Ccomemagazine N1

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1 ANNO 1 - NUMERO 1 - Maggio/Giugno 2008 FREEPRESS di ENOGASTRONOMIA

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>> Anno 1 n. 1 - Maggio/Giugno 2008

>> Editore responsabileCreo Edizioni - Pescarawww.c-magazine.it - [email protected]

>> Direttore responsabileCristina Mosca (non fumatrice)

se volete dirle qualcosa fatelo a: [email protected]

>> Coordinatore generale e Art directorFrancesco Cinapri (non fumatore)

se volete dirgli qualcosa fatelo a: [email protected]

>> Area commercialeAlessio Pisciella (ex atleta)

se volete dirgli qualcosa fatelo a: [email protected]

3284836589 - 3494902638

>> Direttore marketingDaniele Di Vittorio (ex fumatore)

se volete dirgli qualcosa fatelo a: [email protected]

>> Grafica ed impaginazioneCreo Advertising - Pescarawww.creoadv.it

>> Ufficio fotograficoSergio Pasqual

>> StampaAGP Arti Grafiche Picene - Maltignano (Ap)

Per questo numero sono stati consumati 2200 Km di asfalto, 215 ore davanti al computer, 22 panini, 1 cornetto, 15 chiamate perse e 54 tazzine di caffè anche da Luca Di Francescantonio, Francesca Luciani, Andrea Santilli, Anita Righetti, Giovanni Santoleri, Guernica, Valentina Tenaglia, Niko Romito, Annunziata Taraschi e Daniele Kihlgren.

>> Creo Edizioni s.n.c. di Francesco Cinapri & C.Via N.Fabrizi, 189 - 65122 PescaraTel. e Fax 085.386184www.c-magazine.it - [email protected]

Registrazione presso il Tribunale di Pescaran° 7/08 del 31/03/2008

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sommariocome

07 >> C come Editorial(i)

09 >> C come Fumetto

10 >> C come Birra Brasserie Lacu, un prodotto d’abbazia - Redazionale

16 >> C come Blog Fiordizucca

19 >> C come Gara “Lu Carrature d’Ore” compie 18 anni

21 >> C come Prova costume Alimentazione in vista dell’estate

22 >> C come Vinitaly 40 volte Montepulciano - Reportage 31 >> C come Mosto cotto Un’usanza da non perdere

32 >> C come Naturale Rubrica del mangiare naturale

38 >> C come Saral Food Gli ultimi sapori dell’inverno - Reportage 40 >> C come Tradizione Il brodo

44 >> C come Memoria In ricordo di Nicola Santoleri 48 >> C come Peppino Tinari L’abruzzesità? A Guardiagrele

52 >> C come Recupero A Santo Stefano di Sessanio i piatti di una volta

59 >> C come VIP

61 >> C come Grazie a....63 >> C come Film Ratatouille

64 >> C come News

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editorial(i)come

Se la prima volta non si scorda mai, la seconda si pianta in testa e non va più via. La tensione carica di adrenalina della prima volta è dovuta all’ignoto del “dopo”, alla fiducia speranzosa riposta nelle prime reazioni, ai primi passi nello sviluppo di una più forte self-confidence: una sicurezza nelle proprie capacità che arriva solo dopo aver provato a supera-re quello che si credeva un proprio limite.Il numero Zero di “C come magazine” ha portato con sé for-se più incoscienza di quella che adesso porta il numero Uno. Quando le certezze che si hanno in testa – aver creato un prodotto di qualità – diventano parole sulle labbra degli altri, il senso di responsabilità si fa maggiore. Perché è una verità che non è solo nella nostra testa. Una verità che spaventa, quasi, e in maniera inaspettata. Come segnare sul calendario una data molto importante.In questo numero ci siamo voluti guardare indietro, per sa-pere meglio chi siamo oggi. C’è uno scorcio di passato che si affaccia sul presente in alcune novità nel borgo di Santo Stefano di Sessanio che C ha ottenuto in anteprima. C’è un saluto ad un re delle vigne, Nicola Santoleri, sbalzato troppo presto dal suo destriero in corsa. E uno speciale al Vinitaly - e in particolare agli stand abruzzesi che vi hanno partecipato - per festeggiare tutti insieme il quarantennale del Montepul-ciano Doc.Dal nostro sogno, noi dello staff ci siamo svegliati, e ora fa-remo del nostro meglio per realizzarlo. Anzi, abbiamo già cominciato.

Però sai...io avrei fatto...; potresti trattare di questo o quel

tema; ma sai...perchè non fate...?

Fermi tutti!

Siamo al numero zero (...uno, pardon) e siamo gia pieni di

contenuti? A questo punto una domanda mi sorge sponta-

nea: ma l’Abruzzo prima di noi, come faceva?

Ci sono tantissimi argomenti interessanti che meriterebbero

spazio ed abbiamo un patrimonio enogastronomico presso-

chè infinito.

Se potessimo recensire tutti gli eventi che ci segnalano o po-

tessimo parlare di chef che stimiamo e che meritano spazio,

“C come magazine” sarebbe composto da 200 pagine

ed avrebbe uno staff di 20 persone, cosa che oggi non è, e

per questa motivazione e con questo editoriale che voglio

chiedere un po di “clemenza alla corte”.

Sono grato a tutti quelli che ci appoggiano, senza di loro non

faremmo quello che facciamo, ma...aiuto! : )

Please dateci tempo, è gia difficile uscire ogni 2 mesi!

A parte tutto questo, è bellissimo ricevere consensi da chi

sfoglia la rivista, complimenti e critiche sono beneaccetti in

egual modo.

Allora su...alzi la mano chi ha un’idea nuova, chi ha voglia di

fare, come noi, chi non ha voglia di lamentarsi.

Chi è che ha alzato la mano? tu..tu col giornale in mano dim-

mi dimmi...

Cristina Mosca 27 anni / donna / incensurataUna passione: la pennaSegno zodiacale: Bilancia /ascendente: capricornoNon fumatrice (convinta)Direttore responsabile di C-Magazine

Francesco Cinapri29 anni / uomo / incensuratoUna passione: la cucinaSegno zodiacale: Ariete /ascendente: gemelliNon fumatore (convinto)Art Director di C-Magazine

sai cosa potresti fare...?C come dopo

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fumettocome

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creo

adv.

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Qui l’aria profuma d’incenso e tra le pareti in mattoni spes-se più di un metro risuonano canti gregoriani. Non siamo in un’antica abbazia ma nella Brasserie Lacu, l’azienda fonda-ta da Ugo Faieta nel 2004 a Moscufo (Pe), dove si produce birra artigianale a partire dalla coltivazione del luppolo fino all’ideazione e alla lavorazione a mano di etichette, bicchieri e sacchetti di juta per le bottiglie. Tutto – a parte la prima fase di produzione e fermentazione, che si svolge nella Brasserie belga – ha luogo in un fabbricato che risale al 1860, scavato nella collina e tramandata da tre generazioni, che a memoria d’uomo ha accolto prima l’officina di un carraio, poi un franto-io, poi un semplice magazzino e infine una delle scommesse del terzo millennio: un posto dove accompagnare la birra alla maturazione con musica e profumi. «La nostra – spiega Ugo Faieta – è una birra di nicchia interamente artigianale. È una bionda doppio malto d’abbazia, prodotta con acqua,

Un prodotto d’abbazianel terzo millennio

An abbey product of the third millennium

Brasserie Lacu, un luogo dove riposa il tempo Lacu brasserie, where time rests

birracome

Redazionale - foto: Sergio Pasqual / Archivio Lacu

RedazionaleItaliano/Inglese

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beeras in

Editorial - photos by Sergio Pasqual / Lacu Archive

Here the air smells of incense, and the walls made in thick bricks resound with Gregorian chants. We’re not in an an-cient abbey but in Lacu Brasserie, the firm estabilished by Ugo Faieta in 2004 in Moscufo (Pe).Here, craft beer is produced from the cultivation of hop up to the conceiving and the handworking of accessories, such as labels, glasses and little juta bags for bottles. Apart from the first step of production and fermentation, which takes place in the Brasserie in Belgium, everything happens in a building inherited from father to son since 1860, for three generations. The building hosted at first a wheelwright workshop, after that an oil mill, then a simple storehouse and now it’s the challenge of the third millennium: a place where beer is led up to maturation with music and scents. «Ours – Ugo Faieta says – is a niche beer wholly handmade: a double blonde

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malto, luppolo e lievito secondo la ricetta dei frati nel Medioe-vo, ma ritoccata nei tempi di fermentazione, nell’aromatizza-zione e nel grado alcolico, che è inferiore alla media di circa un punto e mezzo». Non a caso, Lacu prende il suo nome da Santa Mariae in Lacu (Santa Maria del Lago), l’abbazia terminata ufficialmente nel 1159 che è la vera e propria punta di diamante del paese di Moscufo. «Le basi dei nostri calici – spiega Ugo Faieta – sono ispirate al Battistero che fronteggia l’abbazia, e sono fatte a mano, come anche i vassoi e gli statori, nell’obiettivo di mantenere determinate tradizioni che altrimenti andrebbero perdute». La prima birra Lacu è stata presentata ufficialmente alla stampa nell’aprile 2004 all’Hil-ton Hotel di Roma davanti ad ospiti blasonati, e già nel suo primo anno di vita ha ottenuto un importante riconoscimento: il “Gambero Rosso” dell’ottobre successivo le ha assegnato infatti il primo posto tra le birre di nicchia, apprezzandone la “schiuma di media cremosità e persistenza, i profumi di scorza d’agrumi e di coriandolo e il finale di buona lunghezza, con note agrumate di nocciola”. Una ulteriore nota di fascino a questo progetto di altri tempi è data dalla Numero Uno, gelosamente custodita in una teca. È la prima bottiglia in assoluto creata dall’azienda, facilmente riconoscibile dall’eti-

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abbey beer, produced with water, malt, hop and yeast, ac-cording to the friars’ ancient recipe modified in fermentation periods, spicing and in alcoholic content (a point and a half below the average). The name, “Lacu” comes from the Santa Mariae in Lacu abbey (Saint Mary in Lake), officially ended in 1159: the most precious building belonging to the little town of Moscufo. «The basis of the Lacu drinking cups – Ugo Faieta explains – recalls the baptistry facing the abbey: it’s handmade, as well as our trays and our stators. We want to fix some traditions, which otherwise would be forgotten».Lacu beer was introduced to the press at the Hilton Hotel in Rome in April 2004, and already during its first year of life it got an important prize: in October 2004 the “Gambero Ros-so” review put the firm at the first place among the niche beer producers, thanks to the persistent foam, the scents of citrus peel and coriander, and the traces of hazlnut in the product. The charme around this beer grows if we think of the so called Number One: a very precious bottle, the first one in a series of 30, decored with a label pressed on a very thin plate made in walnut, with a small 0,8 carat little diamond on the cork. «The diamond symbolizes purity and perfection – concludes

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chetta stampata e dipinta a mano sopra una sottilissima la-mina in vera radica di noce, dal gabbiotto in oro massiccio e soprattutto dal diamante di 0,8 carati in esso incastonato. «La Numero Uno appartiene ad una serie ricordo di trenta botti-glie - spiega Ugo Faieta - Oltre a simboleggiare la purezza e la perfezione, il diamante rappresenta per me il mio primo viaggio in Belgio, in cui conobbi un produttore di birra che mi fece scoprire come tramutare in realtà la mia passione». Una passione per “pochi ma buoni”: Lacu non si avvale delle grandi distribuzioni ma è nei circuiti di settore e nei negozi specializzati e, forte della produzione di luppolo tra le colline del Pescarese, presto proporrà sul mercato pasta alla birra e pasta, formaggi e liquori al luppolo.

Ugo Faieta – I bought it in my first tour in Belgium, where I met a beer producer who taught me how to transform my passion into reality». Thanks to its hop growings among the hills of Pescara count-ryside, Lacu Brasserie will soon launch beer noodles, and hop noodles, cheese and liqueur.

Brasserie Lacu Via Aldo Moro 28-36 Moscufo (Pe)Tel e fax +39 085/979367www.lacu.it

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Chi avrebbe mai pensato che da un vasetto di spicchi d’aglio

sott’olio potesse nascere un “cotanto” affermato blog?

Perché è proprio così che ha preso vita Fiordizucca: da una

semplice “ricettina messa lì”.

Oggi, dopo 3 anni dalla sua nascita, conta fino ai 4000 visita-

tori ogni giorno. Un successo con la S maiuscola!

«Cucinare è un po’ come amare», si legge nel suo profilo: un

principio, questo di Francesca (la “mamma” di Fiordizucca)

che condividiamo in pieno.

Francesca, appunto... dal sangue pugliese nonostante sia

nata a Torino ed abbia vissuto tra Italia, Scozia, America,

senza contare il presente in Inghilterra: tutte esperienze che

hanno arricchito il suo bagaglio di conoscenza culinaria, in-

fluenzandone anche le creazioni in cucina.

Ha carpito la nostra attenzione il suo particolare interesse

verso l’Abruzzo. Solo in seguito scopriamo che ha vissuto

un anno anche a Vasto e che da lì ha prodotto e pubblicato

ricette strepitose.

In Fiordizucca spicca la personalità della fotografia (merito di

una irrefrenabile passione dell’autrice) ed una speciale pro-

pensione verso la cucina mediterranea.

Anche Fiordizucca, come gran parte dei food-blog, nasce

come una raccolta di ricette che altrimenti andrebbero perdu-

te se lasciate su foglietti sparsi per casa.

Ex vegetariana, sperimentatrice, fotografa per passione, web

designer di professione: tutti aspetti che fanno di Francesca

– e di riflesso del suo food-blog – un mondo affascinante da

esplorare, da navigare...da gustare.

Volendo trovare spunto nella sezione “Cosa cucino stasera”

ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, considerato che le

sue ricette vanno dagli antipasti di terra a quelli di mare, dal

pane al riso, dai piatti unici alle zuppe, dai dolci al cucchia-

io alle torte, dal japanese style, al chinese, al thay, all’indian

style, per poi tornare alla pasta fatta in casa...insomma una

risorsa sul web!

Brava Francesca... Otra Vez!

Orecchiette con pomodorini al forno e fagiolini ( nella foto )

Ingredienti: orecchiette, pomodorini pachino o miami, fagioli-

ni, olio, sale, basilico fresco

Lavate i pomodori e tagliateli a metá. Adagiateli su una teglia da forno, salate la superficie, irrorate con olio d’oliva ed infor-nate a 200° C per circa 20 minuti o fino a quando non si sarà formata una crosticina. Pulite e lavate i fagiolini, tagliateli a metà e cuoceteli in acqua bollente salata. A metà cottura versate le orecchiette ed ultimate. Riportate tutto in padella, versate i pomodori, un filo d’olio e basilico fresco.

[Pomodorini]

Secondo il bellissimo sito di Pomodori Italiani, questa specie di po-

modori si chiamerebbe Miami.

“Miami ricorda la classica varietà Roma, particolarmente conosciuta

al Centro-Sud fino agli anni Sessanta. Di consistenza farinosa, que-

sto pomodoro è molto versatile in cucina, trova impiego sia a crudo

che a cotto.

Ideale per le classiche salse da conservare in bottiglia.”

http://fiordizucca.blogspot.com

di Francesco Cinapri - www.cucinamente.it

blogcome

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garacome

Una sfidaall’ultimo piatto

“Lu Carrature d’Ore” compie 18 anni

«Un’occasione d’incontro e di confronto per un’ulteriore crescita professionale». Con queste parole Lorenzo Pace, presidente dell’Associazione cuochi della provincia di Pescara, descrive il concorso gastronomico regionale “Lu carrature d’ore” che quest’anno ha raggiunto la... maggiore età. Tra il 29 febbraio e il 7 marzo, infatti, a Rosciano (Pe) si è svolta la diciottesima edizione di questa storica gara - una delle più antiche d’Italia -, organizzata dall’Associazione provinciale Cuochi insieme all’assessorato regionale all’agricoltura, alla Provincia di Pescara, al Comune di Rosciano e all’Arssa Abruzzo. Volta a riscoprire i piatti della tradizione gastronomica regionale e a valorizzare i prodotti agroalimentari locali, la manifestazione ha visto salire sul podio due chef del Romantik Hotel “Sporting Villa Maria” di Francavilla al Mare (Ch): Vito Giansante e Francesco Lupinetti si sono aggiudicati il primo posto con un carpaccio di pecora marinato alla menta peperita, con ricottina affumicata al ginepro. Seconde classificate le mazzarelle di agnello di Rocco Di Federico, di Nocciano (Pe), mentre terzo posto per Sandro Di Sciullo del ristorante “Il Melograno” di Rosciano e la sua millefoglie di filetto di maiale e carciofi croccanti di granoturco con confetti di spinaci novelli e caramello di mosto cotto. Il riconoscimento speciale “Lu buccunotte d’ore”, assegnato per la prima volta al migliore dessert, è andato al parrozzetto abruzzese di Rita Mucciola dell’Osteria “La Panarda” dell’Aquila, il trofeo “Giano” per il piatto più innovativo a Nicola Fossaceca del ristorante “Al Metrò” di San Salvo per il suo baccalà candito con pane cotto e il trofeo “De Victoris Medori”, per la tradizione, alla zuppa della salute dello chef Aldo D’Ostilio del ristorante “Via Veneto” di Castellalto (Te). Tra gli istituti alberghieri, sul podio l’agenzia formativa pubblica provinciale di Francavilla al Mare nelle categorie dei primi piatti e dei dessert, e il “Lorenzo Di Poppa” di Teramo per i secondi e per il trofeo “Centerba Toro”.

La zuppa della salute di Aldo D’Ostilio

Ingredienti x 6 persone1 gallina da 1,5 Kg - 200 gr di pane casereccio raffermo - 1 carota1\2 gambo di sedano - 1\2 cipolla - sale - 250 gr di carne di vitello

macinata 100 gr di pecorino stagionato - 1 tuorlo d’uovo

Preparazione brodoPreparare il brodo mettendo in una pentola la gallina, le sue rigaglie,

sedano, cipolla, carota, 2 litri di acqua e sale poi farlo bollire per circa 3 o 4 ore. A cottura ultimata filtrare il brodo e sgrassarlo.

Preparazione polpettinePrendere 250 gr di carne macinata, aggiungere 1 tuorlo d’uovo,

formaggio, sale, pepe, noce moscata. Amalgamare il tutto formando poi delle polpettine piccolissime.

Preparazione finale Nel piatto fondo da portata adagiare i cubetti di pane raffermo.

Nel frattempo cucinare le polpettine nel brodo e unirvi le rigaglie di gallina tagliati a dadolini; portarli a ebollizione e poi versarli nel piatto.

Servirli con una grattugiata di formaggio pecorino.

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di Francesca Luciani - Biologa

La bella stagione è ormai arrivata! Sole, spiaggia e mare e... qualche strato di troppo sui fianchi? Sulle cosce? La tentazione di intraprendere diete drastiche è fortissima, ma ricordiamoci che diventano irrimediabilmente fonte di frustrazione e, passato l’entusiasmo iniziale, i chili di troppo tornano proprio dov’erano. La forma perfetta è il risultato di piccole buone abitudini che dovrebbero accompagnarci sempre, e il clima piacevole della stagione può essere l’input a piccole modifiche al nostro stile di vita. Le giornate più lunghe possono essere uno stimolo per una passeggiata o una corsetta. Basta una mezz’ora di camminata a passo allegro tre volte a settimana per tonificare gambe e polpacci. Uno stile di vita poco attivo, oltre che predisporre all’obesità, rappresenta un fattore di rischio per la cardiopatia coronaria, il diabete e il tumore del colon; queste patologie, come pure ipertensione e osteoporosi senile, trovano nell’attività fisica il miglior strumento di prevenzione.Per prepararsi alla spiaggia non bisogna ricorrere a diete affamanti e monotone. Il corpo ha bisogno di tutto un po’... ma non di troppo.La colazione è fondamentale. Se non si fornisce energia all’organismo dopo il digiuno notturno, si assimilerà di più nei pasti successivi. Iniziamo con latte o yogurt, insieme a cereali o fette biscottate e marmellata, senza rinunciare al caffè. Per il pranzo privilegiamo i carboidrati di pasta, riso ma anche cereali come orzo, farro, alla base della dieta mediterranea. Sono alimenti poveri di grassi, ma molto sazianti e ricchi di fibra per il benessere intestinale. Fuori casa scegliamo pizza semplice, margherita, funghi, verdure, e accompagniamo il tutto con un contorno abbondante e un frutto.La cena sarà a base proteica: carne, formaggi, legumi, o pesce, consumati insieme a verdure e insalate, con una fetta

di pane e frutta.Tra i pasti principali possiamo consumare degli spuntini leggeri: un frutto, una macedonia o un frullato... in questo periodo c’è solo l’imbarazzo della scelta.Non abbiate sensi di colpa per un gelato o un dolcetto. L’importante è non esagerare e ricordarsi che nessun alimento va eliminato dalla nostra dieta. E quando, dopo cena, quella improvvisa voglia di dolce ci assale, consumiamo un infuso alla frutta o una camomilla aromatizzata al miele: un ottimo palliativo per il palato e la linea.Per concludere, non dimentichiamo di bere molta acqua, almeno due litri al giorno. L’acqua è fondamentale per il benessere dell’organismo, aiuta la digestione, l’assorbimento e l’utilizzazione dei nutrienti, e rende la pelle luminosa e idratata. In pratica non vi è alcun sistema all’interno dell’organismo che non dipenda direttamente dall’acqua, quindi è facile intuire quanto un suo consumo adeguato sia fondamentale per conseguire e conservare un buono stato di salute.

prova costumecome

Alimentazionein vista dell’estate

Le piccole buone abitudini per tornare in forma

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vinitalyverona

come

VERONA: 40 volte Montepulciano doc

Tra premi e assaggi, è il vino più amato d’Italia

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Reportage - Foto: Alessio Pisciella

Novantadue aziende vitivinicole per quasi 4 milioni di ettolitri di vino, mille metri quadri di padiglione (l’11), per la prima volta 6 aziende produttrici di liquori e distillati e sette medaglie. Con questi numeri l’Abruzzo dei vini è tornato a casa dalla più importante fiera di settore in Italia e in America, dopo aver partecipato dietro il coordinamento, come di consueto, dell’Assessorato regionale all’agricoltura, Arssa e Centro interno Camere di Commercio d’Abruzzo, in collaborazione con l’Enoteca Regionale d’Abruzzo e l’Associazione italiana sommelier Abruzzo. «Solo al Vinitaly si ha la percezione dell’alto livello di competizione esistente – ha commentato l’assessore all’agricoltura Marco Verticelli – Il quarantesimo anniversario della disciplinare che riconosceva l’origine controllata del Montepulciano d’Abruzzo dimostra che non siamo una regione arrivata solo oggi nel settore vitivinicolo: c’è bisogno di un lavoro compatto per non restare indietro. Occorre unire forze vecchie e nuove, coinvolgendo anche le ultime generazioni di agronomi, enologi e operatori del settore e proteggendo il nostro territorio con un’attenzione quasi maniacale».Non a caso, la Doc Montepulciano d’Abruzzo è stata la più premiata al Veronafiere per il terzo anno consecutivo: con una Gran medaglia d’oro, tre medaglie d’oro, una d’argento e due di bronzo è seguita a poca distanza dall’Amarone della Valpolicella. Al Cerasuolo sono andate 3 medaglie (gran medaglia d’oro, oro e argento) e 13 Gran Menzioni nella categoria riservata ai “Vini rosati doc”; anche nelle due categorie “Vini rossi doc” il Montepulciano d’Abruzzo ha riportato a casa 3 medaglie (argento, oro e bronzo), insieme a 46 Gran Menzioni. La terza medaglia d’oro è stata assegnata nella categoria “Vini Rosati igt”, oltre a 4 Gran Menzioni, mentre altre 22 Gran Menzioni sono andate ai vini bianchi.

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Nel “suo” Abruzzo non poteva non fare una capatina anche il presidente del Senato Franco Marini, dopo aver passato in rassegna molti padiglioni delle altre regioni italiane. Insieme all’assessore Marco Verticelli ha tagliato la torta (rustica) e brindato con un Cerasuolo in onore del quarantesimo “compleanno” del vino Montepulciano d’Abruzzo: era il 1968, infatti, quando gli veniva riconosciuta la denominazione di origine controllata con un decreto del Presidente della Repubblica, a cui fece seguito il primo disciplinare di produzione. Un compleanno un po’ disorientato in verità, visto lo scandalo ribattezzato “Velenitaly”, provocato dalle ingenti quantità di bottiglie, fiaschi e confezioni tetrapack vendute a basso costo e sofisticate con miscugli addirittura cancerogeni che tutto sarebbero, fuorché vino. Uno scoop a cui è stata associata anche una frode alimentare di portata internazionale, che interessa la produzione di centinaia di “falsi” Brunello di Montalcino (Ap) in 4 importanti aziende produttrici toscane

e che ne ha coinvolte altre 13: vini, quindi, per i quali non sarebbero state usate uve Sangiovese tra il 2003 e il 2007, violando quindi il disciplinare che ne impone l’utilizzo. Di fronte a questo polverone il presidente Franco Marini ha reagito prontamente: «Le irregolarità di poche persone malfide non devono essere pagate anche da chi investe ogni suo sforzo da decenni al servizio della qualità. I produttori italiani devono fare gruppo, perché un patrimonio di cultura e di tradizione vitivinicola non può essere infangato impunemente». Al termine dell’incontro, il presidente Marini ha ricevuto dall’assessore Verticelli la spilla d’oro celebrativa realizzata a mano da artigiani orafi pescaresi. «Questo anniversario – ha commentato Marini – sta a significare che l’Abruzzo non è solo un esportatore di materia prima ma anche di prodotto finito, e che è pronto per puntare anche su un turismo storico di qualità, soprattutto se l’efficienza dell’azione politica verrà migliorata».

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Il brindisi di Franco Marini. I nomi dei vincitori? Per il Cerasuolo: la Gran medaglia d’oro è andata alla Cooperativa Agraria Olearia Vinicola di Orosogna (Ch), una medaglia d’oro alla Vitivinicola Strappelli di Torano Nuovo e la medaglia di bronzo all’azienda De Angelis Corvi, di Controguerra (Te). Nei rosati igt, è andata alla vitivinicola del Casale Sergio di Vasto (Ch), mentre per la categoria rossi la medaglia d’oro è stata assegnata alla Cantina Tollo (Ch), e quella di bronzo al Citra Vini di Ortona (Ch). <<Il nostro sistema di lavoro – commenta orgoglioso il presidente del Centro Interno delle Camere di Commercio d’Abruzzo Dino Di Vincenzo – è preso ad esempio nazionale, dove è raro vedere Regione e Camere di Commercio lavorare fianco a fianco su un progetto comune, e da ben 11 anni, con crescente impegno. I successi che le nostre aziende stanno riportando sia presso la critica, sia sul mercato, dove il nostro vino ed il nostro olio si propongono con un favorevole rapporto qualità/prezzo, è dovuto a mio parere a produzioni di forte identità territoriale: due fattori che valgono molto nella competizione internazionale>>.Un successo dovuto anche sicuramente all’accattivante

campagna di promozione “Vini Doc d’Abruzzo, Note di Piacere”, che ha proposto l’immagine dell’Abruzzo non solo all’interno e all’esterno del polo fieristico con pannelli istituzionali collocati lungo il percorso, ma per la prima volta anche sugli autobus della città di Verona e sulle pensiline alle fermate, nonché sui principali periodici italiani specializzati e non (da “Panorama” a “Il Sole 24 Ore”, dal “La Stampa” a “Food&Beverage” e a “Civiltà del Bere”) e su tutti gli Eurostar di Trenitalia. Accogliente l’aspetto architettonico, curato dai tecnici e dagli architetti dell’Arssa: all’interno dei padiglioni del Vinitaly e del Sol, l’Abruzzo era riconoscibile con alte trabeazioni perimetrali, con una netta prevalenza di bordeaux e verde: un ambiente caldo e... autunnale. «Hanno avuto un ruolo fondamentale due elementi di forte valorizzazione – illustra il Direttore generale dell’Arssa Donatantonio De Falcis - L’Enoteca Regionale ha ampliato gli spazi e l’offerta con circa 500 vini ed un grande banco d’assaggio perimetrale; e il ristorante Abruzzo ha rappresentato non solo uno strumento utile di servizio per i nostri operatori vinicoli ed oleari e per gli incontri d’affari,

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Ventidue le aziende olivicole abruzzesi distribuite nei 500 mq del padiglione C del Sol d’Oro: nessun premio ma quattro Gran Menzioni da parte del concorso oleario internazionale che torna al Vinitaly dopo una pausa. «Il nostro vanto? – introduce Marino Giorgetti, capo panel dell’Arrsa – quello di aver creduto sin da subito a questa manifestazione come opportunità per gli operatori di farsi conoscere: l’Abruzzo è l’unica regione che partecipa da 14 anni». Una vetrina non indifferente, dal momento che per il padiglione si aggirano anche giapponesi, americani e tedeschi: un ottimo pretesto per avere un gustoso panorama della situazione attuale. La presenza delle province abruzzesi è piuttosto eterogenea, ma a ricevere le Gran Menzioni sono state due aziende teatine e due teramane: in provincia di Chieti, La Selvotta di Vasto e CantinArte di Chieti hanno ricevuto il riconoscimento per la categoria “Fruttato leggero”, mentre l’azienda di Adele De Antoniis di Garrufo (Te) (già classificata seconda nel d.o.p. nella terza edizione

del concorso abruzzese “Lorolio”) e la Persiani di Atri (prima nel biologico in “Lorolio”) hanno ricevuto due riconoscimenti nella categoria “Fruttato intenso”. Nel nostro percorso sulla moquette verde abbiamo anche incontrato il titolare dell’oleificio Montecchia di Morro d’Oro, primo classificato per l’extravergine d’oliva a “Lorolio”, che ci ha mostrato orgoglioso il suo originale trofeo. Ricordiamo che attualmente l’Abruzzo presenta tre olii DOP, ossia a denominazione di origine protetta, le cui qualità e caratteristiche sono quindi legate all’ambiente geografico e ai fattori naturali e umani che vi ruotano intorno. I nostri tre olii sono originari delle zone olivicole distinte in Aprutino-Pescarese, Colline Teatine e Colline teramane-Pretuziano, che si estendono su un’area che si aggira sui 47000 ettari con circa 9 milioni di piante. Secondo gli ultimi dati Ismea e dell’Unione dei produttori, l’olio abruzzese è al sesto posto tra le regioni produttrici italiane.

Non solo vino: le Gran Menzioni del Sol d’Oro

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ma anche un formidabile veicolo per promuovere le altre eccellenze agroalimentari e la cucina regionale, oltre che palestra di esperienza per gli allievi dei cinque istituti alberghieri della regione». Entrambe le strutture sono state coordinate dai sommelier dell’Ais Abruzzo, guidati dal presidente Gaudenzio D’Angelo: il ristorante Abruzzo ha

visto all’opera brigate di sala e di cucina di circa 50 studenti delle cinque scuole alberghiere, affiancati dai docenti e da 15 sommelier. Ogni giorno è stato proposto un menu con i prodotti e con le ricette tradizionali abruzzesi di carne e di pesce, dallo zafferano dell’Aquila Dop alle carote del Fucino Igp, dalla pasta Delverde di Fara S. Martino all’agnello del

Parco Nazionale alla pizza dolce abruzzese. L’ultimo giorno di fiera, domenica, sono stati serviti i piatti vincitori del concorso “Lu Carrature d’Ore 2008”, organizzato dalla Federazione italiana cuochi di Pescara e di cui parliamo anche in questo numero di C come magazine. Una chicca? La ”correzione” al Centerba Toro apposta alla ricetta del parrozzetto agli agrumi con salsa allo zafferano di L’Aquila.Impossibile ignorare i dettagli: dalla presenza di Giò Di Tonno - al suo primo Vinitaly - all’avvistamento, nel padiglione 11, di personaggi come Alba Parietti, Katia Ricciarelli e Al Bano Carrisi. La prima giornata della kermesse veronese ha visto anche la cerimonia di consegna della medaglia “Cangrande” a Marcello Zaccagnini in qualità di “Benemerito della vitivinicoltura italiana”, mentre venerdì 4 ha avuto luogo la visita ufficiale del Presidente del Senato, Franco Marini, che ha ricevuto dall’assessore regionale all’agricoltura Marco Verticelli una spilla celebrativa dei 40 anni di Montepulciano assegnata anche ai produttori presenti. Il sabato si è svolta una degustazione particolare, alla quale hanno partecipato circa 30 giornalisti italiani e stranieri: una verticale territoriale di quattro vini rappresentativi degli ultimi quattro decenni. In assaggio, le annate del 1979, offerta dalla provincia di Teramo, del 1988 (da L’Aquila), del 1997 (da Pescara) e del 2003 (da Chieti). Un evento singolare, in grado di dimostrare la grande longevità del Montepulciano d’Abruzzo.«Con questa edizione – conclude soddisfatto il direttore del Centro Interno Innocenzo Chieffo, che da ben 30 anni accompagna le aziende abruzzesi a Vinitaly – siamo certi di aver compiuto un ulteriore balzo in avanti nella promozione del territorio e dei nostri vini».Al consuntivo: Il Vinitaly ha registrato quest’anno circa 130 mila operatori accreditati, con un aumento del 15% da parte di quelli stranieri rispetto allo scorso anno. Nel padiglione Abruzzo, in particolare, è stata importante la partecipazione di tedeschi, giapponesi e americani, i quali, pare non vogliano rinunciare al made in italy, nonostante il fango che stato ultimamente gettato su questo settore.

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mosto cottocome

A Pratola Peligna (Aq) tre generazioni della famiglia Di Bacco lavorano dal 2007 alla produzione di mosto cotto, prodotto riconosciuto dal Ministero come prodotto tradizionale abruzzese nella categoria distillati e liquori, per non permettere ad una tipicità solo nostra di scivolare via. «Il mosto cotto Di Bacco – spiega il giovane titolare di questa azienda a gestione familiare, Liberato Di Bacco – è ricavato da uve Montepulciano d’Abruzzo ben mature, quindi molto zuccherine. Non tutti ne conoscono i molteplici usi, ma è importante sapere che il nostro, che è fatto in casa e rispettando tutte le norme igieniche, è un prodotto altamente genuino, senza coloranti né conservanti». Dopo la spremitura, il mosto viene cotto a fuoco lento per molte ore fino a ridursi di circa un quinto e poi viene affinato da un invecchiamento di anche due anni in botti di legno. Il mosto cotto racchiude tutta l’aroma e la bontà delle uve. È un liquido dal colore violaceo scuro, di densità e viscosità simili a quelle dell’olio: è usato per la preparazione di dolci come mostaccioli, ceci ripieni e ferratelle, perciò è adatto anche alla prima colazione, servito su fette biscottate, pane o biscotti secchi. Inoltre rende più gustosa la frutta cotta e sciroppata, gelati e dessert di ogni tipo.Il mosto cotto viene servito nella prima colazione su fette biscottate, pane o biscotti secchi.Rende più gustosa frutta cotta e sciroppata, gelati e dessert di ogni tipo. È usato per la preparazione di dolci come: mostaccioli, ferratelle , ceci ripieni.

Un’usanzada non perdereI Di Bacco e l’aroma del Montepulciano

Si chiamano ferratelle dal nome dell’attrezzo che si usa per farle: due barre metalliche al cui capo si trovano i due stampi circolari che dan-no la forma da “inferriata”. E in casa Di Bacco si fanno così...

5 uova / 170 gr di zucchero / 1 bicchiere di olio1 bustina di lievito / Limone e arancia e cannella 3 bicchieri di mosto cotto

Dopo aver amalgamato energicamente gli ingredienti con la scorza di limone, ingrassare lo stampo caldo con l’olio. Versate un mestolo di composto nella parte centrale dello stampo, chiudetelo delicata-mente e lasciate dorare le ferratelle. Procedete così, ungendo il ferro di tanto in tanto.

Le ferratelle aquilane al mosto cotto

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Liberato Di Bacco Via Monte Corvo,21

67035 Pratola Peligna (Aq) tel/fax 0864-274031 - cell. 329-3967690

email: [email protected]

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In Foto: Radici di loto e funghi shiitake

naturalecome

di Andrea Santilli - Associazione clorophilla 99 www.clorophilla99.it - [email protected]

l’alto, la stessa forza che crea il Vento e fa crescere l’Albero. Sono quindi Aria e Legno gli elementi simbolici ad essa associata. Anche il Fegato ha una struttura simile a quella di una pianta, sembra svilupparsi dal basso verso l’alto e nella parte superiore si divide in lobi. Questo prezioso organo si ‘attiva’, grazie alla primavera, per purificarsi dagli eccessi e rivitalizzare le proprie funzioni. Per questo è molto utile, in questa fase dell’anno, alleggerire i condimenti e l’uso del sale, usare meno il fuoco, prediligere verdure locali coltivate in modo biologico o biodinamico e scegliere, oltre alla pasta

“Rinascita” è la parola migliore per rappresentare la stagione della primavera. La Natura torna a fiorire e sale in noi una necessità di pulizia, di dare aria alle nostre case, ai guardaroba, ai nostri polmoni, così come ai sogni e alle speranze che coltiviamo.Alle latitudini abruzzesi, il freddo e ventoso inizio di primavera sarà seguito da giornate con temperature più miti. Nella cucina naturale il menù riflette in maniera simbolica il movimento ciclico delle stagioni. La caratteristica energetica della primavera è la sua spinta verticale, dal basso verso

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Cucina in sintoniacon le stagioni

Il gusto della primavera

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di grano, cereali in chicchi come l’orzo, l’avena e la segale. Quando si cucina con l’intento di creare un menù equilibrato, in linea generale, i colori consigliano la scelta degli ingredienti vegetali. Questa è infatti la stagione delle vitamine, che sono presenti in abbondanza nelle verdure primaverili. Alcune di esse necessitano di una breve cottura perché le preziose sostanze di cui sono ricche si attivino

e si rendano facilmente assimilabili: un’azione congiunta di calore, sale marino integrale, acqua e olio. In questo periodo dell’anno è importante cibarsi quotidianamente di alcuni vegetali a foglia verde come bietola, cicoria o erbe di campo. Bollite brevemente, con la cura di mantenerne vivo il colore, migliorano la qualità del sangue e aiutano l’organismo nei suoi naturali processi depurativi.

In Foto: Miglio e zucca, scaloppina di seitan, alghe Hijiki e broccoli in salsa di sesamo

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In Foto: Mela in crema di malto36magazine

Il menù ruota intorno al cereale in chicchi e alla giusta porzione di legumi ben cotti, mentre le verdure di contorno sono cucinate usando bollitura e vapore: due stili rinfrescanti e leggeri.

La zuppa di miso servita ad inizio pasto favorisce la digestione ed è una ricca fonte di enzimi, proteine, vitamine e minerali che a stomaco vuoto sono facili da assimilare.Il miso è un condimento salato a base di cereali e soia che, fermentati sotto sale, sviluppano innumerevoli virtù pro-biotiche ed un sapore vagamente fruttato.La radice di loto rinforza il sistema respiratorio mentre il fungo shiitake stimola un’azione depurante sul fegato migliorando la qualità del sangue.

L’orzo in chicchi, precedentemente cotto in pentola a pressione, è saltato in padella con cipolla, carciofi e alghe marine dulse e condito, prima di servire con olio d’oliva e foglie di shiso salate. Un vero e proprio mix di sapori ma anche un ‘integratore’ naturale di ferro e altri elementi fondamentali per l’organismo.

I ceci sono cotti con una striscia di alga kombu, salati a fine cottura e pestati in un mortaio di legno insieme ad agro di riso, purea di umeboshi e l’immancabile olio d’oliva nostrano.

La salsa a base di semi di girasole tostati e macinati, si sposa benissimo con i ‘fiammiferi’ di carota al vapore, donando un sapore ricco e sostanzioso al palato.

Le qualità energetiche della bietola vengono accentuate dal sapore delicatamente acidulo dei crauti, stimolando a fine pasto la digestione e una piacevole sensazione dissetante.

La crema a base di malto di riso versata sulla mela cotta la rende deliziosa nella sua semplicità.

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Lasciate ogni speranza, o voi che entrate... di uscirne a

stomaco vuoto. È talmente forte l’impatto con i profumi

e i sapori, una volta entrati al Salone dell’alimentazione e

della ristorazione (Saral), organizzato per il diciassettesimo

anno dalla Fiere Service s.a.s. al Palauniverso di Silvi, che è

impossibile visitare i duecento espositori provenienti da tutta

Europa senza cedere alla tentazione di una degustazione di

pizza, caffè, arrosticini, o pasta. Visitando il Saral Food, dall’8

al 12 marzo 2008, è stato facile lasciarsi corteggiare dai gelati

offerti dall’azienda Magrini, o fermarsi ad assistere alla VII

edizione del “Mokambo Speciality Trophy”, concorso drink

coffee riservato agli addetti del settore, vinto quest’anno da

Giada Pomante, del bar “Raffaello” di Pescara. Sul podio

insieme a lei sono saliti Demis Aloisi, del bar “Atlante” di

Alba Adriatica, e Tiziano Orsini, dell’hotel “Regina Baglioni”

di Roma. La competizione prevedeva anche una categoria

junior, vinta da Alessandra Nicastro, dell’istituto alberghiero

di Villa Santa Maria, da Alfredo Bosco di Francavilla e

Francesco Galeotta de L’Aquila.

Immancabile lo stand di Pizz’Abruzzo d.o.c., associazione

che insieme a “Pizza & Pasta” si è resa promotrice di mini corsi

e concorsi per dilettanti e amatori sulla pizza fatta in casa,

proponendo anche videoproiezioni sulla cultura della pizza,

incontri con i ragazzi delle scuole per “giocare a fare la pizza”

e un miniconvegno sull’abbinamento tra pizza e vino, grazie

anche all’intervento del dietologo Corrado Pietrantonio. La

Federazione Italiana Panificatori ha organizzato un convegno

sul tema “Riforma del commercio nella Regione Abruzzo: la

disciplina di tracciabilità e allergeni e il regolamento su pane

fresco e panificio”, al quale sono intervenuti il presidente

federale Edvino Jerian ed il presidente dei panificatori di

Chieti Vinceslao Ruccolo. L’associazione “Pizza & Pasta”

ha condotto delle dimostrazioni di pizza in pala, in soia,

acrobatica, e lezioni di pizza dessert.

Cinque giorni di abruzzesità e di ultime specialità del settore,

che hanno richiamato ben 30mila visitatori superando ogni

record e ogni aspettativa: successo probabilmente apportato

anche dal fatto che ad oggi il Saral è l’unica fiera del gusto

in Abruzzo ad avere luogo nei mesi invernali e a mettere in

rilievo l’esigenza di comunicazione tra gli addetti ai lavori e

i loro ricettori. Non sfuggono a questo meccanismo né le

principali aziende del settore, come ad esempio Viander,

Greci, Fieni’s, Forst, Zanussi, Lainox, Mokambo e il Gruppo

Montresor, né realtà come Bonomo Beverage, Alpagel,

Viander, La Zagara o la Faber For Food.

Gli ultimi saporidell’inverno

A Silvi l’unica fiera in Abruzzoa ridosso della primavera

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saral foodcome

Reportage - Foto: Alessio Pisciella

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tradizionecome

Il brodoDalle “scrippelle” alla “pizza imperiale”

di Anita Righetti - Foto: Sergio Pasqual / archivio Creo adv.

La cucina del nonno, rivisitata.Del maiale non si butta niente.E nello stile contadino queste non sono parole, sono fatti.Lo scarto delle ossa che restano dopo aver utilizzato tutta la carne è la base per il brodo per le “scrippelle ‘mbusse”.Vanno bene tutte le ossa, però sono quelle delle zampe anteriori ad essere perfette per un brodo leggero e sapido.Dopo averle disossate per preparare salami o salsicce, e pulite, avremo ossa per circa un chilogrammo. Queste ossa vanno spezzate, sciacquate bene con l’acqua fredda e messe in una pentola con acqua fredda, in proporzione di quattro dita in più insieme a carota, cipolla, una costa di sedano, un pezzetto di cannella, sale e una piccola buccia di limone. Si copre la pentola e, a fuoco bassissimo, si controlla spesso per schiumare appena ne appare in superficie. Il brodo è pronto in circa tre ore. È limpido, giallino, molto profumato e soprattutto leggerissimo. Come alternativa alle ossa delle zampe anteriori, si possono usare le costolette con poca carne e un pezzetto di pancetta. Le “scrippelle ‘mbusse” Per le “scrippelle” ci vogliono un uovo, un cucchiaio di farina, sale, acqua (che le rende leggere) o latte, come si preferisce. L’acqua o il latte vanno aggiunti alla fine, diluendo l’impasto come piace.Le “scrippelle” si cuociono nella padella di ferro, “la ferzore”, unta ogni tanto con l’interno della cotenna del prosciutto, togliendole una ad una senza romperle. Devono essere tanto sottili da sembrare trasparenti. Poi si riempiono, una ad una, con un cucchiaio di parmigiano, un pizzico di pepe e, come scriveva Luigi Carnacina, “un niente” di cannella in polvere, se piace. Si riavvolgono sul ripieno, si adagiano nel piatto fondo e si coprono col brodo bollente.

Si accettano commenti solo dopo averle gustate.

La tradizioneNel brodo ci vanno le polpettine di carne, sempre. Con la chitarra piccola, con gli spinaci, con la scarola, con la pizza rustica o con i tortellini, le polpettine di carne scelta di vitello, macinata sottile e impastata con parmigiano, un uovo e un pizzico di noce moscata grattugiata, non mancano mai.Solo nella “stracciatella”, che descriverò a breve, se ne potrebbe fare a meno: il mio consiglio è metterne poche, sì, ma metterle. Oppure, per la “stracciatella”, fare le polpettine senza uovo: solo carne macinata con parmigiano e noce moscata. Ecco preparate le note “pallottine”, perfette anche per il timballo nuziale perché più leggere. Il timballo nuziale è fatto con una sfoglia di pasta all’uovo, ma l’ideale è prepararlo con le “scrippelle”. Una volta preparate sfoglie o scrippelle, si farcisce con polpettine di parmigiano grattugiato e mozzarelle a pezzetti, ma senza uovo, e si condisce con brodo di gallina (l’ideale) o di carne, al posto del classico ragù all’abruzzese. Il brodo deve arrivare a coprire a filo l’ultima sfoglia, che cuocendo poi in forno lo assorbirà tutto. Il timballo è detto nuziale per la bontà e per il colore chiaro che richiama il bianco, classico per la sposa. Un brodo fatto bene, cotto lentamente con le carni e gli odori giusti, accoglie e insaporisce una manciata di spinaci cotti nella maniera giusta, cioè lavati sette volte e lasciati appassire con la sola acqua rimasta sulle foglie nella pentola coperta; accoglie la scarola appena scottata in acqua e lasciata sobbollire nel brodo all’ultimo minuto; si versa bollente sulla “pizza imperiale”. Questa “pizza” è fatta con i tuorli aggiunti uno alla volta nel bianco dell’uovo montato a neve, completati da un cucchiaio di parmigiano, uno di farina e uno di prezzemolo tritato sottilissimo, e mescolati tra

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loro e versati con dolcezza per un impasto soffice. Da dire che secondo un’altra “scuola di pensiero”, le uova vengono sbattute intere, per avere un impasto compatto. Poi si stende un centimetro di pasta sulla carta da forno messa in una teglia e si cuoce in forno caldo per circa 10/15 minuti, finché la superficie non è dorata. Si lascia raffreddare e si taglia a cubetti di un centimetro per lato. Voilà! La “pizza imperiale” è pronta! Qualcuno ne aggiunge qualche cubetto anche al minestrone e devo dire che ci sta bene, anche se il brodo è la

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sua condizione naturale.Per fare la “stracciatella”, le proporzioni di uova e parmigiano da sbattere insieme vanno a gusto; si aggiunge un pizzico di pepe o noce moscato solo se non stanno già nel brodo. Si lascia scivolare il composto dolcemente nel brodo che sobbolle e si copre la pentola. C’è chi spegne subito e aspetta qualche minuto, per poi rompere l’impasto con la forchetta, e chi lo fa sobbollire lentamente qualche minuto. Solo il gusto personale è sovrano nella scelta.

Filosofia di cottura

Noi abruzzesi non possiamo dire di privilegiare il lesso: ci piace di più il brodo.Per questo mettiamo a cuocere le carni rosse del vitello o quelle bianche del pollame, o pezzi scelti con assoluto equilibrio di entrambi, in acqua fredda. Facciamo salire la temperatura dell’acqua su un fuoco bassissimo che apre lentamente le fibre della carne lasciando diluire i succhi, gli umori, fino a sobbollire. Le scuole di pensiero a riguardo sono diverse. C’è chi decide di lasciar sobbollire tutto insieme riservandosi di filtrare il brodo solo quando è cotto. Oppure chi comincia a schiumare l’impercettibile schiumetta grigia con l’accuratezza di un procedimento chimico. C’è chi, invece, addirittura ritiene quella schiuma grigia e densa pregna di sapori da spalmare sul pane fresco e da gustare seduta stante, e non è il nostro caso. Il brodo deve in ogni caso essere limpido.Per un buon lesso bisogna aspettare che l’acqua con gli odori (sedano, carota e cipolla) arrivi al bollore: poi i tagli di carne prescelti andranno fatti scendere dolcemente nell’acqua.

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memoriacome

di Giovanni Santoleri, titolare dell’azienda agricola Santoleri

“la sua passione, il mio sogno” in ricordo di Nicola Santoleri

Per molti un produttore, per pochi semplicemente “papà”

Un’azienda agricola dalla storia lunga più di trent’anni. Un incidente stradale, la notte tra il 20 e il 21 dicembre 2007. Quattro eredi, Giovanni, Francesca, Carlotta ed Eugenia, che insieme a mamma Maria Gabiella Mezzanotte si stringono intorno ad un sogno che non svanirà.

«Un grande signore, dotato di naturale umiltà»: è così che viene descritto da tutte le persone che lo hanno conosciuto e ammirato e che, insieme a me, gli hanno detto addio.Nicola Santoleri, 58 anni compiuti i primi di dicembre 2007, proveniente da una delle più illustri famiglie guardiesi, ha da sempre coltivato l’interesse per l’uva e le sue terre: terre a lui particolarmente care perché ereditate dal padre.Quest’ultimo, Giovanni Santoleri (al quale tutte le anziane signore di Guardiagrele mi accomunano non solo perché omonimi ma anche per il carattere volenteroso) era similmente dedito all’agricoltura e alla produzione del nettare degli dei ed è con lui che mio padre ha scoperto la sua passione. Un sogno di sempre, che ora è anche il mio.Strano il destino, che non solo ha deciso di legarmi a lui come figlio, ma anche come sorte: quella di perdere il papà e di ereditare la sua attività. Dallo scorso dicembre mi ritrovo come si era trovato a stare lui, solo, con un’azienda da gestire e tutto da imparare. Ma sono orgoglioso! Di lui… di me. Orgoglioso perché a chi mi chiede posso dire: «Sono figlio di Nicola Santoleri, il grande produttore di vino!». E perché so che riuscirò a dimostrare a tutti che l’indole dei Santoleri è una, ed una sola: trasformare la passione in opera d’arte. A chi non ha conosciuto mio padre o per lo meno lo conosceva poco, posso descriverlo come un uomo sempre

sorridente e sempre con la battuta pronta, pieno di vita e voglia di viverla. Non c’era giorno in cui non si recasse in cantina, anche solo per controllare che tutto procedesse come di dovere e amava fornire di persona i clienti, chiacchierando con loro amichevolmente tra un assaggio di vino e l’altro.Ho scoperto dopo, e ad essere sincero non me lo aspettavo, che era solito contribuire attivamente ad eventi di paese perché li riteneva importantissimi per lui e per quella che ha sempre sentito essere la sua vera casa, Guardiagrele. Per lui la sua piccola bottaia in paese era un luogo di pace e vita, perché era lì che il suo vino riposava e nello stesso tempo prendeva forma, cullato da una luce tiepida a da una dolce musica... perché «come i fiori crescono meglio se coccolati dalle parole di chi li cura, così anche il vino acquisisce corpo ed equilibrio “ascoltando” la musica».Per me Nicola Santoleri non è stato solo un grande papà, ma un grande intellettuale ed un grandissimo imprenditore: una persona solare capace, con poche parole o con qualche ardita discussione, di riaccendere il sorriso sul volto delle persone. Un uomo convinto dei propri principi, sempre pronto ad ascoltare chi fosse afflitto da problemi o in cerca di consigli, pronto a porgere la propria mano a chi chiedesse aiuto. Papà ci ha lasciati prematuramente senza raccogliere i frutti di tutto ciò che aveva seminato. Il suo amore per le vigne stupiva anche me, in quelle passeggiate in cui controllavamo assieme il loro stato e in cui riconosceva ogni sintomo nelle più piccole ferite chinandosi verso di loro come a delle signore.Papà mi ha insegnato che ogni lavoro condotto nel giusto modo è pari a quello di più nobile rango.Un buon vino è sintomo di tanti piccoli accorgimenti, di tanta,

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tantissima cura e di un continuo fermarsi a ragionare su cosa non abbia funzionato o cosa si debba migliorare. In un semplice bicchiere sono raccolti cosi la passione, la cura, il lavoro, la cultura, il sapere di chi lo crea, di chi con esso gioca, osserva e cura... ed è proprio per questo che papà è ricordato da tutti come “l’artista del vino”. Per me rappresenta il Maestro: colui al quale spero di assomigliare in quest’arte. La qualità nasce dalle uve, a noi sta solo poi saperle accudire per fare in modo che milioni di piccoli processi abbiano il loro giusto corso.Papà un giorno mi ha detto entusiasta: «Sai cos’è la cosa che più mi piace e mi soddisfa in quel che faccio? È il “creare una piccola creatura”: come un avvicinarsi a Dio». Ed è da qui che sono nati i miei interrogativi ed il mio lento appassionarmi. Il vino è vita, rispecchia tanti aspetti di questa, tra cui pregi e difetti; il vino vive, ha una propria vita che può allungarsi o diminuire, in base a come viene curato… proprio come una persona.Oggi per me questa passione è tutto, in quanto con essa riesco a sentirmi accanto a lui, e ho intenzione di continuare a far vivere ciò che nella sua vita è stato il suo grande amore, cercando di lasciarlo intatto. Ho dietro di me delle scelte consapevoli e ben strutturate, che ho ereditato, imparato a riconoscere, e a cui voglio restare fedele. Grazie, papà.

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Non ha nulla da nascondere Peppino Tinari, lo chef che in-sieme a sua moglie Angela dirige il ristorante albergo “Villa Maiella” a Guardiagrele, in località Villa Maiella. No alle salse sulle carni, zero false parole, nessuna riservatezza verso gli amici: è questo il ritratto verace e generoso del titolare, che dopo aver studiato presso l’istituto alberghiero di Roccaraso ed aver rappresentato la cucina abruzzese in tutto il mondo ha aperto il suo ristorante nel 1992, sulle orme della trattoria dei genitori “Da Ginetta”. «È il cliente a fare il ristorante – ci racconta Peppino Tinari – e va ascoltato: c’è chi sceglie un piatto in base alla digeribilità, chi non ama sperimentare, chi vuole saziarsi... Un buon ristoratore deve sapersi mettere in discussione per essere in grado di accontentare tutti». Lo dice lui che ha assistito ad un’evoluzione, nel mondo della cucina, lunga trent’anni, e ha preso diretta conoscenza di tutti i metodi usati in cucina: «A volte non c’è la consapevo-lezza necessaria sui metodi di cottura da usare con determi-nati alimenti – ci spiega – Eppure è fondamentale saper trat-tare termicamente la materia prima. La passione non basta: serve l’esperienza. È questa che dà l’anima ad un piatto». Il segreto di “Villa Maiella” è nei suoi prodotti: tutta roba di casa nostra e al passo con le stagioni, trattata conciliando la tecnologia moderna con gesti antichi e strumenti tradiziona-li. «Uno chef non sa solo cucinare un piatto – continua – sa

anche riconoscere i prodotti “veri” e buoni, a costo di non affidarsi alla grande distribuzione e quindi spendere un po’ di più, scegliendoseli da solo». Una “nomination” speciale va alla signora Angela, deposi-taria dei segreti della pasticceria e ideatrice di delizie come il semifreddo al parrozzo o il gelato allo zafferano. Pilastri del ristorante, insieme a Peppino e ad Angela, sono Luciano Ceccarossi e il sommelier Nicola Boschetti, entrambi parte dello staff da circa venti anni. Al grande progetto di “Villa Ma-iella” collaborano anche i familiari: i figli di Peppino, Pascal ed Arcangelo, e ovviamente i suoi genitori, mamma Ginet-ta, che aiuta la signora Angela in cucina, e papà Arcangelo, indispensabile nella raccolta di erbe spontanee e verdure selvatiche e fondamentale nella gestione dell’imminente fat-toria di oltre cinque ettari. Lo scorso gennaio Peppino Tinari ha esposto la sua filosofia di fronte alle 500 persone che a Milano, alla quarta edizione del congresso italiano di cucina d’autore “Identità golose”, hanno gustato il suo agnello alle erbe su panetto di cacio e ove. «L’agnello abruzzese – ha dichiarato lo chef – va consumato in ognuna delle sue parti. Dai tagli più pregiati a quelli meno nobili, è utilizzabile egre-giamente in tutto e per tutto, e il cuoco riesce ad ottenere comunque un ottimo rapporto tra qualità e prezzo. Perché impuntarsi sulle solite costatine?»

di Cristina Mosca - Foto: Gino Di Paolo

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un piatto con l’anima

L’abruzzesità? A Guardiagrele

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Ingredienti per 4 persone:

400 gr. di fegato di agnello, intero 2 uova

150 gr. di formaggio fresco di mucca grattugiato ½ lt. di latte

sale (q.b.) - olio (q.b.) -pepe (q.b.) fondo di agnello

Per la decorazione: julienne di cipolle brasata con melata

pane allo zafferano menta fresca

Ingredienti per 4 tortini:

4 stampini 250 gr. di pasta sfoglia

n. 3 mele “Golden” 1 uovo intero 1 dl. di latte

1 cucchiaio di zucchero cannella in polvere a piacere

Per la salsa alla cannella:

- 2,5 dl. di latte- 1 stecca di cannella- 75 gr. di zucchero

- 1 cucchiaio raso di fecola- 2 rossi d’uovo

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Procedimento:

Dividere il fegato in due e aprirlo a portafoglio; lasciarlo a bagno nel latte per ½ ora scolarlo e asciugarlo per bene. Condire con il sale.Nel frattempo battere le due uova, aggiungere il formaggio grattugiato e un pizzico di pepe.Disporre il composto ottenuto sui due pezzi di fegato e avvolgerli con la pellicola formando un salame.Passare in forno a vapore per 25 minuti a 98 gradi centigradi.A cottura ultimata passare in padella con l’olio, rosolando velocemente.Tagliare a fette dello spessore di 8/10 millimetri, disporre sul piatto con la guarnizio-ne di cipolla, pane tostato allo zafferano e salsa d’agnello aromatizzato alla menta.

Procedimento:

Foderare gli stampini con la pasta sfoglia e spolverarli di zucchero . Sbucciare le mele, tagliarle a fettine sottili e scalopparle negli stampini. Preparare con l’uovo, il latte e il cucchiaio di zucchero un composto che andremo a versare sulle mele negli stampini. Spolverare con zucchero e un pizzico di cannella. Cottura per 12 minuti a 180°.

Procedimento per la salsa alla cannella:

Far bollire il latte con la cannella e lasciarla in infuso per circa mezz’ora . Mescolare i rossi in una casseruola con lo zucchero e la fecola, aggiungere il latte tiepido e cuocere la crema fino a che diventa densa.Servire il tortino in un piatto con il suo letto di salsa alla cannella.

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È una giornata ventosa quella in cui ci inerpichiamo nell’Aquilano fino a Santo Stefano di Sessanio, un borgo medievale a 1250 metri sul livello del mare in cui il terzo millennio è entrato in punta di piedi. Qui, tra le pareti in pietra e le finestre che osservano il passare dei secoli, il silenzio ha un suono duro. Il borgo è noto in Italia e in Europa come primo esempio di riqualifica del territorio ottenuta con la sua completa conservazione: un’ampia operazione di recupero iniziata nel 2004 dalla Sextantio

Srl per dare vita, come spiega il socio fondatore Daniele Kihlgren, ad «un modello di sviluppo che, per una volta, faccia riferimento alle identità locali non sentendole come un fardello da rimuovere, bensì riconoscendole come punto di forza e di orgoglio per una nuova destinazione di qualità». In quest’ottica di tutela, parte del borgo è stata ripensata come una struttura ricettiva (albergo diffuso) occultando gli impianti e la tecnologia e riproponendo arredamenti, case e botteghe così com’erano in origine.

A CAVALLO DI DUE SECOLIA Santo Stefano di Sessanio i piatti di una volta

Di Cristina Mosca - Foto: Sergio Pasqual

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È proprio nel ristorante dell’albergo diffuso Sextantio che presto si potranno gustare rielaborazioni di pietanze del secolo scorso grazie al talento dello chef vastese Massimiliano Ascione, alla consulenza di Niko Romito (lo “stellato” abruzzese di Rivisondoli di cui abbiamo parlato in C 0) ed alla solida ricerca filologica condotta da Annunziata Taraschi per conto del Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara. «Fino alla seconda guerra mondiale – ci spiega la ricercatrice – la povertà induceva a cibarsi di un’unica pietanza per ogni pasto utilizzando cereali, pezzi di carne, legumi e quello che la natura o la dispensa offrivano. Le portate separate (primo, secondo, dolce...) erano riservate ai giorni di festa, nell’atavica convinzione che mangiare in abbondanza sarebbe stato di buon auspicio». Nel ristorante, alla luce delle candele, davanti ai piatti e ai bicchieri di ceramica fatti a mano da un artigiano di Castelli – in virtù dell’antico legame di baratto tra Santo Stefano e il comune teramano – e alle tovaglie recuperate da sacchi di grano, ci si proietterà in un altro tempo, fatto di antichi gesti e di saggezza tramandata a voce: «Ci sono alcune espressioni dialettali che si caricano autonomamente di un sapore – racconta Annunziata Taraschi – come le patate “‘mbùnne e magna”, da inzuppare in un soffritto di aglio e peperoncino da un piatto comune, o come “lu cumblemènde”, un insieme di offerte alimentari con cui venivano accolti gli ospiti». Nei giorni feriali sarà possibile

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scegliere un piatto a base di carne (maiale e agnello), di pesce (baccalà), ed eventualmente per vegetariani e per celiaci: «Si tenderà ad usare quello che offre la stagione – conclude Annunziata Taraschi – e persino il pane avrà un sapore particolare: sarà preso in un forno vicino S. Stefano che utilizza farina macinata in un mulino ad acqua, che a differenza dei mulini moderni non brucia le proteine».

LE SAGNE IN BIANCO Com’era: Nell’area di indagine viene chiamata “sagna” ogni tipologia di pasta lunga fatta in casa che ricordi la tagliatella, più o meno larga. Le sagne di questa ricetta venivano fatte con farina, acqua e sale (quindi senza usare l’uovo per l’impasto) e cucinate “a quanne cale e arsaje”, ossia tolte dall’acqua appena torna in superficie. Appena scolate, le sagne andavano aggiunte ad un soffritto di pancetta ottenuto con lo strutto. Venivano servite con una spolverata di pecorino. Com’è: Le sagne vengono preparate allo stesso modo ma il soffritto è diverso e ancora più leggero: invece della pancetta viene usato del guanciale di suino, lasciato sgrassare in padella a fuoco basso senza aggiunta di olio. Le sagne vengono quindi saltate in padella nella loro stessa acqua di cottura profumata con alloro, mantecate con il pecorino e, infine, decorate con il guanciale croccante.

LE POLPETTE DI MOLLICACom’era: Si tratta di polpettine fatte di uova, mollica di pane e sale che costituivano un’unica portata da pasto. Venivano servite in bianco o, in alcuni casi, passate nella farina prima di friggerle. Alcune varianti prevedevano l’aggiunta di pecorino nell’impasto. Com’è: le polpette, aromatizzate con il rosmarino e con un’aggiunta di scorza di limone, vengono inserite in ultimo in una zuppa di cipolle dorate stufate.

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grazie a...come

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Genere Animazione, colore 117 minuti.Produzione USA, 2007.Distribuzione Buena Vista.

Protagonista del film è Remy, un piccolo topo della campagna francese dal finissimo olfatto e dalle straordinarie doti culinarie, che si ritrova separato dalla sua colonia-famiglia. Solo ed afflitto, trova conforto nel fantasma immaginario dello chef autore del libro “Tutti possono cucinare”, Auguste Gusteau, che lo accompagnerà nelle sue rocambolesche avventure e lo convincerà che «nulla può fermare la forza dei desideri». Così, Remy si ritroverà a Parigi nel famoso ristorante di Gusteau, dove fa la conoscenza di Linguini, un timido ed impacciato sguattero che, grazie ai suoi consigli, finisce con l’ottenere il successo. L’insolita amicizia tra i due sembra ormai consolidata e la loro complicità in cucina imbattibile; tuttavia restano da sconfiggere la cattiveria del perfido chef Skinner, capo di Linguini, e il giudizio severo del più temibile critico francese: Anton Ego.Le buone premesse, lanciate già con un coinvolgente trailer, sono state confermate dall’ottimo risultato finale e dagli elevati incassi ottenuti. Disney e Pixar sono tornate sullo schermo con un lavoro eccellente dal punto di vista tecnico e da quello artistico-creativo. Basti pensare al realismo con cui sono riprodotti i peli dei topini, alla precisione delle vetture sfreccianti o alla vista di Parigi dall’alto. Le immagini dei protagonisti sono cariche di umanità e di forte carisma. La regia di Bird, già noto per aver confezionato “Gli Invincibili”, è intensa ed eloquente.La parola ratatouille viene dal francese touiller, che significa “rimestare”. La ratatouille è originaria dell’area dell’attuale Nizza ed originariamente era un piatto per contadini poveri, preparato con verdure fresche estive come pomodori, zucchine, peperoni verdi e rossi, cipolla e aglio (oggi anche melanzane), servito come contorno o come pietanza a sé stante insieme a riso, patate o semplice pane francese. Un piatto vicino alla caponata, cugina siciliana della nostra peperonata.“Ratatouille” è sì un film destinato ai bambini, ma concede ottimi spunti di riflessione anche agli adulti, grazie ad una scenografia ricca e mai scontata. Si può osare definirlo educativo nel momento in cui va ad approfondire le

Ratatouille

di Guernica - http://atuttavita.blogspot.com

classiche incomprensioni che costellano il rapporto padre-figlio, dovute ad una visione differente della vita; lo scontro tra materialismo e valori; la discriminazione verso chi è diverso; e le impari possibilità di fare carriera tra donne e uomini (l’unica protagonista femminile è caratterizzata da una marcata aggressività volta a mascherare una forte sensibilità). Impressiona il camminare in posizione eretta di Remy nei momenti in cui il topolino si sente più vicino agli esseri umani, che «non si limitano a sopravvivere, ma creano!» e confida nel fatto che le differenze non siano ostacoli insormontabili. La chicca: all’inizio del film Remy utilizza «un pizzico di zafferano de L’Aquila», consacrandone così il prestigio a livello internazionale.

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Finalmente una bella notizia: un nuo-vo, fiammante camion a servizio del Banco Alimentare di Abruzzo e Moli-se, acquistato anche con il contributo della Fondazione Pescarabruzzo, pre-sieduta da Nicola Mattoscio, del Lions Club Pescara “Ennio Flaiano” e della Fondazione Carichieti, presieduta da Mario Di Nisio. «Dopo l’inaugurazio-ne del nuovo magazzino – commenta Luigi Nigliato, presidente del Banco Alimentare dell’Abruzzo – con il nuovo camion la nostra dotazione logistica si è ulteriormente arricchita. Il tutto con un solo obiettivo: poter fornire un ser-vizio eccellente agli oltre 35 mila po-veri assistiti nella regione mediante le circa 200 associazioni convenzionate. Da una parte, grazie alle numerose im-prese dell’industria agroalimentare che donano prodotti al Banco, e dall’altra, ovviamente, alle persone che ogni ul-timo sabato di novembre partecipano alla Colletta Alimentare». Il mezzo è stato inaugurato il 29 marzo presso il magazzino di Pescara, in Strada Ce-trullo, non lontano dal nuovo tribunale. Il sito del Banco Alimentare è www.abruzzo.bancoalimentare.it.

È Monica Terlizzi la vincitrice della quar-ta edizione del concorso gastronomico “Ortona a tavola” organizzato da Ar-mando Carusi nel ristorante “Al vecchio teatro” di Ortona (Ch). Sulla spigola al coppo con patate e olive di Roberto Caravaggio e sul tris di Patrizia Giam-buzzi si sono imposti i suoi nidi di chi-tarrina alle noci di mare (cioè i fasolari, molluschi in conchiglia bivalve dal frutto molto saporito). Gli altri premiati sono stati le bavette con le telline di Fabrizio Leonzio e lo stocco della marruccina di Sergio di Credico. Finalisti erano la lin-guina ‘mbriache di Tommaso Bellicano; le seppie, piselli e patate con tortino di alici di Adelina Civitarese; la trippa di pescatrice di Palmarosa D’Alessandro; i rigatoni con il pasticcio di baccalà di Valentino Carrieri; e la pizza, foglie e baccalà di Maria Pesa. In giuria erano presenti personaggi illustri come Mim-mo D’Alessio, coordinatore regionale dell’Accademia della Cucina, e Leo Giacomucci, presidente onorario della Federcuochi Abruzzo.

È stato chiaro Enrico Marramiero, pre-sidente della giovane associazione Vi-gnaioli in Abruzzo, circa le prossime sfi-de e le criticità per la diffusione del vino italiano. Nel convegno “Il vino abruzze-se in Italia e nel mondo”, organizzato dall’Associazione mogli medici italiani (AMMI), ha dichiarato: «Tre sono i punti da osservare: la qualità, che deve es-sere a tutti i costi il principale obietti-vo dei produttori vitivinicoli; la tipicità, da assicurarsi facendo conoscere la terra d’Abruzzo e la sua genuinità; e il rispetto sia verso l’ambiente sia verso il consumatore, con il giusto rapporto tra qualità e prezzo. La cultura del vino andrebbe insegnata nelle scuole». Al convegno, che si è svolto il 18 aprile, è intervenuto anche Giovanni Moschetta, consigliere giuridico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha indica-to come soluzione uno sforzo comune per rafforzare l’idea di abruzzesità e de-nunciare le irregolarità. L’associazione Vignaioli d’Abruzzo è composta dalle aziende Bosco Nestore, Contesa, Tenu-ta I Fauri, Marramiero, Pietrantonj, San Lorenzo, Sarchese Dora, Torre Zambra e Zaccagnini.

Ad “Ortona a tavola” vincono le noci di mare.

E’ arrivato il nuovo camion del Banco Alimentare.

Vignaioli d’Abruzzo: qualità, tipicità, rispetto.

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Si chiama “IS – EA – ID” ed è la nuova linea di vini dedicata dall’azienda agri-cola Chiusa Grande ai generi sessuali in occasione dello scorso Vinitaly. Tre I.g.t. (Indicazione Geografica Tipi-ca) Colline Pescaresi che «giocano con gli aspetti più profondi della psiche – come ha spiegato in conferenza stam-pa a Roma Franco D’Eusanio, titolare dell’azienda di Nocciano (Pe) – perché in ciascuno di noi alberga una compo-nente maschile, una componente fem-minile e una componente ibrida».IS (lui) è un rosso costituito da un blend di vini affermati (Shiraz, Cabernet, Mer-lot, Sangiovese e Montepulciano).EA (lei) è un bianco costituito da varietà autoctone abruzzesi (Pecorino, Malva-sia, Trebbiano e Cococciola).ID (l’ambiguità) è un originale connubio tra vini internazionali e territoriali (Mon-tepulciano, Sangiovese, Merlot, Pecori-no e Chardonnay). La cantina “Chiusa grande” non è nuova alle idee originali: parlano per lei i suoi vini dell’esoteri-smo, il vino dell’eros “Perla Nera” e libro filosofico e multisensoriale “Vino-Sophia, VinoFollia”, realizzato da Fran-co D’Eusanio e Simone D’Alessandro.

Il vino per lui, per leie per ...l’altro.

Due primi posti all’azienda agricola Forcella di Città Sant’Angelo (Pe) – nel-la categoria D.o.p. e in quella del mo-novarietale con l’Intosso – , il primo per l’extravergine all’oleificio Montecchia di Morro d’Oro (Te), e il primo per il bio-logico alla Persiani di Atri (Te): questi i risultati della terza edizione del concor-so “Lorolio” che si è conclusa a Loreto alla fine di marzo. Da quest’anno gemellata con i Giochi del Mediterraneo 2009, la rassegna ha visto partecipare 70 aziende abruzzesi in corsa per l’eccellenza con un cen-tinaio di olii in tutto. Gli altri risultati: secondo posto per la D.o.p. alla De Antoniis di Garrufo (Te) e il terzo alla Speranza, di Rosciano (Pe); secondo posto per la categoria extravergine all’azienda agricola Della Fazia di Roc-ca San Giovanni (Ch) e terzo all’Antico Frantoio Ciabarra di Atri (Te). Per l’olio biologico, la Selva d’Abruzzo (Moscu-fo, Pe) è al secondo posto e l’Oleificio San Giacomo (Atri) al terzo, mentre per la categoria monovarietale si è classi-ficata seconda la varietà Tortiglione di Montecchia e terza l’Intosso dell’azien-da agricola Di Giacomo, di Moscufo.

I migliori olii extravergine d’oliva della regione.

Il 2 di marzo si è svolta a Selva d’Al-tino (Ch) la prima edizione della fiera del gusto Passeggiando tra i sapori, organizzata dall’associazione culturale di Pescara “Percorsi gastronomici” per inaugurare la sua nuova sede nel paese teatino. Hanno partecipato espositori provenienti da Campobasso, Rocca-scalegna, Palombaro, Montazzoli, Alti-no, Quadri, Castel di Sangro, Civitella Messer Raimondo, Casoli, Nocciano, Gessopalena, Elice e Altino. «I prodot-ti delle nostre terre meritano di essere conosciuti meglio – spiegano la presi-dente e la vicepresidente di “Percorsi gastronomici” Antonella D’Alfonso e Tania Panzella - e lo scopo delle nostre attività è soprattutto un’educazione ai prodotti tipici in modo che soprattutto i non addetti ai lavori possano coglierne a piene mani il significato». Sui banconi, salumi e formaggi case-recci, tartufi, miele, legumi in baratto-lo, passate e grano di Solina. Paralle-lamente alla fiera gastronomica, Selva d’Altino è diventata per un giorno lo spazio ideale per incisori di legno, lavo-ratori di pietra della Majella, e artigiani del rame del vimini.

La nuova sede di “Percorsi gastronomici”.

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