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Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino 6 Novembre/dicembre 2010 – Anno XI Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Il libro di Chiamparino LA SFIDA DA IPOTESI A REALTÀ Gilberto‑Antonio Marselli È indubbiamente un fat‑ to confortante il recente libro di Sergio Chiampa‑ rino 1 – Sindaco di Torino, città niente affatto sempli‑ ce – che,… Segue a pag. 14 1 S. Chiamparino: La sfida – Ei‑ naudi, Torino 2010 SULLA TOLDA DEL TITANIC Gianni Pittella L’Europa è in un mo‑ mento cruciale della sua storia, impegnata a difen‑ dere l’euro e uscire dal‑ la crisi, per ricominciare a crescere, creare occupa‑ zione, promuovere inclu‑ sione sociale e mettere al sicuro gli Stati membri e l’Unione Europea da futuri attacchi speculativi. È im‑ pegnata a costruire un vero governo economico europeo capace di superare il sem‑ plice coordinamento delle politiche nazionali, che è del tutto insufficiente e che ha contribuito al fallimento del‑ la strategia di Lisbona, e ca‑ pace di affiancare alla politi‑ ca monetaria della BCE una politica fiscale e di bilancio davvero europea. Segue a pag. 11 N on vi stupirete, cre‑ do, se dedico questo messaggio soprat‑ tutto ai più giovani tra noi, che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cerca‑ no un'occupazione, cercano una strada. Dedico loro que‑ sto messaggio, perché i pro‑ blemi che essi sentono e si pongono per il futuro sono gli stessi che si pongono per il futuro dell'Italia. Incontrando di recen‑ te, per gli auguri natalizi, i rappresentanti del Parla‑ mento e del governo, delle istituzioni e dei corpi dello Stato, ho espresso la mia preoccupazione per il males‑ sere diffuso tra i giovani e per un distacco ormai allarman‑ te tra la politica, tra le stes‑ se istituzioni democratiche e la società, le forze sociali, in modo particolare le giovani generazioni. Ma non intendo tornare questa sera su tutti i temi di quell'incontro. Riba‑ disco solo l'esigenza di uno spirito di condivisione – da parte delle forze politiche e sociali – delle sfide che l'Ita‑ lia è chiamata ad affronta‑ re; e l'esigenza di un salto di qualità della politica, essen‑ done in giuoco la dignità, la moralità, la capacità di offri‑ re un riferimento e una guida. Segue a pag. 2 GIORGIO NAPOLITANO Aprire la strada verso un futuro degno del grande patrimonio storico della Nazione italiana Scommettere sui giovani L’Europa oggi Biagio de Giovanni C he il progetto di unità europea attraversi un grave crisi, sono pochis‑ simi a metterlo in dubbio. Che l’euro vacilli sotto i colpi del‑ la speculazione finanziaria, che sia in difficoltà perfino il più grande progetto destina‑ to a produrre “integrazione”, come molti pensavano, con veri e propri automatismi successivi, è un dato che ap‑ partiene ormai alla riflessio‑ ne quotidiana di economisti, politici e giornali d’opinio‑ ne, e la stessa differen‑ za tra le varie tesi sta a mostrare che il proble‑ ma esiste. Natural‑ mente, si apprestano difese, né sarebbe im‑ maginabile cosa diversa: nessuno potrebbe assiste‑ re indifferente a una crisi economico‑finanziaria che, lasciata a se stessa, sa‑ rebbe in condizione di sconvolgere gli assetti euro‑ pei in modo definitivo. Si può vedere, dunque, il problema anche dal lato positivo delle difese apprestate, della loro sicura efficacia, dalla crea‑ zione di fondi comuni per ri‑ spondere a nuove emergenze dopo quelle greca e irlandese alla ridefinizione dei criteri del vecchio patto di stabilità, ma è fuor d’ogni dubbio che la crisi incalza, e che intor‑ no a essa sia neces‑ sario ri‑ flettere e decidere. Non ho la compe‑ tenza per entrar nel merito della crisi fi‑ nanziaria, anche se essa si è andata avvitando… Segue a pag. 6

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

6Nov

embr

e/dic

embr

e 20

10 –

Ann

o XI

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.Spedizione in abbonamento postale 70%

Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Il libro di ChiamparinoLA SFIDADA IPOTESI A REALTÀGilberto‑Antonio Marselli

È indubbiamente un fat‑to confortante il recente libro di Sergio Chiampa‑rino1 – Sindaco di Torino, città niente affatto sempli‑ce – che,…   Segue a pag. 14

1 S. Chiamparino: La sfida – Ei‑naudi, Torino 2010

sulla tolda del tItanICGianni PittellaL’Europa è in un mo‑

mento cruciale della sua storia, impegnata a difen‑dere l’euro e uscire dal‑

la crisi, per ricominciare a crescere, creare occupa‑zione, promuovere inclu‑sione sociale e mettere al sicuro gli Stati membri e l’Unione Europea da futuri attacchi speculativi. È im‑pegnata a costruire un vero governo economico europeo capace di superare il sem‑

plice coordinamento delle politiche nazionali, che è del tutto insufficiente e che ha contribuito al fallimento del‑la strategia di Lisbona, e ca‑pace di affiancare alla politi‑ca monetaria della BCE una politica fiscale e di bilancio davvero europea.

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Non vi stupirete, cre‑do, se dedico questo messaggio soprat‑tutto ai più giovani

tra noi, che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cerca‑no un'occupazione, cercano una strada. Dedico loro que‑sto messaggio, perché i pro‑blemi che essi sentono e si pongono per il futuro sono gli stessi che si pongono per il futuro dell'Italia.

Incontrando di recen‑te, per gli auguri natalizi, i rappresentanti del Parla‑mento e del governo, delle istituzioni e dei corpi dello Stato, ho espresso la mia preoccupazione per il males‑

sere diffuso tra i giovani e per un distacco ormai allarman‑te tra la politica, tra le stes‑se istituzioni democratiche e la società, le forze sociali, in modo particolare le giovani generazioni. Ma non intendo tornare questa sera su tutti i temi di quell'incontro. Riba‑disco solo l'esigenza di uno spirito di condivisione – da parte delle forze politiche e sociali – delle sfide che l'Ita‑lia è chiamata ad affronta‑re; e l'esigenza di un salto di qualità della politica, essen‑done in giuoco la dignità, la moralità, la capacità di offri‑re un riferimento e una guida.   Segue a pag. 2

GIORGIO NAPOLITANO

Aprire la strada verso un futuro degno

del grande patrimonio storico della

Nazione italianaScommettere sui giovani

L’Europa oggi Biagio de Giovanni

Che il progetto di unità europea attraversi un grave crisi, sono pochis‑

simi a metterlo in dubbio. Che l’euro vacilli sotto i colpi del‑la speculazione finanziaria, che sia in difficoltà perfino il più grande progetto destina‑to a produrre “integrazione”, come molti pensavano, con veri e propri automatismi successivi, è un dato che ap‑partiene ormai alla riflessio‑ne quotidiana di economisti, politici e giornali d’opinio‑ne, e la stessa differen‑za tra le varie tesi sta a mostrare che il proble‑ma esiste. Natural‑mente, si apprestano difese, né sarebbe im‑maginabile cosa diversa: nessuno potrebbe assiste‑re indifferente a una crisi economico‑finanziaria che, lasciata a se stessa, sa‑rebbe in condizione di

sconvolgere gli assetti euro‑pei in modo definitivo. Si può vedere, dunque, il problema anche dal lato positivo delle difese apprestate, della loro sicura efficacia, dalla crea‑zione di fondi comuni per ri‑

spondere a nuove emergenze dopo quelle greca e irlandese alla ridefinizione dei criteri del vecchio patto di stabilità, ma è fuor d’ogni dubbio che

la crisi incalza, e che intor‑no a essa sia neces‑sario ri‑flettere e

decidere. Non ho la compe‑

tenza per entrar nel merito della crisi fi‑

nanziaria, anche se essa si è andata

avvitando…

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Riflessioni Il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti Giuseppe Provenzano » 17

Buone pRatiche Etica, coesione, sostenibilità Vito Grassi » 20

stRalci MassiMo Lo CiCero / Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e promonizioni » 22

altRe afRiche La strutturalità del fenomeno migratorio in Campania Vincenzo Federico – Giancamillo Trani » 33

Focus permanente Rapporti UE‑Russia Carmine Zaccaria » 37

Recensioni CosiMo risi (a cura di) L’azione esterna dell’Unione Europea dopo Lisbona Luisa Pezone » 41

euRonote Andrea Pierucci » 44

euRodate Daniela Russo » 48

  Segue da pag. 1

Ma a questo riguardo voi che mi ascoltate non siete semplici spetta‑tori, perché la politica siete anche voi, in quanto potete animarla e rin‑novarla con le vostre sollecitazioni e i vostri comportamenti, partendo dalle situazioni che concretamente vivete, dai problemi che vi premono.

Siamo stati anche nel corso di quest'anno 2010 dominati dalle condizioni di persistente crisi e in‑certezza dell'economia e del tessuto sociale, e ormai da qualche tempo si è diffusa l'ansia del non poterci più aspettare – nella parte del mondo in cui viviamo – un ulteriore avanza‑mento e progresso di generazione in generazione come nel passato. Ma non possiamo farci paralizzare da quest'ansia: non potete farvene paralizzare voi giovani. Dobbiamo

saper guardare in positivo al mon‑do com'è cambiato, e all'impegno, allo sforzo che ci richiede. Che esso richiede specificamente e in modo più pressante a noi italiani, ma non solo a noi: all'Europa, agli Stati Uniti. Se il sogno di un continuo progredire nel benessere, ai ritmi e nei modi del passato, è per noi occidentali non più perseguibile, ciò non significa che si debba rinunciare al desiderio e alla speranza di nuovi e più degni traguar‑di da raggiungere nel mondo segnato dalla globalizzazione.

E innanzitutto è conquista an‑che nostra, è conquista della nostra comune umanità il rinascere di an‑tiche civiltà, il travolgente sviluppo di economie emergenti, in Asia, in America Latina, in altre regioni – an‑che in Africa ci si è messi in cammi‑no – rimaste a lungo ai margini della

modernizzazione. È conquista della nostra comune umanità il sollevarsi dall'arretratezza, dalla povertà, dalla fame di centinaia di milioni di uomini e donne nel primo decennio di questo nuovo millennio. Paesi e popoli con i quali condividere lo slancio verso un mondo globale più giusto, più com‑prensivo dell'apporto di tutti, più ri‑conciliato nella pace e in uno svilup‑po davvero sostenibile.

PENSARE CON POSITIVO REALISMO

È in effetti possibile un impe‑gno comune senza precedenti per fronteggiare le sfide e cogliere le opportunità di questo grande tor‑nante storico. Siamo tutti chiamati a far fronte ancora alla sfida della pace, sempre messa a dura prova da persistenti e ricorrenti conflitti e da cieche trame terroristiche: della pace e della sicurezza collettiva, che esigono tra l'altro una nuova assun‑zione di responsabilità nella Comu‑nità Internazionale da parte delle grandi potenze emergenti. Siamo

chiamati a cogliere le opportunità di un processo di globalizzazione tuttora ambiguo nelle sue ricadute sul terreno dei diritti democratici e delle diversità culturali, ed estrema‑mente impegnativo per continenti e paesi – l'Europa, l'Italia – che tendo‑no a perdere terreno nell'intensità e qualità dello sviluppo.

Ecco, da questo scenario non possono prescindere i giovani nel porsi domande sul futuro. Non pos‑sono porsele senza associare stret‑tamente il discorso sull'Italia e quello sull'Europa, senza ragionare da ita‑liani e da europei. Molto dipenderà infatti per noi dalla capacità dell'Eu‑ropa di agire davvero come Unione: Unione di Stati e di popoli, ricca del‑la sua pluralità, e forte di istituzioni che sempre meglio le consentano di agire all'unisono, di integrarsi più decisamente. Solo così si potrà non solo superare l'attacco all'Euro e una insidiosa crisi finanziaria nell'Eurozo‑na, ma aprire una nuova prospettiva di sviluppo dell'economia e dell'oc‑cupazione nel nostro continente, ed evitare il rischio della sua irrilevan‑za o marginalità in un mondo globa‑le che cresca lontano da noi. Sono

È possibile un impegno comuneper fronteggiare le sfide e cogliere le opportunità di questo grande tornante storicoGiorgio Napolitano

Le opere che illustrano questo numero sono autoritratti di artisti vari

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convinto che questa sia una verità destinata a farsi strada anche in quei paesi europei in cui può serpeggiare l'illusione del fare da soli, l'illusione dell'autosufficienza.

Pensare con positivo realismo in termini europei equivale a non illu‑derci, in Italia, di poter sfuggire agli imperativi sia della sostenibilità della finanza pubblica sia della produttivi‑tà e competitività dell'economia e più in generale del sistema‑paese. D'al‑tronde, sono convinto che quando i giovani denunciano un vuoto e sol‑lecitano risposte sanno bene di non poter chiedere un futuro di certezze, magari garantite dallo Stato, ma di aver piuttosto diritto a un futuro di possibilità reali, di opportunità cui accedere nell'eguaglianza dei punti di partenza secondo lo spirito della

nostra Costituzione. Nelle condizio‑ni dell'Europa e del mondo di oggi e di domani, non si danno certezze e nemmeno prospettive tranquillizzan‑ti per le nuove generazioni se vacilla la nostra capacità individuale e col‑lettiva di superare le prove che già ci incalzano. Tanto meno, ho detto, si può aspirare a certezze che siano garantite dallo Stato a prezzo del tra‑scinarsi o dell'aggravarsi di un abnor‑me debito pubblico. Quel peso non possiamo lasciarlo sulle spalle delle generazioni future senza macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Trovare la via per abbatte‑re il debito pubblico accumulato nei decenni; e quindi sottoporre alla più severa rassegna i capitoli della spesa pubblica corrente, rendere operante per tutti il dovere del pagamento

delle imposte, a qualunque livello le si voglia assestare. Questo dovreb‑be essere l'oggetto di un confron‑to serio, costruttivo, responsabile, tra le forze politiche e sociali, fuori dall'abituale frastuono e da ogni cal‑colo tattico.

Ma affrontare il problema della riduzione del debito pubblico e della spesa corrente, così come mettere mano a una profonda riforma fisca‑le, vuol dire compiere scelte signifi‑cative anche se difficili. Si debbono o no, ad esempio, fare salve risor‑se adeguate, a partire dai prossimi anni, per la cultura, per la ricerca e la formazione, per l'Università? Che questa scelta sia da fare, lo ha det‑to il Senato accogliendo espliciti ordini del giorno in tal senso prima di approvare la legge di riforma uni‑versitaria. Una legge il cui proces‑so attuativo – colgo l'occasione per dirlo a coloro che l'hanno contesta‑ta – consentirà ulteriori confronti in vista di più condivise soluzioni spe‑cifiche, e potrà essere integrato da nuove decisioni come quelle auspi‑cate dallo stesso Senato.

REGGERE LA COMPETIZIONE IN EUROPA

Occorre in generale individuare priorità che siano riferibili a quella strategia di più sostenuta crescita economico‑sociale che per l'Italia è divenuta – dopo un decennio di crescita bassa e squilibrata – con‑dizione tassativa per combattere il rischio del declino anche all'interno dell'Unione Europea.

Vorrei fosse chiaro che sto ra‑gionando sul da farsi nei prossimi anni; giudizi sulle politiche di governo non competono al Capo dello Stato, ma appartengono alle sedi istitu‑zionali di confronto tra maggioran‑za e opposizione, in primo luogo al Parlamento.

E vorrei fosse chiaro che parlo di una strategia, e parlo di priorità, da far valere non solo attraverso l'azio‑ne diretta dello Stato e di tutti i po‑teri pubblici, ma anche attraverso la sollecitazione di comportamenti corrispondenti da parte dei soggetti privati. Abbiamo, così, bisogno non solo di più investimenti pubblici nella ricerca, ma di una crescente disponi‑bilità delle imprese a investire nella ricerca e nell'innovazione. Passa an‑che di qui l'indispensabile elevamen‑to della produttività del lavoro: tema, oggi, di un difficile confronto – che mi auguro evolva in modo costrutti‑vo – in materia di relazioni industriali e organizzazione del lavoro.

Reggere la competizione in Eu‑ropa e nel mondo, accrescere la competitività del sistema‑paese, comporta per l'Italia il superamento di molti ritardi, di evidenti fragilità, comporta lo scioglimento di molti nodi, riconducibili a riforme finora mancate. E richiede coraggio politi‑co e sociale, per liberarci di vecchie e nuove rendite di posizione, così come per riconoscere e affrontare il feno‑meno di disuguaglianze e acuti disagi sociali che hanno sempre più accom‑pagnato la bassa crescita economica almeno nell'ultimo decennio.

Disuguaglianze nella distribuzio‑ne del reddito e della ricchezza. Im‑poverimento di ceti operai e di ceti medi, specie nelle famiglie con più figli e un solo reddito. E ripresa della disoccupazione, sotto l'urto della cri‑si globale scoppiata nel 2008.

Gli ultimi dati ci dicono che le persone in cerca di occupazione sono tornate a superare i due milioni, di cui quasi uno nel Mezzogiorno; e che il tasso di disoccupazione nella fascia di età tra i 15 anni e i 24 – ecco di nuovo il discorso sui giovani, nel suo aspetto più drammatico – ha rag‑giunto il 24,7 per cento nel paese, il 35,2 nel Mezzogiorno e ancor più tra le giovani donne. Sono dati che debbono diventare l'assillo comu‑

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Rivista mezzogiorno europa205x250:Layout 2 2-03-2009 15:15 Pagina 1

ne della Nazione. Se non apriamo a questi ragazzi nuove possibilità di oc‑cupazione e di vita dignitosa, nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti, per l'Italia: ed è in scacco la democrazia.

Proprio perché non solo spe‑riamo, ma crediamo nell'Italia, e vogliamo che ci credano le nuove generazioni, non possiamo consen‑tirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo. C'è troppa difficoltà di vita quotidiana in diverse sfere sociali, troppo malesse‑re tra i giovani. Abbiamo bisogno di non nasconderci nessuno dei proble‑mi e delle dure prove da affrontare: proprio per poter suscitare un vasto moto di energie e di volontà, capace di mettere a frutto tradizioni, risor‑se e potenzialità di cui siamo ricchi. Quelle che abbiamo accumulato nel‑la nostra storia di centocinquant'anni di Italia unita.

Celebrare quell'anniversario, come abbiamo cominciato a fare e ancor più faremo nel 2011, non è perciò un rito retorico. Non possia‑mo come Nazione pensare il futuro senza memoria e coscienza del pas‑sato. Ci serve, ci aiuta, ripercorrere nelle sue asprezze e contraddizioni il cammino che ci portò nel 1861 a di‑ventare Stato nazionale unitario, ed egualmente il cammino che abbiamo successivamente battuto, anche fra tragedie sanguinose ed eventi alta‑mente drammatici. Vogliamo e pos‑siamo recuperare innanzitutto la generosità e la grandezza del moto unitario: e penso in particolare a una sua componente decisiva, quella dei volontari. Quanti furono i giovani e giovanissimi combattenti ed eroi che risposero, anche sacrificando la vita, a quegli appelli per la libertà e l'Unità dell'Italia! Dovremmo forse tacerne, e rinunciare a trarne ispirazione? Ma quello resta un patrimonio vivo, cui ben si può attingere per ricavarne fi‑

ducia nelle virtù degli italiani, nel loro senso del dovere comune e dell'uni‑tà, e nella forza degli ideali.

IL VALORE DELL’UNITÀ NAZIONALE

Ed è patrimonio vivo quello del superamento di prove meno remote e già durissime, come il liberarci dalla dittatura fascista, il risollevarci dalla sconfitta e dalle distruzioni dell'ulti‑ma guerra, ricostruendo il paese e trovando l'intesa su una Costituzione animata da luminosi principi. No, nul‑la può oscurare il complessivo bilan‑cio della profonda trasformazione, del decisivo avanzamento che l'Unità, la nascita dello Stato nazionale e la sua rinascita su basi democratiche hanno consentito all'Italia. Di quel faticoso cammino è stato parte il ricercare e stabilire – come ha voluto sottoline‑are ancora di recente il Pontefice, indirizzandoci un pensiero augurale che sentitamente ricambio – "giuste forme di collaborazione fra la comu‑nità civile e quella religiosa".

Sono convinto che nelle nuove generazioni sia radicato il valore dell'unità nazionale, e insieme il va‑lore dello Stato unitario come presi‑dio irrinunciabile nell'era del mondo globale. Uno Stato, peraltro, in via di ulteriore rinnovamento secondo un disegno di riforma già concretizzato‑si nella legge sul federalismo fiscale. Sarà essenziale attuare quest'ultima in piena aderenza ai principi di "so‑lidarietà e coesione sociale" cui è stata ancorata.

Sarà essenziale operare su tutti i piani per sanare la storica ferita di quel divario tra Nord e Sud che si va facendo perfino più grave, mentre ri‑sulta obbiettivamente innegabile che una crescita più dinamica dell'econo‑mia e della società nazionale richiede uno sviluppo congiunto, basato sulla valorizzazione delle risorse disponibi‑li in tutte le aree del paese.

Il futuro da costrui‑re – guardando soprattutto all'universo giovanile – ri‑chiede un impegno genera‑lizzato. Quell'universo è ben più vasto e vario del mondo studentesco. A tutti rivolgo ancora la più netta messa in guardia contro ogni cedimen‑to alla tentazione fuorviante e perdente del ricorso alla violenza. In particolare, poi, invito ogni ragazza e ragaz‑zo delle nostre Università a impegnarsi fino in fondo, a compiere ogni sforzo per mas‑simizzare il valore della pro‑pria esperienza di studio, e li invito a rendersi protagonisti, con spirito critico e seria capacità pro‑positiva, dell'indispensabile rinnova‑mento dell'istituzione Università e del suo concreto modo di funzionare.

Investire sui giovani, scommet‑tere sui giovani, chiamarli a fare la propria parte e dare loro adeguate opportunità. Che questa sia la strada giusta, ho potuto verificarlo in tante occasioni. Dall'incontro, nel genna‑io scorso, con gli studenti di Reggio Calabria impegnati sul tema della legalità, a quello, in novembre, con i giovani volontari di Vicenza mobilita‑tisi per far fronte all'emergenza allu‑vione; e via via potendo apprezzare realtà altamente significative. Penso ai giovani che con grandissima con‑sapevolezza e abnegazione fanno la loro parte nelle missioni militari in aree di crisi: alle famiglie di quelli tra loro che sono caduti – purtroppo ancora oggi – e di tutti gli altri che compiono il loro dovere esponendo‑si a ogni rischio, desidero rinnovare stasera la mia, la nostra gratitudine e vicinanza. Penso ai giovani magi‑strati e ai giovani appartenenti alle forze di polizia, che contribuiscono in modo determinante al crescen‑te successo nella lotta per liberare l'Italia da uno dei suoi gravi condi‑zionamenti negativi, la presenza ag‑

gressiva e inquinante della crimina‑lità organizzata.

Sì, possiamo ben aprirci la stra‑da verso un futuro degno del grande patrimonio storico, universalmente riconosciuto, della Nazione italiana. Facciano tutti la loro parte: quanti hanno maggiori responsabilità – e ne debbono rispondere – nella politica e nelle istituzioni, nell'economia e nella società, ma in pari tempo ogni comu‑nità, ogni cittadino. Dovunque, anche a Napoli: lasciatemi rivolgere queste parole di incitamento a una città per la cui condizione attuale provo sof‑ferenza come molti in Italia. Faccia anche a Napoli la sua parte ogni isti‑tuzione, ogni cittadino, nello spirito di un impegno comune, senza cedere al fatalismo e senza tirarsi indietro.

Sentire l'Italia, volerla più unita e migliore, significa anche questo, sentire come proprio il travaglio di ogni sua parte, così come il trava‑glio di ogni sua generazione, dalle più anziane alle più giovani. A tutti, dunque, agli italiani e agli stranieri che sono tra noi condividendo doveri e speranze, il mio augurio affettuoso, il mio caloroso buon 2011.

Dal messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Palazzo del Quirinale, 31/12/2010

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…intorno a un dato che non è solo mone‑tario, ma che tocca squilibri profondi fra i vari sistemi economico‑finanziari e fiscali, squilibri tali da irrompere sotto la corteccia unitaria dell’euro slabbrandone i confini, e appare assai improbabile la possibilità del‑la loro armonizzazione. Più di questo, però, sul tema specifico, non so dire, non riesco a disegnare gli scenari che possono nascere dall’approfondimento della crisi‑euro, ma posso provare a riflettere sulle ragioni della crisi politico‑costituzionale che pure accompagna la storia dell’Unione, pur

dopo il sicuro successo della ratifica del Trattato di Lisbona, seguita all’illusione costituzionale.

PARTo DA LoNTANo, ma da una lon‑tananza che si avvicina giorno dopo gior‑no. Parto da quella che chiamo la “grande illusione” (chi non ricorda il film di Renoir e il tessuto di illusioni europee che lo attraversava?), quella che si affermò e sviluppò con impressionante forza lun‑go gli anni novanta, e che produsse non solo l’euro, ma l’allargamento dell’Unione fino alla riunificazione del continente, fino alla costruzione dello spazio di libertà, si‑

curezza, giustizia, e alla conseguente e feconda integrazione degli ordinamenti giuridici. Era un modello di integrazione complessivo che avanzava, di cui si scor‑gevano, certo, i problemi nascenti dalla medesima estensione della “scala” del progetto, ma che appariva non solo come un modello per l’Europa, ma addirittura sembrava esprimere una capacità espan‑siva oltre i suoi stessi confini: l’idea di una Europa “potenza civile” che come tale si proponeva di parlare al mondo. La chiamo “grande illusione” non perché essa non ab‑bia esercitato una ampia e concreta ege‑monia e non abbia prodotto grandi effetti sulla storia del progetto europeo – dirlo, sarebbe negare l’evidenza –, ma perché alla sua base, e quasi come fondamento profondo del suo disegnarsi, c’era l’idea di uno sviluppo addolcito del processo di globalizzazione, che avrebbe dato sempre più spazio a quella Europa post‑sovrana, madre del diritto e capace di influenzare la fine della vecchia geopolitica, a favore di una visione neocosmopolitica o macro‑regionale dialogante, variamente rappre‑sentata. L’Europa, continente della pace e del diritto, e di compromessi democratici e sociali, aperti all’inclusione dell’altro, ostile a ogni ipotesi di scontro di civiltà. Quasi si può aggiungere – anche se la cosa andreb‑be ben diversamente argomentata – che a fondamento del progetto europeo, così inteso, c’era l’idea che la politica nel suo aspro realismo stesse per cedere il posto al diritto e al proceduralismo democratico, e a una idea universale di cittadinanza, quasi una estensione su scala mondiale di quel “patriottismo costituzionale” che non a caso dominò il pensiero europeista in quegli anni: che, insomma, Hans Mor‑genthau e Kenneth Waltz potessero anda‑re – finalmente! – in soffitta, a vantaggio degli studiosi di archeologia politica. Furo‑no gli anni in cui il lavoro di Jurgen Haber‑mas raggiunse l’apice della sua influenza, oggi sicuramente declinante, un lavoro che ragionava intorno all’espansione della sfera sovranazionale in perfetta corrispon‑denza dell’esaurirsi della spinta propulsiva degli stati nazionali. E mi si permetta di ag‑giungere che questo richiamo alla filosofia

non è affatto canonico o ininfluente, se è vero, come penso, che l’idea di Europa e della sua realizzazione politica ha sempre posseduto un tratto illuminato e argomen‑tato proprio dalla filosofia, come ho cerca‑to di mostrare in più di un lavoro.

EBBENE, LA MIA TESI è che questa ipotesi essenziale attraversi una fase di profonda difficoltà, e che questa difficol‑tà – in un complesso intreccio di cause e di effetti – sia produttiva di una crisi ide‑ale e politica del progetto europeo. È da diversi anni che perseguo questa idea, che ora mi sembra prender forma più concreta e argomentabile. Non mi voglio dilungare in una rappresentazione necessariamente approssimativa di uno scenario mondiale nel quale sembrano approssimarsi scon‑tri di egemonia, e la politica reclamare con urgenza il proprio ruolo. La situazione può ancora evolvere in direzioni opposte, ma di certo, la crescita esponenziale di gran‑di stati nazionali o multinazionali non è estranea alla nuova dinamica che sembra delinearsi, e i macroregionalismi possono assumere, forse stanno già assumendo, caratteri non solo dialoganti ma prean‑nuncianti scontri di egemonia e di potenza. Il rapporto Cina‑America si delinea come problematico groviglio di temi entro i qua‑li incomincia a emergere l’espansionismo di una Cina potenza mondiale, come molti specialisti del problema vanno annotando. Si potrebbe avere allora l’impressione che l’Europa sia stata come colta in mezzo al guado, e che non riesca a raggiungere nessuna delle due rive, né quella che si è lasciata alle spalle – che non può esiste‑re più nella vecchia forma – né quella che sembrava pararsi davanti con una certa sicurezza, e che dunque il blocco del suo progetto sia legato a questa difficoltà, come dire?, topologica.

SE PRoVo APPENA a determinare questa idea in modo più interno al lessico europeo, direi che l’Europa ha immagina‑to di poter isolare in se stessa una idea di governance che non dovesse essere necessariamente sostenuta e alimentata dalla forza di una comunità politica, proprio

la “grande illusione” che produssenon solo l’euro ma la riunificazione del Continente

e la costruzione della spaziodi libertà sicurezza giustizia

Biagio de Giovanni

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7nella fase in cui di comunità politiche si andava affollando il mondo, e che dunque quell’Europa postsovrana (e perciò postpo‑litica) resti spettatrice di questo mondo, incapace né di entrarvi né di stimolarne il mutamento. Nel frattempo in Europa, sono avvenuti altri fatti che hanno ridotto la sua caratura politica (paradossalmente, ma non tanto, proprio nel momento in cui questa era più necessaria), e provo ad elencarli velocemente prima di provare ad argomentare più nel merito della vicenda costituzionale, pur di grande importanza. L’avanguardia franco‑tedesca non ha più la stessa forza trainante di un tempo, e la Germania si pone sempre più come un at‑tore autonomo, spesso in esplicito contra‑sto con il vecchio e influente alleato. Quella divisione dei compiti fra i due grandi stati, che ha così ben funzionato soprattutto ai tempi dell’asse Kohl‑Mitterand‑Delors, è un bel ricordo del passato. La Germania ha la forte tentazione di spostare verso la Russia e verso Est la propria relazione privilegiata – cosa in grado di influenza‑re l’intera situazione europea – e la sua severità verso gli stati deboli dell’Unione sembra stabilire qualcosa che si fonda, pe‑raltro in modo motivato, sulla base della legge del più forte, una legge che “salva” l’Europa ma stabilisce egemonie basa‑te sulla potenza e sulla forza dei fatti. È esploso il tema dell’immigrazione in una forma forse inedita nell’Europa del dopo‑guerra, senza che si riesca a costruire una vera politica comune. Nel frattempo, ogni Stato prende le sue misure, condizionate dall’irrompere di populismi di destra, altro fenomeno che fa parte dell’attuale fisiono‑mia dell’Europa. La vicenda dell’espulsione dei rom dalla Francia, al di là della sua le‑gittimità o meno se giudicata in base alle regole europee, è un sintomo rivelatore di uno stato d’animo dell’opinione pubblica e soprattutto delle classi di governo, nelle quali sembra rafforzarsi un sentimento di paura e di chiusura che non alimenta lo spirito di una Europa aperta. C’è qualche elemento che fa pensare a una sorta di possibile scomposizione dell’Europa se‑condo assi coincidenti con livelli di pro‑duttività fra loro intercomunicanti, che fi‑

nirebbero con il creare zone differenziate con la buona pace di un mercato europeo veramente comune.

NoN VoGLIo DESCRIVERE uN quADRo a tinte fosche, perché l’Europa che c’è è sempre tanta, e sarebbe stolto sottovalu‑tarlo, ed è questo che allontana la mia ana‑lisi da ogni suggestione euroscettica. Ma questo aspetto lo vorrei considerare ovvio, mentre assai meno ovvio è argomentare le ragioni del blocco e l’impressione di una difficoltà niente affatto congiunturale che potrebbe retroagire proprio sull’Europa che c’è, bloccandone il cammino e ridu‑cendone l’impatto. La ragione complessi‑va è, a parer mio, in quel che ho detto, che può esser riassunto così: una governance senza comunità politica non regge al con‑fronto con il mondo com’è e come sta di‑ventando. Il tema ha molte implicazioni, toccando la stessa dimensione della forma della democrazia europea, giacché ogni governance politica “debole” indebolisce la propria legittimazione e rende difficile il suo percorso, in un momento in cui il pro‑cesso di legittimazione è tanto più neces‑sario quanto più i vincoli europei di bilancio e l’aggravarsi della diagnosi della Com‑missione sui deficit nazionali (soprattutto degli stati deboli) pongono in discussione determinati aspetti della forma degli sta‑ti sociali europei. Uno studioso attento e acuto come Angelo Panebianco ha scritto di recente che l’euro e la politica di rigore che si stabilisce intorno a esso rischiano di esser sconfitti dalla democrazia, nel sen‑so che l’opposizione sociale alla politica di rigore può diventare dirompente, soprat‑tutto quando la politica di rigore dovesse apparire, a ragione o a torto, ostativa di sviluppo consistente. Ciò che si svolge nei recinti statal‑nazionali è tuttora decisivo per la storia e il destino della democrazia, e l’evoluzione della situazione può con‑durre verso uno scontro fra legittimazioni nazionali e legittimazioni sovranazionali, con un esito assai problematico e carico di tensioni. In questa situazione, potrebbe esser decisiva l’azione di una grande lea‑dership europea che non esiste, e anche questo non è forse un caso. Se si pensa

che uno dei temi più appassionanti e con‑creti della costruzione europea è dato dalla forma democratica del suo sistema (dalla domanda: che cosa significa costruire una democrazia europea?), si ripropone intero il nesso fra la democrazia come forma po‑litica dello stato‑nazione, interna alle sue categorie, e i meccanismi di decisione (e quindi legittimazione) che si sviluppano oltre di esso.

PERALTRo, LA STESSA SITuAZIoNE costituzionale è carica di domande aper‑te, e questo è il momento per mettere in luce qualche aspetto del problema. Assai sintomatica, come avvenne anche ai tem‑pi di Maastricht, la sentenza della Corte federale tedesca del giugno 2009. La sua provenienza dallo Stato più potente

e determinante dell’Unione obbliga a una particolare attenzione, anche se qui per cenni assai larghi. Quella sentenza, certo, legittimò la ratifica del Trattato di Lisbo‑na, ma l’ispirazione di fondo era chiara: è impossibile parlare di una democrazia oltre lo Stato; lo Stato rimane l’effettivo portatore della sovranità, il recinto entro il quale democrazia e sovranità si incon‑trano. La cessione di sovranità è un atto volontario dello Stato tedesco. Il potere pubblico comunitario è sprovvisto di una “competenza sulla competenza”, e que‑sto sembra anche ridurre l’ampiezza e il significato di quell’art. del Trattato che la‑sciava immaginare una norma di chiusura capace di “aprire” alla possibilità di nuo‑ve competenze non previste dal Trattato stesso. La democrazia, nel giudizio della

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Corte tedesca, rimane così saldamente ancorata nei confini dello Stato‑nazione. L’Unione si disegna come una associazio‑ne di stati sovrani, non dotati come tali di una autonoma legittimazione etico‑politi‑ca. È nel recinto dello Stato‑nazione che si svolge l‘effettivo dibattito politico, sia relativo allo spazio pubblico – che non è se non nazionale – sia relativo alla dialet‑tica maggioranza‑minoranza. E la stessa dinamica del conflitto sociale, sale della democrazia, sembra confinata entro i limi‑ti dello Stato‑nazione, arrichire entro quei confini il confronto fra le culture politiche. La sentenza della Corte federale, se guar‑data nella prospettiva che vuole indicare, in quello che non dice esplicitamente oltre che in quello che dice, mostra una fron‑

tiera insuperabile dell’integrazione poli‑tica che ha sul proprio frontone inscritta l’esclusività originaria della sovranità sta‑tale e l’impossibilità storico‑morfologica di superarla: democrazia e sovranità vi‑vono nel recinto dello Stato‑nazione, fuori di esso sono flatus vocis. Naturalmente, si potrebbe annotare subito che anche un’analisi siffatta contiene un’illusione, non riesce a vedere l’irreversibile insuffi‑cienza della statualità, la drammatica pro‑blematicità della sua pretesa di esclusivi‑tà legittimante, ma questa osservazione, sicuramente fondata e che andrà valoriz‑zata per riprendere il discorso sull’Euro‑pa – che insomma potrà essere utilissima per costruire la controfaccia del problema indicato – non toglie nulla alla radicalità

della tesi riportata, per ora da registrare come tale: tutt’al più potremo dire che le due tesi, abolendosi a vicenda, mostra‑no l’incertezza progettuale e la difficoltà intrinseca del processo europeo, come stretto fra due opposti che non riescono a trovare mediazione.

PERChé SoTToLINEo con insisten‑za questo tema? per la ragione sempli‑ce che questo forte e convinto ritorno della statualità segna, soprattutto in quella Germania che è stata sempre tur‑bamento spirituale e politico per l’Euro‑pa, un passaggio culturale di cui vanno sottolineate le peculiarità. Non si tratta solo di un passaggio costituzionale, pur decisivo; né si tratta solo della riven‑dicazione molto tedesca di una piena legittimazione dello Stato sociale, che gioca ancora come tale la sua partita; si tratta, mi pare, di una rivendicazione tutta politica che, nel dichiarare lo Sta‑to il vero padrone dei trattati, si colloca non solo in un punto che non esclude di poter affermare il disaccordo sui fini della comunità, ma che intende dichia‑rare che una politica vera può nascere solo dalla sovranità dello Stato demo‑cratico, e che solo questo punto di vi‑sta può dare un significato politico alla governance di una più ampia realtà come quella europea.

SI PoTREBBE AGGIuNGERE, con una interpretazione un po’ estrema, la cui formulazione andrebbe di sicuro più meditata, che la governance europea fuoriesce dalla sua neutralità istituziona‑le solo quando sia il prodotto di un atto politico intimamente legato alle scelte di uno Stato egemone, in grado di dare perfino una lettura “tagliata” del Tratta‑to, ma una simile rappresentazione della politica possibile non ha più molto a che vedere soprattutto con la prospettiva di un progetto comune. Anche perché quel‑la situazione sarebbe il prodotto di una sorta di scissione fra il processo di buro‑cratizzazione delle istituzioni comuni e il nascere delle vere decisioni politiche ol‑tre di esse (e magari anche “attraverso”

di esse), ad opera di un “sovrano” che, “piegando” il Trattato alla sua volontà, non è più veramente innervato in esso. Insomma, un complicato gioco di inca‑stri, nel quale il Trattato è rispettato, ma la sua interpretazione effettiva e i suoi equilibri istituzionali dipendono dalla par‑ticolare forza politica di chi detiene ege‑monia. Questo starebbe a indicare che lo squilibrio complessivo fra stati forti e deboli, e soprattutto fra la Germania e gli altri, sta assumento proporzioni tali che l’azione veramente comunitaria dif‑ficilmente riesce a diventar “politica”, o è subordinata a “una” politica, e che la sola azione politica è quella germinata su un terreno dove la politica stessa assume la forma di una affermazione egemoni‑ca sottratta alla logica effettivamente comunitaria e in un certo senso anche a quella intergovernativa. Sto formu‑lando, lo so bene, una linea estrema di analisi, – una ipotesi‑limite, individuan‑te una possibile linea di tendenza – che potrebbe avere molte smentite, ma si tratterebbe di vedere se queste smen‑tite sono tali da lasciar intravedere la presenza di una comunità politica euro‑pea come fondo della governance, o se una comunità politica non si forma solo quando l’atto politico – anche se spesso apparentemente “tecnico” – è prodotto da una potenza egemone che si fa essa, per tutti, principio di una comunità po‑litica. Si tratterebbe allora di vedere se una comunità politica nata così a ridos‑so di uno Stato egemone non contenga comunque una capacità di direzione con un suo peculiare “europeismo”. Per es‑ser meno criptico, voglio dire che non è detto che l’egemonia tedesca sull’Euro‑pa (di questo sto parlando) non sia essa in grado di costituire una dimensione politica dell’Europa come tale, ma sono assalito, naturalmente, da molti dubbi, anche perché troverei difficoltà a definire meglio l’espressione “Europa come tale”, e perché la stessa Germania è forse alla ricerca di un proprio ruolo e potrebbe ac‑contentarsi di una “sua” difesa dell’euro, capace però di influire in modo decisivo sul destino dell’Unione. Perché formulo,

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9sia pure quasi come mera ipotesi ideal‑ti‑pica, questa riflessione? Per una ragione che vorrei formulare così: se è vero (e per me lo è) che una governance senza comunità politica (che è una possibile immagine dell’Europa attuale) rischia emarginazione dal confronto mondiale, può esser pure vero che una comunità politica europea non potendosi veramen‑te formare, a vista d’uomo, intorno alla vecchia idea federale, sia possibile solo nella costituzione di una egemonia poli‑tica ristretta, capace di trascinare nella sua scia una realtà più ampia e perfino dei valori condivisi: l’egemonia, come è noto, è forza + consenso. Ma una comu‑nità politica siffatta non ha più molto del‑le forme previste dal processo di integra‑zione, tanto meno dei valori proprio del progetto originario. È possibile dire, ad esempio, non che l’Europa stia morendo (non penso affatto questo), ma che il suo progetto si stia radicalmente modifican‑do? E che l’approfondirsi della disparità fra gli stati ne sia una delle cause?

Lo STATo DELLE ISTITuZIoNI euro‑pee lascia molti problemi aperti che con‑fermano incertezze e asperità. Nell’ab‑bozzo di questioni che sto provando a disegnare, sembra che la Commissione europea abbia oggi un ruolo minimo, che la sua iniziativa sia carente, e che la sua funzione conoscitiva sia ridotta rispetto al passato, la sua struttura burocratica indebolita e la sua iniziativa politica al‑meno dimidiata, pur rimanendo intatta nella formulazione del Trattato. Se si pensa al vecchio ruolo della Commissio‑ne, soprattutto in quegli anni novanta quando essa aveva in mano l’iniziativa progettuale, veramente sembra trovarsi dinanzi alla fine di un mondo. Gli equilibri istituzionali propriamente europei oggi si formano essenzialmente fra Consiglio europeo e Parlamento, i cui poteri sono assai aumentati con il Trattato di Lisbona. La nuova centralità del Consiglio europeo indica che esso è sul ponte di comando della governance europea, ma che il com‑plicato sistema di compromessi fra i quali si muove riduce la possibilità di decisioni

politiche aventi significato globale. Il Par‑lamento ha di sicuro nuove responsabilità e poteri, è interlocutore costante e rispet‑tato, ma il sistema complessivo tende a neutralizzare la sua capacità di incidere effettivamente. E qui sarebbe necessa‑rio un capitolo a parte (che rinvio ad altra occasione) per comprenderne la ragione profonda. Immagino, per dirla assai in breve, che essa sia nel fatto che l’inesi‑stenza di un popolo europeo che ne sia base costituente diluisce la sua politicità e la sua potenza progettuale, riducendo lo spazio del conflitto genuino e della de‑cisione pregnante. Questo dato fa parte del ragionamento complessivo che guida questa riflessione intorno all’isolamento della governance in uno spazio asfittico, dove le decisioni entropicamente ricado‑no su se stesse: non inefficaci verso l’in‑terno, anche se parziali e algide, ma nel vuoto di veri effetti sulle relazioni globa‑li. La Corte di Giustizia è istituzione cen‑trale e spinge sul tema dell’integrazione attraverso i diritti, ma perfino questa sua centralità è sospetta: non sono né pos‑sono essere le Corti di Giustizia a crea‑re direttamente politica; la loro “spinta” sicuramente benefica in tanti settori, si‑curamente capace di affermare valori, sapientemente rivolta a integrare ordi‑namenti e dunque a costruire “Europa”, sicuramente resistente rispetto alle spin‑te regressive e repressive di una politica appaurata, lascia sempre che intorno a essa, alla sua iniziativa, si sviluppi l’idea di una sorta di giuridificazione della poli‑tica dominata dai diritti: quella “teologia dei diritti” che spesso soddisfa il narcisi‑smo europeo, la sua ambizione a un eu‑rocentrismo umanitario, ma ne annega la forza creatrice di storia.

VoGLIo ESSER ChIARo, in conclusio‑ne, lasciando intravedere la possibilità di una riflessione rovesciata che non sia solo segno della mia…. cattiva coscien‑za. L’Europa è assai di più di come la ho raccontata in queste note all’insegna del disincanto. Lo so bene. Si potrebbe riscri‑vere tutto dal punto di vista dell’Europa che c’è. Ma rimarrebbe il vuoto di quella

introvabile e forse impossibile comunità politica. E tutta l’Europa che c’è, finireb‑be con il trovarsi assisa come su un vuo‑to, mentre il mondo parla la lingua della potenza, che, fino a una prova contraria che non è mai giunta, è il linguaggio del mondo. Ma anche qui voglio spezzare una lancia quasi contro tutto quello che ho detto, come una sorta di palinodia e di autocritica. Non è detto che smussa‑re il lato della potenza, della decisione, non contenga dentro di sé quel “valore” politico che l’occhio iperrealistico non ri‑esce a vedere, come non è detto che le linee di sviluppo della globalizzazione non riprendano una via collaborativa. Molte cose, oggi, (e forse la stessa “natura del‑le cose”) sembrano andar contro questa possibilità, ma in uno sfondo lontano, in un orizzonte fatto di incertezze e perfino di tensioni catastrofiche, si intravedono due possibilità: che lo stato di natura dell’homo homini lupus, il duro pessimi‑smo antropologico di una vitalità irridu‑

cibile dominerà il campo delle relazioni internazionali, facendo emergere quel‑la che sembra la natura delle cose, lo sguardo della potenza; che, all’opposto, dal timore e dal tremore, il mondo umano della storia lasci intravedere la possibilità dell’homo homini deus, e che perciò l’ap‑parato sapienziale europeo che ha posse‑duto dentro di sé, fra i tanti, anche questo lato, venga allo scoperto con una convin‑zione assai più grande di quella che oggi riesce a rappresentare. Non sto parlan‑do qui né dell’Europa che c’è, né di quella che mi pare introvabile, ma di un mondo idealtipico che l’Europa possa contribu‑ire a creare, andando anche a rovistare nell’archivio delle sue idee e in qualche ragione costituente della sua volontà di integrazione. Questo è una sorta di au‑spicio che ha di fronte quello che oggi appare il muro della realtà. Ma, come si sa, ogni muro può essere abbattuto, liberando l’interminato orizzonte che si trova di là da esso.

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L’UE tenta tra mille difficoltà e incomprensioni, di dotarsi dei tre strumenti che le garantirebbero un futuro più “governabile”: uno stru‑mento per la gestione condivisa del‑le emergenze; uno per alimentare la crescita, l’occupazione e l’inclusione sociale; e infine uno che assicuri una più adeguata dote finanziaria al Bi‑lancio europeo per far corrispondere ad ambizioni elevate, e a doveri nuo‑vi, mezzi idonei. Nel 2010 abbiamo “celebrato” un anno dall’approvazio‑ne del Trattato di Lisbona. E già dal momento della Ratifica era chiaro che la vera sfida sarebbe stata quella di verificare nella pratica che i singoli governi accettassero pienamente e non solo a parole la parziale cessione di sovranità che il Trattato prevede a favore dell’autonomia europea, nel rispetto del principio di sussidiarie‑tà. Il ripiegamento su logiche stret‑tamente nazionali, che hanno pesato e non poco quando bisognava pren‑dere decisioni importanti e rapide in favore di Paesi in difficoltà come Gre‑cia ed Irlanda, rappresenta un com‑portamento che non paga.

È una pura illusione pensare che qualsiasi Stato membro dell’Unione Europea, a partire dai più grandi, pos‑sa far valere i propri interessi nazio‑nali al di fuori di uno sforzo congiun‑to europeo. La realtà internazionale è talmente mutata che non si vede come alcuno dei nostri paesi possa recuperare un suo ruolo autonomo e distinto, reagire solo con le sue for‑ze alle sfide della globalizzazione. Per troppo tempo a molti è appar‑so come un lusso ed una perdita di tempo dibattere sulle questioni degli assetti istituzionali invece di

concentrarsi sulle politiche e sulle decisioni da prendere rispetto ai nodi come la crisi economica o le proble‑matiche ambientali. Questo perché a molti sfuggiva che le insufficien‑ze delle nostre istituzioni hanno da sempre limitato gravemente la capa‑cità dell’Europa di agire unita e di far

sentire tutto il suo peso sulla scena mondiale. E proprio la crisi economi‑ca ha evidenziato carenze importan‑ti nell’impianto istituzionale europeo e non è un caso che adesso bisogna correre ai ripari, modificando alcuni articoli del Trattato, per potenziare l’Europa dotandola di un meccani‑

smo permanente anticrisi da utiliz‑zare per aiutare i Paesi con finanze pubbliche disastrate.

In questo contesto e anche gra‑zie al Trattato di Lisbona il Parlamen‑to vede accresciuto il proprio ruolo e intende esercitarlo fino in fondo. In‑nanzitutto ci misureremo sulle conclu‑

Per uscire dalla crisioccorre uno sforzo congiunto europeo

Gianni Pittella

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sioni dell’ultimo Consiglio Europeo di dicembre 2010 con le decisioni prese in merito alla crisi ed ai meccanismi di salvataggio, che aprono un’importan‑te fase di confronto con Commissione, Parlamento e Banca centrale Europea che terminerà con la formalizzazione nella prossima primavera delle modi‑fiche da apportare alla struttura della governance economica comunitaria. Un confronto che sarà tutt’altro che semplice e scontato. Ed il Trattato di Lisbona appunto permetterà all’as‑semblea di Strasburgo di co‑decidere, insieme al Consiglio composto dai Go‑verni, in pratica su quasi tutte le ma‑terie comprese le misure di riforma della governance economica.

Il Parlamento Europeo finora non ha celato il proprio malcontento per l’impostazione che i governi stanno

dando alle politiche di uscita dalla crisi. Si tratta, infatti, di una visione distorta centrata unicamente sull’au‑sterità di bilancio e sull’introduzione di nuove sanzioni per i Paesi che ge‑stiscono male i propri conti, ma priva di qualsiasi molla capace di rilancia‑re l’occupazione e gli investimenti e dare ossigeno alle imprese. Nei principali Paesi europei in nome del consolidamento delle finanze pub‑bliche si sta producendo un’enorme esclusione sociale e gli ultimi vertici europei si sono tutti caratterizzati per un’attenzione primaria dei go‑verni a lanciare “segnali positivi ai mercati” senza preoccuparsi di of‑frire altrettanti “segnali positivi” ai cittadini. Cittadini e contribuenti che più di tutti, dall’origine della crisi ad oggi, si sono fatti carico del costo

dello sconquassamento dei merca‑ti, non soltanto tramite contributi diretti, ma anche in termini di disoc‑cupazione crescente, redditi sempre più bassi, accesso ridotto ai servizi sociali e aumento delle disparità. Il Parlamento Europeo ha l’importante compito di favorire un cambiamento di rotta in queste scelte e indicare un percorso di ripresa che sia condiviso e compreso dai cittadini evitando che la “cura” non sia così dura da ucci‑dere il “malato”. Si abbia l’ambizione ed il coraggio di guardare alla ripre‑sa puntando su strumenti in grado di garantire crescita.

È grave invece, che i governi eu‑ropei continuino a “balbettare” quan‑do si parla di Eurobond ed a tacere in merito alla tassa sulle transazioni fi‑nanziarie. I due strumenti che garan‑tirebbero invece le risorse necessa‑rie per ripartire. Perché l’Europa ha il compito di rilanciare la sua economia indirizzandosi verso politiche pubbli‑che in grado di distribuire la ricchezza per ridurre le diseguaglianze su scala globale e all’interno dei singoli Paesi che stanno producendo una tensione sociale crescente e pericolosa. L’In‑troduzione di una tassa sulle tran‑sazioni finanziarie favorirebbe il rag‑giungimento di una maggiore stabili‑tà dei mercati finanziari costituendo, di fatto, un freno alla speculazione e offrendo al contempo un potenziale significativo in termini di nuove risor‑se da destinare al progresso socia‑le. Perché l’imposizione introdotta sarebbe una maniera per mettere davvero, e non solo a parole, il va‑lore aggiunto generato dalla finanza al servizio della crescita economica, dell’impresa e del lavoro.

Anche in Italia, dove oggi cresce solo la spesa pubblica più improdut‑tiva. Non dimentichiamo che in Euro‑pa è stato proprio il costo dei salva‑taggi bancari ad innescare una crisi del debito che ha gravato sui bilanci pubblici compromettendo gravemen‑te la creazione di posti di lavoro e le

politiche sociali. Tuttavia nonostan‑te questo dato incontestabile, gli istituti finanziari e gli attori interes‑sati non si sono fatti, fino ad oggi, equamente carico di costi. E poi gli Eurobond che continuano ad essere indicati da più parti come necessari ma rispetto ai quali nessuno fino ad ora, se non il Parlamento Europeo, ha avuto il coraggio di prendere una posizione chiara. Il Parlamento euro‑peo si è pronunciato ufficialmente in favore degli Eurobond chiedendo alla Commissione Europea di presenta‑re una proposta in merito che possa essere discussa già in occasione del prossimo vertice europeo di prima‑vera. L’istituzione di Euroobbligazioni avrebbe due vantaggi evidenti: per‑metterebbe una più agevole gestio‑ne del debito e del sostegno ai piani di salvataggio e darebbe la possibi‑lità di lanciare un grande piano d’in‑vestimenti in infrastrutture cruciali per il rilancio economico ed occupa‑zionale. L’Italia vedrebbe finalmente terminato l’asse Lione‑Torino e si potrebbe puntare con convinzione a fare del Mezzogiorno la piattaforma logistica del Mediterraneo miglio‑rando così il grado di competitivi‑tà del nostro Paese che continua a crescere meno degli altri dall’inizio della crisi.

Tra l’altro uno strumento del ge‑nere ha un altro vantaggio partico‑larmente rilevante: a differenza delle altre fonti di finanziamento comuni‑tario, come la risorsa Iva o il prodot‑to nazionale lordo, gli Eurobond non presentano un legame «nazionale» evidente. Caratteristica quest’ulti‑ma che li esclude dalle «battaglie» tra i Paesi europei sui «saldi net‑ti». Battaglie egoistiche che anche quest’anno hanno caratterizzato un negoziato lungo e difficile, tra Con‑siglio e Parlamento europeo, per l’approvazione del Bilancio europeo al punto da rischiare addirittura di mandare in fumo l’accordo e di avere nel 2011 un Unione europea priva di

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risorse. L’approvazione a cui si è giun‑ti rappresenta una buona notizia per tutti i cittadini europei. Nella legge Finanziaria dell’Unione è infatti pre‑vista una forte attenzione per le gran‑di priorità che ha di fronte l’Europa: i giovani, l’istruzione, la mobilità e la ricerca, mentre i fondi per le politiche di coesione crescono del 15 per cento rispetto allo scorso anno.

Il Parlamento avrebbe voluto un bilancio ancora più forte, ma consi‑derate le resistenze dei governi, alla fine è prevalsa la volontà di assicu‑rare l’approvazione del più importan‑te documento di programmazione fi‑nanziaria entro la fine dell’anno, per scongiurare il rischio di una paralisi che avrebbe messo in discussione anche la partenza della nuova Stra‑tegia Europa 2020.

Strategia questa che, con le sue linee guida sulle politiche macroeco‑nomiche e per l’occupazione, rappre‑senta un’opportunità importante per dare vita ad una mobilitazione inedita di risorse comunitarie e nazionali su obiettivi fondamentali come l’innalza‑mento della partecipazione al merca‑to del lavoro, in particolare di giovani e donne, la riduzione della disoccu‑pazione strutturale, la creazione di occupazione di qualità attraverso la formazione continua, la valorizzazione del capitale umano, l’aumento degli investimenti in istruzione e ricerca.

La Strategia 2020 richiede al contempo il completamento del mer‑cato interno, lo sviluppo di una politi‑ca industriale europea orientata alla sostenibilità ambientale, una politi‑ca di investimenti comuni in settori

strategici, le infra‑strutture europee materiali e imma‑teriali, l’energia, la difesa, la valo‑rizzazione dell’am‑biente, la protezio‑ne della salute, la costruzione di un vero spazio euro‑peo della ricerca e le reti di trasporto. Cruciale sarà l’ap‑porto della ricerca europea, coordina‑ta in partenariati pubblico‑privati, tra aziende, uni‑versità, centri di ri‑cerca e governi lo‑cali per creare reti di distretti secondo alcuni positivi mo‑delli già realizzati in Europa perché è proprio sulla socie‑tà della conoscenza che l’Europa deve costruire e rifonda‑re le proprie strate‑gie di crescita. Non

bisogna dimenticare che all’interno della Strategia 2020 sarà ricompresa anche la politica di coesione, attua‑ta attraverso i Fondi strutturali che sono oggetto di un fuoco incrociato. Il governo Cameron persegue infat‑ti una strategia di dimagrimento del bilancio UE dichiarando inefficienti ed improduttivi la politica di coesio‑ne ed i fondi strutturali. Ed il governo francese punta invece a congelare la Politica agricola comune (PAC). In pro‑spettiva, si potrebbe profilare il rischio di una convergenza franco‑britannica, un trade‑off tra Bilancio e PAC: in cam‑bio di un congelamento della PAC, la Francia potrebbe accettare un dima‑grimento dei fondi strutturali, determi‑nando così una riduzione del bilancio UE. Un processo che vedrebbe l’Italia perdere risorse importanti. Bisogna

allora muoversi in maniera costrut‑tiva proponendo una riqualificazione della politica strutturale procedendo lungo tre linee direttrici, tutte quante volte verso un obiettivo: riavvicinare la politica strutturale ai cittadini e far comprendere i benefici reali di questa sulla loro quotidianità. Le tre linee di‑rettrici sono:1) concentrazione delle risorse: i

cinque obiettivi della Strategia 2020 devono essere tradotti in 20 punti che coprono tutti i fondi;

2) condizionalità ex ante: affinché si possa beneficiare dei fondi strutturali, i beneficiari devono impegnarsi a realizzare quelle ri‑forme essenziali per il consegui‑mento dell’obiettivo perseguito.

3) metrica: riguardo alla politica di coesione si pone un problema di misurabilità.

Bisogna misurare quantitativa‑mente i benefici che i fondi arrecano ai singoli cittadini.

Ciò si inserisce nel dibattito circa il superamento del PIL in quanto indi‑catore di riferimento. In questo modo si riafferma la nuova logica centrata sui bisogni dei cittadini. Per costrui‑re una nuova politica di coesione che permetta all’Italia di salvaguardare la propria quota di ripartizione, il nostro paese deve cercare un’intesa coi nuo‑vi membri dell’Europa centro‑orienta‑le desiderosi di congelare l’attuale ri‑partizione dei fondi. Se non passano queste proposte l’Italia rischia di en‑trare in una fase difficilissima.

A qualsiasi osservatore appare stupefacente come il dibattito politi‑co italiano continui ad essere concen‑trato unicamente sul tema delle even‑tuali elezioni invece di indirizzarsi su come affrontare i pericoli non sopiti che riguardano l’Euro, gli impegni che ci chiede l’Europa e l’uscita dalla crisi economica attraverso interventi di si‑stema. Molti politici nostrani ballano sulla tolda del Titanic mentre il mare annuncia tempesta!

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…oltre ad affrontare e risolvere i problemi della sua città, non si sottrae alla responsabilità – che dovrebbe essere condivisa anche da altri Sindaci purtroppo latitanti – di ampliare il suo sguardo a tutta l’attuale condizione del nostro Paese.

Ed è ugualmente importante che la situa‑zione del Paese sia vista in tutta la sua attuale complessità: interna, per la sempre crescente di‑varicazione tra Nord e Sud, e non solo sul piano economico, nonché per il rapporto esistente tra i vari protagonisti della nostra vita politica; ester‑na, con riferimento alle profonde sfide posteci, a livello globale, da un sostanziale mutamento dei rapporti di forza con nuove economie che si af‑facciano sul mercato mondiale oltre che con gli altri Paesi europei.

Un libro che, di per sé e per i suoi contenuti, è esso stesso da considerarsi come una ‘sfida’ – ini‑zialmente mossa al Partito Democratico, ma, in so‑stanza, rivolta a tutti coloro (Partiti, Movimenti, Associazioni e, non ultimi, gli stessi cittadini) che non possono riconoscersi nell’attuale maggioran‑za politica e, ancor più, nell’assurda condizione in cui essa stessa è criticata e posta in crisi anche da politici di destra, originariamente aderenti addirittura al Movimento Sociale Italiano, erede ella Repubblica Sociale Italiana e del fascismo, sdoganato politicamente proprio dall’attuale Pri‑mo Ministro.

Così come è rilevante che questa sua anali‑si venga fatta da un angolo visuale di ‘sinistra’, non solo a dimensione italiana ma anche a quella europea: oggi che, purtroppo, pur in presenza di gravi squilibri e sofferenze economiche, l’eletto‑rato italiano sembra preferire, piuttosto, orienta‑menti più moderati se non, addirittura, un dispe‑rato astensionismo, provocato da una crescente sfiducia nella politica.

Una ‘sinistra’ moderna che sia veramente tale e, libera da inattuali schematismi ideologici di altri tempi, sappia interpretare correttamente e, so‑prattutto, prontamente le ineludibili richieste da parte di una società arretrata che dovrà sapersi

adeguare ai tempi ed alla concorrenza interna‑zionale ma che, al tempo stesso, non potrà più accettare che i sacrifici vengano richiesti solo da parte dei più svantaggiati.

Una ‘sinistra’ che, sia pure in chiave più mo‑derna ed attuale, sappia recuperare certi suoi specifici valori, da assumere come modello per quella società che si vuole – proprio perché si deve – costruire per il futuro, a cominciare da oggi

stesso, superando tutte le esitazioni ed incertez‑ze che hanno caratterizzato questa troppo lunga fase costituente nonché le non sempre compren‑sibili differenziazioni interne fino a vere e proprie inaccettabili scissioni.

Una ‘sinistra’, infine, che sappia dare fi‑nalmente risposte accettabili ai quesiti che le vengono poste da più parti e che, da Napoli, ci piace sottolineare: soprattutto quelle mosse da

la sfidaper una sinistra moderna

che sia davvero taleGilberto‑Antonio Marselli

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15Umberto Ranieri2 e da Biagio de Giovanni3, per i quali i problemi ed il ruolo da attribuire al Mez‑zogiorno avevano, naturalmente, un rilievo am‑piamente meritato.

Una “Federazione riformista” : quella auspicata da Umberto Ranieri,, nella quale possano conver‑gere e riconoscersi, pur sempre senza abdicare alle singole specificità, tutte le forze che, da sole, non potrebbero contrastare le forze dello schiera‑mento opposto, pavido nei confronti delle neces‑sarie riforme strutturali del nostro Paese, prigio‑niero di pericolose derive ai margini della corret‑tezza democratica e, purtroppo, capace di condi‑zionare fortemente la stessa opinione pubblica, attraverso un distorto impiego dei mezzi di comu‑nicazione di massa, Una nuova intesa elettorale e di governo che abbia la consapevole capacità di assumersi la non facile –ma nemmeno evitabile‑ responsabilità di saper coniugare dinamicamente sviluppo economico e coesione sociale sì da poter offrire, soprattutto ai giovani, quelle prospettive future sempre più a loro negate.

Così come, secondo Biagio de Giovanni, non ci si deve più sforzare a far rivivere soluzioni or‑ganizzative e riferimenti ideologici –che, seppu‑re abbiano svolto un ruolo niente affatto trascu‑rabile in passato, non sono più praticabili‑ lad‑dove, invece, è sempre più urgente sforzarsi di connettere logicamente tutte le osservazioni e rilevazioni aventi per oggetto la nostra realtà –nella sua complessa articolazione e nelle sue spesso imprevedibili implicazioni‑ con le moderne conoscenze della scienza e della politica perché si possano individuare le più corrette ed efficaci soluzioni di intervento

Nella faticosa e non agevole individuazione di un vero messaggio di ‘sinistra’ non si può fare a meno di confrontarsi, direttamente e senza sot‑terfugi, con i divarî sempre più paralizzanti che bloccano qualsiasi illusione di un reale sviluppo nel nostro Paese.

Innanzitutto, il secolare storico divario Nord‑Sud che, dopo alcuni successi e le troppe illusioni sorte con l’intervento straordinario della Cassa, sembra sia giunto, oggi, al suo massimo

2 U. Ranieri: “La Sinistra e i suoi dilemmi” – Marsilio 2006, Milano

3 B. de Giovanni: “A destra tutta, Dove si è persa la sini‑stra” – Marsilio 2009, Milano

punto di crisi. Quel divario che, prima, era pre‑valentemente strutturale – i ritmi di sviluppo, le capacità attrattive di nuovi capitali e capacità imprenditoriali – e che, oggi, si è ulteriormente appesantito con altre cause: il dilagare incon‑trollato della criminalità organizzata, fino al suo insediamento anche nelle regioni settentrionali, prima quasi del tutto indenni; le modifiche qua‑litative dell’emigrazione meridionale nelle sue varie componenti –innanzitutto, non più solo la forza‑lavoro non qualificata, ma anche e soprat‑tutto i giovani diplomati e laureati‑ sì da rendere ancora più pesante lo squilibrio di un’area carat‑terizzato sempre più da un precoce e rapido in‑vecchiamento della sua popolazione. Ma, in par‑ticolare, anche con il preoccupante decadimento della sua classe dirigente e, per conseguenza, di quella politica: due parti di popolazione sempre più propense a dar luogo a non del tutto chiare interrelazioni e cooperazioni, privilegiando spes‑so l’interesse particolare e personale a quello generale e collettivo. Condizione resa ancora più grave ed evidente da una disastrosa legge elet‑torale alla quale, ad onor del vero, nemmeno la sinistra seppe o volle opporsi.

Queste condizioni inaccettabili del divario sono state, poi, esasperate dal sostanziale fal‑limento, per tutto il Paese, di una ‘reale’ moder‑nizzazione, così come veniva richiesta dall’attuale contesto storico globale.

Invece di far tesoro dei valori ereditati dal passato, dopo che ne fossero stati epurati tutti gli aspetti non accettabili in un’era moderna, e di predisporre in anticipo tutti gli strumenti (tecni‑ci, finanziari, strumentali, gestionali ed operativi) con i quali poter attuare le fasi preventivamente programmate per i varî interventi da monitorare accuratamente a scadenze temporali ben definite e non evitabili, si è preferito cedere alle più facili –ma ingannevoli e, quindi, dannose – vie di una modernizzazione ‘tradita’ o, addirittura ‘negata’.

Tradita, quando si è preferito cedere alla pe‑ricolosa tentazione di adottare, come valori di ri‑ferimento, quelli propostoci dall’esterno, secondo modelli tipicamente consumistici: meglio ‘avere’ che ‘essere’. Senza nemmeno preoccuparsi che, per acquistare quanto scientificamente proposto da una pubblicità omologante, sarebbe stato in‑dispensabile, a livello individuale, poter disporre delle risorse per acquistare quei beni e servizî: in mancanza di ciò, l’insorgere di difficoltà psichiche

e comportamentali, il diffondersi di sensi di fru‑strazione e di inadeguatezza a danno di quelle motivazioni che, invece, sarebbero state preziose per attuare una ‘reale’ modernizzazione.

Negata, quando, pur avendo individuato cor‑rettamente i nuovi valori da adottare, non ci si è preoccupati di dotare il processo degli adeguati strumenti e mezzi ai quali si è già fatto riferimento. Così, al danno – mancata modernizzazione – si è aggiunto anche la beffa di credersi cittadini di una società moderna ed invece ritrovarsi pedine pas‑sive in processi etero diretti, senza alcuna possibi‑lità di partecipazione diretta, sia pure nei canali e nelle modalità previste dalla nostra Costituzione. Da ciò – anche se non solo da questo – si deve il progressivo disinteressamento dei cittadini nei confronti della politica, dei suoi rappresentanti e, cosa assai più grave, delle stesse istituzioni, con i tragici effetti che si presentano a tutti noi ed an‑che agli osservatori stranieri e, non ultimo, anche con l’astensionismo alle elezioni. E, purtroppo, non si può dire che la ‘sinistra’ italiana ne sia stata del tutto estranea.

Quanto, più in dettaglio, ad una delle proposte formulate da Chiamparino, quella relativa al ‘fede‑ralismo’‑ pur comprendendo che la sua estrazione: di nascita, di formazione e di responsabilità istitu‑zionali – lo abbia decisamente influenzato, verrebbe logica e spontanea una considerazione di base.

In presenza del troppo condizionante debi‑to pubblico italiano e delle oggettive difficoltà di bilancio del nostro Stato e delle sue articolazioni ai varî livelli, è indubbio che sia quanto mai indi‑spensabile un più che rigoroso rispetto delle norme contabili onde evitare eccessive esposizioni finan‑ziarie. Pertanto, ogni provvedimento avente come obiettivo il contenimento delle spese e, al tempo stesso, la massimizzazione dell’efficacia ed effi‑cienza degli interventi non può che essere il benve‑nuto, a prescindere dal colore politico delle singole Amministrazioni e dello stesso Governo centrale; ma assolutamente mai esso potrà mettere, sia pure solo lievemente, a rischio il dovuto riconoscimento paritario dei diritti di ogni cittadino, indipendente‑mente dall’area di residenza, a cui deve affiancarsi pure il rispetto dei corrispondenti doveri.

Come è abbondantemente dimostrato da tutte le fonti statistiche, tra i servizî per i quali si sono dovuti registrare deficit sempre crescenti, il più in evidenza è proprio quello della sanità pubblica. Naturalmente, tutto ciò con l’effetto di determina‑

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16re gravi e scandalose disparità nel‑le prestazioni dei servizî assisten‑ziali, particolarmente più frequenti proprio nelle aree meridionali e tali da suscitare reazioni, da parte degli abitanti del Settentrione, che po‑trebbero perfino essere considerate legittime se, a volte, non assumes‑sero un vero e proprio carattere di preconcetta colpevole discrimina‑zione. Laddove, invece, le strade da percorrere – al Nord, al Centro ed al Sud‑ per una corretta gestione dei fondi e dei servizi dovrebbero preve‑dere, oltre ad un generale recupero dell’etica dei comportamenti, anche una maggiore e più diretta respon‑sabilizzazione degli amministratori e, ancor più, dei politici fino, al limite, provvedendo allo scioglimento delle Amministrazioni così come accade nei casi in cui vi sia contaminazio‑ne da parte delle organizzazioni cri‑minali. Purtroppo, invece, i Decreti delegati appena approvati non la‑sciano ben sperare che il tanto at‑teso federalismo fiscale possa rap‑presentare uno strumento del tutto positivo e scevro da ogni sospetto di colpevolizzazione di quegli italia‑ni da considerarsi, territorialmente, di serie inferiore.

Forse, per fronteggiare gli arroccamenti – spesso anche trop‑po esagerati‑ dei rappresentanti del Nord su posizioni federaliste estreme ed alle quali, sia pure per assurdo, cominciano a corri‑spondere anche analoghi movimenti protestatari di matrice meridionale, si è arrivati addirittura ad ipotizzare – come fa Chiamparino nel suo libro‑ un Partito Democratico esso steso strutturato ed organizzato su base regionale. Guarda caso, tutto ciò accade nell’anno in cui siamo tutti chiamati a celebrare il secolo e mezzo di unità nazionale!

In un momento in cui, mentre dobbiamo di‑fenderci da un’acuta crisi internazionale e por‑re in essere ogni sforzo possibile perché tutto il ‘sistema‑Italia’ possa farcela a sostenere e su‑perare le crisi interna ed esterna, l’unica cosa di cui proprio non si sente la necessità e nemmeno l’opportunità è sicuramente la regionalizzazione di un Partito che, invece, dovrebbe finalmente

accollarsi la responsabilità –che gli è propria‑ di attuare quel processo di modernizzazione reale, che è mancato per i motivi già ricordati.

Ad esso si chiede di riuscire ad individuare qua‑li caratteristiche – economiche, sociali, culturali e politiche – dovrà avere il nostro Paese, in futuro, sì da poter rioccupare degnamente il posto che gli spetta nello scenario internazionale. Un profi‑lo, cioè, di una società che – pur non tradendo le aspettative di alcuni strati della popolazione che, naturalmente, dovrebbero preferirlo ad altre orga‑nizzazioni politiche, patrocinanti scenari del tutto diversi‑ dovrà essere soprattutto caratterizzato dalla volontà e capacità di compiere realmente quelle riforme che, data l’attuale condizione, do‑vranno finire con l’assumere il carattere di una vera e propria ‘rivoluzione democratica’ nel solco

tracciato dalla nostra Costituzione democratica.

Se, oggi, perfino i vignettisti della stampa quotidiana si sono espressi con questa osservazione sintetica e lapidaria: “Pessimismo sul futuro del Paese? Berlusconi passa, gli italiani restano”, non ci si può continuare a logorare preoccu‑pandosi solo della figura di quel lea‑der, ma, piuttosto, individuare i reali problemi da affrontare e le modali‑tà da adottare per risolverli.

Prerequisito essenziale è che, alla frequente ed usuale contrap‑posizione tra una ‘società civile’ ed una ‘società politica’ si sostituisca, invece quella più concreta e vera, rispettivamente, di ‘società dei cit‑tadini’ e ‘società delle istituzioni’. Infatti, sempre più spesso la socie‑tà ‘civile’ ha un comportamento del tutto incivile e quella ‘politica’, al‑trettanto spesso, dimentica il diffici‑le compito della politica e si adagia in comportamenti improduttivi se non, addirittura, inaccettabili.

Molto opportunamente, il Pre‑sidente della Repubblica, in un suo libro4 ebbe a dire: “Di certo consi‑dero grave e allarmante l’impove‑rimento culturale che la politica ha subito; e non mi riconosco negli at‑teggiamenti oggi prevalenti. Stiamo vivendo un’epoca di sfrenata perso‑

nalizzazione della politica, di smania di protagoni‑smo, di ossessiva ricerca dell’effetto mediatico. E al fenomeno dei Partiti personali, cresciuto in Italia più che in qualsiasi altro grande Paese europeo, al declino dei metodi di direzione politica collegiale, alla perdita da parte dei Partiti di radicamento e di vita democratica nelle istanze di base si accom‑pagna una diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere”.

Credo non vi sia più altro da aggiungere, nella speranza che, una buona volta, dalle enunciazioni teoriche si possa approdare, finalmente, a scelte concrete ed immediatamente operative.

4 G. Napolitano: Dal Pci al socialismo europeo: un’autobio‑grafia politica – Laterza, Bari 2006 ‑

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Tutto comincia col compagno Boccadutri. Senza il compagno Boc‑cadutri, non si può capire Leonardo Sciascia e i comunisti. Ed Emanuele Macaluso, che è uomo generoso (non è molto che un leader della sinistra lo definì, per le sue critiche politiche, “ingeneroso”), lo rivela già nella de‑dica. È un vincolo politico e umano, che risale ai verd’anni di Macaluso e Sciascia, che li tenne legati l’uno all’altro, ed entrambi alla rabbia e alla promessa di allora, nella Calta‑nissetta della «noia» brancatiana e dell’«offesa» della dittatura, eppure «piccola Atene» animata dall’antifa‑scismo intellettuale, tra gli altri, di due grandi come Giuseppe Alessi, fondatore della Dc, padre dell’Auto‑nomia Siciliana e Pompeo Colajanni, avvocato comunista e uomo straor‑dinario. Ma un altro antifascismo, che col primo conviveva, fu decisi‑vo nel rapporto tra Sciascia e i co‑munisti (tra Sciascia e la politica), e mantenne forse ai suoi occhi una più alta dignità morale: quello di un operaio venuto da Favara, Calogero Boccadutri, che conobbe Terracini in galera, imparò lo studio e il so‑cialismo, e trasferitosi a Caltanis‑setta tessé la rete clandestina del Pci. E gli capitò di accogliere, in una gelida notte nissena, un Vittorini in‑viato dal Partito con le pubblicazioni clandestine, e di placare all’alba la fame maturata nell’attesa del rico‑noscimento con un povero piatto di spaghetti che lo scrittore avrebbe rammentato, commosso e divertito, per tutta la sua vita. Fu proprio nel‑la cellula clandestina di Boccadutri che Macaluso ritrovò quel Leonar‑do Sciascia che aveva conosciuto poco più che ragazzo e che, pur sen‑

za tessera, attingeva a libri proibiti (non solo testi marxisti, anche “libri americani”) dal «compagno bibliote‑cario» – si chiamava Michele Calà, e morì sotto le bombe per mettere in salvo quei libri. Se la storia non si fosse complicata, Macaluso avreb‑be potuto fermarsi all’aneddoto: da che parte poteva stare, Leonardo, se non dov’era chi moriva «per un pugno di libri»?

Il tempo del fascismo – della guerra e della clandestinità e, pri‑ma, quello cruciale della guerra di Spagna, su cui, come scriverà, Scia‑scia si fece un’«idea della poesia» e una «poesia delle idee» – fu l’ultima stagione della vita che non visse da “eretico”. Da allora, lo fu sempre; fin dall’immediato dopoguerra. E se votò Pci fino a metà anni Settanta fu in adesione (sempre più problematica) a quel paradosso di Brancati (l’auto‑re siciliano a lui più prossimo, letto e scrutato negli anni nisseni – ché in‑segnava nella scuola di Leonardo, il magistrale), secondo cui «in Sicilia, per essere liberale, bisogna votare almeno comunista». Tra Brancati e Boccadutri – tra lo scrittore e il mi‑natore – era l’universo morale in cui si riconosceva, lo spazio di passione ideale e umana in cui la sua coscien‑za politica inquieta trovò a lungo ap‑prodo. Nel partito di Li Causi, amato e idealizzato, quello di «né mafia, né Mori»: formula che racchiude i ca‑pisaldi di un ideale civile che legò e lega Macaluso e Sciascia – e con la forza della sua arte espresse in quel capolavoro che è Il giorno del‑la civetta, equivocato dai “cretini” o dagli “intelligenti in malafede”. (Ancora oggi, documenta Macalu‑so, si possono leggere giudizi stol‑

ti e inaccettabili. L’ultimo è quello di Camilleri che, in un’intervista sul Fatto quotidiano, dice: “è uno di quei libri che non avrei voluto fossero mai stati scritti”).

Per il resto, la distanza politica tra Sciascia e il Pci fu già chiara ne‑gli anni cinquanta: tra Macaluso e Sciascia, il comunista “togliattiano” artefice dell’«operazione Milazzo» e l’intellettuale che ripudiava ogni «compromesso» col potere. Perché il Potere fu la sua ossessione, la sua inquietudine perenne: «comunque incompatibile con la libertà dell’uo‑mo», «che sempre nega giustizia e verità», scrive, con acutissima criti‑ca, Emanuele Macaluso. Ossessione che spiega la sua contrarietà a un Pci di “governo” (l’operazione Milazzo è ripercorsa pacatamente da Ma‑caluso come per chiarire a Sciascia le ragioni inconfutabili della “rot‑tura”, dell’aver messo all’angolo la Dc) e, per al‑ tro verso, molto dopo, spiegherà Il contesto ( Maca‑luso non r i s c r i ‑verebbe l ’ar t ico‑lo critico di allora, e rico‑nosce un errore di valutazione sul‑la “parodia”): i momen‑ti di più grave dissenso dal Pci – e da Macaluso, specialmente. Dissensi “politici” non annullati nemmeno nel 1975‑76, anni in cui si candidò al Consiglio comunale

Riflessioni sul libro di Emanuele MacalusoLEONARDO SCIASCIA E I COMUNISTI

Giuseppe Provenzano

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18di Palermo e fece campagna per le politiche col Pci, essendo contrario alla strategia del «compromesso storico», illuso dai nuovi dirigenti, «giovani intransigenti», che quella politica non avrebbe attraversato lo Stretto. Le alleanze con la Dc in Si‑cilia, promosse con solerzia da que‑gli stessi giovani dirigenti in quegli stessi anni, furono forse vissute da Sciascia come un inganno, una sle‑altà: com’egli stesso dirà, anche in politica era «assai sensibile ai rap‑porti umani, ai contatti personali»; la rottura dell’amicizia con Guttuso, del resto, ne avrebbe dato una mi‑sura drammatica. Probabilmente da lì, per Macaluso, che fu spettatore scettico di quel riavvicinamento im‑possibile, scaturì anche una specie di risentimento personale che segnò la fine del rapporto col Pci, fino ad allora nutrito da scontri ma da un dialogo e un rispetto costanti, e la “felicissi‑ma” (sul piano umano) e “liberatrice” (sul piano ideologico) adesione ai ra‑dicali, con cui fu eletto in Parlamen‑to nel 1979 e svolse un’eccellente attività parlamentare – non solo sul “caso Moro”, che pure gli consentì di rimarcare tutta la sua distanza dal Pci della “fermezza”, maturata già nei giorni della “prigionia” e, an‑cor prima, nella polemica (frutto di fraintendimenti quasi voluti) sulle Br e lo Stato (“quello Stato”).

È l’inquietudine del Potere a spiegare l’impegno politico del “mo‑ralista” (alla francese, e nel senso di Candido, prima di tutto) Sciascia che, come per attrazione fatale, lo volle vedere da vicino, dopo averlo scan‑dagliato nei suoi libri, ricavandone però una delusione senza rimedio e un’idea di insondabilità che lo porte‑rà a dire: «il Potere non è nel consi‑glio comunale di Palermo, non è nel Parlamento… il Potere è altrove». La sua era un’avversione pasoliniana (di quel Pasolini «fraterno e lontano»); e un dubbio permane: davvero Scia‑scia fu uno scrittore “politico”? Lo fu,

nel senso profondo che emerge dalle belle pagine di Macaluso, che insiste sulla tensione «sociale» di Sciascia, dalla compassione per i zolfatari e i figli poveri di Regalpetra alla visio‑ne costante di una lotta alla mafia sempre intesa come lotta politica (e culturale) per il riscatto sociale di un popolo soggiogato dal potere crimi‑nale e per l’affermazione dello stato di diritto, in Sicilia negato non di rado dallo stesso Stato. Fu politico in ogni sua pagina, dunque, ma fu altrettan‑to intensamente il suo contrario, va‑namente cercando nella politica una certa idea di “purezza”. D’altra parte, Macaluso ricorda sempre (ma con simpatia umana e rispetto politico) ciò che Sciascia disse di sé: «con‑traddisse e si contraddì». Della na‑tura “difficile” della sua politicità fu consapevole: «uno scrittore dovreb‑be sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica», scrisse. E avrebbe voluto (e, in buona parte, potuto) dire di sé quello che disse Borges: «Mi occupo il meno possibi‑le di politica. Me ne sono occupato durante la dittatura, ma quella non era politica, era etica».

Tra tutti i poteri, Sciascia provò maggiore tormento per quello che si concentra nella mani di un giudice, che può decidere della carne e del sangue degli uomini. La denuncia del pericolo costante, persino in‑combente, di un’amministrazione della giustizia che avrebbe potuto volgere nell’Inquisizione di ogni tem‑po, maggiormente insidiosa se mos‑sa da migliori intenzioni, non poteva che diventare in Sciascia una specie di ossessione – siciliana e antisici‑liana, insieme – per le regole, la de‑

mocrazia, il diritto, la Costituzione. E proprio sull’attualità “politica” del pensiero e dell’impegno di Sciascia su temi come la mafia e la giustizia, Macaluso si sofferma nelle pagine finali. Col dovere di denunciare l’ap‑propriazione indebita che ne ha fat‑to la destra dell’impunità ad perso‑nam e del garantismo bestemmiato, e l’urgenza di chiedere: la tensione sciasciana per la giustizia («tutto è legato per me al problema della giu‑stizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del ri‑spetto tra uomo e uomo») è archi‑viabile oggi per una sinistra demo‑cratica? Macaluso, commentando l’articolo – incriminato, spesso non letto e largamente travisato – sui professionisti dell’antimafia, e so‑prattutto le reazioni scomposte e infami che seguirono (una polemi‑ca che peraltro continua a riaffio‑rare – rievocata, in ultimo, con una battuta frettolosa e infelice da Ro‑berto Saviano nell’ottima trasmissio‑ne televisiva con Fabio Fazio), o gli scritti memorabili in difesa di Enzo Tortora e di Adriano Sofri, dà il sen‑so di una battaglia che vale ancora oggi, a partire dalla critica severa al cedimento culturale di una sinistra che, come avrebbe detto Sciascia, «ha sostituito la bilancia della giusti‑zia con le manette». Su questo – nel dopo Berlusconi, magari – potrebbe venire il tempo di un ripensamento. E a partire da questo libro, in un Pa‑ese che ha smarrito «il senso di giu‑stizia», molto è da cominciare a rileg‑gere, e a ripensare. Sapendo bene, però, che fare i conti con lo Sciascia “politico” e “civile” impone di risali‑re alla sua visione del mondo, della

libertà dell’uomo che non può mai prescindere – nell’ottima sintesi di Macaluso – dalla “giustizia” e dalla “verità”. E dalla “memoria”, vorrem‑mo dire: decisiva per Sciascia, deci‑siva in questo libro.

Nel riprendere il filo di una «con‑versazione interrotta» con l’amico Leonardo, di saldare un debito di pa‑role non dette (e di parole che non avrebbe dovuto dire) che affollano le «veglie notturne» di un uomo dalla gran vita come Macaluso, c’è qual‑cosa di strettamente personale che il pudore del dirigente politico d’altri tempi non consente di sviscerare, e che riporta alla Caltanissetta delle prime pagine. Nell’affetto che Leo‑nardo serberà verso Emanuele anche nei momenti di più fredda distanza (o di polemica rovente), e che riaf‑fiora nei giorni dolorosi e angoscia‑ti dell’agonia, quando a Milano e a Palermo ripetutamente riceverà sue visite, vi è qualcosa che nasce, for‑se, dal ricordo dello Sciascia adole‑scente che frequenta la casa dei Ma‑caluso insieme al fratello Giuseppe (compagno di scuola e di classe, al minerario, di Emanuele e del fratel‑lo Antonio). Il suicidio di Giuseppe, ventenne, in zolfara, segnò col dolo‑re più fondo e taciuto la vita intera di Leonardo. Quel ricordo, più d’ogni al‑tro, Emanuele forse richiamava nella mente di Leonardo. Un vincolo della memoria che precedeva anche quel‑lo maturato nel tempo formidabile dell’antifascismo e della clandestini‑tà. Tempo in cui, come mai più per Le‑onardo (e per Emanuele), la politica coincise con l’umanità, coi “rapporti personali”, con la dignità umana: con gli uomini, «i Boccadutri»…

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Il tema della Responsabilità So‑ciale dell’impresa è un tema di gran‑de attualità per qualsiasi organizza‑zione economica che oggi si muove sul mercato.

Siamo convinti quando affermia‑mo il principio secondo cui la RSI, se sviluppata a dovere, si può trasforma‑re in uno strumento di competitività sul mercato globale, può generare maggiore fiducia sia nei propri clienti che in eventuali partner finanziari.

Può diventare un approccio in‑novativo per generare quel senso di affidabilità, proprio di chi sa dare un orizzonte più ampio al proprio busi‑ness in termini di programmazione e pianificazione futura.

Ma si è domandati se, in un mer‑cato in cui tali dinamiche apparten‑gono alle grandi imprese, il tessuto delle Piccole e Medie Imprese, che in Italia rappresentano quasi il 95% di questo tessuto, potrà sostenerne gli oneri? Se saprà mettersi in rete per migliorare la qualità delle rela‑zioni sociali con il proprio territorio? Domande impegnative, alle quali si potrà dare risposta nel tempo, ma

alle quali non crediamo tocchi alle sole aziende fornire risposte defini‑tive se non inquadrate in un contesto politico generale di supporto.

Certo noi imprenditori favoria‑mo già da tempo il dibattito nelle sedi proprie, ma anche all’interno di Fondazioni, Centri Culturali, Sinda‑cati dei Lavoratori, cercando insie‑me alle Istituzioni locali ed a quelle Nazionali, il giusto punto di equili‑bro tra la prospettiva di un maggior costo da sostenere ed il beneficio derivante.

Premesso che nei principi fon‑damentali della Costituzione, al ti‑tolo IV, è scritto che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo dirit‑to, è anche enunciato, all’art. 41, che: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può comunque rivolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. In più, prosegue: “La Legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica

e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”

È dalla data della approvazione della Costituzione che è chiaro il si‑stema dei diritti e di tutela nel nome della sicurezza e della dignità, che bi‑sogna fornire al lavoratore.

Certo, ci sono stati nella storia anche critici (MiLton friedMan) che ne hanno stigmatizzato il significato, af‑fermando concetti quali:

La responsabilità non è dell’im‑presa ma dei singoli individui (o ma‑nager, o proprietari);

Se è l’individuo, (o il manager), questi è a servizio del proprio datore di lavoro, non della collettività. I ser‑vitori degli interessi collettivi devono essere eletti attraverso processi po‑litici e non nominati da un privato;

Se i manager credessero di ave‑re responsabilità verso la società, tradirebbero il mandato fiduciario degli azionisti che li hanno chiama‑ti a tutelare ed incrementare i loro interessi;

La Responsabilità sociale è spesso solo una ipocrita copertura per azioni che si giustificano su al‑

tre motivazioni. Ma, ai tempi nostri, noi ci allineiamo ai dettami contenu‑ti nel libro Verde della Commissione Europea del 2001: “Promuovere un quadro europeo per la responsabi‑lità sociale delle imprese”, che in‑coraggia gli investitori perché pun‑tando su una impresa socialmente responsabile è più facile registrare profitti superiori alla media, in virtù della capacità della stessa a risolve‑re con successo problemi ecologici e sociali, comprovando cosi la qualità della gestione.

La “Corporate responsability” si configura come una strategia di mar‑keting evoluto fondato sul principio del ritorno economico.

Non un costo ma un investimen‑to, nel senso che un approccio capa‑ce di integrare gli aspetti finanziari, commerciali e sociali è in grado di elaborare una strategia di lungo pe‑riodo che minimizza i rischi e le in‑certezze!!!

Noi siamo consapevoli di dover coniugare: etica del lavoro (e mi ri‑porto alla Costituzione) e logica del mercato, ed il tema sulla Responsa‑

Responsabilità sociale dell’ impresa come nuovo modello di sviluppo

etICa, CoesIone, sostenIBIlItÀVito Grassi

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21bilità Sociale ci rende consapevoli di un altro aspetto importante: ogni scelta che facciamo ha un impatto nella vita presente e su quella futura del contesto sociale che ci circonda. Noi imprenditori siamo altresì con‑sapevoli che le persone, gli indivi‑dui con il loro bagaglio di capacità, competenza, dignità e fedeltà, sono il Patrimonio di ogni impresa, ne de‑terminano l’andamento presente a quello futuro. I concetti su elencati, calati nella nostra realtà imprendito‑riale, li ritroviamo in quattro aree di riferimento che, se anche in maniera non ancora pienamente strutturata, già oggi danno un esempio materiale di attenzione al tema.

Una 1a missione sociale è quella di qualificare secondo i più avanzati criteri di innovazione, i nostri lavora‑tori. Una 2a missione sociale, è quella di salvaguardare l’occupazione dai periodi di minore intensità lavora‑tiva. Una 3a è quella di trasmette‑re fiducia nel futuro, di allargare gli orizzonti e le prospettive di ognuno affinché lavori in modo più concen‑trato e produttivo sui compiti di oggi, già cosciente che l’Azienda sta per‑seguendo programmi di innovazione per il futuro. Una 4a ed essenziale missione sociale, è proprio quella di sfrondare dall’impegno quotidiano dei propri lavoratori, tutte le aree di incertezza legate alla volatilità del mercato. In sostanza, noi che gui‑diamo l’impresa, ci facciamo carico di tutta l’area di indeterminatezza generata dalla gestione ordinaria dei crediti e dei debiti, della gestione le‑gale – amministrativa con le relative responsabilità che comporta, della incertezza delle prospettive commer‑ciali legate allo sviluppo futuro, tra‑smettendo di contro la piena fiducia ed il massimo ottimismo nel progetto aziendale complessivo.

In questo modo, l’Azienda ne‑gli ultimi anni ha riconvertito la propria attività su un modello com‑petitivo basato su un approccio in‑

gegneristico mirato all’efficienza energetica.

Un modello molto spinto sull’evo‑luzione della propria ingegneria di base conseguita con le politiche di cui prima, ed arrivando a fornire dei performance – band ai clienti come controprova del valore della propria proposta. L’imprenditore ha fatto delle scelte strategiche chiare, assu‑mendone la responsabilità e, proprio per questo motivo, dando da un lato piena soddisfazione al proprio sen‑so di libertà, dall’altro contribuendo contemporaneamente alla massima fiducia nel futuro dei propri lavora‑tori, in un contesto di crisi generale mai vissuta prima.

Operiamo affinché i lavorato‑ri si sentano attori protagonisti di quest’ultimo aspetto, anche nel caso in cui è evidente un calo dell’intensi‑tà lavorativa, e si utilizzano i tempi e gli spazi derivanti, per sviluppare at‑tività di ricerca pre‑competitiva.

Una cosa è certa: l’unico stru‑mento per cercare di stare al passo coi tempi è: L’innovazione, la crea‑tività. Questi valori, accoppiati alla capacità di gestione, ed alla naturale propensione al rischio che contrad‑distingue la natura di ogni imprendi‑tore che si rispetti, sono la polizza di garanzia per il futuro.

Io credo che la prima Respon‑sabilità Sociale sia proprio quella di manifestare, con la metodicità del‑le proprie azione quotidiane, que‑sta consapevolezza del percorso aziendale a tutti i propri lavoratori, di illustrare la strategia aziendale e preservarne il senso di appartenen‑za al futuro.

Questo tipo d’azione, ci ha con‑sentito finora un ottimo argine alla fuga dei nostri cervelli migliori, generalmente attratti da contesti lavorativi in cui prevale il merito, la capacità. Noi operiamo affinché questo contesto lo devono trovare in azienda! E lo devono trovare no‑nostante un quadro legislativo gene‑

rale che spinge per l’aumento dell’età pensionabile, che preferisce investi‑re in ammortizzatori sociali anziché in programmi seri di ricerca e sviluppo, che posiziona il nostro paese certa‑mente non tra “quelli per giovani!” In uno scenario odierno in cui passa il concetto che la stabilizzazione la‑

vorativa non esiste più, che siamo tutti precari, imprenditori, artigiani o lavoratori che dir si voglia.

Quale missione sociale più gran‑de se non fornire un quadro credibile di sviluppo futuro ai propri lavoratori? Quale responsabilità sociale migliore verso i propri lavoratori, verso i propri clienti e/o potenziali partner, se non generare attraverso le proprie azioni quotidiane, un clima di credibilità ed af‑fidabilità tale da poter sviluppare pro‑grammi di medio – lungo termine?

Io, da imprenditore, come anzi‑detto, credo che se vogliamo che nel futuro, i nostri figli possano godere del benessere e della libertà di cui noi stessi abbiamo goduto, dobbia‑mo impegnare ad investire respon‑sabilmente, a credere nel futuro con ottimismo e creatività.

In questo, possiamo affermare, che le ragioni dell’etica del lavoro e quelle dell’economia, trovano lo spazio per un progetto comune, più in generale contenuto nel tema più generale di Cultura d’Impresa.

La cultura di impresa è la capaci‑tà di svolgere l’attività imprenditoria‑

le, coscienti di uno sforzo quotidiano che tende a coniugare la logica del mercato, con i suoi vincoli del bilan‑cio e politica dei prezzi, con l’etica del lavoro, come qui occorre ribadire.

La cultura d’impresa è la capa‑cità di stare sul mercato sentendone contemporaneamente la Responsa‑

bilità Sociale, immediata e futura, che la propria attività comporta. La capacità di comprendere che produr‑re un report pubblico della propria attività, significa rispettare le atte‑se (aspettative) esterne concentrate su di te: di propri lavoratori e della rispettiva famiglia, dello Stato in at‑tesa di risveglio.

La cultura d’Imprese è in sintesi la cultura della Responsabilità. È la ricerca esterna di un riconoscimen‑to chiaro: l’imprenditore, il motore delle proprie iniziative, è una perso‑na affidabile!

Affidarsi a lui significa mette‑re in casa un partner, un socio che condivide con il proprio committen‑te il percorso progettato, affronta e allevia i momenti di scoramento, affronta e contiene i momenti di esaltazione.

Affidarsi a lui significa avere la barra diritta verso l’obiettivo finale, a prescindere dal grado di difficol‑tà del percorso prescelto o impo‑sto che sia.

Amministratore Graded S.p.A.

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22massimo Lo cicero

SUD A PERDERE?Rimorsi, rimpianti e promonizioniRubbettino

Il Sud è diventato un vuoto a perdere?Questa domanda inquietante circola nel di‑

battito politico e genera comportamenti molto ag‑gressivi verso la classe dirigente meridionale, che ha molte colpe, e verso la reiterazione della spesa per le medesime cause e nelle stesse direzioni.

Nel Sud vive un terzo della popolazione ma si genera solo un quarto del prodotto interno lordo. Il Sud è molto più grande, demograficamente, di numerosi Stati europei: il doppio del Portogallo, e sarebbe la più grande regione italiana se fosse considerato, come si dovrebbe, un’area omoge‑nea ed integrabile in se stessa e non fosse stato smembrato negli anni Settanta in un numero ec‑cessivo di regioni amministrative, ciascuna trop‑po piccola per essere significativamente capace di crescere su se stessa.

Dunque, essendo una grande parte dell’Italia, se il Sud non cresce non cresce neanche l’Italia.

Per guardare il Sud bisogna essere strabi‑ci: guardare quello che rimane immobile e guar‑dare quello che si muove ma che non vediamo, perché siamo troppo concentrati su quello che vediamo immobile. E vediamo, quasi sempre, povertà, incapacità amministrativa, delinquen‑za ed economia sommersa, tra le quali corre un incerto e labile confine, estemporaneità, vaghez‑za argomentativa, idiosincrasia per ogni forma di regola ed organizzazione razionale, insofferenza del limite, cinismo ed intolleranza verso gli altri. La lista delle cose peggiori e ricorrenti potrebbe essere anche più lunga. Ma, il fatto singolare e tutto da spiegare, è un altro: la lista appena tra‑scritta rappresenta un elenco di tratti soggettivi, di comportamenti osservabili ed osservati in varie stagioni di questi ultimi sessant’anni, ed anche precedentemente.

Purtroppo c’è anche un altro fenomeno, tra‑gicamente stabile nel Mezzogiorno, che non è un tratto soggettivo, di comportamento, ma una

condizione oggettiva: lo squilibrio tra demografia e base economica, dal quale deriva una disoccu‑pazione strutturale. L’economia meridionale di‑venta una pentola bucata, perché non è capace di allargare tempestivamente la produzione, in presenza di significativi trasferimenti monetari, essendo sistematicamente e periodicamente sussidiata dall’esterno, e riversa quella doman‑da effettiva verso altre regioni ed altre nazioni, deteriorando l’equilibrio della propria bilancia dei pagamenti come di quella nazionale, ovviamen‑te. Si trasforma, insomma, in un vaso dal quale la liquidità fuoriesce, grazie agli acquisti, in altre regioni italiane ed in altri Paesi, delle imprese e delle famiglie residenti nel Mezzogiorno.

Tutte queste circostanze rappresentano co‑stanti oggettive e non soggettive: riguardano lo stato delle cose e non il comportamento degli individui.

Si può sostenere, e per certi versi è anche vero, che queste costanti sono anche l’effetto dei comportamenti e che, dunque, il limite fon‑damentale, il «peccato originale» del Mezzogior‑no debba essere considerato come l’esistenza di una sorta di etnia bacata, una antropologia estranea e diversa rispetto a quella delle altre popolazione europee.

Come tutte le terre di confine, il Mezzogior‑no è certamente una regione ambigua. Ed infatti ha funzionato al suo meglio quando ha rivendi‑cato la sua identità europea per dialogare con le altre identità, che circolavano nei dintorni di se stesso, primo fra tutti il Mediterraneo e le sue tre facce: i Balcani, il Medio Oriente, la costa nordafricana. […]

D’altra parte il Sud rimane il confine meridio‑nale dell’Italia mentre, essendo oggi Milano – la capitale del «lombardo‑veneto» – considerata dai suoi abitanti, e da molta letteratura europea geopolitica, la più meridionale delle metropoli del

vecchio continente, si deve comunque ammettere che esista ancora, e che debba esistere, un con‑fine tra Europa e Mediterraneo. Si tratta solo di capire dove segnare il confine.

Al parallelo di Milano o a quello che passa tra Napoli e la Sicilia?

Nel primo caso non esisterebbe più l’Italia, una nazione che è la penisola della grande peni‑sola Europea, l’unico continente che non è conclu‑so in se stesso, secondo una nota ed autorevole metafora geopolitica2.

Nel secondo caso, invece, il Sud non solo con‑sente all’Italia di crescere ma anche di esistere. Forse non è, ancora, un vuoto a perdere.

L’Italia sarà quel che il Sud sarà, si diceva una volta, e se muore il Sud, per logica conseguenza, dovrebbe morire, nel senso di scomparire, come entità geopolitica, anche l’Italia. […]

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corsi e ricorsi deLLa storia di napoLi

[…] Napoli entra nel Novecento come ex capitale politica del Mezzogiorno e si ritrova ad esserne, per quasi due terzi del secolo, anche la capitale economica, seppure lungo un crinale pro‑gressivamente declinante a partire dal secondo dopoguerra. Con il 1970 inizia un vero e proprio processo di dissolvimento dell’originale contesto virtuoso, avviato dalla legge speciale di Nitti e dal‑la globalizzazione dei primi dieci anni del Vente‑simo secolo. La crisi energetica, la fine del dollar standard, l’introduzione dell’euro e l’allargamento dell’Unione Europea, dopo il crollo dell’Impero so‑vietico, segnano l’ingresso in una stagione nella quale sono i mercati a dare ritmo e regole di com‑portamento alla finanza pubblica ed ai governi. Questa rivoluzione, che è il vero portato della se‑

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conda globalizzazione, quella degli anni Novanta e della fine del Ventesimo secolo, a Napoli non si avverte. I fondi del terremoto, negli anni Ottanta, e quelli provenienti dall’Europa, successivamente, alimentano il sogno che la finanza pubblica possa essere il solo motore della crescita.

Quel sogno, tuttavia, avendo perso i con‑notati robusti del progetto nittiano smarrisce la capacità, di quel progetto, di fare i conti con le onde della globalizzazione, di usare il mercato e di non ridursi a fare il supplente del mercato con una mediocre macchina amministrativa control‑lata dallo Stato.

Anche la nuova «cultura politica» della sini‑stra non ha mai riconosciuto la verità interna del progetto che Nitti aveva ereditato dalla destra storica: una grande Napoli, capace di essere il

motore ed il punto di riferimento dell’intero Mez‑zogiorno (venti milioni di consumatori sono una di‑mensione, demografica ed economica che eccede quella di molti Stati europei). La cultura della si‑nistra, al contrario, si è spesso lasciata sedurre dagli obiettivi che Nitti indicava come diversivi inutili: il porto, il Mediterraneo, il localismo del‑le aree limitrofe, la dimensione comunale e non quella metropolitana della città. Larga parte di questo strabismo deriva dalla mancata percezio‑ne dei nuovi caratteri del mondo globale.

Resta il fatto che l’area metropolitana di Na‑poli, dopo i primi dieci anni del terzo millennio, non è più il motore del cambiamento, ma una sorta di buco nero che sottrae risorse scarse al resto del Mezzogiorno, e viene avvertita come un fardello di cui il Sud farebbe volentieri a meno. […]

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da dove viene e dove potrebbe andare La città

La cultura politica, ed i comportamenti so‑ciali nella città di Napoli non hanno mai preso in seria considerazione la questione dell’equilibrio tra identità e coesione interna come radici di un futuro possibile migliore per gli sviluppi dell’azio‑ne collettiva alla scala locale. Sottovalutando sia il fatto che una migliore forma di governo locale rappresenti anche uno strumento utile per acce‑lerare il processo di integrazione nell’economia internazionale. In effetti questo rifiuto verso la relazione tra gerarchie operative, responsabilità ed azione si potrebbe ricondurre anche a quella sorta di idiosincrasia diffusa, nel tessuto e nella cultura della città, per le grandi organizzazioni. Anche questo atteggiamento travolge la comu‑nità, destrutturandola progressivamente: perché individua la duttilità, la capacità di adattamento e la flessibilità come valori assoluti ed imperati‑vi categorici. Trascurando, invece, i valori della identità e della coesione interna come radici di una maggiore robustezza sociale, di una maggiore sostenibilità, peraltro necessaria, per allargare la crescita ed i suoi ritmi.

Una idiosincrasia, quella verso l’organizzazio‑ne, che potrebbe essere anche la conseguenza di un fondo di cinismo, accumulato per la conti‑nua perdita della propria sovranità nei confron‑ti di un potere esterno. Ma questa spiegazione, convenzionale e tradizionale, appare, alla fine, insufficiente. Cambiamento ed identità proce‑dono di pari passo quando l’identità restituisce la consapevolezza delle radici e, in questo caso, accelera e dilata la forza della sfida verso un futu‑ro incognito. Si realizza, in questi casi, un circolo virtuoso. Si realizza quel futuro che è dentro di noi ma che saremo capaci di vedere, per godere i vantaggi impliciti nella sua realizzazione, solo dopo essere stati capaci di realizzarlo.

Questa lezione positiva, purtroppo, non si applica alla storia di Napoli.

Il suo futuro non è mai stato dentro di lei ma le è quasi sempre precipitato sopra come una cometa o una pioggia di meteoriti. Attraverso l’importazione di una classe dirigente capace di governare processi ed organizzazioni: un compi‑

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24to che la città, endogenamente, non riusciva evi‑dentemente ad assolvere. C’è anche una seconda strada analitica che ci conduce alla tensione tra organizzazione e futuro, comunità ed individuo.

Batteri e dinosauri sono i termini di una me‑tafora usata nelle scienze sociali per mostrare la polarità di due strategie alternative di svi‑luppo6.

Non è sempre possibile forzare il parallelo tra organismi ed organizzazioni ma si può tentare di cavalcare anche questa metafora.

Il batterio rappresenta la polarità dell’adat‑tabilità incondizionata alle circostanze; il dino‑sauro rappresenta la concentrazione e la densità della propria identità: una sorta di condanna a morte implicita quando l’ambiente in cui si vive diventa troppo volatile. A Napoli la volatilità dell’ambiente raggiunge punte così estreme che le grandi organizzazioni, i dinosauri, sono spaz‑zate via quando una nuova leadership, esogena come la precedente, sostituisce i gruppi dirigenti ed azzera il passato organizzativo, la cultura ed i comportamenti cui essi avevano dato corpo. Re‑sistono a Napoli i batteri, che sanno cavalcare la volatilità e ribaltarla, assorbendone le opzio‑ni implicite, ma, proprio perché ne incorporano l’estrema disponibilità ad accelerare in ogni di‑rezione, finiscono spesso per uscire dall’orbita locale e raggiungere altre masse critiche, intor‑no alle quali trovare un nuovo e più strutturato equilibrio individuale.

L’incapacità di far nascere grandi organizza‑zioni, e di consolidarne la presenza, si presenta, insomma, come l’altra faccia di una profonda in‑continenza unita alla marcata incapacità di darsi uno scheletro sociale: capace di tutelare la pro‑pria integrità. Infine, un’ultima metafora, importa‑ta dalla biologia, nelle scienze sociali, ci racconta come la base del vivente sia la tensegrity : cioè la combinazione tra tensione ed integrità.

Nervi e muscoli, insieme, generano una leva che consente all’individuo di proiettarsi verso l’ambiente mentre lo scheletro rappre‑senta l’opportunità di preservare se stessi dal‑la compressione cui ci sottopone un ambiente troppo aggressivo. L’uomo è certamente un or‑ganismo capace di avere successo nell’intorno di se stesso.

Napoli, forzando la metafora biologica tra la città e la persona, non presenta questo carattere

di tensegrity : è dominata dalla tensione, diffusa, fin troppo, in tutti i singoli comportamenti indivi‑duali, ma non è dotata di uno scheletro affidabile. Ognuno è capace di piegare se stesso in ogni di‑rezione ed afferrare qualsiasi opportunità, com‑preso quella di farsi afferrare da forze negative. Anche quando nessuno sarebbe più disposto a scommettere sulla capacità dell’altro di riuscire in questa impresa estrema. Troppa flessibilità, anche nella direzione sbagliata rispetto al conte‑sto che ti circonda, e nessuna capacità di tenere la barra della direzione condivisa attraverso una qualche forma di organizzazione riconosciuta.

Insomma, Napoli affianca ad una natura in‑continente una evidente struttura invertebrata. Le manca una colonna dorsale che la difenda dal‑la tentazione di dilagare in ogni direzione possi‑

bile, come la gelatina7. Ed infatti, proprio come la gelatina, Napoli è tracimata nella provincia che ne ospita il Comune mentre le sue protesi trascendono anche quel confine senza avere né una forma definita né una rete di strutture che ne possano e sappiano governare il funzionamento. Nonostante questo prolasso, se venisse riordina‑ta e se si generassero al suo interno azioni col‑lettive di riordino, per gruppi di interesse e corpi sociali definiti, ma senza una grande e forzosa azione dirigista, Napoli potrebbe essere la più grande metropoli del Mezzogiorno continentale ed una delle più importanti città metropolitane europee. Essa assorbe in un’area – che rappre‑senta il 10 per cento della sola Campania – qua‑si il 20 per cento della popolazione che vive nel Mezzogiorno: una parte del Paese debole eco‑

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25nomicamente ed essa stessa incontinente. Ma questa dimensione metropolitana non corrispon‑de ad una identità urbana. Mancano istituzioni, pubbliche o private che siano, capaci di leggere i segnali rilasciati dalla realtà circostante, di ren‑dere coesi e compatibili gli interessi e le identità sociali che da quei segnali potrebbero trarre be‑nefici di carattere materiale, di realizzare i pro‑getti che quei benefici potrebbero catturare una volta decrittati i segnali e resi coesi gli interes‑si coinvolgibili. Mancano, lo abbiamo detto, sia la tensione verso il cambiamento che la solidità della propria identità.

Ed è naturale che, in queste condizioni, l’identità si risolva nella duttilità personale e che quest’ultima degeneri nel cinismo o apra una fi‑nestra di attenzione verso forme, varie e diverse, di opportunismo.

Un ultimo vizio vale la pena di ricordare. Il carattere impermeabile ed opaco delle poche organizzazioni stabili di cui disponeva comunque la città. Una spirale negativa ha reso incontinen‑ti nel tempo anche quelle organizzazioni. La im‑permeabilità verso l’esterno – cioè l’incapacità di metabolizzare, che è cosa diversa dalla capa‑cità di convivere con essi, i valori generati dalla diversità – invita gli individui ad abbandonarle per seguire l’opzione di una radicale alternativa. Perché una gerarchia organizzativa costruita sul‑la gretta custodia della propria presenza eccita l’opzione di abbandono e non quella del dialogo con la dinamica reale circostante. Si chiude, per questa strada, la relazione viziosa dell’inconti‑nenza delle grandi organizzazioni con la mancan‑za di spina dorsale dell’intera città. Circostanza che impedisce anche alle grandi organizzazione di consolidarsi ed avere successo, riproducendosi od allargandosi. Esse muoiono al tramonto delle singole personalità che le avevano generate e dominate. La cultura industriale scomparve con Giuseppe Cenzato mentre il Banco di Napoli si è dissolto per una vera e propria crisi dinastica. Restano imprenditori locali che, per conservare le proprie dimensioni economiche, devono adeguare le proprie imprese a quelle del mercato mondiale e, dunque, migrano verso luoghi dove la connes‑sione tra i loro interessi e gli sviluppi dei merca‑ti siano più solide. Restano i grandi stabilimenti delle imprese italiane di larga scala.

Ma, sia i dirigenti delle grandi imprese che

le forze imprenditoriali locali, non rappresenta‑no e non sono la parte trainante o la spina dor‑sale della classe dirigente della città e della re‑gione: come accade, purtroppo, anche nel resto del Mezzogiorno.

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iL deFicit strutturaLe di cLasse dirigente ed una virtuosa eccezione

La condizione di contendibilità per il controllo delle grandi organizzazioni è una riserva di effi‑cienza per i sistemi economici. Scalare e sostitu‑ire una proprietà inefficiente restituisce le gran‑di organizzazioni al loro compito di generare ric‑chezza: anche se devono essere frantumate per riaggregare in maniera efficiente le parti ancora vitali che, nella configurazione tradizionale, fini‑rebbero per appassire inutilmente.

Purtroppo, nel caso di Napoli, questa scala‑ta avviene sistematicamente da parte di agenti esterni, che non sono interessati al mantenimen‑to della organizzazione ma, piuttosto, alla cattura dei vantaggi monetari o di posizione che derivano dalla sua scomparsa, o dalla utilizzazione per le proprie legittime finalità delle parti ancora vitali. Questa modalità priva progressivamente la città delle sedi in cui possa ritrovarsi e confrontarsi, formarsi nel tempo la classe dirigente. Ma, in questo modo, si semplifica troppo la rete funzio‑nale che regge il corpo sociale e si esaspera la dimensione molecolare ed individuale nella dina‑mica delle azioni collettive. La vita politica, e la conversazione sui temi di pubblico interesse, si riducono, di conseguenza, ad una dimensione di solitudine sociale, che rende sterili anche le mi‑gliori intenzioni.

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La maLedizione urbanistica: immobiLi da un secoLo

Lo squilibrio tra la dimensione dei problemi urbanistici di Napoli e la lunghezza dei tempi ne‑cessari per affrontarli non è una novità della se‑

conda metà del Ventesimo secolo. Nel Dicianno‑vesimo secolo ci furono tre epidemie di colera: nel 1837, nel 1854 e quella del 1884, che determinò, finalmente, l’avvio del progetto di sventramento e risanamento urbano.

Nacque, allora, per iniziativa di imprese locali la «Società pel Risanamento di Napoli» ma, fino alla legge speciale, voluta nel 1904 dalla deter‑minazione cocciuta di Francesco Saverio Nitti, l’operazione non avrebbe mai trovato la sua con‑clusione. Dice Giuseppe Galasso, nella sua anco‑ra attualissima intervista – rilasciata nel 1978 a Percy Allum ed edita da Laterza – che «Nessun’al‑tra grande città europea dell’epoca aveva subito altrettante e così gravi traversie sanitarie»10. La singolare attualità del testo di Galasso conferma la distanza che costantemente separa la diagnosi dall’applicazione della terapia nella politica urba‑na napoletana. Galasso ricorda, in quella medesi‑ma intervista, i tre cardini dell’analisi di Nitti sul futuro possibile della nostra città nel Ventesimo secolo. Riprendere e realizzare la profezia di Ca‑vour morente, che chiedeva la trasformazione del‑la struttura economica in direzione dell’industria moderna; costruire una dimensione urbana che includesse la vasta area dei comuni circostanti, la cui crescita – autonoma e disordinata – avreb‑be circondato Napoli costringendola in una fero‑ce «corona di spine»; supportare la debole cre‑scita economica endogena con una legislazione speciale di natura fiscale. Manca nel disegno di Nitti – questa è la diagnosi di Galasso – la rile‑vanza delle infrastrutture di comunicazione e di trasporto. Manca la percezione del ruolo economi‑co delle infrastrutture e del capitale fisso sociale, che esse rappresentano: offrendo alle industrie nascenti una sponda assai più solida degli sgra‑vi fiscali e degli incentivi finanziari. Eppure le reti per la distribuzione dell’illuminazione e dell’ener‑gia, ma anche la rete del tramway, che metteva in collegamento il centro di Napoli in un raggio di oltre trenta chilometri, furono realizzate gra‑zie agli investimenti del capitale internazionale ed all’impegno delle imprese locali.

Come abbiamo già ricordato Napoli par‑tecipò attivamente alla prima stagione della globalizzazione – quella che si manifesta tra gli ultimi dieci anni del diciannovesimo secolo e lo scoppio del Primo conflitto mondiale – mentre, nel periodo successivo che separa i due con‑

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26flitti mondiali – proseguì, ma con una intensi‑tà decrescente, la spinta alla modernizzazione dell’armatura urbana, grazie al filo rosso che legava saldamente Beneduce, Cenzato e gli im‑prenditori locali.

Dietro questi riformatori, tuttavia, c’erano forze importanti ma esogene al grosso del corpo sociale cittadino ed alla sua cultura. Se si esclude la lungimiranza di Nitti si legge chiaramente, già nella prima metà del secolo, la manifestazione di un male oscuro che si è poi rapidamente diffuso nella sua seconda metà: la dimensione qualun‑quista, moderata e provinciale del clima politico cittadino. Esiste uno squilibrio davvero singolare tra la percezione, che una limitata élite nella co‑munità degli affari – di respiro realmente interna‑zionale – aveva delle opzioni aperte per la città e la capacità dell’amministrazione locale, e degli stessi parlamentari, a tradurre quelle potenzialità nell’effettiva trasformazione metropolitana del tes‑suto urbanistico cittadino. Si deve all’iniziativa di Cenzato, per esempio, il finanziamento del prg del 1939 e si deve all’iniziativa del Ministero dei Lavo‑ri Pubblici la stesura del prg del 1972, pochi gior‑ni prima che quella competenza fosse affidata ai consigli comunali. Entrambi quei piani riproducono, nel bene come nel male, l’intuizione di Nitti: aspira‑zione ad una effettiva dimensione metropolitana; ricerca di soluzioni speciali di natura fiscale; neces‑sità di dare corso all’industrializzazione del tessu‑to economico. Ma le ipotesi «illuminate» del piano del 1939 vengono travolte dalla stagione politica clerico‑moderata del laurismo.

Inizia, allora, lo svuotamento per incontinenza della classe dirigente locale che Raffaele La Ca‑pria ha raccontato nel suo straordinario romanzo Ferito a Morte. Dal 1972 Napoli non ha più pro‑dotto un ulteriore strumento urbanistico mentre, negli anni Novanta, la soluzione, peraltro malde‑stra ed incompiuta, è stata quella di procedere approvando varianti a quel prg.

Ne sono derivate scelte frammentate e ri‑ferite a singoli ambiti territoriali: condizionate, alla radice, dal rifiuto della parte positiva – e da una eccessiva enfasi sui difetti – della lezione di Nitti. Abbandono dell’ambizione industriale, da interpretare oggi evidentemente mutatis mu-tandis ; rinuncia alla logica metropolitana dell’in‑tegrazione con l’hinterland; assoluta preferenza per la finanza pubblica, e rifiuto delle soluzioni di

mercato, come leva per la realizzazione della tra‑sformazione urbana. Nel campo delle infrastrut‑ture, durante la seconda metà del secolo scorso, nacque su iniziativa delle imprese locali la prima autostrada tra Napoli e Pompei.

Ma la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, e l’ingresso massiccio dell’Iri nel settore dell’ingegneria civile, negli anni Sessanta, collocano ai margini, e relegano in una posizione subordinata e dipendente dalle scelte politiche del governo, il ruolo dell’imprenditoria privata.

Una imprenditoria che accetta abbastanza su‑pinamente – ed in qualche circostanza anche con interessato opportunismo – questa condizione.

Il terremoto del 1980, e la legislazione spe‑

ciale che seguì, avevano, intanto, come per una nemesi finale, aggravato la morsa della «corona di spine»: i residui interstizi risparmiati dall’espan‑sione urbana, disordinata ed anarchica, dei co‑muni limitrofi furono colmati dalla costruzione di edilizia pubblica ed infrastrutture. Rinunciando, ancora una volta, a dare un armatura ordinata ed un respiro metropolitano alla città.

Eppure la distanza che separa Napoli e Ca‑serta, i due termini ultimi della disordinata me‑galopoli spontanea in cui ci troviamo, è inferiore alla distanza che separa gli estremi di Manhattan: che rappresenta, invece, solo il nocciolo duro, il «cuore», di una grande metropoli contempora‑nea. […]

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27•••••

sessantacinque anni di vita poLitica: Le tendenze di Fondo

Dal 1944 ad oggi sono passati quasi sessan‑ta anni. Ed il mondo nel quale Napoli si colloca, e con il quale deve fare i conti, per adeguare la sua identità e le sue funzioni ai bisogni ed ai nuovi in‑terlocutori della scena nazionale ed internaziona‑le, è cambiato davvero molto. Questo lungo arco di tempo consente, tuttavia di guardare alla vita politica napoletana per lunghi cicli, sottraendosi alla cronaca quotidiana, e cercando di capire se e dove esistano determinanti di fondo a questa sensazione che Napoli sia rimasta uguale a se stessa, come l’intero Mezzogiorno appare nel dibattito che lo riguarda, inchiodate, Napoli ed il Sud, a problemi irrisolvibili, o se in questo eterno ritorno siano presenti anche tratti di cambiamento ed in che direzione essi possano o debbano es‑sere interpretati.

Giuseppe Galasso, nell’intervista resa a Per‑cy Allum nel 1978, risponde negativamente al suo interlocutore che legge nel ventennio fascista una nota dominante di continuità. Perché «anche la continuità esprime un mutamento: esprimeva il consolidarsi della posizione di secondo rango di Napoli nella vita nazionale e, con esso, la perdi‑ta di quella proiezione metropolitana, di quella potenzialità di influenza e di richiamo, di quella sensazione di contare, ancora e molto, in Italia e fuori […]. È in questo periodo che, dopo le gran‑di fiammate del ’700 e della belle époque, Napoli tende ancora più a provincializzarsi, si trova sem‑pre più spinta ai margini delle correnti principali della vita sociale ed intellettuale».

Il deterioramento della vita intellettuale si ri‑flette sia nella ripresa della vita politica che nel‑la emorragia delle risorse umane più giovani. Ma anche questa emorragia finisce per essere ricor‑rente. Del resto incontinenza e pressione demo‑grafica sono i due ingredienti che non hanno mai smesso di alimentare l’emorragia, cambia la qua‑lità, nel tempo, delle risorse umane che lasciano la città. Una emorragia che, negli anni Cinquanta, consolida e rafforza il declassamento di cui par‑la Galasso. Anche se il fascismo non è stato solo questo per la città. In pochissimi anni, commissa‑riando i rissosi poteri locali, vengono realizzate le

tre funicolari e la «direttissima» ferroviaria, che collega con Roma la parte di ponente della città e determina la nascita di una linea metropolitana su ferro. Viene edificata la nuova sede del Banco di Napoli e viene radicalmente trasformato l’as‑setto urbano della zona circostanze, dotando la città di edifici che esaltano, con qualche retorica che non è priva di smalto architettonico, le grandi funzioni pubbliche: dal servizio postale alla vigi‑lanza sugli enti creditizi.

Nascono anche il quartiere di Fuorigrotta e l’impianto della Fiera d’Oltremare. Senza dimenti‑care il prg del 1939, di cui abbiamo già detto.

Si presenta, insomma, con il fascismo una scissione profonda tra rapidità ed efficacia de‑gli interventi radicali di riforma e la vita politi‑ca locale.

La seconda ristagna e porta la città ad un declassamento di rango, come sostiene Galasso, mentre l’iniziativa dei manager industriali, vicini a Cenzato e a Beneduce, ed il commissariamen‑to dei poteri locali dotano la città dello schele‑tro infrastrutturale che completa, per certi versi, l’ordito realizzato da Murat nel secolo preceden‑te. Sorretta dalle strade tracciate da Murat, e dalle opere del fascismo, la città può affrontare l’espansione del dopoguerra, subirà colpi gravi ma riuscirà a sopravvivere.

Si è consolidata in questo processo di tra‑sformazioni urbane, e forse proprio per le moda‑lità che ne hanno segnato l’avvio, una idea per‑niciosa che dominerà tutte le stagioni successi‑ve: quella della legislazione speciale per Napoli. Il caso di riferimento – la legge voluta da Nitti nel 1904 – viene confermato dall’efficacia mo‑strata dal fascismo – cioè dalla tecnocrazia che governò quegli interventi – e diventa un modello ricorrente: leggi speciali e commissari entrano nel lessico di una politica locale che non riesce mai a contare sulle proprie risorse in termini di coesione interna.

La coalizione degli interessi, a Napoli ed in larga parte del Sud, si forma per impedire ad altri di fare e mai per trovare nella coesione del gruppo le ragioni per creare novità che vadano a bene‑ficio di tutti. L’invidia è più forte della solidarietà nei comportamenti collettivi.

Terminata la guerra la ripresa della vita po‑litica locale si consuma stancamente. Scompa‑iono vecchi notabilati elettorali e la Democrazia

Cristiana si articola intorno a due famiglie impor‑tanti: i Leone ed i Gava. Forti i primi nella borghe‑sia cittadina delle professioni ed i secondi nella provincia, in cui si espandono a partire da Castel‑lamare, dove Silvio Gava era arrivato dal Veneto. Ancora un trapianto dal Nord nei gruppi dirigenti locali ma anche l’inizio di un processo, ancora in atto, che ribalta i rapporti di forza tra la città e la regione nella rappresentanza politica.

Anche Giovanni Leone, del resto, trovava nei comuni a nord‑est della città la sua platea elet‑torale. Ma, in prima battuta, trionfa, sulla incon‑cludente politica locale – nonostante una nuova legge speciale voluta da De Gasperi – l’incon‑tenibile ascesa di Achille Lauro. Il Comandante dominerà la città dal 1952 al 1962: solo per dieci anni e con qualche affanno nella seconda metà del periodo. Seppe combinare il populismo del no‑tabile con una indubbia capacità imprenditoriale ed una intelligente utilizzazione della comunica‑zione di massa. Iniziano un ciclo di speculazioni edilizie di corto respiro e si consolida ulterior‑mente la distanza culturale tra Napoli ed il resto del Paese. Ci vogliono dieci anni ma la famiglia Gava ottiene il suo risultato e propone, nel 1962, uno schieramento di centrosinistra che chiude la porta alla destra. Nei dieci anni del laurismo, ma‑turano anche due esperienze capaci di restituire i tratti della contemporaneità alla vita intellettua‑le della città. Sono due riviste di cultura politica: «Nord e Sud» e «Cronache Meridionali». La prima raccoglie i giovani che si riconoscono nel talen‑to liberale di Francesco Compagna e la seconda alimenta una nuova generazione di dirigenti co‑munisti, che crescono all’ombra di un erede ano‑malo della grande cultura liberale prefascista: Giorgio Amendola.

La stagione del centrosinistra durerà fino al 1972 ma la fine degli anni Sessanta – un trauma per l’intera società italiana – rappresenta uno spartiacque importante. Prima di quella frattura il centrosinistra propone un gruppo di neotecnocra‑ti, fanfaniani ma non solo e non solo democristia‑ni, che stringono una solida alleanza con il mondo delle partecipazioni statali. Antonio Gava si sosti‑tuisce progressivamente alla leadership del padre ed assume un rilievo sempre più nazionale. Con gli anni Settanta, inoltre, nasce l’assemblea regiona‑le ed il gruppo Doroteo – al quale appartengono i Gava – trova nei basisti, eredi di Sullo, e negli

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28andreottiani due formazioni politiche capaci di arginarne il pieno dominio del campo cattolico. Il colera del 1973 ed un progressivo deterioramento della qualità dell’amministrazione, unite alla fran‑tumazione interna del mondo cattolico e dell’in‑tero centrosinistra, aprono la porta alla vittoria elettorale della sinistra del 1975. La sinistra vince per gli errori degli altri, e le loro divisioni e con‑traddizioni interne, non solo per la sua capacità di elaborare una soluzione ai problemi della città. Gava pensa che la sinistra consumerà nell’impo‑tenza del governo la rendita di posizione, che ha accumulato facendo opposizione ad un governo sempre più inconcludente. La presunta parentesi dura invece molto più del previsto e si interrompe, con un ritorno al centrosinistra in condizioni as‑sai diverse da quelle degli anni Settanta. Il nuovo centrosinistra – esaurita la stagione della giun‑ta Valenzi – nasce con una marcata leadership socialista e con l’aggregazione di forze nuove, laiche e cattoliche, intorno ad un progetto rifor‑mista che sia competitivo e non subalterno nei confronti del Partito comunista. Non per niente siamo negli anni di Craxi, lo abbiamo detto prima. Il terremoto dell’ottanta ha offerto la motivazione di una nuova forma di legge speciale. Napoli e la Campania sono destinatarie di una spesa pub‑blica alluvionale: oltre centomila miliardi di lire. È un’altra grande occasione mancata: Napoli ed il Mezzogiorno sono spinti verso uno statalismo di ritorno mentre il mondo intero viaggia verso un ritorno all’economia di mercato.

In presenza di un volume di domanda straor‑dinario ed irripetibile, nessuna delle imprese edili napoletane riesce a diventare una grande impresa europea. Ma, nonostante questo insuccesso, gli anni Ottanta propongono alla città una prospet‑tiva di cambiamento: sul terreno economico e su quello infrastrutturale. I socialisti rappresentano la molla principale di questa scommessa e creano una base di consenso che include un nuovo per‑sonale politico: nella Democrazia Cristiana, tra i liberali ed i repubblicani ma anche oltre quel pe‑rimetro. Questa formazione politica inedita eser‑cita un certo fascino su larga parte delle energie intellettuali cittadine.

La scommessa di un riformismo, meno ide‑ologico di quello comunista, coinvolge, anche chi, negli anni Novanta, si ritroverà poi nell’Uli‑vo sotto la leadership di Antonio Bassolino. Il

trauma esterno della caduta del muro di Berlino pone le premesse oggettive della crisi naziona‑le della stagione di Craxi, che si consumerà con «tangentopoli» per approdare alle nebbie della così detta Seconda repubblica. Anche se le vicen‑de nazionali subiscono la frattura marcata del tra‑passo ad un «regime bipolare» non si può negare che esista una sorta di continuità prospettica, di basso profilo nella formulazione della strategia, nella dimensione napoletana del confronto poli‑tico. Dal 1975 al 2009, per un periodo di tempo superiore ai trenta anni, si realizza un ciclo poli‑tico, segnato da un approccio riformista, che si sforza di interpretare e superare la logica degli anni del primo centrosinistra. Quello delle leggi di programmazione che si sovrappongono alla linea‑rità dei principi del primo intervento straordinario ed espandono progressivamente la dimensione e la cattiva qualità della spesa pubblica. Del resto le cose di cui si discute sono sempre le stesse: respiro metropolitano, infrastrutture, superamen‑to dell’industria tradizionale.

Le soluzioni divergono sull’ordine cronologi‑co delle scelte o sulle modalità di realizzazione. E sul conflitto tra socialisti e comunisti alla guida della coalizione. Con i gruppi dell’area cattolica, ed in particolare della sinistra di quell’area che

poi confluirà nel Partito democratico, che non si riconoscono ma si contrappongono ai dorotei, che fanno da ago della bilancia. L’opposizione dei comunisti, negli anni Ottanta, determina un solo trauma veramente rilevante e dalle conseguenze assai negative: l’inutile grande investimento per recuperare l’industria siderurgica a Bagnoli. Ri‑sorse immani vengono utilizzate in un tentativo senza futuro, del quale portano la responsabilità non solo i comunisti ma anche i governi che ave‑vano sostituito la formula dell’unità nazionale con il pentapartito. Utilizzare quelle risorse finanziarie, negli anni Ottanta ed in direzione della radicale trasformazione dell’area, avrebbe consentito alla nuova Bagnoli – quella dell’industria della cultura e della tecnologia – di essere oggi una realtà e non una chimera. Ecco ancora un rimpianto.

Le difficoltà di oggi, insomma, non possono essere considerate e non sono la conseguenza del malgoverno di Lauro e della confusa gestione del primo centrosinistra: insieme i due fenomeni durarono meno di venti anni.

Sono oltre trenta gli anni, invece, in cui il con‑fuso – ed endogenamente conflittuale – riformi‑smo della sinistra non riesce ad avviare e a gestire un radicale processo di cambiamento per Napoli. Il problema nasce dall’interno dello schieramento riformatore e non dal peso, peraltro ingombrante ma assai datato, dell’eredità della stagione pre‑cedente. Mentre al mito della legislazione specia‑le sono stati sostituiti, nei dieci anni alle nostre spalle, l’attesa messianica dei grandi eventi e la retorica della «programmazione dal basso».

In questa materia il rimorso, di aver fatto, è assai più ingombrante del rimpianto di aver man‑cato il bersaglio. Resta aperta, infine, una nuova patologia del sistema politico. Conseguenza della nuova configurazione che ha assunto il mercato politico nazionale dopo il trauma di mani pulite e la nascita della Seconda repubblica. La doman‑da di politica si aggrega intorno alla proposta di due opzioni, il bipolarismo che induce a schie‑rare soluzioni aggregate intorno a coalizioni di centrodestra e di centrosinistra.

L’offerta politica stenta a trovare la sua meto‑dologia per proporre simili aggregazioni: oscilla tra un bipartitismo, difficile e per certi versi improbabi‑le nel nostro Paese, ed una logica della coalizione elettorale che si traduce, nella fase di governo, una volta che la coalizione sia diventata una maggio‑

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29ranza capace di guidare le istituzioni, in una scarsa coesione ed in una crescente conflittualità interna agli organi esecutivi che interpretano quella mag‑gioranza e da essi sono espressi. Questa dinami‑ca dovrebbe facilitare il ricambio in presenza di un eccesso di fragilità operativa della maggioranza in carica. A Napoli, e nella Campania, questo proces‑so incontra una singolare difficoltà. Alla fragilità programmatica ed alla mancata coesione di coa‑lizione, nella maggioranza di centrosinistra, non corrisponde, simmetricamente, la costruzione di una credibile alternativa da parte del centrodestra, sia in termini di ricambio della classe dirigente che di elaborazione di nuovi contenuti programmatici. Negli ultimi quindici anni, in definitiva, sembra es‑sere collassata la vitalità del mercato politico, la sua capacità di reagire e di garantire mutamen‑ti e trasformazioni, e non solo la capacità della maggioranza di sviluppare e realizzare programmi adeguati al bisogno di trasformare la metropoli napoletana e la regione Campania che, per le loro dimensioni, rappresentano un problema senza la soluzione del quale diventa difficile affrontare la manovra più generale di trasformazione della quale avrebbe bisogno tutto il Mezzogiorno.

•••••

napoLi tra orograFia e storia

La popolazione che fondò Napoli venne dal mare ma Napoli non è mai stata una città che faceva del mare la sua ragion d’essere.

I coloni greci che presero terra su queste co‑ste si arroccarono su due alture: sul Monte Echia e sull’altopiano del Pendino. Conoscevano i peri‑coli che venivano dal mare e costruirono le pro‑prie case ad una certa distanza.

Palepolis, o Partenope che dir si voglia, era sull’altura di ponente e Neapolis, la nuova e de‑finitiva città, su quella di levante.

Il primo porto rilevante della storia di Napo‑li, il «mandracchio», viene costruito a levante di Neapolis. Da quando esiste, insomma, Napoli si colloca tra l’attuale via Mezzocannone e l’area compresa tra Porta Capuana e Porta Nolana. Ed ogni volta che si è allargata lo ha fatto verso est e nord‑est. Ponente e settentrione erano direzioni

inibite dalle asperità del terreno. Il mare era un confine che, solo nel Novecento, abbiamo potu‑to e saputo travolgere: con le colmate che hanno dato vita ad una linea di costa che non ha alcuna radice naturale. Viale Gramsci, già Viale Regina Elena, è il risultato della creatività visionaria di Lamont Young, un geniale architetto, ed anche un abile promotore immobiliare, che voleva creare un Rione Venezia su palafitte, collegato da un canale navigabile – sotto la collina – ad un area balneare per il tempo libero nel golfo di Bagnoli.

Negli stessi anni veniva interrato lo specchio d’acqua antistante Santa Lucia. Il risanamento, e la creazione del rettifilo, ridisegnavano, nel tra‑passo tra Ottocento e Novecento, radicalmente il profilo di costa in direzione di levante, allinean‑dolo al percorso di via Marina, consolidatosi poi nel dopoguerra. Ma, ben prima del Novecento, la città era cresciuta a nord di Via Foria ed in dire‑zione della pianura che la divideva da Nola e da Caserta. Espandendosi in direzione della grande arteria stradale che, dai tempi dei Romani, porta‑va a Roma e nelle Puglie: la via Appia.

A ponente Napoli si è allargata, invece, mol‑to lentamente e con una intensità molto esigua degli insediamenti. Sempre e solo per trovare nuove residenze per le classi agiate nei momen‑ti di prosperità.

Il Maschio Angioino rimase per anni un avamposto militare separato dal perimetro ur‑bano che si chiudeva molto prima delle mura della fortezza.

La valle tra il Monte Echia e il Vomero, l’attua‑le via Chiaia, si riempie solo alla fine del vicere‑gno spagnolo mentre la città tracima lentamente nella zona della riviera di Chiaia: verso i casali di Mergellina e di Posillipo. Siti assai lontani dalla dimensione urbana in senso proprio della città storica. Chiaia e il Vomero, come aree davvero urbanizzate, nascono con la belle èpoque e poi, in un secondo momento, con il fascismo, come la stessa Fuorigrotta. I Colli Aminei, l’area dei Ca‑maldoli ed i comuni contigui devono aspettare il dopoguerra ed il miracolo economico.

La saldatura si chiude definitivamente negli anni del terremoto ed anche dopo. Superato l’ar‑gine delle colline, la lava metropolitana ritrova il letto tradizionale della propria espansione: quello tracciato dalle arterie che Gioacchino Murat ave‑va aperto verso Capodimonte e Secondigliano.

Murat, insomma, è il vero progettista della residua razionalità moderna della città. Il re fran‑cese collega le aree tra il Museo Nazionale, via Foria e l’albergo dei poveri alla pianura che si svi‑luppa verso il Vesuvio. Crea una strada che unisce i casali di Posillipo alla zona della riviera di Chiaia. Grandi boulevard di sapore Hausmaniano, come Corso Secondigliano, le strade verso est; strada panoramica, per servire residenze in villa ed in‑sediamenti fuori porta, via Posillipo.

A conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che ad est andava l’espansione urbana del cor‑po della città e che ad ovest si sviluppavano le amene residenze di un numero assai ristretto di famiglie benestanti.

La prima tangenziale del Ventesimo secolo, il corso Vittorio Emanuele, chiudeva infatti il proprio anello dal Museo a Mergellina: limite della città ampiamente rispettato fino a tutti gli anni Sessan‑ta. Le grandi opere progettate dal primo centrosi‑nistra – cioè la seconda tangenziale ed il Centro Direzionale – erano coerenti con questa struttura urbana: potenziavano l’asse di nord‑est ed allar‑gavano l’anello, includendo Fuorigrotta a ponente e spingendosi fino a Capodichino a levante.

Il porto si sviluppa lungo una porzione assai limitata del perimetro urbano. Napoli non è cer‑tamente una città che si affaccia sul mare e sui traffici marittimi: come Genova o Trieste. Il por‑to nasce e si conferma, ricorrentemente, come un porto per lo spostamento delle persone e non solo e prevalentemente come un porto mercan‑tile. Lungo tutto l’arco di levante del golfo c’è un insieme di porti che non fanno sistema perché la loro storia risponde ad una logica di collegamento con singoli centri urbani che solo l’incontinenza napoletana ha messo in comunicazione: per via di terra. A Pozzuoli, prima dell’Ottocento e di Mu‑rat, invece, si arrivava passando sotto la collina nella vecchia grotta e poi con la via Domiziana, che collegava la città flegrea a Gaeta. Non esi‑steva continuità urbana lungo la costa e questo spiega la razionalità – storicamente assai datata ed incurante dei valori ambientali del sito – con cui Nitti individua Bagnoli come zona industria‑le. Quella zona era nascosta dalle colline e non comunicava con la città. La retorica industrialista del positivismo ebbe anche il suo peso, evidente‑mente. Ma la razionalità illuminata di Francesco Compagna parlava della riconversione siderurgica

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30e della delocalizzazione degli impianti petroliferi, localizzati ad oriente, dietro il porto e le strutture dei magazzini ad esso pertinenti, già al termine degli anni Sessanta.

Torniamo alla lezione che possiamo e dob‑biamo imparare da questa lunga storia. La città, proprio come un fiume, si allarga lungo le linee di minima resistenza e resta, successivamente, prigioniera del suo letto. C’è una sorta di dipen‑denza dal proprio passato nel futuro delle città ma, come per i fiumi, si potrebbe immaginare di indirizzarne i percorsi futuri: come una diga indi‑rizza le acque. Ma, a differenza dei fiumi, la forza espansiva delle città si potrebbe controllare an‑cora meglio: grazie allo sviluppo delle tecnologie e grazie alla capacità di comprenderne la dinami‑ca interna: gli interessi che danno vita alla città e che possono essere la guida della sua progressiva trasformazione. Non certo con le misure ammi‑nistrative dei piani regolatori. Le città sono, per larga parte, il risultato di un complesso di azioni individuali che trovano nella morfologia urbana, cui danno luogo, l’habitat migliore per ospita‑re la loro vita e, quindi, quella della comunità in cui gli individui si riconoscono. Le città non sono solo l’effetto di una forza prorompente e mono‑tona, come l’acqua, che scende dalle montagne verso il mare. Bisogna usare le metafore ma an‑che diffidare dalla loro interpretazione letterale. La storia di Napoli ci mostra chiaramente come l’obiettivo di una radicale modifica del perimetro e della forma urbana, a ponente e a levante, non può e non deve essere realizzato senza riflettere sulla natura del problema e sulle sue origini. A po‑nente si deve realizzare un innesto: un trapianto che sostituisca una parte rimossa e sia capace di mostrare una sua vitalità, endogena ed aggiun‑tiva, rispetto al corpo consolidato della città. Bi‑sogna risarcire lo strappo creato, e perpetuato nel tempo dalla fondazione dell’acciaieria, dalla miopia di averla ostinatamente riproposta negli anni Ottanta, dalla gracilità dei criteri con cui è stato disegnato il piano di ricostruzione, delimi‑tandolo nel vuoto che si era creato piuttosto che utilizzare quel vuoto per riconnette e riqualificare l’intero tessuto della rete urbana.

Ecco un altro rimpianto, come si capisce chiaramente!

A levante bisogna ridare un cuore pulsante ed un sistema di arterie adeguate ad una metropoli

di quasi tre milioni di abitanti. A ponente la pre‑cedente destinazione industriale lascia in eredi‑tà una concentrazione della proprietà sulle aree interessate dal progetto di trasformazione. A le‑vante bisogna riordinare un comprensorio assai più vasto, i diritti di proprietà sui suoli del quale sono assai segmentati.

A ponente si parte da zero. A Levante bisogna riordinare e restituire un senso a numerose funzio‑ni urbane. Leggiamole come in una tassonomia.

Ci sono residenze ed uffici privati; infrastrut‑ture da creare e beni naturali, o culturali come le ville Vesuviane, che sono state travolte dall’as‑senza di una proprietà, capace di gestirle con la propria autonomia patrimoniale.

Le prime sono un investimento che nessuna organizzazione privata avrebbe la forza di realizza‑re. Le seconde sono un patrimonio da conservare perché l’assenza di una proprietà le condanna al degrado o al vandalismo.

Residenze ed attività economiche trovano nella proprietà privata una stella polare capace di orientare gli investimenti ma quella proprie‑tà va tutelata con l’ordine pubblico e l’efficienza della giustizia civile ed aspetta ancora un qua‑dro di riferimento, attendibile e praticabile, in termini urbanistici. Servono, insomma, alleanze operative tra pubblico e privato per le infrastrut‑ture ed il recupero dei valori naturali e culturali. Serve un’urbanistica, rispettosa della proprietà e del suo ruolo nella trasformazione dello spazio urbano, che sia capace di collegarsi alla rete dei progetti fondati sull’alleanza tra risorse private e risorse pubbliche.

Bisognerebbe uscire dagli equivoci della «programmazione dal basso» – quella che si è spesso «incartata» nei percorsi aggrovigliati delle burocrazie comunali e degli enti pubblici, che dovrebbero gestire servizi utili e non certo programmare il futuro delle proprie comunità – e ritrovare un ragionevole equilibrio tra le struttu‑re tecniche ed organizzative, necessarie per dare luogo ad investimenti complessi, e le assemblee in cui l’amministrazione pubblica e le ragioni delle comunità locali si incontrano per trovare conver‑genze condivise sul proprio futuro.

Confondere il piano della realizzazione eco‑nomica con la dimensione del confronto sociale, la conversazione pubblica che prepara le basi di un’azione collettiva condivisa, non serve alla

realizzazione delle opere e sovrappone, invece, ambiguamente le finalità delle associazioni di cittadini e le responsabilità degli amministratori eletti dal popolo.

Impedendo alle imprese e alle famiglie di realizzare, loro che sono i veri soggetti del cam‑biamento, le necessarie trasformazioni del tes‑suto urbano.

La cultura del cambiamento, che era stata alimentata dalle speranze del 1799, trovò nel go‑verno illuminato di Murat una sponda per la rea‑lizzazione delle proprie aspirazioni.

La belle èpoque, con le debite proporzioni ed una ragionevole percezione delle differenze di contesto, rappresentò una stagione proficua per il cambiamento delle forme e delle funzioni della città. Perché trovò un equilibrio tra le ragioni dell’investi‑mento privato – e la sua creatività – e l’intelligenza, unita alla tolleranza, con cui i pubblici poteri inca‑nalavano gli interventi delle forze in campo. Proprio come si deve incanalare l’acqua del fiume quando si vuole governare il suo flusso futuro.

L’esperienza del ventennio proseguì, dopo la guerra ma con una derivata decrescente, la ten‑denza del primo decennio del secolo.

La comunità urbana vive di forze potenti, di esigenze che spingono gli individui, singolarmente o associati, a trovare le soluzioni necessarie per i loro problemi. Pensare di ignorare quelle forze, e di poter disegnare le città senza tenerne conto, è opera presuntuosa e pericolosa insieme. E, per non andare troppo lontano nella ricerca di solu‑zioni praticabili, basta pensare che Salerno ha certamente cambiato se stessa negli anni No‑vanta molto più radicalmente di quanto Napoli sia stata capace di fare.

note6 Sulla interpretazione con strumenti non convenzionali,

dal punto di vista disciplinare, delle dinamiche economiche si rimanda a M. Lo Cicero, Entropia ed Economia, Insidie e vantaggi di una relazione pericolosa, in L’Acropoli, rivista bimestrale diret‑ta da Giuseppe Galasso. Agosto 2002. Rubbettino.

7 Dal prg del 1972, rimasto lettera morta, a quello appro‑vato dopo quasi dieci anni di discussioni, dal Comune di Napo‑li, quando, con Antonio Bassolino la sinistra torna al governo della città, sono quasi quarant’anni che la città non trova una politica urbanistica adeguata a se stessa.

10 G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli (a cura di Percy Allum), Laterza, Roma‑Bari 1978.

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Come da venti anni a questa parte, di recente Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes han‑no presentato il “Dossier Statistico Immigrazione 2010” 1. L’Italia si conferma, fuor di ogni ragionevo‑le dubbio, un grande Paese di immigrazione: l’Istat, al 31 dicembre 2009, stima la presenza migratoria in 4.235.000 residenti stranieri. Tuttavia, il Dos‑sier, includendo tutti coloro che, pur regolarmente soggiornanti, non sono ancora iscritti in anagrafe, arriva a determinare un computo di 4.919.000 per‑sone, in pratica 1 migrante ogni 12 residenti.

Dall’anno 2001, poi, all’interno del Dossier, sono stati inseriti dei capitoli di approfondimento regionale, che consentono di monitorare costan‑temente le variazioni quali‑quantitative che inter‑corrono, di anno in anno, a livello territoriale.

A fine 2009, la Campania consolida ulterior‑mente il suo ruolo di regione guida del fenome‑no migratorio nell’Italia Meridionale. È bene pre‑cisare che, nel Mezzogiorno, dimora appena il 9,3% dei migranti regolarmente soggiornanti in Italia (che, viceversa, sono presenti per il 35,6% nel Nord Ovest, per il 26,6% nel Nord Est, per il 25,3% nel Centro Italia ed infine per 3,8% nelle Isole) e, dunque, questo dato dimostra una certa residualità del fenomeno sui nostri territori (anche se molti studiosi sono concordi nell’affermare che, in virtù di tutta una serie di precisi indicatori, sul

1 Caritas/Migrantes, Dossier statistico immigrazione, 2010, Edizioni Idos.

Meridione d’Italia graviti la gran parte dell’immi‑grazione clandestina).

Come dicevamo, la Campania si classifica come settima tra le regioni italiane, contemplan‑do la presenza migratoria del 3,5% del totale na‑zionale. Detta presenza è passata, nell’arco di un ventennio (1991‑2010) dalle 31.801 presenze dei primi Anni ’90 del secolo scorso alle stimate 202.647 presenze dei giorni nostri, denotando no‑tevoli livelli di crescita che si avvicinano al quel‑lo nazionale. Si calcola che il 37,3% dei migranti presenti nelle regioni meridionali si sia stabilito proprio in Campania dove, tuttavia, essendo ab‑bastanza elevato il livello di crescita della popo‑lazione autoctona, l’incidenza dei migranti sui residenti è di appena il 2,8%.

Il Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes 2010

“La strutturalità del fenomeno migratorio in Campania”Vincenzo Federico e Giancamillo Trani

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Le differenze di genere segnalano una netta prevalenza di quello femminile (58,3%), dato che trova immediato riscontro nella massiccia presen‑za di donne di origine straniera impiegate nelle cd. professioni ancillari (baby sitter, colf, badanti) che, con il loro prezioso ed insostituibile lavoro, concorrono a colmare le vistose falle del sistema complessivo di welfare locale. Viceversa, se para‑gonato ad altre zone d’Italia, il peso statistico delle cosiddette G2 (le seconde generazioni, in pratica i figli dei migranti) è piuttosto modesto (16%), dato che va collegato ad insediamenti di tipo più recen‑te ma, soprattutto, alle caratteristiche socio‑ana‑grafiche del campione di riferimento.

Rispetto ai migranti che si sono stabiliti in Campania, l’analisi delle provenienze conti‑nentali evidenzia un elemento di primaria im‑portanza: ben il 62% del campione è originario dell’Europa (con una netta prevalenza di quella Centro – Orientale), con una cospicua rappresen‑tanza di Paesi neocomunitari (Romania, Polonia e Bulgaria) che si affiancano a quelli extracomu‑nitari (Ucraina, Albania, Russia, Moldavia e Bie‑lorussia). A seguire, la presenza dei migranti ori‑ginari dell’Africa (18%), con i cittadini dei Paesi maghrebini (Marocco, Tunisia, Algeria) che, da soli, rappresentano ben il 68,5% del totale conti‑nentale. Subito dopo troviamo i migranti originari dell’Asia, con una percentuale del 15% del totale: da segnalare la costante crescita degli immigrati originari della Cina, mentre rimangono interessan‑ti le percentuali di presenza dei migranti prove‑nienti da Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh. Tra l’altro, le comunità asiatiche denotano una mag‑giore propensione a mettere al mondo dei figli, in Italia: il dato è da collegarsi alla più giovane età delle donne asiatiche (rispetto, ad esempio, a quelle dell’Europa dell’Est), ed ai progetti mi‑gratori di più ampio respiro temporale. Chiudendo il discorso relativo alle provenienze continentali, possiamo affermare che il peso statistico dei migranti originari delle Americhe è, in regione, abbastanza residuale (5%).

La ripartizione provinciale vede primeggiare il capoluogo di regione: Napoli è la prima città del Mezzogiorno quanto a presenza migratoria, ed ac‑coglie il 46,9% dei migranti residenti in Campania. Percentuali consistenti vantano anche Salerno (22,8%) e Caserta (19,6%), mentre le altre due

province campane si dividono il rimanente delle presenze: Avellino (7%) e Benevento (3,7%).

Come accennato in precedenza, oltre che consistente il fenomeno migratorio in Campania è contrassegnato dalla profonda varietà nella com‑posizione del bouquet di nazionalità: sono ben 165 quelle annoverabili nel campione regionale.

Questa estrema varietà è una delle caratteri‑stiche che si accompagnano al fenomeno migra‑torio in Italia e che, in qualche modo, possono parzialmente giustificare i ritardi e le difficoltà del legislatore nel governare un fenomeno con‑traddistinto da cotanta diversità. Se pensiamo ai grandi Paesi europei di immigrazione (Germa‑nia, Francia e Regno Unito) che, prima di Italia e Spagna (mete di fenomeni migratori molto più recenti) hanno sperimentato le difficoltà legate all’inclusione sociale dei migranti, dobbiamo ne‑cessariamente operare dei doverosi distinguo. In primo luogo, Francia ed Inghilterra si sono con‑frontate con migranti originari delle loro ex co‑lonie che, proprio come tali, nella maggior parte

dei casi ne conoscevano la lingua e l’ordinamento giuridico. La Germania, prima del cimento dell’in‑tegrazione con i tedeschi dell’Est (oltre 15 milio‑ni di persone), si era misurata con tre principali flussi migratori: i turchi, gli italiani ed i cittadini originari della ex Jugoslavia. Viceversa, oggigior‑no, Italia e Spagna si stanno confrontando con un fenomeno migratorio che potremmo definire figlio della globalizzazione, sforzandosi di armonizzare genti diverse per provenienza, usi, costumi, lin‑gua e religioni: una enorme ricchezza, ma anche una sfida molto impegnativa!

Tornando alle nazionalità che compongono il campione campano, dobbiamo altresì sottoline‑are come il 75,1% del totale sia appannaggio di sole dieci comunità: Ucraina (22,6%), Romania (16,4%), Marocco (8,3%), Polonia (7,3%), Cina (5,2%), Albania (4,3%), Sri Lanka (4,1%), Bulga‑ria (2,9%), Algeria (2%), Tunisia (2%). Il che, ov‑viamente, implica che il restante 24,9% del cam‑pione va suddiviso tra le rimanenti (si fa per dire) 155 comunità straniere presenti in Campania. A

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corroborare le analisi effettuate in precedenza, interessante anche notare come il genere femmi‑nile prevalga nelle comunità ucraina, romena, po‑lacca e bulgara, mentre quello maschile in quelle marocchina, albanese e srilankese.

Alla base del soggiorno dei cittadini migranti (in Campania come nel resto del Paese) il motivo prevalente è quello del lavoro (55,7%). Tuttavia il notevole peso statistico dei ricongiungimenti familiari che stanno alla base del rilascio dei re‑lativi permessi di soggiorno (37,2%) è un ulterio‑re, importantissimo indicatore della progressiva stabilizzazione del soggetto migrante, e testimo‑nia – oltre alla sua progressiva sedimentazio‑ne – il passaggio fondamentale del fenomeno mi‑gratorio da momento congiunturale a consolidato elemento strutturale della società campana. Asilo politico, studio ed altro ancora stanno alla base del rilascio del 5,7% dei permessi di soggiorno, mentre è statisticamente rilevante far osservare come l’1,4% dei permessi di soggiorno venga ri‑lasciato per “motivi religiosi”, dunque a ministri

di culto e religiose non soltanto cattolici, bensì anche di altre confessioni.

Analizzando più in dettaglio il lavoro migrante, notiamo che quello subordinato (85,6%) prevale di gran lunga su quello autonomo (13,7%) nonché su quello stagionale (appena 0,7%): in quest’ultimo caso, però, è d’obbligo sottolineare come, nella stagionalità, sia più massiccio il ricorso a manodo‑pera straniera irregolare. Purtroppo, la necessità di uscire dalla crisi, ha abbassato il livello delle re‑gole, favorendo il caporalato ed indebolendo il ver‑sante dei diritti. I primi a pagarne le conseguenze sono proprio gli immigrati che, nel momento in cui perdono il lavoro, diventano preda di chi compete comprimendo i costi. Le più o meno recenti vicen‑de di Castel Volturno e San Nicola Varco (solo per restare in Campania e senza dimenticare quella di Villa Literno di alcuni anni fa) stanno tragicamen‑te a dimostrarlo. Tra i comparti produttivi nei quali maggiore è il ricorso al lavoro dei migranti troviamo quello dell’edilizia (13,5%), del commercio (12,4%), dell’agricoltura (11,9%), della ricettività alberghiera

e della ristorazione (10,4%). Non tragga in ingan‑no la percentuale tutto sommato contenuta (6,6%) della collaborazione domestica e familiare: anche in questo caso, il ricorso al lavoro nero ed alla manodopera irregolare è davvero imponente, con buona pace di tutti e come stanno tristemente a dimostrare anche i deludenti esiti della sanatoria colf/badanti del settembre 2009.

Concludendo, ci sia concessa qualche ulterio‑re considerazione sull’importanza della ricchezza prodotta dai lavoratori migranti: se, a livello nazio‑nale, si stima che il lavoro degli immigrati rappre‑senti oltre l’11% del nostro Pil (ovviamente, senza la possibilità di tenere conto del valore aggiunto prodotto dal lavoro irregolare), si deve conside‑rare anche l’entità delle rimesse economiche che i lavoratori migranti inviano alle famiglie nei Paesi di origine. Per fornire qualche dato utile a meglio comprendere quanto si sta esponendo, basti pen‑sare che – nel decennio compreso tra l’anno 2000 ed il 2009 – i migranti soggiornanti in Campania hanno inviato in patria ben 1.517.531.000 di euro, (con una media annua di 101.169.000 euro), pari al 4,5% del dato complessivo nazionale ma ben al 49,3% del totale delle rimesse nel Meridione. Dalle statistiche prodotte dalla Banca d’Italia, si evince che gli immigrati maggiormente impegna‑ti ad inviare i propri guadagni presso le famiglie in patria sono, in Campania, quelli di nazionalità cinese i quali, nel 2009, hanno inviato risparmi pari al 29,2% del totale regionale delle rimesse (interessante ricordare che la comunità cinese è solo al quinto posto, per numero di soggiornanti, tra quelle presenti in Campania e notare, inoltre, come ben il 99,2% delle rimesse cinesi si registri nella sola provincia di Napoli). A seguire, facendo segnare una notevole differenza, si classificano la comunità romena, quella ucraina, la comunità marocchina e quella russa.

Vincenzo Federico, Delegato Regionale Caritas Campania per il 2010/2015. È tra i redattori del “Diossier Statistico Immi‑grazione” Caritas/Migrantes e del “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes.

Giancamillo Trani, Vicedirettore Caritas Diocesana di Napo‑li e referente Area Immigrazione Delegazione Regionale Caritas Campania. È tra i redattori del “Dossier Statistico Immigrazio‑ne” Caritas/Migrantes e del “Rapporto Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes.

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F O C U S P E R M A N E N T E

A cura di Carmine Zaccaria

Il 2010 sI chIude con la condanna dI MIchaIl chodorkovskIj, uno degli oligarchi della Russia di Eltsin. Questo caso ha

fatto discutere e farà ancora discutere in futuro. La grande stampa ha dedicato spazio a questa vicenda tutta interna

alla Federazione Russa. Ma meno spazio di quanto ci si po‑teva aspettare. I tempi sono cambiati e chi ha il controllo dei

media a livello mondiale continua ad attaccare la Russia, ma con moderazione rispetto al passato anche in considerazione del posizionamento della Federazione tra le poche grandi poten‑ze. La Grande Scacchiera vede la Russia di nuovo protagonista e con un ruolo di primo piano, questo invita alla moderazione. Questo è quello che emerge da una prima lettura. Il Focus deve avere una visione che colga anche le sfumature, i lati nascosti di questi accadimenti. La prima impressione è che sono, solo in parte, cambiati i sistemi di contrasto e che la Russia rima‑ne sotto attacco da parte di forze oscure che si muovono a livello internazionale. Entità sovrastatali che nei vari paesi

giocano una partita fuori da ogni controllo, collegate tra loro da grandi interessi economici e politici. Ben nascoste agli

occhi dei popoli, ma bene identificate da analisti attenti. Noi siamo tra questi. La strategia è più sofisticata ma il

bersaglio è lo stesso. L’uomo di punta di questo Pa‑ese: Vladimir Vladimirovic Putin. Il Primo Ministro

della Federazione Russa è intervenuto in que‑sta vicenda in difesa della piena autonomia

del Paese nello scacchiere internaziona‑le, in particolare quando si tratta di

giustizia ritenendo affari interni ogni decisione presa. Ma

guardiamo i fat‑

ti ed esaminiamo lo scenario all’interno del quale ci muoviamo. Cosa è accaduto negli anni di Eltsin? Anni difficili e turbolenti dopo il crollo della di‑sciolta Unione Sovietica durante i quali molti hanno approfittato per depredare le ricchezze della Russia mentre Boris Eltsin tentava di tenere unito quanto restava dell’URSS. In questi scenari di degrado e arricchimento illecito (il senso di queste due parole è servito in Italia a liquidare la Prima Repubblica) nasceva e cresceva la stella Chodorkovskij, l’uomo del Pe‑trolio, il grande manager che con pochi spiccioli comprava il grosso delle risorse energetiche della Russia e quindi del Pianeta! Tra queste figure brillano di luce sinistra molti dei responsabili della crisi mondiale in corso che molti popoli del‑la Terra stanno pagando sulla propria pelle. Ma vediamo i fat‑ti, quelli salienti. Andiamo oltre le vicenda giudiziaria in attesa degli ulteriori gradi di giudizio. Chi è veramente Chodorkovskij? E quali obbiettivi si prefiggeva di raggiungere. Forse la chiave di lettura è tutta in questo interrogativo. Fuori da ogni dubbio è l’appropriazione delle risorse energetiche della Fedarezione Rus‑sa, ma per farne cosa? Per obbiettivi che vanno ben oltre il solo business. Il dato importante è che nonostante la differenza di opinioni su alcuni punti, i rapporti della UE con la Federazione Russa non registrano battute di arresto, anzi procedono in tutte le direzioni. Anche con l’America il dialogo della Fede‑razione prosegue e molti risultati concreti sui problemi di fondo lasciano ben sperare. Un contributo interessante nei rappoti UE‑RUSSIA‑AMERICA potrebbe venire dal Governatore della Stato di New York appena eletto: Andrew Cuomo. Figlio di Mario Cuomo, Governa‑tore per molti anni, e di Matilda Raffa Cuomo è ormai una stella nel firmamento politico americano. I Cuomo, una famiglia che non ha mai dimenticato le sue ori‑gini italiane. Da queste pagine un augurio a Andrew di buon lavoro!

R A P P O R T IU E ‑ R U S S I A

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F O C U S P E R M A N E N T E

IL CORPO FORTE DELL’UNIONE DEGLI STATI

Un’entità sovranazionale come l’Unione tra Russia e Bielorussia abbisogna, per la sua rea‑lizzazione piena, di un cammino lungo, di regole istituzionali chiare e strutturate e di un sentire comune dei popoli che scelgono di affrontare una sfida così grande. Si tratta, in ogni caso, di un progetto che va visto al di là dell’apparenza for‑male perché lo sguardo superficiale alle forme e alle regole induce spesso, chi lo adopera, a erra‑ti giudizi di vaghezza. Un progetto come questo, che ha tutto per rivelarsi vincente, non può iniziare e finire in breve tempo. Probabilmente ha avuto occhio lungo chi in un quadro di ovvia instabilità, come quello generato dalla fine dell’Unione So‑vietica, aveva ritenuto utile avviare un processo di armonizzazione politica ed economica tra due Stati così importanti come Russia e Bielorussia. Perché è in quegli anni che nasce l’idea di una istituzione sovranazionale tra i due paesi. Ad av‑viare il processo infatti fu Boris Eltsin, mentre in precedenza c’era stata solo una proposta del Pre‑sidente kazako Nursultan Nazarbaev di creare una Unione Euro – Asiatica. Il “Trattato di creazione dell’Unione Statale di Russia e Bielorussia è sta‑to firmato l’8 dicembre del 1995. L’idea è quella di una Federazione con Presidente, Parlamento, bandiera, stemma, inno, costituzione, eserci‑to, cittadinanza e moneta comuni. Il trattato fu ratificato dalla Duma il 22 dicembre del 1999 e dall’Assemblea Nazionale Bielorussa il 26 gen‑naio 2000, data dalla quale il Trattato e l’Unione sono ufficialmente in vigore. È stato anche deli‑neato il quadro istituzione dell’Unione con l’isti‑tuzione dei diversi organi. Un Consiglio Supremo di Stato, composto dai Presidenti, Primi Ministri e rappresentanti delle camere dei Parlamenti di en‑trambi i paesi. Ciascuno stato ha un voto nel Con‑siglio, a significare che tutte le decisioni devono essere prese all’unanimità. Un Consiglio dei Mi‑nistri, composto dai Primi Ministri, Ministri degli Esteri, dell’Economia e delle Finanze di entrambi

i paesi e dal Segretario di Stato dell’Unione. Un Parlamento dell’Unione, un Parlamento bicamera‑le comprendente una Camera dei Rappresentanti, che comprende 75 deputati russi e 28 bielorussi, nominati dagli elettori di ciascun paese, e una Camera dell’Unione, con lo stesso numero di de‑putati (36) da ciascun paese scelti dai rispettivi Parlamenti. Una Corte dell’Unione, composta da nove giudici che restano in carica per sei anni. E infine, una Camera di Controllo per la gestione economica. Alexandr Lukashenko è il Presidente del Supremo Consiglio di Stato, Pavel Borodin è il Segretario di Stato. Primo Ministro dell’Unione dei Paesi Russia‑Bielorussia è Vladimir Putin.

In una recente visita in Italia, lo stesso Boro‑din ha spiegato quali sono i punti sui quali l’Unione deve meglio svilupparsi e rafforzarsi. Il Segretario di Stato ha affermato che occorrono “Un periodo di transizione, una fase di costituzione e 5 punti da realizzare presto: confine unico, servizio doganale unico, servizio unico di polizia di frontiera, esercito, politica di finanza e credito. L’esempio può essere quello dell’Unione Europea, quando le decisioni sono prese da una Commissione e non dai sin‑goli Presidenti o da Ministri dell’Unione”. Ma nel corso della sua visita nel nostro paese, Borodin aveva toccato diversi punti. Sempre sull’Unione degli Stati ha detto che “Ci vorrà innanzitutto una base normativa e legislativa. Tengo a sottolinea‑re, ancora una volta ufficialmente, che non si par‑la assolutamente di un ingresso della Bielorussia nella Federazione Russa. Si parla di un apparato confederativo. Ci sono funzioni che neanche la Russia può svolgere. Si tratta dei settori industria‑le, agrario, militare, aeronautico, della politica dei prezzi, della finanza e del credito. L’Unione Europea ha fornito un ottimo esempio. Possiamo solo ap‑plaudire alle leggi economiche e all’organizzazio‑ne fatta in maniera perfetta. Si parla del fatto che tutta l’Unione Sovietica deve essere rifatta ma su base confederativa e poi deve riunirsi con l’Unione

Europea”. E ponendo ancora una volta l’accento sugli ottimi rapporti commerciali tra i due paesi perché “Il patto fatto tra Russia e Bielorussia fa parte di un lavoro tra i Presidenti di Bielorussia e della Federazione Russa. Oggi, in quanto a merce venduta tra i due paesi e in tutta l’ex Unione So‑vietica, al primo posto c’è la Bielorussia. L’Ucraina è cinque volte più grande della Bielorussia, anche il Kazakhstan è più grande, ma le relazioni tra Rus‑sia e Bielorussia sono più ampie”.

La presenza di Borodin in Italia aveva grande importanza proprio per le relazioni commerciali col nostro paese. Il bilancio degli incontri coi nostri imprenditori è stato molto positivo. Pavel Borodin ha tenuto a dire: “Quando lavoravo nell’apparato del Presidente collaboravo con 22 ditte italiane. Lavoravo dal Parlamento, dal Cremlino e ho fatto tutto grazie alle ditte italiane con cui collaboravo. Certo che qui ho avuto una discussione molto pro‑duttiva perché abbiamo parlato del settore aero‑nautico (per esempio per la manutenzione degli aerei sia a Minsk sia a Mosca), del settore agrario, del settore industriale, di finanza e credito e delle strette relazioni commerciali tra Bielorussia, Rus‑sia e Italia”. Il Segretario di Stato ha apprezzato soprattutto la concretezza delle proposte delle aziende italiane: “È stato piacevole – ha afferma‑to – l’incontro con i grandi imprenditori perché la discussione era incentrata su alcune proposte commerciali molto concrete nei settori industriale, per quello aeronautico e altri ancora. Si è parlato anche in maniera dettagliata del percorso aereo obbligato tra Europa, Russia e Bielorussia. Ma, principalmente, di programmi tra Russia, Bielo‑russia e Italia sui progetti comuni che possono essere realizzati in concreto e con competenza e che producono posti di lavoro, cosa molto impor‑tante per noi e per voi”. Questione che è “la cosa più importante per un dirigente. Ripeto, abbiamo messo tale questione sopra le altre. I posti di la‑voro in Russia, Bielorussia, Italia, Unione Europea

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F O C U S P E R M A N E N T E

Le conclusioni del Focus precedente hanno dato spazio alla cultura parlando del 2011 quale anno della Russia in Italia e dell’Italia in Russia. Qui torniamo a trattare ancora una volta di Ener‑gia e di Petrolio in particolare. La Russia nel 2009 supera l’Arabia Saudita in quanto a produzione di greggio. Questo, però, è un dato di minore importanza rispetto alla saldatura Russia‑Cina avvenuta in questi giorni. Da Taishet, in Siberia (in russo Sibir’, Terra Addormentata), a Daqing in Cina, corre un oleodotto, appena inaugurato, di 3813 chilometri che attraversa la Mongolia, splendida terra di grandi tradizioni. Ma questo è solo l’inizio. Le pipeline arriveranno lontano: entro il 2014 raggiungeranno Corea e Giappone. La Russia è un attore globale che da queste pa‑gine seguiremo con attenzione. L’Europa dovreb‑be guardare in lontananza e presto per evitare di poter solo scorgere quanto sta accadendo e non cogliere i profili del Mondo che ci aspetta con i suoi cambiamenti repentini e di fondo. La Casa europea è costata grandi sacrifici a chi ha lavo‑rato per costruirla, ma il cortile di casa è stret‑

to e angusto. E i parametri adottati in Europa a volte poco si addicono a scenari così vasti e complessi quali quelli che stiamo trattando. La Cina ha raggiunto un obiettivo ambito: il Gas rus‑so. In quantità enorme. I rapporti tra i due paesi saranno ancora più stretti. L’Europa dovrà fare qualcosa di più in direzione della Federazione Russa per non restare fuori dal Grande Gioco, non solo energetico. Spingere sempre di più la Russia verso la Cina è dannoso per il futuro dei popoli d’Europa. Putin durante la sua presidenza ha creduto molto nel consolidamento del rappor‑to con l’Europa e ha dimostrato grande apertura anche verso l’America. Non è stato ripagato in modo adeguato né in Europa nè in America. La sua politica di apertura verso una grande alle‑anza contro il terrorismo internazionale è stata sottovalutata. Il consolidamento delle relazioni tra i paesi dell’Eurasia è una realtà. Russia, Cina, Kazakhstan, Tajikistan, Kirghizistan sono nella Cooperazione di Shangai. Certo la Cina preme a livello demografico sui confini russi in Siberia e questo può creare qualche tensione nei rapporti

bilaterali. Molti analisti pensano possa esserci un alto rischio alle frontiere ma siamo sicuri che non inciderà nei rapporti che legano i due paesi anche purché la Cina sa bene che oltrepassare il confine. Nello scenario globale in Eurasia gio‑cherà un ruolo importante il Kazakhstan, Paese emergente del quale sentiremo parlare molto in un futuro non lontano. L’Italia è uno dei paesi più attivi nei rapporti con la Federazione Russa. Gazprom ed Eni prorogano fino al 2012 l’accordo strategico siglato nel 2006 e in scadenza il 31 dicembre 2010. Miller e Scaroni hanno firmato confermando così la volontà di procedere uniti in molte direzioni. Al centro delle future strate‑gie comuni c’è il progetto South Stream. Questo sistema di gasdotti, attraversando il Mar Nero, collegherà la Russia all’Unione Europea e con‑tribuirà a darci garanzie per il nostro sviluppo. L’Italia sarà protagonista in questa grande av‑ventura che garantirà all’Europa l’approvvigio‑namento di energia.

hanno collaborato al Focus Paolo Montefusco e olga Gleb

Conclusioni del Focus

e in Estremo Oriente sono un problema sempre attuale”. “Inoltre – ha concluso – gli imprenditori italiani, che collaborano con me dal 1993, sanno benissimo che per ogni investimento c’è un ritorno, che ognuno avrà i suoi vantaggi. Credo si possa parlare di scambi per circa 100 milioni di dollari l’anno. Un programma lavorativo che si occupa soprattutto di posti di lavoro per le persone che vivono in Italia”.

Tornando al discorso iniziale, possiamo dire che il momento storico che stiamo vivendo ci aiu‑ta a capire meglio, oggi, quale sia l’importanza di un’entità come l’Unione dei Paesi di Russia e

Bielorussia. I Paesi dell’ex Unione Sovietica sono stati, negli ultimi anni, prima nuova frontiera e poi area di pieno sviluppo di rapporti commer‑ciali con il resto dell’Europa. Oggi l’importanza di quei rapporti è chiara a tutti: non solo fonti ener‑getiche, preoccupazione primaria, ma possibilità di crescita per le aziende che lavorano insieme. Oggi è chiara, quindi, anche l’importanza strate‑gica sullo scacchiere geopolitico globale della Fe‑derazione Russia guidata da Putin e Medvedev. I rapporti commerciali tra Russia e Bielorussia vedono quest’ultima primo partner della Fede‑razione. Per il resto, parlano i numeri: nel 1999

la merce venduta tra Russia e Bielorussia era di 6,8 miliardi all’anno. Adesso, lo scambio di merci ammonta a 35 milioni di dollari l’anno. Sono stati creati 5 milioni di posti di lavoro in tutti i campi: industriale, militare, agrario, commerciale. Oggi l’85% del transito di petrolio tra Russia ed Europa passa per la Bielorussia. L’Unione dei Paesi Rus‑sia e Bielorussia, pur nel suo work in progress, è di fatto un corpo forte e in crescita continua. Con buona pace di chi lo considera vago e con buone, anzi ottime, prospettive di chi, come l’Italia, ha con quei due grandi Paesi forti rapporti di amici‑zia e collaborazione in tutti i campi.

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41R E C E N S I O N I

La nuova edizione di questo for‑tunato volume, che esce a tre anni di distanza dalla precedente, si concen‑tra sulle trasformazioni introdotte dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009, sul profilo com‑plessivo dell’azione esterna dell’Unio‑ne Europea. Lisbona, infatti, presenta alcuni dei suoi più importanti elementi d’innovazione istituzionale proprio nel vasto ed articolato campo delle relazio‑ni esterne dell’Unione: dall’istituzione della nuova figura dell’Alto Rappresen‑tante per gli Affari esteri e la Sicurezza Comune/Vice Presidente della Com‑missione Europea al coordinamento ad esso affidato dei vari Commissari legati alla proiezione esterna dell’UE; dalla creazione del Servizio europeo per l’azione esterna, che metterà pre‑sto in campo una nuova generazione di “diplomatici europei”, alla migliore definizione delle cooperazioni raffor‑zate (ora cooperazione permanente strutturata in materia di difesa); dal si‑gnificativo cambio di nome della Politi‑ca europea di sicurezza e difesa (PESD) in Politica comune della sicurezza e di‑fesa (PCSD), all’ancora più accentuato coinvolgimento del Parlamento europeo nel complesso della politica estera dell’Unione. Il libro presenta le novità intervenute con il Trattato di Lisbona sia sotto il profilo giuridico che istitu‑zionale, ma offre anche un’analisi con‑vincente delle potenzialità e dei limiti dell’aspirazione dell’UE ad agire come attore globale, così come un quadro esauriente degli scenari geopolitici che attendono alla prova la politica estera europea. Di fronte ad un processo di globalizzazione sempre più marcato e all’emergere di nuovi protagonisti mon‑diali, l’Europa non può infatti mancare di far sentire la sua voce negli scacchie‑ri decisivi dei nuovi equilibri mondiali: l’est Europeo, la Russia, il Mediterra‑neo, il Golfo Persico, la Cina.

Il volume, che si avvale della prefa‑zione di Luigi Ferrari Bravo e della post‑fazione di Gianni Pittella, primo Vice Presidente del Parlamento Europeo, si

articola in quattro contributi che, nel loro insieme, offrono strumenti di ana‑lisi e spunti di riflessione indispensabili per comprendere il ruolo dell’Unione Eu‑ropea nei nuovi assetti globali. Il saggio di apertura, di Cosimo Risi, affronta il tema cruciale dei “confini dell’Europa”, letto alla luce delle vicende che hanno portato al quinto processo di allarga‑mento (2004‑2007), delle prospettive del sesto (Turchia, Croazia, Balcani oc‑cidentali, Islanda), così come delle poli‑tiche UE verso le aree limitrofe: Politica Europea di Vicinato, Partenariato Orien‑tale, Processo di Barcellona – Unione per il Mediterraneo. La grande Europa, secondo il curatore del volume, dovrà superare la consueta dicotomia “al‑largamento – approfondimento” e non potrà non assumersi “la responsabilità dei problemi del mondo. E questo non per ambizione di potenza, ma perché la comunità internazionale si aspetta che intervenga in funzione equilibratrice rispetto ai vecchi e nuovi attori della scena mondiale”. Il secondo studio, di Alfredo Rizzo, esamina in modo ampio e circostanziato gli aspetti essenziali del‑

le riforme istituzionali e giuridiche che, con il Trattato di Lisbona, incideranno in particolare sul settore delle compe‑tenze esterne dell’Unione. L’analisi è ef‑ficacemente svolta area per area, con un’immediata comparazione tra l’attri‑buzione di competenze ricavabile dal si‑stema pre – e post – Lisbona. I rapporti tra l’UE e le organizzazioni che sorgo‑no attorno ad essa sono al centro del contributo di Piero Pennetta. Lo studio è ampio ed articolato, ed abbraccia le relazioni dell’Unione con le organizza‑zioni regionali dell’ex URSS, del mondo arabo‑islamico, dell’Africa subsaharia‑na, dell’America Latina e caraibica e dell’area del Pacifico. Si tratta di rap‑porti, come messo in evidenza dall’au‑tore, che si sviluppano in almeno tre direzioni complementari, di carattere economico‑commerciale, di assistenza allo sviluppo e di impianto più propria‑mente politico e di sicurezza. Infine, il tema quanto mai attuale delle relazioni tra l’UE la Cina, che sempre più incom‑be sulla scena globale, occupa lo scritto di chiusura del volume, di Luca Trifone. Le relazioni tra i due attori, sottolinea

l’Autore, possono essere definite quan‑tomeno ambivalenti: da un lato l’ottimo interscambio economico, con l’UE che rappresenta il primo partner commer‑ciale della Cina e la Repubblica Popolare al secondo posto tra i partner dell’Unio‑ne; dall’altro i rapporti politici che, pur vicini su alcune questione di fondo e su temi più immediati, risentono in manie‑ra decisiva di una diversità di valori di fondo che spesso spinge le due parti su sponde lontane. Se l’ingranaggio sino‑europeo appare pertanto ancora poco oliato, tuttavia il rapporto di sem‑pre più evidente reciproca attrazione tra Pechino e Washington e le previ‑sione di G2 ritenuto l’assetto di potere più probabile dei prossimi anni non può non chiamare in causa l’Unione Euro‑pea, la cui azione in questo contesto rischia di rimanere fortemente limitata e circoscritta.

A più di cinquanta anni dall’avvio del processo di integrazione in un’Eu‑ropa spazzata dai venti della guerra fredda, a venti dal crollo del sistema bipolare e dalle speranze di una cen‑tralità europea nel nuovo ordine in‑ternazionale, con la delusione ancora fresca per l’accantonamento del pro‑getto di Costituzione europea, l’Euro‑pa è purtroppo ancora “un cantiere in rapido movimento, le cui implicazioni e contraddizioni non sono ancora del tutto emerse”. Nonostante la politica estera europea rimanga ancora preva‑lentemente ancorata agli orientamenti degli Stati membri e condizionata dal‑la regola dell’unanimità, le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona aspi‑rano ad inserirla “in un circuito più vir‑tuoso volto a garantire più coerenza, più efficacia, più trasparenza”. Si tratta di sviluppi fondamentali, che non garanti‑scono di per sé il raggiungimento degli obiettivi di pace, sicurezza, rispetto dei diritti umani e democrazia che sono alla base del profilo internazionale dell’UE. Ma certo ne rappresentano la condizio‑ne essenziale. Responsabile Ufficio Studi, Ricerche e Proget‑ti – Fondazione Mezzogiorno Europa

cosIMo rIsI (a cura di)

L’azione esterna dell’unione Europea dopo LisbonaNapoli, Editoriale Scientifica, 2010, pp. 264

III edizione

Luisa Pezone

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• La storia di Graded inizia nel 1958, e fino ai giorni nostri ha se-

guito un percorso evolutivo che ha portato la società, dalla semplice

installazione e costruzione di impianti tecnologici industriali e civili, ad

essere una società di servizi energetici ad elevati standard innovativi.

Graded è oggi leader negli impianti di Produzione Energia ad alta effi-

cienza, grazie alla consolidata esperienza di progettazione, costruzione

e manutenzione sempre al passo con le nuove frontiere del progresso.

La società deve il suo successo ad un approccio ingegneristico ed inte-

grato al problema del risparmio energetico, dalla fornitura di servizi di

audit, diagnosi ed ottimizzazione, alla formulazione di mirate proposte

di intervento, con tecnologie efficienti, contenimento dei costi, redditi-

vità degli investimenti e compatibilità ambientale, il tutto supportato da

precise garanzie di risultato per il Cliente finale.

Graded è oggi approdata al business innovativo derivante dalla produ-

zione di energia sia da fonti tradizionali che rinnovabili, ma sempre con

la garanzia della massima efficienza energetica. La società è presente

attivamente nei meccanismi di riconoscimento e negoziazione dei Titoli

di Efficienza Energetica rilasciati dal GME (Gestore Mercato Elettrico) e

nell’Emission Trading (Quote CO2) sancite dal Protocollo di Kyoto.

Grazie alle competenze acquisite ed all’elevato standard della propria

struttura ingegneristica ed operativa, oggi la struttura è in grado di sod-

disfare ogni tipologia di esigenza proponendo soluzioni innovative e

sostenibili dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico-finan-

ziario in tutti i settori degli impianti tecnologici, come dimostrano i con-

tratti di costruzione, gestione e manutenzione di impianti complessi a

servizio di aziende pubbliche e private, con la fornitura di energia e di

servizi integrati di global service di lunga durata.

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Euronotedi Andrea Pierucci

Ma davvero l’europa e l’euro stanno per scoMparire?

A sentire un buon numero di profeti (di sven‑ture) l’Europa sta per scomparire, trascinata dall’Euro incapace, a causa di qualche Sta‑to non rispettoso delle regole del merca‑to per quel che riguarda le sue finanze, di sopravvivere per più di un annetto o due. Questo tipo di affermazio‑ni sembrano solo dettate da buon senso e quelli che non le condivi‑dono sono degli “euroillusi”. A me sembra che un esame non pre‑concetto della realtà smentisca un po’ queste idee; al contrario, mi pare che l’Unione europea stia fronteggiando le diverse crisi forse non in maniera ottimale, ma certamen‑te in maniera abbastanza efficace. La crisi greca è stata suprata, eppure l’affidabilità del governo greco era (è?) piut‑tosto compromessa, il sentimento di solidarietà della Germania per diversi mesi è stato molto inferiore a quello che ci si sarebbe potuto attendere da un paese che è uno dei principali beneficiari dell’Euro e l’attacco di ambien‑ti finanziari internazionali, spalleggiati o capeggiati dalle società di rating (non mi stancherò di ricordare che sono proprio quelle che davano per soli‑dissime le banche americane travolte dalla crisi del 2008 fino ad un attimo prima del crack), si annunciava su più ampia scala contro vari paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, finanche Italia e poi, si diceva, anche Francia e chissà chi ancora): una vera azione di “terrorismo finanziario”. Poi vi è stata, recentissimamente la crisi Irlandese, anch’essa fronteggiata, questa volta con più rapidità e decisione dall’Unione e dai suoi Stati membri, che hanno puntato a formulare uno scudo permanente, a condizioni certo un po’ dra‑stiche, per salvare sistematicamente gli Stati in difficoltà. Vedremo fra un attimo le concrete decisioni del Consiglio europeo di dicembre, fondamen‑tali a questo proposito.

una dura intervista di due “Mostri sacri”: delors e l’ex cancelliere schMidt

Ovviamente, non sono tutte rose e fiori; al contrario vi sono problemi di non poca importanza. Abbiamo potuto constatare anche nei numeri prece‑denti di queste note quale sia la difficoltà degli Stati membri (e dunque del‑le stesse strutture europee) di esprimere dei leaders di grande valore e di grande prospettiva. L’ex Cancelliere tedesco Helmut Schmidt dichiarava l’8 dicembre a Le Monde che l’Europa, intesa come istituzioni europee e come Stati membri, mancava crudelmente di leaders di valore; faceva eccezione per quel che riguarda il Primo ministro britannico, scusandosi col dir “non lo conosco”! Questo è davvero un problema di grande importanza. D’altra parte i casi di difficoltà istituzionali gravi aumentano di giorno in giorno: il Belgio, senza un vero governo con un minimo di prospettiva da alcuni anni,

l’Olanda e la Svezia, ove sembra necessario fare almeno l’occhiolino ai partiti xenofobi poer poter governare, l’Italia, ove l’episo‑dio della fiducia del 14 dicembre mette in luce tutta l’anomalia e la mancanza di propsettiva del sistema nazionale – la Francia stessa e la Germania con i propri leaders di governo messi alquanto male.

Rincarava la dose, sul medesimo giorna‑le in un intervista parallela, richiamando

gli Stati ad una maggioree solidarietà, in‑dispensabile per fronteggiare le difficoltà fi‑

nanziarie, ma non solo. Certamente non è facile risolvere questi problemi, ma bisognerà prima o

poi prenderli in conto: chi rischia non è l’Europa in quanto sistema istituzionale o l’Euro, ma proprio l’Eu‑

ropa in quanto tale. Rischiamo di precipitare verso la se‑rie B del mondo. Proprio questo tipo di difficoltà ha permesso

all’inizio delle crisi finanziarie di pensare che l’Euro non avrebbe retto. Invece i meccanismi decisionali (financo quelli all’unanimità)

hanno alla fine funzionato anche perché gli interessi ormai sottesi all’Euro‑pa e all’Euro non potevano consentire un ulteriore aggravamento della crisi. Si pensi al disastro, non dico se l’Euro dovesse scomparire, ma anche solo se dovesse avere un tracollo, non foss’altro che per l’acquisto di prodotti energetici e materie prime di cui l’Europa ha necessità.

un MeccanisMo di difesa dell’euro e degli stati MeMbri nel trattato

Il Consiglio europeo del 16 e 17 dicembre 2010 ha deciso all’unanimità una modifica del Trattato, limitata e, teoricamente, non destinata ad am‑pliare le competenze dell’Unione, “che consentirà aagli Stati membri della zona Euro di istituire un meccanismo permanente per salvaguardare la sta‑bilità della zona Euro nel suo insieme”. Questa decisione che, comunque, dovrà essere approvata dagli Stati membri secondo le proprie procedure costituzionali (si noti, non è richiesta una vera e propria ratifica, grazie al Trattato di Lisbona che autorizza una procedura di revisione del Trattato semplificata), dovrebbe essere operativa dal giugno 2013. In ottobre era parso che questa prospettiva, proposta dai Tedeschi, perdesse di attualità; invece, sotto la minaccia di ulteriori difficili crisi, si è arrivati ad un accordo sul testo seguente:

All’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è aggiunto il paragrafo seguente:

“Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccani‑smo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabili‑tà della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una ri‑gorosa condizionalità.”

Questo meccanismo permanente subentrerà alle attuali misure tempo‑ranee. Potrà essere attivato solo con il comune accordo degli Stati membri della zona euro in caso di rischio per la stabilità dell’intera zona euro ed è prevista la partecipazione del Fondo Monetario Internazionale. Questo ri‑ferimento ad una decisione unanime lascia un po’ perplessi, proprio per la necessità e l’urgenza di agire, anche se è vero che l’interesse ad agire è effettivamente comune, in quanto non è richiesto l’accordo degli altri Stati,

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45anche se possono partecipare alle misure decise dai paesi Euro. Come dice il comunicato stampa finale, i leader della zona Euro hanno dichiarato, insie‑me alle istituzioni dell’UE, di essere “pronti a fare tutto il necessario per assicurare la stabilità dell’intera zona euro”, sottolineando che “l’euro è e sarà una parte centrale dell’integrazione europea”. Quest’affer‑mazione è stata ripetuta nel messaggio per il nuovo anno dal Presidente francese Sarkozy, perché proprio in quel paese sono apparse le riflessioni più negative sul futuro dell’Euro.

Nel frattempo, i lavori per rendere operative le raccomandazioni della Task force Van Rompuy (il Presidente del Consiglio europeo) sulle proposte legislative in materia di governance economica dovrebbero essere accele‑rati e le relative decisioni dovrebbero essere adottate entro il giugno 2011 dal Consiglio europeo o dalla altre Istituzioni dell’Unione secondo le rispet‑tive competenze.

La buona volontà sembra esserci; speriamo che sia seguita dai fatti concreti. Per ora, mi pare che le azioni e le dichiarazioni dei leader europei e dell’intero sistema degli Stati abbiano dato frutti importanti per stabiliz‑zare la situazione internazionale dell’area Euro.

Comunque, la questione della credibilità dell’Euro sembra sempre meno in causa, se è vero che il 17o Stato membro ha l’Euro dal primo gennaio: l’Estonia. Veramente, c’è anche un 18o Stato che, senza avere i diritti e gli obblighi dell’appartenenzan alla zona Euro ha adottato questa moneta come moneta nazionale, il Montenegro, che ormai è formalmente un paese can‑didato all’adesione all’Unione, conformemente alle decisioni dello stesso Consiglio europeo.

Ma già che parliamo del Consiglio europeo, ricordiamo altre due decisio‑ni di grande rilievo internazionale prese giusto prima del Consiglio europeo stesso. La prima riguarda la conclusione dei negoziati con la Russia per la sua adesione all’Organizzazione mondiale del commercio, che sembra così più o meno sbloccata e la seconda riguarda la decisione di concludere un accordo di libero scambio con l’India entro questa primavera (il più grande accordo commerciale dell’UE, secondo il Presidente Van Rompuy).

un bilancio dell’unione europea di routine, Ma non troppo

Dopo la crisi del 15 novembre, allorché Parlamento e Consiglio si erano dichiarati incapaci approvare il bilancio 2011 allo stato attuale delle cose, specie per la rigida posizione britannica, la Commissione europea ha pre‑sentato a tempo di record (il 26 dello stesso mese: un vero successo per Barroso) una nuova proposta, che è stata integralmente approvata il 16 di‑cembre dal Parlamento in accordo col Consiglio. La nuova procedura, intro‑dotta dal Trattato di Lisbona, prevede infatti una sorta di “codecisione” fra Consiglio e Parlamento per adottare il bilancio, lasciando, come unica al‑ternativa ad un disaccordo la possibilità di una nuova proposta della Com‑missione europea.

Il bilancio di quest’anno non comportava per l’essenziale differenze fra Parlamento e Consiglio sui crediti da iscrivere al bilancio (anche se ve n’era‑no), quanto piuttosto, come fu per i due bialnci che precedettero l’appro‑vazione delle prospettive finanziarie 2007‑2013, alcune questioni di princi‑pio alle quali il Parlamento era molto attaccato. Si chiedeva, in sostanza, al Consiglio di accettare di dare un ruolo più importante al Parlamento europeo nella definizione delle “prospettive finanziarie” 2013‑2020. La questione è di enorme importanza, poiché con le prospettive finanziarie si definiscono i grandi montanti di spesa per i prossimi sette anni nei principali settori:

coesione economica e sociale (i Fondi strutturali, per intenderci), ricerca (l’8o programma di ricerca), agricoltura ecc. Praticamente, ancor più che al momento della decisione dei regolamenti per il funzionamento dei Fondi, si deciderà quanto gli Stati membri vogliono impegnare per la coesione eco‑nomica e sociale. Una delle conseguenze, per esempio, sarà quella di sape‑re se e in che misura, le regioni del mezzogiorno italiano avranno accesso a tali fondi. Oppure si deciderà quanto, in concreto, si deciderà di spendere in comune per la ricerca (o per la protezione dell’ambiente). Si capisce così la drammatizzazione del dibattito sul bilanio e la resistenza del Consiglio ad accogliere le richieste del Parlamento.

La conclusione è stata chiaramente positiva per il Parlamento che ot‑tiene, su un bilancio complessivo di € 141.8 miliardi in stanziamenti d’im‑pegno e € 126.5 miliardi in pagamenti, parecchi soldi in più nei settori nei quali aveva avanzato delle richieste (per esempio 100 milioni in più per la Palestina). Ma, soprattutto, ottiene impegni di natura politica assai impor‑tanti per il futuro.

Il primo riguardala partecipazione del Parlamento alle discussioni sulle prospettive finanziarie a lungo termine e sulle risorse proprie. La Commis‑sione europea presenterà la sua proposta sulle risorse proprie alla fine di giugno 2011, sulle quali il Parlamento ha poteri specifici, e ha assicurato che le prospettive finanziarie, per le quali, invece, il Parlamento ha minor voce in capitolo, saranno discusse allo stesso tempo. Questo dovrebbe permettere al Parlamento di rafforzare il suo peso nelle decisioni relative alle prospettive finanziarie. D’altra parte, la Presidenza del Consiglio ha accettato un accordo che prevede un impegno delle prossime quattro presidenze di turno (Unghe‑ria, Polonia, Danimarca e Cipro) sul coinvolgimento del Parlamento.

Il Parlamento ha anche ottenuto la preparazione di una relazione sul co‑sto della “non Europa” (il primo di tanti anni fa, il Rapporto Cecchini del 1988 dal titolo “1992: la sfida europea” richiesto dal Presidente della Commissio‑ne Delors soprattutto per dimostrare i costi del mancato completamento del mercato unico, fu una pietra angolare per l’approvazione delle direttive per l’applicazione dell’Atto Unico Europeo) e una valutazione dei benefici delle sinergie fra il bilancio comunitario e quelli nazionali.

La Commissione europea si è infine impegnata a esaminare il finanzia‑mento delle priorità del Trattato di Lisbona nei bilanci per il 2012 e 2013.

La soddisfazione del Parlamento è espressa nel comunicato stampa che ricorda gli aspetti istituzionali del complesso negoziato: “Al contrario degli anni passati, tutte le problematiche relative al bilancio comunitario sono state discusse al livello appropriato, con la partecipazione del Primo mi‑nistro belga Laterme, del Presidente della Commissione Barroso e di molti Capi di stato e governo.”

Ma per quel che riguarda il lavoro del Parlamento giova ricordare anco‑ra qualche punto, discusso nella plenaria di dicembre.

Il premio Sacharov è stato attribuito al dissidente cubano Guillermo Fa‑rinas, assente, ovviamente alla plenaria.

Il Parlamento ha poi approvato le norme necessarie per applicare la disposizione del Trattato che conferisce ai cittadini il potere di presentare iniziative legislative o politiche con almeno un milione di firme, lasciando poi alla Commissione il potere di farne delle formali proposte da sottoporre al Parlamento ed al Consiglio. Le regole per la presentazione della proposta sono molto strette: si sarebbe potuto eliminare un po’ di burocrazia se solo si fosse considerato che, in fondo, l’atto dei cittadini è un puro atto politico, poiché le sue conseguenze giuridiche eventuali derivano solo da una deci‑sione della Commissione europea. Entro fine anno l’iter legislativo dovrebbe essere completato con una decisione del Consiglio.

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1 gennaio 2011 Al via l’anno europeo dedi‑

cato al Volontariato. Even‑ti, manifestazioni e attività diverse saranno promosse e organizzate nei 27 Paesi dell’Ue per avvicinare i citta‑dini europei al volontariato. Le manifestazioni di apertu‑ra si svolgeranno il 1o genna‑io a Sofia e Tallin.

L’Ungheria assume la pre‑sidenza del Consiglio euro‑peo.

L’Estonia diventa Membro dell’Eurozona.

Tallin è nominata Capitale europea della Cultura per il 2011.

7 gennaio 2011 Il Coreper I (Comitato rap‑

presentativo permanente) si riunisce per organizzare i la‑vori del Consiglio dell’Unio‑ne europea. È costituito dagli Ambasciatori dei Pa‑esi Membri ed è presiedu‑to dal rappresentata dello Stato Membro che detiene la presidenza del Consiglio.

José Manuel Barroso, pre‑sidente della Commissione

europea, incontra a Buda‑pest, insieme con i Commis‑sari, i rappresentanti della presidenza ungherese del Consiglio europeo.

8 gennaio 2011 La Commissione europea

e la presidenza ungherese dell’Ue inaugurano l’anno europeo del Volontariato. L’evento d’apertura si svolge alle 10:00, presso il Mille‑naris Theatre, in Millenaris Park, Budapest.

10 gennaio 2011 Incontro, a Bruxeles, dei

venti Comitati del Parla‑mento europeo, responsabili della preparazione dei lavori legislativi per la plenaria del Parlamento.

A Bruxelles si riunisce il Con‑siglio Agricoltura e Pesca.

11 gennaio 2011 Manifestazione d’inaugura‑

zione, a Bruxelles, dell’anno euro‑cinese dedicato alla Gioventù, aperto da An‑droulla Vassiliou, Commis‑sario all’Educazione, Cultu‑ra, Multilinguismo e Gioven‑tù, e Wang Xiao, Presidente

della Fondazione All‑China Youth. La conferenza stam‑pa, in programma alle 11:00 presso la sala stampa del Berlaymont Building, sarà seguita, alle 14:30, dalla cerimonia d’apertura, pres‑so la sala Alcide de Gasperi del Charlemagne Building.

12 gennaio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I. La Commissione europea

adotta l’Indagine annuale sulla Crescita, aprendo uf‑ficialmente il Semestre eu‑ropeo (il primo ciclo di co‑ordinamento delle politiche macro‑economiche, di bilan‑cio e riforme strutturali degli Stati Membri).

13 gennaio 2011 A Bruxelles si riuniscono i

Comitati del Parlamento eu‑ropeo.

17 gennaio 2011 Sessione plenaria, a Stra‑

sburgo dal 17 al 20 genna‑io, del Parlamento euro‑peo.

A Strasburgo si riuniscono i Comitati del Parlamento eu‑

ropeo, in contemporanea ai lavori della plenaria, dal 17 al 20 gennaio.

Incontro, a Bruxelles, dell’Eu‑rogruppo.

18 gennaio 2011 Riunione dell’Ecofin a Bru‑

xelles.

19 gennaio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I.

24 gennaio 2011 A Bruxelles, dal 24 al 27 gen‑

naio, si riuniscono i Comitati del Parlamento europeo.

A Bruxelles si riunisce il Con‑siglio Agricoltura e Pesca.

26 gennaio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I. i svolge a Bruxelles, dal 26

al 28 gennaio, la seconda Conferenza internazionale sul Risk Assessment.

27 gennaio 2011 Riunione del Coreper II.

Appuntamento a Bruxelles

A cura di Daniela Russo

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con l’Info day 2011 della Protezione civile.

31 gennaio 2011 A Bruxelles, dal 31 gennaio

al 1o febbraio, si riuniscono i Comitati del Parlamento europeo.

Incontro, a Bruxelles, del Consiglio Affari Esteri e del Consiglio Affari Generali.

2 febbraio 2011 Sessione plenaria del Par‑

lamento europea, dal 2 al 3 febbraio a Bruxelles.

Riunione del Coreper I.

3 febbraio 2011 A Bruxelles si riuniscono i

Comitati del Parlamento eu‑ropeo.

4 febbraio 2011 Riunione del Coreper I.

6 febbraio 2011 Incontro informale, a Bru‑

x el les dal 6 al 7 febbraio, dei Ministri dei Trasporti europei.

7 febbraio 2011 A Bruxelles si riuniscono i

Comitati del Parlamento eu‑ropeo.

8 febbraio 2011 Safer Internet Day 2001. Lo

slogan di questo anno è: “In‑ternet è più di un gioco, è la tua vita!”. La giornata dedi‑cata ad un uso più responsa‑bile e sicuro di Internet, dei cellulari e delle tecnologie, soprattutto tra bambini e ra‑gazzi, è promossa da Insafe.

9 febbraio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I.

10 febbraio 2011 A Bruxelles si riuniscono i

Comitati del Parlamento eu‑ropeo.

Conferenza dell’Industria chimica europea. L’appunta‑mento, che si svolge a Bru‑xelles, offre l’occasione per fare il punto sui temi di mag‑gior interesse per lo sviluppo della competitività dell’indu‑stria chimica europea.

11 febbraio 2011 Riunione del Coreper I.

112 Day: giornata dedicata alla promozione del servi‑zio telefonico unico per le emergenze. In caso di emer‑genza, infatti, in tutti i Paesi Membri è possibile chiama‑re il numero 112, da telefoni fissi e cellulari, per ricevere servizi di assistenza.

14 febbraio 2011 Sessione plenaria, a Stra‑

sburgo dal 14 al 17 febbraio, del Parlamento europeo.

A Strasburgo si riuniscono i Comitati del Parlamento eu‑ropeo, in contemporanea ai lavori della plenaria, dal 14 al 17 febbraio.

Incontro, a Bruxelles, dell’Eu‑rogruppo.

15 febbraio 2011 Riunione dell’Ecofin a Bru‑

xelles.

16 febbraio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I.

17 febbraio 2011 Riunione del Coreper II.

18 febbraio 2011 Riunione del Coreper I.

21 febbraio 2011 A Bruxelles si riunisce il Con‑

siglio Agricoltura e Pesca, dal 21 al 22 febbraio.

Incontro, a Bruxelles, del Consiglio Affari Esteri e del Consiglio Affari Generali.

23 febbraio 2011 Riunione del Coreper II e del

Coreper I.

24 febbraio 2011 Incontro, a Lussemburgo, del

Consiglio Giustizia e Affari In‑terni, dal 24 al 25 febbraio.

Riunione del Coreper I.

28 febbraio 2011 A Bruxelles si riuniscono i

Comitati del Parlamento eu‑ropeo.

Incontro, a Bruxelles, del Consiglio Trasporti, Teleco‑municazioni ed Energia.

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Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro Librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – BRUxELLES

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 CAPRI

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria FISCIANO (Sa)

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo NAPOLI

H3g – Angelo Schinaia c/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa BITRITTO (Ba)

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32‑33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Archivio di Stato di Napoli Via Grande Archivio, 5 NAPOLI

Archivio di Stato di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 SALERNO

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 NAPOLI

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NAPOLI

Mezzogiorno Europa

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N. 6 – Anno XI – Novembre/dicembre 2010

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

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Towards a safer world.

Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondoAlenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livellomondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà inservizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi.Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” incampo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di lineaBoeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica èsugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchiè un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

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