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Nahtjak89 Oliver Sacks VEDERE VOCI UN VIAGGIO NEL MONDO DEI SORDI In questo libro Oliver Sacks abbandona il terreno dei disturbi neurologici per indagare un altro mondo, che generalmente viene ignorato: il mondo dei sordi. Qui, come in altri casi di menomazione, Sacks riesce a scoprire che il meno può anche nascondere un più: per esempio, una capacità acutissima di sviluppare l’esperienza visiva – base, questa, su cui si è formato un affascinante linguaggio visivo, i «Segni», che permette ai sordi di costituire comunità. Ancora una volta, è l’enorme dono di empatia, in Sacks, a guidare l’indagine, che toccherà alcuni problemi fondamentali del rapporto fra parola, immagine e cervello, ma anche renderà conto di esperienze dirette dell’autore, sino alla sua partecipazione alla rivolta nell’unica università per sordi al mondo, la Gallaudet University, nel marzo 1988. Per questa nuova edizione italiana, Sacks ha scritto una prefazione nella quale delinea la storia dei sordi in Italia, e racconta della sua visita, nel novembre 1990, alla comunità dei sordi e alla scuola di via Nomentana a Roma. Vedere voci è apparso per la prima volta nel 1989.

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Nahtjak89 Oliver Sacks

VEDERE VOCI UN VIAGGIO NEL MONDO DEI SORDI

In questo libro Oliver Sacks abbandona il terreno dei disturbi neurologici per indagare un altro mondo, che generalmente viene ignorato: il mondo dei sordi. Qui, come in altri casi di menomazione, Sacks riesce a scoprire che il meno può anche nascondere un più: per esempio, una capacità acutissima di sviluppare l’esperienza visiva – base, questa, su cui si è formato un affascinante linguaggio visivo, i «Segni», che permette ai sordi di costituire comunità. Ancora una volta, è l’enorme dono di empatia, in Sacks, a guidare l’indagine, che toccherà alcuni problemi fondamentali del rapporto fra parola, immagine e cervello, ma anche renderà conto di esperienze dirette dell’autore, sino alla sua partecipazione alla rivolta nell’unica università per sordi al mondo, la Gallaudet University, nel marzo 1988. Per questa nuova edizione italiana, Sacks ha scritto una prefazione nella quale delinea la storia dei sordi in Italia, e racconta della sua visita, nel novembre 1990, alla comunità dei sordi e alla scuola di via Nomentana a Roma. Vedere voci è apparso per la prima volta nel 1989.

INDICE Prefazione - Note Capitolo 1 - Note Capitolo 2 - Note Capitolo 3 - Note Bibliografia scelta Fonti bibliografiche

A Isabelle Rapin, Bob Johnson, Bob Silvers e Kate Edgar.

"Nelle mani di chi li usa con maestria, [i segni] costituiscono un linguaggio bellissimo e altamente espressivo, di cui né la natura né l'arte hanno saputo fornire un surrogato soddisfacente per la comunicazione o come mezzo per raggiungere facilmente e rapidamente la mente dei sordi. Chi non comprende tale linguaggio non può rendersi conto delle possibilità che esso offre ai sordi, del suo immenso contributo al benessere sociale e morale di chi è privo dell'udito, del suo meraviglioso potere di trasmettere il pensiero a intelletti che altrimenti resterebbero per sempre nel buio. Chi non lo conosce, non può rendersi conto del fascino che esso ha per i sordi. Finché sulla faccia della terra vi saranno due persone sorde che si incontrano, i segni continueranno a essere usati".

J. SCHUYLER LONG (Direttore della Iowa School for the Deaf) "The Sign Language", 1910.

VEDERE VOCI

PREFAZIONE Tre anni fa non sapevo nulla della condizione dei sordi e non avrei mai immaginato che essa potesse far luce in tanti àmbiti diversi, soprattutto in quello del linguaggio. Poi, e fu una scoperta sorprendente, venni a conoscenza della storia dei sordi e delle straordinarie sfide (linguistiche) che essi devono affrontare; scoprii anche, con meraviglia, che esisteva un linguaggio completamente visivo, i Segni, che si esprimeva in una modalità diversa dalla mia lingua, il parlato. E' terribilmente facile dare per scontato il linguaggio, la propria lingua - può occorrere l'impatto con un'altra lingua, o piuttosto con un'altra "modalità" di linguaggio, per ritrovare la nostra antica meraviglia. Quando lessi per la prima volta dei sordi e della loro singolare modalità di linguaggio, i Segni, ne fui spronato a imbarcarmi in un'esplorazione, in un viaggio; questo viaggio mi ha portato tra i sordi e le loro famiglie; mi ha fatto approdare alle scuole per sordi, e alla Gallaudet, l'unica università per sordi che esista; mi ha portato a Martha's Vineyard, l'isola del Massachusetts dove un tempo esisteva una forma ereditaria di sordità e tutti (gli udenti non meno dei sordi) parlavano con i Segni; mi ha portato in città come Fremont e Rochester, dove esiste un'interessante interfaccia tra comunità di sordi e comunità di udenti; mi ha fatto conoscere i grandi studiosi dei Segni e delle condizioni del sordo - ricercatori brillanti e appassionati, che mi hanno trasmesso il loro entusiasmo e la loro visione di regioni inesplorate e nuove frontiere (1). Questo viaggio mi ha portato a vedere il linguaggio, la natura del parlare e dell'insegnare, lo sviluppo del bambino, la crescita e il funzionamento del sistema nervoso, la formazione delle comunità, dei mondi, delle culture, in un modo del tutto nuovo, che mi ha allietato e mi ha fatto imparare tanto. Ma, soprattutto, mi ha permesso di vedere in una prospettiva sorprendente problemi antichissimi, di concepire in modo diverso e imprevedibile il linguaggio, la biologia, la cultura... E' stato un viaggio che ha reso per me strano ciò che era familiare, familiare ciò che era strano. Ne sono rimasto affascinato e insieme sgomento. Sgomento nello scoprire quanti tra i sordi non acquisiscano mai correttamente la facoltà di esprimersi - o di pensare - e quale miserevole vita li aspetti. Spesso la mia amica Isabelle Rapin mi aveva detto che la sordità era per lei una «forma di

ritardo mentale curabile, o meglio prevenibile», e ora lo vedevo con i miei occhi. Quasi immediatamente, però, scoprii un'altra dimensione, un altro universo di considerazioni, non biologiche, ma culturali. Molte delle persone sorde che conobbi avevano acquisito non solo la capacità di esprimersi con disinvoltura, ma anche una lingua completamente diversa, una lingua che non solo era al servizio delle facoltà del pensiero (anzi, permetteva un pensiero e una percezione di un tipo non del tutto immaginabile dall'udente), ma che serviva come mezzo di comunicazione di una ricca comunità e cultura. Pur non dimenticando mai lo status «medico» dei sordi, dovevo ora vederli in una luce nuova «etnica», come un popolo dotato di un linguaggio suo proprio, di una sua sensibilità, di una sua cultura. Non mancherà certo chi pensa che la storia e lo studio dei sordi e del loro linguaggio siano argomenti di interesse estremamente limitato. A mio avviso le cose non stanno affatto così. E' vero che i sordi congeniti costituiscono solo lo 0,1 per cento circa della popolazione, ma le considerazioni a cui invitano sollevano questioni della massima importanza. Lo studio dei sordi ci mostra che in buona parte le nostre facoltà precipuamente umane - possedere un linguaggio, pensare, comunicare, creare una cultura - non si sviluppano in modo automatico, non sono solo funzioni biologiche, ma hanno anche un'origine sociale e storica; che esse sono un "dono" - il più meraviglioso dei doni - che una generazione fa all'altra. Vediamo come la Cultura sia altrettanto cruciale quanto la Natura. L'esistenza di un linguaggio visivo, quello dei Segni, e degli straordinari potenziamenti della percezione e dell'intelligenza visiva che ne accompagnano l'acquisizione, ci rivela che il cervello è ricco di possibilità che non avremmo mai immaginato, ci fa apprezzare la plasticità e le risorse quasi illimitate del sistema nervoso, dell'organismo umano, quando è posto di fronte al nuovo e deve adattarvisi. Se il tema di questo libro ci mostra quanto siamo vulnerabili, e come possiamo arrecar danno a noi stessi (per lo più senza volerlo), ci mostra anche i nostri punti di forza, finora sconosciuti e imprevisti, le infinite risorse di cui la Natura e la Cultura, insieme, ci hanno dotato per consentirci di sopravvivere e di andare oltre la pura sopravvivenza. Mi auguro quindi che il libro, oltre ad avere un interesse speciale per i sordi, le loro famiglie, i loro insegnanti e i loro amici, parli anche al lettore comune, offrendogli una prospettiva inedita della condizione umana.

Questo libro è formato da tre parti. La prima è stata scritta nel 1985 e nel 1986, e cominciò come recensione di un libro sulla storia dei sordi, "When the Mind Hears", di Harlan Lane. Al momento della pubblicazione (sulla «New York Review of Books» del 27 marzo 1986), questa recensione era ormai diventata un vero e proprio saggio, che fu in seguito ulteriormente ampliato e riveduto. Vi ho tuttavia lasciato certe formulazioni e locuzioni che oggi non sottoscrivo più, perché ritenevo di dover conservare l'originale qual era, con i suoi eventuali difetti, come riflesso di quel che pensavo agli inizi sull'argomento. La terza parte è stata scritta sulla scia della rivolta studentesca all'Università Gallaudet, nel marzo 1988, ed è stata pubblicata sulla «New York Review of Books» del 2 giugno 1988; anche questo articolo è stato ampiamente riveduto e ampliato per il presente libro. La seconda parte è stata scritta per ultima, nell'autunno del 1988, ma costituisce sotto certi aspetti il cuore del libro - per lo meno è l'inquadramento più sistematico, ma anche il più personale, dell'argomento. Aggiungo che non sono mai riuscito a raccontare qualcosa o a seguire una linea di pensiero senza imboccare, lungo la via, innumerevoli diramazioni; e ho sempre trovato che questo arricchiva molto il mio viaggio (3). In questo campo, tengo a dichiararlo, io sono un "outsider": non sono sordo, non uso la lingua dei segni e neppure ne sono interprete o insegnante, non sono un esperto dello sviluppo infantile, e non sono né uno storico né un linguista. Come si vedrà meglio in seguito, su questo terreno si affollano opinioni spesso contrastanti e da secoli fieramente avverse. Io sono estraneo a queste contese: sono privo di una specifica competenza o esperienza, ma anche, spero, di pregiudizi, di interessi particolari, di animosità. Non avrei potuto non dico scrivere questo libro, ma nemmeno compiere il viaggio che in esso descrivo, senza l'aiuto e l'ispirazione di innumerevoli persone; in primissimo luogo gli stessi sordi - pazienti, soggetti, collaboratori, amici -, le uniche persone che possono dare un quadro della situazione dall'interno; poi le persone più direttamente a contatto con i sordi: i familiari, gli interpreti e gli insegnanti. In particolare desidero ricordare il grande aiuto datomi da Sarah Elizabeth e Sam Lewis, e dalla loro figlia Charlotte; da Deborah Tannen, della Georgetown University; dai docenti della California School for the Deaf di Fremont, della Lexington School for the Deaf e di molte altre scuole e istituzioni per i sordi, e soprattutto

dell'Università Gallaudet. Voglio ricordare, tra i molti, David de Lorenzo, Carol Erting, Michael Karchmer, Scott Liddell, Jane Norman, John Van Cleve, Bruce White e James Woodward. Un debito sostanziale ho nei riguardi di quegli studiosi che hanno dedicato tutta la vita alla comprensione e allo studio dei sordi e del loro linguaggio - in particolare Ursula Bellugi, Susan Schaller, Hilde Schlesinger e William Stokoe, che mi hanno generosamente messo a parte di tutte le loro riflessioni e osservazioni, stimolando nel contempo le mie. Jerome Bruner, profondo conoscitore dello sviluppo mentale e linguistico dei bambini, è stato un amico e una guida inestimabile durante tutto il mio lavoro. Il mio amico e collega Elkhonon Goldberg ha suggerito nuove prospettive da cui considerare le basi neurologiche del linguaggio e del pensiero, e le forme speciali che questo può assumere nei sordi. In quest'ultimo anno ho avuto la gioia di conoscere di persona Harlan Lane e Nora Ellen Groce, i cui libri mi avevano tanto ispirato nel 1986, all'inizio del mio viaggio, e Carol Padden, autrice di un libro che a sua volta mi fece riflettere, nel 1988; 1e loro prospettive sui sordi hanno ampliato l'orizzonte del mio pensiero. Vari colleghi, tra cui Ursula Bellugi, Jerome Bruner, Robert Johnson, Harlan Lane, Helen Neville, Isabelle Rapin, Israel Rosenfield, Hilde Schlesinger e William Stokoe hanno letto il manoscritto di questo libro in vari stadi, comunicandomi critiche e osservazioni e dandomi il loro incoraggiamento: di ciò li ringrazio in modo particolare. A loro e a molti altri devo illuminazioni e intuizioni profonde (ma le opinioni e gli errori, sono soltanto miei). Nel marzo del 1986 Stan Holwitz, della University of California Press, reagì immediatamente al mio primo saggio, insistendo perché lo ampliassi e ne facessi un libro, e durante i tre anni che mi sono occorsi per realizzare il suo suggerimento mi ha appoggiato e stimolato con pazienza ininterrotta. Paula Cizmar ha letto le varie stesure, ogni volta dandomi utili suggerimenti. Shirley Warren ha seguito il manoscritto in tutte le fasi della produzione, facendo fronte con grande pazienza al proliferare delle note e ai cambiamenti dell'ultimo minuto. Desidero ringraziare anche mia nipote, Elizabeth Sacks Chase, che mi ha suggerito il titolo - tratto dalle parole di Piramo a Tisbe: «Vedo una voce...». Terminato il libro, mi sono dedicato a fare quello che forse avrei dovuto fare prima di scriverlo: ho cominciato a imparare la lingua dei Segni.

Desidero ringraziare in particolar modo la mia insegnante, Janice Rimler, della New York Society for the Deaf, e gli assistenti, Amy e Mark Trugman: essi hanno affrontato con ardimento le difficoltà di addestrare uno studente troppo anziano e non facile, e sono riusciti a convincermi che non è mai troppo tardi per cominciare. Ma il debito di gran lunga più grande l'ho contratto con due colleghi e due curatori, che hanno contribuito in modo essenziale a render possibile il mio lavoro e la stesura di questo libro. Prima di tutti Bob Silvers, direttore della «New York Review of Books»: fu lui a mandarmi il libro di Harlan Lane, con il commento: «Non hai mai riflettuto davvero sul linguaggio; questo libro ti obbligherà a farlo» - e fu proprio così. Bob Silvers intuisce, con una sorta di chiaroveggenza, quali sono i campi che una persona ancora non conosce e nei quali dovrebbe inoltrarsi, e con questo suo speciale talento maieutico aiuta a portare alla luce pensieri in embrione. Al secondo posto viene Isabelle Rapin, che per venti anni è stata la mia più cara amica e collega allo Albert Einstein College of Medicine, e che per un quarto di secolo ha lavorato direttamente con i sordi, riflettendo a fondo su di loro. Isabelle mi ha fatto conoscere pazienti sordi, mi ha condotto nelle scuole per sordi, mi ha comunicato le esperienze fatte con bambini sordi e mi ha aiutato a capire i problemi dei sordi come mai sarei riuscito a fare da solo. (E' anche lei autrice di un ampio saggio-recensione [Rapin, 1986] basato essenzialmente su "When the Mind Hears"). In occasione della mia prima visita all'Università Gallaudet, nel 1986, conobbi Bob Johnson, direttore del dipartimento di linguistica; fu lui a farmi conoscere i Segni, a introdurmi nel mondo dei sordi - un linguaggio, una cultura che gli estranei difficilmente possono capire o immaginare. Se Isabelle Rapin e Bob Silvers sono stati coloro che mi hanno spinto a fare questo viaggio, Bob Johnson ne è stato in seguito per me compagno e guida. Kate Edgar, infine, ha assolto un compito unico, come collaboratrice, amica, redattrice, organizzatrice, incitandomi di continuo a pensare e a scrivere, a conoscere tutti gli aspetti concreti dell'argomento, senza mai perderne di vista il nucleo centrale. E' per tali ragioni che dedico il libro a queste quattro persone.

New York, marzo 1989. O.W.S.

NOTE N. 1. Il termine «Sign» viene comunemente usato per indicare l'American Sign Language (A.S.L.); tuttavia in questo libro io lo uso per indicare tutte le lingue nazionali di segni, passate e presenti (per esempio, l'American Sign Language, la lingua dei segni francese, quella italiana, quella cinese, quella yiddish, l'Old Kentish Sign). Da tale termine sono escluse invece le forme segnate delle lingue vocali (qual è, per esempio, il Signed English), che sono mere traslitterazioni, prive della struttura presente nelle vere lingue dei segni. [Il termine inglese "sign" nell'accezione testé specificata dall'autore, verrà qui reso con «Segni». N.d.T.]. N. 2: Alcuni, nella comunità dei sordi, per sottolineare questa distinzione scrivono la parola «sordità» con l'iniziale minuscola quando si riferisce alla situazione uditiva, e con l'iniziale maiuscola quando indica la condizione linguistica e culturale. N. 3: Le numerose (e spesso prolisse) note a piè di pagina vanno considerate come digressioni della mente o dell'immaginazione, che il lettore-viaggiatore è libero di seguire o di evitare.

Capitolo 1 E' sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì «una delle più disperate tra le calamità umane»; siamo assai più ignoranti di quanto lo fosse una persona colta del 1886 o del 1786. Ignoranti e indifferenti. Negli ultimi mesi ho provato a parlare della sordità a un grandissimo numero di persone e quasi sempre mi sono sentito rispondere frasi come: «La sordità? Non ci ho mai riflettuto molto, a dire il vero. Non conosco nessun sordo. Perché, c'è qualche cosa di interessante da sapere sulla sordità?». Anch'io avrei risposto allo stesso modo, fino a qualche mese fa. Le cose cambiarono quando ricevetti un grosso libro scritto da Harlan Lane, dal titolo "When the Mind Hears: A History of the Deaf". Lo aprii con indifferenza, che ben presto si trasformò in stupore, e poi in una sorta di incredulità. Ne parlai a un'amica e collega, la dottoressa Isabelle Rapin, che da venticinque anni si occupa dei sordi e della sordità. Feci amicizia con una collega sorda dalla nascita, una donna molto intelligente e molto dotata, che fino ad allora non mi aveva incuriosito in modo particolare (1). Cominciai a vedere, o per la prima volta a osservare attentamente, vari pazienti sordi che avevo in cura (2). Le mie letture ben presto si estesero dal libro di Harlan Lane a "The Deaf Experience", una raccolta di memorie scritte dai primi sordi alfabetizzati (o su di loro), curata ancora da Lane, poi a "Everyone Here Spoke Sign Language", di Nora Ellen Groce, e a moltissimi altri libri. Ora un intero scaffale della mia biblioteca è pieno di testi dedicati a un argomento di cui fino a sei mesi fa non sospettavo neppure l'esistenza; ho anche visto alcuni dei notevoli filmati che trattano il problema della sordità (3) Un ultimo debito, come preambolo. Nel 1969 W. H. Auden mi aveva dato una copia, la sua copia personale, di "Deafness", l'interessante autobiografia del poeta e romanziere sudafricano David Wright, che era diventato sordo all'età di sette anni: «La troverai affascinante» mi aveva detto. «E' un libro meraviglioso». Era tutto annotato di suo pugno (non so però se lo ha mai recensito). Gli diedi una scorsa, ma senza prestargli troppa attenzione. Dovevo riscoprirlo da solo oggi, dopo vent'anni. Wright non scrive come uno storico o uno studioso che tratti la propria disciplina: è uno scrittore che scrive dal profondo della sua esperienza personale. Di più, non lo sentiamo diverso da noi; ci riesce facile, tutto sommato, immaginare che

effetto farebbe essere al suo posto (mentre non riusciamo a immaginare se non con grande difficoltà che effetto farebbe essere sordi dalla nascita, come lo era il famoso insegnante sordo Laurent Clerc). Così Wright può farci da tramite, e attraverso la sua esperienza condurci nel regno dell'inimmaginabile. Poiché è più facile da leggere dei grandi sordomuti del Settecento, è da lui che si dovrebbe cominciare - perché ci prepara a leggere gli altri. Verso la fine del suo libro Wright scrive: «Sulla sordità non è stato scritto molto da parte dei sordi (4). Ciò malgrado, tenuto conto del fatto che io sono diventato sordo "dopo" aver imparato a parlare, rispetto a una persona udente non sono in posizione migliore per immaginare che cosa significhi nascere in un mondo di silenzio e raggiungere l'età della ragione senza aver acquisito un veicolo per pensare e comunicare. Basta solo provare a immaginarlo per sentire tutto il peso delle solenni parole con cui inizia il Vangelo di Giovanni: "In principio era il Verbo". Come può, una persona che si trova in tale condizione, formulare dei concetti?» (5). Questa relazione tra linguaggio e pensiero è appunto la questione più profonda, cruciale, che incontriamo quando consideriamo la sorte che aspetta, o che può aspettare, coloro che sono nati sordi, o che lo sono diventati in giovanissima età. Il termine «sordo» è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un'importanza qualitativa, e perfino «esistenziale». Ci sono le persone «dure di orecchio» (o «sordastri»), quindici milioni circa nella popolazione degli Stati Uniti, che riescono a udire in parte quanto viene detto, con l'aiuto di un apparecchio acustico e di una certa dose di buona volontà e di pazienza da parte dei loro interlocutori. Molti di noi hanno un genitore o un nonno appartenente a questa categoria - un secolo fa avrebbero usato il cornetto acustico; oggi usano le moderne protesi. Vi sono poi i «sordi gravi», molti dei quali lo sono in conseguenza di una malattia alle orecchie o di un incidente subìto nei primi anni di vita; ma per loro, come per i duri di orecchio, udire le parole altrui è ancora possibile, soprattutto con gli apparecchi acustici disponibili oggi o in fase di messa a punto, congegni estremamente perfezionati, computerizzati e «personalizzati». Infine vi sono i «sordi profondi» ("stone deaf") ai quali

nessun futuro ritrovato tecnologico permetterà mai di udire le parole degli altri. I sordi profondi non possono conversare nel modo abituale: devono o leggere le labbra (come faceva David Wright) o usare la lingua dei segni, o fare entrambe le cose. Non importa solo il grado della sordità, importa anche e soprattutto l'età, o lo stadio, in cui essa sopraggiunge. Wright, nel brano citato, ci ricorda che egli perse l'udito solo dopo avere imparato a parlare, e che quindi non ha la minima idea di come deve essere la situazione di coloro che sono nati privi dell'udito, o che lo hanno perso prima dell'acquisizione del linguaggio. E' un argomento che Wright tocca anche altrove: «Il fatto di essere diventato sordo a sette anni - se la sordità doveva essere il mio destino - fu una vera fortuna, perché, come tutti i bambini di quell'età, avevo ormai afferrato i fondamenti del linguaggio. L'aver imparato a parlare in modo naturale è stata un'altra fortuna - la pronuncia, la sintassi, le inflessioni, le peculiarità linguistiche, erano tutte cose che avevo ricevuto attraverso l'orecchio. Possedevo le basi di un vocabolario che mi era facile ampliare con la lettura. "Tutto ciò mi sarebbe stato negato se fossi nato sordo o se avessi perso l'udito in età ancora più tenera"» (6). Wright descrive le «voci fantasma» che ode quando qualcuno gli parla, purché possa "vedere" il movimento delle labbra e del volto dell'interlocutore, e racconta di come «oda» le folate di vento quando vede l'agitarsi degli alberi o dei rami. Affascinante è la sua descrizione delle prime manifestazioni di questo fenomeno, immediatamente dopo l'instaurarsi della sordità: «Ciò che rese [la mia sordità] più difficilmente percepibile fu il fatto che fin dall'inizio i miei occhi avevano inconsciamente cominciato a tradurre il movimento in suono. Mia madre stava quasi tutto il giorno accanto a me e io capivo tutto quello che diceva. Perché no? Senza saperlo, per tutta la vita avevo letto le sue labbra. Quando parlava, mi sembrava di udire la sua voce. Questa illusione rimase anche dopo che scopersi che era un'illusione. Mio padre, mio cugino, tutti quelli che conoscevo, conservarono per me le loro voci fantasma. Che tali voci fossero immaginarie, che fossero una proiezione dell'abitudine e della memoria, lo compresi solo quando uscii dall'ospedale. Un giorno stavo conversando con mio cugino ed egli, con un'ispirazione subitanea, si coprì la bocca con la mano mentre parlava. Silenzio! Improvvisamente e per sempre

compresi che, se non vedevo, non potevo sentire» (7). Malgrado Wright sappia che i suoni che «ode» sono «illusori», che sono «una proiezione dell'abitudine e della memoria», essi hanno mantenuto nel corso degli anni la stessa vivezza. Per Wright, per coloro che sono diventati sordi dopo aver potuto godere dell'udito, il mondo può restare pieno di suoni, anche se si tratta di suoni «fantasma» (8). Tutt'altra situazione, essenzialmente inimmaginabile per la persona normale (e anche per la persona rimasta sorda dopo l'acquisizione del linguaggio, cioè in età postlinguistica, o postlinguale, come Wright), è quella in cui l'udito è assente alla nascita, o è stato perso durante la primissima infanzia, prima dell'acquisizione del linguaggio. Le persone che si trovano in questa condizione, i cosiddetti sordi prelinguistici (o prelinguali), costituiscono una categoria qualitativamente differente da tutte le altre. Per queste persone, che non hanno mai udito in vita loro, che non hanno alcun ricordo uditivo, né immagini o associazioni uditive, non ci potrà mai essere neppure l'illusione del suono. Esse vivono in un mondo di totale e ininterrotta assenza di suono, un mondo di silenzio (9). I sordi congeniti, negli Stati Uniti, ammontano a qualcosa come un quarto di milione di individui, e in tutto il mondo un bambino su mille nasce sordo. E' di questi e solo di questi che ci occuperemo qui, perché la loro drammatica condizione non può essere paragonata a nessun'altra. Come mai? In genere la gente, se mai le accade di pensare alla sordità, tende a considerarla meno grave della cecità, a vederla come un handicap, un fastidio, uno svantaggio, ma non come una menomazione tragica e devastante. Si può forse sostenere che la sordità sopraggiunta in età adulta sia «preferibile» alla cecità, ma nascere sordi è, o almeno può essere, infinitamente peggio che nascere ciechi. Il sordo prelinguistico, infatti, non potendo udire i suoi genitori, rischia di restare gravemente ritardato, se non minorato per sempre, nell'acquisizione del linguaggio, se non si interviene fin dai primissimi anni o mesi di vita. Ed essere menomato nel linguaggio, per un essere umano, è una delle calamità più disperate, perché è solo attraverso il linguaggio che entriamo in pieno possesso della nostra umanità, che comunichiamo liberamente con i nostri simili, che acquisiamo e scambiamo informazioni. Se non siamo in grado di fare tutte queste cose, saremo per sempre singolarmente menomati e isolati - quali che siano i nostri desideri, i

nostri sforzi o le nostre capacità innate. Possiamo addirittura essere a tal punto impotenti a realizzare le nostre capacità intellettuali da apparire mentalmente deficienti (10). E' per tale ragione che i sordi congeniti, i «sordomuti» (11), furono ritenuti degli idioti per migliaia di anni e considerati da una legislazione miope come soggetti «incapaci» - di ereditare, di sposarsi, di ricevere un'istruzione, di svolgere un lavoro non banalmente ripetitivo - e si videro rifiutare i diritti umani fondamentali. Solo verso la metà del Settecento si cominciò a porre rimedio a questa situazione, allorché (forse per il più diffuso atteggiamento illuminato, o forse per un brillante slancio di empatia) la figura del sordo e la sua situazione subirono un radicale mutamento. I "philosophes" rimasero chiaramente affascinati dalle questioni e dai problemi singolarissimi sollevati da esseri umani che apparivano privi del linguaggio. Il «ragazzo selvaggio» dell'Aveyron (12), quando nel 1800 venne portato a Parigi, fu ammesso all'Istituto nazionale per i sordomuti, che all'epoca era diretto dall'abbé Roch-Ambroise Sicard, membro fondatore della Società degli osservatori dell'uomo e riconosciuta autorità in materia di educazione dei sordi. Scrive Jonathan Miller: «Dal punto di vista dei membri di questa società, il "ragazzo selvaggio" rappresentava un caso ideale che permetteva di investigare le basi dell'umana natura ... Studiando una creatura di questa sorta, così come avevano studiato in precedenza selvaggi e primitivi, pellirosse e orangutàn, gli intellettuali della fine del Settecento speravano di arrivare a stabilire che cosa caratterizzi l'Uomo. Speravano che sarebbe stato finalmente possibile pesare le doti innate della specie umana e decidere una volta per tutte quanta parte avesse la società nello sviluppo del linguaggio, dell'intelligenza e della morale» (13). Qui le due imprese divergevano, una destinata a finire in modo trionfale, l'altra a fallire miseramente. Il «ragazzo selvaggio» non acquisì mai il linguaggio, quale ne sia stata la ragione (o le ragioni). Una possibilità non fu tenuta nel giusto conto: stranamente, il ragazzo non venne mai esposto a una lingua di segni, e fu invece continuamente (e vanamente) forzato a cercare di parlare. Ma quando si adottò con i «sordomuti» un approccio più consono, cioè una lingua gestuale, essi si rivelarono eminentemente educabili, e mostrarono ben presto a un mondo attonito con quanta ricchezza e con quanto agio potevano far propria la sua cultura e la sua vita. Questo

accadimento meraviglioso - come una minoranza negletta o disprezzata, a cui fino ad allora era stata praticamente negata la condizione di esseri umani, sia emersa in modo improvviso e sorprendente sulla scena del mondo (per perdere poi tragicamente buona parte di questa conquista nel secolo seguente) - costituisce il capitolo di apertura della storia dei sordi. Prima di lanciarci in questa strana storia, torniamo brevemente alle osservazioni del tutto personali e «ingenue» di David Wright («ingenue» perché Wright, come egli stesso fa notare, evitò di proposito qualsiasi lettura sull'argomento prima di aver terminato di scrivere il suo libro). A otto anni, quando fu ormai chiaro che la sua sordità era incurabile e che le sue capacità vocali sarebbero regredite se non si adottava qualche provvedimento, fu mandato a una scuola speciale in Inghilterra, una delle scuole rigorosamente e spietatamente votate alla tesi «oralista», che mirano in primo luogo a far sì che i sordi parlino come gli altri bambini, e che, da quando esistono, tanto male hanno arrecato ai sordi prelinguistici. Il giovane Wright rimase sconcertato dal suo primo incontro con i sordi prelinguistici: «Qualche volta andavo a lezione con Vanessa. Prima di allora non avevo conosciuto nessun bambino sordo ... Perfino a un ragazzino di otto anni come me le sue conoscenze generali apparvero stranamente limitate. Una volta, durante una lezione di geografia, Miss Neville chiese: "Chi è il re d'Inghilterra?". «Vanessa non lo sapeva; imbarazzata, tentò di sbirciare nel libro di geografia aperto al capitolo sulla Gran Bretagna, che avevamo studiato. "Il re... il re..." cominciò Vanessa. "Avanti" ordinò Miss Neville. "Io lo so" intervenni. "Taci". "Regno Unito" disse Vanessa. Io risi. "Sei una sciocca" disse Miss Neville. "Come fa un re a chiamarsi Regno Unito?". "Re Regno Unito" tentò la povera Vanessa, scarlatta. "Diglielo tu, se lo sai, David". "Il re Giorgio Quinto" dissi io trionfante. "Non è giusto! Non c'era nel libro!". «Naturalmente Vanessa aveva ragione: il capitolo sulla geografia della

Gran Bretagna non si occupava delle sue istituzioni politiche. Era una bambina tutt'altro che stupida, ma, essendo nata sorda, il suo vocabolario, lentamente e faticosamente acquisito, era ancora troppo limitato e non le consentiva di leggere per puro divertimento. Di conseguenza non aveva alcun canale attraverso cui cogliere quella miscellanea di informazioni, lì per lì inutili, che gli altri bambini acquisiscono senza rendersene conto, chiacchierando o piluccando tra i libri. Quasi tutto ciò che sapeva l'aveva imparato o a lezione o sui libri di scuola. E questa è una differenza fondamentale tra i bambini udenti e i bambini sordi dalla nascita - o almeno lo era, nell'epoca pre-elettronica» (14). La situazione di Vanessa, come si vede, era veramente seria, malgrado le sue doti innate, e il tipo di insegnamento e di comunicazione che le veniva imposto vi poneva rimedio con grande difficoltà, o addirittura la perpetuava. Infatti in questa scuola progressista - perché tale era considerata - vigeva la proibizione ferrea, quasi fanatica, di usare la lingua dei segni: non solo il tradizionale British Sign Language, ma anche quel rudimentale «argot» segnico che i bambini sordi sviluppano da soli a scuola. Malgrado tutto ciò, nella scuola il ricorso al linguaggio gestuale fioriva (anche questo Wright lo descrive molto bene); era qualcosa di irreprimibile, a dispetto di qualsiasi punizione e proibizione. Ecco quale fu la prima impressione del piccolo David di fronte ai suoi nuovi compagni: «La confusione mi sbalordisce, le braccia ruotano come mulini a vento durante una tempesta ... l'enfatico vocabolario silenzioso del corpo: aspetto, espressione, portamento, occhi; mani impegnate nella loro pantomima. Un pandemonio che mi assorbe completamente ... comincio a distinguere qualcosa di quanto accade. Il mulinare apparentemente invasato delle mani e delle braccia si riduce a una convenzione, a un codice, che però non trasmette ancora alcun messaggio. E' in realtà una sorta di gergo. La scuola ha sviluppato un suo linguaggio particolare, un suo argot, anche se non verbale ... Tutte le comunicazioni dovevano essere orali. Naturalmente il nostro privato argot segnico era proibito ... ma non era possibile far osservare queste disposizioni quando gli insegnanti non erano presenti. Quello che ho descritto non è come parlavamo, ma come parlavamo tra di noi quando non c'era in giro nessun udente. In questi casi il nostro comportamento e la nostra conversazione cambiavano radicalmente. Perdevamo ogni inibizione, ci toglievamo la maschera» (15).

Tale era la Northampton School nelle Midlands inglesi, quando Wright vi entrò nel 1927. Per lui, un bambino sordo postlinguistico con una buona padronanza del linguaggio, la scuola era eccellente. Per Vanessa, come per gli altri bambini sordi prelinguistici, una scuola del genere, con la sua impostazione spietatamente oralista, era poco meno che catastrofica. Ma un secolo prima, per esempio nell'American Asylum for the Deaf, aperto nel 1817 a Hartford, nel Connecticut, dove c'era libero uso della lingua dei segni tra allievi e insegnanti, Vanessa non si sarebbe trovata così dolorosamente svantaggiata; avrebbe potuto raggiungere un'ottima istruzione, diventare forse addirittura una scrittrice, come accadde a diverse ragazze della sua età, intorno al 1830. La situazione dei sordi prelinguistici prima del 1750 era davvero disastrosa: incapaci di apprendere il linguaggio parlato, e pertanto «muti» e quindi ridotti al livello di «idioti»; incapaci di godere di un libero scambio di comunicazioni perfino con i genitori e i familiari; limitati a pochi segni e gesti rudimentali; tagliati fuori, salvo che nelle grandi città, perfino dalla comunità dei loro simili; lasciati nella più assoluta ignoranza culturale e sociale; obbligati a fare i lavori più umili; costretti a vivere da soli, spesso in condizioni prossime alla miseria; trattati dalla legge e dalla società quasi alla stregua dei deficienti - la sorte dei sordi era palesemente orribile (16). Ma ciò che era palese era niente in confronto alla povertà interiore - la povertà culturale e intellettuale che la sordità prelinguistica quasi sempre porta con sé, in assenza di ogni comunicazione o di misure appropriate. La deplorevole condizione dei sordi attirò la curiosità e la comprensione dei "philosophes". L'abbé Sicard, ad esempio, chiedeva: «"Perché" il sordo non istruito ha una natura solitaria e non sa comunicare con gli altri uomini? "Perché" è ridotto in tale stato di imbecillità? Forse che la sua costituzione biologica differisce dalla nostra? Forse che egli non ha tutto quanto occorre per provare sensazioni, acquisire idee e combinarle in modo da fare tutto quanto facciamo noi? Forse che non riceve dagli oggetti le stesse impressioni sensoriali che riceviamo noi? E non sono tali impressioni quelle che stimolano le sensazioni della mente e quindi le idee che essa acquisisce, come accade a noi? Ma allora, perché il sordo rimane stupido, mentre noi diventiamo intelligenti?» (17). Porsi questa domanda - mai fino ad allora realmente o chiaramente

formulata - è anche vedere come la risposta stia nell'uso dei simboli. E' perché il sordo, prosegue Sicard, «non possiede simboli per fissare e combinare le idee ... che esiste questa totale impossibilità di comunicare con gli altri». Ma il punto più importante, un punto che è stato all'origine di una confusione fondamentale fin da quando Aristotele si pronunciò in materia, era la persistente ed erronea convinzione che tali simboli debbano essere parole. Anzi, l'origine di un così radicato pregiudizio può forse essere fatta risalire ai tempi biblici, visto che la condizione subumana dei muti era già codificata nella legge mosaica, e rinforzata dall'esaltazione biblica della voce e dell'orecchio come unico e vero modo in cui uomo e Dio possono comunicare («In principio era il Verbo»). Eppure, alcune voci profonde, benché sopraffatte dal tuonare di Mosè e di Aristotele, osarono affermare che le cose non stavano necessariamente così. Si pensi all'osservazione di Socrate nel "Cratilo" di Platone, che tanto impressionò il giovane abbé de l'Epée: «Se noi non avessimo né voce né lingua, e ciò nondimeno volessimo manifestare l'uno all'altro le cose, non ci sforzeremmo, come fanno ora i muti, di significare il nostro intendimento con le mani e con il capo e con il resto del corpo?». Oppure si pensi alle profonde, eppure ovvie, intuizioni del medico e filosofo Cardano nel Cinquecento: «E' possibile mettere un sordomuto nella condizione di udire mediante la lettura, e di parlare mediante la scrittura ... perché così come si usano convenzionalmente suoni differenti per significare differenti cose, altrettanto possono fare le varie figure degli oggetti e delle parole ... I caratteri scritti e le idee possono essere connessi tra di loro senza l'intervento dei suoni». Cardano sosteneva, cioè, con un atteggiamento rivoluzionario per il suo secolo, che la comprensione delle idee non dipendeva dalla possibilità di udire le parole (18). Solitamente, però, non sono le idee dei filosofi a mutare la realtà, come del resto non lo è il comportamento della gente comune. Quello che muta la storia, che innesca le rivoluzioni, è l'incontro delle due cose. Una mente elevata, quella di de l'Epée, doveva incontrarsi con un'umile pratica, la lingua dei segni usata dai sordi poveri che vagavano per Parigi, per rendere possibile una trasformazione di grande portata. Se ci chiediamo perché questo incontro non fosse avvenuto prima, dobbiamo pensare alla vocazione pastorale di de l'Epée, che non sopportava l'idea delle anime dei sordomuti costretti a vivere

e a morire senza confessione e assoluzione, privati del catechismo, delle Scritture, della parola del Signore; a questo bisogna aggiungere da un lato la sua umiltà - il fatto che "ascoltò" i sordi - e dall'altro un'idea filosofica e linguistica che era nell'aria: quella di una lingua universale, come lo "speceium" sognato da Leibniz (19). Così, de l'Epée si accostò alla lingua dei segni non con albagìa ma con reverente rispetto: «La lingua universale che i vostri studiosi hanno cercato invano e della cui esistenza hanno disperato è qui: è proprio davanti ai vostri occhi, è la mimica dei poveri sordi. Poiché non la conoscete, la tenete in dispregio, eppure essa sola vi fornirà la chiave di tutte le lingue» (20). Non ha importanza, anzi fu addirittura un vantaggio, che questa tesi fosse infondata, cioè che la lingua dei segni non fosse la vagheggiata lingua universale e il grandioso sogno di Leibniz fosse probabilmente una chimera (21). La cosa importante fu che de l'Epée prestò una meticolosa attenzione ai suoi allievi e imparò il loro linguaggio (cosa ben di rado fatta in precedenza dagli udenti). Poi, associando i segni a immagini e a parole scritte, insegnò loro a leggere; e con questo, d'un sol colpo, spalancò davanti a loro le porte del sapere e della cultura. Il suo sistema dei segni «metodici» - una combinazione dei loro segni con segni che corrispondevano agli elementi morfosintattici del francese - permetteva agli studenti sordi di scrivere quanto un interprete segnante diceva loro, e si dimostrò così efficace che, per la prima volta, consentì ad allievi sordi normali di leggere e scrivere in francese e in tal modo acquisire un'istruzione. La scuola che de l'Epée fondò nel 1755 fu la prima a ricevere un sostegno pubblico. Egli addestrò un grandissimo numero di insegnanti per sordi, i quali, all'epoca della sua morte, nel 1789, avevano ormai istituito ventuno scuole per sordi in Francia e in Europa. Durante il caos della Rivoluzione il futuro della scuola di de l'Epée a Parigi sembrò incerto, ma nel 1791 essa era diventata l'Istituto nazionale per i sordomuti, diretto dal brillante grammatico Sicard. Il libro di de l'Epée, rivoluzionario nel suo campo quanto quello di Copernico, fu pubblicato nel 1776, ed è un classico ormai disponibile in molte lingue. Ma quelli che non sono disponibili, che sono rimasti praticamente sconosciuti, pur essendo altrettanto importanti e forse perfino più affascinanti, sotto certi aspetti, sono gli scritti originali dei sordi - dei primi sordomuti che mai furono in grado di scrivere.

Harlan Lane e Franklin Philip ci hanno reso un grande servizio raccogliendoli in "The Deaf Experience". In particolar modo commoventi e importanti sono le "Observations" di Pierre Desloges (1779), il primo libro pubblicato da un sordo (ora per la prima volta disponibile in inglese). Desloges, rimasto sordo in tenera età, pressoché privo della parola, ci offre una descrizione terrificante del mondo, o non mondo, delle persone prive di linguaggio: «All'inizio della mia infermità, e per tutto il tempo in cui vissi separato da altre persone sorde ... non conoscevo la lingua dei segni. Usavo solo alcuni segni isolati, senza connetterli tra loro. Non conoscevo l'arte di collegarli in modo da formare raffigurazioni distinte che consentono di rappresentare idee diverse, trasmetterle ai propri simili e conversare in un discorso logico» (22). Desloges quindi, pur essendo palesemente un uomo molto dotato, aveva una limitatissima capacità di formulare «concetti» o di svolgere un «discorso logico», "finché" non ebbe acquisito la lingua dei segni (che apprese, come accade di solito, da un altro sordo, nel suo caso da un sordomuto analfabeta). Fu insomma intellettualmente menomato, benché di grande intelligenza, fino a quando non ebbe imparato i Segni - in particolare, per usare il termine che il neurologo inglese John Hughlings Jackson avrebbe usato un secolo dopo a proposito delle menomazioni relative all'afasia, era incapace di «proposizionare». Per chiarire questo concetto, non sarà inutile citare le parole dello stesso Jackson: «Noi non parliamo né pensiamo con parole o segni soltanto, ma con parole o segni che si rimandano gli uni con gli altri in un modo particolare ... Senza un'appropriata interrelazione delle sue parti, un enunciato verbale sarebbe una mera successione di nomi, un cumulo di parole non costituenti alcuna proposizione ... L'unità del discorso è la proposizione. La perdita della parola (afasia) è pertanto la perdita della facoltà proposizionale ... non solo la perdita della capacità di formare proposizioni ad alta voce (di parlare), ma di proposizionare in assoluto, interiormente oltre che esteriormente ... Il paziente afasico ha perso la parola, non solo nel senso popolare di non saper emettere parole, ma nel senso più completo dell'espressione. Noi non parliamo solo per comunicare i nostri pensieri agli altri, ma anche per comunicarli a noi stessi. Parlare fa parte del pensare» (23). E' per tale ragione che in precedenza ho affermato che la sordità

prelinguistica è molto più devastante della cecità. Essa infatti può mettere nella condizione, se non si fa nulla per evitarlo, di essere virtualmente privi di linguaggio, di essere incapaci di «proposizionare», una condizione da paragonarsi all'afasia, nella quale il pensiero stesso può diventare incoerente e atrofizzato. Il sordo privo di linguaggio può veramente essere "come" un idiota, e in un modo particolarmente crudele, in quanto l'intelligenza, benché presente e forse ricca, è bloccata fintantoché dura la mancanza del linguaggio. Ha quindi ragione Sicard quando, con un'immagine poetica, scrive che insegnare i Segni è come «aprire le porte ... dell'intelligenza per la prima volta». Nulla è più meraviglioso, nulla è più degno di lode, di qualcosa che riesca a sbloccare le facoltà di un essere umano e gli permetta di crescere e di pensare; e nessuno celebra o descrive tutto ciò con più entusiasmo ed eloquenza di questi muti improvvisamente liberati, come Pierre Desloges: «La lingua [dei segni] che usiamo tra di noi, essendo un'immagine fedele dell'oggetto espresso, è singolarmente appropriata per rendere esatte le nostre idee e per ampliare la nostra comprensione instillando in noi l'abitudine costante dell'osservazione e dell'analisi. Questa lingua è vivace: essa raffigura i sentimenti e sviluppa l'immaginazione. Nessun'altra lingua è più appropriata per comunicare intense emozioni» (24). Ma neppure de l'Epée era consapevole del fatto (o vi credette) che la lingua dei segni è una lingua completa, capace di esprimere non solo tutte le emozioni, ma anche qualsiasi proposizione, una lingua che permette a chi la usa di discutere qualsiasi argomento, concreto o astratto, con altrettanta misura, efficacia e ricchezza grammaticale della lingua vocale (25). Questo in realtà è sempre stato evidente, anche se solo in modo implicito, a chiunque abbia appreso a usare i segni fin da bambino, ma è sempre stato negato dagli udenti e dai parlanti, che, pur con le migliori intenzioni del mondo, considerano i segni come qualcosa di rudimentale, primitivo, una sorta di povera pantomima. De l'Epée cadde in questo errore - in cui seguitano a cadere ancora oggi quasi tutti gli udenti. Si deve invece comprendere che le cose stanno all'opposto, che i Segni hanno pari dignità rispetto alla lingua parlata, che si prestano altrettanto bene di questa all'espressione di concetti e alla poesia, che possono essere usati per fare tanto una dissertazione filosofica quanto una dichiarazione d'amore - anzi talvolta permettono una scioltezza maggiore della lingua parlata. (Può

addirittura capitare che un udente, che abbia appreso i Segni come prima lingua, seguiti a usarli come alternativa, a volte privilegiata, del parlato). Il filosofo Condillac, che in un primo tempo aveva visto i sordi come «statue senzienti» o «macchine ambulanti», incapaci di pensare o compiere qualsiasi attività mentale coordinata, recatosi in incognito alle lezioni di de l'Epée, si convertì e fu il primo a dare un avallo filosofico al suo metodo e alla lingua dei segni: «Partendo dal linguaggio delle azioni, de l'Epée ha creato un'arte metodica, facile e semplice, con cui trasmette ai suoi allievi qualsiasi tipo di idea, e, oserei dire, idee più precise di quelle normalmente apprese mediante l'udito. Quando, da piccoli, ricaviamo il significato di una parola basandoci solo sulle circostanze in cui l'abbiamo udita, accade spesso che ne afferriamo il significato solo in modo approssimativo, e che per tutta la vita ci accontentiamo di questo grado di approssimazione. Ben diversamente vanno le cose per i sordi istruiti da de l'Epée. Egli dispone di un unico mezzo per trasmettere loro concetti ricavati da esperienze sensoriali: analizzarli davanti agli allievi e insieme con loro. In tal modo egli guida gli allievi da quei concetti alle idee astratte; da ciò possiamo capire quanto il suo linguaggio di gesti sia superiore ai suoni verbali delle nostre governanti e dei nostri precettori» (26). In Condillac come nel pubblico in generale, che anch'esso si affollava alle dimostrazioni di de l'Epée e di Sicard, si verificò una vera e propria conversione, un'adesione generosa che portò ad accettare nella società umana coloro che prima ne erano esclusi. Questo periodo - che oggi appare quasi come un'età dell'oro nella storia dei sordi - vide la rapida istituzione in tutto il mondo civile di numerose scuole per sordi, per lo più condotte da insegnanti sordi, l'emergere dei sordi dal buio e dall'oblio, la loro emancipazione e il loro affrancamento, seguiti ben presto dalla comparsa di sordi in posti di responsabilità e di prestigio; all'improvviso divenne possibile qualcosa che in precedenza non si poteva nemmeno concepire: l'emergere di scrittori sordi, ingegneri sordi, filosofi sordi, intellettuali sordi. Quando nel 1816 Laurent Clerc (un allievo di Massieu, a sua volta allievo di Sicard) si recò negli Stati Uniti, esercitò immediatamente un'influenza straordinaria, perché prima di allora gli insegnanti americani non avevano mai avuto a che fare con un sordomuto dotato di intelligenza e

cultura così brillanti, non avevano mai neppure immaginato che nei sordi vi fossero potenzialità latenti. Assieme a Thomas Gallaudet, Clerc creò a Hartford, nel 1817, l'American Asylum for the Deaf (27). Come già a Parigi cinquant'anni prima con de l'Epée, anche in America professori, pensatori e pubblico furono commossi e stupiti, e non tardarono a convertirsi. L'atmosfera della scuola di Hartford e delle altre scuole che seguirono ben presto era caratterizzata da quel fervente entusiasmo che si respira solo all'inizio delle grandi avventure intellettuali e umanitarie (28). Il successo della scuola di Hartford, pronto e spettacolare, portò in breve tempo all'apertura di altre scuole ovunque la densità della popolazione, e quindi degli allievi sordi, la giustificasse. Gli insegnanti erano quasi tutti ex allievi di Hartford, in gran parte sordi essi stessi, e quasi tutti sapevano usare con disinvoltura i segni. Il sistema dei segni francese importato da Clerc si amalgamò rapidamente con le lingue di segni locali (i sordi generano una lingua di segni ovunque siano raccolti in comunità, dato che per loro essa è la modalità di comunicazione più naturale e più facile), dando origine a un ibrido dotato di una capacità espressiva e di una forza tutte particolari, l'American Sign Language (A.S.L.) (29). Un contributo locale di eccezionale portata fu dato allo sviluppo dell'A.S.L. dai sordi della comunità di Martha's Vineyard (ne parla con grande efficacia Nora Ellen Groce nel suo libro "Everyone Here Spoke Sign Language"). A Martha's Vineyard una nutrita minoranza della popolazione soffriva di sordità ereditaria, e su gran parte del suo territorio era stata adottata una lingua dei segni facile e potente. Quasi tutti i sordi dell'isola frequentarono la scuola di Hartford nei primi anni della sua attività, arricchendo la nascente lingua nazionale di tutto il vigore e l'espressività della loro singolare lingua locale. L'impressione che se ne ricava è di una sorta di impollinazione linguistica, di un fitto andirivieni di persone che portano a Hartford le proprie lingue regionali, con le loro peculiarità e i loro punti di forza, riportandone a loro volta una lingua sempre più generalizzata e perfezionata (30). Alfabetizzazione e cultura si diffusero fra i sordi degli Stati Uniti con la stessa spettacolare rapidità che si era avuta in Francia, e ben presto si propagarono ad altre parti del mondo. Lane stima che nel 1869 vi fossero nel mondo 550 insegnanti per sordi e che il 41 per cento degli insegnanti per sordi negli Stati Uniti fossero essi

stessi sordi. Nel 1864 il Congresso approvò una legge che autorizzava la trasformazione della Columbian Institution for the Instruction of the Deaf and the Blind di Washington in un "college" nazionale per sordomuti. Nacque così il primo istituto di studi superiori destinato specificamente ai sordi; il suo primo direttore fu Edward Gallaudet, figlio del Thomas Gallaudet che aveva portato Clerc negli Stati Uniti. Il Gallaudet College, come fu in seguito ribattezzato (oggi si chiama Gallaudet University), è tuttora l'unica università per sordi esistente al mondo elettivamente dedicata alle discipline umanistiche, mentre sono ormai numerosi i programmi e gli istituti per sordi affiliati a università con indirizzo scientifico. (Il più famoso è il National Technical Institute for the Deaf (N.T.I.D.), affiliato all'Institute of Technology di Rochester, nello Stato di New York, e frequentato da più di 1500 studenti). L'ondata di istruzione e di liberazione dei sordi che aveva percorso la Francia tra il 1770 e il 1820 proseguì così la sua avanzata trionfale negli Stati Uniti fino al 1870 (Clerc, prodigiosamente attivo fino alla fine e dotato di grande carisma personale, morì nel 1869). Ma poi la marea invertì il suo corso - questo è il momento di svolta di tutta la storia -, l'uso dei Segni cadde in disgrazia e nel giro di venti anni venne distrutto il lavoro di un secolo. In realtà ciò che accadde ai sordi e ai Segni faceva parte di un movimento generale (e, se si vuole, «politico»): era la tendenza vittoriana verso il conformismo e la repressione, l'intolleranza nei confronti delle minoranze e dei loro costumi in ogni campo: religioso, linguistico, etnico. Fu appunto in quell'epoca che le «piccole nazioni» e le «lingue minori» (per esempio, il Galles e il gallese) subirono forti pressioni perché si assimilassero o si conformassero. Tornando al campo che ci interessa, esisteva già da due secoli una controcorrente di pensiero, sostenuta da insegnanti e genitori di bambini sordi, che si poneva come obiettivo dell'insegnamento ai sordi l'educazione all'uso della parola. Già un secolo prima de l'Epée si era trovato in disaccordo, implicito se non esplicito, con Péreire, il maggior «oralista» o «demutizzatore» del suo tempo, che dedicò la sua vita a insegnare ai sordi a parlare; ed era davvero un'impresa che richiedeva grande dedizione, perché comportava anni di addestramento intensivo e faticosissimo e aveva speranza di successo soltanto se l'insegnante si concentrava su un solo allievo, mentre de l'Epée poteva istruire centinaia di allievi alla volta e in tempi assai più

brevi. Ora, intorno al 1870, una corrente che si era ingrossata nel corso di decenni, alimentata, paradossalmente, proprio dall'immenso successo degli istituti per sordomuti e dalle loro spettacolari dimostrazioni dell'educabilità dei sordi, ruppe gli argini e cominciò a distruggere lo strumento stesso di tale successo. C'erano, è vero, dilemmi reali, come sempre ne sono esistiti - dilemmi che sussistono ancora oggi. A che serve, ci si chiedeva, l'uso dei segni senza il linguaggio vocale? Il risultato non è di condannare i sordi a comunicare solo con altri sordi? Non si deve invece insegnare a parlare (e a leggere sulle labbra), consentendo loro una piena integrazione nella società? Non è meglio bandire i segni, perché non interferiscano con la lingua vocale? (31). Esiste però l'altra faccia della medaglia. Se l'insegnamento del linguaggio vocale è tanto arduo e richiede decine di ore alla settimana, i vantaggi del parlare non sono inficiati o ridotti dalla impossibilità di trovare il tempo per impartire un'istruzione generale? Non ci si troverebbe alla fine con un analfabeta funzionale, capace, nel migliore dei casi, di una misera imitazione del linguaggio vocale? Che cosa è «meglio», l'integrazione o l'istruzione? Non si potrebbe avere l'una e l'altra, combinando il linguaggio vocale con i Segni? E se invece un simile tentativo di amalgama facesse emergere i difetti dei due metodi, anziché i vantaggi? Erano dilemmi e controversie che si erano andati rinforzando, a quanto pare, benché in modo sotterraneo, nel corso di un intero secolo di conquiste - conquiste che invece da molti potevano essere considerate, e lo furono, negative, foriere di isolamento e di emarginazione. Edward Gallaudet, che era un uomo di aperte vedute, viaggiò molto in Europa, visitando le scuole per sordi di quattordici paesi. Trovò così che la maggior parte di tali scuole usava sia la lingua dei segni che quella vocale, e che i risultati ottenuti dove si usavano i Segni erano equiparabili a quelli delle scuole oraliste prendendo in esame l'articolazione delle parole, ma erano migliori per quanto riguardava l'istruzione generale. Si convinse pertanto che l'abilità articolatoria, ancorché sommamente desiderabile, non poteva costituire la base dell'istruzione primaria, obiettivo che doveva essere conseguito attraverso i Segni, e nei primissimi anni di età. Di contro alle tesi equilibrate di Gallaudet, vi erano molti esempi di estremismo. Un'ondata di «riformatori» - Samuel Gridley Howe e Horace Mann ne furono esempi egregi - aveva reclamato a gran voce la soppressione

degli istituti basati sulla ormai «superata» lingua dei segni e l'introduzione di scuole oraliste «progressiste», la prima delle quali fu la Clarke School for the Deaf di Northampton nel Massachusetts, aperta nel 1867. (Ad essa si ispirò in Inghilterra la Northampton School, fondata l'anno seguente dal reverendo Thomas Arnold). Ma la più importante e autorevole tra queste figure di «oralisti» fu Alexander Graham Bell, figlio e nipote di eminenti specialisti di ortoepia e di correzione dei difetti di pronuncia, coinvolto personalmente nei problemi della sordità (sua madre e sua moglie erano entrambe sorde ma negavano la loro menomazione) e, naturalmente, il genio tecnologico che tutti conoscono. Quando Bell intervenne con il peso della sua immensa autorità e del suo prestigio in difesa dell'oralismo, la bilancia pendette alla fine in modo deciso da una parte, e al famigerato Congresso internazionale degli educatori dei sordi tenuto a Milano nel 1880, in cui gli insegnanti sordi furono esclusi dal voto, l'oralismo vinse la partita e l'uso dei Segni fu «ufficialmente» bandito dalle scuole (32). Gli allievi sordi, cui era ormai proibito di usare la loro lingua «naturale», da quel momento furono obbligati a imparare, come meglio potevano, la lingua vocale, per loro «innaturale». E forse questa decisione era in accordo con l'arroganza intellettuale dei tempi, con la visione della scienza come potere e con l'idea che la natura deve essere dominata e asservita sempre e dovunque. Una delle conseguenze del nuovo orientamento fu che adesso gli studenti sordi dovevano essere affidati a insegnanti non sordi. La proporzione dei docenti sordi che insegnavano ai sordi, nel 1850 prossima al 50 per cento, scese al 25 per cento verso la fine del secolo e al 12 per cento nel 1960. Sempre più l'inglese divenne la lingua in cui venivano istruiti gli studenti sordi; sempre meno insegnanti per sordi conoscevano la lingua dei segni: era la situazione che David Wright trovò nella sua scuola negli anni Venti. Nessuna di queste cose sarebbe stata importante se l'oralismo avesse funzionato; disgraziatamente, invece, l'effetto è stato l'opposto di quello voluto, e l'apprendimento della lingua vocale è stato ottenuto a un prezzo intollerabile. Gli studenti sordi che nella seconda metà del secolo scorso uscivano dalla scuola di Hartford, o da altre scuole simili, erano persone istruite, in possesso di una cultura che nulla aveva da invidiare a quella dei loro coetanei udenti. Ora accade il contrario. L'oralismo e la soppressione dei Segni hanno portato a un netto abbassamento del livello di istruzione raggiunto dai ragazzi sordi e del livello di alfabetizzazione dei sordi in

generale (33). Questa miserevole situazione, comunque la si voglia interpretare, è nota a tutti coloro che insegnano ai sordi. Hans Furth, uno psicologo che ha studiato le capacità cognitive dei sordi, afferma che le loro prestazioni sono pari a quelle degli udenti nei compiti che misurano l'intelligenza ma che non richiedono informazioni acquisite (34), e sostiene che i sordi congeniti soffrono di «deprivazione di informazione». Molte sono le ragioni di tale carenza. In primo luogo, i sordi sono meno esposti all'apprendimento «occasionale» che avviene fuori dalla scuola - per esempio, a quel sottofondo di conversazione che accompagna la vita di tutti i giorni, alla televisione (a meno che sia sottotitolata), e così via. In secondo luogo l'educazione scolare dei sordi è più povera di contenuti rispetto a quella dei bambini udenti perché è tanto il tempo dedicato all'apprendimento della lingua vocale (in media da cinque a otto anni di addestramento intensivo) che ne resta ben poco per l'apprendimento di altre nozioni, di una cultura, di abilità complesse, e così via. Eppure il desiderio di far parlare i sordi, il volerli far parlare a tutti i costi, e fin dall'inizio, le strane superstizioni che hanno sempre circondato l'uso della lingua dei segni (per non parlare degli enormi investimenti nelle scuole oraliste), hanno permesso che si sviluppasse questa esecrabile situazione, che è passata pressoché inosservata da tutti, fuorché dai sordi, i quali però avevano ben poca voce in capitolo, dal momento che essi stessi passavano inosservati. E fu solo durante gli anni Sessanta che storici e psicologi, assieme a genitori e insegnanti di bambini sordi, cominciarono a chiedersi: «Che cosa è successo? che cosa sta succedendo?». Fu solo negli anni Sessanta e all'inizio degli anni Settanta che questa situazione raggiunse il vasto pubblico, sotto forma di romanzi come "In This Sign", di Joanne Greenberg (1970), e più di recente con il lavoro teatrale (e in seguito il film, di grande successo) "Figli di un Dio minore", di Mark Medoff (35). Ormai è chiaro che occorre intervenire, ma in che modo? Ci sono, naturalmente, le soluzioni di compromesso, sempre allettanti: la speranza che un sistema «combinato» di segni e lingua vocale possa dare al sordo la padronanza di entrambi; oppure il progetto di creare una lingua intermedia tra l'inglese e i Segni (ossia, un inglese segnato). L'equivoco insito in quest'ultima soluzione ha in realtà una lunga storia e risale ai «segni metodici» di de l'Epée, che costituivano un tentativo di mediazione tra la

lingua francese e i Segni. Le vere lingue dei segni sono invece lingue autosufficienti, con sintassi, grammatica e semantica complete, aventi però natura diversa rispetto alle lingue parlate o scritte. Sicché non è possibile tradurre parola per parola o frase per frase una lingua parlata nei Segni, poiché le loro strutture sono essenzialmente diverse. Si immagina sovente, con una certa vaghezza, che la lingua dei segni sia l'inglese o il francese; essa non è nulla del genere: è una lingua a sé, i Segni. Sicché 1'«inglese segnato», un compromesso che oggi si ama proporre, non è assolutamente necessario; non occorre alcuna pseudolingua intermedia. Eppure, si obbligano i sordi a imparare i segni non per esprimere idee e azioni, ma per indicare suoni fonetici inglesi che essi non possono udire. Ancora oggi si preferisce l'uso dell'inglese segnato, in questa o in quella sua forma, all'uso dell'A.S.L. L'istruzione impartita ai sordi, quando si avvale di segni, usa per lo più l'inglese segnato; la maggior parte degli insegnanti per sordi, se mai conosce dei segni, conosce l'inglese segnato e non l'A.S.L. Così, un secolo dopo il Congresso di Milano, i sordi sono ancora in grandissima parte privati della lingua che è la loro. Quanto all'assai più importante sistema combinato di insegnamento, quello in cui, oltre alla lingua dei segni gli studenti imparano anche a leggere le labbra e a parlare, si tratta di un sistema che forse può funzionare, purché si tenga conto di quali facoltà possano essere meglio sviluppate nelle diverse fasi della crescita. Il punto essenziale è questo: che i sordi profondi non mostrano la minima disposizione innata a parlare. Parlare è una facoltà che dev'essere loro insegnata, e richiede anni di fatiche; d'altro canto, i sordi profondi mostrano una forte e immediata disposizione per i Segni, che, in quanto lingua visiva, sono per loro completamente accessibili. Ciò risulta nel modo più evidente nei figli sordi di genitori sordi che usano i Segni: questi bambini cominciano a fare i primi segni già a sei mesi, e verso i quindici mesi sono in grado di usare la lingua dei segni con notevole padronanza (36). Il linguaggio va insegnato e imparato il più presto possibile, altrimenti il suo sviluppo può restare ritardato e menomato per sempre, con tutti quei problemi relativi all'abilità di «proposizionare» messi in luce da Jackson. Per i sordi profondi, questo si può fare solo con i Segni; per questa ragione è essenziale diagnosticare la sordità il più presto possibile (37). I bambini sordi devono essere per prima cosa esposti a persone che sappiano segnare con

scioltezza: possono essere i genitori, degli insegnanti, o altri. Una volta appreso tale linguaggio (che può essere perfettamente sviluppato già verso i tre anni), si può far seguire tutto quel che si vuole: un libero scambio intellettuale, una libera trasmissione di informazioni, l'apprendimento della lettura e della scrittura e magari anche della lingua parlata. Nulla indica che l'uso dei segni inibisca l'acquisizione della lingua vocale; piuttosto è probabile il contrario. Sempre e ovunque i sordi sono stati visti come «handicappati», come persone «inferiori»? Hanno sempre sofferto la segregazione e l'isolamento? Sono destinati a soffrirne per sempre? E' possibile immaginare per loro una condizione diversa? Magari esistesse un mondo in cui essere sordi non avesse importanza, e in cui tutti i sordi potessero godere di una piena realizzazione e integrazione! Un mondo in cui essi non fossero in alcun modo visti come «handicappati» o come «sordi» (38). Ebbene, mondi siffatti esistono, e sono esistiti in passato, e uno di essi è descritto nel bellissimo e affascinante libro di Nora Ellen Groce, "Everyone Here Spoke Sign Language: Hereditary Deafness on Martha's Vineyard". A Martha's Vineyard, per effetto di un gene recessivo manifestatosi in seguito ai frequenti matrimoni tra consanguinei, era presente una forma di sordità ereditaria che, dopo l'arrivo dei primi coloni sordi intorno al 1695, durò per circa 250 anni. Verso la metà dell'Ottocento quasi non c'era famiglia dell'isola che non ne fosse colpita, e in alcuni villaggi (Chilmark, West Tisbury) l'incidenza della sordità era salita a un individuo su quattro. In conseguenza, tutta la comunità apprese i Segni, e tra udenti e sordi la comunicazione era libera e completa; anzi, i sordi non erano quasi visti come tali, e certamente non erano considerati «handicappati» (39). Nella straordinaria intervista registrata dalla Groce, i più anziani abitanti dell'isola parlarono a lungo, vivacemente e con affetto, dei parenti, vicini e amici morti, di solito senza il minimo accenno alla loro sordità. Solo se glielo si chiedeva, venivano fuori, dopo una pausa, con una frase di questo genere: «Eh già, ora che mi ci fa pensare, Ebenezer era sordo e muto». Ma questa condizione di Ebenezer non aveva mai fatto di lui un emarginato, non era quasi nemmeno mai stata osservata come tale: Ebenezer era stato e rimaneva semplicemente Ebenezer: un amico, un vicino, un abile pescatore, e non un diverso, un handicappato, un emarginato, un sordomuto. I sordi di Martha's Vineyard amavano, si sposavano, si guadagnavano il pane,

pensavano, scrivevano, proprio come tutti gli altri - non erano in nulla diversi dall'altra gente, salvo se mai per il fatto che erano, in generale, più istruiti dei loro vicini, perché i sordi di Martha's Vineyard venivano quasi sempre mandati a studiare a Hartford, cosicché spesso erano considerati i più avveduti della comunità (40). La cosa strana è che, anche dopo la morte dell'ultimo sordo dell'isola, nel 1952, gli udenti hanno manifestato la tendenza a mantener vivo l'uso dei Segni, non solo in certe occasioni speciali (per raccontare barzellette sporche, chiacchierare in chiesa, comunicare da una barca all'altra), ma in generale, a volte passando dalla lingua parlata ai segni nel bel mezzo di una frase, in modo del tutto inconsapevole, perché la lingua dei segni è «naturale» per chiunque l'abbia imparata (come prima lingua), e ha una sua bellezza intrinseca e un'eccellenza talora superiori alla lingua parlata (41). Il libro della Groce mi colpì a tal punto che non appena lo ebbi finito saltai in automobile, munito solo dello spazzolino da denti, di un registratore e di una macchina fotografica: dovevo assolutamente vedere con i miei occhi quest'isola incantata. E vidi così come alcuni degli abitanti più vecchi conoscessero ancora i Segni, e li usassero volentieri fra di loro. Ho ancora un ricordo nettissimo della prima volta che vidi una scena del genere. Era una domenica mattina, e io stavo andando al vecchio emporio di West Tisbury, quando scorsi sei o sette persone anziane che chiacchieravano sotto il portico. Era il classico capannello di vecchietti - ma ad un tratto, nel modo più sorprendente, scivolarono tutti nei Segni. Agitarono le dita per un minuto buono, scoppiarono a ridere e poi tornarono alla lingua parlata. Capii all'istante che ero arrivato nel posto giusto. Parlando con una delle persone più anziane del luogo, feci un'altra scoperta molto interessante. Si trattava di una novantenne arzilla e lucidissima, ma che di tanto in tanto cadeva in una sorta di placido fantasticare, e allora le sue mani eseguivano di continuo movimenti complessi che ricordavano quelli del lavoro a maglia. Ma la figlia, anche lei una segnante, mi spiegò che la vecchia signora non stava lavorando a maglia, ma pensava tra sé e sé: pensava in Segni. Anche quando dormiva, proseguì la mia informatrice, talvolta abbozzava segni frammentari sulla trapunta: sognava in Segni. Fenomeni come questi non si spiegano solo in termini sociali. E' evidente che se una persona ha appreso come lingua primaria quella dei segni, la sua mente/cervello la conserva, e la usa, per il resto della vita, anche quando la persona possiede in modo completo l'udito e

la parola. Ormai mi ero convinto che i Segni sono un linguaggio fondamentale del cervello.

NOTE N. 1: Questa collega, Lucy K., è così esperta nella lettura labiale e parla così bene che sulle prime non mi ero accorto della sua sordità: solo quando, un giorno, mi capitò di girare il capo da un lato mentre parlavamo, interrompendo così, senza volerlo, ogni comunicazione, compresi che essa non mi udiva, ma leggeva le mie labbra (l'espressione «lettura labiale» è una pallida approssimazione per quella che è una complessa arte in cui intervengono capacità osservative, deduttive, interpretative e intuitive). Quando Lucy aveva dodici mesi e le fu diagnosticata la sordità, i suoi genitori espressero immediatamente il vivo desiderio che la loro bambina riuscisse a parlare e partecipare al mondo degli udenti; per dodici anni, ogni giorno sua madre dedicò ore e ore a un insegnamento personale e intensivo della lingua vocale - un impegno snervante. Fu solo alla fine di questo periodo che Lucy, ormai quattordicenne, imparò i Segni, da sempre quindi per lei una seconda lingua e non la sua lingua «naturale». Essa proseguì gli studi superiori e universitari, frequentando classi «normali» (di udenti), grazie alla sua eccellente lettura labiale integrata da potenti protesi acustiche, e oggi lavora nel nostro ospedale, con pazienti udenti. Sulla propria condizione nutre sentimenti ambivalenti. Una volta mi disse: «Talora mi sembra di vivere tra due mondi, senza essere del tutto a mio agio in nessuno dei due». N. 2: Prima di leggere il libro di Lane, avevo visto pochi pazienti sordi che avevo in cura sotto l'aspetto puramente medico - come «affetti da disturbi alle orecchie» o come persone «otologicamente menomate». Dopo averlo letto, cominciai a vederli in una nuova luce, soprattutto quando mi accadeva di osservarne due o tre che conversavano a segni tra loro, con un'intensità e un'animazione di cui prima non mi ero mai accorto. Solo da quel momento presi a considerarli non più come sordi, ma come Sordi, membri di una comunità linguistica differente. N. 3: In Inghilterra c'è stato il documentario "Voices from Silent Hands" (Horizon, 1980), cui ha fatto seguito almeno una mezza dozzina di altri programmi televisivi. Molti sono anche i documentari girati negli Stati Uniti (in particolare, alcuni eccellenti dell'Università Gallaudet, come "Hands Full of Words"); il più recente e importante è stato un lungo documentario di

Frederick Wiseman, "Deaf and Blind", trasmesso in quattro puntate dalla televisione nel 1988. Sempre più spesso, inoltre, si sono visti personaggi muti nei film e nelle serie televisive; per esempio in un telefilm della nuova serie di "Star Trek", intitolato "Louder than a Whisper" e trasmesso nel gennaio 1989, compariva l'attore sordo Howie Seago nella parte di un ambasciatore sordo proveniente da un altro pianeta, che comunicava con un linguaggio gestuale. N. 4: Questa era in effetti la situazione nel 1969. Da allora c'è stata un'esplosione di pubblicazioni sui sordi scritte da sordi, tra cui la più notevole è "Deaf in America: Voices from a Culture", dei linguisti Carol Padden e Tom Humphries (entrambi sordi). Ci sono anche stati romanzi scritti da sordi su sordi, per esempio "Islay" di Douglas Bullard, che cerca di rendere il flusso di coscienza, le particolari percezioni, il discorso interiore delle persone che usano i segni. Per altre opere di autori sordi, si veda l'affascinante bibliografia in appendice al libro di Wright. N. 5: Wright, 1969, pagine 200-201. N. 6. Ibid., pagina 25. N. 7: Ibid., pagina 22. Naturalmente esiste una «convergenza» dei sensi: gli oggetti vengono uditi, visti, toccati, odorati simultaneamente; suono, forma, colore, odore, sensazione tattile si fondono in un tutto. Sono l'esperienza e l'associazione a stabilire questa corrispondenza, di cui normalmente non siamo coscienti, anche se resteremmo molto sorpresi se il suono di una cosa non corrispondesse al suo aspetto - se ci fosse una discrepanza nelle impressioni forniteci da uno dei nostri sensi. Ma se improvvisamente perdiamo o recuperiamo l'uso di un senso, allora sì che acquistiamo tale consapevolezza, nel modo più repentino e più stupefacente. Così David Wright, quando diventò sordo, «sentiva» le parole; un mio paziente anosmico avvertiva il «profumo» dei fiori non appena li vedeva; e un paziente descritto da Richard Gregory (in "Recovery from Early Blindness: a Case Study", ristampato in Gregory, 1974), quando recuperò la vista in seguito a un'operazione agli occhi (era cieco dalla nascita), fu immediatamente in grado di leggere l'ora su un orologio. Prima di allora, per sapere che ore fossero, tastava le lancette di un orologio a cui era stato tolto il vetro; ma non appena fu in grado di vedere, trasferì istantaneamente l'esperienza acquisita dalla modalità tattile a quella visiva. N. 8: Il fatto di udire (cioè immaginare) delle «voci fantasma» leggendo

le labbra è una caratteristica del sordo "postlinguistico", che in precedenza ha avuto un'esperienza uditiva della lingua vocale (e del «linguaggio interiore»). Non si tratta di una forma di «immaginazione» nel senso ordinario del termine; è piuttosto una «traduzione» istantanea e automatica (basata sull'esperienza e sull'associazione) dell'esperienza visiva nel suo correlato uditivo, una traduzione che probabilmente ha un fondamento neurologico (di connessioni visivo-uditive stabilite tramite l'esperienza). Ovviamente questo fenomeno non si verifica nel sordo "prelinguistico", che non può rievocare alcuna precedente esperienza (o immagine) uditiva. Per quest'ultimo la lettura labiale, e la lettura in genere, sono un'esperienza esclusivamente visiva: egli vede la voce, non la sente. Per noi, parlanti-udenti, è difficile perfino concepire una simile voce «visiva», proprio come è difficile, per chi non ha mai avuto l'udito, concepire una voce acustica. Va aggiunto che il sordo congenito può essere sensibilissimo alle bellezze della lingua scritta, per esempio quella di Shakespeare, anche se essa non gli «parla» in modo udibile; gli parla invece, presumibilmente, in un modo del tutto visivo - il sordo congenito, invece di udire, "vede" la «voce» delle parole. N. 9: Questa è la concezione stereotipa, ma non è del tutto esatta. Il sordo congenito non ha esperienza del «silenzio», né di questo si lamenta, così come il cieco non ha esperienza né si lamenta del «buio». Queste sono nostre proiezioni, o metafore, della loro condizione. Inoltre, il sordo profondo può udire rumori di vario genere e avere una grande sensibilità per ogni sorta di vibrazioni. Questa sensibilità alle vibrazioni può diventare una specie di senso accessorio: così Lucy K., benché sorda profonda, può capire immediatamente se un accordo è «di quinta» mettendo le mani sul pianoforte, e può interpretare le voci provenienti da un telefono molto amplificato; in entrambi i casi essa presumibilmente percepisce le vibrazioni, non i suoni. Lo sviluppo della percezione delle vibrazioni come senso accessorio ha qualche analogia con lo sviluppo della «visione facciale» nel cieco, che capta informazioni servendosi del proprio viso un po' come se fosse il ricevitore di un sonar. Le persone che hanno l'udito integro tendono a percepire o le vibrazioni o i suoni: ad esempio, un "do" molto basso (sotto l'ottava bassa del pianoforte) può essere udito come un "do" basso oppure può essere avvertito

come una vibrazione (16 oscillazioni al secondo) senza suono. Un'ottava sotto, avvertiremmo solo la vibrazione; un'ottava sopra (32 oscillazioni al secondo), sentiremmo una nota bassa, senza la vibrazione. La percezione del «tono» all'interno del campo di udibilità è una sorta di giudizio sintetico, un costrutto del sistema uditivo normale (si veda l'opera di Helmholtz "Teoria fisiologica della musica", del 1863). Se questo è impossibile, come per il sordo profondo, può esservi, a quanto pare, un'estensione della percezione delle vibrazioni verso l'alto, fino ad àmbiti che le persone normoudenti percepiscono come toni - addirittura fino alla banda centrale dei suoni musicali e del linguaggio vocale. N. 10: Isabelle Rapin considera la sordità come una forma di ritardo mentale curabile, o meglio prevenibile (si veda Rapin, 1979). Tra il sordo e il cieco (e la persona normale) vi sono affascinanti differenze di stile nel modo di accostarsi al mondo esterno. I bambini ciechi, in particolare, tendono a diventare «iperverbali», a impiegare elaborate descrizioni verbali al posto delle immagini visive, in un tentativo di negare, o sostituire, la visualità con la verbalizzazione. Questo porta il bambino, secondo l'analista Dorothy Burlingham, a produrre una sorta di «falso sé» pseudovisivo, la finzione di vederci (Burlingham, 1972). Per la Burlingham è importantissimo riconoscere che i bambini ciechi sono dotati di un profilo psicologico e di uno «stile» del tutto diversi - tali da richiedere un diverso tipo di educazione e di linguaggio - e vederli non già come bambini affetti da deficit, ma come esseri diversi e distinti, a pieno titolo. Negli anni Trenta, quando la Burlingham pubblicò le sue prime ricerche, questo era un atteggiamento rivoluzionario. Sarebbero auspicabili analoghe ricerche psicoanalitiche sui bambini sordi dalla nascita - ma ci vorrebbe uno psicoanalista che, anche se non personalmente sordo, almeno sapesse usare con scioltezza i Segni, preferibilmente dalla nascita. N. 11: In inglese "deaf and dumb"; ma "dumb", oltre che «muto», può significare anche «stupido, duro di comprendonio» [N.d.T.]. N. 12: Victor, il «ragazzo selvaggio», fu scorto per la prima volta nei boschi dell'Aveyron nel 1799: camminava a quattro zampe, si nutriva di ghiande e viveva come un animale. Quando fu portato a Parigi, nel 1800, suscitò un enorme interesse filosofico e pedagogico: come pensava? lo si poteva educare? Jean-Marc Itard, un medico già noto per le sue riflessioni illuminate (ma a volte anche travisanti) sulla sordità, si prese in casa il

ragazzo e cercò di insegnargli a parlare e di istruirlo. La prima memoria di Itard fu pubblicata nel 1807 e ne seguirono molte altre (si veda Itard, 1932). Harlan Lane gli ha dedicato un libro, in cui si riflette, tra l'altro, sulla differenza tra questi ragazzi «selvaggi» e quelli nati sordi (Lane, 1976). Il pensiero romantico, così ben rappresentato da Rousseau, era incline a vedere ogni disuguaglianza, ogni infelicità, ogni colpa, ogni limitazione come un effetto della civiltà, e a pensare che l'innocenza e la libertà si potessero trovare solo in Natura: «L'uomo è nato libero, ma è ovunque in catene». L'orribile realtà di Victor funzionò in parte da correttivo per questo atteggiamento; fu la rivelazione, come dice Clifford Geertz, che «non esiste una natura umana che prescinda dalla cultura. Gli uomini senza la cultura non sarebbero ... i nobili figli della Natura del primitivismo illuministico ... Sarebbero mostruosità ingovernabili, con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati ... Dato che il nostro sistema nervoso centrale - e in particolar modo la neocorteccia, suo trionfo e croce - si è sviluppato soprattutto interagendo con la cultura, esso è incapace di dirigere il nostro comportamento o di organizzare la nostra esperienza senza la guida fornita da sistemi simbolici significanti ... Siamo, insomma, animali incompleti o non finiti, che si completano attraverso la cultura» (Geertz, 1973, pagina 49). N. 13: Miller, 1976. N. 14: Wright, 1969, pagine 32-33. N. 15: Ibid., pagine 50-52. N. 16: Già nel Cinquecento si trovano casi di bambini sordi di famiglie nobili cui viene insegnato, con un addestramento lungo e laborioso, a parlare e a leggere, perché siano riconosciuti come persone giuridiche (riconoscimento da cui i muti sono esclusi) e possano così ereditare i titoli e i beni di famiglia. Pedro Ponce de Léon nel Cinquecento in Spagna, i Braidwood in Inghilterra, Amman in Olanda, Péreire e Deschamps in Francia, furono tutti educatori udenti che insegnarono a parlare, con maggiore o minor successo, ad alcuni sordi. Lane sottolinea il fatto che molti di questi educatori basavano l'insegnamento sui segni e sulla dattilologia. E in effetti, anche i più famosi di questi allievi sordi orali conoscevano e usavano la lingua dei segni. Di solito il loro eloquio era poco chiaro e regrediva facilmente se l'addestramento intensivo veniva ridotto. Comunque, prima del 1750 la stragrande maggioranza, si può dire il

99,9 per cento delle persone sorde dalla nascita, non aveva la menoma speranza di imparare anche solo a leggere e a scrivere. N. 17: In Lane, 1984 b, pagine 84-85. N. 18: (Cardanus, 1553). Ci sono state, tuttavia, nella storia, lingue puramente scritte, ad esempio la lingua dotta usata per più di mille anni dall'élite burocratica cinese, che non fu mai parlata e che anzi era nata per non esserlo. N. 19: De l'Epée riecheggia esattamente il suo contemporaneo Rousseau, come fanno tutte le descrizioni settecentesche dei Segni. Nel "Discorso sull'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini" e nel "Saggio sull'origine del linguaggio", Rousseau concepisce una lingua umana primordiale o originale, in cui tutte le cose hanno il loro nome vero e naturale; una lingua tanto concreta, tanto particolare, da cogliere l'essenza, l'«ecceità» di ogni cosa; tanto spontanea da esprimere ogni emozione in modo immediato; tanto trasparente da non consentire alcun inganno o fraintendimento. Una siffatta lingua non avrebbe (non essendocene bisogno) né una logica, né una grammatica, né metafore, né astrazioni; non sarebbe una lingua mediata, un'espressione simbolica del pensiero e del sentimento, bensì, quasi per magia, un'espressione immediata. Forse l'idea di una simile lingua- una lingua del cuore, perfettamente trasparente e lucida, capace di esprimere tutto senza mai ingannarci o intrappolarci (Wittgenstein parlava spesso della magia del linguaggio), una lingua pura e profonda come la musica - costituisce una fantasia universale. N. 20: Lane, 1984 b, pagina 181. N. 21: Questa idea che il linguaggio dei segni sia uniforme e universale, che consenta ai sordi di tutto il mondo di comunicare tra loro istantaneamente, è ancora molto diffusa. Ed è anche del tutto sbagliata. Esistono centinaia di lingue dei segni diverse nate indipendentemente ovunque vi fosse un congruo numero di sordi in contatto reciproco. C'è una lingua dei segni americana, una lingua dei segni inglese, una francese, una danese, una cinese, una maya, ed esse non hanno alcuna relazione con le rispettive lingue nazionali parlate. (Van Cleve, 1987, descrive in modo approfondito più di cinquanta lingue dei segni locali, da quella degli aborigeni australiani a quella jugoslava). N. 22: Lane, 1984 b, pagina 32. N. 23: Gli scritti di Jackson sul linguaggio e l'afasia sono raccolti in un

volume di «Brain» pubblicato poco dopo la sua morte (Jackson, 1915). La migliore critica del concetto jacksoniano di «proposizionare» si trova nel capitolo terzo dei due magnifici volumi di Henry Head, "Aphasia and Kindred Disorders of Speech". N. 24: Lane, 1984 b, pagina 37. N. 25: Fu proprio questa sua cecità o incredulità che lo indusse a proporre il sistema dei «segni metodici», un sistema quanto mai ridondante, per non dire assurdo, che in una certa misura ritardò l'istruzione e la comunicazione dei sordi. L'idea che de l'Epée si era fatta della lingua dei segni era da una parte troppo elevata e dall'altra troppo riduttiva: da un canto la vedeva come una lingua «universale», dall'altro come una lingua priva di grammatica (e pertanto bisognosa di importarne una, per esempio la grammatica francese). Questo errore di valutazione rimase per sessanta anni, finché Roch-Ambroise Bébian, un allievo di Sicard, avendo capito con chiarezza che la lingua dei segni creata dai sordi era autonoma e completa, eliminò i «segni metodici» e la grammatica importata. N. 26: Lane, 1984 b, pagina 195. N. 27: In "When the Mind Hears", Harlan Lane, trasformandosi in storico-biografo-romanziere, fa parlare Clerc in prima persona, per raccontare gli albori della storia dei sordi. Dato che, nella sua lunga e ricca vita, Clerc fu testimone delle svolte più importanti (in molte, anzi, fu tra i protagonisti), la sua «autobiografia» finisce per essere una storia dei sordi meravigliosamente personalizzata. Le vicende del suo reclutamento e del suo arrivo in America sono ormai entrate nella leggenda. Si racconta dunque che un giorno il reverendo Thomas Gallaudet, mentre osservava alcuni ragazzini che giocavano nel suo giardino, fu colpito da una bambina che se ne stava per conto suo. La piccola, che si chiamava Alice ed era figlia di un chirurgo di Hartford, Mason Cogswell, era sorda. Gallaudet cercò di istruirla personalmente e infine propose al padre di creare con lui una scuola per sordi in quella cittadina (allora negli Stati Uniti non esistevano scuole per sordi). Per trovare una persona in grado di organizzare o collaborare alla fondazione di una tale scuola, Gallaudet andò dapprima in Inghilterra, per visitare una delle scuole dei Braidwood, le scuole «oraliste» istituite un secolo prima (era stata appunto una scuola Braidwood quella vista da Samuel Johnson nel suo viaggio alle Ebridi). Ma qui lo accolsero freddamente e gli dissero che il

metodo orale era un «segreto». Gallaudet proseguì allora per Parigi e visitò l'Istituto per i sordomuti dove conobbe Laurent Clerc, che vi lavorava come insegnante. Clerc, che era egli stesso un sordomuto, non solo non si era mai avventurato fuori dalla sua nativa Francia, ma conosceva anche ben poco del mondo fuori dell'Istituto; Gallaudet tuttavia non esitò a proporgli di venire in America con lui, a portarvi la Parola (i Segni). Clerc acconsentì, e durante i cinquantadue giorni di navigazione insegnò a Gallaudet i Segni, mentre Gallaudet gli insegnava l'inglese. Appena arrivati, si misero a raccogliere fondi (tanto il pubblico che le autorità accolsero l'idea con generoso entusiasmo) e l'anno dopo, con Mason Gogswell, aprirono la loro scuola. A ricordo di tale vicenda, all'interno dell'università è stata eretta una statua raffigurante Thomas Gallaudet che fa lezione ad Alice. N. 28: Questa atmosfera spira da ogni pagina del bellissimo "The Deaf and the Dumb", di Edwin John Mann, ex allievo dell'Asylum di Hartford, pubblicato nel 1836. N. 29: Non abbiamo sufficienti notizie dirette dell'evoluzione dell'A.S.L., soprattutto nei suoi primi cinquanta anni, cioè nella fase di intensa «creolizzazione» della lingua dei segni francese (si vedano Fischer, 1978 e Woodward, 1978). Nel 1867, come riconobbe lo stesso Clerc, c'era già un gran divario tra i Segni francesi e la nuova A.S.L., e tale divario non ha fatto che aumentare negli ultimi centoventi anni. Malgrado ciò, esistono ancora considerevoli somiglianze tra le due lingue - sufficienti perché un americano che usi l'A.S.L. si senta abbastanza a casa sua a Parigi; invece egli incontra grandi difficoltà a comprendere la lingua dei segni inglesi (British Sign Language, o B.S.L.), che ha origini del tutto diverse. N. 30: I dialetti segnici locali possono differire moltissimo tra loro: prima del 1817, ad esempio, un sordo americano che avesse visitato i diversi Stati avrebbe incontrato dialetti segnici a lui incomprensibili; e in Inghilterra la standardizzazione è stata così lenta che fino a poco tempo fa gli abitanti di villaggi vicini che usavano la lingua dei segni a volte non riuscivano a comunicare tra loro. N. 31: Il vecchio termine «sordomuto» si riferiva a un supposto impedimento della parola nei sordi dalla nascita. Costoro, naturalmente, sono perfettamente capaci di parlare: hanno un apparato vocale identico a quello di chiunque altro; quello che non hanno è la possibilità di udire ciò che dicono e quindi di usare l'udito come strumento di controllo dei suoni che emettono. E'

per questo che il loro eloquio può essere anormale per ampiezza e tono, con l'omissione di molte consonanti e fonemi, tanto da risultare a volte incomprensibile. Non potendo controllare con l'orecchio i suoni emessi, i sordi devono imparare a farlo con gli altri sensi: la vista, il tatto, la percezione delle vibrazioni, la cinestesia. Inoltre, i sordi prelinguistici non hanno immagini uditive, non hanno l'"idea" del suono delle parole, di una corrispondenza suono-significato. Quello che è essenzialmente un fenomeno uditivo deve essere padroneggiato e controllato con mezzi non uditivi. Da qui nascono le difficoltà maggiori, che possono richiedere migliaia di ore di addestramento individuale per essere superate. E' per tale ragione che le voci dei sordi prelinguistici sono solitamente molto diverse - e immediatamente distinguibili - da quelle dei sordi postlinguistici; il sordo postlinguistico "ricorda" come si fa a parlare, anche se non è più in grado di controllare direttamente la propria pronuncia; il sordo prelinguistico deve "imparare" come si fa a parlare; senza l'aiuto di alcuna sensazione o ricordo sonoro. N. 32: Anche se Bell è stato visto un po' come la bestia nera dei sordi (George Veditz, ex presidente della National Association of the Deaf e grande figura di sordo, lo definì «il più temibile nemico dei sordi americani»), si deve ricordare che una volta disse: «Se pensiamo solo alla condizione mentale del bambino senza riferirci al linguaggio, ritengo che nessuna lingua sia capace di penetrare nella mente come quella dei segni; è questo il sistema giusto per raggiungere la mente dei bambini sordi». Inoltre Bell, lungi dall'ignorare i Segni, sapeva «segnare con le dita con la stessa facilità di un sordomuto ... usava le dita con una grazia e una scioltezza che affascinavano», come riferisce il suo amico sordo Albert Ballin. Secondo Ballin l'interesse di Bell per i sordi era un «hobby» - ma in realtà esso presenta molti aspetti di una violenta e conflittuale ossessione (si veda Gannon, 1981, pagine 78-79). N. 33: Molti sordi sono oggi analfabeti funzionali. Secondo una ricerca effettuata negli Stati Uniti dal Gallaudet College nel 1972, il livello medio di lettura dei giovani sordi di diciotto anni con un diploma di scuola superiore era pari a quello di un ragazzo di quarta elementare, e una ricerca dello psicologo inglese R. Conrad rivela una situazione analoga in Gran Bretagna, dove gli studenti sordi all'epoca del diploma hanno un livello di lettura che non supera quello dei bambini udenti di nove anni (Conrad, 1979).

N. 34: Furth, 1966. N. 35: C'erano stati, naturalmente, altri romanzi, come "Il cuore è un cacciatore solitario" di Carson McCullers (1940), ma il protagonista di questo libro, John Singer, un sordo isolato in un mondo di udenti, è completamente diverso dai protagonisti del romanzo di Joanne Greenberg, acutamente consapevoli della propria identità di sordi. Nei trenta anni intercorsi tra queste due opere è avvenuto un cambiamento sociale immenso, un cambiamento dell'immagine pubblica, ma soprattutto l'emergere di una nuova autoconsapevolezza. N. 36: E' importante osservare che, anche se un vocabolario di segni può svilupparsi precocemente, Io sviluppo della grammatica dei Segni avviene alla stessa età e nello stesso modo dell'acquisizione della grammatica della lingua vocale. N. 37: L'osservazione del bambino nel primo anno di vita può fare sospettare l'esistenza della sordità, ma non basta a fornire prove conclusive. Se quindi vi è motivo di sospettare la sordità - per esempio perché in famiglia ci sono già stati dei sordi, o perché il bambino non reagisce ai rumori improvvisi - è consigliabile un esame fisiologico della risposta cerebrale al suono (misurando i cosiddetti potenziali evocati uditivi nel tronco cerebrale). Questo test, relativamente semplice, può confermare o escludere la diagnosi di sordità già nella prima settimana di vita. N. 38: Una comunità di questo genere è stata immaginata da Sicard: «Non potrebbe esistere, in qualche angolo del mondo, una società completamente formata da sordi? Ebbene, considereremmo questi individui come inferiori, privi di intelligenza e di capacità di comunicare? Certamente avrebbero una lingua di segni, forse più ricca della nostra. Sarebbe, quanto meno, una lingua priva di ambiguità, che raffigurerebbe sempre in modo esatto gli affetti interiori. Perché dunque sarebbero incivili questi esseri? Perché invece non dovrebbero avere delle leggi, un governo e una polizia meno inattendibili dei nostri?» (Lane, 1984 b, pagine 89-90). Questa visione, così idilliaca per Sicard, assume invece connotati terrificanti nella fantasia altrettanto iperbolica di Alexander Graham Bell, che nel 1883 pubblicava "Memoir upon the Formation of a Deaf Variety of the Human Race", in cui si suggerivano misure draconiane da adottarsi per «trattare» i sordi e che era stato ispirato dalle esperienze dello stesso Bell a Martha's Vineyard (si veda sotto). Idillio e orrore si ritrovano poi fianco a fianco nel grande racconto di

H. G. Wells, "The Country of the Blind". Gli stessi sordi hanno talora manifestato tendenze a una sorta di separatismo, a un «sionismo» dei sordi. Nel 1831 Edmund Booth suggeriva la creazione di una città o comunità di sordi, e nel 1856 John James Flournoy proponeva di fondare uno Stato di sordi «laggiù all'Ovest». E l'idea non cessa di lavorare nella fantasia. Lyson C. Sulla, l'eroe sordo di "Islay", sogna di diventare governatore dello Stato di Islay e di farne uno Stato «di sordi, per sordi, governato da sordi» (Bullard, 1986). N. 39: Sono esistite ed esistono tuttora altre comunità isolate con un'alta incidenza di sordità e improntate a un atteggiamento sociale insolitamente benevolo nei confronti dei sordi e della loro lingua. Un esempio è quello di Providencia, un'isola dei Caraibi che è stata studiata a fondo da James Woodward (Woodward, 1982) ed è descritta anche da William Washabaugh (Washabaugh, 1986). Forse l'esempio di Martha's Vineyard non è tanto raro; forse una tale integrazione sarebbe da prevedersi ogni volta che in una comunità vi è un numero di sordi significativamente alto. Nello Yucatán c'è un villaggio isolato (scoperto e filmato per la prima volta dall'etnografo e cineasta Hubert Smith, e oggi studiato dal punto di vista linguistico e antropologico da Robert Johnson e Jane Norman della Gallaudet University) dove, su una popolazione di circa 400 individui, tredici adulti e un bambino sono sordi dalla nascita; e anche qui tutto il villaggio usa i segni. Nei villaggi vicini vivono altri parenti sordi, cugini e secondi cugini. I segni che usano non sono «locali», ma appartengono a una lingua dei segni maya, chiaramente piuttosto antica, perché la comprendono tutti i sordi di questa popolazione, anche se sparsi su un'area di centinaia di chilometri quadrati e con scarsissimi contatti reciproci. Questa lingua è completamente diversa dalla lingua dei segni del Messico centrale, usata a Mérida e in altre città; anzi, le due lingue sono reciprocamente inintelligibili. Nelle comunità rurali, dove sono accettati senza riserve, e dove anche gli udenti hanno imparato i segni, i sordi conducono un'esistenza piena e perfettamente integrata, ciò è in netto contrasto con il basso livello sociale, informativo, educativo e linguistico della vita dei sordi «di città» a Mérida, i quali dopo anni di insufficiente istruzione scolastica, si trovano ridotti a fare i venditori ambulanti o a pedalare sui ciclotaxi. E' un chiaro esempio di come le comunità spesso funzionino là dove il «sistema» fallisce.

N. 40: Oltre alla sua esemplare scuola, la cittadina di Fremont, in California, offre ai sordi eccellenti opportunità di lavoro, e insieme un raro grado di rispetto e di consapevolezza pubblica e civica. L'esistenza di migliaia di sordi in una zona di Fremont ha dato origine a un'interessantissima situazione bilingue e biculturale, in cui la lingua parlata e i Segni sono usati in pari grado. In certe parti della città si possono vedere caffè in cui metà dei clienti parlano e metà segnano, associazioni giovanili in cui sordi e udenti lavorano insieme e gare sportive a cui partecipano entrambi. Qui vi è non solo un'interfaccia, molto cordiale per giunta, tra sordi e udenti, ma una notevole fusione, o diffusione, delle due culture, così che parecchi udenti (soprattutto bambini) imparano i Segni, spesso senza accorgersene, per imitazione casuale piuttosto che con uno studio deliberato. Perfino qui, dunque, in un'operosa cittadina dell'industriale Silicon Valley degli anni Ottanta, vediamo come la favorevole situazione di Martha's Vineyard possa riemergere. Una situazione in parte simile si trova a Rochester, dove varie migliaia di studenti sordi, alcuni con famiglie sorde, frequentano il N.T.I.D. N. 41: Poco tempo fa ho conosciuto una giovane donna, Deborah, figlia udente di genitori sordi, che ha imparato a usare i Segni fin da piccolissima e che, come mi ha detto, spesso si scopre a usare i Segni e a «pensare in Segni» quando deve riflettere su un problema concettuale particolarmente complesso. Il linguaggio ha una funzione intellettuale non meno che sociale, e per Deborah, che ci sente e che oggi vive in un mondo di udenti, la funzione sociale è associata, com'è naturale, alla lingua parlata, ma la funzione intellettuale, a quanto pare, è tuttora legata ai Segni.

Capitolo 2 Il mio interesse per i sordi - per la loro storia, la drammaticità della loro situazione, la loro lingua, la loro cultura - incominciò quando dovetti recensire il libro di Harlan Lane. In particolare, non riuscivo a togliermi dalla mente la descrizione di quei sordi che non avevano mai imparato una lingua, quale che fosse: le loro evidenti menomazioni intellettuali e, altra cosa gravissima, le distorsioni cui può andare incontro il loro sviluppo emotivo e sociale in assenza di una qualsivoglia autentica possibilità di comunicazione. Che cosa ci è indispensabile, mi chiedevo, per diventare esseri umani completi? La nostra cosiddetta umanità dipende in qualche misura dal linguaggio? Che cosa ci accade se non siamo messi in grado di apprendere una lingua? Il linguaggio si sviluppa spontaneamente e naturalmente, oppure richiede il contatto con altri esseri umani? Un modo, invero drammatico, di studiare questi problemi è osservare gli esseri umani che sono stati privati del linguaggio; e la privazione del linguaggio, sotto forma di afasia, è un tema centrale della neurologia fin dalla metà del secolo scorso; su di essa hanno scritto abbondantemente Jackson, Head, Goldstein e Lurija, e anche Freud vi ha dedicato una monografia, nel 1891. Ma l'afasia è la privazione del linguaggio (in seguito a un ictus o a un altro incidente cerebrale) in una mente già formata, in un individuo compiuto. Si può dire che in questi casi il linguaggio aveva già fatto la sua parte (se una parte gli compete nella formazione della mente e del carattere). Chi intende esplorare il ruolo fondamentale del linguaggio deve studiare non già la sua perdita dopo l'acquisizione, ma i casi in cui tale acquisizione non è avvenuta. Eppure mi era difficile immaginare una situazione simile: avevo pazienti colpiti dalla perdita dell'uso della parola, pazienti afasici, ma non riuscivo a concepire che cosa significasse non avere mai acquisito neanche i rudimenti del linguaggio. Due anni orsono, alla Braefield School for the Deaf, conobbi Joseph, un ragazzo di undici anni che aveva cominciato allora a frequentare la scuola - un undicenne assolutamente privo di linguaggio. Era nato sordo, ma fino ai quattro anni nessuno se n'era accorto (1). Il fatto che nonostante l'età non

parlasse e non capisse quello che dicevano gli altri era stato attribuito a un «ritardo», poi ad «autismo», e queste diagnosi gli erano rimaste appiccicate. Quando alla fine la sua sordità fu evidente, venne considerato come un «sordomuto» di poca intelligenza e mai fu fatto alcun vero tentativo di insegnargli a parlare. Joseph bramava di comunicare, ma non poteva farlo. Non sapeva parlare, né scrivere, né esprimersi con i segni: solo la pantomima e i gesti gli erano accessibili, oltre al disegno, per cui aveva una marcata disposizione. Che cosa è accaduto a questo ragazzo? seguitavo a chiedermi. Che cosa succede nella sua testa, come è arrivato a questo punto? Appariva vivace e animato, ma profondamente sconcertato: i suoi occhi erano attirati dalle bocche che parlavano e dalle mani che segnavano, le dardeggiava di sguardi interrogativi, straniti, ma anche, mi parve, bramosi. Egli avvertiva che in quei momenti tra noi «passava» qualcosa, ma non riusciva a capire di che cosa si trattasse - non possedeva, fino ad allora, la minima idea di una comunicazione simbolica, di che cosa fosse possedere una moneta simbolica, scambiarsi dei significati. Privato in precedenza di ogni opportunità (non era mai stato esposto ai Segni) e menomato nelle motivazioni e negli affetti (soprattutto, defraudato della gioia che devono dare il gioco e il linguaggio), Joseph cominciava solo ora a impadronirsi dei primi rudimenti dei Segni, ad avere un accenno di comunicazione con gli altri. La cosa gli procurava, manifestamente, una grande gioia; sarebbe voluto restare a scuola tutto il giorno, tutta la notte, tutti i fine settimana, insomma sempre. La sua angoscia, quando doveva lasciare la scuola, era straziante, perché ritornare a casa significava, per lui, ritornare al silenzio, ritornare a un disperante vuoto comunicativo, in cui non poteva aver alcuno scambio con i genitori, i vicini, gli amici; significava essere ignorato, tornare ad essere una non persona. Era una situazione toccante, straordinaria - di cui non avevo un esatto parallelo nella mia esperienza. Mi faceva in parte ripensare a un bambino di due anni fremente sulla soglia del linguaggio - ma Joseph aveva undici anni, e sotto tanti altri aspetti era come tutti i bambini della sua età. Mi richiamava anche alla mente un animale, ma nessun animale ha mai dato quell'impressione di ardente bramosia del linguaggio. Mi ricordai che Jackson una volta paragonò gli afasici ai cani - ma i cani sembrano completi e appagati nella loro mancanza di linguaggio, mentre gli afasici soffrono di

una tormentosa sensazione di perdita. Anche Joseph ne soffriva: era evidente che provava la pena angosciosa di un vuoto, che si sentiva come mutilato e manchevole di qualcosa. Mi faceva pensare ai bambini selvaggi, bambini ferini; e tuttavia non era certo un «selvaggio», ma una creatura della nostra civiltà, con i nostri costumi - una persona, però, radicalmente isolata. Joseph non era in grado, per esempio, di comunicare come aveva passato il fine settimana, e non si poteva chiederglielo, neanche con i Segni; non era in grado di afferrare il concetto stesso di domanda, e quindi tanto meno di formulare una risposta. Ma non era solo il linguaggio a mancargli: era evidente che non possedeva un senso chiaro del passato, della differenza tra «un giorno fa» e «un anno fa». Questa strana assenza del senso storico dava l'impressione di una vita priva di spessore temporale, della dimensione autobiografica, di una vita che esisteva solo nell'attimo presente. La sua intelligenza visiva - la sua capacità di risolvere rompicapo e problemi visivi - era buona, in radicale contrasto con le gravi difficoltà che incontrava nei problemi di natura verbale. Disegnava bene e molto volentieri: faceva buoni schizzi della stanza, gli piaceva disegnare le persone; capiva le vignette, afferrava i concetti visivi. Fu questo soprattutto a darmi la sensazione della sua intelligenza, un'intelligenza, però, in gran parte confinata al mondo visivo. Imparò in un baleno a giocare a «filetto», e divenne ben presto molto bravo; ebbi la sensazione che avrebbe imparato facilmente a giocare a dama o a scacchi. Joseph vedeva, distingueva, categorizzava, usava; non aveva problemi nella categorizzazione o generalizzazione "percettiva", ma non sembrava in grado di andare molto al di là di questo, di avere idee astratte, di riflettere, elaborare, progettare. Sembrava completamente «letterale»: incapace di manipolare immagini, ipotesi o possibilità, incapace di penetrare in un regno immaginativo o figurativo. Eppure dava la sensazione di avere un'intelligenza normale, a dispetto di tutti questi limiti evidenti delle funzioni intellettive. Non che gli mancasse la mente; solo che non la "usava in modo completo". E' evidente che pensiero e linguaggio hanno origini (biologiche) del tutto distinte, che l'esplorazione e l'interiorizzazione del mondo e l'interazione con esso precedono abbondantemente l'avvento del linguaggio, che esiste un'ampia gamma di forme di pensiero - negli animali, nei bambini piccoli - assai prima che il linguaggio emerga. (Nessuno ha studiato queste cose meglio di Piaget, tuttavia esse sono evidenti per tutti i genitori, e per

chiunque abbia in casa un animale). Un essere umano privo di linguaggio non è privo della mente o mentalmente deficiente, ma l'orizzonte delle sue capacità di pensiero è gravemente limitato, e lo confina, in pratica, in un mondo angusto, immediato (2). Per Joseph si schiudeva adesso una comunicazione, un linguaggio, e la cosa lo faceva fremere di entusiasmo. A scuola avevano capito che non gli occorreva solo un'istruzione formale, ma che aveva bisogno di giocare con le parole, fare giochi linguistici, come fa il bambino piccolo quando impara a parlare. In tal modo, si sperava, egli avrebbe cominciato ad acquisire il linguaggio e il pensiero concettuale, ad acquisirlo nell'atto di compiere un gioco intellettuale. Mi vennero alla mente i gemelli descritti da Lurija, che in un certo senso erano tanto «ritardati» perché parlavano tanto male, e il loro enorme miglioramento dopo che ebbero imparato a parlare scorrevolmente (3). Poteva accadere la stessa cosa anche a Joseph? Il termine «infante» significa letteralmente «che non parla», e molte cose fanno pensare che l'acquisizione del linguaggio segni un progresso qualitativo assoluto nello sviluppo della natura umana. Malgrado fosse un undicenne ben sviluppato, attivo, intelligente, Joseph sotto questo aspetto era ancora un infante; gli era negato il potere, il mondo, a cui il linguaggio dà accesso. Per citare Joseph Church: «Il linguaggio apre nuovi orientamenti e nuove possibilità di imparare e di agire, di dominare e trasformare le esperienze preverbali ... Il linguaggio non è solo una funzione tra altre funzioni ... ma una caratteristica che pervade l'intero individuo, facendone un "organismo verbale" (del quale tutte le esperienze, le azioni e le idee sono ora alterate in funzione dell'esperienza verbalizzata, o simbolica). «Il linguaggio trasforma l'esperienza ... Attraverso di esso ... si può introdurre il bambino in un regno puramente simbolico dove esistono passato e futuro, luoghi lontani, rapporti astratti, eventi ipotetici, una letteratura basata sull'immaginazione, entità immaginarie che vanno dai lupi mannari ai mesoni p greco ... «Al tempo stesso l'apprendimento del linguaggio trasforma l'individuo in modo tale da consentirgli di fare cose nuove, o di fare le cose vecchie in un modo nuovo. Il linguaggio ci dà l'accesso a cose che sono lontane, ci permette di agire su di esse senza che vi sia alcun contatto fisico.

Innanzitutto, possiamo agire su altre persone, o su oggetti tramite le persone ... In secondo luogo, possiamo manipolare i simboli in modi che sarebbero impossibili con le cose che essi rappresentano, e così arrivare a versioni della realtà nuove e persino creative ... Possiamo riorganizzare verbalmente situazioni che nella realtà non si presterebbero a una riorganizzazione ... possiamo isolare aspetti che non sono concretamente isolabili ... possiamo confrontare oggetti ed eventi che sono distanti nello spazio e nel tempo ... possiamo, se vogliamo, rovesciare simbolicamente l'universo come se fosse un guanto» (4). Noi possiamo fare tutte queste cose, ma Joseph no. Joseph non poteva raggiungere quel plano simbolico che è un diritto di nascita dell'essere umano normale fin dalla primissima infanzia. Sembrava fissato nel presente, come un animale, come un neonato, confinato in una percezione letterale e immediata, e tuttavia reso cosciente di tutto ciò da una consapevolezza che nessun neonato potrebbe avere. Cominciai a riflettere e ad interrogarmi su altri sordi che avessero raggiunto l'adolescenza, magari l'età adulta, senza possedere linguaggio di sorta. Ce n'erano stati, e in numero considerevole, nel Settecento: tra i più famosi, Jean Massieu. Privo del linguaggio fino a quasi quattordici anni, Massieu fu uno dei più grandi successi educativi della scuola di Sicard; questi scrisse su di lui un intero libro, per illustrare come fosse possibile «liberare» una persona priva di linguaggio, facendone un essere affatto diverso (5). Nella scuola, Massieu imparò a esprimersi con notevole eloquenza sia nella lingua dei segni sia nel francese scritto, lasciandoci anche una breve autobiografia, in cui racconta della sua infanzia e adolescenza in una fattoria con otto tra fratelli e sorelle, cinque dei quali erano come lui sordi dalla nascita. «Fino all'età di tredici anni e nove mesi rimasi a casa, senza ricevere alcuna istruzione. Ero completamente analfabeta. Esprimevo le mie idee con segni manuali e gesti ... i segni che usavo per comunicare quello che pensavo ai miei familiari erano completamente diversi dai segni dei sordomuti istruiti. Gli estranei non ci comprendevano, quando ci esprimevamo con i segni, ma i vicini sì ... I bambini della mia età non volevano giocare con me, mi guardavano dall'alto in basso; ero come un cane. Passavo il tempo da solo, giocando con una trottola o con una mazza e una palla, o camminando sui

trampoli». Non è facile stabilire che cosa succedesse nella testa di Massieu in assenza di un vero e proprio linguaggio (ma non v'è dubbio che egli fosse in grado di comunicare ampiamente, anche se in una forma primitiva, mediante i segni «privati» escogitati da lui e dai suoi fratelli, che costituivano un sistema gestuale complesso, ma sostanzialmente privo di grammatica) (6); Massieu racconta: «Vedevo buoi, cavalli, asini, maiali, cani, gatti, piante, case, campi, vigne, e dopo aver visto tutte queste cose me le ricordavo bene». Aveva anche un'idea dei numeri, pur mancando dei nomi per indicarli: «Prima di ricevere un'istruzione formale non sapevo contare; le dita furono il mio maestro. Non conoscevo i numeri; contavo sulle dita, e quando il conto andava oltre al dieci facevo delle tacche su un bastone». E ci racconta, in toni commoventi, come invidiasse gli altri bambini che andavano a scuola; come più volte avesse preso in mano un libro, senza riuscire a farsene nulla, e come avesse cercato di copiare le lettere dell'alfabeto con una penna di un'oca, sapendo che dovevano avere un qualche strano potere, ma incapace di dar loro un significato. Il racconto fatto da Sicard sul modo in cui educò Massieu è affascinante. Avendo osservato che il ragazzo aveva occhio (cosa che anch'io avevo notato in Joseph), cominciò con il disegnare alcuni oggetti, invitando Massieu a fare lo stesso. Poi, per iniziarlo al linguaggio, scrisse su ogni figura il nome dell'oggetto corrispondente. Sulle prime l'allievo «restò completamente interdetto. Non riusciva a capire come quelle linee, pur non riproducendo figurativamente un oggetto, potessero fungere da immagini di quell'oggetto e rappresentarlo con tanta precisione e rapidità». Poi, all'improvviso, il velo cadde e Massieu afferrò il concetto di rappresentazione astratta e simbolica: «In quel momento, comprese tutti i vantaggi e la difficoltà della scrittura ... [e] da quel momento in poi bandimmo i disegni, sostituendoli con la scrittura». Ora che Massieu aveva capito che si poteva rappresentare un oggetto, o un'immagine, con un nome, gli nacque una fame di nomi violenta e insaziabile. Andavano a fare passeggiate insieme, e Massieu non si stancava mai di chiedere e di annotare il nome di tutto quello che vedeva: «Visitammo un frutteto per dare un nome a tutti i frutti. Andammo in

un bosco per distinguere la quercia dall'olmo ... il salice dal pioppo, e infine tutti gli altri abitanti ... Fogli e matite non gli bastavano mai, per tutti i nomi di cui io andavo riempiendo il suo dizionario, e la sua anima pareva espandersi e crescere insieme con queste interminabili denominazioni ... Le visite di Massieu erano quelle di un proprietario terriero che vede per la prima volta i suoi ricchi domini». Con l'acquisizione dei nomi, di una parola per ogni cosa, avvenne, osserva Sicard, un cambiamento radicale nel rapporto di Massieu con il mondo - era diventato una specie di Adamo: «Questo nuovo venuto sulla terra era uno straniero nei suoi possedimenti, che gli venivano restituiti via via che ne imparava i nomi». Domandiamoci: perché Massieu chiedeva tutti quei nomi? E perché lo fece Adamo, che era ancora solo? Perché dare un nome a un oggetto suscitava in Massieu tanta gioia, e faceva espandere e crescere la sua anima? In che modo i nomi mutarono il suo rapporto con le cose prima senza nome, così da fargli sentire che ora le possedeva, che erano diventate il suo «dominio»? A che cosa serve dare dei nomi? Sicuramente deve avere a che fare con il potere primordiale delle parole di definire, enumerare, padroneggiare e manipolare; di passare dal regno degli oggetti e delle immagini al mondo dei concetti e dei nomi. Il disegno di una quercia rappresenta un particolare albero di quercia, ma il nome «quercia» denota l'intera classe delle querce, un'identità generale - la «quercità» - che vale per tutte le querce. Dare un nome, allora, era per Massieu, mentre passeggiava per i boschi, conquistare per la prima volta un potere di generalizzazione capace di trasformare il mondo intero; così, a quattordici anni, egli faceva ingresso nei possedimenti umani, poteva riconoscere il mondo come la propria dimora, il proprio «dominio», in un modo che in precedenza egli non aveva mai conosciuto (7). Vygotskij scrive: «Una parola non si riferisce a un singolo oggetto, ma a un gruppo, o classe, di oggetti. Ogni parola è quindi già una generalizzazione. La generalizzazione è un atto verbale di pensiero, che riflette la realtà in un modo del tutto diverso dal modo in cui la riflettono la sensazione e la percezione» (8). Più avanti Vygotskij parla del «salto dialettico» tra sensazione e pensiero, un salto che richiede il raggiungimento di «un riflesso

"generalizzato" della realtà, che è anche l'essenza del significato della parola». Così, per Massieu, sostantivi, nomi, espressioni nominali vennero per primi. Occorrevano anche gli aggettivi qualificativi, ma qui si presentava qualche problema. «Massieu non aspettò di conoscere gli aggettivi; per attribuire a un oggetto una particolare qualità, si serviva del nome di un altro oggetto nel quale ravvisava la presenza saliente di tale qualità ... per esprimere la velocità di un compagno nella corsa, diceva: "Albert è uccello"; per esprimere la forza diceva: "Paul è leone"; per la gentilezza, diceva: "Deslyons è agnellino"». Sulle prime Sicard permise e anzi incoraggiò questo sistema, ma poi, «con riluttanza», cominciò a proporre l'introduzione degli aggettivi (sostituendo «agnellino» con «gentile», «colombella» con «dolce») e aggiunge: «Lo risarcii dei beni che gli avevo sottratto ... [spiegandogli] che le nuove parole che gli offrivo erano [equivalenti] a quelle che gli chiedevo di non usare» (10). Anche i pronomi sollevarono problemi del tutto particolari: «egli» fu scambiato in un primo momento per un nome proprio; «io» e «tu» vennero confusi (come accade spesso ai bambini piccoli), ma alla fine furono compresi. Difficoltà speciali si presentarono con le proposizioni, ma una volta che Massieu ebbe afferrato il concetto, imparò a usarle con forza esplosiva, tanto che improvvisamente scoprì di esser capace di «proposizionare» (per usare la terminologia di Jackson). Le astrazioni geometriche - costrutti mentali invisibili - furono la conquista più difficile. Per Massieu era facile mettere assieme oggetti di forma quadrata, ma afferrare l"idea" di quadrato come costrutto mentale geometrico, cogliere la «quadratità» fu un'impresa ben più laboriosa (11). Quando si concluse con il successo, Sicard non poté contenere l'entusiasmo: «E' stata conquistata l'astrazione! Un altro passo! Massieu capisce le astrazioni!» esultava Sicard. «E' un essere umano». Qualche mese dopo il mio incontro con Joseph, mi accadde di rileggere la storia di "Kaspar Hauser", che ha come sottotitolo: «Cronaca di un individuo tenuto in una prigione sotterranea, isolato da qualsiasi comunicazione con il resto del mondo, dalla prima infanzia fin quasi ai diciassette anni» (12). La situazione di Kaspar era certamente molto più

bizzarra e drammatica, ma sotto un aspetto mi ricordò quella di Joseph. Kaspar fu trovato un giorno del 1828 (era allora un ragazzo di circa sedici anni) mentre procedeva incespicando per una strada di Norimberga. Portava addosso una lettera che narrava in parte la sua strana storia: quando Kaspar aveva sei mesi, la madre - rimasta vedova, senza un soldo - lo aveva affidato a un bracciante, che aveva dieci figli. Per ragioni mai chiarite, questo padre «adottivo» rinchiuse Kaspar in una cantina, dove era tenuto incatenato, e in modo tale che non poteva nemmeno alzarsi in piedi. In tale segregazione rimase per più di dodici anni, escluso da qualsiasi comunicazione o contatto anche fuggevole con altri esseri umani. Quando era necessario lavarlo o cambiargli indumenti, il padre-carceriere metteva dell'oppio nel suo cibo, lo puliva e lo rivestiva mentre Kaspar era in stato di incoscienza, immerso in un sonno profondo. Una volta «entrato nel mondo» (Kaspar usava spesso questa espressione per «alludere alla sua prima uscita a Norimberga, al primo germogliare della consapevolezza di una vita mentale»), apprese rapidamente che «esistevano uomini e altre creature», e in soli sette mesi si impadronì dei rudimenti del linguaggio. Questo risveglio al contatto umano, a un mondo di significati condivisi, al linguaggio, fece fiorire d'un tratto mente e anima, in una irrefrenabile esplosione delle sue facoltà mentali. Ogni cosa lo stupiva, lo affascinava, lo riempiva di gioia; la sua curiosità ardente e infinita toccava ogni cosa, ogni manifestazione: «una storia d'amore con il mondo». (Tale rinascita, una vera e propria nascita alla vita psicologica, come fa notare Leonard Shengold, altro non era che la riproduzione in forma speciale esaltata, quasi esplosiva, di quel che accade normalmente nel terzo anno di vita, allorché nel bambino avviene la scoperta e la progressiva acquisizione del linguaggio) (13). In un primo tempo Kaspar mostrò prodigiose capacità di percezione e di memoria, ma entrambe erano concentrate sui particolari, cosicché egli appariva da una parte brillante, dall'altra incapace di pensiero astratto. Ma, via via che si impadroniva del linguaggio, acquisiva anche la capacità di generalizzare; in tal modo, a una miriade di particolari sconnessi si sostituiva un mondo coerente, intelligibile e intelligente. Questa improvvisa, irruenta esplosione del linguaggio e dell'intelligenza è simile, nella sostanza, a quanto accadde a Massieu - ed è ciò che accade quando si spalancano d'un tratto le porte della prigione nella quale mente e anima sono state segregate (ma senza essere completamente distrutte) (14).

Casi come quello di Massieu devono essere stati di gran lunga più frequenti nel Settecento, quando non esisteva l'istruzione scolastica obbligatoria. Ne capita ancora oggi qualcuno, di tanto in tanto; probabilmente soprattutto in località rurali isolate, oppure quando un bambino, in seguito a una diagnosi sbagliata, è stato ricoverato, in ancor tenera età, in un istituto di assistenza (15). Io stesso nel novembre del 1987 ricevetti da San Francisco una lettera straordinaria nella quale Susan Schaller, interprete e studiosa della lingua dei segni, mi scriveva: «Sto scrivendo la storia di un sordo prelinguistico, oggi ventisettenne, e della sua conquista del linguaggio. Questo mio allievo, sordo dalla nascita, non era mai stato esposto ad alcun linguaggio, neppure a quello dei segni: così per ventisei anni di vita non aveva mai potuto comunicare con un altro essere umano (salvo che per esprimere mediante la mimica bisogni concreti e funzionali). Eppure è miracolosamente sopravvissuto alla "segregazione in isolamento" senza che la sua personalità ne risultasse disintegrata» (16). Ildefonso era nato in una fattoria nel sud del Messico; nella famiglia, e nell'intera comunità, gli unici membri sordi erano lui e un suo fratello (sordo congenito), che perciò non ebbero mai un'istruzione scolastica, né alcun contatto con i Segni. Assieme ad altri parenti, andava e tornava dagli Stati Uniti, dove lavorava come bracciante. Malgrado fosse un ragazzo di buon carattere, restava sostanzialmente un solitario, perché non poteva quasi comunicare (salvo che gesticolando) con un altro essere umano. All'epoca in cui la Schaller lo conobbe, le sembrò sveglio e vivace, ma timoroso e disorientato, come se fosse in ansiosa ricerca di qualcosa - lo stesso atteggiamento che mi aveva colpito in Joseph. Come Joseph, anche Ildefonso era un attento osservatore («guarda tutto e tutti»); ma, per così dire, osservava dal di fuori, affascinato dal mondo interiore del linguaggio, e tuttavia ignaro di esso. Quando la Schaller gli chiese «Come ti chiami?» nella lingua dei segni, egli si limitò a ripetere il segno; e fu tutto quello che seppe fare in un primo tempo, senza sospettare minimamente che si trattava di un "segno". La ripetizione puramente imitativa di movimenti e suoni continuò per tutto il tempo in cui la Schaller tentò di insegnare a Ildefonso i Segni, senza che lo sfiorasse l'idea che movimenti e suoni avessero un «contenuto», un significato - sembrava che Ildefonso non avrebbe mai potuto superare questa

«ecolalia mimetica», che non sarebbe mai entrato nel mondo del pensiero e del linguaggio. E poi, all'improvviso, del tutto inaspettatamente, un giorno vi riuscì. La cosa affascinante è che furono i numeri a dargli la prima, folgorante rivelazione: tutt'a un tratto egli comprese che cosa fossero, come andassero adoperati, il loro "senso"; ne seguì una sorta di esplosione intellettuale, la capacità di afferrare, nel giro di giorni, i princìpi cardinali dell'aritmetica. Con questo non era arrivato ancora a possedere il concetto di linguaggio (il simbolismo aritmetico forse non costituisce un linguaggio, in quanto non è denotativo nello stesso senso in cui lo sono le parole). Ma l'acquisizione dei numeri e le operazioni mentali dell'aritmetica diedero l'avvio a processi mentali mai sperimentati in precedenza, crearono una regione di ordine entro il caos, e lo orientarono per la prima volta verso una forma di comprensione e di speranza (17). La svolta vera avvenne il sesto giorno: dopo che per centinaia o migliaia di volte aveva ripetuto le stesse parole, in particolare il segno corrispondente a «gatto», questo d'improvviso non fu più un movimento da imitare, ma un segno denso di significato, che poteva essere usato per simbolizzare un concetto. Una seconda esplosione intellettuale, ancora più profonda e sconvolgente, perché questa volta non gli rivelava una pura astrazione (come i princìpi dell'aritmetica), ma il senso, il significato del mondo: «Il volto si apre, teso per l'eccitazione... dapprima piano, poi sempre più avidamente, risucchia entro di se qualsiasi cosa, come se non l'avesse mai vista prima di ora; la porta, le sedie, i tavoli, i compagni l'orologio, la lavagna verde e me... E' entrato nell'universo dell'umanità, ha scoperto la comunione delle menti. Adesso sa che lui e il gatto e la tavola hanno un nome». La Schaller fa un parallelo tra il «gatto» di Ildefonso e l'«acqua» di Helen Keller: la prima parola, il primo segno, quello che porta a tutti gli altri, che apre la mente e libera l'intelligenza imprigionata. Da quel momento, per tutte le settimane che seguirono Ildefonso visse un periodo di nuova e incantata attenzione verso il mondo: egli si ridestava, nasceva allora al pensiero e al linguaggio, dopo decenni di esistenza puramente percettiva. Nei primi due mesi, come aveva fatto Massieu, si dedicò soprattutto a dare nomi, a definire il mondo, con il quale instaurava un rapporto completamente nuovo. Restavano, come era accaduto a Kaspar Hauser, problemi tutt'altro che trascurabili: in particolare, osserva la Schaller,

«sembrava che gli fosse impossibile afferrare qualsiasi concetto che fosse legato al tempo: le unità di tempo, le relazioni temporali, i tempi dei verbi, anche la sola idea di misurare il tempo in funzione degli eventi; per insegnargli tutto ciò ci vollero mesi» e una paziente gradualità. Parecchi anni sono trascorsi dall'epoca di questi avvenimenti; oggi Ildefonso ha acquisito una buona padronanza dei Segni, ha conosciuto altre persone sorde che li usano, è entrato a far parte della loro comunità linguistica. Con ciò egli ha acquistato, come disse Sicard di Massieu, «un nuovo essere». Joseph e Ildefonso, completamente privi di linguaggio, costituiscono casi estremi (anche se molto illuminanti); in realtà tutti o quasi tutti i sordi prelinguistici acquisiscono un qualche linguaggio durante l'infanzia, benché spesso ciò avvenga in ritardo e con gravi deficienze. Lo spettro delle competenze linguistiche dei sordi è molto ampio; Joseph e Ildefonso si trovano a un estremo di tale spettro. Ad esempio, avevo constatato che era impossibile rivolgere domande a Joseph, ed è probabile che questo tipo di lacuna linguistica sia frequente tra i bambini sordi, anche tra quelli che hanno una certa competenza nella lingua dei segni. A questo proposito è importante riflettere sulla seguente osservazione di Isabelle Rapin: «Molti bambini [sordi] presentano una notevole deficienza linguistica: non possiedono lo strumento linguistico consistente nella forma interrogativa. Me ne resi conto dopo avere più volte rivolto domande a bambini sordi su argomenti che avevano appena letto. Non è che non conoscano la risposta a una data domanda, è che non capiscono le domande... Un giorno chiesi a un ragazzo: "Chi vive in casa tua?". (Un insegnante traduceva nella lingua dei segni). La risposta fu uno sguardo vacuo. Allora osservai che l'insegnante trasformava la domanda in una serie di proposizioni dichiarative: "Nella tua casa, tu, tua madre, ...". Sul volto del ragazzo brillò un lampo di intelligenza, e subito mi fece un disegno della sua casa, con tutti i membri della famiglia, cane incluso ... In seguito potei osservare molti altri casi in cui gli insegnanti mostravano una certa esitazione nel porre domande ai loro allievi; più spesso preferivano evitarle, e formulavano gli interrogativi ricorrendo a frasi incomplete, nelle quali i bambini sordi dovevano riempire i vuoti» (18). La mancanza della forma interrogativa, come fa notare la Rapin, è particolarmente perniciosa, in quanto conduce a una mancanza di

informazione ma non è l'unica carenza che colpisce i sordi. Mancano le capacità linguistiche, in sostanza la competenza linguistica; una mancanza che è tanto lessicale quanto grammaticale, ed è particolarmente frequente e accentuata negli scolari sordi prelinguistici. Molti dei bambini che osservai nella scuola di Joseph mi colpirono per la povertà del loro vocabolario, per la loro rozza semplicità. Impacciati nella lettura e nella scrittura, incapaci di pensieri che non avessero un oggetto concreto, manifestavano un'ignoranza del mondo inimmaginabile in un bambino udente dotato di intelligenza normale. E per la verità in un primo momento pensai che "non" avessero un'intelligenza normale, che soffrissero di una qualche forma di deficienza mentale, associata alla sordità. Mi fu invece assicurato (e le mie stesse osservazioni me lo confermavano) che questi bambini non erano deficienti mentali nel senso usuale del termine; avevano, per così dire, la stessa gamma di intelligenza della norma, ma tale intelligenza era in qualche modo intralciata, almeno in certi suoi aspetti. E non solo l'intelligenza: molti di questi bambini erano passivi o timidi, poco spontanei, insicuri, impacciati nei rapporti con gli altri; apparivano meno animati, meno desiderosi di giocare e di scherzare di quanto ci si potesse aspettare. Bastò una rapida occhiata alla scuola di Joseph per lasciarmi sgomento. Come Joseph, anche la Braefield School for the Deaf è in un certo senso un caso estremo (benché sotto altri aspetti sia desolatamente vicina alla media). La maggior parte dei bambini che la frequentano proviene da famiglie disagiate, prive di radici sociali, colpite dalla disoccupazione e dalla miseria. E' importante osservare, inoltre, che da qualche tempo la Braefield non è più una scuola residenziale: alla fine della giornata gli allievi devono tornare a casa, da genitori che non sono in grado di comunicare con loro, o davanti a un televisore che trasmette programmi privi di sottotitoli e perciò incomprensibili. Tornati a casa, sono esclusi da ogni informazione sul mondo. Vi sono per la verità altre scuole che mi hanno dato un'impressione del tutto diversa. In quella di Fremont, che è una scuola prevalentemente residenziale, molti allievi sanno leggere e scrivere in modo quasi paragonabile a quello di studenti udenti di pari età - gli allievi della Braefield School, invece, al momento del diploma raggiungono in media un livello di lettura pari alla quarta classe soltanto. Molti bambini di Fremont hanno un vocabolario piuttosto ricco, usano bene i segni, sono pieni di curiosità e di

domande, parlano (o più spesso segnano) liberamente e in modo completo, danno una sensazione di sicurezza e di forza che di rado ho potuto osservare a Braefield. Non mi stupì l'apprendere che il loro profitto scolastico era più che buono (molto migliore della media dei sordi, scolasticamente ritardata). Sembra che questo risultato sia dovuto all'intervento di molti fattori. In primo luogo, i bambini di Fremont provengono in generale da famiglie e da ambienti più stabili. Inoltre, una percentuale relativamente alta degli stessi docenti è costituita da sordi: Fremont è una delle poche scuole degli Stati Uniti in cui vige la politica di impiegare insegnanti sordi, i quali non soltanto conoscono la lingua dei segni fin dall'infanzia, ma possono trasmettere ai bambini la cultura dei sordi e un'immagine positiva della sordità. Al di là e al di sopra dell'istruzione scolastica, a Fremont vi è una vera comunità di bambini che vivono insieme, usano i segni tra loro, giocano insieme, hanno abitudini e aspirazioni comuni: proprio quello che manca, e con effetti tanto drammatici, a Braefield. Infine, a Fremont è eccezionalmente alta la percentuale di bambini che sono figli di genitori sordi - mentre sulla popolazione totale dei bambini sordi tale percentuale è inferiore al 10 per cento. Fin dall'infanzia questi bambini hanno acquisito i Segni come lingua nativa, e mai si sono trovati nell'impossibilità di comunicare con i propri genitori - la tragedia che così spesso affligge i sordi profondi. In una scuola residenziale, essi sono i principali ambasciatori del mondo dei sordi, coloro che ne portano la lingua ai figli sordi di genitori udenti; per questa ragione a Fremont non vidi quell'isolamento che tanto mi aveva colpito a Braefield. Se alcuni bambini sordi sono molto più bravi di altri, malgrado siano affetti da sordità più profonda, ciò indica che non può essere la sordità in sé la causa di tante disgrazie, ma piuttosto qualcuna delle "conseguenze" della sordità - in particolare le difficoltà e le distorsioni che compromettono fin dall'inizio la vita di comunicazione. Pretendere che Fremont rappresenti la media è un'illusione; purtroppo è Braefield, invece, che illustra la condizione media dei bambini sordi. Ma Fremont mostra quali conquiste siano alla portata dei bambini sordi, seppure in circostanze ideali; e mostra anche che le loro facoltà innate, linguistiche o intellettuali, sono integre; sta piuttosto negli ostacoli frapposti allo sviluppo normale di tali facoltà la spiegazione degli esiti infelici. La visita alla Lexington School for the Deaf, nello Stato di New York, mi diede un quadro ancora diverso. In questa scuola trovai una situazione in

qualche modo intermedia: non così svantaggiata come a Braefield, ma nemmeno favorita come a Fremont da un'alta proporzione di genitori sordi e dalla presenza di una vasta comunità di sordi. Pure vidi a Lexington molti adolescenti sordi prelinguistici che, a detta dei loro insegnanti, da bambini erano stati quasi del tutto privi di linguaggio oppure linguisticamente non competenti, e ora mostravano ottime capacità - per esempio in fisica o nella composizione letteraria, rivelandosi quasi altrettanto bravi dei compagni udenti. Questi ragazzi erano stati colpiti dalla sordità molto da piccoli, cosicché avevano corso il serio rischio di una menomazione permanente, linguistica e intellettuale; ciò nonostante, grazie a un'istruzione intensiva, erano riusciti a raggiungere un buon livello di linguaggio e di comunicazione. Dalle storie di Joseph e di Ildefonso, e di altri come loro, emerge la sensazione di un pericolo - quel particolare pericolo che minaccia lo sviluppo umano, sia intellettuale sia emotivo, se viene a mancare la benefica acquisizione del linguaggio, fino ai casi estremi di totale assenza, di completa incomprensione del concetto stesso di linguaggio. Questo, come ci ricorda Church, non è soltanto un'altra facoltà o una capacità in più; il linguaggio è ciò che rende possibile il pensiero, che separa il pensiero dal non pensiero, che separa l'umano dal non umano. Nessuno può ricordare come ha «acquisito» il linguaggio; la descrizione di sant'Agostino è solo un pregevole mito (19). E neppure è vero che, da genitori, siamo chiamati a «insegnare» il linguaggio ai nostri figli; essi lo acquisiscono nel modo più automatico, o almeno così sembra, in virtù della condizione stessa di figli, nostri figli, in seguito agli scambi comunicativi che avvengono tra noi. In linguistica si distinguono la grammatica, i significati verbali, l'intento comunicativo (la sintassi, la semantica e la pragmatica del linguaggio); ma, come ci fanno osservare Bruner e diversi altri studiosi, questi aspetti sono presenti tutti assieme durante l'apprendimento e l'uso del linguaggio; perciò non è il linguaggio che dobbiamo studiare, ma il suo uso. La prima comunicazione avviene di solito tra la madre e il bambino, ed è dallo scambio "tra" queste due figure che il linguaggio scaturisce e ne comincia l'acquisizione. Ciascuno nasce dotato di sensi, i sensi «naturali». In modo naturale ciascuno può sviluppare da solo le proprie facoltà motorie; il linguaggio,

invece, non lo si può acquisire da soli: "questa" facoltà costituisce una categoria a sé. Una capacità innata è certo essenziale, ma tale capacità può essere attivata solo da un'altra persona che già possiede la competenza linguistica, in un processo di interazione che Vygotskij chiama «negoziazione». (Wittgenstein scrive in termini generali dei «giochi linguistici» che tutti dobbiamo imparare a fare, e Brown parla del «gioco originale della parola» giocato tra madre e bambino). La madre - o il padre, o l'insegnante, o chiunque parli con il bambino - lo conduce passo dopo passo fino ai livelli via via più elevati del linguaggio, e in tal modo gli rivela l'immagine del mondo che quel linguaggio incorpora (l'immagine del mondo "di lei", perché di lei è il linguaggio, ma anche, in una prospettiva più ampia, l'immagine del mondo propria della cultura a cui ella appartiene). Sempre la madre deve trovarsi un passo più avanti, in quella che Vygotskij chiama la «zona di sviluppo prossimale», per poterla comunicare al bambino, il quale altrimenti non potrebbe neppure concepirla, tanto meno dirigervisi. Il bambino ha un'esperienza propria, indipendente, del mondo, che gli è data dai sensi e che forma una correlazione con il linguaggio della madre, confermandolo e al tempo stesso ricevendo da esso un significato. Se le parole della madre, e il mondo che esse adombrano, non corrispondessero a qualche cosa che appartiene all'esperienza del bambino, per lui non avrebbero senso. E' il linguaggio della madre, interiorizzato dal bambino, che gli consente di passare dalla sensazione al «senso», di salire dal mondo percettivo al mondo concettuale. L'interscambio sociale, quello emotivo e perfino quello intellettuale, cominciano dal primo giorno di vita (20). Questi stadi prelinguistici, preintellettuali, della vita sono stati studiati con grande attenzione da Vygotskij; ma egli si è interessato soprattutto del linguaggio e del pensiero, del modo in cui procedono assieme nello sviluppo del bambino. Vygotskij non dimentica che il linguaggio ha sempre, e immediatamente, una funzione sia sociale sia intellettuale, né dimentica, neppure per un istante, la relazione tra intelletto e affetto, il fatto che qualsiasi comunicazione, qualsiasi pensiero, è anche emotivo, poiché riflette «i bisogni e gli interessi personali, le inclinazioni e gli impulsi» dell'individuo. Ne discende come corollario che, se qualcosa nella comunicazione non va nel modo giusto, ciò si ripercuoterà sulla crescita intellettiva, sullo

scambio sociale, sullo sviluppo del linguaggio e sugli atteggiamenti emotivi, e tutto ciò contemporaneamente, inseparabilmente e immediatamente. Proprio questo può accadere, e di fatto accade, fin troppo spesso, al bambino sordo congenito. Hilde Schlesinger e Kathryn Meadow iniziano il loro libro, "Sound and Sign", con la seguente affermazione: «La sordità profonda nell'infanzia è più che una diagnosi medica; è un fenomeno culturale nel quale si legano inestricabilmente quadri e problemi sociali, emotivi, linguistici e intellettuali» (21). Dobbiamo alla Schlesinger e ai suoi collaboratori le osservazioni più profonde e più complete fatte negli ultimi venti anni sui problemi che opprimono il sordo dall'infanzia all'età adulta, per studiarne la relazione con le primissime comunicazioni tra madre e figlio (e più tardi tra insegnante e allievo) comunicazioni che troppo spesso sono grossolanamente carenti o distorte. La Schlesinger ha posto al centro dell'analisi il modo in cui i bambini - e in particolare i bambini sordi - sono indotti a passare da un mondo percettivo a un mondo concettuale, l'importanza cruciale del dialogo perché il passaggio possa avvenire. Il «salto dialettico» del quale parla Vygotskij (il salto dalla sensazione al pensiero) implica, come mostra la Schlesinger, non solo il parlare, ma il giusto modo di parlare, in un dialogo ricco di intenti comunicativi, di reciprocità, di domande del tipo giusto: se questi aspetti mancano, il bambino non riuscirà a fare il grande salto. Registrando le conversazioni scambiate tra madre e figlio nella primissima infanzia, la Schlesinger ha mostrato quanto spesso, e con quali tristissime conseguenze, tali scambi possano fallire quando il bambino è sordo. I bambini, i bambini sani, hanno una curiosità inesauribile: sono sempre alla ricerca della causa e del significato, continuano a chiedere «Perché?», «Come?», «E se...?». Proprio l'assenza di queste domande, anzi la mancata comprensione della forma interrogativa, mi aveva penosamente colpito durante la visita a Braefield. In termini più generali, la Schlesinger osserva: «A otto anni, molti ragazzi sordi già mostrano ritardi nella comprensione delle domande, continuano a usare il linguaggio come un serbatoio di etichette, non sanno conferire alle loro risposte un "significato centrale". Hanno uno scarso senso dei rapporti causali, e di rado introducono idee riguardanti il futuro» (22). Per molti è certo così, ma non per tutti. In realtà si può fare una

distinzione piuttosto netta tra ragazzi che presentano questi deficit e ragazzi «normali» sotto l'aspetto intellettuale, linguistico, sociale ed emotivo. Questa separazione, affatto differente dalla distribuzione normale delle capacità secondo la ben nota curva a campana, mostra che la divisione avviene dopo la nascita, a seguito di esperienze molto precoci che possono indirizzare in modo determinante l'evoluzione futura della persona. Il bisogno di far domande, una disposizione mentale orientata verso l'esplorazione, non sono atteggiamenti che nascono spontaneamente, "de novo", o che conseguono direttamente dall'impatto con l'esperienza: scaturiscono, e sono stimolati, dagli scambi comunicativi, richiedono il "dialogo", in particolare il complesso dialogo della madre con il bambino (23). Da qui, a giudizio della Schlesinger, trae origine la divisione: «Quando parlano con i figli, le madri possono farlo in modi molto diversi, che ricadono sull'uno o sull'altro versante di una serie di dicotomie. Alcune madri chiacchierano "con" i loro piccoli, dando vita a un dialogo; altre per lo più parlano "ai" loro piccoli. Alcune si preoccupano di assecondare e sostenere il bambino nelle sue attività, e quando non lo fanno ne spiegano le ragioni; altre piuttosto controllano le attività del bambino, e quando intervengono non spiegano mai il perché. Alcune pongono vere domande ... altre soffocano le domande ... Alcune sono stimolate da quello che il bambino dice o fa; altre muovono dai propri bisogni e interessi interiori ... Alcune narrano di un vasto mondo in cui sono accaduti certi eventi in passato e altri ne accadranno in futuro; altre si limitano a commentare qui e ora ... Alcune madri offrono stimoli pregni di significati, e in tal modo mediano tra l'ambiente e il bambino; [altre madri non lo fanno]» (24). Alla madre, dunque, sembra che sia toccato un potere straordinario e terribile: comunicare con il bambino nel modo giusto oppure no; porre domande stimolanti, («Come?»; «Perché?»; «Che cosa succederebbe se...?»), oppure trascinare un monologo distratto a base di «Che cos'è questo?» e «Fai quest'altro»; comunicare il senso dei nessi logici e causali, o lasciare che ogni cosa sprofondi nell'inspiegabilità; introdurre il senso vivo dello spazio e del tempo, o riferirsi solo al qui e ora; presentare una «riflessione generalizzata della realtà», un mondo di concetti che diano coerenza e significato alla vita, sfidando la mente e le emozioni del bambino, o restare al livello ottuso del non generalizzato, del non indagato, un livello quasi inferiore a quello della mera percezione animale (25). Sembra quindi che il bambino non abbia

alcuna libertà di scegliersi il mondo mentale ed emotivo nel quale dovrà vivere - non più di quanta ne abbia di scegliersi il mondo fisico; sin dall'inizio egli dipende totalmente dal tipo di mondo che la madre gli dischiude. Non solo il linguaggio, ma anche il pensiero dev'essere introdotto; altrimenti il bambino resterà inesorabilmente imprigionato in un mondo percettivo, di oggetti materiali - la condizione di Joseph, di Kaspar, di Ildefonso. Il rischio è ancora maggiore quando il bambino è sordo - perché in questo caso può darsi che i genitori (udenti) non sappiano come entrare in comunicazione con lui; ammesso poi che in qualche modo riescano a farlo, può darsi che usino forme di dialogo e di linguaggio rudimentali a tal punto da non fare progredire la mente del bambino, anzi da impedirne ogni progresso. «Sembra che il bambino riproduca fedelmente il mondo cognitivo (e lo "stile") che la madre gli presenta. In alcuni casi è un mondo popolato di oggetti statici, separati, fissati nel qui-ora, etichettati con nomi che rimangono immutati da quando il bambino ha pochi mesi a quando è già un ragazzino... Queste madri evitano ogni forma di linguaggio che si discosti dal mondo percettivo ... desiderano condividere lo stesso mondo del bambino, e in questo slancio si adeguano al suo mondo percettivo e lì si fermano... «[Altre madri, invece] riescono a elaborare in modo entusiasmante, attraverso il linguaggio, ogni cosa vista, toccata, udita. Il mondo in cui introducono il bambino è più ampio, più complesso e più interessante. Anch'esse danno un nome agli oggetti del mondo percettivo del bambino, ma usano la denominazione esatta per le percezioni più complesse e quando occorre vi aggiungono attributi servendosi degli aggettivi... Il loro mondo non è popolato solo di oggetti, ma anche di persone; esse danno un nome alle azioni e ai sentimenti degli individui, li caratterizzano mediante gli avverbi. Non si limitano a "descrivere" il mondo percettivo, ma aiutano i figli a "riorganizzarlo" e a "ragionare" sulle sue molteplici possibilità» (26). Queste madri incoraggiano quindi la formazione di un mondo concettuale che, anziché impoverirlo, arricchisce il mondo percettivo, mediante un processo di innalzamento continuo che perviene al livello dei simboli e dei significati. Ma basta che il dialogo si immiserisca, che la comunicazione cada in difetto perché ne conseguano, secondo la Schlesinger, non solo limitazioni dell'intelletto, ma anche timidezza e passività. Il dialogo

creativo, la ricchezza di scambi comunicativi durante l'infanzia, svegliano l'immaginazione e la mente, conducono all'autonomia e alla sicurezza, producono una vivacità e una serenità di carattere che accompagneranno l'individuo per il resto della vita (27). Charlotte è una bambina di sei anni; anche lei, come Joseph, è sorda dalla nascita. Ma Charlotte è vivacissima, allegra, piena di curiosità, sprizza entusiasmo verso il mondo; distinguerla da una qualsiasi sua coetanea udente è quasi impossibile. Il quadro è del tutto diverso, quindi, da quello del povero Joseph, tagliato fuori dal mondo. Come lo si spiega? I genitori di Charlotte si resero conto della sua sordità quando la bambina aveva pochi mesi, e subito decisero di imparare una lingua dei segni: sapevano, infatti, che la piccola non avrebbe potuto impadronirsi facilmente della lingua vocale. E non solo loro; anche diversi parenti e amici impararono la lingua dei segni. La madre, Sarah Elizabeth, così scriveva quando la bambina aveva quattro anni: «Nostra figlia Charlotte fu diagnosticata sorda profonda all'età di dieci mesi. Negli ultimi tre anni siamo passati attraverso le emozioni più varie: sfiducia, panico, angoscia, rabbia, depressione e dolore, infine accettazione e ottimismo. Una volta liberatici dal panico iniziale, ci fu chiaro che la cosa da farsi era usare la lingua dei segni, con la nostra bambina, fin da quando era molto piccola (28). «Organizzammo a casa nostra una classe di insegnamento della lingua dei segni, e ci mettemmo a studiare il Signed Exact English (S.E.E.), una replica esatta in segni dell'inglese parlato: era la lingua che ci era parsa più adatta per consentirci di trasmettere a Charlotte la lingua, la letteratura e la cultura che erano nostre. Spaventati - noi, genitori udenti - dal compito soverchiante di imparare una nuova lingua dovendola insegnare nello stesso tempo a Charlotte, pensammo che l'adozione di una lingua segnata con una sintassi simile a quella a noi familiare ci avrebbe facilitato ... Avevamo un bisogno disperato di credere che Charlotte era simile a noi. «Il S.E.E. si rivelò troppo rigido, e dopo un anno decidemmo di abbandonarlo, passando al Pidgin Signed English, nel quale il vocabolario dell'American Sign Language, che è visualmente più descrittivo, si combina con la sintassi inglese, che è più comunemente nota ... [ma] le elaborate strutture lineari dell'inglese parlato non sono traducibili in forma interessante in una lingua dei segni; perciò fummo obbligati a cambiare radicalmente il nostro modo di pensare, a pensare frasi visive. Della lingua dei segni

abbiamo esplorato gli aspetti più vivi e più interessanti: frasi idiomatiche, scherzi, mimica, segni che esprimono ciascuno un intero concetto, espressioni facciali ... Ora stiamo passando all'American Sign Language, che studiamo con una signora sorda, segnante nativa, capace di comunicare con i segni senza esitazioni e di codificare la lingua per gli udenti come noi. E' una lingua così ben costruita e ricca di sfumature, così fantasiosa e bella che abbiamo cominciato a studiarla con vero entusiasmo. Quale gioia vedere come l'uso dei segni da parte di Charlotte rifletta schemi di pensiero visivi! Le espressioni di Charlotte spingono anche noi a concepire in modo nuovo gli oggetti fisici, la loro collocazione e il loro movimento». Come mostra questo brano affascinante e pieno di forza, in un primo tempo i genitori di Charlotte volevano soprattutto credere che la figlia fosse simile a loro, anche se si serviva degli occhi anziché delle orecchie. Per questa ragione ricorsero al S.E.E., che non ha una struttura sua propria, ma è una mera traslitterazione di una lingua uditiva; solo gradualmente arrivarono a comprendere che per Charlotte era fondamentale la visualità, che la bambina usava «schemi di pensiero visivi» e che ciò richiedeva - e a sua volta generava - un linguaggio visivo. A differenza di tanti genitori di bambini sordi, che ostinatamente tentano di imporre il proprio mondo uditivo ai figli, essi incoraggiarono Charlotte a progredire nel suo mondo visivo; anzi in seguito furono in grado di entrare a farne parte assieme a lei. A quattro anni, infatti, Charlotte era tanto progredita nel pensiero visivo e nel linguaggio visivo da potere schiudere lei ai suoi genitori nuovi orizzonti di pensiero: una rivelazione. All'inizio del 1987 la famiglia si trasferì dalla California ad Albany, nello Stato di New York; in tale occasione la madre mi scrisse nuovamente: «Charlotte ha sei anni e frequenta la prima. Noi, naturalmente, pensiamo che sia una creatura speciale, perché, malgrado la sordità profonda, si muove con piena padronanza in un ambiente dove i più sono udenti; è piena di interessi, premurosa verso gli altri. Quando deve comunicare con altri sordi, bambini o adulti, ne è felice: sembra che se la cavi altrettanto bene con l'A.S.L. e con l'inglese; inoltre legge e scrive come uno scolaro di terza. Anche suo fratello Nathaniel, udente, sa usare i Segni: nella nostra famiglia, per molte conversazioni e per molte faccende quotidiane si fa ricorso alla lingua dei segni... Credo che la nostra esperienza indichi come un'esposizione precoce a una lingua visualmente coerente sviluppi processi di pensiero

concettuale complessi. Charlotte sa pensare e sa ragionare: usa egregiamente gli strumenti linguistici che le sono stati dati per costruire idee complicate». Quando andai a far visita a Charlotte e alla sua famiglia, la prima cosa che mi colpì fu che erano davvero una famiglia: scherzavano, si scambiavano domande, si riunivano pieni di animazione. Non c'era traccia dell'isolamento che si trova tanto spesso dove c'è qualche persona sorda - né di quel linguaggio «primitivo» («Che cos'è questo? Che cos'è quello? Fai così! Fai cosà!»), di quella condiscendenza descritta dalla Schlesinger. La stessa Charlotte faceva un sacco di domande, era curiosa di tutto, piena di vita - una bambina deliziosa, allegra, fantasiosa, vivacemente aperta al mondo e agli altri. Rimase un po' delusa quando scoprì che io non sapevo usare i Segni, ma subito incaricò i genitori di fare da interpreti e cominciò a tempestarmi di domande sulle bellezze di New York. Più tardi andammo tutti quanti (Charlotte, i genitori, il fratello e io) a fare una passeggiata in un bosco attraversato da un fiume, a una cinquantina di chilometri da Albany. Charlotte ama il mondo della natura quanto quello degli uomini, ma lo fa in modo intelligente. A colpo d'occhio riusciva a riconoscere habitat diversi e a cogliere il modo in cui vi convivono le varie forme di vita; percepiva la cooperazione e la competizione, la dinamica dell'esistenza. Le felci che crescevano vicino al fiume l'affascinarono, anche perché si accorse di quanto differissero dai fiori; comprese subito la distinzione tra spore e semi. Ogni nuova forma, ogni nuovo colore suscitavano in lei esclamazioni eccitate (espresse in Segni); ma subito si fermava per chiedere: «Come?... Perché?... E se invece?...». Si capiva che non le interessavano tanto i fatti isolati, quanto i nessi, una vera comprensione, la costruzione di un mondo dotato di senso e di significato. Quale migliore dimostrazione del passaggio da un mondo percettivo a un mondo concettuale? Nessun bambino può compiere questo passaggio senza un dialogo complesso, che in un primo tempo ha luogo con i genitori, ma poi viene interiorizzato come un «parlare tra sé», come pensiero. E' il dialogo che avvia il linguaggio, che mette in moto la mente; in seguito si sviluppa una nuova facoltà, il «discorso interiore», e proprio questo è indispensabile per l'ulteriore sviluppo, per poter pensare. «Il discorso interiore» dice Vygotskij, «è discorso quasi senza parole ... non è l'aspetto interiore del discorso esterno, è una funzione a sé ... Mentre nel discorso esterno il pensiero è incorporato nelle parole, nel discorso

interiore le parole muoiono via via che danno luogo al pensiero. Il discorso interiore è in gran parte un pensare attraverso significati puri». Il punto di partenza è il dialogo, il linguaggio esterno e sociale; ma poi per pensare, per diventare noi stessi, dobbiamo passare al monologo, al discorso interiore. Sconosciuto alla scienza, scriveva Vygotskij, come «l'altra faccia della Luna», il discorso interiore, essenzialmente solitario, rimane profondamente misterioso. Si usa dire che «siamo il nostro linguaggio», ma il linguaggio vero, la nostra vera identità, stanno nel discorso interiore, in quell'incessante flusso produttivo di significati che costituisce la mente dell'individuo. Attraverso il discorso interiore il bambino può sviluppare concetti e significati suoi propri, conquistare la propria identità e infine costruire un proprio mondo. E il discorso interiore (o il Segno interiore) del sordo può essere molto peculiare (29). Per i suoi genitori è evidente che Charlotte costruisce il proprio mondo in un modo diverso, forse radicalmente diverso; che impiega in prevalenza schemi visivi di pensiero e che «pensa in modo diverso» gli oggetti fisici. La qualità grafica delle sue descrizioni mi colpì subito, assieme alla loro completezza; e i genitori mi confermarono questa impressione: «Tutte le persone, le creature o gli oggetti di cui parla Charlotte sono "collocati nello spazio"», diceva la madre; «il riferimento spaziale è essenziale nell'A.S.L. Quando Charlotte segna, costruisce una scena completa: ogni oggetto e ogni persona hanno una collocazione dichiarata; tutto è visualizzato con una ricchezza di particolari che di rado si trova in una conversazione tra udenti». Già a quattro anni e mezzo Charlotte aveva manifestato una spiccata propensione a collocare in modo preciso oggetti e persone: la sua capacità di usare riferimenti spaziali elaborati superava già allora quella dei genitori. Era come se Charlotte possedesse una singolare dote di «scenografa», una destrezza «architettonica» che i genitori dicevano di avere osservato anche in altre persone sorde - ma di rado negli udenti (30). Per noi, il linguaggio e il pensiero sono sempre personali: ciò che diciamo, come pure il discorso interiore, è espressione peculiare di ciascuno. Il linguaggio perciò ci appare spesso come un'effusione, una sorta di trasmissione spontanea di sé; ma esso deve avere una struttura di tipo formale, enormemente intricata. Non è immediato rendersene conto, perché non ne siamo consapevoli: non la vediamo, non più di quanto vediamo i

tessuti, gli organi, l'organizzazione costruttiva del nostro corpo. E però la grandissima, unica libertà del linguaggio non sarebbe possibile senza i più rigorosi vincoli grammaticali. Prima di ogni altro elemento, è la grammatica che rende possibile un linguaggio, che ci consente di articolare i pensieri, il nostro io, in espressioni. Questo era già chiaro nel 1660 (in quell'anno fu pubblicata la "Grammatica" di Port-Royal), ma per i Segni si dovette attendere il 1960 (31). Prima di allora nessuno, neppure chi la usava, considerava la lingua dei segni come un vero linguaggio, dotato di una propria grammatica. Eppure l'idea che i Segni potessero avere una struttura interna non è del tutto nuova; ha, per così dire, una sua bizzarra preistoria. Roch-Ambroise Bébian, il successore di Sicard, non solo capì che i Segni possedevano una grammatica autonoma (e quindi non avevano alcuna necessità di importare una grammatica estranea come quella francese), ma cercò anche di compilare una «Mimografia», basata sulla «Scomposizione dei Segni». L'impresa fallì, com'era inevitabile, perché ancora non erano stati identificati correttamente i veri elementi costitutivi («fonemici») della lingua dei segni. Anche il celebre antropologo E.B. Tylor, nell'àmbito dei propri studi sul linguaggio, si interessò della lingua dei segni, che anzi volle imparare (vi riuscì benissimo, servendosene per conversare con i molti amici sordi). Le sue "Researches in the Early History of Mankind" (1865) sono disseminate di intuizioni affascinanti sul linguaggio segnato; da qui avrebbe potuto prendere avvio uno studio autenticamente linguistico dei Segni, ma sopravvenne il Congresso di Milano del 1880 e l'impresa fu soffocata sul nascere, assieme a qualsiasi manifestazione di apprezzamento dei Segni, che con il Congresso perdevano ufficialmente e formalmente ogni valore. I linguisti volsero l'attenzione altrove, e i Segni furono ignorati o completamente fraintesi. Nel loro libro, J. G. Kyle e B. Woll ricostruiscono minuziosamente questa infausta storia; essi osservano che Tylor già conosceva la grammatica dei Segni così bene da rendere manifesto che «i linguisti non han fatto altro che riscoprir[la], negli ultimi dieci anni» (32). Ancora trent'anni fa era nozione pressoché universale che la «lingua dei segni» dei sordi non fosse nulla di più che una sorta di pantomima, o di lingua figurativa. L'"Encyclopaedia Britannica" (quattordicesima edizione) la definisce come «una specie di scrittura di immagini nell'aria»; e in un libro di testo tra i più usati si legge:

«La lingua manuale dei segni usata dai sordi è un linguaggio ideografico. Essenzialmente è più figurativo e meno simbolico, e come sistema sta principalmente a livello di rappresentazione per immagini. I sistemi linguistici ideografici sono meno precisi, meno raffinati e meno flessibili di quelli simbolici verbali. E' probabile che l'uomo non possa realizzare fino in fondo le proprie potenzialità attraverso un linguaggio ideografico, in quanto questo è limitato agli aspetti più concreti dell'esperienza umana» (33). Qui ci troviamo davanti a un paradosso: a prima vista i Segni possono sembrare una pantomima, facili da comprendere come tutte le pantomime, pur di prestarvi un po' di attenzione. E invece, per quanto si continui a osservare, l'istante liberatorio della comprensione non arriva: è quasi un supplizio di Tantalo, giacché i Segni rimangono inintelligibili a dispetto della loro apparente, ingannevole trasparenza. Ignorati dai linguisti e dalla comunità scientifica, i Segni dovevano essere riscoperti alla fine degli anni Cinquanta, allorché approdò al Gallaudet College un giovane medievalista e linguista, William Stokoe, con il compito di insegnare Chaucer ai sordi - o almeno così egli credeva. Ben presto, però, Stokoe si accorse che la buona sorte, o il caso, lo avevano fatto capitare proprio in seno a uno degli ambienti linguistici più straordinari del mondo. Come abbiamo visto, a quel tempo la lingua dei segni non era considerata una vera e propria lingua, ma piuttosto una sorta di pantomima o un codice di gesti, o tutt'al più una raccolta di spezzoni di inglese espressi con le mani. Ci volle il genio di Stokoe per vedere, e per dimostrare, che si trattava di ben altro, che essa soddisfaceva tutti i criteri linguistici di un autentico linguaggio, che aveva il suo lessico e la sua sintassi, e la capacità di generare un numero infinito di proposizioni. Nel 1960 Stokoe pubblicò "Sign Language Structure", e nel 1965 (assieme a due colleghi sordi, Dorothy Casterline e Carl Croneberg) "A Dictionary of American Sign Language". Stokoe si convinse che i segni "non" erano immagini, ma complessi simboli astratti dotati di una struttura interna altrettanto complessa. Per primo si diede ad analizzare i segni, a sezionarli, a tentare di individuarne le parti costitutive, alla ricerca di una struttura. In breve tempo arrivò a suggerire che ogni segno fosse costituito da almeno tre parti (parametri) indipendenti - luogo, configurazione e movimento (analoghe ai fonemi della lingua vocale)

- e che ogni parte presentasse un numero limitato di combinazioni (35). In "Sign Language Structure" egli descrive diciannove configurazioni diverse della mano, dodici luoghi, ventiquattro tipi di movimenti; per ciascuno Stokoe inventò una notazione - mai prima di allora l'A.S.L. era stata messa "per iscritto" (36). Altrettanto innovativo fu il "Dictionary", perché i segni non vi sono ordinati per temi (per esempio i segni che indicano alimenti, quelli che indicano animali, eccetera), ma sistematicamente, in funzione delle loro parti, della loro organizzazione e dei princìpi linguistici. Il "Dictionary" mostrava per la prima volta la struttura lessicale del linguaggio - la rete di relazioni linguistiche che connette tremila segni-parole di base. Ci volle una serena e immensa fiducia, un'insistenza ostinata per arrivare fino in fondo: agli inizi, infatti, quasi tutti, gli udenti come i sordi, considerarono assurde o eretiche le idee di Stokoe; i suoi libri, quando uscirono, apparvero ai più inutili o insensati (37). (E' quello che accade spesso alle opere di genio). Nel giro di pochi anni, però, proprio grazie al lavoro di Stokoe, l'opinione generale era cambiata, anzi aveva preso avvio una doppia rivoluzione: una rivoluzione scientifica, che ora prestava attenzione alla lingua dei segni e ai suoi substrati cognitivi e neurali, come mai nessuno aveva sognato di fare prima di allora, e una rivoluzione, culturale e politica. Il "Dictionary of American Sign Language" elencava tremila segni radicali - che costituiscono certo un vocabolario molto limitato, se si pensa, per confronto, alle circa 600 mila parole dell'"Oxford English Dictionary". Eppure, com'è evidente, la lingua dei segni è precipuamente espressiva: essa può esprimere essenzialmente tutto ciò che una lingua parlata esprime (38). Bisogna pensare che qui intervengano altri princìpi: il merito di avere indagato questi altri princìpi, di avere studiato tutto ciò che può trasformare un lessico in un linguaggio, spetta a Ursula Bellugi e ai ricercatori che collaborano con lei presso il Salk Institute. Un lessico incorpora concetti, della specie più varia, che però, senza una grammatica, restano isolati (al livello di «me Tarzan, tu Jane»). Occorre che vi sia un sistema formale di regole, mediante il quale si possano generare enunciati coerenti: frasi, proposizioni. (La cosa non è del tutto ovvia - non si tratta di un concetto intuitivo: infatti ogni espressione appare in sé tanto immediata, spontanea, personale, che a prima vista non vien fatto di pensare che contenga, o richieda, un sistema formale di regole:

questa è una delle ragioni per cui furono proprio i segnanti nativi, più degli altri, a considerare la propria lingua come «non scomponibile», e a valutare con scetticismo gli sforzi di Stokoe - e poi quelli della Bellugi). Di per sé, l'idea di un simile sistema formale, di una «grammatica generativa», non è nuova. Humboldt diceva che tutti i linguaggi fanno «un uso infinito di mezzi finiti». Ma solo negli ultimi trenta anni, grazie ai lavori di Noam Chomsky, abbiamo potuto avere una spiegazione esplicita di «come questi mezzi finiti vengano adibiti a usi infiniti in linguaggi specifici», e un'esplorazione delle «proprietà più profonde che definiscono il "linguaggio umano" in generale». Queste proprietà Chomsky le chiama la «struttura profonda» della grammatica; per lui sono una caratteristica umana innata, specifica della specie, che rimane latente nel sistema nervoso fino a quando viene risvegliata dall'effettivo uso della lingua. Chomsky vede questa «grammatica profonda» formata da un vasto sistema di regole («varie centinaia di regole di tipo diverso»), contenente una certa struttura generale fissa: talora egli la ritiene analoga alla corteccia visiva, che possiede ogni sorta di dispositivi innati per metter ordine nella percezione visiva (39). Fino a oggi non sappiamo quasi nulla del substrato neurale di tale grammatica; ma il fatto che si verifichino afasie, inclusa l'afasia dei Segni, in cui è specificamente menomata la competenza grammaticale, e solo questa, indica che tale substrato neurale esiste, e ne indica anche la localizzazione approssimativa (40). «Un individuo che conosce una lingua particolare», secondo la formulazione di Chomsky, «controlla una grammatica che "genera" ... l'insieme infinito di strutture profonde potenziali, le applica sulle strutture superficiali associate e determina le interpretazioni semantiche e fonetiche di questi oggetti astratti» (41). Come fa l'individuo ad acquisire tale grammatica (o il suo controllo)? Come fa un bambino di due anni a impadronirsi di un simile dispositivo? La grammatica non gli viene insegnata in modo esplicito, ed egli non viene esposto a esempi grammaticali, ma al parlato estemporaneo e spontaneo (e apparentemente non informativo) dei suoi genitori. (Naturalmente la lingua dei genitori non è affatto «non informativa»; al contrario, essa è ricca di grammatica implicita e di innumerevoli indizi linguistici inconsci, a cui il bambino reagisce adattando inconsciamente il proprio linguaggio; ma non vi è una trasmissione esplicita o conscia della grammatica). Quello che soprattutto colpisce Chomsky e ne stimola la

riflessione è come faccia il bambino a giungere a tanto con così poco: «Ritengo che ... non possiamo evitare di rimanere colpiti dall'enorme disparità tra la conoscenza e l'esperienza e, nel caso del linguaggio, tra la grammatica generativa, che esprime la competenza linguistica del parlante nativo, e i dati scarsi e degeneri in base ai quali il parlante si è costruita questa grammatica» (42). Dunque al bambino la grammatica non viene insegnata; né egli la impara, bensì la "costruisce" in base ai «dati scarsi e degeneri» a sua disposizione. Questo non sarebbe possibile se egli non portasse già dentro di sé la grammatica, o la possibilità della grammatica, in qualche forma latente che aspetta di essere messa in atto. «Dobbiamo postulare» dice Chomsky «una struttura innata, sufficientemente ricca da spiegare la disparità tra l'esperienza e la conoscenza». Questa struttura innata, latente, alla nascita non è completamente sviluppata, e ancora all'età di diciotto mesi non è tanto manifesta. Ma poi, d'improvviso, e nel modo più stupefacente, il bambino in fase evolutiva si apre al linguaggio: a partire dalle frasi pronunciate dai genitori, egli diventa capace di costruire una grammatica. Soprattutto tra i ventuno e i trentasei mesi, il bambino esibisce un'abilità spettacolare (questo periodo è lo stesso in tutti gli esseri umani neurologicamente normali, sia sordi sia udenti; è spostato in avanti nei bambini ritardati, come accade per altri momenti cardinali della fase evolutiva). Poi questa particolare capacità va attenuandosi, per cessare del tutto al finire dell'infanzia (all'incirca a dodici o tredici anni) (43). Secondo la definizione di Lenneberg, cade tra i ventuno e i trentasei mesi il «periodo critico» per l'acquisizione della prima lingua, l'unico nel quale il cervello può, a partire da frammenti casuali, costruire una grammatica completa. La funzione dei genitori è essenziale, ma solo di facilitazione: il linguaggio si sviluppa «dall'interno», nel periodo critico, e secondo Humboldt tutto quello che i genitori fanno, in tale periodo, è «fornire il filo conduttore lungo il quale esso si svilupperà per proprio conto». Il processo è più simile a una maturazione che a un apprendimento: la struttura innata (che Chomsky chiama talora Language Acquisition Device, LAD: dispositivo per l'acquisizione del linguaggio) cresce in modo organico, si differenzia e matura, come un embrione. Proprio in questo aspetto la Bellugi, rievocando le prime ricerche fatte con Roger Brown, ravvisa il miracolo centrale del linguaggio, e richiama un

lavoro suo e di Brown, sul processo di «induzione della struttura latente» di frasi da parte del bambino, che terminava affermando: «La differenziazione e l'integrazione, simultanee ed estremamente complesse, che costituiscono l'evoluzione del nome-frase, ricordano più lo sviluppo biologico di un embrione che non l'acquisizione di un riflesso condizionato». Quando poi scoprì che questa meravigliosa struttura organica (il complicato embrione della grammatica) poteva esistere in una forma puramente visiva, e che ciò si verificava nella lingua dei segni, questo fu il "secondo" miracolo della sua vita di linguista. La Bellugi ha studiato in particolare i processi morfologici dell'A.S.L., cioè le modulazioni di un segno che gli fanno esprimere significati differenti attraverso la grammatica e la sintassi. Il puro lessico del "Dictionary" of American Sign costituiva solo un primo passo, perché è evidente che una lingua non si riduce a un lessico o ad un codice. La cosiddetta lingua dei segni indiana è semplicemente un codice, cioè una raccolta, o vocabolario, di segni, i quali di per sé non hanno struttura interna e sono scarsamente suscettibili di modifiche grammaticali. Al contrario, un autentico linguaggio è modulato di continuo dall'azione di dispositivi grammaticali e sintattici di ogni sorta. L'A.S.L. ne ha in grande abbondanza, ed essi permettono di allargare enormemente il vocabolario di base. Ci sono, così, numerose forme di GUARDA-QUESTO («guarda-mi», «guarda-la», «guarda-ognuno-di-loro», eccetera), ciascuna formata in un modo diverso: per esempio, il segno GUARDA-QUESTO viene eseguito allontanando una mano dal segnante; ma, nell'inflessione che significa «guarda-ognuno-di-loro», le mani si muovono simultaneamente l'una verso l'altra. Anche per indicare la durata è disponibile un gran numero di inflessioni: GUARDA-QUESTO può subire un'inflessione in modo da significare «osserva bene», oppure «guarda incessantemente»; «fissa»; «tieni d'occhio»; «osserva a lungo»; o infine «guarda e riguarda bene» - e molte altre permutazioni, che comprendono combinazioni dei segni precedenti. Vi sono poi moltissime forme derivate, variazioni specifiche del segno GUARDA per significare, a seconda dei casi, «ricordati», «ammira il panorama», «aspettati», «prevedi», «profetizza», «anticipa», «guardati intorno casualmente», «dài un'occhiata», eccetera. Nella lingua dei segni, anche la faccia può assumere funzioni linguistiche speciali: così (come ha mostrato David Corina, ma anche altri

ricercatori), particolari espressioni facciali, o meglio «comportamenti facciali», possono servire a denotare una determinata costruzione sintattica (frasi topicalizzate, le relative e le interrogative), oppure possono assumere la funzione di avverbi o di quantificatori (44). Infine, possono intervenire anche altre parti del corpo. Uno qualsiasi di questi atteggiamenti, o tutti insieme (questo ampio spettro di inflessioni reali o potenziali, spaziali e cinetiche), possono convergere sui segni-radice, fondersi con essi, modificarli, condensando una quantità enorme di informazione nei segni risultanti. Proprio la "compressione" di queste unità segniche e il fatto che le loro modificazioni sono sempre "spaziali" rendono la lingua dei segni, al livello manifesto, visibile, completamente diversa da qualsiasi lingua vocale; e questo, in parte, impediva di riconoscerla come un linguaggio. Ma è esattamente questo, assieme all'esistenza di una sintassi e di una grammatica spaziali, che fa della lingua dei segni un autentico linguaggio - anche se completamente innovativo, posto al di fuori della grande corrente evolutiva di tutte le lingue parlate, un'alternativa evolutiva unica nel suo genere. (Un'alternativa, anche, molto sorprendente, se si considera che abbiamo impiegato da mezzo milione a due milioni di anni a specializzarci per il linguaggio. Non facciamo molta fatica a capire che tutti noi possediamo potenzialmente il linguaggio; la cosa stupefacente è che negli esseri umani sia altrettanto grande la potenzialità di una modalità "visiva" di linguaggio: non riusciremmo nemmeno a immaginarlo, se il linguaggio visivo non fosse una realtà. Si potrebbe osservare che gesticolare e fare dei segni - seppure segni e gesti privi di una struttura linguistica complessa - sono comportamenti che risalgono al nostro remoto passato preumano: l'ultimo arrivato nell'evoluzione allora sarebbe proprio il linguaggio vocale, cui arrise un grande successo perché liberava le mani per altri compiti, non legati alla comunicazione. Si può supporre che vi siano state due linee evolutive parallele, rispettivamente per la forma di linguaggio vocale e per quella a base di segni; è quel che suggerirebbero i lavori di alcuni antropologi, che indicano la coesistenza di una lingua parlata e una lingua segnata in alcune tribù primitive (45). Così i sordi, e la loro lingua, ci mostrano non solo la plasticità del sistema nervoso, ma anche le sue potenzialità latenti). Assolutamente unico è, nella lingua dei segni, l'uso linguistico dello spazio: qui sta la differenza rispetto a tutte le altre lingue e a tutte le altre attività mentali (46). Questo spazio linguistico risulta inafferrabilmente

complesso a un occhio «normale», che non è in grado di vedere (tanto meno di capire) l'intrico delle sue configurazioni spaziali. Vediamo dunque nei Segni - al livello lessicale, a quello grammaticale, a quello sintattico - un uso "linguistico" dello spazio: un uso terribilmente complesso, perché quasi tutto ciò che nel parlato è lineare, sequenziale, temporale, nei Segni diventa simultaneo, presente a più livelli, concomitante. La «superficie» dei Segni può apparire semplice all'occhio (come quella del gesto o della mimica), ma ben presto ci si accorge che quest'ultima impressione è ingannevole: quel che appare tanto semplice è straordinariamente complesso, è il risultato del concatenarsi di innumerevoli schemi spaziali, tridimensionalmente annidati uno dentro l'altro. Le meraviglie di questa grammatica spaziale affascinarono i ricercatori degli anni Settanta e ne assorbirono totalmente l'impegno, tanto che solo nel decennio successivo si è rivolta pari attenzione all'aspetto temporale. La presenza di un'organizzazione sequenziale nei segni era già stata riconosciuta, ma era stata considerata trascurabile dal punto di vista fonologico, fondamentalmente perché non si sapeva «leggerla». Ci vollero le intuizioni di una nuova generazione di linguisti - essi stessi sordi, spesso, o cresciuti usando fin da piccoli la lingua dei segni, e quindi capaci di distinguerne le sottigliezze in base alla propria esperienza personale, «dall'interno» - per fare emergere l'importanza di queste sequenze dentro i segni e tra i segni. Pionieri in questo campo sono stati (assieme ad altri) i fratelli Ted e Sam Supalla. In un articolo pubblicato nel 1978, destinato a restare come una pietra miliare, Ted Supalla ed Elissa Newport hanno dimostrato che alcune piccolissime differenze di movimento potevano distinguere un sostantivo dal verbo correlato: ad esempio, Stokoe e anche altri studiosi pensavano che vi fosse un unico segno per «stare seduti» e «sedia» - mentre Supalla e Newport mostrarono che i rispettivi segni erano sottilmente ma crucialmente distinti (47). La ricerca più sistematica sull'uso del tempo nei Segni è quella compiuta da Scott Liddell, Robert Johnson e collaboratori all'Università Gallaudet. Liddell e Johnson vedono il segnare non già come una successione di configurazioni istantanee «congelate» nello spazio, ma come una modulazione nel tempo, ricca e continua: una dinamica di «movimenti» e di «pause» paragonabile a quella della musica, o del discorso parlato. Essi hanno dimostrato che nell'A.S.L. sono presenti molti tipi di sequenzialità:

sequenze di configurazioni delle mani, di luoghi, di segni non manuali, di movimenti locali, di movimenti alternati a pause; hanno anche dimostrato la presenza di una segmentazione interna (fonologica) nei segni. Un modello strutturale simultaneo non è in grado di rappresentare tali sequenze, anzi può occultarle. Si son dovute sostituire, quindi, le vecchie nozioni e descrizioni statiche con notazioni dinamiche nuove, spesso molto elaborate, che somigliano un po' alle notazioni impiegate per la danza o per la musica (48). Stokoe, immediatamente entusiasta di questi nuovi sviluppi, si è occupato in particolar modo delle possibilità di una lingua a quattro dimensioni: «Il parlato ha una dimensione sola - la sua estensione nel tempo; la scrittura ne ha due; i modelli, tre; solo le lingue dei segni dispongono di quattro dimensioni: le tre dimensioni spaziali accessibili al corpo del segnante e la dimensione temporale. E i Segni sfruttano a pieno le possibilità sintattiche offerte dal proprio canale di espressione quadridimensionale» (49). Come conseguenza, ritiene Stokoe (confortato dalle intuizioni di artisti, scrittori di teatro e attori segnanti), la struttura della lingua dei segni non è solamente narrativa, prosastica, ma è anche - e soprattutto - «cinematica»: «In una lingua segnata ... la narrazione non è più lineare, ad andamento di prosa: l'essenza di tale lingua è il continuo passaggio da un punto di vista normale a un punto di vista ravvicinato, poi a una prospettiva a distanza, per tornare ancora alla visuale ravvicinata, e così via, includendo perfino scene del passato e immagini del futuro: esattamente come fa un regista cinematografico nel montaggio... La narrazione dei segni è strutturata più come quella di un film montato che come quella di un racconto scritto, e ciascun segnante è situato in un modo che ricorda la cinepresa: il campo visuale e l'angolo prospettico sono controllati, ma variabili. E non solo il segnante, ma anche il suo interlocutore è perfettamente consapevole, in ogni momento, dell'orientazione visiva del segnante rispetto a ciò a cui si riferisce il segno» Così, dopo tre decenni di ricerca, alla lingua dei Segni si riconosce, infine, pari dignità rispetto al parlato (per la fonologia, per gli aspetti temporali, per l'andamento e le sequenze), con in più alcune peculiarità uniche, di natura spaziale e cinematica: la si vede come un'espressione e un'elaborazione del pensiero estremamente complessa eppure trasparente

(50). Penetrare in una struttura quadridimensionale di una simile complessità può richiedere la strumentazione più formidabile e insieme l'intuizione di un genio (51); eppure un bambino segnante di tre anni vi riesce senza sforzo, senza nemmeno rendersene conto (52). Che cosa accade nella sua mente e nel suo cervello (o in quelli di un qualsiasi segnante), che fa di lui un simile genio, capace di usare lo spazio in modo così stupefacente, di «linguisticizzare» lo spazio? Che specie di hardware c'è nella sua testa? In base alla «normale» esperienza del linguaggio vocale e della parola o in base a quanto sa al proposito il neurologo, un simile virtuosismo spaziale sembrerebbe impossibile. E forse è davvero impossibile per un cervello «normale» - cioè per il cervello di una persona che non sia stata esposta precocemente ai Segni (53). Qual è, dunque, la base neurologica dei Segni? Dopo aver dedicato gli anni Settanta all'esplorazione della struttura delle lingue dei segni, Ursula Bellugi e i suoi collaboratori sono passati a esaminarne i substrati neurali, impiegando anche il metodo classico della neurologia, cioè l'analisi degli effetti prodotti da lesioni del cervello; nel nostro caso, l'analisi degli effetti sulla lingua dei segni e sull'elaborazione spaziale in generale, quali si possono osservare in segnanti sordi colpiti da un ictus o da un'altra lesione cerebrale. Da più di un secolo (cioè dalle enunciazioni di Jackson, attorno al 1870) si ritiene che l'emisfero cerebrale sinistro sia specializzato nei compiti analitici, in special modo nell'analisi lessicale e grammaticale che rende possibile la comprensione del linguaggio parlato. Si ritiene inoltre che la funzione dell'emisfero destro sia complementare alla prima, che esso si occupi della totalità anziché delle parti costitutive, delle percezioni sincrone anziché delle analisi sequenziali e, soprattutto, del mondo visivo e spaziale. Le lingue dei segni evidentemente tagliano frontiere così nette - perché esse hanno sì una struttura lessicale e grammaticale, ma d'altra parte questa struttura è sincrona e spaziale. A motivo di tali peculiarità, ancora un decennio addietro non si sapeva con certezza se la lingua dei segni fosse rappresentata nel cervello unilateralmente, come la parola - e, in questo caso, in quale emisfero -, o bilateralmente; se, nell'eventualità di un'afasia del segno, potesse risultare disturbata la sintassi indipendentemente dal lessico. Soprattutto ci si chiedeva, dato l'intrecciarsi delle relazioni grammaticali con quelle spaziali nei Segni, se l'elaborazione spaziale, il senso complessivo

dello spazio, potesse avere nei segnanti sordi una base neurale differente (e presumibilmente più forte). Questi erano alcuni dei problemi che la Bellugi e i suoi collaboratori dovettero affrontare all'inizio della loro ricerca (54). A quell'epoca le informazioni sugli effetti di un ictus o di un'altra lesione cerebrale sulla capacità di segnare erano scarse, imprecise e poco studiate, anche perché si faceva poca differenza tra dattilologia e lingua dei segni. Il primo risultato a cui pervennero, cardinale per gli sviluppi successivi, fu che l'emisfero sinistro del cervello è indispensabile per l'uso dei segni, proprio come lo è per l'uso del linguaggio vocale; inoltre, che la lingua dei segni fa uso di alcuni dei percorsi neurali usati per elaborare la grammatica della lingua vocale, ma che in più fa uso di alcuni percorsi normalmente associati all'elaborazione visiva. Anche Helen Neville indica che il segnare interessa in prevalenza l'emisfero sinistro: la Neville ha dimostrato che i Segni sono «letti» più rapidamente e con maggiore precisione dai segnanti quando sono presentati nel campo visivo destro (si ricordi che l'informazione proveniente da ciascun lato del campo visivo viene sempre elaborata nell'emisfero opposto). Lo si può constatare, nel modo più manifesto, osservando l'effetto delle lesioni (provocate da ictus o da altra causa) in determinate aree dell'emisfero sinistro, che possono determinare un'afasia per i Segni: vien meno la comprensione o l'uso dei Segni, analogamente a quanto accade nell'afasia della parola. Questa afasia dei Segni può interessare in modo differenziale il lessico oppure la grammatica dei Segni (compresa la sintassi, che è spazialmente organizzata), così come può indebolire la facoltà generale di «proposizionare» che Jackson riteneva essenziale per il linguaggio (55). Ma i segnanti afasici "non" risultano menomati in altre capacità visivo-spaziali non linguistiche. (Per esempio nell'afasia si conserva la gesticolazione, cioè quei movimenti espressivi non grammaticali che tutti facciamo, come alzare le spalle, salutare con la mano, agitare il pugno, eccetera, mentre i Segni sono persi: la distinzione tra questi e quella è assoluta. E infatti ai pazienti afasici si può insegnare a usare l'Amerindian Gestural Code, mentre non riusciranno a usare i Segni, proprio come non possono usare la lingua vocale). Invece i segnanti colpiti nell'emisfero destro possono presentare grave disorganizzazione spaziale, incapacità di valutare la prospettiva, talvolta

possono perfino ignorare il lato sinistro dello spazio; ma essi non sono afasici e mantengono integra la capacità di segnare, per quanto grave sia il deficit visivo-spaziale. Così i segnanti mostrano la stessa lateralizzazione cerebrale dei parlanti, anche se il loro linguaggio ha natura esclusivamente visivo-spaziale (e perciò ci si aspetterebbe che fosse elaborato nell'emisfero destro). A ben considerarlo, questo risultato è insieme sorprendente e ovvio; ne seguono due conclusioni. Esso conferma, a livello neurologico, che quello dei Segni è un linguaggio, e come tale è trattato dal cervello, anche se è visivo anziché uditivo, organizzato spazialmente anziché sequenzialmente nel tempo. In quanto linguaggio, è elaborato dall'emisfero sinistro del cervello, che è biologicamente specializzato per tale funzione. Il fatto che i Segni siano elaborati nell'emisfero sinistro, malgrado la loro organizzazione spaziale, suggerisce che nel cervello vi sia una rappresentazione dello spazio «linguistico» completamente distinta da quella dello spazio ordinario, «topografico». La Bellugi ce ne dà un'interessante, sorprendente conferma. Uno dei suoi soggetti, Brenda I., colpita da una massiccia lesione dell'emisfero destro, mostrava una profonda ignoranza del lato sinistro dello spazio. Quando descriveva la propria stanza collocava tutto, alla rinfusa, sulla destra, lasciando la zona sinistra completamente vuota: per lei la parte sinistra dello spazio - dello spazio topografico - non esisteva più. Quando invece usava la lingua dei segni, era in grado di stabilire localizzazioni spaziali e segnava liberamente, occupando tutto quanto lo spazio disponibile per i segni, compresa la zona sinistra. Il suo spazio percettivo, il suo spazio topografico, funzione dell'emisfero destro, era profondamente lacunoso; ma il suo spazio linguistico, il suo spazio sintattico, funzione dell'emisfero sinistro, era del tutto integro. Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova "sorta" di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. E' come se l'emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi. Vien da chiedersi se questa facoltà linguistico-spaziale sia l'unica peculiarità che si sviluppa nei segnanti, o se in essi si presentino altre facoltà

visivospaziali, non linguistiche, tali da rendere possibile una forma nuova di "intelligenza" visiva. Questo interrogativo ha spinto Bellugi e collaboratori a mettere a punto uno studio affascinante sulla cognizione visiva nei segnanti sordi, basato sull'esecuzione di una batteria di test visivo-spaziali (58). Le prestazioni di un gruppo di bambini sordi e segnanti nativi venivano poi messe a confronto con quelle di bambini udenti e non segnanti. Nei test di costruzione spaziale, le prestazioni dei bambini sordi furono molto migliori di quelle dei bambini udenti, anzi molto migliori della «norma». Risultati simili diedero i test di organizzazione spaziale - che valutano la capacità di percepire una totalità a partire dalle sue parti disorganizzate, la capacità di percepire (o concepire) un oggetto: bambini sordi di quattro anni riuscirono a raggiungere punteggi addirittura impensabili per certi studenti udenti della scuola superiore. Anche nell'esecuzione del test di Benton, che misura tanto il riconoscimento di volti quanto la trasformazione spaziale, i bambini sordi fecero registrare risultati notevolmente migliori rispetto ai bambini udenti, molto più avanti rispetto alla loro età cronologica. Ma i risultati più impressionanti sono quelli che la Bellugi ha ottenuto con gruppi di bambini di Hong Kong, sordi e udenti, analizzando la loro capacità di percepire e di ricordare «pseudo-caratteri» cinesi privi di significato, che venivano presentati sotto forma di configurazioni luminose a scomparsa rapida. I bambini sordi e segnanti diedero risultati eccellenti, mentre quelli udenti quasi non riuscirono a rispondere. A quanto sembra, i bambini sordi riuscivano a fare l'«analisi grammaticale» di questi pseudo-caratteri attraverso un'analisi spaziale molto complessa, e ciò potenziava enormemente la loro percezione visiva, consentendo di «vedere» gli pseudo-caratteri con un'occhiata. L'esperimento fu ripetuto con adulti americani, sordi e udenti, che non conoscevano i caratteri cinesi, e anche questa volta i sordi segnanti risultarono molto più abili. Tutti questi test, nei quali le prestazioni dei bambini segnanti sono molto superiori ai livelli normali (una superiorità particolarmente marcata nei primi anni di vita) indicano che l'acquisizione dei Segni è accompagnata dall'acquisizione di abilità visive particolari. Come osserva la Bellugi, il test di organizzazione spaziale non implica solo il riconoscimento e la denominazione degli oggetti, ma anche la rotazione mentale, la percezione della forma e, appunto, l'organizzazione spaziale, tutte capacità connesse con le basi spaziali della sintassi dei Segni. Anche la capacità di distinguere le

facce e di riconoscere piccoli cambiamenti dell'espressione facciale ha un'estrema importanza per il segnante, poiché l'espressione facciale ha una funzione primaria nella grammatica dell'American Sign Language (59). La capacità di separare singole configurazioni distinte, quasi «fotogrammi» isolati entro un flusso continuo di movimenti (come nel caso degli pseudo-caratteri cinesi), mette in luce come i segnanti siano particolarmente abili nel «fare l'analisi del movimento»: un processo analogo a quello di scomporre e analizzare il discorso parlato, entro un continuum sempre diverso di onde sonore. E' una capacità che tutti possediamo nella sfera uditiva - ma che solo i segnanti presentano, in modo così perspicuo, nella sfera visiva; ed essa è essenziale per la comprensione di un linguaggio visivo, che si estende nel tempo e anche nello spazio. E' possibile fare corrispondere una base cerebrale a questo potenziamento della cognizione spaziale? Per studiare i correlati fisiologici di queste modificazioni percettive, la Neville ha misurato le modificazioni delle risposte elettriche del cervello (potenziali evocati) a certi stimoli visivi, in particolare a movimenti nel campo visivo periferico (60). (Un potenziamento della percezione di questi stimoli è cruciale nella comunicazione in Segni, perché in genere gli occhi del segnante fissano il volto dell'interlocutore, e quindi i movimenti delle mani cadono nella periferia del campo visivo). La Neville ha confrontato queste risposte in tre gruppi di soggetti: segnanti nativi sordi, non segnanti udenti e segnanti nativi udenti (per lo più figli di genitori sordi). I primi mostrano una maggiore velocità di reazione a questi stimoli - e ciò va di pari passo con un aumento dei potenziali evocati nei lobi occipitali del cervello, le aree primarie di ricezione della visione. In nessuno dei soggetti udenti si poterono osservare questi aumenti della velocità e dei potenziali occipitali, che sembrano riflettere un fenomeno di compensazione: un senso è potenziato per «rimpiazzarne» un altro assente (in modo analogo, i ciechi possono presentare una sensibilità uditiva molto maggiorata) (61). Ma i soggetti sordi mostrarono anche maggior precisione nel rilevare la direzione di un movimento, specie quando questo rientrava nel campo visivo destro: in corrispondenza si poteva rilevare un aumento dei potenziali evocati nelle regioni parietali dell'emisfero sinistro. Il potenziamento toccava quindi anche i livelli superiori; inoltre lo si poteva osservare anche nei figli udenti di genitori sordi, e perciò non andava considerato effetto della sordità, ma

piuttosto dell'acquisizione precoce dei Segni (che richiede una percezione degli stimoli visivi molto più acuta del normale). La percezione del moto nel campo periferico non è l'unica funzione che nei segnanti passa dall'emisfero destro all'emisfero sinistro: nei segnanti sordi, e già in età molto precoce, la Neville e la Bellugi riscontrarono un'analoga specializzazione dell'emisfero sinistro per l'identificazione di immagini, la localizzazione di punti e il riconoscimento dei volti (62). «Normalmente», tale specializzazione ha come sede l'emisfero destro (63). Ma gli incrementi di gran lunga maggiori furono osservati nei segnanti sordi: anzi, in questi, l'incremento dei potenziali evocati si estende in avanti fino al lobo temporale sinistro, normalmente considerato come sede di una funzione puramente uditiva. Questo è un risultato sorprendente, notevolissimo - fondamentale, vien fatto di pensare, perché suggerisce l'ipotesi che quelle che sono normalmente le aree uditive subiscano, nei segnanti sordi, una "diversa destinazione", e vengano adibite all'elaborazione visiva. Questo fatto costituisce una delle più stupefacenti dimostrazioni della plasticità del sistema nervoso, di quanto esso possa adattarsi a una diversa modalità sensoriale. Ma siamo portati anche a chiederci fino a che punto il sistema nervoso, o almeno la corteccia cerebrale, sia determinato da vincoli genetici, innati (con centri fissi e localizzazione fissa - per usare il linguaggio dell'informatica, aree «cablate», «preprogrammate» o «specializzate» in vista di certe funzioni specifiche), e fino a che punto sia plastico, cioè modificabile da esperienze sensoriali particolari. I famosi esperimenti di Hubel e Wiesel hanno mostrato che la corteccia visiva può essere ampiamente modificata dagli stimoli visivi, ma non hanno chiarito quanta parte dell'input si limiti ad attivare potenzialità innate e quanta invece le modelli e le plasmi. Gli esperimenti della Neville suggeriscono che la funzione sia in parte plasmata dall'esperienza, perché sarebbe arduo pensare che la corteccia uditiva fosse «in attesa» della sordità, o della stimolazione visiva, per mutare natura diventando visiva. E' assai difficile spiegare questi risultati senza ricorrere a una teoria radicalmente differente, una teoria che non concepisca il sistema nervoso come una macchina universale, cablata e preprogrammata per (potenzialmente) qualsiasi compito, ma lo veda come una struttura in divenire, libera di assumere le forme più diverse, beninteso entro i vincoli assegnati dalla genetica.

Per rendersi conto dell'importanza di questi risultati occorre anche riconsiderare gli emisferi cerebrali, le loro diversità e i loro ruoli dinamici nell'esecuzione di compiti cognitivi. Questa prospettiva nuova è stata fornita da Elkhonon Goldberg e dai suoi collaboratori, in una serie di lavori sperimentali e teorici (64). Secondo la concezione classica, i due emisferi cerebrali hanno funzioni fisse (o «dedicate»), che si escludono a vicenda: linguistico / non linguistico, sequenziale / simultaneo, analitico / gestaltico sono alcune delle dicotomie suggerite. Ma quando si ha a che fare con una lingua visivo-spaziale, questa concezione va incontro a evidenti difficoltà. Goldberg, per cominciare, estese il dominio del «linguaggio» a quello di un «sistema descrittivo» in generale. Secondo la sua formulazione, tali sistemi descrittivi costituiscono sovrastrutture apposte ai sistemi elementari di «rilevamento di caratteristiche» (per esempio i sistemi della corteccia visiva); nella cognizione normale sono operanti svariati sistemi (o «codici») di questo tipo. Uno di questi è, ovviamente, il linguaggio naturale; ma se ne possono citare molti altri: per esempio i linguaggi matematici formali, la notazione musicale, i giochi, eccetera (in quanto possiedono una codificazione specifica). Tutti sono caratterizzati dal fatto che in un primo tempo vengono acquisiti per tentativi, a tentoni, ma in seguito raggiungono una perfezione automatica. Così, per affrontare questi compiti cognitivi (e in realtà tutti), si possono seguire due modalità, due «strategie» cerebrali, con la possibilità di passare dall'una all'altra (acquistando la relativa competenza). Secondo questa concezione, l'emisfero destro ha un ruolo essenziale quando si deve affrontare una situazione nuova, per la quale non esista ancora alcun sistema descrittivo, o codice, stabilito; inoltre esso interviene anche nell'assemblaggio di tali codici. Una volta che uno di tali codici è stato assemblato, o è emerso, avviene un trasferimento di funzione dall'emisfero destro a quello sinistro, perché è quest'ultimo che controlla tutti i processi che sono organizzati nei termini di una siffatta grammatica, o codice. (Così un compito linguistico nuovo, pur essendo linguistico, all'inizio sarà affrontato prevalentemente dall'emisfero destro, e solo in un secondo tempo passerà all'emisfero sinistro, dove diventerà una funzione di routine. Reciprocamente, un compito visivo-spaziale, pur essendo tale, una volta inquadrato in un codice o notazione, costituirà una specializzazione dell'emisfero sinistro)

(65). Questa impostazione è molto differente dalle dottrine classiche che attribuiscono agli emisferi specificità fisse; ma è quella che permette di capire il ruolo dell'esperienza dell'"individuo" e lo sviluppo di quest'ultimo, dai primi goffi tentativi (alle prese con un compito linguistico o con un qualsiasi altro compito cognitivo) fino all'acquisizione della competenza e della perfezione (66). (Non c'è un emisfero «più avanzato» o «migliore» dell'altro; semplicemente, ciascuno è più adatto per certe fasi e certe dimensioni dei processo di elaborazione. I due emisferi sono complementari, interagenti; insieme, permettono di padroneggiare i compiti nuovi). Questa concezione elimina ogni paradosso e chiarisce come mai i Segni (pur essendo visivo-spaziali) possano diventare una funzione dell'emisfero sinistro; come avviene che molti altri tipi di capacità visive divenute componenti dell'uso dei Segni (la percezione del movimento, di configurazioni, di relazioni spaziali, delle espressioni facciali) siano cancellate dall'emisfero destro, via via che l'uso dei Segni si sviluppa, per diventare anch'esse funzioni dell'emisfero sinistro. Possiamo ora capire perché il segnante diventi una sorta di «esperto» della facoltà visiva, sotto parecchi aspetti, per determinati compiti, linguistici e no; capiamo come si possano sviluppare, oltre a un linguaggio visivo, anche una sensibilità e un'intelligenza visive del tutto speciali. Occorrono ulteriori e più consistenti osservazioni sullo sviluppo di una visualità «superiore», di uno stile visivo - confrontabili con quelle compiute da Bellugi e Neville sul potenziamento delle funzioni visivo-cognitive «inferiori» nei sordi (67). Fino a oggi conosciamo soprattutto episodi e resoconti; questi ultimi, però, sono di solito straordinari e meritano la massima attenzione. Ne troviamo uno molto significativo nel libro "What the Hands Reveal about the Brain"; gli autori, che si attengono a una descrizione rigorosamente scientifica, non hanno potuto rinunziare a inserirlo, incidentalmente: «Vedemmo per la prima volta questo aspetto di "mappatura" dei Segni quando un amico sordo che era venuto a trovarci ci raccontò del suo recente trasferimento in un altro quartiere. Andò avanti per cinque minuti a descriverci la villetta con giardino in cui abitava ora - le stanze, la pianta della casa, i mobili, le finestre, il panorama che vedeva intorno e così via. Descriveva tutto con tanta eleganza di particolari, in modo così evidente che

ci sembrava di avere ogni cosa scolpita davanti agli occhi: il cottage, il giardino, la collina, gli alberi» (68). Quel che viene riferito qui è difficile da immaginare: bisogna vederlo. Somiglia molto a quello che dicono di Charlotte i suoi genitori, quando parlano della sua abilità di creare un paesaggio reale (o immaginario), con tale completezza, precisione, vivezza, da trascinare l'osservatore. Questa abilità descrittiva, anzi pittorica, si sviluppa con la pratica dei Segni - anche se i Segni in sé non sono affatto un «linguaggio figurativo». L'altra faccia di questa destrezza linguistica e della destrezza visiva in generale è la tragica povertà della funzione linguistica e intellettuale che può affliggere un gran numero di bambini sordi. E' chiaro che, nei sordi che mostrano alta competenza linguistica e visiva, si è stabilita una forte lateralizzazione cerebrale, con un passaggio delle funzioni linguistiche (e anche del complesso delle funzioni visivo-cognitive) a un emisfero sinistro ben sviluppato. Ma qual è - dobbiamo chiederci - la situazione neurologica del sordo che non ha raggiunto elevati livelli di competenza? La Rapin rimase colpita dalla «notevole deficienza linguistica» di molti dei bambini sordi con cui lavorava, e in particolare dalla loro incapacità di capire la forma interrogativa, di afferrare la struttura delle frasi: un'autentica incapacità a manipolare il codice-linguaggio. Negli studi della Schlesinger troviamo altre dimensioni di questa stessa deficienza, che dal campo linguistico la estendono a quello intellettuale: secondo la sua descrizione, il sordo a ridotta competenza linguistica, oltre a trovarsi in difficoltà di fronte alla forma interrogativa, sa riferirsi solo agli oggetti dell'ambiente più immediato, non è in grado di concepire la lontananza o le eventualità, né di formulare ipotesi, non può elevarsi alle categorie superordinate, e in generale è confinato a un mondo percettivo, preconcettuale. Secondo la Schlesinger, gli enunciati di questi sordi sono piuttosto carenti dal punto di vista sintattico e semantico; ma è chiaro che lo sono anche in un senso assai più profondo. Per caratterizzare tutte queste deficienze, abbiamo bisogno di andare oltre le usuali categorie linguistiche - sintassi, semantica e fonetica. Ancora una volta è Goldberg a venirci in aiuto, con le sue riflessioni sul «linguaggio vocale dell'emisfero destro isolato» (69). Il linguaggio dell'emisfero destro permette le relazioni referenziali "ad hoc" (indicare, dare un nome, l'"hic-et-nunc"), permette di stabilire una base referenziale di un codice linguistico, ma qui si ferma: esso non consente,

cioè, di manipolare tale codice o di effettuare derivazioni al suo interno. In termini più generali, la funzionalità dell'emisfero destro si limita all'organizzazione percettiva e non può passare a quella in categorie, all'organizzazione lessicale basata su definizioni; è solo «esperienziale» (per dirla con Zaidel), non è in grado di abbracciare il «paradigmatico» (70). Questa elaborazione referenziale, con un'assenza totale della manipolazione di regole, è precisamente quella che riscontriamo nei sordi linguisticamente carenti. Il loro linguaggio, la loro organizzazione lessicale, sono simili a quelli delle persone in cui la funzione del linguaggio vocale è affidata all'emisfero destro. Tale condizione è solitamente associata a una lesione dell'emisfero sinistro sofferta in età già avanzata, ma può anche derivare da un difetto di sviluppo - quando non avviene il passaggio dal funzionamento lessicale iniziale dell'emisfero destro al funzionamento linguistico maturo, sintatticamente sviluppato, dell'emisfero sinistro. C'è qualche testimonianza che faccia pensare che appunto questo accada ai sordi linguisticamente carenti e con prestazioni ridotte? Lenneberg si è chiesto se in un alto numero di sordi congeniti la lateralizzazione cerebrale non si fosse stabilita in modo insoddisfacente, anche se a quel tempo (1967) non esisteva ancora una precisa demarcazione, una differenziazione dei caratteri e delle capacità lessicali degli emisferi presi isolatamente. Il problema è stato affrontato dal punto di vista neurofisiologico dalla Neville, che scrive: «Se l'esperienza linguistica ha qualche influenza sullo sviluppo cerebrale, allora certi aspetti della specializzazione cerebrale dovrebbero differire in soggetti sordi e udenti, quando essi leggono la lingua inglese». E in effetti la Neville trovò che la maggioranza delle persone sorde da lei sottoposte a test non presentava il quadro di specializzazione dell'emisfero sinistro osservato negli udenti; fece perciò l'ipotesi che la causa fosse la mancanza di una piena competenza grammaticale nella lingua inglese. E infatti quattro soggetti sordi congeniti, che possedevano una competenza perfetta nella grammatica inglese, presentavano una specializzazione «normale» dell'emisfero sinistro. Così, secondo le parole della Neville, «la competenza grammaticale è necessaria e sufficiente per la specializzazione dell'emisfero sinistro - purché sia acquisita precocemente». Dalle descrizioni fenomenologiche della Rapin e della Schlesinger, dalle indicazioni comportamentali e neurofisiologiche raccolte dalla Neville,

risulta chiaro che l'esperienza del linguaggio può modificare in modo massiccio lo sviluppo cerebrale e che, se tale esperienza è gravemente insufficiente o in qualche modo deviante, può causare un ritardo nella maturazione del cervello, impedendo il corretto sviluppo dell'emisfero sinistro e in pratica limitando il soggetto all'uso di una sorta di linguaggio dell'emisfero destro (71). Non è chiaro quanto permanenti possano essere tali ritardi: le osservazioni della Schlesinger suggeriscono che, se non li si previene, essi possano persistere per tutta la vita. Ma un intervento appropriato, anche a sviluppo avanzato, nell'adolescenza, consente di mitigare tali ritardi, o addirittura di invertirne il corso (72). Così alla Braefield School, che è una scuola primaria, il quadro può apparire terrificante; ma qualche anno dopo, da adolescenti, quegli stessi alunni (o molti di loro) possono dare prestazioni migliori in una scuola secondaria, per esempio alla Lexington School. (In modo del tutto diverso da quello che abbiamo chiamato «intervento», può verificarsi la scoperta tardiva del mondo dei sordi, con l'accesso a un'intimità linguistica, una cultura, una comunità: un «ritorno in patria» capace di compensare in parte il precedente isolamento). Questi, in termini molto generali, sono i rischi neurologici della sordità congenita. Né l'acquisizione del linguaggio né lo sviluppo cerebrale nelle sue forme superiori avvengono «spontaneamente»; entrambi dipendono dalla comunicazione, dall'esposizione al linguaggio, da un uso corretto di questo. Se i bambini sordi non sono esposti fin da piccoli a un buon linguaggio, se non sono inseriti in un ricco scambio di comunicazioni, la loro maturazione cerebrale può subire un ritardo (perfino un arresto): restano dominanti i processi dell'emisfero destro, difetta il «passaggio» all'altro emisfero. Questo passaggio può, invece, avvenire se si riesce a introdurre, entro la fase della pubertà, il linguaggio o un altro codice linguistico; la forma di tale codice (linguaggio vocale o Segni) sembra non avere alcuna importanza; importa solo che esso sia abbastanza ricco da consentire un'elaborazione interna. E se il linguaggio primario è quello dei Segni, ci sarà in più un potenziamento di molti tipi di capacità visivo-cognitive, che procederà di pari passo con il passaggio della dominanza dall'emisfero destro a quello sinistro (73). Sono affascinanti alcuni recenti osservazioni sulla disposizione che il cervello può avere per una lingua dei segni, in particolare per forme simili

all'A.S.L., o più in generale ai Segni, "quale che sia la forma" della lingua dei segni a cui esso viene esposto. James Paul Gee e Wendy Goodhart hanno mostrato con piena evidenza che, esponendo bambini sordi a forme di inglese segnato (inglese codificato manualmente), "ma non all'A.S.L.", essi «tendono a introdurre nuove forme simili all'A.S.L., pur non avendo ricevuto alcuni input (o quasi) in tale lingua» (74). E' un risultato sconcertante: un bambino che non ha mai visto l'A.S.L. tende, ciò nonostante, a sviluppare forme che risultano simili all'A.S.L. Elissa Newport e Sam Supalla hanno mostrato che i bambini costruiscono un'A.S.L. grammaticalmente perfetta anche quando sono esposti (come spesso accade) a un'A.S.L. un po' meno perfetta: ciò indica chiaramente la presenza di una competenza grammaticale innata nel cervello (75). I risultati di Gee e Goodhart vanno oltre, mostrando come il cervello proceda in modo inevitabile verso forme simili ai Segni, fino a «trasformare» forme dissimili dai Segni in forme simili ai Segni. Come dice Edward Klima, «i Segni sono più vicini al linguaggio della mente», e pertanto, per il bambino che sta crescendo, chiamato a costruire una lingua nella modalità manuale, sono più «naturali» di qualsiasi altra forma. Una conferma indipendente ci è offerta dalle ricerche di Sam Supalla, il quale ha studiato in particolar modo i meccanismi usati per marcare le relazioni grammaticali (che sono spaziali nell'A.S.L., ma completamente sequenziali nell'inglese segnato e nell'inglese parlato) (76). Egli ha trovato che i bambini sordi esposti solo all'inglese segnato "sostituiscono" i meccanismi grammaticali di questa lingua con altri puramente spaziali, «simili a quelli che si trovano nell'A.S.L. o in altre lingue segnate naturali». Supalla li considera «spontaneamente creati», o frutto di un'evoluzione spontanea. E' noto da anni che l'inglese segnato è scomodo e faticoso da usare: «I sordi» scrive la Bellugi «ci hanno detto che, mentre riescono facilmente a decifrare il singolo segno via via che compare, hanno difficoltà a decifrare il messaggio complessivo quando tutta l'informazione è espressa sotto forma di elementi sequenziali contenuti in un flusso di segni» (77). Queste difficoltà non diminuiscono con la pratica; esse sono dovute a limiti basilari di natura neurologica - in particolare limiti della memoria a breve termine e dell'elaborazione cognitiva. Nessuna di queste difficoltà si presenta con l'A.S.L., che è perfettamente adattata a una modalità visiva grazie alle sue caratteristiche spaziali, e perciò può facilmente essere espressa e

compresa a grande velocità. L'inglese segnato impone alla memoria a breve termine e alle facoltà cognitive un sovraccarico che i sordi adulti avvertono come difficoltà e sforzo. Ma i bambini sordi, che hanno ancora la capacità di "creare" strutture grammaticali - questa è l'ipotesi che fa Supalla - sono spinti, dalle difficoltà cognitive incontrate nell'apprendimento dell'inglese segnato, a crearsi strutture linguistiche personali, a creare o a sviluppare una grammatica spaziale. Supalla ha mostrato inoltre che, se i bambini sordi sono esposti solo all'inglese segnato, possono presentare «una ridotta capacità di apprendere ed elaborare il linguaggio naturale», una diminuzione della capacità di creare e comprendere la grammatica; a meno che siano capaci di creare proprie strutture linguistiche. Fortunatamente, essendo bambini, quindi ancora in età «chomskiana», essi sono capaci di crearsi queste strutture linguistiche proprie, questa grammatica spaziale personale; e lo fanno, in effetti, per assicurarsi la sopravvivenza linguistica. Queste scoperte sulla generazione spontanea dei Segni, o di strutture linguistiche simili, nei bambini sono molto importanti perché possono fare luce sull'origine e sull'evoluzione dei Segni in generale. Sembra infatti che il sistema nervoso, dati i vincoli di una lingua in una modalità visiva e i limiti fisiologici della memoria a breve termine e dei processi di elaborazione cognitiva, "debba" necessariamente sviluppare quel tipo di strutture linguistiche, quel tipo di organizzazione spaziale, che noi constatiamo nei Segni. A favore di questa congettura depone la circostanza che tutte le lingue segnate indigene (e ve ne sono a centinaia, ovunque nel mondo, formatesi separatamente e indipendentemente là dove esistono gruppi di persone sorde) hanno essenzialmente la stessa struttura spaziale. Nessuna di esse assomiglia minimamente all'inglese segnato, o a una lingua vocale segnata; tutte presentano, al di sotto delle differenze specifiche, alcune somiglianze generali con l'A.S.L. Non esiste una lingua dei segni universale, ma esistono, sembrerebbe, degli universali in tutte le lingue dei segni: universali non di significato, ma di forma grammaticale (78). Vi sono fondate ragioni (anche se si tratta di prove circonstanziali più che dirette) per supporre che la competenza linguistica generale sia determinata geneticamente e sia essenzialmente la stessa in tutti gli esseri

umani. Ma la forma particolare di grammatica - quella che Chomsky chiama «grammatica superficiale» (sia essa la grammatica dell'inglese, o del cinese, o dei Segni) - è determinata dall'esperienza dell'individuo: non è un patrimonio genetico, ma una conquista epigenetica. Essa viene «appresa», o forse sarebbe meglio dire (dato che stiamo parlando di qualcosa di primitivo e di preconscio) che si evolve attraverso l'interazione tra una competenza linguistica generale (o astratta) e le particolarità dell'esperienza - un'esperienza che nei sordi ha natura peculiare, anzi unica, perché ha una modalità visiva. Quello che Gee e Goodhart, e anche Supalla, osservano è un'evoluzione, una modificazione sorprendente (e radicale) delle forme grammaticali, sotto l'influenza di tale necessità visiva. Essi descrivono una trasformazione: la forma grammaticale cambia davanti agli occhi dell'osservatore, lo si può vedere; si spazializza, allorché l'inglese segnato viene «trasformato» in un linguaggio simile all'A.S.L. Avviene un'evoluzione delle forme grammaticali - un'evoluzione che si svolge nel giro di pochi mesi. Il linguaggio viene modificato attivamente; lo stesso cervello viene modificato attivamente, via via che esso sviluppa la capacità del tutto nuova di «linguisticizzare» lo spazio (o di spazializzare il linguaggio); nello stesso tempo nel cervello si compiono anche tutti quei progressi, di natura visivo-cognitiva, ma non linguistica, che sono stati descritti da Neville e Bellugi. Nella microstruttura del cervello devono avvenire modificazioni fisiologiche e (se solo potessimo vederle) anatomiche, accompagnate da una riorganizzazione. La Neville suppone che il cervello all'inizio possieda un'alta ridondanza e plasticità neuronali, e che però in seguito esso venga «potato» dall'esperienza: qui rinforzando le sinapsi (le connessioni tra le cellule nervose), là inibendole o sopprimendole, a seconda delle pressioni in competizione esercitate dai differenti input sensoriali. Non può bastare la sola dotazione genetica a spiegare tutta la complessità delle connessioni del sistema nervoso - quali che siano le invarianti predeterminate, durante lo sviluppo emerge un'ulteriore diversità. Di questo sviluppo postnatale (epigenesi) si occupa in particolar modo Jean-Pierre Changeux (79). Un suggerimento più radicale, o meglio un modo di pensare completamente diverso, è stato proposto di recente da Gerald Edelman (80). L'unità di selezione per Changeux è il singolo neurone; per Edelman, invece,

è il gruppo neuronale; ed è solo a questo livello, con la selezione di diversi gruppi (o popolazioni) di neuroni sottoposti a pressioni competitive, che si può dire che si verifichi una "evoluzione" (distinta da una semplice crescita o sviluppo). Questo consente a Edelman di proporre un modello essenzialmente biologico, affatto darwiniano, a differenza di quello di Changeux, che è essenzialmente meccanico (81). Secondo Darwin, la selezione naturale avviene nelle popolazioni, come risposta alle pressioni dell'ambiente. Edelman vede un prolungamento di tale processo "all'interno dell'organismo" (egli parla di «selezione somatica»), e ciò determinerebbe lo sviluppo del sistema nervoso dell'individuo. Il fatto che siano implicate "popolazioni" (di cellule nervose) aumenta enormemente le possibilità di cambiamento. La teoria di Edelman offre un quadro particolareggiato di come si possano formare «mappe» di neuroni che permettono all'animale di adattarsi (senza istruzioni) a sfide percettive completamente nuove, di creare o costruire forme percettive e categorizzazioni nuove, nuovi orientamenti, nuovi approcci al mondo. Precisamente questa è la situazione del bambino sordo: egli si trova bruscamente immesso in una situazione percettiva (e cognitiva, e linguistica) per la quale non vi sono né precedenti genetici né insegnamenti che lo assistano; eppure, appena se ne presenti l'opportunità, egli comincia a sviluppare forme del tutto originali di organizzazione neurale, di mappe neurali, che gli consentiranno di padroneggiare il mondo del linguaggio, articolandolo in modo del tutto nuovo. E' difficile immaginare un esempio più impressionante di selezione somatica, di darwinismo neurale, in azione. Essere sordo, essere nato sordo, pone l'individuo in una situazione fuori dall'ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo. L'incredibile esperimento del faraone Psammetico Primo, che fece

allevare due figli da alcuni pastori ai quali aveva ordinato di non parlare mai con loro, allo scopo di vedere quale lingua avrebbero parlato naturalmente (se mai ne avrebbero parlato una), si ripete, potenzialmente, con ogni bambino nato sordo (82). Pochi di questi bambini, forse il dieci per cento, nascono da genitori sordi, sin dall'inizio sono esposti ai Segni e diventano segnanti nativi; il resto deve vivere in seno a un mondo uditivo-orale, del tutto impreparato, dal punto di vista sia biologico, sia linguistico, sia emotivo, a trattare con i sordi. La vera disgrazia non è la sordità in sé; la disgrazia sopravviene con l'assenza di comunicazione e di linguaggio. Se non si raggiunge la comunicazione, se il bambino non è esposto a un ricco dialogo linguistico, si manifesteranno tutti i deficit - linguistici, intellettivi, emotivi, culturali - descritti dalla Schlesinger, che colpiscono, in misura più o meno grave, la maggioranza dei sordi congeniti. Osserva Schein (83): «I bambini sordi per lo più crescono come stranieri nella loro stessa casa» (84). E tuttavia niente di tutto ciò è inevitabile. Per quanto grandissimi, i rischi che minacciano un bambino sordo sono per fortuna del tutto scongiurabili. Essere genitori di un bambino sordo, o di due gemelli, o di un bambino cieco, o di un bambino prodigio richiede una resistenza speciale e un grande spirito di iniziativa. In molti casi, i genitori si sentono impotenti di fronte alla barriera che impedisce loro di comunicare con il figlio sordo, con effetti devastanti. Il fatto che sia possibile superare tale barriera è un riconoscimento dell'adattabilità sia dei genitori sia del bambino. Infine, vi sono casi (ancora troppo rari) di sordi che riescono a realizzare le proprie capacità innate con discreto successo. Condizione cruciale è però che riescano ad acquisire il linguaggio sin da piccoli, all'età «normale». Questo primo linguaggio potrà essere la lingua dei segni o quella parlata (come abbiamo visto nei casi di Charlotte e di Alice), perché è il linguaggio, più che una sua particolare forma, che attiva la competenza linguistica e con essa anche la competenza intellettuale. I genitori di un bambino sordo devono essere, in un certo senso, «genitori super»; cosa ancora più ovvia, gli stessi bambini sordi devono essere «bambini super». Così Charlotte a sei anni legge con grande facilità e ha una passione vera, non obbligata, per la lettura; a sei anni è già bilingue e biculturale - mentre la maggior parte di noi passa tutta la vita in un'unica cultura, conoscendo una sola lingua. Differenze come queste possono essere benefiche e fertili, possono arricchire la natura umana e la cultura. Questa, se

si vuole, è l'altra faccia della sordità: l'affinamento della visualità e le facoltà speciali associate all'uso dei Segni. La grammatica dei Segni viene acquisita in gran parte allo stesso modo della grammatica della lingua vocale, e per lo più alla stessa età: possiamo dunque supporre che la loro struttura profonda sia identica. Identico in entrambe è il potere di formulare proposizioni, e tali sono anche le loro proprietà formali, malgrado esse implichino (come affermano Petitto e Bellugi) differenti tipi di segnali e di informazione, differenti sistemi sensoriali, differenti strutture mnemoniche, e forse differenti strutture neurali (85). Le proprietà formali dei Segni e della lingua vocale sono identiche, come lo è l'intento comunicativo. Eppure non sono, o non potrebbero essere, sotto certi aspetti, profondamente differenti? Chomsky ci ricorda che Humboldt «ha introdotto un'ulteriore distinzione tra la forma di un linguaggio e quello che egli definisce il suo "carattere" ... [quest'ultimo essendo] determinato dal modo in cui il linguaggio viene "usato", da distinguersi quindi dalla sua struttura sintattica e semantica, dove è questione di forma, non di uso». C'è in effetti un certo pericolo (come ha indicato Humboldt) che, a furia di esaminare e riesaminare la forma di un linguaggio, si finisca per dimenticare che esso ha un significato, un carattere, un uso. Il linguaggio non è solo uno strumento formale (anche se in realtà è il più meraviglioso strumento formale che esista); è anche la più esatta espressione dei nostri pensieri, delle nostre aspirazioni, della nostra visione del mondo. Il «carattere» del linguaggio, così come lo intende Humboldt, è di natura essenzialmente creativa e culturale, ha un'impronta generale; è il suo «spirito», non solo il suo «stile». In questo senso l'inglese ha un carattere diverso dal tedesco, la lingua di Shakespeare ha un carattere diverso da quella di Goethe. Quel che è diverso è l'identità culturale o personale. Ma i Segni differiscono dalla lingua vocale più che una qualsiasi lingua parlata da un'altra. Potrebbe trovarsi qui un'identità «organica» radicalmente diversa? Basta osservare due persone che usano la lingua dei segni per capire come questa abbia una vivacità, uno stile, del tutto diversi da quelli della lingua vocale. I segnanti sono portati a improvvisare, a giocare con i segni; vi introducono tutto il loro humour, la loro immaginazione, la loro personalità. Usare i segni non è solo manipolare simboli seguendo certe regole grammaticali, ma è dar voce, in modo che non ha eguali, al segnante - una voce dotata di una forza speciale proprio perché a esprimerla è il corpo, con

tutta la sua immediatezza. Ci può essere, si può immaginare, un linguaggio vocale disincarnato, ma non una lingua dei segni disincarnata. L'atto di segnare esprime di continuo il corpo e l'anima del segnante, la sua identità umana unica. Forse i Segni hanno un'origine diversa dalla lingua vocale, perché nascono dai gesti, che sono una rappresentazione spontanea emotivo-motoria (86). Pur essendo completamente formalizzata e dotata di grammatica, la lingua dei segni è altamente iconica, conserva molte tracce delle sue origini figurative. Le persone sorde, scrivono Klima e Bellugi, «sono minutamente consapevoli di tutte le sfumature iconiche del loro vocabolario ... Quando comunicano tra loro, o quando raccontano, i segnanti sordi spesso accentuano o estendono l'elemento mimetico; ciò accade anche in certi usi elevati della lingua (nella poesia, nelle opere d'arte) ... Così l'A.S.L. resta un linguaggio a due facce - ha una struttura formale, ma sotto molti aspetti importanti conserva una grande libertà mimetica» (87). Le proprietà formali, la struttura profonda, permettono di esprimere anche i concetti e le proposizioni più astratti; al tempo stesso, grazie a questo aspetto iconico o mimetico, la lingua dei segni può essere straordinariamente concreta ed evocativa, in un modo forse impossibile a qualsiasi lingua parlata. La lingua parlata (e scritta) si è allontanata dall'iconicità; essa può richiamare stati d'animo e immagini, ma non li può ritrarre (eccetto che mediante ideofoni e onomatopee «fortuite»). Se la poesia espressa nella lingua parlata può sembrarci evocativa, è solo per le associazioni che suscita, non per un suo carattere descrittivo. Il potere di rappresentazione diretta che hanno i Segni non ha l'analogo nel linguaggio vocale, né può esservi tradotto; d'altra parte la lingua dei segni fa meno uso di metafore. Avendo conservato entrambe le facce - quella iconica e quella astratta, tra loro complementari - la lingua dei segni può elevarsi alla massima astrazione e simultaneamente evocare una concretezza e una verosimiglianza che le lingue vocali hanno perso da tempo - e forse non hanno mai avuto (88). Il «carattere» di una lingua, per Humboldt, è essenzialmente culturale: esprime (e forse in parte determina) il modo di pensare e di sentire di tutto un popolo, le sue aspirazioni. Nel caso dei Segni, la qualità distintiva della lingua (il suo «carattere», appunto) è anche biologica, perché è radicata nei gesti, nell'iconicità, in una radicale visualità, che ne fanno qualcosa di

assolutamente diverso da qualsiasi lingua parlata. Dal punto di vista biologico, il linguaggio scaturisce dal basso, dal bisogno insopprimibile dell'individuo umano di pensare e di comunicare. Ma è anche generato e trasmesso, dal punto di vista culturale, dall'alto, incarnazione vivente e necessaria della storia di un popolo, della sua visione del mondo, del suo immaginario e delle sue passioni. I Segni sono per i sordi un adattamento unico a un'altra modalità sensoriale; ma sono anche, e parimenti, un'incarnazione della loro identità personale e culturale. Perché nella lingua di un popolo, osserva Herder, «risiede tutto il suo dominio di pensiero, la sua tradizione, la sua storia, la sua religione; risiedono il suo cuore e la sua anima, basi della vita stessa». Questo è tanto più vero per i Segni, che sono biologicamente la voce dei sordi, una voce non riducibile al silenzio.

NOTE N. 1: Anche genitori molto attenti e perspicaci troppo spesso non si accorgono della sordità nell'infanzia, cosicché la diagnosi arriva tardi, quando ci si accorge che il bambino non impara a parlare. Altrettanto comune è che si aggiunga la diagnosi di «mutismo» o di «ritardo mentale», e questo marchio può restare per tutta la vita. In molti grandi ospedali e istituti psichiatrici sono ricoverati numerosi pazienti sordi congeniti, definiti «ritardati» o «chiusi in se stessi» o «autistici», che spesso non sono nessuna di queste cose, ma sono stati trattati come tali e privati, fin dai primi giorni di vita, della possibilità di svilupparsi normalmente. N. 2: Ma è davvero così? William James, che si interessò sempre del rapporto tra pensiero e linguaggio, tenne una corrispondenza con Teophilus d'Estrella, un geniale pittore e fotografo sordo, e nel 1893 pubblicò una lettera autobiografica di d'Estrella, accompagnata dalle proprie riflessioni (James, 1893). D'Estrella era nato sordo, e iniziò ad acquisire una vera e propria lingua dei segni solo a nove anni (anche se aveva inventato una ricca lingua dei segni «privata» fin dalla prima infanzia). «Prima di andare a scuola pensavo per immagini e segni. Le immagini non erano esatte nei particolari, ma molto generiche. Erano immagini brevi, che scorrevano rapidamente davanti al mio occhio mentale. I segni [privati] non erano estensivi, ma piuttosto convenzionali [figurativi], un po' sullo stile messicano... assolutamente diversi dai simboli della lingua dei sordomuti». Pur essendo privo di una lingua, il piccolo d'Estrella era evidentemente pieno di curiosità, di immaginazione; un bambino riflessivo, capace anche di costruirsi idee sue: credeva che il mare salato fosse l'urina di un grande dio del mare e che la luna fosse una dea del cielo. Tutte queste cose le poté comunicare quando, a dieci anni, cominciò a studiare alla California School for the Deaf, e imparò a usare i segni e a scrivere. D'Estrella era convinto che, prima di aver acquisito un linguaggio formale, egli aveva avuto un'attività pensante, anche assai varia, benché svolta mediante immagini e raffigurazioni; egli riteneva che il linguaggio gli fosse servito a «elaborare» i suoi pensieri, ma che non fosse indispensabile per pensare. E questa fu anche la conclusione di James: «Le sue riflessioni cosmologiche ed etiche erano il risultato delle sue meditazioni solitarie ... Certo non disponeva di gesti

convenzionali per esprimere le relazioni causali e logiche implicate nelle sue induzioni, per esempio sulla luna. "Il suo resoconto, quindi, tenderebbe a smentire l'idea che non sia possibile un pensiero astratto senza parole". Qui siamo in presenza di un pensiero astratto di natura decisamente sottile, sia scientifico sia morale, prima che fossero disponibili i mezzi per comunicarlo agli altri». (I corsivi sono miei). James riteneva che lo studio di persone sorde come d'Estrella potesse avere la massima importanza per chiarire il problema della relazione tra pensiero e linguaggio. (Va osservato che alcuni critici e corrispondenti di James avanzarono dubbi sull'attendibilità del resoconto autobiografico di d'Estrella). N. 3: A.R. Lurija e F. Ja. Yudovich descrivono una coppia di gemelli identici con un ritardo congenito del linguaggio (dovuto a problemi cerebrali, non alla sordità). Questi gemelli, anche se di intelligenza normale, o forse addirittura brillante, si comportavano in modo molto primitivo - i loro giochi erano ripetitivi, senza alcuna creatività. Incontravano un'enorme difficoltà a risolvere i problemi, a concepire programmi o attività complesse; era presente, secondo le parole di Lurija, «una struttura della coscienza peculiare, insufficientemente differenziata, [con l'incapacità] di separare la parola dall'azione, di controllare l'orientamento, di programmare l'azione ... di formulare gli scopi di un'attività con il ricorso alla parola». Quando i gemelli furono separati, e ciascuno di loro acquisì un normale sistema linguistico, «l'intera struttura della [loro] vita mentale cambiò simultaneamente e in modo deciso ... e dopo soli tre mesi osservammo gli inizi di un'attività ludica dotata di significato ... la possibilità di un'attività produttiva e costruttiva alla luce di scopi formulati ... operazioni intellettuali che solo poco tempo prima erano allo stato embrionale ...». Tutti questi «miglioramenti cardinali» (per dirla con Lurija), non solo delle funzioni intellettuali ma dell'intero essere dei ragazzi, «potevamo attribuirli solo all'influenza dell'unico fattore che fosse cambiato: l'acquisizione di un sistema linguistico». Lurija e Yudovich parlano anche delle difficoltà dei sordi privi di linguaggio: «Il sordomuto a cui non è stato insegnato a parlare ... non possiede tutte quelle forme di riflessione che si realizzano con la lingua parlata ... [Egli] indica oggetti o azioni con un gesto; non è in grado di formare concetti astratti, di sistematizzare i fenomeni del mondo esterno con l'aiuto di segnali astratti forniti dal linguaggio, ma che non sono naturali per

un'esperienza visiva, acquisita con la pratica». (Si veda Lurija e Yudovich, 1968, specialmente pagine 120-123). E' un peccato che Lurija, a quanto pare, non abbia fatto esperienza di persone sorde che avessero acquisito un linguaggio scorrevole, perché ci avrebbe offerto descrizioni impareggiabili della conquista delle facoltà di concettualizzazione e di sistematizzazione conquistate "insieme" con il linguaggio. N. 4: Church, 1961, pagine 94-95. N. 5: L'autobiografia di Massieu è ora ristampata in Lane, 1984 b, pagine 76-80; nella stessa opera sono riportati (pagine 83-126) ampi stralci del libro di Sicard. N. 6: Nel 1977 S. Goldin-Meadow e H. Feldman cominciarono a filmare un gruppo di bambini sordi profondi in età prescolare che erano tenuti isolati da qualsiasi segnante, perché i loro genitori preferivano che imparassero la lingua parlata e la lettura labiale (Goldin-Meadow e Feldman, 1977). Malgrado tale isolamento e malgrado tutti gli sforzi dei genitori, i bambini cominciarono a inventare dei gesti, prima isolati e poi collegati in sequenze, per rappresentare persone, oggetti e azioni. Questo era quanto era avvenuto con Massieu e con altri sordomuti suoi contemporanei. I segni «privati» inventati da Massieu e quelli inventati da questi bambini tenuti in isolamento sono semplici sistemi gestuali che possono anche avere una sintassi e una morfologia rudimentali, ma non compiono il passaggio a una grammatica e a una sintassi complete, come avviene quando un bambino viene esposto ai Segni. Osservazioni simili sono state fatte su adulti sordi isolati - ce ne era uno nelle Isole Salomone, il primo in ventiquattro generazioni (Kuschel, 1973); anch'essi inventano sistemi gestuali con una sintassi e una morfologia molto semplici, con cui riescono a comunicare a chi gli sta vicino i bisogni e i sentimenti più elementari - ma non riescono a fare "da soli" il salto qualitativo da un siffatto sistema gestuale a un sistema linguistico completo, pienamente grammaticizzato. In questi casi, come fanno notare Carol Padden e Tom Humphries, siamo di fronte a dei veri e propri sforzi di inventare una lingua nell'arco di una sola vita. Purtroppo si tratta di un'impresa sostanzialmente impossibile, perché per creare, trasmettere e sviluppare una lingua naturale ci vuole un bambino, ci vuole il cervello di un bambino esposto a una lingua naturale.

Pertanto le lingue dei segni sono creazioni "storiche" che richiedono, al minimo, due generazioni per la loro genesi. Una lingua dei segni può poi arricchirsi ed evolversi nel corso di varie generazioni, come era avvenuto a Martha's Vineyard, ma due generazioni sono "sufficienti". Vediamo la stessa situazione nelle lingue parlate: quando due comunità linguisticamente diverse si incontrano e vogliono comunicare, sviluppano un "pidgin", ossia un ibrido improvvisato e privo di grammatica. Questa compare solo nella generazione successiva, quando i figli la introducono nel "pidgin" dei genitori, creando una lingua creola ricca e completamente grammaticizzata. Almeno, questa è la tesi del linguista Derek Bickerton (si veda Restak, 1988, pagine 216-217). Sembra chiaro che nel cervello di tutti i bambini è presente, addirittura in modo esplosivo, un potenziale grammaticale che, nelle opportune circostanze, affiora, realizzandosi concretamente in una lingua. Questo è particolarmente evidente nel caso dei bambini sordi rimasti dapprima isolati, e poi in modo accidentale esposti ai Segni. In questo caso, anche la più breve esposizione a una lingua dei segni totalmente grammaticizzata può bastare per innescare una trasformazione grandissima, che si propagherà rapidamente. Una sola occhiata a un rapporto soggetto-oggetto, a una struttura sintattica, può accendere le facoltà grammaticali latenti e produrre un'improvvisa folgorazione e una rapidissima conversione da un sistema gestuale a un linguaggio autentico. Per impedire che questo accada ci vuole davvero un grado eccezionale di isolamento. N. 7: La smania di denominazione che aveva colto Massieu, spingendolo a imparare il nome di alberi e piante, lo aiutò a definirli secondo categorie "percettive" uniche («Questa è una quercia, questa è la quercità!»), ma non a definirle in maniera più "concettuale" («Ah, una gimnosperma!», oppure «Ah, un'altra crucifera!»). E molte di queste categorie «naturali», ovviamente, gli erano già note. La difficoltà fu molto maggiore con gli oggetti sconosciuti, che non facevano già parte del suo mondo percettivo. Questo fatto si intravede nel caso di Massieu, ma è evidente nel caso del «ragazzo selvaggio», Victor. Così, quando il suo insegnante, Itard, gli insegnò la parola «libro», il ragazzo in un primo momento credette che si riferisse a un "particolare" libro; e lo stesso errore di comprensione avvenne per altre parole, che egli interpretò come nomi di particolari oggetti, non di categorie di oggetti. Sicard dapprima aveva presentato a Massieu delle

immagini e poi lo aveva condotto a quelle che Lévy-Bruhl, nei suoi studi sul pensiero primitivo, chiama «concetti-immagine». Tali concetti devono necessariamente essere particolari, perché non si può avere un'immagine generica. N. 8: Vygotskij, 1962, pagina 5. N. 9: Lev Semenovic' Vygotskij nacque in Bielorussia nel 1896 e già da giovane pubblicò un importante libro sulla psicologia dell'arte. In seguito passò allo studio della psicologia sistematica, e nei dieci anni che precedettero la sua morte (avvenuta per tubercolosi, a 38 anni) produsse un corpo unitario di opere, che furono giudicate da molti suoi contemporanei (tra cui Piaget) come eccezionalmente originali, o addirittura geniali. Secondo Vygotskij, lo sviluppo del linguaggio e delle facoltà mentali non era appreso, nel modo usuale in cui avviene l'apprendimento, e nemmeno emergeva per via epigenetica, ma aveva una natura sociale e mediata, scaturiva dall'interazione dell'adulto con il bambino e interiorizzava lo strumento culturale costituito dal linguaggio per i processi del pensiero. L'opera di Vygotskij fu guardata con diffidenza dagli ideologi marxisti: "Pensiero e linguaggio", che fu pubblicato postumo nel 1934, fu vietato e ritirato dalla circolazione un paio d'anni dopo, come libro «anti-marxista», «anti-pavloviano» e «anti-sovietico». I suoi scritti e le sue teorie non potevano essere citati in pubblico, ma furono custoditi con venerazione dai suoi allievi e colleghi - soprattutto da A. R. Lurija e A. N. Leont'ev. In seguito Lurija ebbe a scrivere che avere incontrato un genio come Vygotskij, avere avuto l'opportunità di conoscerlo, era stato il fatto più importante della sua vita - e spesso parlò del proprio lavoro come di «niente più che la continuazione» di quello di Vygotskij. Si deve soprattutto ai coraggiosi sforzi di Lurija (il quale era stato anch'egli, in vari periodi, bandito e costretto a un «esilio interno») se "Pensiero e linguaggio" fu ripubblicato (in russo e in tedesco), alla fine degli anni Cinquanta. L'edizione inglese comparve nel 1962, con un'introduzione di Jerome Bruner, il quale pure ne fu profondamente influenzato: i libri di Bruner degli anni Sessanta (soprattutto "Verso una teoria dell'istruzione") hanno un'intonazione marcatamente vygotskiana. Negli anni Trenta, il pensiero di Vygotskij era talmente in anticipo sui tempi che un suo contemporaneo lo definì «un visitatore venuto dal futuro». Negli ultimi venti anni, tuttavia, proprio l'opera di Vygotskij ha fornito la struttura portante teoretica di

un'ampia gamma di importanti studi sullo sviluppo del linguaggio e dei processi mentali (quindi sulla formazione) del bambino, compresi quelli della Schlesinger e dei Wood sul bambino sordo. Solo ora, alla fine degli anni ottanta, è disponibile in edizione inglese la raccolta completa delle opere di Vygotskij, sempre a cura di Bruner. N. 10: Quando fu liberato dopo anni e anni di reclusione in una cantina, privo di qualsiasi linguaggio (come si vedrà più avanti in questo capitolo), Kaspar Hauser mostrò all'inizio l'identica tendenza a usare metafore di questo genere; una tendenza a una sorta di poetare infantile spontaneo e ingenuo... che il suo insegnante, von Feuerbach, gli chiese di «abbandonare». Anche nella storia e nell'evoluzione di molti popoli e di molte culture si riscontra, in principio, un analogo linguaggio poetico «primitivo», sostituito in seguito da una terminologia più analitica e astratta. A volte vien fatto di pensare che la perdita non sia inferiore al guadagno. In modo analogo Lévy-Bruhl descrive come gli abitanti della Tasmania «non avevano parole per esprimere le idee astratte ... non potevano esprimere qualità come duro, soffice, rotondo, alto, basso, eccetera. Per esprimere "duro" dicevano "simile a una pietra"; per "alto", "gambe lunghe"; per "rotondo", "simile a una palla", "simile alla luna", e così via, sempre accompagnando le parole con gesti intesi a mettere davanti agli occhi dell'interlocutore l'oggetto descritto» (Lévy-Bruhl, 1966). E' immediato pensare, qui, al modo in cui Massieu acquisì il linguaggio, alle espressioni «Albert è uccello», «Paul è leone», di cui si serviva prima di avere imparato a usare aggettivi generici. N. 11: Leggendo Sicard, viene alla mente la teoria di Platone sulle idee e sull'educazione, espressa soprattutto nel "Cratilo" e nel "Menone". Per prima cosa, dice Platone, bisogna vedere sedie o quadrati reali, oggetti di ogni sorta dotati della qualità di esser quadrati (o di qualunque altra qualità); solo allora può sopraggiungere l'idea della quadratità, il quadrato archetipico o ideale di cui tutti i quadrati non sono altro che copie. Nel "Menone" un giovane ignorante e illetterato, privo di qualsiasi nozione geometrica, viene gradualmente iniziato alle verità della geometria, gradualmente portato a livelli sempre più alti di astrazione, attraverso le domande di un maestro che si trova sempre un passo avanti a lui e che, proprio con il suo modo di interrogare, permette all'allievo di avanzare fino allo stadio che egli occupa. Così, per Platone, linguaggio, conoscenza, epistemologia sono innati: tutto

l'apprendimento è essenzialmente «reminiscenza», ma questa può avvenire solo con un'altra persona, un mediatore, nel contesto di un dialogo. Sicard era evidentemente un insegnante nato: egli in realtà non "istruiva" Massieu, ma lo «educeva», lo aiutava a uscire, mediante un continuo dialogo di stampo platonico. N. 12: Il racconto di Anselm von Feuerbach fu pubblicato nel 1832 e tradotto in inglese, con il titolo di "Caspar Hauser", nel 1834. E' stato poi oggetto di innumerevoli saggi, articoli, libri; di un film di Werner Herzog e di un importante saggio psicoanalitico di Leonard Shengold, contenuto in "Halo in the Sky". N. 13: Shengold, 1988. N. 14: Ma, ancora una volta, questo può non accadere. Nel 1970 fu trovata in California una «bambina selvaggia» del nostro tempo: Genie (così si chiama) era stata tenuta prigioniera in casa dal padre, psicotico, e da quando era nata nessuno le aveva mai parlato (si veda Curtiss, 1977). Malgrado l'insegnamento intensivo che le fu impartito, Genie riuscì ad acquisire solo un minimo di linguaggio, qualche parola per indicare gli oggetti più comuni, ma nessuna capacità di fare domande e una grammatica estremamente rudimentale (si veda, sotto, nota 71). Come si spiega il successo di Kaspar e il fallimento di Genie? La ragione potrebbe essere semplicemente questa: Kaspar, prima di essere segregato, aveva già acquisito qualche elemento di linguaggio, la competenza linguistica di un bambino di tre anni, mentre Genie era stata completamente isolata dall'età di venti mesi. Basta un anno di linguaggio a spiegare la differenza: lo si vede con i bambini che sono diventati sordi improvvisamente, per esempio a trentasei mesi, rispetto a quelli che lo sono diventati a ventiquattro mesi. N. 15: Nel gennaio 1982 una Corte dello Stato di New York concesse un risarcimento di due milioni e mezzo di dollari «a un ragazzo sordo di diciassette anni che era stato diagnosticato come "idiota" quando aveva due anni e ricoverato in un istituto per ritardati mentali. Qui rimase fino all'età di undici anni. In seguito fu trasferito in un altro istituto, dove uno dei consueti esami psicologici rivelò che era "di intelligenza almeno normale"». Questo fatto è riportato da Jerome D. Schein (Schein, 1984). Casi del genere potrebbero essere tutt'altro che rari: uno quasi identico è riferito nel «New York Times» dell'11 dicembre 1988, pagina 81. N. 16: Cito, con il permesso della Schaller, da questa e da altre sue

lettere, e da un libro che sta scrivendo. N. 17: Quando mi capitò di scrivere su una coppia di gemelli dotati di prodigiosa capacità di calcolo («I gemelli», in Sacks, 1985) e sul loro straordinario «senso dei numeri» mi dovetti chiedere se nel loro cervello non potesse esserci «un'aritmetica profonda, del genere descritto da Gauss ... tanto innata quanto lo sono la grammatica generativa e la sintassi profonda di Chomsky». In seguito, quando appresi il caso di Ildefonso, giunto a comprendere d'un tratto i numeri, a «vedere» in un lampo le regole dell'aritmetica, non potei fare a meno di pensare ai due gemelli, e di chiedermi se anche Ildefonso non fosse in possesso di un'aritmetica innata, organica, che uno stimolo numerico aveva bruscamente attivato, o liberato. In effetti, in una delle sue lettere successive la Schaller mi parlò di un sordo prelinguistico di cinquantaquattro anni, privo di linguaggio, che tuttavia capiva bene l'aritmetica; possedeva anche un manuale di aritmetica, al quale era molto affezionato anche se sapeva leggere solo le notazioni aritmetiche e gli esempi. Quest'uomo, che aveva il doppio dell'età di Ildefonso, riuscì a imparare la lingua dei segni ormai sessantenne; la Schaller si chiede se in questo non gli fosse stata d'aiuto la sua abilità in aritmetica. Forse questa competenza aritmetica può fungere da modello, da punto d'avvio per il successivo sviluppo di una competenza linguistica, subito dopo o molto tempo dopo, come se l'una facoltà chomskiana facilitasse l'emergere dell'altra. N. 18. Rapin, 1979, pagina 210. N. 19: Nelle "Confessioni" (1°, 8) egli scrive: «Quando essi [le persone più grandi] nominavano qualche oggetto e in corrispondenza di quella parola volgevano il corpo verso qualche cosa, io li osservavo e fissavo in mente che con quel suono essi chiamavano quell'oggetto, quando volevano indicarlo ad altri. «Che questo fosse il loro intento era reso manifesto dai movimenti del corpo, quasi linguaggio naturale di tutti gli uomini; con il volto e con i cenni degli occhi, con i movimenti delle membra, con il suono della voce che indica il sentimento dell'animo, quando si voglia chiedere, possedere, rifiutare o fuggire qualche cosa. «Così udendo spesso le singole parole, disposte a giusto luogo, in proposizioni diverse, a poco a poco comprendevo di quali oggetti fossero indicazione, sinché, abituata la mia voce a ben pronunciarle, esprimevo ormai

con esse la mia volontà». Wittgenstein commenta: «Agostino descrive l'apprendimento del linguaggio umano come se il bambino giungesse in un paese straniero e non ne comprendesse la lingua; cioè come se possedesse già una lingua, ma non questa. O anche: come se il bambino potesse già "pensare", ma soltanto non ancora parlare. E qui "pensare" significherebbe qualcosa come: "parlare tra sé"». ("Ricerche filosofiche", 32). N. 20: Gli aspetti cognitivi di questi interscambi preverbali sono stati in particolar modo studiati da Jerome Bruner e collaboratori (si veda Bruner, 1983). Bruner ravvisa nelle interazioni e nelle «conversazioni» preverbali lo schema generale e l'archetipo di tutte le interazioni verbali, dei dialoghi futuri: se questi dialoghi preverbali mancano, o se sono in qualche modo disturbati, il rapporto verbale successivo può esserne compromesso. Questo è proprio quanto può accadere (e in effetti accade, se non si fa nulla per evitarlo) agli infanti sordi, i quali non possono udire la madre e quindi neppure i suoni delle sue precoci comunicazioni preverbali. David Wood, Heather Wood, Amanda Griffiths e Ian Howarth, che hanno compiuto uno studio a lungo termine di bambini sordi, insistono molto su questo punto (Wood et al., 1986). Essi scrivono: «Immaginate un bambino sordo che non sappia che cos'è il suono ... Quando osserva un oggetto o un evento, egli non riceve nulla della "musica d'ambiente" che di solito accompagna l'esperienza sociale di un bambino udente. Supponiamo che il suo sguardo passi da un oggetto che aveva richiamato la sua attenzione a un adulto che stia "spartendo con lui" quell'esperienza e supponiamo che l'adulto parli dell'oggetto osservato. Il bambino comprenderà che sta avvenendo una "comunicazione"? Per scoprire la relazione tra una parola e il suo referente, l'infante sordo deve "ricordare" qualcosa che ha appena osservato e mettere "in relazione" questo ricordo con un'altra osservazione ... Il bambino sordo deve fare molto di più, deve "scoprire" la relazione tra due esperienze visive molto diverse che accadono in tempi diversi». Queste e altre importanti considerazioni, a detta degli autori indicano le possibili cause di problemi di comunicazione anche gravi, assai prima dello sviluppo del linguaggio. I figli sordi di genitori sordi hanno una buona probabilità di scansare questi problemi di interazione, perché i genitori sanno fin troppo bene, per le esperienze fatte, che tutte le comunicazioni, tutte le attività, tutti i giochi

devono essere visivi; in particolare anche il tipico «chiacchiericcio» infantile deve seguire una modalità visivo-gestuale. Se ciò avviene, già a diciotto mesi i bambini sordi mostrano un atteggiamento e un orientamento visivo, o meglio ipervisivo. In un saggio recente di Carol Erting e collaboratori si trovano belle illustrazioni che mostrano tali differenze di comportamento tra genitori sordi e genitori udenti (Erting, Prezioso e Hynes, 1989). (E' ovvio che anche i genitori udenti possono diventare altrettanto abili dei genitori sordi nell'interazione visiva, purché si mostrino sensibili alla visualità del proprio figlio sordo, anziché contrastarla). N. 21: Schlesinger e Meadow, 1972. Ricerche molto approfondite sono state fatte anche da Wood "et al." in Inghilterra. Come la Schlesinger, anch'essi considerano cruciale la funzione mediatrice dei genitori e degli insegnanti, e mostrano quanto spesso (e in modi molto sottili e diversi) gli uni e gli altri si rivelino tragicamente inadeguati al compito quando devono trattare con bambini sordi. N. 22: H. Schlesinger, "Buds of Development: Antecedents of Academic Achievement" (in preparazione). N. 23: Questa interazione è un argomento molto studiato dalla psicologia cognitiva. Si vedano in particolare: L. S. Vygotskij, "Pensiero e linguaggio"; A. R. Lurija e F. Ja. Yudovich, "Linguaggio e sviluppo dei processi mentali nel bambino"; J. Bruner, "Child's Talk". Naturalmente questo è anche un tema caro alla psicologia analitica, specie negli aspetti riguardanti lo sviluppo delle emozioni, della fantasia, della creatività, del gioco. Si vedano: D. W. Winnicott, "The Maturational Process and the Facilitating Environment"; M. Mahler, F. Pine e A. Bergman, "La nascita psicologica del bambino"; D.N. Stern, "Il mondo interpersonale del bambino". N. 24: Schlesinger, 1988, pagina 262. N. 25: Eric Lenneberg ritiene che i problemi dei sordi nascano solo nel dominio "verbale", dopo l'età di tre anni, e che in generale questi problemi non siano gravi negli anni prescolari (Lenneberg, 1967). Così egli scrive: «Un bambino sordo sano di due anni o più se la cava benissimo malgrado sia del tutto incapace di comunicare verbalmente. Questi bambini diventano bravissimi nella pantomima e sviluppano tecniche molto efficaci per comunicare desideri, bisogni, perfino opinioni ... La pressoché totale assenza di linguaggio non ne ostacola affatto il gioco, appropriato all'età e ricco di

fantasia e di intelligenza. Di solito prediligono i giochi basati sul "facciamo finta che...": possono costruire strutture fantastiche con i blocchi o utilizzando scatole; riescono a montare un trenino elettrico e a sviluppare la logica necessaria per sistemare gli interruttori e prevedere il comportamento del treno nelle curve e sopra i ponti. Amano molto le illustrazioni, e riescono sempre a comprendere che cosa rappresenti una figura, per quanto stilizzata possa essere; anche i loro disegni non hanno nulla da invidiare a quelli fatti dai loro coetanei normoudenti. Insomma, lo sviluppo cognitivo quale si rivela attraverso il gioco non sembra per nulla differente da quello che si ha in presenza dello sviluppo del linguaggio». Il giudizio di Lenneberg poteva apparire ragionevole nel 1967; oggi però tutti gli attenti osservatori dei bambini sordi ritengono che possano presentarsi gravi difficoltà cognitive e disturbi della comunicazione, anche in età prescolare, se non si introduce quanto prima possibile il linguaggio. In assenza di interventi speciali, un bambino sordo all'età di cinque-sei anni possiederà, in media, da cinquanta a sessanta parole, mentre per il bambino udente della stessa età la media è tremila. Quale che sia il fascino dei trenini elettrici e dei giochi basati sulla fantasia, un bambino che in effetti, prima di andare a scuola, non possiede alcun linguaggio, deve necessariamente risultare deprivato di qualche aspetto dell'infanzia: la comunicazione con i genitori e con altre persone, la conoscenza del mondo in generale, non può non esserne in parte mutilata. Se non altro, vien fatto di sospettarlo; ma occorrono studi accurati, e forse anche ricostruzioni analitiche, per vedere quali disturbi provoca la mancata acquisizione del linguaggio, nei primi cinque anni di vita. N. 26: Schlesinger, "Buds of Development", cit. N. 27: Non ha importanza decisiva, secondo la Schlesinger, il fatto che il dialogo tra madre e bambino avvenga in Segni o nella lingua parlata; ciò che importa è l'intento comunicativo. Questo, come tanti altri intenti, è in gran parte inconscio; può essere diretto a cercare di "controllare" il bambino, oppure a promuoverne la crescita, l'autonomia, l'apertura mentale A parità di altre condizioni, è chiaro che l'uso dei Segni rende più facile la comunicazione, nei primi anni di vita, perché il bambino sordo coglie spontaneamente i Segni dall'ambiente, mentre non può cogliere con pari facilità la lingua parlata.

La Schlesinger vede nell'intento comunicativo una funzione del «potere», del fatto che i genitori si sentano «potenti» o «impotenti» nei riguardi del figlio. I genitori potenti, sentendosi essi stessi autonomi e capaci, danno autonomia e potere al bambino; i genitori impotenti, sentendosi passivi e controllati, esercitano a loro volta un controllo eccessivo sui figli, e fanno monologhi "davanti a loro", anziché dialogare "con" loro. Certo il fatto stesso di avere un figlio sordo può suscitare nei genitori un senso di impotenza: come devono comunicare con il bambino? che cosa possono fare? che cosa possono aspettarsi, e che cosa può aspettarsi lui, dal futuro? A quale mondo dovranno adattarsi, o dovrà adattarsi loro figlio? Il fattore cruciale sembra la presenza di un senso di scelta, anziché di costrizione - un desiderio di vera comunicazione; e conta poco che questa avvenga con la parola, o con i Segni, o con entrambi. N. 28: Scrive Sarah Elizabeth: «A una persona sorda quanto lo era Charlotte, la conquista della lettura labiale e di un'articolazione intelligibile richiedono anni e anni di dura fatica; e non è detto che vi riesca». A questa conclusione arrivò dopo aver tanto studiato e discusso. Ma i genitori di un'altra bambina sorda profonda, di fronte a una situazione quasi identica, giunsero a tutt'altra conclusione, e pensarono che ci fosse un'altra scelta possibile. Alice (questo il nome della bambina) fu diagnosticata sorda profonda all'età di diciassette mesi: i test effettuati indicarono una perdita uditiva di 120 decibel in un orecchio e di 108 decibel nell'altro. I suoi genitori decisero di affidarsi al Cued Speech, associato all'uso degli apparecchi acustici più potenti (Il Cued Speech, sviluppato da Orin Cornett, consiste nel far assumere alla mano posizioni diverse intorno alla bocca: queste posizioni servono a specificare i suoni differenti che appaiono simili a chi legge le labbra). A quanto sembra, nel caso di Alice la scelta è stata felice: la bambina ha acquisito un vasto vocabolario e un'eccellente grammatica e, a cinque anni, mostra un livello espressivo corrispondente a un'età di venti mesi superiore. Legge e scrive bene, le piace leggere e scrivere; a scuola (dove ha un interprete di Cued Speech a tempo pieno) riesce bene. I genitori la descrivono come «molto intelligente, ben inserita, simpatica agli altri, disinvolta», anche se adesso mostra una certa paura di trovarsi «esclusa» a scuola. Ma pur con un'abilità linguistica così buona, Alice ha gravi limiti nella

capacità di comunicare. Quando parla, solo i suoi genitori e gli insegnanti riescono a comprenderla bene; gli altri fanno molta fatica, anche perché le sue parole escono «inceppate» e le mancano molti suoni del parlato spontaneo. E' in grado di chiarire in modo espressivo quello che intende dire mediante cenni del Cued Speech, che però è conosciuto da pochissime persone. Rispetto alla capacità di cogliere l'eloquio altrui, è un po' sotto la norma: la lettura labiale non è un'attività solo visiva, anzi per il 75 per cento è una specie di congettura ispirata, una combinazione di ipotesi che dipende dall'uso di indizi contestuali. Eseguire questa «lettura» è relativamente facile per i sordi postlinguistici, che conoscono il linguaggio; è molto più difficile per i sordi prelinguistici, come Alice. Pur essendo entrata nel mondo degli udenti, Alice deve fronteggiarvi grandi difficoltà, e la minaccia dell'isolamento è sempre presente. Protetto dalle pareti domestiche, assistito da genitori intelligenti, fino all'età di cinque anni un bambino sordo può sfuggire alle situazioni più gravose; ben diversa, invece, la vita che gli si prospetta dopo i cinque anni. I problemi di un bambino che entra nella scuola con pesanti deficit nel linguaggio e nell'udito sono probabilmente destinati ad aggravarsi in modo drammatico anno dopo anno. I genitori di Alice sono persone di mente aperta, e mai hanno pensato che la bambina dovesse seguire soltanto il metodo Cuing; anzi, rimasero stupefatti quando ne constatarono i buoni risultati. Ma certo hanno chiare preferenze sul mondo in cui vorrebbero che la figlia vivesse: «Voglio che possa far parte dell'uno e dell'altro,» dice suo padre «ma dentro di me preferisco pensarla nel mondo degli udenti, sposata a una persona che ci sente, e così via. Però so bene che la vicinanza di un'altra persona sorda le darebbe una grande forza. Ad Alice piace segnare, ha bisogno di conoscere qualcun altro che usi la lingua dei segni. La mia speranza è che si muova bene in "entrambi" i mondi, quello dei sordi e quello degli udenti». C'è da augurarsi che Alice possa imparare i Segni, e subito: tra poco sarà troppo tardi perché arrivi a padroneggiarli con la competenza di un nativo. Altrimenti, rischierebbe di non trovarsi a proprio agio in "nessuno" dei due mondi. N. 29: E' certo che la realtà non ci viene «data», ma che dobbiamo "costruircela", a modo nostro, e che nel farlo siamo condizionati dalla cultura e dal mondo in cui viviamo. Il linguaggio che adoperiamo incorpora la nostra

visione del mondo, il modo in cui percepiamo e costruiamo la realtà; ma possiamo dire che esso abbia una portata anche maggiore, fino a "determinare" la nostra concezione del mondo? Com'è noto, questa era l'ipotesi fatta da Benjamin Lee Whorf: il linguaggio precede il pensiero, anzi è il fattore determinante principale del pensiero e della realtà (Whorf, 1956). Whorf spinge l'ipotesi alle estreme conseguenze: «Un cambiamento del linguaggio può trasformare il modo in cui consideriamo il cosmo» (così egli dedusse, dal confronto dei tempi grammaticali delle rispettive lingue, che gli anglofoni dovevano essere portati a una concezione newtoniana, mentre gli Hopi a una concezione relativistica, einsteiniana). Dalle affermazioni di Whorf scaturirono molte incomprensioni e controversie, alcune di sapore apertamente razzista: ma i dati fattuali, come osserva Roger Brown, sono «straordinariamente difficili da interpretare», non da ultimo perché non abbiamo adeguate definizioni indipendenti di pensiero e di linguaggio. Ma la differenza tra le più diverse lingue parlate è piccola in confronto a quella che intercorre tra la lingua parlata e la lingua dei segni. I Segni sono diversi come origine e come modalità biologica. E ciò può determinare (più profondamente di quanto Whorf potesse concepire), o almeno modificare, i processi di pensiero dei segnanti, conferendo loro uno stile cognitivo ipervisivo, unico nel suo genere e intraducibile. N. 30: Ascoltandoli, mi tornò alla mente un aneddoto su Ibsen. Il drammaturgo stava visitando, assieme a un amico, una casa nella quale nessuno dei due in precedenza aveva mai messo piede; ad un tratto si voltò e chiese: «Com'era la stanza da cui siamo appena passati?». L'amico ne aveva un'idea vaga, e Ibsen cominciò allora a descrivere con la più minuta precisione ogni oggetto che si trovava nella stanza: forma, disposizione, relazione con il resto della stanza; infine aggiunse sottovoce, come parlando a sé stesso: «Vedo ogni cosa». N. 31: Le concezioni più antiche della grammatica si basavano su una nozione meccanica, ripetitiva, del linguaggio (per rendersene conto, si pensi alle grammatiche di latino che ancora oggi sono il tormento degli studenti). L'opera di Port-Royal, invece, vedeva la grammatica come essenzialmente creativa, parlava di «quella meravigliosa invenzione con cui, a partire da venticinque o trenta suoni, costruiamo un'infinità di espressioni, le quali di per sé non hanno alcuna somiglianza con quanto ha sede nella nostra mente, e

tuttavia ci permettono di far sapere agli altri il segreto di quanto concepiamo e tutte le svariate attività mentali». N. 32: Kyle e Woll, 1985, pagina 55. N. 33: Myklebust, 1960. N. 34: C'è da chiedersi se non si presenti qui anche una difficoltà intellettuale (e quasi fisiologica): infatti, non è facile immaginare una grammatica nello spazio (o una grammaticizzazione dello spazio), anzi non ne esisteva nemmeno il concetto, prima che Edward S. Klima e Ursula Bellugi lo proponessero, nel 1970 (non esisteva neppure per i sordi, che pure tale grammatica spaziale la usavano). La straordinaria difficoltà che incontriamo anche solo nell'immaginare una grammatica spaziale, una sintassi spaziale, un linguaggio spaziale (nell'immaginare, cioè, un uso linguistico dello spazio) è forse dovuta al fatto che «noi» (gli udenti, coloro che non segnano), privi di qualsiasi esperienza personale di grammaticizzazione dello spazio (e privi anche di qualsiasi substrato cerebrale per tale operazione) siamo fisiologicamente incapaci di immaginare come possa avvenire (così come non riusciamo a immaginare di avere una coda, o di vedere nell'infrarosso). N. 35: Un'elegante conferma dell'intuizione di Stokoe è fornita dai «lapsus manuali». Questi non sono mai errori arbitrari, né movimenti o configurazioni che non si presentano nel linguaggio, ma solo errori nelle combinazioni (trasposizioni, eccetera) in un gruppo limitato di parametri di luogo, o di movimento, o di configurazione: essi implicano, quindi, trasposizioni inconsce di elementi sublessicali. Oltre a questi errori (del tutto simili agli errori fonetici che avvengono nei lapsus vocali), si possono osservare, nei segnanti nativi, forme elaborate di umorismo in Segni e arte in Segni, che implicano giochi creativi del tutto consci, eseguiti sui Segni e sui loro componenti. E' chiaro che questi segnanti hanno una consapevolezza intuitiva della struttura interna dei Segni. N. 36: Deve essere chiaro che la notazione di Stokoe era appunto questo, una notazione introdotta a fini di ricerca (come la notazione fonetica), non per l'uso corrente. Altre notazioni proposte in seguito sono a volte enormemente complesse: la notazione di una breve frase in Segni può occupare un'intera pagina. Una forma scritta dei Segni nel senso usuale del termine non c'è mai stata, e alcuni hanno messo in dubbio che sia possibile. Come osserva Stokoe, «i sordi possono ben credere che qualsiasi sforzo fatto

per trascrivere in due dimensioni una lingua la cui sintassi usa le tre dimensioni spaziali oltre a quella temporale sarebbe troppo grande rispetto al risultato - sempre che qualche risultato vi fosse» (comunicazione personale; si veda anche Stokoe, 1987). Molto di recente, tuttavia, un gruppo di ricercatori di San Diego ha effettivamente sviluppato un nuovo sistema per scrivere i Segni, denominato «SignFont» (si veda Newkirk "et al.", 1987, e anche Hutchins "et al.", 1986). L'uso del calcolatore consente oggi di dare alla varietà immensa di Segni, alle loro modulazioni, a molte delle loro «intonazioni», una forma scritta più adeguata di quanto prima si fosse creduto possibile. SignFont cerca di conservare tutta la capacità espressiva dei Segni; ma è presto per dire se incontrerà il favore della comunità dei sordi. Se il sistema SignFont (o qualche altra forma di scrittura dei Segni) fosse adottato, potrebbe dar origine a una letteratura scritta dei sordi; il loro senso di appartenenza a una comunità, dotata di una cultura propria, ne sarebbe rafforzato. E' una possibilità che già Alexander Graham Bell aveva intravisto: «C'è un altro modo per fare dei sordomuti una classe distinta: riportare la lingua dei segni a una forma scritta in modo che i sordomuti abbiano una loro letteratura, distinta da quella del resto del mondo». Peraltro Bell vedeva questa possibilità in una luce completamente negativa, perché essa a suo avviso avrebbe favorito la «formazione di una varietà sorda della razza umana» (si veda Bell, 1883). N. 37: Questa vicenda è messa bene in luce nei contributi al volume in onore di Stokoe. Si veda Baker e Battison, 1980: soprattutto i saggi di Gilbert Eastman e di Louie Fant. N. 38: I Segni possono presentare un numero gigantesco di modulazioni grammaticali (ne esistono letteralmente a centinaia, per esempio, per il segno base GUARDA); ma oltre a questo, il vocabolario stesso dei Segni è di gran lunga più ampio e più ricco di qualsiasi dizionario esistente. Le lingue dei segni si stanno sviluppando con una velocità quasi esplosiva, e questo è ancora più vero per quelle recenti, come la lingua israeliana dei segni. Nascono di continuo neologismi: alcuni sono mutuati dall'inglese (o dalla lingua parlata locale), altri sono raffigurazioni mimetiche, altri ancora sono invenzioni "ad hoc", ma in grande maggioranza provengono dal vasto repertorio di meccanismi formali esistenti all'interno della stessa lingua dei segni. Questi meccanismi sono stati studiati in particolare da Ursula Bellugi e

Don Newkirk (si veda Bellugi e Newkirk, 1981). N. 39: Le immagini visive non sono meccaniche o passive, come quelle fotografiche; sono, invece, costruzioni analitiche. David Hubel e Torsten Wiesel hanno studiato e descritto per primi alcuni analizzatori di forme elementari: linee verticali, linee orizzontali, angoli; a un livello superiore, l'immagine deve essere composta e strutturata con l'aiuto di quella che Richard Gregory ha definito una «grammatica visiva», (si veda «The Grammar of Vision», in Gregory, 1974). N. 40: La questione se qualche specie non umana abbia un linguaggio (un linguaggio capace di fare «un uso infinito di mezzi finiti») è tuttora poco chiara e molto controversa. Come neurologo, sono stato incuriosito dai resoconti di casi di afasia tra le scimmie: queste descrizioni farebbero pensare che i primordi neurali del linguaggio, almeno, abbiano avuto un'evoluzione che ha preceduto quella dell'uomo (si veda Heffner e Heffner, 1988). N. 41: (Chomsky, 1968, pagina 26; traduzione italiana, pagina 166). La storia intellettuale di questa grammatica generativa, o «filosofica», e del concetto di «idea innata» in generale, è stata analizzata in modo affascinante da Chomsky: si ha l'impressione che egli abbia dovuto scoprire i propri precursori per scoprire sé stesso e il proprio posto entro una tradizione di pensiero; si vedano specialmente la "Linguistica cartesiana" e le «Beckman Lectures», pubblicate sotto il titolo "Mente e linguaggio". Il secolo d'oro della «grammatica filosofica» fu il Seicento, e il punto più alto la "Grammatica" di Port-Royal. Proprio allora, secondo Chomsky, sarebbe potuta nascere la nostra attuale linguistica; ma prevalse un positivismo angusto, e ogni possibile sviluppo abortì. Se il concetto di una innata propensione sottostante viene esteso dal linguaggio al pensiero in generale, la dottrina delle «idee innate» (strutture della mente che, una volta attivate, organizzano la forma dell'esperienza) può essere ricondotta a Platone, quindi a Leibniz e a Kant. Alcuni biologi hanno ritenuto questo concetto essenziale per spiegare le forme della vita organica; ciò è vero soprattutto per l'etologo Konrad Lorenz, che Chomsky cita nel seguente passo: «L'adattamento dell'a priori al mondo reale non deriva dalla "esperienza" più di quanto ne derivi l'adattamento della pinna del pesce alle proprietà dell'acqua. Come la forma della pinna è data a priori, prima di qualunque singola relazione del pesce con l'acqua, e come questa forma rende possibile questa relazione, così avviene con le nostre forme di percezione e con le nostre categorie per quanto

concerne le relazioni con la realtà del mondo esterno attraverso l'esperienza» (Chomsky, 1968, pagina 81; trad. it., pagina 240). Altri vedono l'esperienza come qualcosa che non attiva soltanto, ma "crea" le forme della percezione e le categorie (si veda, sotto, nota 81). N. 42: Chomsky, 1968, pagina 76. N. 43: Il concetto di «età critica» per l'acquisizione del linguaggio fu introdotto da Lenneberg: egli introdusse l'ipotesi che, se il linguaggio non viene acquisito entro la pubertà, non potrà più essere acquisito in seguito, almeno non con la competenza di un parlante nativo (Lenneberg, 1967). E' ben difficile che sorgano questioni di età critica per la popolazione udente, perché in pratica tutti gli udenti (anche i ritardati) acquisiscono la competenza linguistica entro i primi cinque anni di vita. La questione è cruciale, invece, per i sordi, che possono essere incapaci di udire le voci dei genitori, o per lo meno di estrarne un senso, e che possono essere esclusi da ogni esposizione ai Segni. I dati disponibili fanno tuttavia pensare che coloro che apprendono i Segni tardivamente (cioè dopo i cinque anni) non acquisiscono mai la sciolta naturalezza e la correttezza grammaticale di coloro che hanno appreso la lingua dei segni dall'inizio (in particolare, poi di coloro che l'hanno appresa fin dalla nascita, da genitori sordi). Vi possono essere eccezioni a quanto abbiamo detto; ma sono, appunto, eccezioni. In generale si può tenere per certo che gli anni prescolari sono cruciali per l'acquisizione di un buon linguaggio, e che anzi la prima esposizione al linguaggio deve avvenire quanto più presto possibile - e i sordi dalla nascita dovrebbero frequentare scuole materne in cui si insegni la lingua dei segni. Si potrebbe dire che Massieu, a tredici anni e nove mesi, era ancora nell'età critica, mentre Ildefonso l'aveva ampiamente superata. La loro acquisizione tanto tardiva del linguaggio si può spiegare semplicemente come dovuta a un'insolita persistenza della plasticità neuronale, ma si può anche fare un'ipotesi più interessante, quella che i sistemi gestuali (i segni «privati») inventati da Ildefonso e da suo fratello, o da Massieu e dai suoi fratellastri sordi, abbiano funzionato come «protolinguaggio», inaugurando, per così dire, una competenza linguistica del cervello, che solo molti anni dopo sarebbe stato «acceso» alla piena attività grazie all'esposizione a un'autentica lingua dei segni. (Anche Itard, il medico-maestro del «ragazzo selvaggio» Victor [si veda sopra], quando volle spiegare come mai fossero falliti i suoi tentativi di insegnare a Victor la produzione e la percezione del

linguaggio, postulò l'esistenza di un periodo critico). N. 44: Si veda Corina, 1989. N. 45: Si veda Lévy-Bruhl, 1966. N. 46: La maggior parte delle ricerche sui Segni si svolge oggi negli Stati Uniti, e perciò i risultati riguardano soprattutto l'American Sign Language; tuttavia sono state studiate anche altre lingue dei segni (come quella danese, cinese, russa, inglese). Non vi è però ragione di supporre che tali risultati valgano solo per l'A.S.L., probabilmente essi sono applicabili a tutta la classe dei linguaggi visivo-spaziali. N. 47: Supalla e Newport, 1978. N. 48: Si vedano Liddell e Johnson, in corso di stampa, e Liddell e Johnson, 1986. N. 49: Stokoe, 1979. N. 50: Ancora una volta è Stokoe a darci una parziale descrizione di questa complessità: «Quando tre o quattro segnanti conversano a segni disponendosi in modo naturale ... le trasformazioni spaziali non sono affatto pure rotazioni di 180 gradi del mondo visivo tridimensionale, ma implicano anche orientazioni che i non segnanti mai o quasi mai riescono a comprendere. Una volta eseguite tutte le trasformazioni, di questo e di altro genere, tra il campo visivo tridimensionale del segnante e quello di ciascun osservatore, il segnante ha trasmesso all'osservatore il contenuto del proprio mondo mentale. Se fosse possibile descrivere tutte le traiettorie di tutte le azioni segniche - direzione e cambiamento di direzione degli avambracci, delle braccia, del polso, movimenti della mano e delle dita, tutte le sfumature dell'attività degli occhi, del volto e del capo - avremmo una descrizione dei fenomeni in cui vien trasformato il pensiero da una lingua dei segni ... E' assolutamente necessario tenere separate queste sovrapposizioni di una semantica sulla struttura spazio-temporale, se si vuole comprendere come interagiscono linguaggio, pensiero e corpo». N. 51: «Attualmente analizziamo il movimento tridimensionale con un sistema Op-Eye modificato, che consente di trasformare i movimenti della mano e del braccio in segnali digitalizzati ad alta risoluzione ... Apparecchiature fotografiche opto-elettroniche seguono le posizioni di una serie di diodi emettitori di luce applicati alle mani e alle braccia, e danno un'uscita in forma digitale che viene immessa direttamente in un calcolatore; questo elabora le traiettorie tridimensionali». (Poizner, Klima e Bellugi,

1987, pagina 27). N. 52: L'apprendimento del linguaggio è un compito prodigioso, anche se inconscio; e nonostante le differenze di modalità, l'acquisizione dell'A.S.L. da parte dei bambini sordi presenta notevoli somiglianze con l'acquisizione della lingua vocale da parte dei bambini udenti. In particolare, appare identica l'acquisizione della grammatica, che avviene relativamente all'improvviso: è una riorganizzazione, una discontinuità nel pensiero e nello sviluppo, allorché il bambino passa dal gesto alla lingua, dall'indicazione o gesto prelinguistico a un sistema linguistico completamente grammaticizzato; e avviene alla stessa età e nello stesso modo (all'incirca tra il ventunesimo e il ventiquattresimo mese), sia che il bambino parli sia che usi i Segni. N. 53: E' stato dimostrato da Elissa Newport e Sam Supalla (si veda Rymer, 1988) che chi apprende tardi i Segni (cioè chiunque li apprenda dopo i cinque anni) riesce a diventare abbastanza competente, ma non acquista mai la piena padronanza di tutte le sottigliezze e le complicazioni e rimane incapace di «vedere» alcune delle complessità grammaticali. E' come se lo sviluppo della speciale capacità linguistico-spaziale, di una speciale funzione dell'emisfero sinistro, fosse possibile solo nei primi anni di vita. Questo è vero anche per la lingua vocale; è vero per il linguaggio in generale. Apprendere la lingua dei segni dopo i primi cinque anni di vita significa non acquistare mai più la scioltezza e la correttezza grammaticale di un segnante nativo: alcune attitudini grammaticali essenziali sono andate perse. Viceversa, un bambino esposto da piccolo a una lingua dei segni men che perfetta (per esempio, perché i genitori l'hanno imparata tardi) svilupperà lo stesso una lingua grammaticalmente corretta: ulteriore conferma dell'esistenza di un'attitudine grammaticale innata nell'infanzia. N. 54: Un secolo fa, con grande preveggenza, Jackson scriveva: «Senza dubbio, il sordomuto può perdere, a causa di una lesione in qualche parte del cervello, il sistema naturale di segni, che hanno per lui valore di linguaggio» e pensava che questa lesione dovesse interessare l'emisfero sinistro. N. 55: La parentela tra afasia per le parole e afasia per i segni è illustrata da un caso recente. Una giovane udente, interprete dei Segni, affetta da epilessia, fu sottoposta a un test di Wada (iniezione di amitale sodico nell'arteria carotide sinistra, che serve a determinare se l'emisfero sinistro è o no dominante): ciò provocò una temporanea afasia, sia vocale sia segnica. Dopo quattro minuti essa cominciò a recuperare la capacità di parlare

l'inglese, mentre l'afasia per i segni durò circa un minuto in più. Una serie di rilevazioni mediante PET effettuate durante il test mostrò che il linguaggio vocale e l'uso dei segni interessavano porzioni all'incirca simili dell'emisfero sinistro, anche se i Segni sembravano richiedere aree cerebrali maggiormente estese, in particolare interessando anche il lobo parietale sinistro (Damasio "et al.", 1986). N. 56: Possono esserci altri modi per stabilire tale spazio formale, e anche per potenziare la funzione visivo-cognitiva in generale. Negli ultimi dieci anni, la diffusione dei personal computer ha consentito di organizzare e muovere l'informazione logica nello «spazio» (del calcolatore), per ottenere (e fare ruotare o sottoporre ad altri tipi di trasformazione) le più complesse figure o modelli tridimensionali. In conseguenza si sono sviluppate capacità di tipo nuovo, assai rare prima dell'era del calcolatore: la costruzione mentale di rappresentazioni visive (in particolare, di trasformazioni topologiche) e il pensiero visivo-logico. In questo modo, pressoché chiunque può diventare un «esperto» o almeno chiunque non abbia superato i quattordici anni. Dopo tale età, diventa molto più difficile raggiungere una vera destrezza visivo-computazionale, proprio come diventa molto più difficile acquisire scioltezza di linguaggio. E' frequentissimo il caso di genitori che scoprono nei figli autentici genietti del calcolatore, mentre loro, i genitori, hanno difficoltà a usarlo: un altro esempio, forse, di «età critica». Sembra probabile che questo potenziamento delle funzioni visivo-cognitive e visivo-logiche richieda un passaggio precoce al predominio dell'emisfero sinistro. N. 57: Sviluppo nuovo, ma potenzialmente universale. Infatti, come è accaduto a Martha's Vineyard, si possono trovare popolazioni intere di segnanti nativi molto esperti, sia udenti sia sordi. Così, è chiaro che la capacità (derivante dall'apparato neuronale) di acquisire un linguaggio spaziale (e tutte le capacità spaziali non linguistiche associate) è presente in tutti, in potenza. Innumerevoli devono essere i potenziali neuronali innati che possiamo sviluppare o inibire secondo le esigenze. Lo sviluppo (entro i vincoli genetici) del sistema nervoso, soprattutto della corteccia cerebrale, è guidato e plasmato, "scolpito", dalle esperienze precoci. Ad esempio, la capacità di discriminare i fonemi ha uno spettro ampio nei primi sei mesi di vita; poi si

restringe a seguito della effettiva esposizione al linguaggio: per questo i bambini giapponesi diventano incapaci di distinguere una «l» da una «r», e analogamente i bambini americani non sanno distinguere svariati fonemi giapponesi. Ciò non è dovuto a scarsità di neuroni; in altre parole, non c'è il pericolo che lo sviluppo di una particolare potenzialità «esaurisca» una dotazione limitata di neuroni impedendo così lo sviluppo di altre potenzialità. Ci sono tutte le ragioni perché durante il primo, critico periodo di plasticità e crescita del cervello, l'ambiente sia il più ricco possibile, nella prospettiva linguistica o da qualunque altro punto di vista. N. 58: Bellugi "et al.", 1989. N. 59: Questo uso linguistico del volto è una peculiarità dei segnanti, e differisce in modo fondamentale dal normale uso per l'espressione degli affetti: anzi, è la base neurale che è diversa, come hanno dimostrato molto di recente le ricerche sperimentali di David Corina. Mediante l'impiego del tachistoscopio, ai soggetti venivano presentate figure di volti con espressioni che potevano essere interpretate come «affettive» o come «linguistiche»; la presentazione avveniva in modo che le figure si trovassero nel campo visivo destro o sinistro dei soggetti, sordi e udenti. Risultava evidente come i soggetti udenti elaborassero le figure nell'emisfero destro, mentre i soggetti sordi presentavano un predominio dell'emisfero sinistro nel «decodificare» le espressioni facciali linguistiche (Corina, 1989). Gli effetti provocati da lesioni cerebrali subìte da sordi segnanti sul riconoscimento delle espressioni facciali sono stati studiati in pochi casi; tutti mostrano un'analoga dissociazione nella percezione di espressioni facciali affettive e linguistiche. Così, in caso di lesione dell'emisfero sinistro di soggetti segnanti, le «proposizioni» linguistiche del volto possono diventare inintelligibili (nell'àmbito di un'afasia complessiva dei Segni), mentre ne è pienamente conservata l'espressività, intesa nel senso ordinario. Inversamente, in caso di lesioni nell'emisfero destro, ci può essere un'incapacità a riconoscere i volti o le loro espressioni comuni (la cosiddetta prosopagnosia), che pure sono ancora percepiti quando «proposizionano» con scioltezza in Segni. Questa dissociazione tra espressioni facciali affettive e linguistiche può estendersi anche alla loro produzione: un paziente con una lesione nell'emisfero destro, studiato dal gruppo della Bellugi, era in grado di produrre espressioni facciali linguistiche, quando occorreva, mentre gli

mancavano le ordinarie espressioni facciali affettive. N. 60: Per una rassegna di queste ricerche, si vedano Neville, 1988 e Neville, 1989. N. 61: E' intuizione di antica data che la perdita dell'udito può dare luogo a una «compensazione» visiva; ciò non può essere ascritto solo all'uso dei Segni. Tutti i sordi - anche quelli postlinguistici, che sono dentro il mondo della lingua vocale - acquisiscono un certo potenziamento della sensibilità visiva, si spostano verso un atteggiamento più visivo, come descrive bene David Wright: «Io non osservo di più, osservo in modo diverso. Quello che osservo, e lo osservo acutamente perché devo fare così, perché è così che raccolgo la totalità dei dati necessari per riconoscere e interpretare gli eventi, è il movimento, quando si tratta di oggetti, e - nel caso di animali e di esseri umani - la postura, l'espressione, il modo di camminare, di gesticolare... Per esempio, una persona in attesa impaziente che un amico finisca una telefonata di solito capisce che la conversazione volge al termine dalle parole pronunciate e dal tono della voce; un sordo - e anche una persona in coda all'esterno di una cabina telefonica a vetrate - ha un suo sistema per giudicare se è giunto il momento dei saluti, se chi è al telefono ha deciso di metter giù il ricevitore. Egli nota uno spostamento della mano che regge la cornetta verso la forcella del telefono, un cambiamento di postura, la testa che si stacca di una frazione di millimetro dal ricevitore, uno strascichìo dei piedi, e quell'alterazione dell'espressione che segnala una decisione presa. Escluso dagli indizi acustici, il sordo impara a leggere i più fievoli segnali visivi» (Wright, 1969, pagina 112). N. 62: Neville e Bellugi, 1978. N. 63: Sarebbe sbagliato supporre che tutti i processi di elaborazione visivo-cognitiva nei segnanti sordi siano trasferiti all'emisfero sinistro. Gli effetti disturbanti, e talora irreparabili, delle lesioni dell'emisfero destro sull'uso dei segni dimostrano che tale emisfero è altrettanto cruciale per alcune delle facoltà visivo-cognitive che sottostanno alla capacità di segnare. Kosslyn ha suggerito di recente che l'emisfero sinistro presieda piuttosto alla generazione delle immagini, e quello destro alla loro manipolazione e trasformazione (Kosslyn, 1987). Se questo è vero lesioni degli emisferi opposti potranno influire in modo differenziato sui vari componenti della formazione mentale di immagini e sulla rappresentazione mentale dello spazio, nell'uso dei Segni. Bellugi e Neville stanno pianificando ulteriori

ricerche per studiare come si possano realmente osservare tali effetti differenziali (sia nell'esecuzione di semplici compiti percettivi, sia nella formazione di immagini mentali complesse) in soggetti segnanti che abbiano subìto una lesione nell'uno o nell'altro emisfero. N. 64:: Tra i principali: Goldberg, Vaughan e Gerstman, 1978; Goldberg e Costa, 1981. Si veda anche Goldberg, 1989. N. 65: Lenneberg, parlando dell'età critica per l'acquisizione del linguaggio (che egli pone in relazione con l'instaurarsi della dominanza di un emisfero), dice che nel sordo congenito si stabilisce una lateralizzazione normale, purché l'acquisizione del linguaggio avvenga entro i sette anni. Talvolta, però, la lateralizzazione cerebrale non è ben stabilita: forse, scrive Lenneberg, «una percentuale relativamente alta dei sordi congeniti (e linguisticamente non competenti) rientra in questa categoria». Sembra dunque che l'acquisizione del linguaggio (lingua vocale o lingua dei segni) attivi le facoltà linguistiche dell'emisfero sinistro, e che la privazione, parziale o assoluta, del linguaggio ritardi lo sviluppo e la crescita dell'emisfero sinistro. N. 66: Cudworth, nel diciassettesimo secolo, scrive di come «un esperto e abile pittore osserverà molte raffinatezze e curiosità nella sua arte, e ricaverà grande piacere da varie pennellate e sfumature in un quadro, là dove un occhio comune non riesce a discernere assolutamente nulla; e un musicista posto di fronte a un'accolta di perfetti musici che suonano un'eccellente composizione fatta di più parti andrà in estasi udendo diverse arie e accordi armonici, a cui un orecchio volgare sarebbe totalmente insensibile» (R. Cudworth, "Treatise Containing Eternal and Immutable Morality", citato in Chomsky, 1966). La capacità di passare da un «occhio comune» o da un «orecchio volgare» all'esperienza e all'abilità di un vero artista va di pari passo con il passaggio dal predominio dell'emisfero destro a quello dell'emisfero sinistro. Molti dati (ottenuti sia studiando gli effetti delle lesioni cerebrali, come ha fatto Lurija, sia sperimentalmente, mediante test di ascolto dicotico) indicano che la percezione musicale è funzione per lo più dell'emisfero destro negli ascoltatori «ingenui», mentre diventa una funzione dell'emisfero sinistro nei musicisti professionisti e negli ascoltatori «esperti» (che della musica colgono la grammatica e le regole, e per i quali essa è divenuta una intricata struttura formale). Un tipo speciale di «ascolto esperto» è necessario per

usare il cantonese o il thai, giacché la morfologia di queste lingue si basa sulla discriminazione tonale in una misura che è ignota alle lingue europee. Secondo osservazioni fatte, nelle persone che parlano con scioltezza il thai la discriminazione tonale, che di norma è una funzione dell'emisfero destro, diventa una funzione dell'emisfero sinistro: tale discriminazione migliora molto se si ascolta con l'orecchio destro (e quindi con l'emisfero sinistro), mentre risulta gravemente menomata se l'emisfero sinistro è offeso. Un trasferimento analogo avviene negli «esperti» di matematica o di aritmetica, che diventano capaci di vedere i concetti matematici, o i numeri, come parti di un universo intellettuale di un sistema astratto ben organizzato. Può darsi che la stessa cosa accada ai pittori e ai progettisti di interni, i quali vedono lo spazio e i rapporti visivi come nessun «occhio comune» potrebbe. Di certo accade a chi diventa molto abile nel gioco del "whist", o nel codice Morse, o negli scacchi. Tutte le maggiori conquiste dell'intelligenza scientifica o artistica, così come l'abilità nei giochi più comuni, richiedono sistemi di rappresentazione che sono funzionalmente simili al linguaggio e che si sviluppano in modo analogo; e sembra che tutti questi sistemi tendano a diventare funzioni dell'emisfero sinistro. N. 67: Sul carattere delle funzioni cognitive nei sordi c'è un'abbondante letteratura, in parte controversa. Alcuni dati farebbero pensare che la loro forte visualità li predisponga a forme specificamente «visive» (o logico-spaziali) di memoria e di pensiero; che, posti di fronte a problemi complessi, a più stadi, i sordi tendano a ordinare tali stadi e le corrispondenti ipotesi in uno spazio logico, mentre gli udenti seguirebbero un ordine temporale, «uditivo». (Si veda, per esempio, Belmont, Karchmer e Bourg, 1983). N. 68: Poizner, Klima e Bellugi, 1987, pagina 206. N. 69: Si veda Goldberg e Costa, 1981; e anche Zaidel, 1981. N. 70: Questa dicotomia ricorda la distinzione di Bruner tra «narrativo» e «paradigmatico», che egli considera come le due modalità naturali, elementari, del pensiero (si veda Bruner, 1986). Si è tentati di vedere la modalità narrativa come una funzione dell'emisfero destro, quella paradigmatica come una funzione dell'emisfero sinistro. E' certo che nei soggetti ritardati la modalità narrativa di pensiero e di linguaggio può essere notevolmente sviluppata, mentre quella paradigmatica rimane gravemente deficitaria.

N. 71: Proprio questo sembra essere accaduto nel caso di Genie, il cui linguaggio presentava carenze di sintassi ma una relativa ricchezza di vocabolario (si veda, sopra, nota 14): «Il linguaggio di Genie assomiglia al linguaggio dell'emisfero destro. I test di ascolto dicotico indicano che il suo è un linguaggio dell'emisfero destro. Così, il caso di Genie può indicare che, dopo il "periodo critico", l'emisfero sinistro non potrà più assumere il controllo dell'acquisizione del linguaggio; opererà e predominerà l'emisfero destro, sia nell'acquisizione sia nella rappresentazione del linguaggio» (Curtiss, 1977, pagina 216). N. 72: Si veda Schlesinger, 1987. N. 73: Nella Prince Georges County, nel Maryland, è stata sperimentata di recente l'introduzione dei Segni tra i bambini normali, udenti, di prima elementare e di età prescolare. Si è visto che i bambini li imparavano facilmente, divertendosi, e via via che imparavano i Segni mostravano progressi significativi nella lettura e in altre attività. Può darsi che questa maggiore sicurezza nel riconoscere la forma delle parole e delle lettere vada di pari passo con il potenziamento della facoltà spaziale-analitica che avviene quando si apprendono i Segni. N. 74: Gee e Goodhart, 1988. N. 75: La ricerca di Newport e Supalla è descritta in Rymer, 1988. N. 76: Supalla, in corso di stampa. N. 77: Bellugi, 1980, pagine 135-136. N. 78: Le centinaia di lingue dei segni nate spontaneamente in tutto il mondo sono altrettanto distinte tra loro, e fortemente differenziate, quanto le numerosissime lingue vocali esistenti: non esiste una lingua dei segni universale. Ci possono però essere degli universali nelle lingue segnate, ed essi possono aiutare i segnanti a capirsi tra loro molto più rapidamente di quanto non possano fare i parlanti di lingue vocali prive di una base comune. Un giapponese monolingue si sentirà perso nell'Arkansas, come un americano monolingue si sentirà perso in mezzo alle campagne giapponesi. Ma anche in Giappone, in Russia o in Perù un americano sordo può stabilire un contatto relativamente rapido con i suoi fratelli segnanti: sarà difficile che si senta del tutto smarrito. I segnanti (specialmente i segnanti nativi) hanno una predisposizione a cogliere al volo, o almeno a capire, altre lingue segnate, a un livello che non si troverà mai tra i parlanti (tranne, forse, quelli più dotati). Di solito bastano pochi minuti perché gesti e mimica (in cui i

segnanti sono bravissimi) consentano un certo grado di mutua comprensione. Alla fine della giornata si sarà stabilito un "pidgin" privo di grammatica. Nel giro di tre settimane, forse, il segnante avrà una più che ragionevole conoscenza della lingua dei segni altrui, sufficiente per intrattenere una ricca conversazione su argomenti anche complessi. Un esempio impressionante si è avuto nell'agosto 1988, quando la compagnia americana del National Theater of the Deaf, in visita a Tokyo, vi diede una rappresentazione con i colleghi del Teatro dei sordi locale. «Pochi minuti dopo essersi conosciuti, gli attori sordi delle due compagnie chiacchieravano assieme» riferiva David E. Sanger sul «New York Times» (29 agosto 1988), e «la prova del tardo pomeriggio mostrò che i due gruppi erano già sulla stessa lunghezza d'onda». N. 79: Changeux, 1985. N. 80: Edelman, 1987. N. 81: Questa osservazione è stata fatta da Francis Crick in un recente articolo sulle reti neurali (Crick, 1989). Qui egli descrive un modello computazionale, il NETtalk, costruito con connessioni puramente casuali. Se gli si presenta un testo inglese che non ha mai visto, sulle prime il modello balbetta, ma ben presto impara a pronunciare le parole, con una esattezza del 90 per cento. Il modello, osserva Crick, «ha appreso le regole della pronuncia inglese, notoriamente tutt'altro che univoche, e le ha apprese in modo tacito, solo dagli esempi, non grazie al fatto che esse sono state dichiaratamente inserite in un programma». Quello che sembrerebbe un compito «chomskiano», anche se banale rispetto all'acquisizione della grammatica, vien qui compiuto da una semplice rete di neuroni artificiali legati da connessioni casuali. Si è molto parlato di queste reti neurali, negli ultimi tempi; ma a giudizio di Crick i meccanismi reali che l'evoluzione del cervello ha sviluppato rimangono finora sconosciuti, e potrebbero essere di natura e di ordine totalmente differenti (e più «biologici»). N. 82: L'esperimento del faraone Psammetico Primo, che regnò in Egitto nel settimo secolo avanti Cristo, è narrato da Erodoto. In tempi diversi, altri monarchi, tra cui Ciacomo Quarto di Scozia e il famoso sultano Akbar, hanno ripetuto l'esperimento. N. 83: Schein, 1984, pagina 131. N. 84: Shanny Mow, in una breve autobiografia di cui Leo Jacobs riporta alcuni brani, descrive questa diffusissima condizione di estraneità del bambino sordo nella sua stessa casa: «Siete esclusi dalla conversazione a

tavola: lo si chiama isolamento mentale. Mentre tutti gli altri parlano e ridono, voi siete remoti come può esserlo un Arabo solo nel deserto che scruta in ogni direzione ... Avete sete di qualche legame. Vi sentite soffocare, ma non potete parlare a nessuno di questa sensazione orribile: non sapreste come farlo. Avete l'impressione che nessuno vi capisca o si curi di voi ... Nemmeno l'illusione di partecipare vi è assicurata ... Da voi ci si aspetta che passiate quindici anni nella camicia di forza dell'addestramento a parlare e della lettura delle labbra ... I vostri genitori non si prendono la briga di dedicare un'ora al giorno a imparare la lingua dei segni, o almeno qualche segno. Solo un'ora su ventiquattro, e potrebbe cambiare tutta la vostra vita» (Jacobs, 1974, pagine 173-174). N. 85: Petitto e Bellugi, 1988. N. 86: Sulle origini del linguaggio, parlato o segnato, possiamo fare solo congetture, ovviamente, o ipotesi, o illazioni che non possono essere confermate o smentite in modo diretto. Le speculazioni teoriche raggiunsero il culmine nel secolo scorso: fino al punto che, nel 1866, la Società di Linguistica di Parigi dichiarò che non avrebbe più accettato relazioni sull'argomento. Oggi, però, disponiamo di molti dati che non esistevano un secolo o più fa. (Si vedano Stokoe, 1974 e Hewes, 1974). Danno da riflettere alcune osservazioni dirette di comunicazioni gestuali tra madre e bambino (udenti) prima che quest'ultimo cominci a parlare (si veda Tronick, Brazelton e Als, 1978): se è vero che l'ontogenesi ricapitola la filogenesi, queste osservazioni suggeriscono ancora una volta che il primo linguaggio umano sia stato gestuale o motorio. N. 87: Klima e Bellugi, 1979, Introduzione e capitolo 1. N. 88: Lévy-Bruhl, descrivendo la mentalità dei «primitivi» (il termine per lui significa primordiali, degli inizi, e non già inferiori o infantili), parla delle «rappresentazioni collettive» come di un elemento centrale del loro linguaggio, del loro orientamento e della loro percezione. Esse sono del tutto diverse dai concetti astratti: sono «stati più complessi in cui elementi emotivi o motori sono "parte integrante" della rappresentazione». Lévy-Bruhl parla anche di concetti-immagine, che sono qualcosa di non composto e di non scomponibile. Questi concetti-immagine sono intensamente visivo-spaziali, in quanto tendono a descrivere «la forma e il contorno, la posizione, il movimento, il modo di agire, degli oggetti nello spazio: in una parola, tutto ciò che può essere percepito e delineato». Lévy-Bruhl descrive il diffuso

sviluppo della lingua dei segni tra gli udenti - di lingue dei segni che sono parallele alle lingue parlate, e hanno struttura essenzialmente identica: «Le due lingue, i cui segni differiscono tanto quanto i gesti differiscono dai suoni articolati, sono imparentate dalla loro struttura e dal modo in cui interpretano oggetti, azioni e condizioni ... Entrambe dispongono di un gran numero di associazioni visivo-motorie compiutamente formate ... che vengono richiamate alla mente nel momento in cui vengono descritte». Lévy-Bruhl parla qui di «concetti manuali»: «movimenti delle mani in cui il linguaggio e il pensiero sono inseparabilmente uniti» (Lévy-Bruhl, 1910). Analogamente, quando avviene, come dice Lévy-Bruhl, una «transizione a tipi mentali superiori», questo linguaggio assolutamente concreto deve essere abbandonato; concetti logico-astratti generali, privi di immagine (e in un certo senso privi anche di sapore), ne sostituiscono i «concetti-immagine» vividi, precisi, ricchi di particolari sensoriali. (Analogamente era stato necessario, come ci narra Sicard, che Massieu abbandonasse le metafore e passasse agli aggettivi, più astratti e generalizzati). Vygotskij e Lurija, che in gioventù furono profondamente influenzati da Lévy-Bruhl, forniscono esempi analoghi (ma studiati con maggior cura) di una transizione siffatta, avvenuta quando negli anni Venti le culture agricole «primitive» furono «socializzate» e «sovietizzate»: «Questo modo di pensare [concreto] ... subisce una trasformazione radicale quando cambiano le condizioni di vita ... Le parole diventano il principale agente di astrazione e di generalizzazione. A questo punto il pensiero grafico viene abbandonato e le idee sono codificate innanzitutto attraverso schemi concettuali ... si supera, nel corso del tempo, la tendenza a pensare in termini visivi» (Lurija, 1976). Non si può sfuggire a una certa sensazione di disagio, nel leggere descrizioni come quelle di Lévy-Bruhl e del giovane Lurija - descrizioni che dipingono il concreto come «primitivo», come qualcosa che dovrà essere rimpiazzato quando ci si eleva nell'astratto (in realtà, nell'ultimo secolo questa è stata la tendenza generale, in neurologia e in psicologia). Ma non si deve pensare al concreto e all'astratto come a due campi che si escludono reciprocamente, cosicché si abbandona l'uno via via che si progredisce verso l'altro. Al contrario, è proprio la ricchezza del concreto che dà forza

all'astratto. Ciò risulta più chiaro se si è più accurati nella definizione e li si definisce in termini di «sopraordinato» e «subordinato». Questo senso della «astrazione» più appropriato (in quanto distinto da quello solito) occupa una posizione centrale nella concezione del linguaggio e della mente di Vygotskij. Egli infatti vede il passaggio all'astrazione come la capacità di imporre strutture sopraordinate che abbraccino il subordinato, il concreto, in misura sempre maggiore, in virtù della loro prospettiva più ampia: «I nuovi concetti più elevati trasformano [a loro volta] il significato di quelli inferiori ... Il bambino non deve ristrutturare tutti i suoi concetti precedenti ... quando una nuova struttura è stata incorporata nel suo pensiero ... essa si allarga gradualmente a comprendere i vecchi concetti via via che questi sono attratti e inglobati entro le operazioni intellettuali del tipo superiore». Un'immagine analoga viene usata da Einstein a proposito del teorizzare: «Creare una teoria nuova non è come distruggere un vecchio fienile e costruire al suo posto un grattacielo. E' piuttosto come scalare una montagna, e conquistare nuovi e più vasti orizzonti». Nell'astrarre, nel generalizzare, nel teorizzare intesi in questo senso, il concreto non va mai perso - tutt'al contrario. Dato che lo si vede da una prospettiva sempre più ampia, vi si scorgono nessi sempre più ricchi e inaspettati; esso mostra una coerenza, un senso, che mai aveva avuto prima. Quando si guadagna in generalità, si guadagna in concretezza; è questa la concezione del Lurija maturo, per il quale così la scienza è «l'ascesa al concreto». La bellezza del linguaggio, e dei Segni in particolare, è come la bellezza della teoria, sotto questo aspetto: il concreto conduce al generale, ma è attraverso il generale che si può catturare nuovamente il concreto, intensificato e trasfigurato. Questa riconquista e rinnovamento del concreto, grazie al potere dell'astrazione, ha un'evidenza luminosa in un linguaggio parzialmente iconico come i Segni.

Capitolo 3 "Mercoledì mattina, 9 marzo": «Sciopero alla Gallaudet», «I sordi scioperano per i sordi», «Gli studenti chiedono un rettore sordo»: è il fatto del giorno nei titoli di tutti i quotidiani. La cosa è cominciata tre giorni fa, non ha fatto che ingrossarsi, e ormai è sulla prima pagina del «New York Times». Sembra una storia incredibile. Sono stato un paio di volte all'Università Gallaudet, l'anno scorso, e a poco a poco ho imparato a conoscere il posto. La Gallaudet è l'unico istituto universitario al mondo per sordi nel quale si studino discipline umanistiche, e soprattutto è il cuore della comunità mondiale dei sordi; ma in tutti i suoi 124 anni di vita non ha mai avuto un rettore sordo. Apro il giornale e leggo tutto l'articolo: gli studenti hanno cominciato la campagna pel avere un rettore sordo fin dallo scorso anno, quando diede le dimissioni Jerry Lee (normoudente come tutti i suoi predecessori), che era rettore dal 1984. Da allora è stato un susseguirsi di agitazioni, di incertezze e speranze. Verso la metà di febbraio, il comitato per la nomina ha ristretto la cerchia a sei candidati, tre udenti e tre sordi. Il primo marzo tremila persone partecipano a un raduno, alla Gallaudet, per manifestare al Consiglio di amministrazione la ferma richiesta della comunità della Gallaudet che sia eletto un rettore sordo. Il 5 marzo, la sera prima dell'elezione, si tiene una veglia con fiaccolata all'esterno della sede del Consiglio. I finalisti, a questo punto, sono tre: un udente e due sordi. Domenica 6 marzo il comitato sceglie Elisabeth Ann Zinser, vicerettore dell'Università della Carolina del Nord a Greensboro: la candidata udente. Oltre al contenuto, suonò offensivo il tono dell'annuncio del Consiglio: fu in quest'occasione che il presidente del Consiglio di amministrazione, Jane Bassett Spilman, commentò: «I sordi non sono ancora pronti per assumere degli incarichi nel mondo degli udenti». Il giorno dopo, un migliaio di studenti marciò fino all'albergo in cui si era chiuso il Consiglio, proseguì oltrepassando la Casa Bianca e raggiunse il Campidoglio. Il giorno successivo, 8 marzo, gli studenti occuparono l'università, barricandosi nel campus. "Mercoledì pomeriggio": La Facoltà e i docenti si sono messi in sciopero a sostegno degli studenti e delle loro quattro richieste: 1) che venga

nominato subito un nuovo rettore, sordo; 2) che Jane Bassett Spilman si dimetta immediatamente dalla presidenza del Consiglio di amministrazione; 3) che cambi la composizione del Consiglio in modo che vi sia una maggioranza del 51 per cento di membri sordi (attualmente vi sono diciassette membri udenti e solo quattro sordi); 4) che non ci siano rappresaglie. A questo punto, telefono al mio amico Bob Johnson, che dirige il Dipartimento di Linguistica alla Gallaudet, dove insegna e fa ricerca da sette anni. Bob ha una profonda conoscenza dei sordi e della loro cultura, è un segnante eccellente e ha sposato una donna sorda: nessuna persona udente potrebbe essere più vicina al mondo dei sordi (1). Gli chiedo che cosa ne pensi. «E' la cosa più notevole che abbia mai visto. Se me lo avessi chiesto un mese fa, avrei scommesso un milione di dollari che una cosa del genere non sarebbe potuta accadere nell'arco della mia vita. Non ti resta che venir giù e vedere con i tuoi occhi». Le mie visite alla Gallaudet, nel 1986 e nel 1987, erano state un'esperienza stupefacente e commovente. Prima di allora non avevo mai visto un'intera comunità di sordi, né mi ero reso del tutto conto (anche se in teoria lo sapevo) del fatto che i Segni potevano essere davvero un linguaggio completo: un linguaggio altrettanto adatto per far l'amore che per tenere lunghi discorsi, per flirtare che per discettare di matematica. Dovevo vedere le classi di filosofia e di chimica in Segni; dovevo vedere il Dipartimento di Matematica al lavoro, nel silenzio più assoluto; dovevo vedere nel campus i bardi sordi, la poesia in Segni, il vasto e impegnativo repertorio del Teatro Gallaudet; dovevo vedere il magnifico spettacolo sociale costituito dal bar degli studenti, con le mani che disegnavano l'aria in tutte le direzioni mentre si svolgeva un centinaio di conversazioni diverse - dovevo vedere tutto questo con i miei occhi per passare da una concezione «medica» della sordità a una concezione «culturale» dei sordi come soggetti di una comunità dotata di un proprio linguaggio completo e di un proprio modo di manifestarsi. Avevo avuto l'impressione che alla Gallaudet ci fosse un senso di gioia leggera, quasi arcadica - tanto che non mi ero sorpreso nell'apprendere che talora, al momento di lasciarla, alcuni studenti erano riluttanti a staccarsi da un ambiente tanto caldo, appartato, protettivo, dai conforti di un mondo piccolo ma completo e autosufficiente, per affrontare il mondo di fuori, incapace di accoglierli e di comprenderli (2).

Tuttavia sotto la superficie covavano anche tensioni e risentimenti, che ora sembravano ribollire, senza alcuna possibilità di soluzione. C'era una tensione non espressa tra l'amministrazione e la facoltà - una facoltà in cui molti dei docenti usano i segni e alcuni sono sordi (3). La facoltà poteva, fino a un certo punto, comunicare con gli studenti, entrare nel loro mondo, nelle loro menti; ma l'amministrazione (così mi venne detto) costituiva un corpo dirigente remoto, che gestiva la scuola come fosse un'azienda, con un certo atteggiamento «benevolo» di protezione nei riguardi dei poveri sordi «handicappati», ma senza mai mostrare di apprezzarli come una comunità. Gli studenti e i docenti con cui parlai temevano che l'amministrazione, se avesse potuto, avrebbe ridotto ancora sia la percentuale dei professori sordi sia l'impiego dei Segni nell'università. Gli studenti che incontravo avevano l'aria brillante; insieme, formavano gruppi pieni di vivacità, ma pronti a chiudersi nei confronti del mondo esterno, verso il quale apparivano timorosi e diffidenti. Avevo la sensazione che mostrassero gli effetti di un doloroso svilimento della immagine di sé; una certa passività si avvertiva anche in coloro che professavano l'«Orgoglio dei sordi». Alcuni mi davano l'impressione di sentirsi come dei bambini - un'eco dell'atteggiamento parentale del Consiglio (e forse anche di qualche membro della facoltà). Sembravano convinti che, seppure qualche piccolo particolare della loro esistenza poteva essere migliorato, il loro destino fosse quello di essere guardati dall'alto in basso, di restare cittadini di seconda classe. "Giovedì mattina, 10 marzo": Un taxi mi deposita sulla Quinta Strada, di fronte al "college". I cancelli sono sprangati da quarantotto ore; la prima cosa che vedo è una folla di centinaia di persone, eccitate ma allegre, non ostili; agitando striscioni e cartelli, sbarrano l'ingresso al campus, e parlano tra loro in Segni con grande animazione. Una o due automobili della polizia sono ferme all'esterno, con i motori accesi sorvegliano, ma è una presenza benevola. Sulle prime mi disorienta un po' il grande strombazzare di clacson delle automobili che passano; ma poi mi accorgo dei cartelli che invitano: «SUONATE IL CLACSON PER CHIEDERE UN RETTORE SORDO». La stessa folla è assieme, stranamente, silenziosa e rumorosa: i discorsi in Segni non danno alcun suono; ma sono punteggiati di curiosi applausi - le mani battono eccitate sopra le teste, in mezzo a grida e acute vocalizzazioni (4). Davanti ai miei occhi, uno studente salta su una colonna e

comincia a segnare, in modo espressivo. Io non posso capire niente di ciò che egli dice, ma ne sono affascinato, sento che il suo segnare è puro e pieno di passione: tutto il corpo, tutti i suoi sentimenti sembrano fluire in questi movimenti. Un nome bisbigliato a bassa voce, Tim Rarus, mi fa comprendere che sono di fronte a uno dei «quattro», uno dei capi degli studenti. Il pubblico pende, rapito, da ogni suo segno, e manifesta la propria approvazione con scoppi frequenti di applausi fragorosi. Osservo Rarus e il pubblico, poi abbraccio con lo sguardo il grande campus oltre le barricate, brulicante di Segni concitati, di conversazioni mute ma piene di calore: avverto la sensazione profonda che sono in presenza di una sensibilità differente, di un altro modo di essere, non solo di un altro modo di comunicare. Basta guardare questi studenti, anche di sfuggita, per caso, dall'esterno (e rispetto a loro io mi sento un estraneo quanto lo sono i passanti o i guidatori che sfiorano il campus), per capire che nel loro linguaggio, nel loro modo di essere, essi meritano uno di loro; per capire che nessuno che non sia sordo, che non sappia usare i Segni, potrà mai comprenderli. E' immediato intuire che nessuna mediazione o interpretazione potrà bastare mai, e qualsiasi rettore che non sia uno di loro sarà escluso dal contatto con gli studenti. Innumerevoli striscioni e cartelli con slogan brillano al sole di marzo: «RETTORE SORDO SUBITO» è quello più frequente. C'è una buona dose di rabbia (non potrebbe essere altrimenti), espressa però per lo più attraverso l'ironia. Molti cartelli proclamano: «LA ZINSER NON E' PRONTA PER ASSUMERE INCARICHI NEL MONDO DEI SORDI», in ritorsione dell'infelice commento della Spilman sui sordi. La stessa Zinser intervistata la sera prima per il programma televisivo Nightline aveva affermato, tra le altre cose: «Un giorno, una persona sorda sarà ... rettore dell'Università Gallaudet», provocando così l'immediata risposta: «E PERCHE' NON IL 10 MARZO 1988, ZINSER?». I giornali avevano parlato di «battaglia» o «confronto», dando l'impressione di una trattativa, di un braccio di ferro; gli studenti ribattono: «Trattativa? Abbiamo dimenticato la parola. Non compare più sui nostri dizionari». La Zinser seguita a chiedere un «dialogo costruttivo», ma la richiesta appare senza senso, perché non c'è più, anzi non c'è mai stato un terreno neutrale in cui potesse avvenire il «dialogo». Quel che preme agli studenti è la loro

identità, la loro sopravvivenza, tutto-o-niente; hanno quattro richieste, e non c'è posto per i «se» e i «forse». In verità la Zinser è tutt'altro che popolare. A giudizio di molti, essa non solo è particolarmente insensibile agli umori degli studenti - è lampante che essi non la vogliono, che l'università è stata letteralmente barricata contro di lei - ma sostiene attivamente la «linea dura» e la persegue ufficialmente. Eppure in un primo momento aveva goduto di qualche simpatia: i suoi difensori osservavano che era stata scelta nel rispetto delle regole, e che non aveva alcuna idea delle dispute nelle quali si era trovata proiettata. Ma questo punto di vista diventava ogni giorno meno sostenibile, mentre la faccenda cominciava ad assumere le caratteristiche di uno scontro di volontà. Sin dagli inizi la Zinser ha assunto una posizione intransigente (del genere «non sono ammesse sciocchezze»); ma ieri ha raggiunto il culmine, quando ha proclamato l'intenzione di «prendersi carico» del campus privo di governo. «Se questo disordine va avanti ancora un po'» ha detto, «sarò costretta a prendere l'iniziativa per riportare il campus sotto controllo». Questo ha infiammato gli animi degli studenti, che hanno reagito bruciando cartelli con l'effigie della Zinser. Alcune scritte sugli striscioni sono decisamente furiose; una dice: «ZINSER BURATTINO DI SPILMAN»; un altra: «NON ABBIAMO BISOGNO DI UNA BALIA, MAMMA SPILMAN». Comincio a rendermi conto che i sordi stanno diventando maggiorenni, che dicono finalmente, e a voce molto alta: «Non siamo più i vostri bambini. Non vogliamo più le vostre "cure"» (5). Oltrepasso le barricate, i discorsi, i cartelli, fino al grande campus: il verde brillante del prato è magnifico, ma gli imponenti edifici vittoriani fanno da sfondo a una scena assolutamente non vittoriana. Il campus è tutto un fervere di conversazioni: in ogni angolo coppie o gruppetti di studenti segnano animatamente. Dappertutto si discute, e io non posso capirne nulla; sono io a sentirmi come un sordo, sono io oggi la persona senza voce, l'handicappato, la minoranza - in questa grande comunità segnante. Nel campus vedo anche molti docenti, oltre agli studenti: un professore fabbrica distintivi con la scritta «Frau Zinser, Go Home!», e non fa a tempo a finirli che li ha già venduti. «Non è magnifico?» mi dice scorgendomi. «Era dall'epoca di Selma

che non mi divertivo tanto. E' un po' come Selma, adesso - e come negli anni Sessanta». Nel campus c'è un gran numero di cani: devono essercene cinquanta o sessanta sul vasto tappeto verde. Alla Gallaudet le norme che regolano il possesso e la presenza di cani sono applicate con una certa indulgenza: alcuni sono tenuti perché servono come «orecchio che ci sente», altri solo per compagnia. Una ragazza si rivolge in segni al suo cane; l'animale, obbediente, si gira verso di lei in atteggiamento di domanda, e porge la zampa; su ciascun fianco porta una striscia di stoffa bianca con la scritta: «IO CAPISCO I SEGNI MEGLIO DELLA SPILMAN» (la presidente del Consiglio di amministrazione della Gallaudet ha occupato quel posto per sette anni senza in pratica avere imparato neppure un segno). Sulle barricate si avvertivano rabbia e tensione mentre qui c'è un'atmosfera calma e pacifica; di più, una sensazione di allegria, quasi di festa. Cani dappertutto, e anche bambini e ragazzi, amici e familiari, che chiacchierano instancabili in Segni. Tra le piccole tende colorate, che sono state erette sull'erba, si vedono anche bancarelle per la vendita di panini e bevande: tutto ciò richiama alla memoria Woodstock, fa pensare assai più a Woodstock che a una cupa rivoluzione. Agli inizi della settimana, la dichiarazione di Elisabeth Ann Zinser aveva provocato reazioni di furore disordinato: un migliaio di individui andavano su e giù per il campus, e per sfogare la rabbia impotente non trovavano di meglio che fare a pezzi e spargere in giro rotoli di carta igienica. Ma improvvisamente, come disse Bob Johnson, «lo stato d'animo generale mutò»: nel giro di poche ore sembrò emergere una coscienza nuova, calma, chiara - e una decisione; un corpo politico, forte di duemila persone, con un'unica volontà diretta a un solo obiettivo. Fu la straordinaria rapidità con cui si manifestò questa organizzazione, l'improvviso precipitare, dal caos, di una mente comune, unanime, a sbalordire chiunque poté assistervi. Ma, naturalmente, questa impressione era in parte illusoria, perché dietro a tutto ciò c'erano stati preparativi minuziosissimi e l'impegno di molte persone. Essenziali per questa subitanea «metamorfosi» - e anche, in seguito, per organizzare e definire nelle sue fasi il «sollevamento» (troppo nobile, modulato con cura troppo attenta per poter essere chiamato una «sommossa») - furono i quattro giovani studenti che ne presero la guida: Greg Hlibok,

l'autentico capo del corpo studentesco, e i suoi compagni Tim Rarus, Bridgetta Bourne e Jerry Covell. Greg Hlibok è un giovane studente di ingegneria, descritto (da Bob Johnson) come «affascinante e schietto; persona di poche parole, dalle quali però traspare molto giudizio e molto pensiero». Anche i suoi genitori sono sordi: il padre è titolare di un'impresa di ingegneria; la madre, Peggy O'Gorman, fa azione di propaganda a favore dell'impiego dell'A.S.L. nell'istruzione. Dei suoi due fratelli sordi, uno fa l'attore, l'altro il consulente finanziario. Tim Rarus, anch'egli sordo dalla nascita e proveniente da una famiglia di sordi, è il contraltare perfetto di Greg: spontaneo (fino all'asprezza) quanto quello è controllato, intensamente passionale quanto Greg è calmo e compassato. I quattro erano già stati eletti prima della rivolta, quando ancora era rettore Jerry Lee, ma dopo le dimissioni di quest'ultimo hanno assunto un ruolo del tutto nuovo, molto speciale. Hlibok e i suoi tre colleghi non hanno incitato o infiammato gli studenti; al contrario, essi esercitano un'influenza moderatrice, cercando di calmare gli animi e di tenere a freno gli studenti; ma sono stati assai sensibili agli «umori» che circolavano nel campus, e, fuori di questo, nella comunità dei sordi in generale; assieme agli altri hanno capito che era arrivato un momento cruciale. Quando hanno organizzato le pressioni degli studenti per avere un rettore sordo, non sono stati soli: dietro c'è stato, e si è fatto sentire, il sostegno degli ex alunni e delle organizzazioni dei sordi di tutto il paese. Dunque molti calcoli e una laboriosa preparazione avevano preceduto la «metamorfosi», l'emergere di una mente comune. Potrebbe sembrare che si tratti del passaggio dal caos totale all'ordine; è invece l'improvviso manifestarsi di un ordine latente, come nella repentina cristallizzazione di una soluzione soprasatura: qui l'agente che ha fatto precipitare la cristallizzazione è stata la nomina della Zinser alla carica di rettore, domenica sera. Si tratta di una trasformazione qualitativa, dalla passività all'attività; una rivoluzione, in un senso morale non meno che politico. D'improvviso i sordi non sono più inerti, dispersi, privi di potere; improvvisamente hanno scoperto la calma forza dell'unione. Nel pomeriggio recluto un'interprete e con il suo aiuto intervisto una coppia di studenti sordi. Uno di essi mi dice: «Vengo da una famiglia di udenti ... per tutta la vita mi son state fatte pressioni, da parte degli udenti: "Questo non lo puoi fare, nel mondo degli

udenti; questo per te è impossibile, nel mondo degli udenti"; e ora, in questo preciso momento, ne sono liberato. Adesso, di punto in bianco, mi sento sciolto, pieno di energia. Ancora mi sento dire: "Non puoi, non puoi"; ma ora io posso. L'espressione "sordo e inabile" sarà cancellata per sempre, sostituita dall'espressione "sordo e abile"». Più o meno queste stesse cose mi aveva detto Bob Johnson, la prima volta che avevo parlato con lui, e mi aveva confidato che i sordi soffrivano di una «sensazione di impotenza», e che ora, tutt'a un tratto, questa sensazione era andata in pezzi. Molte rivoluzioni, trasformazioni e risvegli sono una risposta a circostanze immediate (e intollerabili). Quello che è notevole nello sciopero del 1988 alla Gallaudet è la coscienza storica, il senso di un'ampia prospettiva storica che lo informa. Nel campus ciò era evidente: appena vi giunsi, scorsi un picchetto con uno striscione che diceva: «LAURENT CLERC VUOLE UN RETTORE SORDO. EGLI NON E' QUI, MA IL SUO SPIRITO E' QUI. SOSTENETECI». Un giornalista chiese: «Chi diavolo è questo Laurent Clerc?»; ma il suo nome, la sua personalità, sconosciuti al mondo degli udenti, sono ben noti a tutti, nel mondo dei sordi. Nella loro storia e nella loro cultura egli è il padre fondatore, una figura eroica: la "prima" emancipazione dei sordi - la loro conquista dell'istruzione e dell'alfabetizzazione, del rispetto di sé e del rispetto dei loro simili - fu in grandissima parte ispirata dall'operato e dalla persona di Laurent Clerc. Leggere quello striscione, quindi, non poteva non suscitare un'emozione profonda: si sentiva che Laurent Clerc "era" lì, nel campus; "era", anche se sotto forma postuma, lo spirito e la voce autentica della rivolta - perché lui, più di chiunque altro, aveva posto le basi della loro educazione e della loro cultura. Quando Clerc aveva fondato l'Asylum di Hartford assieme a Thomas Gallaudet, nel 1817, non aveva introdotto solo i Segni (a Hartford e poi in tutte le scuole per sordi degli Stati Uniti), ma anche un importante metodo educativo - del quale non c'è un esatto parallelo nel mondo degli udenti. Ben presto erano state aperte in tutto il paese altre scuole residenziali per sordi, e tutte facevano uso della lingua dei segni elaborata a Hartford. Tutti, o quasi, i docenti di queste scuole avevano studiato a Hartford, e nella maggior parte avevano conosciuto il carismatico Clerc. Ciascuno aveva apportato il contributo dei propri segni indigeni e grazie a questo continuo processo di

arricchimento e fusione in molte parti del paese si diffuse un'A.S.L. sempre più perfezionata e generalizzata: così il livello delle prestazioni e delle aspirazioni dei sordi progredì costantemente. La trasmissione della cultura dei sordi da una generazione all'altra dipende sia dalla lingua dei sordi (i Segni) sia dalle loro scuole. Queste ultime hanno sempre agito come punti focali della comunità dei sordi, esercitando un'influenza che si è estesa ben oltre l'aula scolastica. Nelle vicinanze delle scuole di solito si sono formate comunità di sordi; spesso, inoltre, i diplomati restavano nei pressi della loro scuola o addirittura trovavano lavoro nella scuola stessa. Ma il punto essenziale è che per lo più queste scuole per sordi erano scuole residenziali, come ci fanno notare Carol Padden e Tom Humphries: «L'elemento più significativo della vita residenziale è il dormitorio. In questo ambiente informale, lontano dal controllo organizzato dell'aula scolastica, i bambini sordi fanno ingresso nella vita sociale del popolo dei sordi: imparano la lingua dei segni ma apprendono anche i contenuti di quella cultura. In tal modo le scuole diventano il centro delle comunità che le circondano, assicurando la continuità della trasmissione culturale da una generazione all'altra, secondo uno schema che è unico» (6). Così, con grande rapidità, dopo il 1817, si propagarono negli Stati Uniti non solo un linguaggio e un'istruzione, ma un corpo di conoscenze comuni, di credenze comuni, di racconti e di immagini popolari, che ben presto formarono una ricca e ben distinta cultura. Ora, per la prima volta, esisteva una «identità» dei sordi, non solo personale ma su scala sociale. Essi non erano più solo individui, ciascuno con le sue vicende personali, meschine o esaltanti; erano un "popolo", dotato di una fisionomia culturale, come gli Ebrei o i Gallesi. A metà Ottocento si imponeva l'esigenza dell'istruzione superiore: per i sordi, un tempo analfabeti, ora ci voleva l'università. Nel 1857 il figlio di Thomas Gallaudet, Edward, fu nominato preside della Columbian Institution for the Instruction of the Deaf and the Blind (7). Aveva appena vent'anni, e una storia familiare del tutto particolare (sua madre era sorda, ed egli aveva imparato i Segni come prima lingua); a questo si aggiungevano la sua sensibilità e le sue doti personali. Fin dall'inizio, l'idea e la speranza erano che l'Istituto potesse essere trasformato in un "college" che godesse del sostegno federale: ciò che avvenne nel 1864, allorché quello che doveva

diventare in seguito il Gallaudet College ricevette il proprio statuto dal Congresso. Edward Gallaudet ebbe una vita piena e straordinaria (8), che si protrasse fin dentro il nostro secolo; con la sua azione, promosse immensi mutamenti di atteggiamento (non sempre lodevoli) verso i sordi e verso il problema della loro istruzione. In particolare, Gallaudet combatté fermamente il movimento d'opinione, incoraggiato in larga misura negli Stati Uniti da Alexander Graham Bell, e via via più forte a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, che si opponeva all'uso dei Segni e ne chiedeva il bando da ogni ordine di scuole. Gallaudet fu sconfitto, sopraffatto dalla mentalità dell'epoca e da una certa ferocia intransigente che egli era troppo ragionevole per comprendere (9). Quando egli morì, nel 1917, il suo Istituto era famoso in tutto il mondo; quel che più conta, aveva dimostrato una volta per tutte che i sordi, pur di averne la possibilità e i mezzi, potevano essere pari agli udenti in ogni settore dell'attività accademica - anzi, anche nell'attività sportiva: la spettacolare palestra della Gallaudet, progettata da Frederick Law Olmsted, era tra le migliori del paese, quando fu inaugurata, nel 1880; e nel football americano la «consultazione» ("huddle") tra i giocatori, durante la quale essi si comunicano segretamente le tattiche da seguire, si diffuse dopo essere stata introdotta alla Gallaudet. Ma il mondo aveva voltato le spalle ai Segni, nel campo dell'istruzione; Gallaudet ne fu uno degli ultimi sostenitori, e anche il più strenuo e rappresentativo, cosicché la sua morte fu una perdita non solo per l'Istituto ma per l'intero mondo dei sordi. Alla Gallaudet, dove erano stati la lingua dominante, i Segni furono banditi: gli studenti continuavano a usarli per conversare assieme, ma non erano più considerati una lingua legittima per i discorsi ufficiali o per l'insegnamento. Così il secolo intercorso tra la fondazione dell'American Asylum da parte di Thomas Gallaudet e la morte di Edward Gallaudet vide l'ascesa e la caduta, la legittimazione e il disconoscimento dei Segni in America. Ciò ebbe un effetto deleterio, per i sordi: per i settantacinque anni successivi, la loro istruzione fu compromessa e fu loro preclusa la possibilità di traguardi accademici. Ma anche la loro immagine di sé, la comunità e la cultura ne risentirono gravemente: sopravvissero, nelle forme a cui erano

pervenute, in alcune sacche isolate; non c'era più, però, quel senso di una comunità e di una cultura nazionali (o addirittura mondiali) che era esistito un tempo, se non altro nell'«età dell'oro» attorno al 1840. Ma gli ultimi trent'anni hanno assistito a un'ulteriore inversione - anzi a una nuova legittimazione e ad una risurrezione dei Segni mai viste in precedenza; ad esse si è accompagnata la scoperta, o riscoperta, degli aspetti culturali della sordità, un forte senso di autodefinizione, la coscienza di un modo di essere peculiare e unico. De l'Epée aveva nutrito un'immensa ammirazione per la lingua dei segni, non scevra da alcune riserve: da una parte vi vedeva una forma di comunicazione completa («Tutti i sordomuti che ci sono stati mandati hanno già una lingua ... con la quale esprimono bisogni, desideri, dolori e così via, e non commettono errori quando gli altri si esprimono nello stesso modo»), dall'altra vi riconosceva la mancanza di una struttura interna, di una grammatica (che egli cercò di immettervi, prendendola dalla lingua francese, con i «segni metodici»). Questo strano miscuglio di ammirazione e di critica sarebbe durato per i successivi duecento anni, anche tra gli stessi sordi. Ma è probabile che nessun linguista abbia seriamente affrontato la realtà dei Segni, fino a quando William Stokoe arrivò alla Gallaudet, nel 1955. Si può parlare della «rivoluzione del 1988» e ritenere, come fece Bob Johnson e come in un certo senso fecero tutti, che fu un evento sbalorditivo, una metamorfosi, qualcosa che nessuno avrebbe potuto aspettarsi. Per un verso, ciò è certamente vero; ma da un altro punto di vista si deve riconoscere che il movimento, anzi i numerosi movimenti che confluirono nell'esplosione del 1988, si andavano preparando da molti anni, e che i semi della rivoluzione erano stati piantati trenta (se non addirittura centocinquanta) anni prima. Non sarà facile ricostruire la storia degli ultimi trent'anni, soprattutto il nuovo capitolo, che si può fare iniziare nel 1960, allorché comparve lo scritto «bomba» di Stokoe, "Sign Language Structure": per la prima volta qualcuno prestava attenzione, in modo scientifico, al «sistema di comunicazione visiva dei sordi americani». Ho consultato molte persone per raccogliere notizie sulla complessa preistoria della rivoluzione, sull'aggrovigliata matassa di eventi e di atteggiamenti mutevoli che la precedettero; ne ho parlato con gli studenti della Gallaudet; con alcuni storici come Harlan Lane e John Van Cleve (il compilatore della monumentale "Gallaudet Encyclopedia of Deaf People and

Deafness", in tre volumi); con vari ricercatori come William Stokoe, Ursula Bellugi, Michael Karchmer, Bob Johnson, Hilde Schlesinger e molti altri; e nessuna di queste persone la vede nello stesso modo (11). Stokoe era mosso da genuina passione di scienziato - ma uno scienziato del linguaggio è una creatura un po' speciale, che deve provare per la vita umana, per la comunità e per la cultura umane lo stesso interesse che prova per i determinanti biologici del linguaggio. Questa duplicità di interessi e di orientamenti aveva indotto Stokoe a includere già nel suo "Dictionary" del 1965 un'appendice (redatta dal suo collaboratore sordo Carl Croneberg) su «The Linguistic Community»; qui si trova la prima descrizione delle caratteristiche sociali e culturali dei sordi che facevano uso dell'A.S.L. Quindici anni dopo la pubblicazione, Padden definiva il "Dictionary" una «pietra miliare», e scriveva: «Opera unica nel descrivere "il popolo dei sordi" come un gruppo culturale ... ha rappresentato un taglio con una lunga tradizione che era solita "patologizzare" le persone sorde ... In un certo senso, il libro ha costituito pubblico e ufficiale riconoscimento di un aspetto più profondo della vita dei sordi: la loro cultura» (12). E tuttavia solo a posteriori le opere di Stokoe sono state definite «bombe» e «pietre miliari», e solo a posteriori si può riconoscere che hanno avuto una parte fondamentale nella successiva trasformazione delle coscienze; ma all'epoca della pubblicazione furono ignorate. Lo stesso Stokoe, guardando al passato, commentava con ironia: «La pubblicazione [di "Sign Language Structure"] nel 1960 provocò una curiosa reazione locale. Con l'eccezione del preside Detmold e di uno o due altri colleghi, l'intera facoltà della Gallaudet attaccò aspramente me, la linguistica, lo studio dei segni come un linguaggio... Se l'accoglienza riservata al primo studio linguistico di una lingua dei segni fu piuttosto fredda all'interno della comunità dei sordi, fu addirittura raggelante in una grande parte del settore dell'istruzione speciale - a quel tempo una corporazione chiusa, tanto ostile alla lingua dei segni quanto ignorante di linguistica» (13). Minimo fu l'effetto sui colleghi linguisti: le grandi opere generali sul linguaggio degli anni Sessanta non ne fecero menzione - né menzionarono affatto i Segni. Non ne fece menzione nemmeno Chomsky, il linguista più rivoluzionario del nostro tempo, quando nel 1966 (nella prefazione alla "Linguistica cartesiana") promise un futuro libro sui «surrogati dei

linguaggi... per esempio, sul linguaggio gestuale dei sordi» - definizione che poneva i Segni al di sotto della categoria delle autentiche lingue (14). E quando nel 1970 Klima e Bellugi si rivolsero allo studio dei Segni, ebbero la sensazione di avventurarsi in un terreno vergine, di occuparsi di un argomento del tutto nuovo (il che riflette in parte l'originalità della loro impostazione, quella originalità che fa apparire totalmente nuovo qualsiasi argomento). E' più interessante, in un certo senso, la reazione indifferente o perfino ostile degli stessi sordi: si sarebbe pensato che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere le intuizioni di Stokoe e ad apprezzarle. Esistono strani resoconti di questa reazione e delle successive «conversioni» degli ex colleghi di Stokoe e di altri, tutti segnanti nativi - sordi o figli di genitori sordi. Non doveva essere il segnante il primo a vedere la complessità strutturale della sua stessa lingua? Eppure proprio i segnanti furono i più restii a capire, e opposero maggiore resistenza alle idee di Stokoe. Ricorda Gilbert Eastman (che sarebbe diventato in seguito un eminente commediografo in Segni, e uno dei più accesi sostenitori di Stokoe): «I miei colleghi e io ridemmo del dottor Stokoe e del suo folle progetto: era impossibile analizzare la nostra lingua dei segni». Tutto ciò ha ragioni complesse e profonde, delle quali non vi è forse alcun parallelo nel mondo dei parlanti-udenti. Noi (il 99,9 per cento di noi) diamo per scontato il discorso parlato e la lingua che parliamo; non ce ne interessiamo in modo particolare, non ci soffermiamo mai a rifletterci, e non ci importa che esso sia analizzato o no. Le cose stanno in modo profondamente diverso per i sordi e per i Segni. Essi hanno un sentimento particolare e molto intenso nei confronti della loro lingua: ad esempio, tendono a magnificarla descrivendola con espressioni delicate e piene di reverenza (ed è così dai tempi di Desloges, dal 1779). Per i sordi, i Segni sono una parte intima, inscindibile, del loro essere, qualche cosa da cui dipendono, ma che può anche (e ciò li spaventa) esser tolta loro in qualsiasi momento (come avvenne, in qualche misura, al Congresso di Milano del 1880). Come osservano Padden e Humphries, i sordi diffidano della «scienza degli altri», che temono possa sopraffare la loro stessa conoscenza dei Segni - una conoscenza che è «impressionistica, globale e non internamente analitica». Eppure, malgrado questo atteggiamento reverenziale, i sordi hanno spesso condiviso l'incomprensione o il disprezzo per i Segni

manifestati dagli udenti. (Quando iniziò i suoi studi, la Bellugi rimase stupefatta nel constatare che gli stessi sordi, pur essendo segnanti nativi, non avevano idea della grammatica o della struttura interna dei Segni, e tendevano a vederli come una pantomima). Ma forse non c'è di che sorprendersi: un vecchio proverbio dice che i pesci sono gli ultimi ad accorgersi dell'acqua. Per i segnanti, i Segni sono il loro ambiente e la loro acqua, così familiari e naturali da non richiedere spiegazioni. Chi usa una lingua tenderà soprattutto a un realismo ingenuo, a vedere la propria lingua come un riflesso della realtà, non come qualcosa di costruito. «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti proprio a motivo della loro semplicità e familiarità», afferma Wittgenstein. Può darsi, allora, che occorra uno sguardo esterno per mostrare agli utenti nativi di una lingua che quello che dicono, per loro così semplice e trasparente, è in realtà enormemente complesso, e contiene e cela il vasto apparato di un autentico linguaggio. Proprio questo accadde con Stokoe e i sordi, e lo spiega bene Louie Fant: «Come tanti figli di genitori sordi, son cresciuto senza rendermi conto che l'A.S.L. era una lingua. Solo quando ebbi passato i trent'anni mi liberai di questo errore: a illuminarmi furono delle persone che non erano utenti nativi dell'A.S.L. - persone che si erano accostate alla sordità senza preconcetti, senza essere legate ad alcun punto di vista particolare, e che perciò potevano guardare alla lingua dei segni con occhi nuovi» (15). Fant prosegue narrando come egli, che pure lavorava alla Gallaudet e aveva conosciuto bene Stokoe (non solo, ma aveva anche scritto un piccolo manuale di lingua dei segni, basato in parte sull'analisi di Stokoe), respingesse l'idea che si trattasse di un'autentica lingua. Così la pensava ancora nel 1967, quando lasciò la Gallaudet per fondare, assieme ad altri, il National Theater of the Deaf: qui tutte le produzioni erano in inglese segnato, perché l'A.S.L. era considerata «un inglese imbastardito, non adatto per le scene». Un paio di volte capitò che Fant e altri usassero inavvertitamente l'A.S.L. mentre recitavano, l'effetto fu elettrizzante, e ciò ebbe a sua volta uno strano effetto su di loro. «In qualche recesso della mia mente», scrive Fant ricordando quell'epoca «sempre più mi rendevo conto che Bill aveva ragione, e che quella che chiamavamo "la vera lingua dei segni" era di fatto l'A.S.L.». Infine, nel 1970, Fant conobbe Klima e la Bellugi, che gli fecero

innumerevoli domande sulla «sua» lingua; fu allora che le sue convinzioni cambiarono. «Via via che la conversazione procedeva, il mio atteggiamento subiva una conversione completa. Con quel suo modo di fare caldo, convincente, [la Bellugi] mi fece capire quanto poco in realtà io sapessi della lingua dei segni, anche se la conoscevo fin dall'infanzia. Lodava tanto Bill Stokoe e la sua opera che dovetti chiedermi se non mi era sfuggito qualcosa». E poi, finalmente, qualche settimana dopo: «Mi convertii. Smisi di oppormi all'idea che l'A.S.L. fosse una lingua, e mi buttai a capofitto nello studio, in modo da poterlo insegnare come una lingua va insegnata». Pure, malgrado questo parlare di «conversione», i sordi avevano sempre saputo, in modo intuitivo, che i Segni erano una lingua. Ma forse ci voleva una conferma scientifica perché la convinzione potesse diventare cosciente ed esplicita. Gli artisti (ci ricorda Pound) sono le antenne della razza. E furono gli artisti ad avvertire per primi e ad annunciare l'alba di questa nuova consapevolezza: il primo movimento scaturito dal lavoro di Stokoe non fu pedagogico, né politico, né sociale, ma artistico. Il National Theater of the Deaf (N.T.D.) fu fondato nel 1967, due anni dopo la pubblicazione del "Dictionary"; ma soltanto sei anni dopo, nel 1973, il teatro commissionò, e rappresentò, una commedia veramente in Segni: fino ad allora le produzioni erano state mere traslitterazioni di commedie inglesi in inglese segnato. (Peraltro negli anni Cinquanta e Sessanta George Detmold, preside della Gallaudet, aveva prodotto un certo numero di commedie per le quali incitava gli attori ad abbandonare l'inglese segnato e a recitare in A.S.L.). Una volta rotto il ghiaccio, e affermatasi questa nuova consapevolezza, fu una fioritura ininterrotta di artisti sordi in ogni campo. Nacquero una poesia in Segni, facezie, canzoni, balli in Segni - forme d'arte esclusivamente in Segni, non traducibili nella lingua parlata. Nacque, o rinacque, tra i sordi, una tradizione bardita, con bardi, cantastorie, narratori in Segni: trasmettendo e disseminando la storia e la cultura dei sordi, essi contribuivano a elevare ulteriormente la nuova consapevolezza culturale. Il N.T.D. cominciò a viaggiare e tuttora viaggia per dare spettacoli in tutto il mondo, presentando agli udenti l'arte e la cultura dei sordi, e insieme rafforzando nei sordi la coscienza di possedere una comunità e una cultura mondiali.

L'arte è l'arte e la cultura è la cultura; tuttavia entrambe possono avere una implicita (se non esplicita) funzione politica ed educativa. Lo stesso Fant divenne un protagonista e un docente: il suo libro del 1972, "Ameslan: An Introduction to American Sign Language", fu il primo manuale di Segni che seguiva in modo dichiarato la linea di Stokoe, e contribuì non poco a fare riammettere la lingua segnata nell'istruzione pubblica. All'inizio degli anni Settanta l'oralismo che regnava esclusivo da novantasei anni cominciò a perdere terreno, con l'introduzione (o la reintroduzione, perché in molti paesi era stata ampiamente adottata, centocinquanta anni prima) della «comunicazione totale», cioè l'uso di entrambe le lingue, quella dei segni e quella parlata (16). La trasformazione non avvenne senza incontrare forti resistenze: la Schlesinger ricorda bene gli avvertimenti e le lettere minatorie che ricevette all'epoca in cui con più vigore sosteneva la reintroduzione dei segni nell'istruzione; anche il suo libro "Sound and Sign", quando fu pubblicato nel 1972, suscitò aspre controversie e più di un tentativo di «metterlo in un canto come inaccettabile». Il conflitto infuria irrisolto ancor oggi, e, pur se attualmente viene usata nelle scuole una lingua segnata, "si tratta in pratica sempre di inglese segnato e non della lingua dei segni". Stokoe aveva sostenuto fin dal principio che i sordi sarebbero dovuti essere bilingui (e biculturali), acquisendo la lingua della cultura dominante ma anche, in pari misura, la propria lingua, i Segni (17). Siccome però i Segni non sono ancora entrati nelle scuole o nelle istituzioni (tranne quelle religiose), essi sono in gran parte limitati all'uso colloquiale, popolare, oggi come settant'anni fa. La situazione non è diversa alla Gallaudet: qui sin dal 1982 è stato ufficialmente adottato l'inglese segnato per ogni attività in classe, e ciò ha costituito un'importante ragione concomitante della rivolta. Il privato e il politico si intrecciano sempre; qui essi si intrecciano anche con la linguistica. Barbara Kannapell fa emergere questo aspetto quando ricostruisce l'influenza esercitata su di lei da Stokoe e racconta in che modo divenne consapevole di sé come di una persona sorda con un'identità linguistica speciale («La mia lingua è me») e come da qui fosse passata a ritenere i Segni essenziali per l'identità comunitaria dei sordi («Rifiutare l'A.S.L. è rifiutare i sordi ... [perché] l'A.S.L. è una creazione personale dei sordi come gruppo ... è l'unica cosa che possediamo che appartiene totalmente al popolo dei sordi»). Mossa da queste considerazioni personali e

sociali, la Kannapell nel 1972 fondò l'«Orgoglio dei sordi» un'organizzazione che si prefiggeva di elevare la coscienza dei sordi. Il romanzo di Joanne Greenberg, "In This Sign" pubblicato nel 1970, illustra in modo assai convincente come tra i sordi un atteggiamento di passività, di deferenza, di autosvalutazione, perfino di vergogna, fosse fin troppo comune prima, appunto, degli anni Settanta; ci vollero il dizionario di Stokoe e la legittimazione dei Segni da parte dei linguisti perché si avviasse un movimento in direzione opposta. Ma molti altri fattori, di uguale peso, confluirono nella rivoluzione del 1988. Negli anni Settanta, mentre i Segni cominciavano a conquistarsi una legittimazione scientifica (lentamente, e lottando contro resistenze tenaci), esplodevano il movimento per i diritti civili, l'attivismo politico, gli svariati movimenti di «orgoglio» e «liberazione». Negli stessi anni, una sensibilità nuova si rivolgeva alla condizione dei poveri, dei disabili, delle minoranze; proprio mentre i sordi ricostruivano a poco a poco un senso di speranza e di fiducia in sé stessi, cercando di scrollarsi di dosso l'immagine negativa che da un secolo li schiacciava. C'era allora molta più tolleranza, in generale, verso la diversità culturale, ed era comune l'opinione che popoli e individui, per quanto differenti, dovessero essere accettati su un piano di assoluta parità; in particolare, cresceva la sensazione che i sordi fossero un «popolo», e non solamente un certo numero di individui anormali e disabili, isolati: dal punto di vista medico o patologico si passava a una prospettiva antropologica, sociologica, etnica (18). Di pari passo con questo processo, sempre più di frequente comparivano personaggi sordi nei romanzi, in opere teatrali, in documentari cinematografici o televisivi - personaggi, inoltre, rappresentati in modo sempre più ricco, lontano dagli stereotipi usuali. I mutati atteggiamenti sociali e la nuova coscienza di sé da parte dei sordi si riflettevano in queste rappresentazioni artistiche e ne venivano a loro volta influenzati: dal diffidente, patetico John Singer del romanzo "Il cuore è un cacciatore solitario" si passò all'indomita eroina di "Figli di un Dio minore"; i Segni fecero la loro comparsa in programmi televisivi come Sesame Street e nelle scuole dove erano previsti tra le materie facoltative avevano sempre più seguito. Tutto il paese cominciò a scoprire i sordi, fino ad allora invisibili e inascoltati, e anch'essi acquistarono maggiore coscienza, si accorsero di essere visibili e di avere un potere sempre maggiore nella società.

I sordi, e coloro che li studiavano, cominciarono anche a guardare nel passato, per scoprire (o per creare) una storia, una mitologia, un patrimonio ereditario della loro comunità (19). Erano passati venti anni dal lavoro di Stokoe e, grazie al combinarsi di una nuova consapevolezza, di nuove motivazioni, di forze nuove, un nuovo movimento si era messo in marcia; si preparava un confronto. (Gli anni Settanta, infatti, videro la nascita non solo dell'«Orgoglio dei sordi», ma anche del «Potere ai sordi»: nacque un nuovo vocabolario, che conteneva parole come «autodeterminazione» e «paternalismo». I sordi, fino a quel momento passivi, furono capaci di fare emergere dei capi; e se in precedenza si erano lasciati definire «inabili» e «dipendenti» (perché tali erano stati ritenuti dagli udenti) ora cominciavano a vedersi come una comunità forte e autonoma (20). Era chiaro che prima o poi ci sarebbe stata per forza una ribellione, un'energica affermazione politica di autodeterminazione e di indipendenza, accompagnata dal ripudio definitivo del paternalismo. L'accusa che le autorità della Gallaudet fossero « mentalmente sorde» non alludeva a cattiva volontà, ma piuttosto a un paternalismo maldiretto, che i sordi non possono sentire come benigno, dal momento che esso è basato sulla condiscendenza, su un giudizio implicito che li bolla come «incapaci», o addirittura come malati. Alcuni dei medici operanti alla Gallaudet furono bersaglio di contestazioni particolari: li si accusava di ridurre ogni sordo a un individuo con l'apparato uditivo menomato, di non riconoscere in ciascun sordo una persona completa adattata a una diversa modalità sensoriale. L'opinione generale è che questa benevolenza offensiva dipenda da un giudizio di valore da parte degli udenti, come se questi dicessero: «Sappiamo noi che cosa è meglio per voi. Lasciate che ce ne occupiamo noi», si tratti della scelta della lingua (permettere o non permettere i Segni) o della valutazione delle attitudini personali nello studio e nel lavoro. Anche di fronte alle più ampie opportunità di lavoro sviluppatesi già nella seconda metà del diciannovesimo secolo, vi è ancora (o di nuovo) chi ritiene che i sordi debbano fare i tipografi, o gli impiegati postali, svolgere lavori «umili», non aspirare a un'istruzione superiore. In altre parole, i sordi si sentivano diretti e comandati, trattati come bambini. E' significativo un episodio che mi raccontò Bob Johnson: «Ho ricavato l'impressione, dopo anni di permanenza alla Gallaudet, che i docenti e il personale trattino gli studenti come graziosi animaletti. Un

esempio: un giorno la Segreteria comunicò che c'era la possibilità di sottoporsi a colloqui in vista di un lavoro: bisognava iscriversi e farsi spiegare di che si trattava. Uno studente si iscrisse e il giorno dopo ricevette una telefonata dalla Segreteria: un'impiegata gli comunicò che aveva concordato il colloquio, aveva trovato un interprete, aveva fissato l'ora, aveva disposto perché un'automobile andasse a prenderlo... e quando lo studente andò su tutte le furie rimase sbalordita: non riusciva a capire il perché. Il ragazzo le spiegò: "La ragione per cui volevo fare questa cosa era che volevo imparare a chiamare al telefono qualcuno, volevo imparare a procurarmi un'auto, volevo imparare a trovare un interprete, e lei sta facendo tutte queste cose al posto mio. Non è questo che cerco". Proprio qui sta il nocciolo della faccenda». Tutt'altro che infantili o incapaci, come si «presumeva» che fossero (e come tanto spesso essi stessi presumevano di essere), gli studenti della Gallaudet mostrarono grandi capacità nel gestire la rivolta di marzo. Ne rimasi particolarmente colpito quando finii in sala stampa, autentico cuore pulsante della Gallaudet durante lo sciopero. Qui, tra telefoni e telescriventi, gli studenti tenevano i contatti con la stampa e con la televisione (21): invitavano giornalisti e operatori a venire sul posto, rilasciavano interviste, aggiornavano notiziari, scrivevano comunicati stampa a getto continuo e con abilità consumata; qui raccoglievano i fondi per la campagna «Un rettore sordo subito»; da qui sollecitavano (con successo) il sostegno del Congresso, dei candidati alla presidenza del paese, dei principali esponenti sindacali. Così essi riuscirono, nel momento cruciale, esattamente quando ne avevano bisogno, a conquistarsi l'ascolto del mondo intero. Anche l'amministrazione era in ascolto. Per i primi quattro giorni si limitarono a considerare gli studenti una banda di bambini ribelli e sciocchi, da rimettere in riga; poi però la Zinser fu costretta a fermarsi, ad ascoltare, a riesaminare i propri radicati convincimenti, a vedere le cose in una nuova luce - e finalmente a dare le dimissioni. Lo fece con parole che erano commoventi e sembrarono genuine, dicendo che né lei né il Consiglio avevano previsto il fervore e l'impegno dei contestatori, o il fatto che la loro protesta fosse la prima avvisaglia di un movimento nazionale per i diritti dei sordi. Rassegnando le dimissioni, la notte del 10 marzo, disse: «Ho dato risposta a questo straordinario movimento sociale dei sordi» e più avanti

aggiunse di essere arrivata a considerare quei giorni «un momento affatto speciale», un momento che era «unico, il momento dei diritti civili nella storia del popolo dei sordi». "Venerdì, 11 marzo": L'ambiente del campus è completamente mutato. Una battaglia è stata vinta. In giro c'è euforia. Altre battaglie si preparano. I cartelli con le quattro richieste degli studenti sono stati sostituiti da altri che dicono «3 e mezzo», perché le dimissioni della Zinser soddisfano solo a metà la prima richiesta (quella di avere un rettore sordo subito). Ma si avverte anche un'atmosfera leggera, del tutto nuova: la tensione e la rabbia di mercoledì si sono dileguate, assieme alla possibilità di una disfatta umiliante. La serenità e il senso di sollievo che ora sono palpabili discendono in parte, credo, dalle pacate parole con cui la Zinser ha dato le dimissioni: essa si è allineata con quello che ha definito uno «straordinario movimento sociale», al quale ha augurato un felice esito. Consensi e incoraggiamenti giungono da ogni dove: da Rochester, sfiniti dopo quindici ore di autobus ma carichi di entusiasmo, arrivano trecento studenti sordi del National Technical Institute for the Deaf. Le scuole per sordi di tutto il paese sono chiuse, per solidarietà. Arrivano persone sorde da tutti gli Stati: vedo cartelli dell'Iowa e dell'Alabama, ma anche del Canada, del Sud America, dell'Europa, perfino della Nuova Zelanda. Per quarantotto ore, gli avvenimenti della Gallaudet hanno occupato le prime pagine di tutti i giornali nazionali. Ora non c'è automobile che passi vicino alla Gallaudet senza suonare il clacson; le strade si vanno riempiendo di sostenitori, via via che si avvicina il momento della marcia sul Campidoglio. Eppure, malgrado tutto il frastuono delle auto, i discorsi, i picchetti, gli striscioni, regna una straordinaria atmosfera di calma e di dignità. "Mezzogiorno": Quando il corteo muove lentamente verso il Campidoglio, si contano 2500 persone circa: un migliaio sono studenti della Gallaudet, gli altri sono sostenitori. Mentre camminiamo, cerco di spiegarmi questa calma che mi ha colpito. Non è una calma fisica (in realtà c'è un bel baccano, le urla dei sordi che scandiscono la marcia lacerano i timpani); si tratta piuttosto, concludo, della calma che accompagna un dramma morale. E' il senso della storia sospeso nell'aria a dare questo senso di quiete strana. Procediamo lentamente, perché ci sono tra noi bambini, adulti con

piccoli in braccio, diversi disabili (qualche sordo-cieco, qualche individuo atassico, qualcuno che si regge con le stampelle); lentamente e con una sorta di allegria risoluta. Giunti al Campidoglio, spieghiamo gli striscioni e piantiamo al suolo le aste dei cartelli, nel limpido sole di marzo che risplende da una settimana. Un grande striscione proclama: «ABBIAMO ANCORA UN SOGNO»; un altro, formato da singole lettere portate ciascuna da un dimostrante, dice soltanto: «CONGRESSO, AIUTACI». Un senso di cameratismo straordinario ci stringe l'uno all'altro. Poco prima che comincino a parlare gli oratori designati, qualcuno mi abbraccia; ma non lo conosco, è uno studente che regge il cartello «ALABAMA»: mi batte sulle spalle, sorride, come un compagno. Non ci conosciamo, ma in questo momento speciale siamo compagni. Cominciano i discorsi, e sono in tanti a parlare: Greg Hlibok, diversi esponenti della facoltà, membri del Congresso, senatori. Sto un po' ad ascoltarli; un professore della Gallaudet osserva: «E' paradossale che la Gallaudet non abbia mai avuto a capo della Direzione un sordo. Si può dire che tutti i "college" neri hanno un rettore nero, a testimoniare che i neri si gestiscono da soli, i "college" femminili sono guidati da una donna, a testimoniare che le donne sono capaci di gestirsi da sole. E' da moltissimo tempo che la Gallaudet non ha un rettore sordo, che testimoni che i sordi sanno guidarsi e gestirsi da soli». Lascio vagare lo sguardo sulla scena: migliaia di persone, ciascuna con la propria individualità, ma legate e unite da uno stesso sentimento. Dopo i discorsi c'è un intervallo di un'ora; alcuni di noi entrano per incontrarsi con i membri del Congresso, ma i più si mettono seduti nella grande piazza davanti al Campidoglio, tirano fuori la colazione dallo zaino e mangiano e parlano, o meglio segnano - e questa per me, come per tutti i presenti, venuti con il corteo o capitati per caso, è una delle scene più meravigliose. Qui, davanti al Campidoglio, in uno spazio aperto e pubblico - non privatamente, a casa o dentro le mura della Gallaudet - c'è un migliaio di persone che segnano liberamente, apertamente, senza provare alcun imbarazzo, nel modo più bello. I giornali hanno riportato tutti i discorsi, ma hanno tralasciato un aspetto non meno importante: non hanno comunicato al mondo esterno la visione reale di questa vitalità piena, di un'esistenza non patologica dei sordi. Ancora una volta, mentre mi aggiro nella folla dei segnanti che chiacchierano

tra un morso a un panino e una sorsata da una lattina, mi sorprendo a ripetere la frase che uno studente sordo della California School for the Deaf ha espresso, in Segni, alla televisione: «Noi siamo un popolo unico, con la nostra cultura, la nostra lingua: l'American Sign Language, che solo da poco è stata riconosciuta come una vera lingua, e che ci distingue dal popolo degli udenti». Ritorno dal Campidoglio camminando assieme a Bob Johnson, con il quale scambio alcuni commenti. Personalmente, tendo a essere apolitico; mi è difficile perfino comprendere il gergo della politica. Bob, che per anni ha insegnato e fatto ricerca alla Gallaudet, osserva: «E' davvero una cosa straordinaria: in tutta la mia vita ho sempre visto i sordi accettare passivamente il trattamento che ricevevano dagli udenti. Li ho visti desiderosi, o apparentemente desiderosi, di essere "clienti", mentre in realtà avrebbero dovuto avere loro il controllo della situazione... ora, tutt'a un tratto, è cambiata la coscienza di che cosa significhi essere una persona sorda, assumersi delle responsabilità. L'inganno di credere che i sordi non abbiano alcun potere - ora, d'un tratto, questo inganno è cessato, e ciò significa che la situazione generale dei sordi può mutare. Mi sento molto ottimista e pieno di entusiasmo, se penso a quel che potrà accadere nei prossimi anni». «Non capisco bene che cosa intendi con "clienti"» dico io. «Conosci Tim Rarus,» spiega Bob «quello che hai visto sulle barricate questa mattina, che ti ha colpito per il suo modo di segnare tanto netto e appassionato - bene, Tim ha riassunto in due parole in che cosa consiste questa trasformazione. "E' semplicissimo" ha detto: "niente rettore sordo, niente università" e ha alzato le spalle guardando fisso la telecamera; non ha aggiunto altro. I sordi avevano capito, per la prima volta, che un'industria come questa, rivolta a "colonie" di consumatori, non può esistere senza il cliente. E' un'industria che vale miliardi di dollari, per gli udenti. Se i sordi non partecipano, l'industria è finita». Il sabato porta una piacevole aria di festa: è giorno di riposo (alcuni degli studenti hanno lavorato, si può dire senza tregua, dalla prima dimostrazione di domenica sera) e si cucina all'aperto, nel campus c'è da scegliere tra gli «Spilman dogs» e i «Board burgers»: gli studenti non dimenticano, neanche qui, le ragioni della rivolta. Il campus è tutto in festa per l'arrivo di studenti provenienti dalle scuole di diversi altri Stati (una ragazzetta nera dell'Arkansas vedendosi intorno

tante persone che segnano, esclama, anche lei in Segni: «E' come essere in famiglia oggi»). Sono venuti anche molti artisti sordi: alcuni vogliono assistere a questo evento, unico nella loro storia, per trarne ispirazione e celebrarlo. Greg Hlibok è rilassato, ma vigile: «Pensiamo di avere il controllo della situazione. Intendiamo prendere le cose con calma: non vogliamo spingerci troppo oltre». Due giorni prima, era la Zinser che minacciava di «prendere il controllo della situazione». Quello che ci si manifesta oggi è l'autocontrollo, la serena consapevolezza e la fiducia che scaturiscono da una forza e da una sicurezza interiori. "Domenica sera, 13 marzo": Oggi si è riunito il Consiglio, per nove ore. Sono state nove ore di tensione, di attesa... nessuno sapeva che cosa ne sarebbe venuto fuori. Poi la porta si è aperta ed è uscito Philip Bravin, uno dei quattro membri sordi del Consiglio, ben noto a tutti gli studenti. La comparsa di Bravin, anziché della Spilman, dice già tutto, prima ancora che egli cominci a fare la sua dichiarazione - in Segni. Sta parlando, dice segnando, come presidente del Consiglio di amministrazione, perché la Spilman ha dato le dimissioni. E il suo primo, felice compito, ora, anche a nome del Consiglio, è quello di annunciare che King Jordan è stato eletto nuovo rettore. King Jordan, sordo dall'età di ventun anni, alla Gallaudet da quindici, è il preside della School of Arts and Sciences: gode di ampia stima come persona riservata ed equilibrata. Durante le selezioni, aveva sostenuto la candidatura della Zinser (22). Visibilmente commosso, esprimendosi con Segni e con parole assieme, dichiara: «Sono emozionato e spaventato nell'accettare l'invito del Consiglio di amministrazione a diventare rettore dell'Università Gallaudet. E' un momento storico per i sordi di tutto il mondo. Possiamo davvero affermare che noi, insieme, uniti, in questa settimana siamo riusciti a vincere la riluttanza a lottare per i nostri diritti. Il mondo ha assistito all'ingresso della comunità dei sordi nella maggiore età. Non accetteremo più limiti ai nostri traguardi. La massima lode va agli studenti della Gallaudet, per averci mostrato con chiarezza, anche adesso, come si possa abbracciare un'idea con una forza tale da farla diventare realtà».

Rotti gli argini, dopo queste parole, ovunque scoppiano manifestazioni di giubilo. Mentre tutti ritornano alla Gallaudet per celebrare il trionfo con un'ultima riunione, Jordan aggiunge: «Ora essi sanno che il coperchio è stato tolto. E noi sappiamo che i sordi possono fare tutto ciò che fanno gli udenti, tranne udire». E Hlibok, abbracciando Jordan: «Siamo saliti in vetta alla montagna, e ci siamo saliti insieme». "Lunedì, 14 marzo": Alla Gallaudet tutto sembra normale, alla superficie. Le barricate sono state rimosse, il campus è aperto. La «sollevazione» è durata esattamente una settimana: dalla sera di domenica 6 marzo, quando si cercò di imporre la Zinser a un'università che non la voleva, alla felice risoluzione di ieri sera, un'altra domenica sera, ma completamente diversa, giacché tutto era cambiato. «Sono stati necessari sette giorni per creare il mondo, a noi sono occorsi sette giorni per cambiarlo»: la battuta scherzosa si propaga fulmineamente, in Segni, da un capo all'altro del campus. In questo stato d'animo euforico gli studenti lasciano l'università per le vacanze di primavera e fanno ritorno alle loro famiglie sparse in tutto il paese. Ma un cambiamento oggettivo, una trasformazione storica, non avviene in una settimana, anche se può bastare un solo giorno per quella «trasformazione delle coscienze» che ne costituisce la condizione preliminare - come avvenne nella nostra storia. «Molti studenti» mi disse Bob Johnson «non si rendono conto dell'impegno e del tempo che occorreranno perché le cose cambino, anche se adesso hanno un'idea del proprio potere e della propria forza ... La struttura dell'oppressione ha radici profonde». Pure, questo è un inizio. Una nuova «immagine» e un nuovo movimento si sono affermati, non solo alla Gallaudet, ma ovunque nel mondo dei sordi. Grazie all'attenzione della stampa e, soprattutto, della televisione, i sordi sono divenuti visibili all'intera nazione. Ma l'effetto più profondo, naturalmente, si è avuto sugli stessi sordi, ora saldati in una comunità, una comunità mondiale, come mai era avvenuto prima. Si può già registrare una conseguenza importante, anche se solo simbolica, per i bambini sordi. Una delle prime iniziative di King Jordan, quando il "college" riaprì dopo le vacanze di primavera, fu una visita alla scuola elementare della Gallaudet: nessun rettore prima lo aveva mai fatto, nessun rettore aveva parlato a quei bambini. (I bambini sordi qualche volta

credono che da grandi «si trasformeranno» in adulti udenti, o altrimenti resteranno per sempre creature sottomesse, indifese). Charlotte, ad Albany, seguì emozionata alla televisione i fatti della Gallaudet, acquistò la maglietta del «Potere ai sordi» e ne adottò il saluto. Due mesi dopo la rivolta della Gallaudet io stesso mi trovai ad assistere alla consegna annuale dei diplomi alla Lexington School for the Deaf, che era stata una roccaforte dell'oralismo nell'istruzione fin dagli anni Sessanta del secolo scorso. Erano stati invitati Philip Bravin, Greg Hlibok - quest'ultimo, come ex alunno, fu designato oratore ospite; e tutti i discorsi di apertura, per la prima volta in centoventi anni, furono fatti in Segni. Niente di tutto ciò sarebbe stato concepibile senza la rivolta della Gallaudet. I mutamenti inarrestabili che si sono avviati alla Gallaudet toccano tutti gli aspetti: amministrativi, pedagogici, sociali, psicologici. Ma più di tutto è chiaro quanto profondamente sia cambiato l'atteggiamento degli studenti: appaiono diversi, sicuri di sé, pieni di gioia e di fiducia, convinti nel rivendicare la propria dignità. Questa nuova coscienza di sé rappresenta una rottura decisa con il passato, inimmaginabile anche solo qualche mese fa. Ma tutto è cambiato? Ci sarà una «trasformazione delle coscienze» destinata a durare? Davvero i sordi che vivono alla Gallaudet e la comunità dei sordi in generale riusciranno a trovare le opportunità che cercano? E noi, gli udenti, gliele consentiremo? Permetteremo loro di essere se stessi, una cultura unica in seno alla nostra, e al tempo stesso li lasceremo partecipare, alla pari, a qualsiasi sfera di attività? Non si può che sperare che i fatti della Gallaudet siano solo un inizio.

NOTE N. 1: Anche senza essere sordi, si può benissimo essere molto vicini alla comunità dei sordi (se non farne davvero parte). Occorre, ovviamente, conoscere i sordi e simpatizzare con loro; ma soprattutto è necessario saper usare con scioltezza i Segni. Se mai persone udenti sono state accolte a pieno titolo nella comunità dei sordi, queste sono i figli udenti di genitori sordi: per loro, infatti, i Segni sono la lingua nativa. E' questo il caso di Henry Klopping, l'apprezzato soprintendente della California School for the Deaf a Fremont. Uno dei suoi ex allievi, che ho incontrato alla Gallaudet, mi ha detto segnando: «Lui è un Sordo, anche se ci sente». N. 2: Il mondo dei sordi, come tutte le sottoculture, si forma in parte per esclusione (dal mondo degli udenti) e in parte in seguito all'aggregarsi di una comunità e di un universo intorno a un differente centro - il suo centro. In quanto si sentono esclusi, i sordi possono sentirsi isolati, messi da parte, discriminati. In quanto formano un mondo sordo, volontariamente, per sé soli, essi si sentono a proprio agio al suo interno, lo amano, lo vedono come un porto e un rifugio. Sotto questo aspetto il mondo dei sordi si sente autosufficiente, non isolato - non ha alcun desiderio di assimilarsi o di essere assimilato; al contrario, ha cari il proprio linguaggio e le proprie immagini, vuole proteggerli. Un aspetto di tutto ciò è la cosiddetta diglossia dei sordi. Così un gruppo di sordi, alla Gallaudet o altrove, conversa in Segni se non ci sono udenti, ma, se ne sopraggiunge uno, passa immediatamente all'uso dell'inglese segnato (o simili), per tornare ai Segni non appena il nuovo venuto si allontana. L'A.S.L. è talvolta trattata come una proprietà intima e quanto mai personale, da tenere al riparo da occhi estranei e indiscreti. Barbara Kannapell è giunta a dire che, se tutti imparassimo i Segni, il mondo dei sordi ne sarebbe distrutto: «L'A.S.L. ha una funzione unificante, perché i sordi sono tenuti uniti dalla loro lingua comune. Nello stesso tempo, però, l'uso dell'A.S.L. separa il popolo dei sordi dal mondo degli udenti. Così le due funzioni sono prospettive differenti della medesima realtà - una dall'interno del gruppo che viene unificato, l'altra dall'esterno. Il gruppo è separato dal mondo udente. Questa funzione separatrice è una protezione, per i sordi. Per esempio,

possiamo parlare di quello che ci pare mentre ci troviamo nel bel mezzo di una folla di persone udenti: sappiamo che non ci capiranno. «E' importante comprendere che l'A.S.L. è l'unica cosa che appartenga completamente ai sordi. E' l'unica cosa che sia nata dal loro gruppo. Forse noi abbiamo paura di spartire la nostra lingua con le persone udenti. Forse la nostra identità di gruppo scomparirebbe se gli udenti conoscessero l'A.S.L.» (Kannapell, 1980, pagina 112). N. 3: Anche quegli insegnanti che usano i Segni tendono però a usare una forma di inglese segnato piuttosto che l'A.S.L. Fatta eccezione per la Facoltà di Matematica, in cui la maggior parte dei docenti è sorda, solo una minoranza degli attuali membri delle Facoltà della Gallaudet è sorda. Così purtroppo stanno le cose oggi, in generale, nell'istruzione dei sordi. Sono ben pochi i docenti di sordi che siano sordi essi stessi, e i docenti udenti per lo più non conoscono l'A.S.L. o non la usano. N. 4: Talvolta si crede che i sordi "siano" privi della voce, che abitino in un mondo di silenzio; ma non sempre è così. Possono, se lo vogliono, gridare molto forte, e spesso lo fanno per attirare l'attenzione degli altri. Se parlano, possono farlo a voce molto alta; modulano poco l'emissione, perché non possono controllarla con l'udito. Infine, possono, senza rendersene conto, fare vocalizzazioni di vario genere, spesso molto energiche: movimenti accidentali o inavvertiti dell'apparato vocale, non intenzionali e non controllati, che di solito avvengono quando essi sono agitati, quando fanno uno sforzo fisico, quando comunicano qualche cosa che li emoziona. N. 5: Il risentimento provocato da questo «paternalismo» (o «mammismo») è molto evidente nell'edizione speciale del giornale studentesco («The Buff and Blue») del 9 marzo. Vi compare una poesiola intitolata "Mammina cara", che comincia così: Della Spilman i figli, poverina, Le sfuggono, si voglion ribellare. Ah, perché non ascoltan la mammina E le storie che essa sa narrare? e continua su questo tono per tredici versi. (La Spilman era comparsa in televisione per difendere la causa della Zinser, dicendo tra l'altro: «Abbiate fiducia in noi; lei non vi deluderà»). Di questa poesiola furono fatte migliaia

di copie: le si vedeva svolazzare per tutto il campus. N. 6: Padden e Humphries, 1988, pagina 6. Sarà bene tener conto di queste considerazioni nell'attuale controversia tra fautori delle scuole «speciali» e fautori dell'«integrazione». Quest'ultima implica far frequentare ai bambini sordi le stesse scuole di quelli non sordi, insieme - con il vantaggio di far conoscere i sordi al resto della gente (almeno, questa sarebbe l'ipotesi); ma potrebbe anche provocare una nuova forma di isolamento, escludendo i sordi dal loro linguaggio e dalla loro cultura. N. 7: Ben presto i corsi di studio furono divisi: gli allievi ciechi furono separati dai «sordomuti» (come allora si usava chiamare i sordi congeniti, che non parlano affatto o parlano poco e male). Dei duemila studenti sordi che ci sono oggi alla Gallaudet, circa venti sono anche ciechi. Questi, com'è facile immaginare, devono sviluppare una sorprendente intelligenza e sensibilità tattile, come accadde a Helen Keller. N. 8: Si veda Gallaudet, 1983. N. 9: I protagonisti di questa contesa, Bell e Gallaudet, erano entrambi figli di madre sorda (ma le due madri avevano atteggiamenti opposti nei confronti della propria sordità). Entrambi si dedicarono appassionatamente alla causa dei sordi, ma ciascuno a proprio modo, ed è impossibile immaginare due esseri umani più diversi (si veda Winefield, 1987). N. 10: In un solo settore si è sempre continuato a usare la lingua dei segni, malgrado il cambiamento dei costumi e il divieto dei pedagogisti: nella celebrazione delle funzioni religiose per i sordi. Attraversando imperturbabili le infinite dispute sull'oralismo e l'eclisse dei Segni nell'istruzione secolare, i membri del clero non si dimenticarono mai delle anime dei loro parrocchiani sordi, impararono i Segni (spesso dai sordi stessi) e continuarono a celebrare funzioni in Segni. L'interesse di de l'Epée era stato in primo luogo religioso; tale interesse, accompagnato dalla pronta percezione che quello era il «linguaggio naturale» dei sordi, si è mantenuto ben saldo per duecento anni, non scalfito dalle vicissitudini esterne. Dell'uso religioso dei Segni si occupa Jerome Schein: «Che i segni abbiano un aspetto spirituale non deve sorprendere nessuno, specie se si pone mente al loro uso negli ordini religiosi che osservano il silenzio, o da parte di sacerdoti che si occupano dell'educazione di bambini sordi. Ciò di cui invece ci si deve rendere conto, per apprezzare i segni al loro giusto valore, è che essi sono particolarmente adatti alle funzioni

religiose. La profondità di espressione che si può raggiungere con i Segni sfida qualsiasi descrizione. Il premio Oscar vinto da Jane Wyman nel 1948 come attrice protagonista nel film "Johnny Belinda" (nel quale impersonava una ragazza sorda) fu certo dovuto, in buona parte, alla sua magnifica (e corretta) recitazione del Padrenostro in Ameslan. «Proprio nelle funzioni religiose, forse, la bellezza dei Segni rifulge maggiormente. Ad esempio, in alcune chiese si istruiscono cori in segni: è difficile, senza averli visti, immaginare la solennità che ispirano i coristi schierati mentre segnano all'unisono» (Schein, 1984, pagine 144-145). N. 11: Non ho potuto discutere questo aspetto con Carol Padden e Tom Humphries, e me ne rammarico; infatti, essendo entrambi sordi e scienziati, possono vedere questi eventi sia dall'interno sia dall'esterno. Il capitolo «A Changing Consciousness» del loro libro "Deaf in America" offre, in poche pagine, la descrizione più illuminante di come è mutato l'atteggiamento nei riguardi dei sordi e tra i sordi stessi, negli ultimi trent'anni. N. 12: Padden, 1980, pagina 90. N. 13: Stokoe, 1980, pagina 266 e seguenti. N. 14: Ma Klima e Bellugi raccontano che nel 1965, durante un convegno, quando Chomsky parlò del linguaggio come di «una specifica corrispondenza suono-significato», gli fu chiesto come considerasse le lingue dei segni dei sordi, nell'àmbito di tale caratterizzazione. Chomsky si mostrò molto aperto, e rispose che non vedeva perché la componente suono dovesse essere cruciale; quindi ridefinì il linguaggio come «corrispondenza segnale-significato» (Klima e Bellugi, 1979, pagina 35). N. 15: Fant, 1980. N. 16: Oggi gli insegnanti (ma non solo loro) sono incoraggiati a parlare e segnare simultaneamente; si spera che questo metodo («Sim Com») possa assicurare i vantaggi di entrambe le modalità - ma in pratica ciò non avviene. Il parlato risulta forzatamente rallentato, per consentire di fare i segni; ma questi ne risentono comunque, sono eseguiti malamente, con l'omissione di alcuni elementi cruciali - al punto da risultare inintelligibili per i sordi, che ne sono i destinatari. E' pur vero che è quasi impossibile usare l'A.S.L. e contemporaneamente parlare, perché le due lingue sono del tutto diverse: quasi altrettanto impossibile che parlare inglese e contemporaneamente scrivere in cinese - anzi, è probabile che l'impossibilità sia di natura neurologica.

N. 17: Tuttavia negli Stati Uniti non c'è ancora stato alcun tentativo ufficiale di dare ai bambini sordi un'istruzione bilingue eccezion fatta per alcuni modesti esperimenti pilota, come quello riferito da Michael Strong (Strong, 1988). Un programma educativo bilingue è stato invece adottato, su larga scala, in Venezuela, e ha avuto successo; il programma rientra nella politica nazionale dell'istruzione, e prevede anche l'impiego di un numero sempre maggiore di adulti sordi come assistenti e come docenti (Johnson, comunicazione personale). In Venezuela, i bambini sordi, non appena vengono diagnosticati come tali (anche in tenerissima età), vengono portati in appositi centri istituiti presso le scuole e qui sono affidati ad adulti sordi segnanti, finché non hanno raggiunto l'età per frequentare le scuole materne o elementari, dove sarà impartita loro un'istruzione bilingue. Anche in Uruguay è stato adottato un sistema del genere. In entrambi i paesi i successi sono stati più che incoraggianti, una grande promessa per il futuro - ma purtroppo sono tuttora pressoché sconosciuti agli educatori americani ed europei (si veda però Johnson, Liddell ed Erting, 1989). Questi programmi mostrano che si può imparare a leggere perfettamente senza saper parlare, e che non è indispensabile la mediazione della «comunicazione totale» tra l'educazione orale e quella bilingue. N. 18: Il sociolinguista James Woodward se ne è occupato con particolare attenzione (si veda Woodward, 1982). Questo senso crescente della diversità culturale, al posto di una «norma» fissa unica, con «devianze» nei due sensi, può essere ricondotto a una generosa tradizione di un secolo o più fa; in particolare alle idee di Laurent Clerc (il che costituisce un'ulteriore, e più sostanziale, spiegazione del perché gli studenti ripetevano il suo nome, e sentivano che era il "suo" spirito a guidare la rivolta). Gli insegnamenti di Clerc ebbero l'effetto di ampliare la concezione che l'Ottocento si era fatta della «natura umana», introducendo una visione relativistica e ugualitaria del vasto campo della natura al posto dell'angusta divisione in «normale» e «anormale». Siamo soliti dipingere i nostri antenati del secolo scorso come persone rigide, moralistiche, critiche, repressive; al contrario, il tono della voce di Clerc e di coloro che lo seguivano dà l'impressione che quella fosse un'epoca molto aperta nei riguardi del «naturale», dell'intera varietà e molteplicità delle propensioni naturali: un'epoca nient'affatto incline (o se non altro meno incline della nostra) a giudicare secondo criteri moralistici o clinici che cosa fosse «normale» e che

cosa «anormale». Questo senso di ampia estensione del disegno naturale ricompare più e più volte nella breve "Autobiografia" di Clerc (riportata parzialmente in Lane, 1984 a). «Ogni creatura, ogni opera di Dio, è fatta in modo mirabile. Quello che ci appare un difetto nel suo genere si volge a nostro vantaggio senza che noi lo sappiamo». O anche: «Non possiamo che ringraziare Dio per la ricca diversità della sua creazione, e sperare che in un mondo futuro ne sarà spiegata la ragione». Clerc ha di «Dio», della «creazione», della «natura» un concetto umile, grato, mite, privo di rancore: le radici di ciò stanno forse nel fatto che egli sente se stesso e gli altri sordi come esseri diversi, e tuttavia completi. Quale contrasto con la furia per metà prometeica, per metà terribile, di Alexander Graham Bell, che sempre vedrà la sordità come una frode e una privazione e una tragedia, e si preoccuperà sempre di «normalizzare» i sordi, di «correggere» gli errori di Dio e, in generale, dl «migliorare» la natura. Clerc predica la ricchezza culturale, la tolleranza, la diversità; Bell predica la tecnologia, l'ingegneria genetica, gli apparecchi acustici, i telefoni. Sono due tipi umani completamente opposti; ma evidentemente entrambi hanno una parte da recitare nel mondo. N. 19: Nel 1981 è stato pubblicato un massiccio volume illustrato, intitolato "Deaf Heritage: A Narrative History of Deaf America", di Jack R. Gannon. A partire dal 1976 sono comparsi i libri di Harlan Lane, che non solo hanno esposto la storia dei sordi con grande vivezza, ma di per sé hanno costituito avvenimenti «politici», contribuendo a dare ai sordi un senso vigoroso (forse in parte mitico) del loro passato e una spinta a riconquistare nel futuro il meglio di tale passato. Sono libri che non hanno solo riportato la storia documentata, ma l'hanno anche in parte fatta (esattamente come lo stesso Lane non è stato solo un cronista della rivolta del 1988, ma anche un attivo partecipante). N. 20: Così, almeno, appariva agli osservatori esterni: i sordi si ribellavano all'etichetta di «inabili». Ma i sordi all'interno della comunità erano di diverso avviso, affermavano di non essersi mai considerati tali. Padden e Humphries tengono ad approfondire questo punto: «Storicamente, la qualifica di "inabile" non è mai appartenuta ai sordi. Essa suggerisce un'autorappresentazione e degli obiettivi politici niente affatto familiari al gruppo. Quando parlano della sordità, i sordi usano

termini profondamente legati alla loro lingua, al loro passato, alla loro comunità: si sono costantemente preoccupati di salvaguardare la propria lingua, di elaborare politiche di istruzione per i bambini sordi, di tenere in vita le loro organizzazioni sociali e politiche. Termini quali "diritti civili" e "accesso", che pure sono poco familiari ai sordi, sono stati usati dai loro rappresentanti perché il pubblico comprende tali rivendicazioni meglio di quelle proprie della comunità dei sordi» (Padden e Humphries, 1988, pagina 44). N. 21: Nemmeno il più strenuo dei segnanti è contrario a usare altre modalità di comunicazione, quando possono essere utili. Negli ultimi venti anni, svariate innovazioni tecniche hanno cambiato profondamente la vita quotidiana dei sordi: ad esempio la televisione sottotitolata, le telescriventi (T.T.Y., oggi T.D.D.: "telecommunication devices for the deaf", apparecchiature di telecomunicazione per sordi). Sono dispositivi che avrebbero fatto la gioia di Alexander Graham Bell (il quale inventò il telefono in parte motivato dal desiderio di dare un ausilio ai sordi). Lo sciopero del 1988 alla Gallaudet sarebbe stato molto più difficile, forse addirittura impossibile, senza questi mezzi tecnici, che gli studenti seppero sfruttare in modo brillante. N. 22: Anche se la scelta di King Jordan soddisfece quasi tutti, vi fu una fazione che vide nella sua elezione un compromesso (perché egli era un sordo postlinguistico) e sostenne fino all'ultimo Harvey Corson, soprintendente della Louisiana School for the Deaf e terzo finalista, che è tanto un sordo prelinguistico quanto un segnante nativo.

BIBLIOGRAFIA SCELTA STORIA DEI SORDI Tutta la storia dei sordi, dalla loro liberazione a metà Settecento fino al (fatale) Congresso di Milano del 1880, si può trovare nel libro di Harlan Lane, "When the Mind Hears: A History of the Deaf". Estratti delle autobiografie dei primi sordi alfabetizzati e dei loro insegnanti, durante questo periodo, sono contenuti in Harlan Lane (a cura di), "The Deaf Experience: Classics in Language and education". Una piacevole e informale storia dei sordi, ricca di schizzi personali e di affascinanti illustrazioni, è quella di Jack R. Gannon, "Deaf Heritage: A Narrative History of Deaf America". Lo stesso Edward Gallaudet ha scritto una storia per metà autobiografica del Gallaudet College: "History of the College for the Deaf, 1857-1907". Un lungo articolo, ricco di informazioni, si può trovare consultando la voce «Deaf and Dumb» dell'"Encyclopaedia Britannica" (undicesima edizione). ISOLE Dl SORDI Una descrizione pregnante e vivacissima della comunità, unica nel suo genere, di Martha's Vineyard è quella di Nora Ellen Groce, "Everybody Here Spoke Sign Language: Hereditary Deafness on Martha's Vineyard". BIOGRAFIE E AUTOBIOGRAFIE "Deafness" di David Wright è la più bella storia che io conosca in cui si racconti l'acquisizione della sordità. Un libro più recente, "A Loss for Words: The Story of Deafness in a Family", di Lou Ann Walker, fa un quadro molto efficace della vita dell'autrice, figlia udente di genitori sordi. "The Quiet Ear: Deafness in Literature", a cura di Brian Grant e con

Prefazione di Margaret Drabble, è un'antologia molto variata e leggibile di brevi pezzi scritti da sordi o riguardanti figure di sordi. LA COMUNITA' E LA LINGUA DEI SORDI Solitamente le rassegne demografiche sono noiose, ma Jerome Schein non sa essere noioso. "The Deaf Population of the United States", di Jerome D. Schein e Marcus T. Delk Junior, offre uno spaccato vivace della popolazione sorda degli Stati Uniti a metà degli anni Settanta, cioè proprio nel periodo in cui stavano per iniziare i cambiamenti più importanti. E' consigliabile anche, di Schein, "Speaking the Language of Sign: The Art and Science of Signing". Può essere interessante confrontare la situazione dei sordi e della loro lingua dei segni in Gran Bretagna, rilevandone le diversità. Una panoramica accurata si trova in J. G. Kyle e B. Woll, "Sign Language: The Study of Deaf People and Their Language". Una splendida descrizione della comunità dei sordi è presentata in "Sign Language and the Deaf Community: Essays in Honor of William C. Stokoe", a cura di Charlotte Baker e Robbin Battison. Non c'è un solo saggio di questo volume che sia men che affascinante - e c'è anche un'importante e commovente retrospettiva dello stesso Stokoe. Un libro straordinario, tanto più in quanto i suoi autori sono sordi, e possono parlare dall'interno della comunità e naturalmente anche su di essa, descrivendone l'organizzazione, le aspirazioni, le immagini, le credenze, le forme d'arte, la lingua, eccetera, è "Deaf in America: Voices from a Culture", di Carol Padden e Tom Humphries. Molto accessibile per il lettore medio è il libro di Arden Neisser, "The Other Side of Silence: Sign Language and the Deaf Community in America", ricco di interviste a membri della comunità dei sordi. Un vero tesoro da consultare (anche se i volumi sono troppo pesanti per leggerli a letto e troppo costosi per leggerli in bagno) è la "Gallaudet Encyclopedia of Deaf People and Deafness", a cura di John Van Cleve. Una delle gioie che dà questa enciclopedia (come tutte le migliori enciclopedie, del resto) è che la si può aprire a caso e si trova sempre qualcosa di interessante e illuminante.

LO SVILUPPO DEL BAMBINO E L'ISTRUZIONE DEI SORDI Leggendo i lavori di Jerome Bruner ci si può render conto di come una psicologia rivoluzionaria possa, a sua volta, rivoluzionare l'istruzione. Particolarmente significativi a questo proposito sono "Verso una teoria dell'istruzione" e "Child's Talk: Learning to Use Language". Un importante studio «alla Bruner» dello sviluppo e dell'istruzione dei bambini sordi è quello di David Wood, Heather Wood, Amanda Griffiths e Ian Howarth, "Teaching and Talking with Deaf Children". I lavori più recenti di Hilde Schlesinger si possono leggere solo nella letteratura professionale, che non sempre è facile da trovare. Ma il suo libro del 1972, scritto assieme a Kathryn P. Meadow, è accessibile quanto brillante: "Sound and Sign: Childhood Deafness and Mental Health". L'osservazione e la psicoanalisi sono potentemente combinate negli "Psychoanalytic Studies of the Sighted and the Blind" di Dorothy Burlingham; sarebbe auspicabile che uno studio analogo venisse fatto sui bambini sordi. Anche Daniel Stern combina osservazione diretta e punto di vista psicoanalitico nel suo libro "Il mondo interpersonale del bambino". Di particolare interesse sono le osservazioni di Stern sullo sviluppo di un «Sé verbale». GRAMMATICA, LINGUISTICA E SEGNI Il genio linguistico dei nostri tempi è Noam Chomsky che ha scritto una dozzina di libri sul linguaggio dopo il suo rivoluzionario "Le strutture della sintassi". A mio giudizio i suoi scritti più brillanti e più importanti da leggersi sono le "Beckman Lectures" del 1967, ristampate con il titolo "Language and Mind". La figura più importante nella linguistica dei Segni è, dal 1970, Ursula Bellugi. Nessuno dei suoi lavori è quello che si dice una lettura popolare, ma si possono cogliere punti di vista affascinanti immergendosi nell'opera enciclopedica "The Signs of Language" di Edward S. Klima e Ursula Bellugi. Inoltre la Bellugi con i suoi collaboratori ha fornito i contributi di ricerca più importanti sulla base neurale dei Segni. "What the Hands Reveal about the

Brain", di Howard Poizner, Edward S. Klima e Ursula Bellugi, è l'opera che meglio consente di cogliere il fascino dell'argomento. LIBRI GENERALI SUL LINGUAGGIO Molto leggibile, spiritoso e provocatorio è "Words and Things" di Roger Brown. Altrettanto piacevole a leggersi, di ampio respiro, anche se talvolta un po' dogmatico, è il libro di Eric H. Lenneberg, "Fondamenti biologici del linguaggio". Le esplorazioni più profonde e più belle si trovano in "Pensiero e linguaggio" di Lev S. Vygotskij, pubblicato originariamente in russo, postumo, nel 1934. Vygotskij è stato definito - a buon diritto - «il Mozart della psicologia». Uno dei miei libri preferiti è quello di Joseph Church, "Language and the Discovery of Reality: A Developmental Psychology of Cognition", che amo leggere e rileggere. ANTROPOLOGIA CULTURALE Per quanto possano apparire datate (ma forse no), le opere di Lucien Lévy-Bruhl sono tutte di grande interesse, soprattutto per il suo continuo meditare sul linguaggio e sul pensiero «primitivi». Il primo libro di Lévy-Bruhl, "Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures", pubblicato nel 1910, dà molto bene l'idea del suo pensiero. "Interpretazione di culture" di Clifford Geertz può costituire da una parte uno stimolo per riflettere sulla «cultura» e dall'altra un ottimo correttivo a una concezione ingenua e romantica della natura umana non adulterata e non coltivata. Naturalmente si deve leggere anche Rousseau - rileggerlo alla luce dei sordi e della loro lingua: a mio giudizio il "Discorso sull'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini" è la più ricca e la più equilibrata tra le sue opere.

ESSERI UMANI SELVAGGI E ISOLATI Un'idea unica su cosa possono essere le creature umane qualora siano private del loro normale linguaggio e della loro cultura la danno questi rari e impressionanti - ma importantissimi - fenomeni umani (uno solo dei quali, dice Lord Monboddo, ha maggiore importanza della scoperta di 30000 stelle). Così non è un caso se il primo libro di Harlan Lane è stato "The Wild Boy of Aveyron". La storia di Kaspar Hauser, narrata nel 1832 da Anselm von Feuerbach, è uno dei più stupefacenti documenti psicologici dell'Ottocento; in inglese è stato pubblicato con il titolo di "Caspar Hauser". Non è una coincidenza il fatto che Werner Herzog abbia ideato e diretto non solo un bellissimo film su Kaspar Hauser, ma anche un film sui sordi e sui ciechi, "Land des Schweigens und der Dunkelheit". La riflessione contemporanea più profonda sull'«assassinio dell'anima» di Kaspar Hauser si può trovare in un brillante saggio psicoanalitico di Leonard Shengold, contenuto nel suo libro "Halo in the Sky: Observations on Anality and Defense". Infine, merita di essere consultato il minuzioso studio condotto da Susan Curtiss su una «bambina selvaggia» trovata in California nel 1970. Lo studio si intitola "Genie: A Psycholinguistic Study of a Modern-Day «Wild Child»".

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