: «L’amore rompe le frontiere provvisorie, i limiti culturali inevitabili, le figure storiche necessariamente limitate della giustizia. Il caso dell’amore dei nemici è a questo riguardo esemplare» (c574). Ci vuole cautela nell’affrontare il tema dell’amore. «Designa una dimensione nuova, quella della Fonte o della Poesia». Una filosofia dell’amore appartiene all’orizzonte di una «meditazione sulla creazione e sul dono» (c574). Prendendo le distanze dalla tesi di Anders Nygren sull’opposizione tra eros e agape, che invece ha ottenuto successo in ambito protestante, Ricoeur pensa di poter collocare eros, philía e agape «sulla stessa spirale ascendente e discendente» (c577). In Penser la Bible, al termine di un commento al Cantico dei Cantici, suggerisce nel nuziale «il punto di intersezione, virtuale o reale, in cui si intrecciano le figure dell’amore», che reciprocamente stanno «in rapporto di intersignificazione piuttosto che di gerarchizzazione» (c578). Il tema del dono e del suo «mistero» è sullo sfondo degli aspetti finora considerati. All’economia del dono appartiene la grande questione del perdono, specie se si tratta di perdono difficile. L’uomo è «fragile sintesi di finito e infinito» e «l’errore si insinua nella sua apertura prospettica al mondo; l’altro può non essere colto nella sua valenza di persona ed essere ridotto a cosa; nell’intimità del soggetto si apre un vertiginoso scollamento tra sé e sé nei registri dell’avere, del potere e del valere». Ma «di fronte alla potenza del negativo, che appare soverchiante, la speranza permette di attendere qualcosa che è oltre il male perché lo precede come bontà originaria, e l’amore, nelle sue forme riuscite, dice poeticamente di altre possibilità, alternative alla pura risposta violenta» (580). «Il fuori testo sul perdono è un capitolo di vera e propria escatologia filosofica - un parerga filosofico all’indagine filosofica sulla storia, sulla memoria e sull’oblio. Ciò che la speranza svolge al futuro, il perdono fa al passato e al presente non senza trovare una qualche illuminazione e forza dal futuro stesso» (581). «Profondità della colpa», «altezza del perdono» (582). Da un lato la confessione, dall’altro l’inno. L’odissea del perdono ha a che fare con diversi tipi di colpa, ma la sua natura è strettamente congiunta con la realtà del dono. Su suggerimento di H. Arendt, «a partire dalla simbolica dello sciogliere-legare si collega la coppia dialettica di perdono (scioglimento) e promessa (legamento)» (587). Secondo Ricoeur, «il perdono possiede quell’effetto di dissociare il debito dalla sua carica di colpa e, in qualche maniera, di mettere a nudo il fenomeno del debito, in quanto dipendenza da un’eredità ricevuta. Ma esso fa qualcosa di più. Per lo meno, dovrebbe fare di più: slegare l’agente dal suo atto» (c588). Nello scioglimento dell’agente dal suo atto consiste il nodo cruciale della questione del perdono. Il colpevole deve essere reintrodotto nella sua capacità di ricominciare, ritornare ad essere homo capax con potenza di agire, al di là dei suoi errori o delitti. «La promessa, che proietta l’azione verso l’avvenire, potrebbe impadronirsi proprio di questa capacità restaurata. La formula di tale parola liberatrice, abbandonata alla nudità della sua enunciazione, sarebbe: tu vali molto di più delle tue azioni» (c589).

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5. La filosofia e il suo altro (parte quinta)

♦ L’ubiquità del politico. Già s’è detto del quadro di Rembrandt su Aristotele che contempla il busto di Omero nell’interpretazione di Ricoeur, un quadro che mette in gioco filosofia, poesia e politica e nella cui raffigurazione egli si rispecchia. «La filosofia politica di Ricoeur non è cospicua dal punto di vista quantitativo ma rilevante sotto il profilo qualitativo», ed ha l’intento di «far incontrare le ragioni del liberalismo politico con quelle del socialismo democratico attorno a un nucleo che si presenta teoricamente e praticamente paradossale» (594). Paradosso politico e paradosso dell’autorità sono temi che trovano sviluppo dal confronto con due interlocutori privilegiati, Max Weber e Hannah Arendt, oltre ovviamente a pensatori distribuiti sulla scia della tradizione sia antica che moderna. I fatti di Budapest del 1956 sconvolsero le coscienze e non lasciarono indifferente il pensiero di Ricoeur come riflessione sul potere politico già avviata da lungo tempo. Razionalità del potere e sua possibile perversione ne mostrano la duplicità. Nel rivendicare l’autonomia della politica rispetto all’economia, e più in generale l’autonomia del politico, se ne delinea il tratto di razionalità intrinseca e di patologie congiunte, la prima come espressione di un rapporto umano non riconducibile ai conflitti di classe, le seconde come mali specifici del potere politico. L’avvio della riflessione sull’autonomia del politico prende spunto dal pensiero greco, per il quale «la politica rivela il suo telos solo se può essere collegata con l’intenzione umana fondamentale, il bene e la felicità», nella reciproca implicazione di politica ed etica e dove «l’individuo diventa umano solo in quella totalità che è l’universalità dei cittadini» (599). Una domanda di fondo riguarda il paradosso dell’autorità: donde essa viene in prima ed ultima istanza? Dall’asimmetria tra comandare ed obbedire, la questione s’intensifica in un’altra opposizione: da un lato il diritto di comandare, dall’altro il riconoscimento di quel diritto da parte dei subordinati. Se l’autorità in forma di dominazione si distingue dalla violenza per la credibilità che proviene dalla legittimità almeno pretesa, è vero che oggi è assai stentato ogni riconoscimento di autorità, entro un atteggiamento di generale riluttanza a dare credito, nel riconoscimento di superiorità a chiunque sia investito di un potere. Davanti alle difficoltà della democrazia, solo la consapevolezza della sua fragilità ne preserva il successo e la salva dalla decadenza. In essa s’intersecano il piano orizzontale del voler vivere insieme e il piano verticale che si struttura gerarchicamente e comporta l’uso legittimo della violenza. Ma «il progetto democratico consiste in un insieme di dispositivi grazie ai quali il razionale prevale sull’irrazionale e l’orizzontale giustifica il verticale» (610). Le forme del discorso politico si possono individuare tra ideologia, utopia e retorica. Mentre ideologia e utopia sono discorsi «forti», la persuasione dell’argomentazione retorica non ha la medesima forza dimostrativa di carattere scientifico in quanto si muove tra il probabile e il verosimile. Anche il suo linguaggio sta all’insegna della fragilità, pur non rendendosi inadempiente. Il compito della retorica si distribuisce su tre livelli: il dibattito e la deliberazione politica, le discussioni sui fini del buon governo e l’orizzonte dei valori, la rappresentazione della vita buona. In primo luogo sta il dibattito politico, tra conflitto e consenso, ma nella forma di apertura e negoziabilità, sapendo affrontare «pretese rivali» nell’intento di perseguire la «formazione di una decisione comune» (617). Viene poi la questione dei fini del buon governo e dell’orizzonte dei valori, quali sono dati da «sicurezza, prosperità, libertà, giustizia, eguaglianza» estesi in una «pluralità di significati» (617-618). Perciò la questione del fine del buon governo resta una questione difficile a decidersi, data la presenza di valori che si escludono a vicenda. «Nell’azione, bisogna scegliere, dunque preferire. Dunque escludere» (c618). Infine, a motivo della pluralità dei fini, la rappresentazione della vita buona avanza tra ambiguità ed ambivalenza, caratterizzata da una «crisi di legittimazione» (618) ben constatabile nelle società occidentali contemporanee. In

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conclusione, scrive Ricoeur, «il linguaggio politico è retorico non per debolezza, ma per essenza. Ciò che fa il suo limite, fa anche la sua grandezza. L’uomo non ha migliore organo per interpretare se stesso come animale politico» (c619). Se tra etica, politica ed economia occorre far valere una distinzione teorica finalizzata a preservarne specificità ed autonomia, occorre al contempo cercarne il corretto raccordo. Prospettiva, previsione e pianificazione caratterizzano l’esercizio dell’economia, che però lascia aperta la domanda sul tipo di uomo che per suo tramite s’intende costruire e la questione della realizzazione di una democrazia economica accessibile al maggior numero. Il rischio di un’assenza di senso non toglie la necessità di una scelta etica. Di fronte al predominare dell’insignificanza in vari campi, compito dell’etica è quello di saper guardare all’insieme degli uomini non meno che alla personalizzazione delle loro relazioni. Etica, politica, diritto vengono a costituire quel versante in cui la politica entra in relazione con il piano morale e giuridico e gli orizzonti della questione si allargano e si approfondiscono. Il punto di congiunzione è ravvisabile nella tematica che riguarda il Giusto. Diritto penale, diritto civile e sistema di distribuzione di ruoli, compiti e incarichi delineano i cerchi della riflessione in un’estensione sempre maggiore. Irriducibile tanto alla morale quanto al politico, la natura del diritto si profila da un lato come «concetto e ambito» del Giusto, dall’altro come «compito ermeneutico». Se inoltre la vita associata comporta il conflitto, la domanda cade sul suo orientamento etico, tra giustizia ed equità, dove dell’equità si dice che «è un altro nome del senso della giustizia dopo che questo ha attraversato le prove e i conflitti suscitati dall’applicazione della regola di giustizia» (c635).

♦ Il secondo capitolo ha per titolo La singolarità comunicabile e si apre sul rapporto tra poesia e filosofia, sempre con riferimento alla già esposta interpretazione ricoeuriana del quadro di Rembrandt su Aristotele ed Omero. «Per la filosofia, che nasce a contatto con la poesia ma per un altro destino, la poesia non è un lusso aggiuntivo quanto piuttosto una condizione di esistenza. Senza parola poetica non c’è mondo abitabile» (637). Ma, precisa Ricoeur in Le conflit des interprétations, «la poesia è più che l’arte di fare poemi, è póiesis, creazione nel senso più ampio del termine» (c638). In tal senso la poesia è una delle fonti imprescindibili del pensiero di Ricoeur, sulla scia di un dialogo tra poesia e filosofia aperto nel Novecento anzitutto da Heidegger, poi da Gadamer ed altri. Poesia biblica, tragedia greca e romanzo moderno costituiscono per lui il lascito fondamentale, ma resta il segno di letterati quali Montaigne, Pascal, Rousseau e più ancora Dostoevskij e Shakespeare. L’affermazione di un’interazione tra letteratura e filosofia giunge alla considerazione che la letteratura può affrontare questioni filosofiche «spesso con un’ampiezza sconosciuta alla filosofia» (638), ma resta la «netta esclusione della derivazione della filosofia dalla poetica» (639). Simbolica, poetica ed ermeneutica. La valenza poetica del linguaggio si nutre di immaginazione. Nel suo significare viene oltrepassata o violata la prospettiva della semplice percezione. Forza della simbolica, o poetica del simbolo. «Sýmbolon - ciò che tiene insieme - è póiesis - esplorazione ed espressione del cosmo, della psiche, dell’esistenza nelle sue fratture e nelle sue possibilità -, póiesis che, per quanto sospinta ai margini, precede e avvolge ogni theoria e ogni praxis» (641). Per questo, in contrasto con la psicoanalisi, Ricoeur evita la riduzione del poetico all’onirico, da un lato perché «le opere d’arte sono non solo proiezioni dei conflitti dell’artista, ma anche l’abbozzo della loro soluzione e l’instaurazione del poetico in quanto tale», dall’altro perché «la funzione poetica investe di significato la sfera del valere, con conseguenze che riguardano il senso complessivo dell’avventura umana» (642). Essendo raccolta e integrazione di una molteplicità di significati, «il luogo dell’arte è la polisemia» (644), e grazie all’immaginazione «la creatività si concentra nell’integrazione dei livelli». «Nella tensione tra percepire e dire, il mondo si dà attraverso l’attività nascosta e oscura dell’immaginazione trascendentale, terzo termine in grado di mediare tra le polarità di intelletto e sensibilità, di logos e pathos» (645). Nella vicenda artistica novecentesca le arti figurative e non solo figurative perdono il ruolo di riproduzione della realtà. Avviene così il passaggio dalla funzione rappresentativa

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alla funzione espressiva. Il rapporto tra estetica e ontologia viene descritto a partire dalla funzione espressiva dell’arte come libero gioco di segni. «Questa “libertà” come libero gioco coincide con la creatività allo stato puro fino a condensarsi nella singolarità propria dell’opera d’arte» (651). Nel dire il mondo in forma diversa dalla rappresentazione si rivela un «sovrappiù», una «dimensione di sovrastoricità». Il che avviene, come si esprime Ricoeur, «iconizzando il rapporto emozionale singolare dell’artista al mondo» (c651). «Mentre la nuda esperienza è incomunicabile per mancanza di coesione, l’opera d’arte, pur strutturalmente contrassegnata dalla singolarità, non è ineffabile, anzi ciò che in questa singolarità è sorprendente è proprio la sua comunicabilità» (652). Oltre l’intenzionalità dell’autore, un’opera d’arte mira alla condivisione superando le barriere del tempo, ma allo stesso tempo mostrandosi nella storicità della ricezione, grazie ad una «capacità indefinita di essere reincarnata, ogni volta in modo differente, ma sostanzialmente ed essenzialmente fondatrice» (c653). Quale invece il legame tra mood e mondo? Il sentimento non è identificabile con una semplice emozione passeggera, ma «è una maniera di trovarsi nel mondo. […] Nulla è più ontologico del sentimento. Suo tramite noi abitiamo il mondo» (c654). «Il mood permette al soggetto (artista o lettore) di entrare in rapporto con sé e, con ciò stesso, gli consente di aprirsi al mondo» (655). «L’opera d’arte si riferisce in effetti a un’emozione che è scomparsa come emozione, ma che è stata preservata come opera. […] Ogni opera è davvero una modalità d’anima, una modulazione d’anima» (c655). Tra radicamento in un mondo pre-oggettivo e progettazione dei nostri possibili si dà la nostra appartenenza di soggetti ad un mondo che, pur precedendoci, porta infine il segno delle nostre opere. Il bello e il sublime, il buono, il santo. Quali rapporti intercorrono tra estetica, etica e religione? «L’etica orienta l’azione, l’estetica la sospende. […] Se non bisogna ricavare un’etica dall’estetica, perché la giustizia è irriducibile a un’idea estetica, l’estetica può però suggerirle qualcosa, come ha proposto Kant con l’esplorazione del Sublime distinto dal Bello. La singolarità, la comunicabilità, la creatività hanno una valenza non solo estetica e l’arte ha un significato etico potenziale nella misura in cui ci libera dalla dittatura dell’utile e del mercantile» (657-658). «In territori limitrofi al Giusto, il Bello si può anche incontrare con il Sacro o il Santo. […] L’arte può essere una via alla trascendenza, ma senza costrizione o ingiunzione, tanto nel caso di Mozart quanto in quello di Bach. Lo stesso sublime, nell’accezione kantiana, ha una valenza solo potenzialmente e mai espressamente religiosa» (659).

♦ Col terzo capitolo si apre il discorso su Filosofia e religione. Lectures 3 porta come sottotitolo Aux frontières de la philosophie, «Alle frontiere della filosofia». La distinzione kantiana tra Erkennen (conoscere) e Denken (pensare) è rievocata per sottolineare la maggior vastità del pensiero rispetto alla conoscenza. Analogamente all’arte, la religione possiede un pensiero, pur provenendo dall’ambito della non filosofia. Una serie di tappe e di confronti con autori variegati caratterizza la ricerca di Ricoeur a proposito di Dio quale oggetto della filosofia, specie dopo la moderna critica che ha investito pensiero speculativo e religione. Alla domanda se la filosofia possa ancora occuparsi di Dio, «estraneo allo spirito dei tempi, l’orientamento riflessivo da cui Ricoeur prende le mosse risponde affermativamente e anche con enfasi» (664). Tuttavia con qualche precisazione. Anzitutto perché tra il Dio dei filosofi e il Dio che si può pregare di comune c’è soltanto il nome. Tra teologia filosofica strettamente intesa e teologia biblica non si dà dunque relazione. Solo in Penser la Bible si apre un nuovo scorcio. Resta da chiarire meglio il rapporto tra filosofia e religione. La filosofia, senza trasformarsi né in teologia filosofica né in teologia biblica, può incontrare ed occuparsi dell’esperienza religiosa e delle sue oggettivazioni. È infatti compito della filosofia interrogare e lasciarsi interrogare da ciò che filosofia non è. Con passaggi progressivi Ricoeur si muove tra fenomenologia ed ermeneutica della religione. «Se l’approccio fenomenologico è in gran parte derivato e utilizzato a partire da M. Eliade sotto il controllo del pensiero husserliano, l’approccio ermeneutico, pur facendo tesoro della linea interpretativa che va da Schleiermacher a Bultmann passando per

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Dilthey e intrecciandosi con il lavoro concreto dell’esegesi e della teologia biblica, è una rielaborazione del tutto originale da parte di Ricoeur. Invece, nella tappa successiva che si fa carico anche della problematica relazione tra religione e cristianesimo, l’innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia fino alla reciproca implicazione si trasforma in connessione e discontinuità tra la fenomenologia della manifestazione e l’ermeneutica della proclamazione» (672). Dalla fenomenologia del Sacro all’ermeneutica della tradizione ebraico-cristiana, quest’ultima incentrata sul ruolo della parola nella teologia del Nome e nell’istruzione etica, l’intento è la ricerca di una mediazione, di un equilibrio tra i due poli, «espresso lungo tutta la storia della Chiesa cristiana come dialettica del sacramento e della predicazione» (c672-673). Successivamente una svolta: la fenomenologia della religione, pur incontrando difficoltà, si dispiega solo a partire da un radicamento ed un orientamento ermeneuticamente fondati, in quanto «la religione è come il linguaggio stesso, che si realizza solo nelle lingue» (c673). A sua volta l’ermeneutica dovrà essere ermeneutica testuale o scritturistica. Prima di individuare le linee di una fenomenologia universale della religione occorre accostarsi al particolare di una religione. Solo in seguito, quasi per un procedimento di transfert, è possibile trascorrere dalla propria esperienza all’esperienza altrui, sempre con la consapevolezza di essere di fronte all’articolarsi del molteplice che mette in guardia dalla caduta nel sistematico. «Ne consegue che una fenomenologia della religione resta unicamente un’idea regolativa, al modo di un’ospitalità ecumenica, simile a quella che nell’ambito linguistico presiede alla traduzione» (674). Il dibattito su religione e fede ha avuto nella teologia protestante del Novecento un punto di forza e di sviluppo notevole. Vicino alle posizioni di Karl Barth, che «aveva dichiarato di preferire l’ateismo di Feuerbach alla religione di Schleiermacher, Ricoeur stabilisce un rapporto triadico, quasi dialettico, tra religione, ateismo e fede. All’ateismo viene affidato il compito della negazione, quasi per sgomberare il campo a favore della possibilità della fede in un’epoca post-religiosa, secondo un modello che non è quello del superamento ma della tensione reciproca» (675). In seguito Ricoeur, richiamandosi al protestantesimo riformato, cercherà di comprendere il senso delle grandi religioni in una prospettiva di dialogo ecumenico interreligioso. Nel rapporto tra Bibbia e pensiero rivestono funzioni diverse la filosofia, l’esegesi e la teologia. Ricoeur «non nasconde la sua simpatia per quella teologia cristiana che è poco “filosofica”», dove l’«attestazione scritturale» prevale sul «patrimonio teoretico della filosofia» (678). Assai più complessa si fa invece l’articolazione di una filosofia della religione, che viene a fondersi con la storia della critica della religione, anzi, è la religione stessa che di fonte alla filosofia elabora la sua critica. Da Spinoza ai maestri del sospetto - Marx, Nietzsche e Freud - è possibile intravedere un significato religioso dell’ateismo. La religione non può evitare di sottoporsi ad un esame critico per ritrovare meglio la propria identità. Nell’allargarsi della coscienza grazie agli spazi aperti dalla critica, tale esame non andrebbe inteso come un atto facoltativo. Ciò nonostante, il repertorio della critica non esaurisce il nucleo simbolico della religione che si manifesta come «escatologia del Sacro» ed «amore per la creazione», ben al di là di quanto nella religione si fa strada come ricerca di accusa o di consolazione. «L’amore della creazione è una forma di consolazione che non dipende da alcuna ricompensa esterna e che è parimenti distinta da ogni vendetta. L’amore trova in se stesso la propria ricompensa, è esso stesso la consolazione» (c680). Ciò avviene quando l’idolo si allontana dal simbolo. Se l’idolo svolge «una funzione parassitaria nel soggetto, in particolare nel falso Cogito narcisistico» (680), il secondo rinvia ad una verità escatologica nella sua essenza. Perciò, scrive Ricoeur, «questo, io credo, è il significato religioso dell’ateismo: bisogna che un idolo muoia, affinché inizi a parlare un simbolo dell’essere» (c681).

♦ Leggere e pensare la Bibbia è il capitolo che chiude l’ultima sezione dell’opera. Anzitutto la questione metodologica del passaggio dall’esegesi all’ermeneutica. Ricoeur si pone tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale, dove l’interpretazione della

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Heilsgeschichte (storia della salvezza) e della connessa teologia dell’Alleanza si serve degli apporti di teologi riformati quali Karl Barth, Gehrard von Rad ed Oscar Cullmann. «Speranza e storia sono il binomio che guida l’interpretazione creatrice del mondo simbolico della Bibbia» (705). In Finitude et culpabilité si delinea un metodo in cui convergono fenomenologia eidetica, esegesi ed ermeneutica, ma senza scordare il senso della produzione storico-critica. Il tutto nel «quadro unitario della Heilsgeschichte, capace di congiungere nel segno della fede e della speranza l’Origine con la Fine» (706). Rilevante è l’ispirazione ermeneutica bultmanniana sulla base del principio del credere per comprendere e del comprendere per credere. Il passaggio dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica avviene con la presa di distanza da alcuni aspetti del metodo storico-critico. La «critica del metodo storico-critico» si volge ad una sua rettifica, in particolare su tre aspetti descritti come illusioni: illusione della fonte, illusione dell’autore, illusione del destinatario. Nel primo caso, «non è la fonte che fa comprendere il testo, ma il testo che sceglie e articola le sue fonti» (c710). Nel secondo, «l’autore non è che una funzione del testo ovvero una grandezza ermeneutica». Nel terzo «il discorso, quando diventa testo, assume un’autonomia che lo sottrae all’autore e al primo destinatario; […] è il testo stesso a crearsi il suo pubblico» (710). Sullo sfondo di questa critica avanza la «lezione strutturale. […] Il testo va spiegato con il testo, grazie alla struttura che esibisce a livello di superficie e in profondità». Ma Ricoeur respinge quell’ideologia del metodo strutturale «che fa coincidere il senso di un testo con la logica della sua struttura» (711), preferendo invece un’apertura al processo ermeneutico che porta in luce questioni assai più importanti. Con priorità data alla lettura della Bibbia, per giungere poi alla multiformità del testo e al suo mondo, se ne possono distinguere tre tipi: lettura parcellare, applicabile al genere letterario come individuazione del discorso biblico; lettura intertestuale, dove emerge l’intersignificazione dei discorsi nel loro intersecarsi; lettura globale, che «vuol dire innanzitutto rispetto della polifonia. Il gusto della varietà preserva la peculiarità di ogni genere letterario, a condizione che non si trasformi in una pura dispersione di significati» (713). Nell’esplorazione dei generi letterari Ricoeur si concentra soprattutto sull’Antico Testamento, dove compaiono il genere narrativo, profetico, prescrittivo, sapienziale, innico. Se «l’interpretazione poetica permette al lettore di cogliere in una unità letteraria la biblioteca e la polifonia della Bibbia» (719), e se la formulazione bultmanniana del rapporto tra fede e comprensione s’instaura a sua volta sul rapporto personale dell’individuo con la Parola che gli è rivolta per invitarlo alla decisione, il cosiddetto circolo ermeneutico, che ad un livello molto elementare riguarda il rapporto tra una parte e il tutto, deve essere ampliato su più di una visuale. Dunque esso si esprime non solo tra il singolo individuo e la Parola, ma tra la Parola di Dio e la Scrittura, essendo quest’ultima a trasmettere la prima. Oppure tra la Parola-Scrittura e la comunità dei credenti che la accoglie, perché «senza Scrittura non c’è comunità; ma la testimonianza della comunità è essenziale alla Scrittura per essere riconosciuta come tale» (720). In questa modalità è incluso il rapporto tra Scrittura e Tradizione, come pure il rapporto tra Scrittura e cultura quale orizzonte in cui la Scrittura interagisce interpellandolo e lasciandosi interpellare. Ed infine il circolo si attua tra il singolo credente e la Scrittura, dove la risposta di fede permette alla parola di essere ascoltata come Parola di Dio, quindi come parola rivelata. Ma l’ultima garanzia dell’interpretazione è una testimonianza interiore dello Spirito, grazie a cui si disegna quel circolo nel quale la parti in causa si costituiscono vicendevolmente. Un compito primario affidato all’ermeneutica resta per Ricoeur il dispiegarsi del mondo del testo, con la caratteristica di essere rivelante. La poeticità del testo biblico offre del mondo una «nuova comprensione» in quanto vi apre la «realtà del possibile». E non solo: «Il mondo biblico ha dimensioni cosmiche - è una creazione -, comunitarie - si tratta di un popolo -, storico-culturali - si tratta di Israele, del regno di Dio -, e personali. L’uomo è coinvolto secondo le sue molteplici dimensioni che sono anch’esse cosmiche, storico-mondiali e al tempo stesso antropologiche, etiche e personalistiche» (c722). Perciò il

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novum di cui il testo biblico è portatore «si annuncia come un “di più” ed è traducibile in concetti teologici attraverso la logica della sovrabbondanza e l’economia del dono» (723). Al «punto culminante dell’impresa ermeneutica» s’incontra il mondo del lettore. Il testo mette in gioco diversi fattori. In primo luogo la fede, che «scaturisce dal mondo del testo in una dimensione iperlinguistica che sfugge all’ermeneutica, pur non potendo fare a meno del linguaggio per esprimersi». E come tale «precede e segue l’ermeneutica». L’atto dell’appropriazione richiede «insistenza sulla lettura» come «esercizio di responsabilità» capace di includere la «critica del sospetto» su una via di «de-costruzione dei pregiudizi» (724). Oltre la fede, un secondo fattore su cui viene singolarmente posto l’accento è l’immaginazione, poiché se il messaggio biblico «non cambia l’immaginazione con l’apertura al possibile, non c’è conversione della volontà e dell’esistenza». Poi ancora «al possibile fa seguito l’azione, forse il punto più alto dell’applicazione» (724) ed «attività interpretante creatrice» (725). Infine la testimonianza come proclamazione e impegno personale, entro cui si attua il raccordo più intenso tra mondo del testo e mondo del lettore. Il pensiero non è una prerogativa esclusiva della filosofia. La filosofia può invece presupporre che vi sia un pensiero nei testi religiosi, di fronte al quale le spetta il compito dell’ascolto e del dialogo. Esiste dunque un pensiero della Bibbia ricavabile grazie a un’indagine letteraria attenta e paziente e che deve tener conto dei rilievi finora accennati sia per quanto riguarda i generi letterari, sia per quanto riguarda la complessità del circolo ermeneutico. Se pensiero biblico e pensiero filosofico stanno su piani differenti, c’è comunque un intersecarsi ed un reciproco fecondarsi tra pensiero biblico e pensiero delle culture che gli offrono accoglienza. Il loro incontro è divenuto un destino costitutivo della cultura alla quale apparteniamo, «un compito con cui la nostra riflessione deve misurarsi con onestà e responsabilità totali» (c728). «Pensare la Bibbia», secondo l’espressione di Ricoeur, significa pensare Dio nel modo molteplice in cui quel testo lo dice. E in primo luogo delineano il metodo di quel pensiero il tema della rivelazione e il tema del tempo. I testi biblici presentano se stessi come originati da una fonte non identificabile con il testo. Ma poiché il concetto di rivelazione scaturisce da una molteplicità di testi letterari, occorre a sua volta che della rivelazione venga mantenuto un concetto plurale, polisemico ed analogico, più che non operare un appianamento su un concetto esclusivo, solitamente di ispirazione profetica. Per quanto riguarda il tempo, occorre anzitutto evitare l’opposizione frontale tra la concezione biblica e la concezione greca, sia perché entrambe non sono univoche, sia perché la Bibbia non consente di ricavare «un concetto di tempo in grado di entrare in competizione con quello filosofico» (733). Il filo conduttore della riflessione sul pensiero biblico gravita intorno alla domanda: «quale Dio?», specie in un’epoca che segue al processo nei confronti dell’ontoteologia. Il passo scritturistico di Esodo 3,14 ha da sempre costituito una cerniera tra la metafisica greca e la rivelazione ebraico-cristiana. Si tratta del rapporto tra Dio e l’essere. Dall’espressione ebraica «’ehyeh ’asher ’ehyeh», a quella greca «egô eimi ho ôn», a quella latina «sum qui sum», ogni traduzione si rivela un palese atto di interpretazione. La struttura linguistica della formula ebraica contiene un groviglio di difficoltà a più livelli, mentre la traduzione greca dei LXX, oltre a sigillare l’incontro tra due culture, «annuncia la fusione tra un’ontologia positiva e una sospensione ascetica del Nome, sotto l’egida stessa del verbo einai» (c736). Una lunga tradizione ha contemplato in questa formula la possibilità di un’intelligenza della fede che congiunge il Dio della rivelazione e l’Essere dei filosofi. Ricoeur richiama il diverso contributo di Agostino e dello Pseudo-Dionigi. Da un lato il vere et ipsum Esse, dall’altro l’inaugurazione della via apofatica, una via «che mira all’al di là dell’Essere e considera la non-conoscenza come la conoscenza più adeguata di Dio». Come al solito, Ricoeur batte un sentiero in una terra di mezzo. Teologia affermativa e teologia apofatica non vanno opposte e non si escludono. «Nell’insopprimibile differenza l’una ha bisogno dell’altra:

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Nome che nega, Nome che afferma; trascendenza dell’Uno sull’essere, trascendenza dell’Essere sugli esseri» (737). Diverse sono in proposito le posizioni dei medioevali, spesso sfocianti in un compromesso tra l’ontologismo dell’affermazione «Dio è l’essere» o l’apofatismo secondo cui «Dio è ineffabile». Étienne Gilson, grande studioso del pensiero medioevale, «ammette però che l’incontro del Dio delle Scritture e l’Essere dei filosofi è storicamente contingente e speculativamente fragile. Facendo leva su questa ammissione, Ricoeur si domanda: “se abbiamo potuto chiamare un evento di pensiero la convergenza tra Dio e l’Essere, non sarà forse un altro evento di pensiero il fatto che questa convergenza sia giunta a dissolversi e che, da plausibile che era, sia diventata sospetta?”» (738). La questione su «quale Dio?» tocca anche il problema della creazione. Quale il rapporto tra storia primordiale e storia salvifica, tra creazione e senso della storia? Il pensiero biblico sulla creazione si muove tra le categorie di separazione e di origine, la prima per dire la distinzione tra il Creatore e la creatura, la seconda per affermare «la promessa o almeno l’esigenza di un seguito» (742). Nella conclusione, «la riflessione di Ricoeur si avvale di un confronto essenziale con Franz Rosenzweig, la cui opera realizza la distruzione della totalità, sostituita da una rete di rapporti tra creazione, rivelazione e redenzione, il cui nesso è una temporalità profonda, irriducibile a ogni cronologia» (745). «C’è un tempo della Creazione, ed è quello di un passato immemoriale; un tempo della Rivelazione, che è quello del colloquio dell’amante e dell’amato; e un tempo del Regno, che è quello che non cessa di accadere» (c745). Nel commento al comandamento di non uccidere, Ricoeur prende in considerazione il problema riguardante l’etica e Dio. «Se un tempo parlare di etica voleva dire evocare immediatamente la trascendenza divina del comandamento, oggi inversamente l’etica rivendica una sostanziale non trascendibilità che mette in questione ogni discorrere su Dio. L’etica diventa una pregiudiziale per ogni pensiero su Dio e forse esiziale anche per se stessa» (745). Nella lamentazione come preghiera, di cui molti Salmi sono l’emblema, «la parola dà espressione al grido, rendendolo degno di memoria e canto» (750). Nell’immagine del Servo sofferente è scritta «la pagina più alta, che prestandosi a un pluralismo di interpretazioni preserva l’inscrutabilità divina» (751). Lo stesso grido sulla croce di Gesù morente è il grido di chi «riveste la sua sofferenza con le parole del Salmo, che in tal modo egli abita dall’interno» (c751-752). L’attualità della lamentazione, «grido della sofferenza pura» (751), può costituire un invito ad evitare l’alternativa: «o costruire (ricostruire) dimostrazioni non credibili o professare un fideismo incomunicabile» (c752), oltre che un invito ad una pratica della compassione nei confronti dei sofferenti. Un riferimento al Cantico dei Cantici all’insegna della metafora nuziale chiude il capitolo. Di questo poemetto Ricoeur propone una «lettura multipla», precisando che legame nuziale non va confuso con legame matrimoniale e designa un amore «libero e fedele» (752). Col ricorso ad una lettura intertestuale, il confronto più immediato è con Genesi 2,23, «ove l’amore umano è celebrato dentro un mito di creazione, che non conosce differenza tra amore spirituale e amore carnale e non suggerisce analogie tra l’uno e l’altro. […] L’innocenza dell’amore erotico all’interno della creazione buona, al di là del bene e del male, è uno spazio riaperto dal Cantico» (755). Riletto alla luce della Genesi, «il Cantico diventa un testo religioso in quanto vi si può cogliere la parola di un Dio silenzioso e innominato, indistinguibile dal potere di attestazione di sé dell’amore. […] Da un lato, l’amore divino investito nell’alleanza di Israele e poi nel legame con Cristo, con la sua metaforica nuziale assolutamente originale; dall’altro, l’amore umano investito nel legame erotico, con la sua metaforica parimenti originale che trasforma il corpo in una sorta di paesaggio» (c756).

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6. Opera aperta

♦ Opera aperta è nel libro di Aime una sorta di appendice, «una lettura complessiva del pensiero di Ricoeur nel segno del dialogo e della domanda aperta» (760), una breve rotta che riprende e sintetizza, ma nello stesso tempo amplia e proietta in avanti le principali tesi presentate. Conclude nell’elaborazione un testo ormai chiamato, sulla scia del percorso attuato, a diventare opera, quindi a riaprirsi quale fonte di esistenza. Di questa sezione finale si rimanda ad una lettura diretta e completa per il denso concentrato di contenuti nella sintesi che li costituisce e la cui ripresa risulterebbe difficilmente praticabile. [Cf. pp. 759-785]. Legenda 1. Quando da una medesima pagina sono tratte più citazioni, il numero della pagina è

riportato soltanto nell’ultima di esse. 2. La lettera « c » che precede il numero della pagina indica che il passo ripreso dal testo di

Aime costituisce una citazione da un’opera di Ricoeur. Le citazioni dalle opere di Ricoeur che vengono a trovarsi dentro i passi riprodotti sono indicate dall’uso delle virgolette alte. Le opere di Ricoeur da cui le citazioni sono riprese sono solitamente indicate. Quando non lo sono, o è perché l’opera da cui sono riprese è evidente dal contesto, oppure perché si tratta di opere meno note.

3. Sono evidenziati in grassetto i titoli dei capitoli, con la doppia sottolineatura quelli dei paragrafi, con la semplice sottolineatura quelli dei sottoparagrafi, il tutto mediante espressioni non sempre corrispondenti a quelle reperibili nella fonte.

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Antologia

Dal saggio di PAUL RICOEUR: «Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato»

Il Mulino, Bologna 2004

Pagine 57-62: … … … … … … …

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Oeuvres de Paul Ricoeur 1. (Avec MIKEL DUFRENNE): Karl Jaspers et la philosophie de l’existence, Éditions du

Seuil, Paris 1947. 2. Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe,

Temps présent, Paris 1948. 3. Philosophie de la volonté. Tome I: Le volontaire et l’involontaire, Aubier-Montaigne,

Paris 1950. Filosofia della volontà. 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990.

4. Histoire et vérité, Éditions du Seuil, Paris 1955. Storia e verità, Marco Editore, Cosenza 1994.

5. Philosophie de la volonté. Tome II: Finitude et culpabilité. 1. L’homme faillible; 2. La symbolique du mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960.

Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970. 6. De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Éditions du Seuil, Paris 1965.

Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966, 2002. 7. Entretiens Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier-Montaigne, Paris 1968.

Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni Lavoro, Roma 1998. 8. Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Éditions du Seuil, Paris

1969. Il conflitto delle interpretazioni, Jaka Book, Milano 1977, 1986.

9. La sfida semiologica (a cura di M. CRISTALDI), Armando, Roma 1974, 2006. 10. (Avec EBERHARD JÜNGEL): Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache, Chr.

Kaiser, München 1974. Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 1978.

11. La métaphore vive, Éditions du Seuil, Paris 1975. La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaka

Book, Milano 1981, 2001. 12. «Biblical Hermeneutics». Semeia. An Experimental Journal for Biblical Criticism,

1975, 4, pp. 27-148. Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Morcelliana,

Brescia 1978. 13. Interpretation Theory: Discourse and Surplus of Meaning, The Texas Christian

University Press, Forth Worth 1976. 14. La sémantique de l’action. Première partie: Le discours de l’action, Éditions du

CNRS, Paris 1977. La semantica dell’azione, Jaka Book, Milano 1986.

15. Être, essence et substance chez Platon et Aristote, SEDES, Paris 1982. 16. Temps et récit. Tome I: L’intrigue et le récit historique, Éditions du Seuil, Paris 1983.

Tempo e racconto. Vol. I, Jaka Book, Milano 1986. 17. Temps et récit. Tome II: La configuration dans le récit de fiction, Éditions du Seuil,

Paris 1984. Tempo e racconto. Vol. II: La configurazione nel racconto di finzione, Jaka Book,

Milano 1987. 18. Temps et récit. Tome III: Le temps raconté, Éditions du Seuil, Paris 1985.

Tempo e racconto. Vol. III: Il tempo raccontato, Jaka Book, Milano 1988. 19. Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, Éditions du Seuil, Paris 1986.

Dal testo all’azione, Jaka Book, Milano 1989. 20. À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986.

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21. Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor & Fides, Genève 1986. Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, 20075.

22. Lectures on Ideology and Utopia, Columbia University Press, New York 1986. L’idéologie et l’utopie, Éditions du Seuil, Paris 1997. Conferenze su ideologia e utopia, Jaka Book, Milano 1994.

23. Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris 1990. Sé come un altro, Jaka Book, Milano 1993, 20054.

24. Liebe und Gerechtigkeit | Amour et justice, J. C. B. Mohr, Tübingen 1990. Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000, 20032.

25. Lectures. Tome I: Autour du politique, Éditions du Seuil, Paris 1991. 26. Lectures. Tome II: La contrée des philosophes, Éditions du Seuil, Paris 1992. 27. Lectures. Tome III: Aux frontières de la philosophie, Éditions du Seuil, Paris 1994. 28. Filosofia e linguaggio (a cura di D. JERVOLINO), Guerini & Associati, Milano 1994. 29. Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore (a cura di A. DANESE),

Ed. Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1994. 30. Le juste, I, Esprit, Paris 1995.

Il Giusto, I, SEI, Torino 1998. (Nuova edizione: Effatà, Torino 2005). 31. La critique et la conviction. Entretien avec François Azouvi et Marc de Launay,

Calmann-Lévy, Paris 1995. La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvi e Marc de Launay,

Jaka Book, Milano 1997. 32. Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris 1995.

Riflessione fatta. Autobiografia intellettuale, Jaka Book, Milano 1998. 33. Testimonianza, Parola e Rivelazione (a cura di F. FRANCO), Dehoniane, Roma 1997. 34. Autrement. Lecture d’«Autrement qu’être ou au-delà de l’essence d’Emmanuel

Lévinas», PUF, Paris 1997. 35. Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern - Vergessen - Verzeihen, Wallstein,

Göttingen 1998. Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna

2004. 36. (Avec JEAN-PIERRE CHANGEAUX): Ce qui nous fait penser. La nature et la règle, Odile

Jacob, Paris 1998. La natura e la regola. Alle radici del pensiero, R. Cortina, Milano 1999.

37. (Avec ANDRE LACOCQUE): Penser la Bible, Éditions du Seuil, Paris 1998. Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Paideia, Brescia 2002.

38. L’unique et le singulier, Alice Éditions, Bruxelles 1999. L’unico e il singolare, Servitium, Sotto il Monte (BG) 2000.

39. La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris 2000. La memoria, la storia, l’oblio, R. Cortina, Milano 2003.

40. Le juste, II, Esprit, Paris 2001. 41. L’herméneutique biblique (par F.-X. AMHERDT), Le Cerf, Paris 2001. 42. La lutte pour la reconnaissance et l’économie du don, Unesco 2002. 43. Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine (a cura di R. MESSORI), Centro

Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2002. 44. Sur la traduction, Bayard, Paris 2004. 45. Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris 2004.

Percorsi del riconoscimento. Tre studi, R. Cortina, Milano 2005.

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Indice

* Sulle tracce di un progetto didattico p. 2 1

Una filosofia riflessiva: tra autoritratto ed avventura relazionale ORESTE AIME

1. Ciò che dà a pensare p. 3 2. Una filosofia del soggetto ” 3 3. Nel mondo e nella storia ” 4 4. Un filosofo legge la Bibbia ” 5 5. Filosofia e teologia ” 7

2

Leggere e pensare la Bibbia ORESTE AIME

a) DALL’ESEGESI ALL’ERMENEUTICA p. 9

1. Alla ricerca del metodo ” 9 Tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale ” 9 Dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica ” 10 La lettura ” 11 I generi letterari ” 12 Il Grande Codice ” 13 Un’interpretazione poetica ” 14

2. Questioni di ermeneutica ” 14 Il circolo ermeneutico ” 14 Il mondo del testo: l’essere nuovo ” 15 Il mondo del lettore ” 16 b) EN PHILOSOPHE: IL PENSIERO DELLA BIBBIA ” 18 Pensiero biblico e pensiero filosofico ” 18

– Bibliografia ricoeuriana (abbreviazioni nel testo) ” 19 3

L’identità narrativa e il perdono nel pensiero di Paul Ricoeur ALBERTO MARTINENGO

1. Il cogito concreto e l’ermeneutica p. 20 2. Narrazione, identità, perdono ” 23

Il soggetto tra continuità e discontinuità ” 23 Il perdono come forma del riconoscimento ” 26

– Bibliografia ” 29

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4 Uno sguardo all’opera di Paul Ricoeur

Tra sintesi e scorci panoramici sul saggio di Oreste Aime: «Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur»

PIER GIUSEPPE PASERO

* Dai testi di Ricoeur a un testo su Ricoeur p. 30 1. Una filosofia riflessiva (parte prima) ” 32 2. Fenomenologia ermeneutica e ontologia (parte seconda) ” 36 3. Uomini nel tempo (parte terza) ” 40 4. Antropologia filosofica (parte quarta) ” 43 5. La filosofia e il suo altro (parte quinta) ” 49 6. Opera aperta ” 56

– Legenda ” 56

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Antologia Da PAUL RICOEUR

«Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato» Il Mulino, Bologna 2004

1. Quello che la memoria insegna alla storia ” 57 2. Il perdono ” 59

Perdono e oblio ” 59 Donare e perdonare ” 60 Il perdono difficile ” 62

– Oeuvres de Paul Ricoeur ” 63

– Indice ” 65

Immagine di copertina: REMBRANDT, Aristotele contempla il busto di Omero (1653. Metropolitan Museum of Art - New York)

Elaborazione del testo: Agosto - Ottobre 2008

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