Ora a5 n1

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Numero 1 Anno V Ottobre 2014 Sblocca Italia: Non si cambia verso pag. 2 Dal mondo: L’Isis, la libertà e l’autodeterminazione pag. 10 La sentenza La condanna di Oscar Pistorius pag. 12 facebook.com/ora.giurisprudenza a pag. 4 A chi serve l’art. 18?

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Transcript of Ora a5 n1

Numero 1 Anno V Ottobre 2014

Sblocca Italia:Non si cambiaverso

pag. 2

Dal mondo:L’Isis,

la libertàe l’autodeterminazione

pag. 10

La sentenzaLa condanna

di OscarPistoriuspag. 12

facebook.com/ora.giurisprudenza

a pag. 4

A chi servel’art. 18?

2

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Giulia Romano

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ATTUALITA’

Con lo “Sblocca Italia” non si cambia verso

DI EUGENIO FIDELBO

Lo scorso 12 settembre, approvando il decre-

to-legge n. 133/2014, Renzi sembra aver dato

la spinta decisiva per “sbloccare l’Italia” im-

pantanata nella palude della burocrazia. La pa-

rola d’ordine è “fare velocemente”: procedure

più snelle (al limite della denutrizione, per la

verità) in modo da consentire nel tempo mino-

re possibile l’esecuzione delle grandi opere di

cui ha bisogno il Paese.

Le cose fatte troppo di fretta, tuttavia, possono

produrre risultati approssimativi, in primo luo-

go, dal punto di vista tecnico-giuridico. Troppo

eterogenei i settori coinvolti, – dall’apertura

dei cantieri alla digitalizzazione del Paese,

dalla realizzazione delle opere pubbliche alla

semplificazione burocratica, dall’emergenza

del dissesto idrogeologico alla ripresa delle at-

tività produttive – rozzamente tenuti insieme

dal fragile spago rappresentato da non meglio

specificati motivi di urgenza. Benché allonta-

nati dalla firma del Presidente della Repubbli-

ca, i fantasmi dell’incostituzionalità continua-

no ad aleggiare sullo “Sblocca Italia”. Mancano,

infatti, quei caratteri di specificità e di omoge-

neità del contenuto che la costante giurispru-

denza costituzionale considera “esplicitazione

della ratio” insita nell’articolo 77 della Costi-

tuzione: sintomo della situazione straordinaria

di necessità e urgenza, che giustifica l’eccezio-

nale esercizio da parte dell’Esecutivo del pote-

re legislativo, è proprio la specificità e puntua-

lità della disciplina oggetto del decreto.

Il dogma della velocità investe numerosi altri

aspetti della normativa. Per “fare presto”, sono

poste nel nulla le regole europee che impon-

gono procedure concorsuali e trasparenza per

scegliere il concessionario privato di un’opera

pubblica: l’articolo 5 del decreto consente al

beneficiario di una concessione autostradale

di estenderla a “tratte interconnesse, contigue,

ovvero complementari, al fine della gestione

unitaria” senza la messa in moto di alcuna gara

d’appalto, ma con una semplice proposta di

modifica da presentare entro il 31 dicembre

2014.

Il mito della velocità capovolge e travolge an-

che la gerarchia dei valori costituzionalmente

protetti. La tutela del paesaggio e del patrimo-

nio artistico e culturale della Nazione figura

tra i principi fondamentali del nostro ordina-

mento; d’altra parte, l’iniziativa privata “non

può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”,

così come l’esercizio delle facoltà connesse

alla proprietà privata non deve perdere di vi-

sta la funzione sociale di quest’ultima. Ebbene,

l’articolo che apre lo “Sblocca Italia”, al comma

quinto, estende l’istituto del silenzio-assenso

anche all’ambito dei procedimenti riguardanti

la tutela del patrimonio paesaggistico e cultu-

rale, derogando alla legge sul procedimento

amministrativo, oltre che invertendo l’ordine di

priorità scolpito in Costituzione. Il silenzio-as-

senso è, infatti, uno strumento che garantisce

il singolo e i suoi interessi dai ritardi ingiustifi-

cati della burocrazia, disponendo che l’inerzia

dell’amministrazione prolungata oltre un certo

termine rende automatico l’accoglimento delle

richieste avanzate dai privati. Il bilanciamento

degli interessi imposto dalle norme costitu-

zionali, come è logico che sia, escludeva che

la protezione dei beni paesaggistici e cultu-

rali potesse essere sacrificata sull’altare della

semplificazione amministrativa. A ciò vanno

aggiunte le disposizioni che ridimensionano

drasticamente il ruolo strategico delle soprin-

tendenze nella tutela del paesaggio, nel malin-

teso intento di “sburocratizzare” per facilitare

gli investimenti dei privati.

Quali le conseguenze di questo regime di

laissez-faire all’italiana, posto in violazione

di principi cardine dell’Unione Europea e del

nostro stesso ordinamento costituzionale?

Secondo il rappresentante di Bankitalia, convo-

cato appositamente dalla Camera per fornire

un parere sul testo, una disciplina di tal fatta

rischia di produrre, più che opere, corruzione.

Per cambiare verso, rivolgersi altrove

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ATTUALITA’

A chi serve l’art. 18?

DI DOMIOANO ZOTAJ

Le poche ma confuse idee riformatrici di

Matteo Renzi procedono a colpi di voti di

fiducia e richiami alla minoranza del PD, toc-

cando tutti i settori, compreso quello del

lavoro e dell’art. 18. Il cosiddetto “Totem”,

così come lo chiamano i suoi detrattori, è

nel mirino del governo che si dimostra in

continuità con la linea dell’ex ministra Elsa

Fornero, che considera la flessibilità come

fondamentale alla ripresa delle assunzioni

e delle offerte di lavoro. Questa teoria si

basa sulla considerazione che c’è un “bloc-

co”, dovuto alle troppe tutele offerte ai la-

voratori, che impedisce all’imprenditoria di

investire. La questione però apre delle pro-

blematiche e viene da chiederci: è proprio

necessaria la modifica dell’art 18? Quanto

incide questa modifica nel percorso della

ripresa economica? L’articolo tratta del rein-

tegro nel posto di un dipendente licenziato

per un motivo illegittimo (discriminazione

di ogni tipo) o immotivato (senza giusta

causa) nelle aziende con più di 15 dipen-

denti (quindi le aziende interessate dall’ar-

ticolo 18 sono il 2,4 per cento, una stretta

minoranza). Il lavoratore può ricorrere, se

ritiene che ci sia stata una sua violazione, al

giudice, chiedendo spiegazioni alla società.

La sua nuova versione ridefinisce i rappor-

ti di forza tra imprenditore e dipendente e

lascia l’onere della prova al secondo, che

verrà unicamente risarcito secondo tutele

crescenti in base all’anzianità. Il bisogno de-

gli investimenti, necessario a far ripartire le

5assunzioni e quindi i consumi, può avvenire

tramite due canali, quello statale e quello

privato (in particolare il capitale straniero).

Il primo punto però, nonostante l’abbia già

prescritto Keynes agli stati durante la re-

cessione, non sembra essere il preferito dal

governo, che segue le politiche di austerità

europee “facendo i compiti a casa”. Questo

atteggiamento però non può neppure porta-

re ad una decisiva riduzione delle tasse, che

ritornano in varie forme e non modificano

la situazione. Mettendosi quindi in compe-

tizione mondiale, il sistema Italia rischia di

non convincere. Dal punto di vista degli in-

vestitori stranieri, ai quali il governo cerca di

andare incontro, questo intervento è molto

limitato e non modifica la capacità di attra-

zione dell’Italia, che si ritrova impantanata

in un sistema di inefficienza, corruzione e

criminalità. La considerazione della presun-

ta pesantezza del capitale umano in termini

economici poi sembra non considerare la già

grave situazione rilevata nel 2012 dall’Euro-

stat, che ha classificato gli stipendi italiani

all’ultimo posto in classifica. Le ultime ga-

ranzie rimaste, prodotte da lotte storiche e

da un passato florido, appaiono degli ultimi

appigli più che dei privilegi. Marina Calde-

rone, presidente dei consulenti del lavoro,

ha dichiarato che l’articolo 18 copre pochi

casi e in realtà serve tanta semplificazione e

meno oneri sul lavoro. Nel campo macroeco-

nomico questo provvedimento rischia di es-

sere irrilevante, ripetendo il fallimento nella

ripresa dei consumi a seguito degli 80 euro

in busta paga. I paesi in cui i licenziamenti

hanno meno tutele da cui si prende spunto,

come la Danimarca, hanno in compenso un

forte stato sociale che sostiene la disoccu-

pazione, al contrario dell’Italia che ha fatto

solo dei piccoli passi in avanti in questo sen-

so. Rischia di indebolire anziché rafforzare le

tutele e le nuove assunzioni. Una ricerca del

Ministero dell’Economia e della nostra uni-

versità (tra cui Margherita Scarlato, docente

alla facoltà di economia di Roma Tre) arriva

a delle conclusioni disarmanti, affermando

che tutti gli interventi “flessibili” sul mer-

cato del lavoro, dalla legge Biagi in poi, non

hanno contribuito a ridurre la segmentazio-

ne di questo mercato e né è riuscita a miti-

gare l’impatto della crisi economica, peggio-

randolo. Insomma, si prospetta la rinuncia ad

una tutela certa per una ripresa incerta, che

tarda a vederci e che resta piena di criticità.

L’opinione secondo cui la riduzione delle tu-

tele degli occupati favorisca l’occupazione,

somiglia molto ad un pregiudizio che ad una

risposta pragmatica al problema. L’idea ve-

tusta di classi sociali in conflitto e dello spo-

stamento dei rapporti di potere verso l’una

o l’altra parte a seconda della mera ideolo-

gia, non dovrebbe essere più di moda, anche

se alcuni grandi imprenditori e politici non

sembrano capirlo.

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CURIOSITA’

Il codice a barre: un mistero tra le righeDI EVA IMAN SERRA

Se per l’ennesima volta ci chiedessero di trovare un

simbolo e uno soltanto della nostra società moderna

e consumistica, probabilmente ci renderemmo

conto di come non sia affatto semplice. Fiduciosa mi

pongo la domanda lo stesso, ma tra l’entusiasmo e

lo sconforto la via è breve. Decido allora di scendere

in campo e recarmi nel primo punto vendita a me

vicino. Warhol agli inizi degli anni ‘50 scelse come

simbolo della società moderna americana la zuppa

in scatola Campbell ma io, tra tutti questi prodotti

sistemati negli scaffali, non riesco proprio a fare

una scelta. Quando ogni speranza sembra perduta

un suono costante e cadenzato “beep, beep” attira

la mia attenzione e l’esercito di addetti alle casse mi

conduce finalmente verso la soluzione finale. Ecco,

ci sono, ho trovato il simbolo che cercavo: è il codice

a barre!

Ogni giorno gli scanner di negozi e supermercati

leggono oltre 5 miliardi di codici a barre. Ma cosa

conosciamo realmente del famoso “bar code”? Il

codice a barre è un’invenzione tutta americana

e questo forse ce lo aspettavamo, ma ciò che

difficilmente ci saremmo immaginati è che l’idea

nacque su una spiaggia del New Jersey. Sul finire

degli anni ’40 ai laureandi in ingegneria Bernard

Silver e Norman Joseph Woodland viene richiesto

dal direttore di un supermercato di lavorare sulla

realizzazione di un codice che permettesse il

riconoscimento automatico dei prodotti alle casse,

accelerando code e pagamenti. Fu Woodland che

in occasione di una giornata al mare ebbe l’idea.

Affondando le dita nella sabbia il giovane segnò

delle righe dal diverso spessore e osservandole

capì che proprio la differenza fra le righe avrebbe

potuto creare un codice simile ai punti e alle linee

dell’alfabeto Morse. Woodland pensò che così come

le pellicole mute venivano rese sonore sfruttando

un fascio luminoso, in modo analogo si sarebbe

potuto decodificare il codice. In realtà si dovrà

attendere il perfezionamento della tecnologia laser

per la lettura del codice a barre e quindi per la sua

vera diffusione.

Il 3 aprile 1973 la cassiera di un piccolo

supermercato dell’Ohio fa passare per la prima

volta un prodotto sotto lo scanner. Fu così che un

pacchetto di gomme da masticare (“Wrigley”)

diede il via ad un gesto che diventerà il simbolo

del consumismo globale. In breve tempo le aziende

leader del grande consumo mondiale si accordano

per utilizzare il bar code come standard unico per

l’identificazione dei prodotti. In Italia il codice a barre

inizia ad affermarsi a cavallo tra il 1977 e 1978, solo

qualche anno più tardi rispetto all’America. Grazie

al “bar code” sono milioni le imprese nel mondo che

oggi parlano lo stesso linguaggio. Dalle origini del

“bar code”, lo sviluppo e la corretta implementazione

degli standard più diffusi a supporto del commercio

mondiale è garantito dal GS1 (The global language

of business), un’organizzazione internazionale

fondata nel 1977 con sede centrale a Bruxelles. In

Italia questa organizzazione è rappresentata da

7Indicod-ECR, un’associazione che ha a sua volta

come obiettivo la diffusione degli standard adottati

a livello mondiale e del suo segno più conosciuto:

il codice a barre. A questo punto però occorre fare

un ulteriore passo avanti per comprendere come

l’impiego del codice a barre influisce nei rapporti

tra venditore e consumatore. Infatti, se da parte

delle imprese l’adozione di un linguaggio globale

permette un risparmio sui costi, efficienza nel

dialogo tra settori diversi e un maggiore scambio

d’informazioni sui prodotti, da parte del consumatore

non sempre c’è la giusta consapevolezza. Iniziamo

col dire che in Europa tra i tipi di codici a barre più

diffusi c’è il codice EAN (European Article Number)

il quale permette di identificare in modo univoco

un prodotto destinato alla grande distribuzione.

Questo tipo di codice a barre è solitamente utilizzato

nel formato EAN13 per gli articoli di consumo ed è

costituito da 13 caratteri. Ma cosa significano questi

caratteri? Quello che di utile c’è da sapere è che le

prime due cifre si riferiscono al paese detentore

del marchio del prodotto, che n.b non coincide

necessariamente anche con il paese produttore (Nel

caso dell’Italia le due cifre sono 8 0). Le successive

5 cifre rappresentano l’indirizzo del produttore

oppure del fornitore e le ulteriori 5 cifre si

riferiscono all’articolo stesso. L’ultimo numero serve

come verifica da parte del computer. Solamente a

titolo informativo, per quanto riguarda invece libri

e periodici i codici impiegati sono rispettivamente

l’ISBN e l’ISSN.

Attraverso la comprensione dei numeri del codice a

barre possiamo essere consumatori più consapevoli

e responsabili, acquisendo informazioni preziose

sulla provenienza del prodotto. Ad esempio, un

prodotto alimentare fabbricato in Italia ma da un

fabbricante con sede legale all’estero presenterà

necessariamente un “bar code” le cui prime due

cifre non corrispondono all’Italia e viceversa. Sarà

quindi compito del consumatore essere oculato

e non farsi trarre in inganno. Il problema invece si

pone con riguardo alle materie prime provenienti

dall’estero e impiegate in prodotti fabbricati in

Italia, allora il “bar code” non ci sarà di alcun aiuto in

quanto presenterà comunque quali prime due cifre

del codice quelle corrispondenti all’ Italia senza dar

conto del luogo d’origine della materia impiegata.

In questi casi non ci resta che leggere l’etichetta ed

evitare di acquistare prodotti di dubbia provenienza.

Insomma, il codice a barre risulta essere un sistema

che porta sicuramente a un risparmio di tempo

per chi commercia ma finisce col disorientare il

consumatore. Ciò che manca è probabilmente

proprio la chiarezza delle informazioni riguardanti il

prodotto in vendita. Il consumatore medio si trova

ogni giorno a dover sapere interpretare una miriade

di sigle, codici e numeri. Tra la gran quantità di

prodotti esposti, risulta difficile individuare persino

il cartellino del prezzo e il compratore non ha

nemmeno la certezza che il prezzo esposto coincida

con il prezzo reale (questo viene ormai aggiornato

via computer proprio attraverso il “bar code”).

Concludendo, se da un lato l’impresa velocizza le

dinamiche di mercato proprio attraverso l’impiego

del codice a barre sui prodotti, dall’altro lato

l’acquirente è sottoposto a un disservizio che viene

fin troppo trascurato..

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DAL MONDO

Proteste a Hong Kong: “Occupy Central con pace e amore”DI AMBRA BERLOCO

Hong Kong 31 Agosto: Pechino ha annunciato che

non accoglierà la proposta di riforma elettorale

presentata da Occupy Central, movimento di

studenti e attivisti democratici, che chiedono

elezioni libere e a suffragio universale nel 2017.

Il Congresso nazionale del popolo cinese ha

annunciato che i candidati alla carica di capo

dell’Amministrazione (chief executive) dovranno

avere il sostegno di almeno il 50 per cento di

un comitato elettorale centrale, nominato da

Pechino.

Il 14 settembre più di mille attivisti nel centro di

Hong Kong hanno protestato contro la decisione

della Cina. I manifestanti, vestiti di nero, hanno

sfilato per le strade con una bandiera nera lunga

cinquecento metri, chiedendo “disobbedienza

civile”.

La protesta ha raggiunto il suo apice il 28

settembre, quando agli studenti e agli attivisti per

la democrazia si sono aggiunti cittadini di ogni

estrazione. Insieme hanno occupato il quartiere

della finanza, bloccando le attività produttive

della città, ma la manifestazione è stata repressa

con la forza dalla polizia e i manifestanti sono

ricorsi agli ombrelli per proteggersi dal lancio di

gas lacrimogeni e dai manganelli. Banche d’affari

e scuole sono state chiuse ed il governo di

Pechino ha bloccato anche Instagram per evitare

che si diffondessero foto sugli scontri tra polizia

e studenti e ha dichiarato illegali e illegittimi i

movimenti di Hong Kong.

Nel mese di ottobre il numero dei manifestanti

è diminuito e molti funzionari pubblici sono

ritornati a lavorare nelle sedi di governo

occupate. I leader degli studenti si sono

9dichiarati disponibili ad aprire un colloquio con

il governo sulle riforme politiche, ma i negoziati

tra gli attivisti e i funzionari del governo, avvenuti

il 21 ottobre, non hanno dato esiti soddisfacenti. I

leader degli studenti hanno dichiarato di non aver

ricevuto dalle autorità alcuna offerta in grado di

rispondere alle loro richieste; il segretario della

Hong Kong Federation of Students Alex Chow

ha dichiarato “Il governo deve darci qualcosa

per risolvere il problema, ma ciò che ci stanno

offrendo non ha alcun contenuto pratico” ed

ha invitato i manifestanti a non abbandonare la

protesta.

Come nascono le attuali proteste?

Hong Kong è stata una colonia britannica fino

al 1997, anno in cui è avvenuto il trasferimento

della sovranità dal Regno Unito alla Repubblica

popolare cinese. Oggi l’ex colonia è una regione

amministrativa speciale della Cina alla quale

Pechino ha concesso un alto grado di autonomia.

In realtà il Presidente della Cina Xi Jinping si

è sempre opposto in modo inflessibile alla

liberalizzazione politica e le proteste pubbliche

sono state una costante del suo governo. La sua

politica ferrea in Cina, ha contribuito a creare la

crisi, che sembra ormai sfuggire al controllo del

governo; gli stessi membri di partito e gli analisti

politici esprimono il loro scetticismo, affermando

che i piccoli compromessi concessi riusciranno

difficilmente a placare i cittadini di Hong Kong

scesi in piazza. La politica dispotica di Pechino

ha favorito il crearsi di una situazione a lei stessa

controproducente, scatenando un ritorno di

fiamma: Hong Kong rivendica i suoi diritti civili

e i riflettori del mondo internazionale si sono

accesi sulla Cina, nonostante i numerosi sforzi

del governo di evitare fughe di notizie oltre i

suoi confini.

Hong Kong è rimasta immune alle blandizie di

una “felicità comune” prospettate dal governo

cinese, grazie al lungo periodo di colonialismo

britannico, che ha permesso alla regione di

svilupparsi con le sue leggi e la sua tradizione

di libertà. Questa protesta affonda le sue radici

nella storia di questo Paese, oramai maturo

per conquistare la sua autonomia politica e

abbattere un regime di repressione, che, come

la tela di un ragno, si estende su ogni aspetto

della vita sociale: manifestazioni in piazza, social

network, cultura. “Sul continente, fino a quando

è possibile controllare le strade con soldati e

armi, si può fermare una protesta, perché tutto

il resto è già controllato: la stampa, internet, le

scuole, ogni quartiere e ogni comunità”, ha detto

Xiao Shu, uno scrittore in visita alla Chengchi

University di Taiwan. La repressione adottata

dalle autorità nei confronti di una protesta

pacifica fa sollevare facilmente parallelismi con

il massacro a Pechino dei manifestanti per la

democrazia nel 1989, evento che ha segnato e

inasprito i rapporti tra Cina e il resto del mondo

per anni: la storia sta per ripetersi?

E’ una situazione di tensione e di stallo difficile

da disinnescare per lo stesso presidente Xi, che

si dimostra, al contempo, sicuro di sé e privo

di strumenti utili per arginare le proteste e

distogliere l’attenzione del mondo intero sulla

sua politica dittatoriale.

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DAL MONDO

Artefici del nostro destinol’ISIS, la libertà e l’autodeterminazione

DI CHIARA ARRUZZOLI

“Uccideteli dovunque li incontriate, e scacciate-

li da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è

peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino

alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano

aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la

ricompensa dei miscredenti.” (Corano)

Miscredenti, infedeli, bersagli da abbattere.

Come può un testo decontestualizzato provocare

il male in un essere umano? Come può un uomo

farsi tentare dalla follia al punto da credere che

sia nel giusto quando uccide, quando mortifica,

quando umilia? Le guerre di religione, ossimorico

spettro di un triste passato che si ripete come in

quella kantiana concezione circolare della storia

e del tempo, esistono. Ancora oggi.

Nel ventunesimo secolo, nell’era dell’ospite in-

quietante che si annida nelle vite dei giovani,

quel nichilismo infido e fidato approdo dei più,

accecati dallo stesso anestetico che è nutrimento

e affanno dei loro (rectius nostri) giorni, un grido

nitido, disperato di gloria si abbatte sul mondo

tutto e lo avvolge. Può sembrare una visione apo-

calittica, un revival di “The day after tomorrow”,

ma non è così. Non lo è perché quello che sta suc-

cedendo oggi non sta coinvolgendo solamente

iracheni, siriani, europei ammaliati dalla violenza

inaudita dell’ISIS e dei suoi mujahiddin, non sta

succedendo solo a loro. Quando aprendo il gior-

11nale la mattina leggiamo di un’altra decapitazione,

del boia John, degli uomini con le tute arancioni

imprigionati per mesi, per anni, abbandonati al

loro destino mentre recitano il copione della loro

fine davanti una macchina da presa, con le armi

puntate addosso e la certezza che una volta pre-

muto il tasto “stop” la luce avrà appena abban-

donato i loro occhi, non ci sentiamo più in guerra

contro l’attesa di qualcosa che ci rende tristi. Da

quando il mondo si è svegliato nel sonno delle

sue sfide economico-finanziarie, delle sue crisi di

valori e religioni delle incertezze, ha alzato il capo

e visto l’orrore dell’integralismo islamico, un sen-

timento comune ha iniziato a stringerci gli uni gli

altri: la paura. La paura è un fortissimo deterrente

sociale, ma può diventare al contempo un collan-

te straordinariamente forte. Affinché ciò accada

occorre però un catalizzatore di sentimenti che li

sintetizzi e li convogli in una visione positiva. Sen-

tire parlare di catene di crimini come scaturigine

dei fatti di cui sopra o leggere di giustificazioni

intrinseche nell’ideologia religiosa di cui si fre-

giano i combattenti è solo un bluff oltreché, a mio

parere, un falso storico francamente umiliante

per chi in queste scellerate battaglie perde la vita,

spesso senza aver nemmeno potuto prendere

una posizione. Ridurre il discorso ad una serie di

fatti consecutivi gli uni gli altri, dall’imperialismo

alle Torri Gemelle, da Al Qaeda agli abomini dei

carcerieri di Abu Ghraib, dal petrolio a Guantana-

mo può sembrare interessante, senza dubbio, può

persino apparire convincente nelle sue argomen-

tazioni, pur tuttavia le dinamiche sociologiche

che conducono a queste terribili fasi del grande

ciclo della storia dovrebbero per lo meno passare

per il tramite di un’intima riflessione. Il significato

delle guerre in fondo non è mai la prevaricazione

fine a se stessa, quanto piuttosto la bramosia, il

desiderio quasi spasmodico della conquista, del

possedere, dell’avere. Ma per conquistare qualco-

sa, la logica ci insegna, bisogna che quel qualcosa

esista e se esiste allora molto probabilmente è di

qualcuno, e se è di qualcuno ma lo vuole qualcun

altro questo combatterà per averlo. Non c’è nulla

di innaturale in tutto questo, se non il fatto che in

questa guerra il bene oggetto della contesa non è

un bene materiale ma un bene spirituale, un “Io”

che non si può vendere o comprare, perché non ha

un valore di mercato: la fede non ha un prezzo. È

qui che il filo conduttore del “consequenzialismo

cosmico” devìa: Allah, Dio, comunque lo si voglia

chiamare può rappresentare e rappresenta per

miliardi di persone una via da intraprendere, ma

non esiste strada che siamo realmente obbligati

a percorrere, non siamo fatti per viaggiare tutti

quanti a senso unico come macchine che sfreccia-

no nella stessa direzione. Ci accomuna certamen-

te un inizio e una fine, ma è l’iter, è ciò che sta in

mezzo che determina chi siamo veramente. Allora

invitiamo gli altri e noi stessi per primi a riflettere

sul significato della parola rispetto, poiché solo

nella diversità siamo veramente uomini e donne

consapevoli. Se ci privano della nostra libertà, sia

essa religiosa, di pensiero, di parola, personale, di

stampa non siamo più esseri umani, ma sudditi e

diventiamo quegli spettri dai quali noi stessi, con

il nostro nichilismo, vogliamo fuggire.

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LA SENTENZA

La condanna di Pistorius:ecco come è andata

DI EDOARDO PASSERINI

Oscar Pistorius è da tutti conosciuto per le sue

eccellenti qualità atletiche, ma soprattutto la sua

fama deriva dalla particolare condizione fisica in

cui vive fin dall’infanzia: è infatti privo di entrambi

gli arti inferiori. Blade Runner, così è soprannomi-

nato, nasce nel 1986 a Johannesburg (Sudafrica),

affetto da una grave malformazione, essendo

privo di entrambi i peroni e con i piedi grave-

mente deformati. Malformazione che lo costringe,

all’età di soli 11 mesi, all’amputazione delle

gambe. Nonostante questo handicap fisico è da

ragazzo un grande sportivo, pratica la pallanuoto

e il rugby, per poi passare all’atletica leggera,

disciplina che come tutti sanno lo consacra fuori-

classe indiscusso e gli permette di ottenere fama

mondiale, non solo per i numerosi titoli vinti nei

Giochi Paraolimpici, ma anche e soprattutto per

il fatto di essere ammesso (non senza critiche) a

gareggiare con i normodotati. Purtroppo più di

recente l’atleta sudafricano è salito agli onori della

cronaca per un fatto tristemente noto: l’omicidio

della fidanzata, la modella Reeva Steenkamp. Il 12

settembre 2014, nell’aula del tribunale di Pretoria,

il giudice Thokozila Masipa lo dichiara colpevole

di omicidio colposo. Cerchiamo di riassumere

i fatti di quel tragico evento: Pistorius e la fidan-

zata dormono fianco a fianco, durante la notte

l’atleta si alza, probabilmente per accendere un

ventilatore, ed è in quel momento che sente dei

rumori provenienti dal bagno. Al che impugna la

pistola che teneva nascosta sotto il letto e si reca

nella stanza adiacente, dicendo alla compagna

13di chiamare la polizia. Davanti la porta del bagno,

da cui continuavano a provenire rumori, Pistorius

viene assalito dal panico, fino a che non spara

quattro colpi contro la porta, ad altezza d’uomo.

Tornato in camera si accorge che la ragazza non era

più nel letto, quindi indossa i tutori per le gambe

che gli consentono di camminare normalmente e

solo a quel punto cerca di entrare in bagno, ma la

porta è chiusa a chiave. Riesce a sfondarla ed è a

questo punto che fa la sconvolgente scoperta: il

corpo che giace sul pavimento senza vita è pro-

prio quello della fidanzata Reeva. Quella appena

descritta è la versione dei fatti ufficialmente

accolta, ossia quella presentata da Pistorius stesso.

Completamente diversa è la versione riportata

dall’accusa: la notte in questione i due avevano

litigato pesantemente, la ragazza impaurita o sol-

tanto infuriata si era chiusa in bagno, al che l’atleta

sudafricano avrebbe fatto fuoco contro la porta

con il chiaro intento di ucciderla. Diversi sono

i motivi a sostegno di questa tesi e che danno

luogo a quesiti rimasti irrisolti anche dopo la sen-

tenza di condanna: innanzitutto, la stessa notte

dell’omicidio, alcuni testimoni affermano di aver

sentito le urla della ragazza provenire dall’interno

della casa, fatto che si pone come presupposto

per la tesi del litigio. Risulta strano poi che, come

si vede nel video presentato in aula dall’accusa, il

giovane atleta si fosse spesso allenato al tiro al

piattello nei mesi precedenti, e soprattutto che la

pistola con cui è stato commesso l’omicidio fosse

detenuta illegalmente da Pistorius. Sono questi i

motivi principali su cui si fonda l’accusa mossa dal

pubblico ministero. Ad ogni modo, torniamo ora

alla sentenza. Il giudice, che aveva escluso l’ac-

cusa più grave, quella di omicidio premeditato (la

condanna va da 25 anni fino all’ergastolo) o volon-

tario (minimo 15 anni di carcere), ha deciso che il

campione paraolimpico sparò intenzionalmente

attraverso la porta del bagno della casa dove i due

abitavano, ma non aveva intenzione di uccidere la

persona che stava dietro di essa e agì con negli-

genza. La condanna è quindi di omicidio colposo

perché ha agito negligentemente e irragione-

volmente quando sparò 4 colpi contro la porta

del bagno della sua casa di Pretoria uccidendo

la fidanzata. Pistorius non sapeva che all’interno

c’era Reeva ma sapeva comunque che qualcuno

era all’interno, quindi avrebbe dovuto invece

chiamare la sicurezza. Secondo quanto prevede

il reato di omicidio colposo Pistorius rischia ora

fino ad un massimo di 15 anni di carcere, anche

se, non essendo previsti dei minimi, la pena sarà

di fatto rimessa alla discrezionalità della corte,

che potrebbe decidere addirittura per gli arresti

domiciliari. Permetteteci una riflessione conclu-

siva, sul ruolo ambivalente che fama e popolarità

hanno giocato nella vita di quest’uomo: divenuto

campione acclamato per il suo incredibile talento

sportivo, la sua stessa notorietà lo ha sottoposto

ad una pressione mediatica senza precedenti

durante il processo (tanto che ovunque su inter-

net è possibile trovare immagini di lui che piange

o vomita in aula). In altri termini, lo hanno trasfor-

mato, da eroe e modello d’ispirazione, in assassino

di fama mondiale. .

14IL LIBRO

“Dodici”, Zerocalcare, gli zombi e Rebibbia DI ARIANNA DI MAULO

Michele Rech, in arte Zerocalcare, è un

fumettista, anche se la parola fumetti-

sta potrebbe risultare riduttiva. Provo a

fare di meglio: Zercalcare è un “figlio del

web”, nato nell’intimità del suo blog, e

ben presto diventato un fenomeno edi-

toriale di dimensioni gigantesche. È un

artista che ha abbracciato la filosofia

straight edge ed è, a sua volta e nella

sua materia, un filosofo egli stesso. È un

meticoloso osservatore, è un amante del

suo quartiere, è un nerd ed è un sacco di

altre cose. E tutte queste sue caratteri-

stiche traboccano incontenibili nelle sue

tavole, nelle sue storie, nei suoi fumetti,

che sono, per inciso, una gran ficata (pas-

satemi il termine).

“Dodici” è la sua penultima opera. L’ultima

si chiama “Dimentica il mio nome”, ed

uscirà nelle librerie il sedici ottobre.

“Dodici” è (come si legge nel blog dello

stesso Zerocalcare): “un libro di zombi e

di Rebibbia, così per una volta non m’ac-

collano la responsabilità generazionale.”

E s a t t o , è u n f u m e t t o c h e p a r l a d i

un’invasione zombi a Rebibbia, proprio il

quartiere di Roma, proprio quello li. Ed

è in questo scenario apocalittico che si

sviluppano le avventure di Katja, di Secco

e del sessuomane Cinghiale, che si ado-

perano per cercare di salvare la vita allo

stesso Zerocalcare, ferito in circostanze

misteriose, forse in seguito all’attacco di

un non-morto, forse no.

Ma l’apocalisse zombi è, per l’appunto,

solo uno sfondo, uno scenario. Il vero cen-

tro nevralgico della storia sono i geniali

dialoghi tra Secco e Katja, due personaggi

molto diversi tra loro, con due filoso-

fie di vita opposte e molto precise, per

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quanto sgangherate. L’uno, cresciuto con

videogames e merendine, vuole imporre

il modus vivendi di Ken il Guerriero al

nuovo mondo; l’altra, ragazza determi-

nata e new age, crede nella didattica di

Peppa Pig e nel Karma.

I battibecchi tra i due vanno a creare

degli assoluti momenti di comicità, e

solo per questo varrebbe la pena leggere

“Dodici” tutto d’un fiato.

Ma chi conosce Zerocalcare sa già che

una pagina non è mai uguale all’altra,

che dietro l’ironia si nasconde sempre

la nostalgia, che dietro le battute spen-

sierate si nasconde sempre quel senso di

agrodolce che caratterizza tutte le cose

della vita. Ecco che, allora, tra un attacco

zombi e l’altro, si presentano le digres-

sioni dell’autore sul suo quartiere, sulla

sua amata-odiata Rebibbia, con il suo car-

cere e le sue attese e il suo dolore.

Aspettando con ansia il sedici ottobre

per vedere cosa ci ha riservato Michele

in “Dimentica il mio nome”, vi consiglio

fortemente di andare a “Le Storie” e

comprare questo libro: lo leggerete in un

lampo, vi farete un sacco di risate e ne

rimarrete piacevolmente stupiti.

16

LA NOVITA’

La poesia

Lo sai: devo riperderti e non posso

come un tiro assestato mi smuove

ogni azione, ogni grido e anche il sospiro.

Pianto che straripa

dagli argini e rende oscuro autunno

di Roma.

Città di pietra e alberi

e distesa di luce nel rosso tramonto.

Un ronzio lungo viene dall’albero,

strazia come unghia sui vetri. Cerco

lo sguardo smarrito, pegno che ebbi

da te.

Chiunque può inviarci la propriapoesia, anche con pseudonimo,

a [email protected]

17FASHION PHILOSOPHY

A passo di sneakersDI GIULIA SULIS

Se è vero che per ogni donna che voglia

sentirsi alla moda c’è un paio di scarpe

con tacco, nella nuova stagione autunno/

inverno 2014 ogni fashion victim che si

rispetti dovrà far spazio nella scarpiera

ad un nuovo paio di comodissime sne-

akers! Colorate, classiche, in velluto,

versione black and white, glitterate e

persino con applicazioni in cristallo

per chi non ha voglia di dimenticare

l’intramontabile Cenerentola. Le sne-

akers del nuovo millennio non hanno

rivali e non temono neppure gli abiti

da sera. Indossatele con un tubino e

camminate a passo sicuro, ci guadagne-

rete in stile e non da meno in comodità.

Chi ha pensato tutto questo per voi?

L’intero universo moda! Per le donne

in carriera che si concedono il lusso di

puntare alto Dolce & Gabbana ha foto-

grafato l ’arcobaleno sui vostri piedi ,

Miu Miu trucca le vostre sneakers con

colori alternativi e luccicanti quanto un

cielo stellato nella notte di San Lorenzo

e ancora Gucci, che ha voglia di distin-

guersi per non cadere nell’anonimato

puntando tutto il suo amore per la como-

dità verso un instancabile total black.

Per le signorine del mondo reale che

hanno un budget l imitato ma tanta

voglia di stare al passo con i tempi veloci

della moda, la sneakers di Zara si tinge

di bianco, il colore della purezza, della

sincerità e di quel pizzico di freschezza

che non guasta mai, nell’anima come sui

piedi! Le sneakers sono da portare con

il sorriso che forse è l’unico accessorio

che non dovete mai dimenticare a casa!

A scuola o a lavoro mamme, ragazze e

persino nonne sbizzarritevi nel sogno

che diventa realtà, il mondo della moda

non ha più voglia di farvi soffrire perché

belle possiate apparire. Nell’autunno/

inverno che soffia sulla pelle, ognuna di

voi potrà correre senza paura di inciam-

pare, indossando persino il più classico

degli abiti, e se è vero che l’abito non

fa i l monaco, credo che l ’unica cosa

che possa parlare di voi sia il viaggio

della vostra vita, lungo, breve, dolce,

arrabbiato, sincero e comodo che sia, è

il vostro cammino che vi rende libere.

Buon viaggio a tutte le donne, quelle di

fatto e quelle di cuore e buon viaggio a

loro, le vostre sneakers, che vi faranno

compagnia in questo percorso chiamato

vita.

Good fashion eveyone!

18IL FILM

Boyhood di Richard LinklaterDI LORENZO TARDELLA

E’ cambiato tanto il mondo da quando

Richard Linklater ha scelto di filmare per

la prima volta un delizioso bambino di

otto anni di nome Ellar Coltrane.

A l l a r a d i o s i a s co l t a v a Ye l l ow d e i

Coldplay (destinati di lì a poco a rivelarsi

al grande pubblico), si giocava al Game

Boy, e si cercava con fatica di superare il

trauma dell’undici settembre.

E’ in quel preciso momento storico che

il progetto di Boyhood comincia a muo-

vere i suoi passi.

Da quel momento, per i successivi dodici

anni, Linklater ha radunato la stessa

troupe e gli stessi attori per raccontare,

nell ’arco del tempo, la storia di una

famiglia.

Di una madre ancora troppo giovane

e insicura, e della sua stoica forza di

volontà di fronte alle continue insidie e

sofferenze; di una sorella più grande che

si affaccia con anticipo alle grandi espe-

rienze delle vita; di un padre assente

eppure presente, anche lui troppo insi-

curo e perfettamente uomo nel fuggire

di fronte alle paure di una vita familiare.

Ma soprattutto è la storia di un bambino.

E di un ragazzo. E di un uomo.

Che cresce davanti ai nostri occhi, con

la devastante crudeltà della natura e

del tempo, in un percorso così chiaro ed

autentico da risultare straziante.

Lo conosciamo che è ancora bambino,

steso sull’erba a guardare le nuvole fuori

dalla scuola mentre aspetta che la madre

lo venga a riprendere; lo vediamo bistic-

ciare continuamente con la sorella più

grande, nei continui traslochi e cambia-

menti che la vita gli riserva; lo vediamo

farsi grande di fronte ai matrimoni sba-

gliati della madre, alle insicurezze e

instabilità paterne, ai continui sbalzi di

una vita in continuo movimento che non

sembra dargli pace.

Lo vediamo fumare, bere, innamorarsi e

diplomarsi.

E poi lo vediamo lasciare il nido, insi-

curo come tutti, ma in procinto di dare

un senso al suo mondo.

Dodici anni, nella vita di una persona.

Niente di più, niente di meno.

Sta in questo la grandezza del progetto

di Richard Linklater: nell’aver proseguito

e probabilmente elevato a sistema la sua

riflessione sul cambiamento, sullo scor-

rere del tempo, sul divenire.

L’aver impresso per sempre su pell i-

cola la più semplice ed autentica delle

storie, quella in cui ognuno si può rico-

noscere, a qualsiasi tempo e generazione

appartenga.

C’è tutto il mondo, sotto a quel cielo

19azzurro che Mason guarda con la curio-

sità di un bambino che non può smettere

di farsi domande.

E c’è tutto il mondo con lui su quel fur-

gone ammaccato che lo porta verso la

vita.

E quando un film ti permette di entrare

nello schermo, o quando il personaggio

della storia ti si siede accanto, è allora

che capisci che il cinema, in fondo, non

è altro che questo.

E che la storia di una persona, quando

viene dal cuore, può diventare la storia

di tutti.

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