I DIRITTO COMMERCIALE -...

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INSEGNAMENTO DI: D DIRITTO COMMERCIALE “LA CONCORRENZA SLEALEPROF. RENATO SANTAGATA DE CASTRO

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Università Telematica Pegaso La concorrenza sleale

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LIBERTÀ DI CONCORRENZA E DISCIPLINA DELLA CONCORREN ZA SLEALE. ---------------------- 3

2 GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPI CHE. --------------------------------------- 8

3 (SEGUE): GLI ALTRI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. ---- ------------------------------------------------- 12

4 LE SANZIONI --------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------- 14

5 LE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE FRA IMPRESE E CON SUMATORI. --------------------- 16

6 (SEGUE): LA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE E COMPARATIVA. - -------------------------------------------- 19

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Libertà di concorrenza e disciplina della

concorrenza sleale.

La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di una pluralità di

imprenditori che offrono beni o servizi identici o similari e che, conseguentemente, sono in

competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei consumatori e conseguire il

maggior successo economico. Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di

ampia libertà di azione e può porre in atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficue, non solo

per attrarre a sé la clientela ma anche per sottrarla ai propri concorrenti. E la competizione può

essere anche rude e pesante, dato che in un sistema basato sulla concorrenza non è tutelabile e non é

tutelato l'interesse degli imprenditori a conservare la clientela acquisita. Il danno che un

imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno

ingiusto e risarcibile.

Se procurarsi un vantaggio sul mercato a scapito di quanti altri sullo stesso mercato operano

rientra nelle regole della concorrenza, è tuttavia interesse generale che la competizione fra

imprenditori — come del resto ogni forma di competizione — si svolga in modo corretto e leale. Da

qui la necessità di predeterminare talune regole di comportamento che devono essere osservate

nello svolgimento della concorrenza, al fine di impedire «colpi bassi» e vittorie truffaldine. La

necessità, in breve, di distinguere fra comportamenti concorrenziali leali, e perciò leciti e consentiti

dall'ordinamento, e comportamenti all'opposto sleali e perciò illeciti e vietati.

Il codice di commercio del 1882 non conteneva specifiche disposizioni al riguardo ed il

vuoto normativo fu originariamente colmato dalla giuri-sprudenza applicando in materia la

disciplina generale dell’illecito civile. I comportamenti concorrenziali giudicati riprovevoli erano

sanzionati come atti illeciti, cosi dando luogo alla progressiva formazione giurisprudenziale di un

complesso di regole del gioco della concorrenza.

Nell'ordinamento vigente la stessa esigenza è soddisfatta in via legislativa dalla disciplina

della concorrenza sleale.

I principi base della disciplina della concorrenza sleale possono essere così fissati in prima

approssimazione. Nello svolgimento della competizio-ne fra imprenditori concorrenti è vietato

servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai «principi della correttezza professionale». I fatti, gli atti

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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e i comportamenti che violano tale regola sono atti di concorrenza sleale (c.d. illecito

concorrenziale).

Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa. Inoltre, essi sono

repressi e sanzionati anche se non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti.

Basta infatti il cosiddetto danno potenziale.

Concorrenza sleale ed illecito civile sono quindi istituti che posti a raf-fronto, presentano nel

contempo affinità e divergenze. La disciplina della concorrenza sleale germina da quella dell'illecito

civile e tutt'oggi assolve, nell'ambito specifico dei rapporti fra imprenditori concorrenti, la funzione

di prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto. Funzione quindi

sostanzialmente identica a quella che l'ordinamento assegna alla disciplina generale dell'illecito

civile, ma perseguita con gli adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si vuol

reprimere (illecito concorrenziale); specificità che determina non trascurabili differenze di

disciplina. E ciò in quanto la repressione degli atti di concorrenza sleale: a) è svincolata dal

ricorrere dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa; b) è ulteriormente svincolata dalla

presenza di un danno patrimoniale attuale; c) è attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria e

rimozione), che non si esauriscono nel risarcimento dei danni, del resto solo eventuale.

Si tratta in definitiva di una disciplina speciale rispetto a quella genera-le dell'illecito civile e

che, a ben vedere, offre agli imprenditori una tutela sotto più profili più energica nelle relazioni con

i concorrenti. E ciò al fine di evitare che pratiche scorrette alterino un «valore» di interesse

generale: il corretto funzionamento del mercato, quale assicurato dal gioco della concorrenza.

L'interesse tutelato dalla disciplina della concorrenza sleale non è perciò esauribile

nell'interesse degli imprenditori a non veder alterate le proprie probabilità di guadagno per effetto di

comportamenti sleali dei concorrenti. Tutelato è anche il più generale interesse a che non vengano

falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i

destinatari finali della produzione: i consumatori. Al riguardo è tuttavia necessario evitare facili

suggestioni e fuorviami equivoci.

Gli interessi diffusi dei consumatori di certo non possono considerarsi del tutto estranei al

sistema della concorrenza sleale e devono perciò essere tenuti presenti nel valutare la «lealtà» delle

pratiche concorrenziali. Non possono essere però elevati ad interessi direttamente tutelati da tale

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disciplina, come pure da più parti si è in passato sostenuto. Infatti, necessario ma al tempo stesso

sufficiente perché un atto configuri concorrenza sleale è l'idoneità dello stesso a danneggiare i

concorrenti. E tale Tatto resta anche se non arreca alcun pregiudizio ai consumatori e pure se questi

ne traggono un vantaggio. Tipico è il caso delle vendite sottocosto finalizzate all'annientamento dei

concorrenti (c.d. dumping), pacificamente inquadrate fra gli atti di concorrenza sleale.

Risolutiva é poi la circostanza che legittimati a reagire contro gli atti di concorrenza sleale

sono solo gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria; non invece il singolo

consumatore o le relative associazioni. Il che implica, inevitabilmente, che l'interesse dei consu-

matori a non essere tratti in inganno nelle loro scelte è tutelato dalla di-sciplina della concorrenza

sleale solo in modo mediato e riflesso; nei limiti in cui la reazione degli imprenditori lesi dall'altrui

comportamento sleale assicura la lealtà della competizione e la trasparenza del mercato.

Il sistema della concorrenza sleale non può essere perciò deputato ad assolvere una diretta

funzione protettiva dei consumatori. In particolare, salvo i casi più gravi in cui ricorrono gli estremi

per la repressione penale delle frodi in commercio, lascia questi ultimi esposti ai possibili inganni

dei mezzi di persuasione pubblicitaria, cui le imprese largamente ricorrono per orientare la domanda

verso i loro prodotti.

Tuttavia anche sotto questo profilo significativi passi avanti sono stati compi dal 1942 ad

oggi. All'originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni

pubblicitari ha infatti in un primo tempo supplito l'autonomia privata: con la volontaria adozione da

parte delle imprese del settore di un Codice di autodisciplina pubblicitaria, sul cui rispetto vigila un

apposito organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina). Al sistema di autodisciplina si è

poi affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole, e da ultimo il d.lgs. 2-8-2007 n.

146 ha introdotto nel "codice del consumo" norme di tutela dei consumatori contro tutte le pratiche

commerciali scorrette. Si è cosi colmato il precedente vuoto legislativo.

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Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale.

La disciplina della concorrenza sleale regola i rapporti di coesistenza sul mercato fra

imprenditori concorrenti. La sua applicazione postula perciò il ricorso di un duplice presupposto:

a) la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere (direttamente o

indirettamente) l'atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze:

b) l'esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i medesimi.

Per contro, chi è leso nella propria attività di impresa da altro soggetto, che non è

imprenditore o non è suo concorrente, potrà reagire avvalendosi della meno favorevole disciplina

generale dell'illecito civile, sempre che ne ricorrano i presupposti. Inoltre, la sola sanzione

invocabile sarà il ristoro dei danni subiti.

Entrambi i presupposti di applicazione della disciplina della concorrenza sleale, sopra

enunciati, meritano tuttavia alcune puntualizzazioni.

Che soggetto passivo dell'atto di concorrenza sleale possa essere solo un imprenditore è

fuori contestazione, poiché solo nei confronti di chi è imprenditore può verificarsi la condizione

dell'idoneità dell'atto «a dan-neggiare l’altrui azienda», o meglio, l'altrui attività di impresa.

Lo stesso dato normativo alimenta invece qualche incertezza sulla ne-cessità che la qualità

di imprenditore debba essere rivestita anche dall'autore del comportamento sleale, affermandosi

testualmente che «compie atti di concorrenza sleale chiunque...».

Argomenti sia letterali che sostanziali inducono tuttavia la dottrina e la giurisprudenza

prevalenti a propendere per un'interpretazione restrittiva di tale formula. Invero, concorrente di un

imprenditore non può che esse-re altro imprenditore. E, soprattutto, per tale soluzione milita una

fonda-mentale esigenza di parità di trattamento, dato che «non si saprebbe davvero ravvisare la

giustificazione di una tutela privilegiata dell'imprenditore nei confronti di tutti i consociati, mentre

una tutela speciale dell'imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il carattere di

privilegio data la stessa reciprocità della tutela». Né, a ben vedere, tale delimitazione è contraddetta

dalla giurisprudenza che applica la disciplina della concorrenza sleale a carico e a favore

dell'imprenditore che sta organizzando la propria attività o che si trova in fase di liquidazione.

Come visto, la qualità di imprenditore può essere acquistata nella fase organizzativa e non si perde

nella fase di liquidazione.

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È poi certo che l'imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da

lui direttamente compiuti, ma anche per quelli posti in essere da altri, nel suo interesse e su sua

istigazione o specifico incarico. Infatti, l'art. 2598 n. 3, prevede espressamente che Tatto di

concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente.

II secondo presupposto di applicabilità della disciplina della concorrenza sleale è l'esistenza

di un rapporto di concorrenza fra gli imprenditori e di concorrenza prossima o effettiva. Soggetto

attivo e soggetto passivo devono cioè offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano

destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei con-sumatori o bisogni similari o complementari.

E’ tuttavia opinione ormai pacifica che, nel valutare l'esistenza del rap-porto di concorrenza,

si deve tenere conto anche della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo

merceologico in prodotti complementari o affini dell'attività dell'imprenditore che subisce l'atto di

concorrenza sleale (c.d. concorrenza potenziale). Perciò, ad esempio, dovranno considerarsi in

rapporto di concorrenza un produttore di acque minerali ed un produttore di bibite, un produttore di

liquori ed un produttore di estratti per liquori, un giornale a diffusione nazionale ed uno a diffusione

locale, e così via.

Un ulteriore passo avanti nell'estendere la disciplina della concorrenza sleale è stato poi

compiuto dalla giurisprudenza, con l'ammettere che essa è applicabile anche fra operatori che

agiscono a livelli economici diversi : produttore-rivenditore; grossista-dettagliante. Necessario ma

al tempo stesso sufficiente è «che il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa

categoria di consumatori», anche se diversa è la cerchia di clientela direttamente servita (c.d.

concorrenza verticale).

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2 Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie

tipiche.

I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall'art. 2598 cod.

civ..

La norma individua innanzitutto due ampie fattispecie tipiche:

a) gli atti, di confusione;

b) gli atti di denigrazione e appropriazione di pregi altrui.

Enuncia poi una regola generale di chiusura, disponendo che costituisce atto di concorrenza

sleale «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a

danneggiare l'altrui azienda».

È indubbio che in quest'ultima formula sono racchiusi gli elementi che qualificano in

generale Tatto di concorrenza sleale e che, pertanto, anche le fattispecie tipiche si caratterizzano sia

per la scorrettezza professionale, sia per l'idoneità a danneggiare i concorrenti. Questi caratteri

devono però ritenersi sempre presenti, per valutazione legislativa tipica, negli atti inquadrabili nelle

due fattispecie tipizzate. Perciò, chi reagisce contro gli stessi non sarà tenuto a provare che il

comportamento del concorrente è idoneo a danneggiare la propria azienda. Inoltre, il giudice non

sarà te¬nuto a valutare se Tatto in questione contrasta con il parametro della correttezza

professionale. Tale valutazione è stata già compiuta dal legislatore in via preventiva e non può

essere disattesa nel caso concreto. In breve, la previsione legislativa di atti tipici di concorrenza

sleale risponde alla fi¬nalità pratica di restringere i margini di incertezza e di discrezionalità insiti

nella repressione fondata sull'applicazione della elastica clausola generale di chiusura.

Ciò fissato, analizziamo le due fattispecie tipiche.

È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con

l’attività di un concorrente. E lecito attrarre a sé l'altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi

di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull'identità

personale dell'imprenditore. Questi mezzi sono sleali in quanto sfruttano il successo sul mercato

conquistato dai concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento dell'altrui clientela.

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Molteplici sono le tecniche e le pratiche che un imprenditore può porre in atto per realizzare

la confondibilità dei propri prodotti e della propria attività con i prodotti e con l'attività di un

concorrente. Il legislatore ne individua espressamente due.

Innanzitutto, l'uso di nomi o di segni distintivi «idonei a produrre confusione con i nomi o

con i segni distintivi legittimamente usati da altri» imprenditori concorrenti.

La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici (ditta, insegna e marchio) ed in tal

caso la tutela offerta dalla disciplina della concorrenza sleale integrerà quella offerta dalla disciplina

dei segni distintivi, come espressamente previsto dall'art. 2598. La confondibilità può altresì riguar-

dare segni non protetti da altre disposizioni ed in tal caso il valore individuante degli stessi potrà

essere difeso solo invocando l'applicazione della disciplina della concorrenza sleale. È comunque

necessario che si tratti di segni distintivi legittimamente usati.

L'altra ipotesi di concorrenza sleale per confusione specificamente considerata è costituita

dall' imitazione servile dei prodotti di un concorrente. E tale la pedissequa riproduzione delle forme

esteriori dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti —

l'originale e l'imitato — provengono dalla stessa impresa.

L'imitazione deve però riguardare elementi formali non necessari e allo stesso tempo

caratterizzanti; idonei cioè a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso

genere agli occhi della specifica clientela cui sono diretti. Non si ha perciò imitazione servile

quando vengono imitate forme comuni o ormai standardizzate e rinvenibili in ogni prodotto di quel

genere.

Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i

prodotti o con l'attività di un concorrente.

La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale ricomprende:

a) gli atti di denigrazione, che consistono nel diffondere «notizie e apprezzamenti sui

prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito»;

b) 1’appropriazione di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente.

Comune ad entrambe le fattispecie è la finalità di falsare gli elementi di valutazione

comparativa del pubblico, attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e in primo luogo avvalendosi

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dell'arma della pubblicità. Diverse sono però nei due casi le modalità con cui tale finalità è

perseguita. Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro

reputazione commerciale. Con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il

proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà

appartengono a uno o più concorrenti.

Diverse sono le pratiche riconducibili nello schema della concorrenza sleale per

denigrazione.

a) Le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici

(ad esempio, la violazione di un proprio brevetto in-dustriale), quando la diffida sia priva di

fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto. E più in

generale. la divulgazione di notizie che possano screditare la reputazione com-merciale di un

concorrente.

b) La pubblicità iperbolica (o superlativa). Con tale forma di pubblicità si tende ad

accreditare l'idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi

(non oggettivi), che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti. Lecito è

invece il cosiddetto puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei

propri prodotti, anche se non sempre è agevole stabilire la linea di confine con la pubblicità

ingannevole.

Anche l'appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse.

Ne costituiscono forme tipiche la pubblicità parrassitaria (o per sottrazione) e la pubblicità

per riferimento (o per agganciamento).

La prima consiste nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti,

premi e comunque di caratteristiche positive che in realtà appartengono ad altri imprenditori del

settore. La seconda tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un concorrente,

attraverso l'utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema; e ciò al fine di avvantaggiarsi

indebitamente dell'altrui rinomanza commerciale.

Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa.

Costituisce pubblicità comparativa ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o

implicito un concorrente, ovvero beni o servizi offerti da un concorrente. Essa consiste perciò nel

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confronto fra la propria attività e i propri prodotti e quelli di uno o più concorrenti, fatto in modo da

gettare discredito sugli altrui prodotti o sull'altrui attività. E ciò sia nell'ipotesi in cui si esprime un

proprio giudizio negativo sui concorrenti, sia nell'ipotesi in cui si utilizzano indagini di terzi

contenenti giudizi a sé favorevoli o sfavorevoli ai concorrenti.

In passato era controverso se la pubblicità comparativa fosse sempre illecita, ovvero dovesse

ritenersi consentita a determinate condizioni. E quest'ultima è la soluzione accolta dall'attuale

disciplina.

La comparazione è infatti lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente

caratteristiche essenziali e verificabili (compreso eventualmente il prezzo) di beni o servizi

omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del

concorrente. Non deve inoltre procurare all'autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto dalla

notorietà dei segni distintivi del concorrente. La pubblicità comparativa non si può quindi ritenere

vietata in modo assoluto.

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3 (Segue): Gli altri atti di concorrenza sleale.

L'art. 2598 chiude l'elencazione degli atti di concorrenza sleale affer-mando che è tale «ogni

altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui

azienda».

E questo un criterio elastico che affida al giudice il delicato compito di rendersi interprete

della coscienza sociale del momento. E ciò al fine di stabilire se un comportamento concorrenziale,

diverso da quelli legislati-vamente tipizzati, sia o meno in armonia con i canoni di etica

professionale generalmente accettati e seguiti dal mondo degli affari (o dal settore cui appartengono

dati imprenditori), sempreché questi ultimi non contrastino con i principi di un ordinato e corretto

svolgimento del gioco della concorrenza quali oggi emergono, fra l'altro, dalla normativa posta a

tutela della struttura concorrenziale del mercato.

Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientra innanzitutto la

pubblicità menzognera: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad

alcun concorrente (e perciò non inquadrabile nella fattispecie tipica dell'appropriazione di pregi).

Costituisce certamente illecito concorrenziale la pubblicità menzognera specificamente

diretta a screditare i prodotti di altro imprenditore. Ma illecita si deve considerare anche la

pubblicità menzognera non specificamente lesiva di un determinato concorrente, quando il

messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico falsandone gli elementi di giudizio,

con danno potenziale per tutti i concorrenti del settore. Il punto è stato in passato controverso; oggi

però non si può più dubitare che ogni forma di pubblicità ingannevole sia contraria alla correttezza

imprenditoriale.

Chiare indicazioni in tal senso erano già offerte da oltre un ventennio dal sistema di

autodisciplina pubblicitaria: il relativo codice espressamente vieta la pubblicità ingannevole, così

dimostrando come lo stesso ceto imprenditoriale abbia autonomamente riconosciuto la slealtà della

pubblicità basata sulla menzogna e sull'inganno. Ogni residuo dubbio

è stato comunque rimosso dalla disciplina legislativa della pubblicità in-gannevole, che

prevede specifici rimedi ma nel contempo fa salva l'applicazione della disciplina della concorrenza

sleale.

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Alla medesima conclusione si deve inoltre pervenire per le altre condotte che il codice del

consumo qualifica come pratiche commerciali scorrette, dato che anche in questo caso è fatta salva

l'applicazione della disciplina della concorrenza sleale, oltre agli specifici rimedi previsti dalla

relativa disciplina.

Fra le altre forme di concorrenza sleale ricondotte dalla giurisprudenza nella categoria

residuale del n. 3 dall'art. 2598, vanno ricordate:

concorrenza parassitaria. Essa consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative

imprenditoriali. Imitazione attuata, per un verso, con accorgimenti tali da evitare la piena

confondibilità delle attività, e, per altro verso, con un disegno complessivo che denota il pedissequo

sfruttamento dell'altrui creatività.

Il boicottaggio economico. E tale il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un'impresa in

posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate

(boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli

dal mercato. Inquadrando tali comportamenti fra gli atti contrari alla corret-tezza professionale, la

giurisprudenza tende a reprimere le forme più vistose di monopolio di fatto, per le quali oggi però

soccorre anche la disciplina antimonopolistica.

La sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti (dumping). E’ tuttavia controverso se

il dumping costituisca atto di concorrenza sleale in ogni caso, ovvero solo quando sia finalizzato

all'eliminazione dei concorrenti ed all'acquisizione di una posizione monopolistica, cosi

configurando un comportamento vietato anche dalla legislazione antimonopolistica.

La sottrazione ad un concorrente di dipendenti o anche di collaboratori autonomi

particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di

trarne vantaggio con danno dell'altrui azienda. Per aversi concorrenza sleale non è però sufficiente il

semplice allettamento basato sull'offerta di condizioni economiche migliori.

Fra gli atti di concorrenza sleale è oggi espressamente compresa anche la violazione di

segreti aziendali.

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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4 Le sanzioni

La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni. La sanzione

tipica dell'inibitoria e quella, comune all'illecito civile, del risarcimento dei danni.

Interesse primario dell'imprenditore che subisce un atto di concorrenza sleale è quello di

ottenere la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla ancor prima che l'atto gli

abbia causato un danno patrimoniale. A tale finalità risponde l'azione inibitoria. Essa è diretta ad

ottenere una sentenza che accerti l'illecito concorrenziale, ne ini-bisca la continuazione per il futuro

e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli

effetti della concorrenza sleale. L'azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla

colpa del soggetto attivo dell'atto di concorrenza sleale e dall'esistenza di un danno patrimoniale

attuale per la controparte.

Ricorrendo anche questi ultimi presupposti, il concorrente leso potrà ottenere anche il

risarcimento dei danni. E l'esercizio della relativa azione è facilitato dal fatto che, in deroga alla

disciplina generale dell'illecito civile, la colpa del danneggiante si presume una volta accertato l'atto

di concorrenza sleale.

Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in

uno o più giornali a spese del soccombente. Sanzione questa particolarmente ambita dal concorrente

vittorioso e che i giudici tendono a concedere con larghezza

L'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall'imprenditore o

dagli imprenditori lesi. La relativa legittimazione è poi espressamente riconosciuta anche alle

associazioni professionali degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria, «quando gli atti

di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale». Il che induce a

ritenere che le associazioni professionali possano agire in giudizio anche se l'atto non danneggi

specificamente alcun associato.

Fra i soggetti legittimati a promuovere la repressione della concorrenza sleale non sono

invece menzionati né i singoli consumatori né le associa-zioni rappresentative dei loro interessi. I

primi, se direttamente danneggiati, potevano in passato chiedere solo il risarcimento dei danni sulla

base della meno favorevole disciplina generale dell'illecito civile. La situazione è però oggi

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parzialmente cambiata quando ricorrono i presupposti per l'applicazione della disciplina specifica

per la regressione delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole.

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5 Le pratiche commerciali scorrette fra imprese e

consumatori.

Come anticipato, la disciplina della concorrenza sleale, di per sé inido-nea a tutelare

adeguatamente i consumatori, è stata dapprima affiancata da una specifica disciplina contro la

pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita ed ora da una più generale normativa per

la repressione di tutte le pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori. Con tali

interventi normativi l'interesse del pubblico dei consumatori ad essere tutelato contro gli effetti

distorsivi di pratiche commerciali illecite assurge ad interesse direttamente e specificamente tutelato

dall'ordinamento statale. A tal fine è stato introdotto un controllo amministrativo affidato

all'Autorità garante della concorrenza e del mercato istituita dalla legge antitrust.

Pratica commerciale è in senso lato qualsiasi condotta posta in essere da un professionista in

relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori.

Rientrano perciò in questa definizione tutte le attività realizzate dall'im-prenditore prima

dell'operazione commerciale, come la promozione del prodotto, ma anche durante o dopo, come le

modalità di informazione del consumatore o la fornitura di assistenza post-vendita. Ed anche le

omissioni, quando sono idonee a trarre in inganno il consumatore o possono essere considerate

altrimenti scorrette. Ne sono invece escluse le pratiche commerciali realizzate nei confronti di altri

professionisti.

Una pratica commerciale è scorretta quando, cumulativamente:

a) non è conforme al grado di diligenza che il consumatore può ragionevolmente attendersi

dal professionista in base ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività del

professionista stesso;

b) ed è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo

ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Sono valutate con maggior rigore le pratiche commerciali che, per le loro caratteristiche o

per il prodotto, possono prevedibilmente influenzare uno specifico gruppo di consumatori

particolarmente vulnerabile. La correttezza della condotta del professionista dovrà in tal caso essere

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accertata in relazione alla normale capacità di discernimento di un individuo appartenente a quella

categoria debole, anche se la pratica raggiunge un gruppo più ampio di consumatori.

La legge delinea inoltre due categorie tipiche di pratiche commerciali scorrette: le pratiche

ingannevoli e quelle aggressive.

Sono ingannevoli le pratiche che, in quanto contengono informazioni false oppure per la

presentazione o in qualsiasi altro modo, sono idonee a trarre in errore il consumatore medio su

elementi essenziali dell'opera-zione commerciale e possono indurlo ad assumere una decisione di

natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

La legge specifica dettagliatamente su quali elementi l'errore è essenzia-le: caratteri del

prodotto, prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore, ecc..

Sono altresì ingannevoli le pratiche commerciali che in concreto com-portino confusione

con i prodotti o i segni distintivi di un concorrente, ov-vero siano realizzate in violazione dei codici

di comportamento che il pro-fessionista ha dichiarato di rispettare; così pure le pratiche che possono

minacciare la sicurezza dei minori o inducono i consumatori a condotte imprudenti.

Lo stesso vale inoltre quando il professionista tace o presenta in modo oscuro informazioni

determinanti affinché il consumatore medio possa as-sumere consapevolmente le proprie scelte

d'acquisto.

Sono aggressive le pratiche che mediante molestie oppure coercizione fisica o morale siano

idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio

e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe

preso.

La legge indica alcuni elementi da prendere in considerazione nel deter-minare l'esistenza di

una molestia o di una coercizione (tempi, luogo, per-sistenza, minacce, ecc.), fermo restando che

l'aggressività della pratica va stabilita tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto.

Per semplificare l'accertamento degli illeciti, sono inoltre elencate una serie di pratiche che

devono in ogni caso essere considerate ingannevoli o aggressive : veri e propri "cataloghi degli

orrori" delle pratiche commerciali scorrette, che non hanno tuttavia carattere tassativo e non

impediscono dunque la repressione di condotte non contemplate.

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L'Autorità garante, d'ufficio o su istanza di qualsiasi interessato, inibisce le pratiche

commerciali illecite, ne elimina gli effetti e commina sanzioni pecuniarie a carico del

professionista.

Se giudica la pratica commerciale scorretta, l'Autorità può anche disporre la pubblicazione

della pronuncia, nonché di un'apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la

condotta illecita continui a produrre effetti. Nei casi meno gravi, tuttavia, può chiudere il procedi-

mento mediante un accordo con cui il professionista si impegna a porre fi-ne all'infrazione, senza

ulteriori sanzioni. In caso di urgenza, l'Autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della

pratica commerciale.

L'intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare

preventivamente eventuali sistemi di autodisciplina, even-tualmente organizzati da associazioni

imprenditoriali e professionali, co-me il Giurì di autodisciplina pubblicitaria.

È infatti previsto che le parti interessate possono rivolgersi ad organismi volontari ed

autonomi di autodisciplina per ottenere l'inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o

comparativa, convenendo, nel contempo, di astenersi dall'adire l'Autorità garante fino alla

pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all'Autorità la sospensione

del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia

dell'organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a

trenta giorni.

In ogni caso la decisione dell'organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del

consumatore di adire l'Autorità garante o di promuovere un'a-zione giudiziaria.

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6 (Segue): La pubblicità ingannevole e

comparativa.

L'interesse pubblico alla proibizione delle pratiche commerciali scorrette assume poi

specifico rilievo nel caso di pubblicità ingannevole o della pubblicità comparativa illecita, in

ragione dell'ampia diffusione e della pericolosità che il mezzo pubblicitario può avere. La materia è

perciò oggetto di una disciplina speciale che precisa i criteri a cui deve attenersi la comunicazione

pubblicitaria corretta: inoltre, il controllo amministrativo esercitato dall'Autorità garante della

concorrenza e del mercato è più ampio, in quanto è volto a reprime l'impiego di pratiche

pubblicitarie scorrette non soltanto nei confronti dei consumatori, ma anche nell'ambito di relazioni

commerciali fra professionisti. E così superato il precedente vuoto legislativo, cui aveva solo in

parte sopperito l'autonomia privata.

A partire dalla metà degli anni sessanta, i più importanti mezzi di pubblicità hanno infatti

dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi

pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato (il

codice di autodisciplina pubblicitaria), che fra l'altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole.

Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina), con sede a Milano, vigila sul rispetto

del codice e funge da organo giudicante. L'azione dinanzi al Giuri può essere promossa da chiunque

si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice o su iniziativa del Comitato di

controllo dallo stesso previsto. Le decisioni del Giurì sono insindacabili.

Il codice di autodisciplina e le decisioni del Giuri sono tuttavia vincolanti, su base

contrattuale, solo per i mezzi pubblicitari che hanno aderito all'autodisciplina e per gli operatori

economici che degli stessi si avvalgono. Il sistema di autodisciplina non risolve perciò in modo

compiuto i pro-blemi di tutela dei consumatori.

Con il d.lgs. 74/1992, all'autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo

privato dei Giurì il controllo pubblico dell'Autorità garante. Ed identici principi operano per la

pubblicità comparativa illecita in seguito alla disciplina della stessa introdotta dal d.lgs. 67/2000. La

normativa della materia è dettata attualmente dal d.lgs. 2- 8-2007 n. 145.

Ciò fissato, vediamo in sintesi i punti salienti della disciplina legislativa in tema di

pubblicità ingannevole.

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Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché

chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole

dandone una nozione particolarmente ampia.

E’ infatti ingannevole «qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua

presentazione, induce in errore o può indurre in errore» le persone alle quali è rivolta e che «possa

pregiudicare il loro comporta-mento economico ovvero...ledere un concorrente». Sono inoltre

dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di

pubblicità è ingannevole: caratteri dei beni, prezzo, ecc..

Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi e per quella

suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti. E infine vietata ogni forma di pubblicità

subliminale, di pubblicità cioè che stimoli l'inconscio.

Ogni interessato può denunciare l'uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita

all'Autorità garante; quest'ultima può procedere anche d'ufficio, esercitando i poteri repressivi e

sanzionatoli già esaminati per le pratiche commerciali scorrette.

Come visto, resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di

autodisciplina.

«Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un organizzazione comune per la

disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese» (art. 2602). E' questa

l'attuale nuova nozione dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi,

introdotta dalla legge 10-5-1976, n. 377, che ha anche modificato in più punti l'originaria disciplina

dettata dal codice civile (artt. 2602-2620).

La nuova ampia definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo

tra imprenditori idoneo a ricomprendere due distinti fenomeni della realtà.

Un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare —

limitandola - la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la stessa attività o

attività similari (consorzio con funzione anticoncorrenziale). In tal caso il contratto di consorzio si

pre¬senta come una delle possibili manifestazioni dei patti limitativi della con-correnza previsti e

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regolati dall'art. 2596; patto che si caratterizza vuoi per la reciprocità delle limitazioni, vuoi per la

creazione di un'organizzazione comune cui è demandato il compito di dare attuazione al patto

restrittivo della concorrenza. Esempio classico di consorzio anticoncorrenziale è quello costituito

per il contingentamento della produzione o degli scambi fra imprenditori concorrenti. Un consorzio

che ha esclusivamente tale oggetto, è un puro contratto limitativo della reciproca concorrenza.

Più imprenditori possono però dar vita ad un consorzio anche per conseguire un fine

parzialmente o totalmente diverso: «per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese».

In tal caso il consorzio rappresenta anche uno strumento di cooperazione inte-raziendale finalizzato

alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese consorziate (consorzio con funzione di

coordinamento).

A queste forme di cooperazione reciproca ricorrono in modo particolare le imprese di

piccole e medie dimensioni, per raggiungere e recuperare competitività sul mercato attraverso la

riduzione delle spese generali di esercizio.

Consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendale si prestano a

valutazioni politiche diverse e sollevano problemi legislativi diversi quando si consideri il profilo

pubblicistico della loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato.

I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si

instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l'interesse generale. Esigenza questa

oggi soddisfatta dalla disciplina antimonopolistica in tema di intese, esposta nel capitolo

precedente.

A valutazioni diverse danno invece luogo i consorzi di cooperazione interaziendale. Essi

rispondono all'esigenza di conservare e di accrescere la competitività delle imprese e, in quanto

favoriscono la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, concorrono a pre-servare la struttura

concorrenziale del mercato. I consorzi che perseguono tale finalità sono perciò guardati con favore

dal legislatore, che ne agevola la costituzione ed il funzionamento con una serie di provvidenze

creditizie e tributarie a favore dei consorzi e delle società consortili fra piccole e medie imprese, che

rispondono a determinati requisiti.

Ciò tenuto presente, è da aggiungere che, sul piano della disciplina di diritto privato,

consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione aziendale sono regolati in modo

tendenzialmente uniforme.

Altra è però la distinzione rilevante sul piano civilistico. Ed è la distinzione fra consorzi con

(sola) attività interna e consorzi destinati a svolgere (anche) attività esterna. In entrambi si dà luogo

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alla creazione di un'organizzazione comune; ma nei consorzi con sola attività interna il compito di

tale organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i con-sorziati e nel controllare il

rispetto di quanto convenuto. Il consorzio in quanto tale non entra in contatto e non opera con i

terzi. Nei consorzi con attività esterna, invece, le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune,

destinato a svolgere attività con i terzi nell'interesse delle imprese consorziate. Ed è questa la

struttura più diffusa dei consorzi di cooperazione interaziendale, mentre i consorzi limitativi della

concorrenza possono in concreto assumere entrambe le forme.