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LE PERSONE FISICHE NEL DIRITTO ECCLESIASTICOPROF. MARCO SANTO ALAIA

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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 NOZIONE DI ECCLESIASTICO ------------------------------------------------------------------------------------------ 3

2 LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI ECCLESIASTICI NEL DIRITTO CIVILE -------------------------- 4

3 LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI ECCLESIASTICI NEL DIRITTO PENALE ------------------------ 9

4 LA CONDIZIONE GIURIDICA DEI RELIGIOSI -------------------------------------------------------------------- 11

5 IL POTERE DISCIPLINARE DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA: L’ART. 23 DEL TRATTATO DEL

LATERANO --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 12

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1 Nozione di ecclesiastico

Gli ecclesiastici sono coloro che svolgono particolari funzioni all’interno della Chiesa e,

quindi, si differenziano dai semplici fedeli, che professano la religione cattolica. Essi, nel loro

insieme, formano il clero cattolico. La qualifica confessionale di ecclesiastico assume rilevanza

anche nel diritto dello Stato, in base all’art. 4 dell’Accordo del 18 febbraio 1984, nonché in base

alla legge n. 121/1985, comportando l’attribuzione di una serie di privilegi ma anche di limitazioni,

in quanto le funzioni degli appartenenti al clero sono ritenute di pubblico interesse, dal momento

che soddisfano bisogni profondamente sentiti dalla coscienza collettiva.

La qualifica civilistica di ecclesiastico può talora corrispondere, nell’ordinamento introdotto

dall’Accordo di Villa Madama a quella canonistica di clericus, quando, come avviene nell’art. 4.1,

comprende tutte le categorie degli appartenenti al clero. Invece, tutte le volte in cui, in modo

generico, le norme fanno riferimento allo stato di ecclesiastico, la legge menziona solo quegli

appartenenti al clero cattolico che abbiano conseguito il presbiterato o il più alto grado di

sacerdozio.

In realtà, l’ordinamento statuale fa riferimento, più che alla nozione di ecclesiastico, a quella

di ministro di culto, riferita in generale a tutte le confessioni religiose, per indicare chi riveste una

posizioni differenziata da quella del semplice fedele.

Secondo la Chiesa cattolica, la qualifica di ecclesiastico1 è più ampia di quella di ministro

di culto, poiché la prima comprende non solo i sacerdoti, i chierici ordinati in sacris, ma anche

coloro che abbiano ricevuto il diaconato.

1 F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 2003, pag. 42.

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2 La condizione giuridica degli ecclesiastici nel diritto civile

Le qualifiche di ecclesiastico e/o di ministro di culto assumono rilevanza come presupposti

di fatto per l’applicazione delle norme che le prevedono. Perciò, quando siano cessate le funzioni

annesse alle qualifiche confessionali, cessano di aver vigore, nei confronti dei soggetti che le

abbiano rivestite, quelle norme che, presupponendole, attribuivano ad esse effetti giuridici.

La condizione di ecclesiastico conferisce un particolare status che comporta esenzioni,

incapacità, capacità speciali, capacità comuni.

Per quanto riguarda le esenzioni, ricordiamo che in base all’art. 4.1 e 2 dell’Accordo di Villa

Madama, i sacerdoti, ossia i presbiteri e i vescovi, i diaconi e i religiosi che hanno emesso i voti

hanno la facoltà di ottenere, a loro richiesta, l’esonero dal servizio militare o di essere assegnati al

servizio civile sostitutivo: pertanto, l’esenzione non è più automatica, come avveniva in base ai Patti

Lateranensi, ma a domanda. La successiva norma dell’art 4.2 del nuovo Accordo prevede che, in

caso di mobilitazione generale di tutti gli idonei al servizio militare, gli ecclesiastici non assegnati

alla cura d’anime, non sono obbligati a rispondere alla chiamata, ma ad esercitare il ministero

religioso tra le truppe come cappellani o, in subordine, a lavorare nei servizi sanitari.

L’art. 4.3 dell’Accordo prevede che gli studenti in teologia, quelli degli ultimi due anni di

propedeutica alla teologia, avviati al sacerdozio ed i novizi degli istituti religiosi possono, a

richiesta, rinviare fino al 26° anno di età l’adempimento degli obblighi del servizio militare,

attualmente aboliti. Esenzioni analoghe vigono per i ministri di culti acattolici, con alcune

differenze.

Sempre in tema di esenzioni, in base all’art. 4 del nuovo Concordato, che riprende l’art. 7 di

quello del 1929, gli ecclesiastici (presbiteri e vescovi) non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra

autorità civile, informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del

loro ministero (segreto d’ufficio). Analoga garanzia è prevista per i ministri di culto delle comunità

ebraiche, per i ministri di culto della Chiesa luterana e per tutti i ministri delle confessioni religiose,

i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, in base agli artt. 249 c.p.c e 200

c.p.p.

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La tutela del segreto d’ufficio, per i ministri del culto cattolico, riguarda non solo

l’inviolabilità del sigillo sacramentale, che circonda la confessione (can. 983 C.I.C.), ma anche tutto

ciò che essi abbiano appreso nella loro veste di ministri di culto.

Agli ecclesiastici sono, poi, concesse delle esenzioni di carattere tributario. Gli stipendi con

cui sono retribuiti i ministri di culto della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose, sono

impignorabili, secondo le misure previste dall’art. 545 c.p.c., nella stessa misura in cui lo sono gli

stipendi, i salario o i titoli alimentari degli impiegati statali.

In tema di incapacità, l’ordinamento italiano prevede una serie di incompatibilità per i

ministri di culto, in generale, e qualche volta, anche per i religiosi, e in taluni casi, solo per gli

ecclesiastici con cura di anime. L’art. 12, lett. c della L. n. 287/1951, relativa al riordinamento dei

giudizi in Corte di Assise, stabilisce che: “ i ministri di qualsiasi culto e i religiosi di ogni ordine e

congregrazione” non possono assumere l’ufficio di giudice popolare. Analogamente, ecclesiastici e

ministri di culto sono esclusi dalla nomina all’ufficio di giudice onorario aggregato.

L’art. 6 T.U. n. 570/1960 stabilisce che la qualità di ministro di culto è incompatibile con

l’ufficio di sindaco. Altri uffici incompatibili con la qualifica di ministro di culto sono quelli di

notaio (art. 2 L.n.89/1913) e di esattore delle imposte (art. 17 T.U. n. 1401/1922). Nel campo delle

libere professioni, l’art. 3 del r.d. n. 1578/1933 prevede l’incompatibilità delle professioni di

avvocato e di procuratore legale con la qualifica di ministro di culto. Parimenti, incompatibili con

tale qualifica sono le professioni, troppo connesse con le attività economiche e finanziarie, di

dottore commercialista (art. 3 d.P.R. n. 1067/1953), di ragioniere e di perito commerciale (art. 3

d.P.R. n. 1068/1953).

Inoltre, specifiche incompatibilità riguardano solo gli ecclesiastici con giurisdizione e cura

di anime. Costoro non sono eleggibili a consiglieri comunali o provinciali (art. 15 T.U. n. 570/1960;

art. 3 L. n. 962/1960). Invece, non vi sono incompatibilità, per i ministri di culto in generale,

riguardo all’elezione al Parlamento o a consigliere regionale, considerata la maggiore ampiezza del

collegio elettorale (L. n. 108/1968).

Per quanto concerne le capacità speciali, occorre ricordare che l’art. 609 c.c. stabilisce che,

qualora il testatore non possa avvalersi delle forme testamentarie ordinarie, perché si trova in luogo

dove domina una malattia contagiosa o per cause di pubblica calamità o di infortunio, il testamento

è valido, anche se ricevuto da un ministro del culto in presenza di due testimoni di età superiore ai

sedici anni.

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In ambito di capacità, è giusto precisare che i religiosi, appartenenti agli istituti di vita

consacrata, entrano a far parte dell’associazione, pronunziando i voti di castità, povertà e

obbedienza. Invece, le incapacità previste dal diritto canonico derivanti da tali voti, sin dall’entrata

in vigore del Codice Civile del 1865, non sono rilevanti nel diritto dello Stato. Pertanto, il religioso,

professo di voti pubblici perpetui, può celebrare matrimonio civile, riconoscere figli naturali,

acquistare beni a titolo gratuito o a titolo oneroso, in modo del tutto valido per il diritto civile. Tali

atti, in contrasto con i voti, potranno portare sanzioni a carico del religioso nell’ambito del diritto

canonico, sanzioni eventualmente rilevanti ex art. 23 c.p.v. del Trattato, ma tali sanzioni non

avrebbero effetto sulla validità degli atti stessi nel diritto dello Stato.

In relazione alla posizione patrimoniale, la L. n. 222/1985, recependo le indicazioni della

Commissione Paritetica, destinata, dall’art. 7 n. 6 del nuovo Concordato, allo studio di nuove forme

di intervento finanziario dello Stato a sostegno del clero, in sostituzione al cosiddetto supplemento

di congrua, previsto dal vecchio Concordato, ha introdotto un sistema volto ad assicurare il congruo

e dignitoso sostentamento di tutti gli appartenenti al clero cattolico, che svolgano servizio in favore

delle diocesi. La L. n. 22/1985 ha previsto l’erezione in ogni diocesi italiana o in sede

interdiocesana, di un Istituto per il sostentamento del clero ad opera del Vescovo o dei Vescovi

interessati. Tali enti sono stati creati entro il 30 settembre del 1986 (art. 21) ed hanno acquistato la

personalità giuridica, agli effetti civili, a decorrere dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta

Ufficiale del decreto del Ministro dell’Interno, emanato entro sessanta giorni dalla ricezione dei

provvedimenti canonici di erezione.

La C.E.I. ha provveduto, poi, ad erigere l’Istituto Centrale per il sostentamento del clero,

col fine di integrare le risorse degli istituti diocesani ed interdiocesani. Con l’erezione di tali istituti,

vengono contestualmente estinte mense vescovili, benefici capitolari, parrocchiali, vicariali curati o

comunque denominati, esistenti nella diocesi ed i loro patrimoni vengono trasferiti al nuovo istituto,

che succede anche in tutti i rapporti giuridici, di cui erano titolari gli istituti estinti.

Compito precipuo degli istituti in questione è quello di assicurare a tutti i sacerdoti, che

svolgono servizio in favore della diocesi, un congruo e dignitoso sostentamento. A questo fine, i

sacerdoti interessati sono tenuti a comunicare, annualmente, al proprio istituto diocesano gli

stipendi o altre remunerazioni che essi eventualmente ricevano da privati o enti ecclesiastici, presso

i quali prestino servizio. Qualora la somma di tali proventi non raggiunga la somma determinata,

annualmente, dalla C.E.I., l’Istituto provvede alla relativa integrazione con i redditi provenienti dal

proprio patrimonio e, qualora questi fossero insufficienti, con l’intervento dell’Istituto Centrale.

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Le entrate dell’Istituto Centrale sono costituite, principalmente:

- da una quota della somma che lo Stato versa annualmente alla C.E.I., ai sensi

dell’art. 47 L. cit.;

- dalle erogazioni liberali ricevute da persone fisiche, ex art. 46 L. cit.;

- da una quota degli eventuali avanzi di gestione degli Istituti diocesani.

Quanto alla natura giuridica, l’Istituto Centrale per il sostentamento del clero nasce con un

proprio fondo di dotazione, conferito dalla C.E.I. ed ha la capacità di accrescere il proprio

patrimonio mediante atti come investimenti, accettazione di donazioni, eredità, legati etc. Inoltre,

per i fini ad esso attribuiti dalla legge e dall’art. 2 dello statuto, l’Istituto Centrale sembra che possa

essere qualificato come un organo-persona giuridica, analogo ad altri della Chiesa, dotati di

personalità nel diritto dello stato.

In materia previdenziale, occorre precisare che alla tutela previdenziale del clero

provvedono sia lo Stato che la Chiesa. Per quanto riguarda la Chiesa, nel 1941 è stata istituita una

Cassa di sovvenzione per il clero secolare d’Italia; tuttavia, la L. n. 222/1985 prevede, inoltre,

che gli Istituti per il sostentamento del clero svolgano anche funzioni previdenziali integrative

autonome. Per quanto riguarda lo Stato, la L. n. 392/1956 prevede l’obbligo delle assicurazioni

sociali nei confronti dei religiosi che prestino attività di lavoro alle dipendenze dei terzi e tale

obbligo sussiste anche se le modalità di lavoro siano pattuite tra il datore di lavoro e l’Ordine cui

appartengono, ed anche se il compenso per tali prestazioni sia riscosso direttamente dall’Ordine

stesso. Però, tale legge escludeva il dovere assicurativo ove l’attività di lavoro fosse stata svolta

presso organismi, quali scuole ed ospedali, dipendenti dalla loro associazione, senza ricevere alcun

compenso ordinario. Ma ora è dubbio che quest’ultima disposizione possa essere ritenuta ancora in

vigore, posto che l’art. 7.3 dell’Accordo prevede che l’attività degli enti ecclesiastici, diversa da

quella di religione o di culto, è disciplinata dal diritto dello Stato anche sotto il profilo tributario, e

non sembra che i contributi dovuti per le assicurazioni sociali possano sfuggire a questa regola.

E’ sempre escluso dalla tutela il rischio della disoccupazione, mentre per quanto riguarda le

malattie, gli ecclesiastici godono delle normali prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale (L. n.

833/1973).

Infine, per quanto riguarda il trattamento pensionistico è stato istituito, dalla L. n. 903/1973,

un Fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto di confessioni diverse dalla cattolica,

che è gestito dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Ad esso devono obbligatoriamente

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iscriversi tutti i sacerdoti cattolici ed i ministri di culti acattolici che siano cittadini italiani residenti.

I contributi, a carico degli iscritti, sono determinati in una quota fissa pro-capite.

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3 La condizione giuridica degli ecclesiastici nel diritto penale

Gli ecclesiastici sono soggetti, come cittadini italiani, alla giurisdizione penale. Già nel 1850

era stato, infatti, abolito il privilegio del clero di essere giudicato da Tribunali ecclesiastici. Il

vecchio Concordato, pur prevedendo per gli ecclesiastici la giurisdizione penale statale, stabiliva

una normativa di favore in materia. Infatti, l’art. 8 prescriveva che, in caso di deferimento al

magistrato di un ecclesiastico o di un religioso per un delitto, il Procuratore della Repubblica

doveva informare, immediatamente, l’ordinario della diocesi nella quale esercitava giurisdizione,

nonché trasmettere al medesimo la decisione istruttoria e la eventuale sentenza conclusiva del

giudizio di primo grado e di quello di appello. Inoltre, gli ecclesiastici ed i religiosi dovevano

scontare la pena in locali separati da quelli laici, a meno che l’ordinario competente non li avesse

ridotti allo stato laicale. Invece, il nuovo Concordato del 1984 ha eliminato tali privilegi,

prevedendo, soltanto, al punto 2°, lett. b del Protocollo Addizionale, che l’autorità giudiziaria dia

comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi

a carico di ecclesiastici.

La qualità di ministro di culto non è del tutto irrilevante ai fini penalistici. Infatti, se il

ministro di culto è soggetto attivo del reato, tale qualità rileva come circostanza aggravante del

reato. Infatti, l’art. 61, n. 9 del Codice Penale stabilisce che costituisce circostanza aggravante del

reato l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti la qualità di

ministri di culto. Tale qualità viene, altresì, considerata come elemento costitutivo del reato.

All’uopo, l’art. 327 c.p. punisce il ministro di culto che, nell’esercizio delle sue funzioni, ecciti al

dispregio e vilipendio delle istituzioni o all’inosservanza delle leggi o degli atti delle autorità o dei

doveri inerenti a uffici o servizi pubblici, ovvero faccia l’apologia di fatti contrari a tali valori.

Infine, l’art. 98 T.U. n. 361 punisce l’abuso delle funzioni di ministro di culto in materia elettorale.

Se il ministro di culto è soggetto passivo del reato, tale qualità rileva come circostanza

aggravante del reato. A tale proposito l’art. 61 n. 10 c.p. considera circostanza aggravante comune

l’aver commesso il fatto contro una persona rivestita della qualità di ministro di culto cattolico o di

un altro culto ammesso dallo Stato. Altresì, tale qualità rileva come elemento costitutivo del reato,

in quanto l’art. 403, comma 2° c.p. punisce l’offesa alla religione dello Stato (dizione da

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considerarsi, però, superata dopo l’approvazione del nuovo Concordato) mediante vilipendio di un

ministro del culto cattolico; l’art. 406 c.p. punisce, poi, il vilipendio nei confronti del ministro di

altro culto ammesso e il turbamento di funzioni, cerimonie o pratiche religiose presiedute da un

ministro di culto.

L’art. 357 c.p. infine, considera ufficiali agli effetti civili penali coloro che, volontariamente

o per obbligo, esercitino, anche temporaneamente o gratuitamente, una pubblica funzione

legislativa, amministrativa o giudiziaria. L’ecclesiastico in quanto tale non può ritenersi pubblico

ufficiale; lo diventa, però, tutte le volte in cui esercita funzioni che, per le conseguenze che

producono, sono da ritenersi pubbliche. Rientrano in queste ipotesi i casi: del ministro di culto che

riceve testamento nei casi e nelle forme di cui all’art. 609 c.c.; del parroco che certifica, ai fini della

trascrizione, l’avvenuta celebrazione del matrimonio canonico; del ministro di culto acattolico

delegato dall’ufficiale di stato civile, durante l’assistenza, alla celebrazione del matrimonio

religioso.

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4 La condizione giuridica dei religiosi

Nella nostra legislazione più volte si fa menzione dei religiosi. Essi sono una particolare

categoria di appartenenti alla Chiesa cattolica, in quanto non si trovano in altre confessioni

religiose. In molte disposizioni essi si trovano espressamente equiparati agli ecclesiastici. Ma da

questo non può desumersi il principio di una generale equiparazione, a tutti gli effetti giuridici,

degli uni e degli altri. Nel codice canonico non vi è la definizione di religioso: essa può trarsi dal

combinato disposto dei canoni 573 e 607, definendo il religioso come “ il fedele, che, chiamato per

speciale vocazione di Dio ad una vita consacrata, faccia parte di un istituto religioso, canonicamente

eretto, abbia emesso i voti pubblici, perpetui o temporanei, di castità, povertà ed obbedienza e

conduca vita fraterna in comunità”. Ci si chiede se, quando la legge parli di ecclesiastici in generale,

ricomprenda anche i religiosi. Senza dubbio i religiosi che siano sacerdoti sono in pieno equiparati

agli ecclesiastici, ma il problema rimane per quei religiosi che non sono ordinati in sacris e, ove il

testo non li menzioni, bisognerebbe, volta a volta, indagare sulla mens legis, per stabilire se il

legislatore possa avere fatto riferimento anche ai religiosi.2

Il diritto canonico prevede, per i religiosi, particolari incapacità patrimoniali. In taluni Ordini

il religioso deve redigere il testamento ed affidare ad altri l’amministrazione dei propri beni, in altri

casi, si arriva ad imporre la rinunzia radicale ai propri beni presenti e futuri, che vengono incamerati

dall’Ordine di appartenenza.

I voti pronunziati all’ingresso in un Ordine religioso non sono riconosciuti dal nostro

ordinamento e sono, quindi, giuridicamente irrilevanti; è previsto, perciò, che ad essi vengano

affiancati atti validi per il diritto civile. Ad esempio, verranno effettuate normali donazioni e

mandati; tali atti saranno validi nei limiti consentiti dal diritto civile e così non sarà ammessa la

donazione di beni futuri o un mandato irrevocabile.

Il particolare carattere del rapporto che lega il religioso all’Ordine di appartenenza non è,

però, del tutto irrilevante: la giurisprudenza ritiene, infatti, che il religioso che lasci l’ordine non

possa pretendere alcunché come corrispettivo per le attività svolte per l’Ordine, anche quando

queste siano state causa di lucro per l’Ordine stesso: il fine dell’ingresso nell’Ordine non è, infatti,

quello di svolgere un’attività lavorativa, bensì quello di perseguire la propria elevazione spirituale.

2 Petroncelli, Manuale di diritto ecclesiastico, Novene, Napoli, ult. Ed. pag. 288.

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5 Il potere disciplinare dell’autorità ecclesiastica: l’art. 23 del Trattato del Laterano

L’art. 23 2° comma del Trattato del Laterano dispone che le sentenze e gli altri

provvedimenti in materia spirituale o disciplinare emanati da autorità ecclesiastiche circa persone

ecclesiastiche e religiose ed ufficialmente comunicati alle autorità civili, avranno efficacia giuridica,

anche a tutti gli effetti civili, in Italia. Si tratta di una norma che faceva da corollario, per la

situazione di allora, della posizione della Chiesa nel diritto italiano.

Va fatta la considerazione che queste sentenze e questi provvedimenti, con l’assicurazione

della piena efficacia giuridica, escludono che le autorità italiane possano svolgere un sindacato non

solo di merito, ma anche di pura legittimità su di essi. Da quanto si è detto, si può concludere che

l’efficacia giuridica ai fini degli effetti civili scaturisca dal semplice fatto della comunicazione del

provvedimento alle autorità civili.

Il precedente orientamento dottrinario e giurisprudenziale considerava incompetente

l’autorità giudiziaria italiana in ordine ai provvedimenti previsti dal suddetto art. 23, ma molti dubbi

permanevano sulla costituzionalità della norma.

Il Protocollo Addizionale al nuovo Concordato (punto 2 lett. a) chiarisce che l’art. 23 va

interpretato in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini; quindi, i provvedimenti

ex art. 23, potranno essere sindacati dall’autorità giudiziaria quanto meno sotto il profilo del rispetto

delle garanzie costituzionali.