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59 Modulo 5 Strumenti dell’intervento sociale professionale 5.1 Il colloquio Altre professioni effettuano colloqui (in psicologia, in psichiatria; colloqui di controllo come l’interrogatorio di polizia e l’interrogazione in classe; l’intervista, ecc.) Per gli assistenti sociali è una attività peculiare. L’assistente sociale passa il suo tempo facendo colloqui e tutto quanto si concretizza nella successiva fase dell’intervento dipende dal colloquio. E’ facile confondere conversazione e colloquio, perché tutti conversano. Il colloquio professionale ha sempre uno scopo, reciprocamente accettato dagli interlocutori. Di conseguenza non è mai soltanto uno scambio di parole tra soggetti in comunicazione, è anche: ascolto, attento a cogliere il significato delle cose che l’utente dice e non dice e orientato alla restituzione all’utente di ciò che si è compreso rispetto al problema. Osservazione della meta-comunicazione (postura, gesti, reazioni emotive evidenti). Riflessione, ossia la capacità di mettere in relazione parole e segnali dell’utente con la situazione presentata e con il contesto allargato di cui è parte. Silenzio, come capacità costruttiva di relazione empatica, di attenzione, di rispetto dei tempi necessari ad elaborare risposte, di riconoscimento delle difficoltà, e spazio all’emotività. L’empatia, la capacità cioè di entrare in comunicazione affettiva con l’altro in seguito ad un processo di identificazione, è un momento comunicativo-relazionale che apre il colloquio professionale. Inoltre, poiché spesso se ne sottovaluta l’uso professionale, o meglio si sottovaluta chi lo usa come strumento di lavoro, occorre individuarne le caratteristiche distinguendo: 1) il contesto - all’interno di un servizio (Sert, Consultorio); oppure all’interno di una istituzione (carcere, tribunale, comunità terapeutica); a domicilio (visita domiciliare). Contesti come il Sert, il Consultorio determinano l’accesso, selezionano la domanda e la relazione di aiuto: consulenza, informativa, di sostegno, di controllo. Il contesto influenza la percezione dell’utente rispetto alla funzione dell’assistente sociale (filtro, passaggio obbligato, sostegno nel percorso terapeutico, facilitatore nei rapporti con le istituzioni, con la Scuola, la famiglia). Il contesto segna l’assistente sociale ed il suo lavoro (prestazioni/risorse, adempimenti derivanti dal quadro normativo di riferimento, programmi e orientamenti del servizio). Di conseguenza nel colloquio preliminare o durante la prima parte del colloquio occorre chiarire sempre e definire la cornice, il contesto, perché la confusione dei contesti va di pari passo con la confusione dei significati 2) l’utente, al fine di tutelarne i diritti; o ancora per favorire l’accesso al sistema dei servizi. Non dimenticando che l’utente è il soggetto più competente nella lettura del suo bisogno perché ne conosce il livello di disagio, di sopportabilità, assieme alla capacità o meno di uscirne da solo

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Modulo 5

Strumenti dell’intervento sociale professionale

5.1 Il colloquio Altre professioni effettuano colloqui (in psicologia, in psichiatria; colloqui di controllo

come l’interrogatorio di polizia e l’interrogazione in classe; l’intervista, ecc.)

Per gli assistenti sociali è una attività peculiare. L’assistente sociale passa il suo tempo

facendo colloqui e tutto quanto si concretizza nella successiva fase dell’intervento

dipende dal colloquio.

E’ facile confondere conversazione e colloquio, perché tutti conversano. Il colloquio

professionale ha sempre uno scopo, reciprocamente accettato dagli interlocutori.

Di conseguenza non è mai soltanto uno scambio di parole tra soggetti in comunicazione,

è anche:

• ascolto, attento a cogliere il significato delle cose che l’utente dice e non dice e

orientato alla restituzione all’utente di ciò che si è compreso rispetto al

problema.

• Osservazione della meta-comunicazione (postura, gesti, reazioni emotive

evidenti).

• Riflessione, ossia la capacità di mettere in relazione parole e segnali dell’utente

con la situazione presentata e con il contesto allargato di cui è parte.

• Silenzio, come capacità costruttiva di relazione empatica, di attenzione, di

rispetto dei tempi necessari ad elaborare risposte, di riconoscimento delle

difficoltà, e spazio all’emotività.

L’empatia, la capacità cioè di entrare in comunicazione affettiva con l’altro in seguito

ad un processo di identificazione, è un momento comunicativo-relazionale che apre il

colloquio professionale.

Inoltre, poiché spesso se ne sottovaluta l’uso professionale, o meglio si sottovaluta chi

lo usa come strumento di lavoro, occorre individuarne le caratteristiche distinguendo:

1) il contesto - all’interno di un servizio (Sert, Consultorio); oppure all’interno di una

istituzione (carcere, tribunale, comunità terapeutica); a domicilio (visita domiciliare).

Contesti come il Sert, il Consultorio determinano l’accesso, selezionano la domanda e

la relazione di aiuto: consulenza, informativa, di sostegno, di controllo.

Il contesto influenza la percezione dell’utente rispetto alla funzione dell’assistente

sociale (filtro, passaggio obbligato, sostegno nel percorso terapeutico, facilitatore nei

rapporti con le istituzioni, con la Scuola, la famiglia).

Il contesto segna l’assistente sociale ed il suo lavoro (prestazioni/risorse, adempimenti

derivanti dal quadro normativo di riferimento, programmi e orientamenti del servizio).

Di conseguenza nel colloquio preliminare o durante la prima parte del colloquio occorre

chiarire sempre e definire la cornice, il contesto, perché la confusione dei contesti va di

pari passo con la confusione dei significati

2) l’utente, al fine di tutelarne i diritti; o ancora per favorire l’accesso al sistema dei

servizi. Non dimenticando che l’utente è il soggetto più competente nella lettura del suo

bisogno perché ne conosce il livello di disagio, di sopportabilità, assieme alla capacità o

meno di uscirne da solo

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3) lo scopo e gli obiettivi -raccogliere informazioni; dare informazioni; chiarire;

sostenere; coinvolgere; valutare- che devono essere condivisi.

Preparazione del colloquio/i Considerato che il colloquio non è una interazione occasionale in quanto avviene

all’interno di un dato contesto, ha degli obiettivi ed è diretto dall’assistente sociale, la

fase della impostazione e preparazione è importante. Anche per quanto riguarda la

programmazione del lavoro giornaliero e settimanale, ai fini della verifica dei tempi di

lavoro e della quantità dei carichi di lavoro. Prefigurare le tappe e i tempi di un

colloquio serve all’assistente sociale per impostare il proprio piano di lavoro e,

contestualmente, ne permette la visibilità alle professioni contigue e alla

organizzazione.

Il colloquio segue le fasi del procedimento metodologico.

Fase preliminare o di analisi della domanda sociale, della richiesta di aiuto diretta e/o

indiretta, ossia la manifestazione e il riconoscimento del problema del procedimento

metodologico. L’attenzione è rivolta sull’utente a seconda che chieda per sé, per un

amico, per un parente. Oppure sia portatore del problema di altri e questi altri sono al

corrente, lo hanno delegato, incoraggiato oppure (caso piuttosto frequente nei Sert).

Nel caso esista un inviante, occorre riflettere su chi è, in che rapporti è con l’inviato

(un medico, un altro servizio), se il caso è già noto ad altri servizi (quali e e con quali

risultati).

Si decide poi in linea di massima quali siano le informazioni da raccogliere rispetto il

problema sotteso all’invio. Da quanto tempo questo problema esista (recente, cronico,

riacutizzazione della cronicità e delle cause). Ossia il momento della raccolta delle

informazioni.

E ancora, come è stato affrontato in passato dal richiedente, o da un altro servizio e

come il richiedente intende affrontarlo ora e con quali aspettative, ossia

l’interpretazione ed eventuale decodifica del problema.

Convocazione La convocazione può riguardare anche il primo colloquio nel caso, ad esempio, che la

segnalazione avvenga da altro servizio o istituzione.

Può essere formale o informale, sempre pensata, mai improvvisata.

Può interessare l’utente o più persone.

L’esplicitazione del numero e delle relazioni tra i convocati delimita sin dall’inizio il

campo, l’ambito di intervento.

Una convocazione con Ordine del giorno connota la riunione.

Una uguale attenzione deve avere il luogo (l’ufficio dell’assistente sociale, una corsia

d’ospedale, la strada per gli operatori di strada -street’s worker-), l’orario per dare il

segno dell’accoglienza, del rispetto, della riservatezza.

Il clima accogliente, la riservatezza, la sicurezza nella relazione si sviluppano in un

servizio accessibile, informato e competente (a livelli diversi, da chi risponde al

telefono, al gestore del budget, ai “decisori”), trasparente e coerente, che non aumenti il

disorientamento.

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Non dimentichiamo che l’assistente sociale rappresenta la società e le sue norme, svolge

una funzione di controllo non poliziesca, ma ricostitutiva delle opportunità, a difesa dei

deboli.

L’assistente sociale rappresenta un servizio che si è assunto degli impegni per rendere

possibile il controllo gestito in chiave anti-emarginante, all’interno di uno specifico

ambiente materiale (spazi e arredi) e umano (le persone con ruoli diversi: uscieri,

impiegati). L’assistente sociale che accoglie e non discrimina, sostiene e

responsabilizza, deve essere inserita in una organizzazione con la quale essere in

sintonia o che realisticamente possa essere oggetto di cambiamento, stimolandone la

graduale modifica.

L’assistente sociale non può essere la sola, unica responsabile, o apparire tale (ma

dove sono i superiori?) quando la sua azione si trova ad urtare interessi consolidati,

comportamenti e abitudini radicate, a scontrarsi con omertà colpevoli e disfunzioni.

Altrimenti, nella sostanza, ci troviamo di fronte a due debolezze che si confrontano: la

persona in difficoltà, deviante rispetto i valori sociali e l’assistente sociale “avanposto

del nulla”.

Troppo spesso invece incontriamo ambienti angusti, in fondo a corridoi oscuri, spazi

ritagliati per una utenza già frustrata e innervosita da rapporti precedenti con uffici

frettolosi e impiegati sbrigativi.

Anche l’arredamento trasmette segnali, “parla”. Un arredamento di tipo sanitario,

decoroso o indecoroso, influenza positivamente o negativamente l’immagine del

servizio, ma anche della professione. Condiziona l’atteggiamento dell’utente,

condiziona la domanda.

E’ bene riflettere che assicurare un luogo di lavoro confacente alle funzioni sia del

servizio (di base o specialistico) che dell’assistente sociale o dell’èquipe, è una

responsabilità politica rispetto al mandato istituzionale, ad es. degli Enti Locali.

I servizi sociali oggi si collocano tra le misure proposte per prevenire e affrontare le

crescenti situazioni di marginalità sociale nell’ambito della popolazione di un dato

territorio, in alternativa alle passate forme di intervento assistenziale come gli istituti

per i minori, gli ospizi per i vecchi, i sussidi, le iniziative rivolte a categorie giuridiche

di assistiti (minori, orfani, illegittimi).

L’insieme delle scelte organizzative e operative effettuate in questo settore si

definisce politica dei servizi sociali: dai servizi rivolti alla intera popolazione

(distrettuali di base), ai servizi rivolti a fasce individuate di popolazione (anziani,

minori), ai servizi rivolti a specifiche aree di problemi quali la devianza, la salute

mentale, l’handicap, la tossicodipendenza, la famiglia.

E poiché si tratta di responsabilità politica occorre anche riflettere come ci sia una

stretta interdipendenza tra le risorse a disposizione di un operatore (prestazioni,

mezzi, strutture di sostegno) e le altre misure di politica sociale o di welfare.

Si rifletta, ad esempio, su

⇒ come l’orario di un asilo nido debba tenere conto degli orari di lavoro delle aziende

del territorio o come le richieste di sussidio siano maggiori o minori a seconda

dell’importo delle pensioni e del costo della vita.

⇒ Come la formazione professionale sia una risorsa per i figli delle famiglie

multiproblematiche, affinchè non entrino a loro volta nel circuito dell’assistenza.

⇒ Come l’autobus sotto casa renda più autonomi gli anziani per l’accesso alle

prestazioni ambulatoriali o ai centri diurni, e così la eliminazione delle barriere

architettoniche.

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⇒ Come l’informazione attraverso conferenze, dibattiti, cicli di film o spettacoli

teatrali, sui fenomeni emergenti di esclusione sociale possa contribuire ad arrestare

o diminuire i processi di esclusione molto più dell’intervento del singolo operatore.

⇒ Come le dismissioni precoci di anziani da ospedali sempre più aziendalizzati

influenzano e aumentano la domanda di assistenza domiciliare, e così via.

Ovvietà forse, ma che descrivono esattamente l’interdipendenza tra la struttura

economica di una comunità, i fenomeni sociali radicati o emergenti (marginalità, tasso

di invecchiamento, immigrazione, ecc.), che influenzano e prefigurano i livelli di

accesso ai servizi socio-assistenziali, la tipologia della utenza.

Svolgimento del colloquio Il tempo del colloquio deve essere definito insieme all’utente come fatto, sia di metodo

che di attenzione, o di controllo reciproco delle divagazioni, dopo il primo momento

della accoglienza (comunicazione empatica), dell’ascolto reciproco e della definizione

del contesto relazionale.

I preliminari non devono essere sottovalutati, marcano l’atmosfera e permettono di

passare dalla fase conversativa al colloquio vero e proprio.

Chiedere all’utente Cosa l’ha spinta qui? pone l’accento sul problema.

Per cosa è venuto? lo sposta sull’utente;

mentre Perché è venuto al SERT? ad esempio, accentua il ruolo istituzionale del

servizio.

Importante è sempre chiarire, precisare il ruolo dell’assistente sociale e le funzioni del

servizio.

La direzione del colloquio è nelle mani dell’assistente sociale che, sin dall’inizio, lo

orienta in modo da raccogliere le informazioni ritenute utili per la formulazione delle

ipotesi e verificare, inoltre, con l’utente le eventuali informazioni già raccolte

indirettamente. Ciò al fine di evitare il sospetto di alleanze con operatori di altri servizi

oppure dello stesso servizio, soprattutto quando si lavora inseriti in una èquipe

multidisciplinare.

Il corpo del colloquio riguarda i contenuti che nella fase di preparazione l’assistente

sociale ha deciso di trattare per non andare fuori tema o per non essere inconcludenti. A

volte è un meccanismo di difesa dell’utente che riesce a coinvolgere anche l’assistente

sociale.

I colloqui successivi sono orientati più rigidamente all’approfondimento, alle aree da

sondare, alla reiterazione e all’accertamento.

E’ sempre utile riformulare i contenuti che mano a mano vengono affrontati per

restituire all’utente il senso del processo che si sta svolgendo e restituire così un

apprendimento dalla esperienza che sta vivendo. In questo modo si lavora per la crescita

del soggetto e si liberano energie rispetto alla esigenza di autonomia personale:

obiettivo fondante della relazione professionale, indipendentemente dagli obiettivi

specifici e particolari.

Riprendere e riformulare quanto detto dall’utente significa anche comunicare che si è

ascoltato e, rendersi conto, se si è capito. Il consentire all’utente di rettificare quanto ha

detto permette di acquisire nuove visioni del problema, segna e facilita la percezione del

processo di crescita.

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Conclusione del colloquio E’ il momento della ricapitolazione di quanto di significativo è emerso, degli accordi su

impegni reciproci o futuri incontri.

Questa fase tende a dilatarsi perché, spesso, è alla fine che si affollano aspetti rilevanti

del problema, nuove chiavi di lettura, segnali di ansia.

Piuttosto che dilatare il colloquio -la cui durata è stata concordata all’inizio- è utile

prendere nota in modo formale delle ulteriori informazioni e interpretazioni,

riformularle e riproporle in modo organico al cliente, con l’impegno di riflettere ed

approfondirne il significato nell’intervallo di tempo disponibile tra un colloquio e

l’altro.

Si dà così il messaggio di aver accolto la comunicazione, ma ugualmente si

ridefiniscono le regole ed il controllo della relazione.

Riesaminare e riproporre alcune parti od alcuni aspetti della comunicazione nella fase

conclusiva, serve per tracciare la direzione del prossimo colloquio. Inoltre è una

marcatura dei ruoli.

La visita domiciliare. La scelta di svolgere il colloquio a casa dell’utente è una scelta da valutare

attentamente, anche nelle situazioni di controllo.

In qualsiasi caso bisogna avvisare l’utente per non incorrere nel pericolo della

intrusione.

Mentre i colloqui in ufficio presentano il vantaggio per l’assistente sociale del controllo

dell’ambiente fisico e dei supporti utili al colloquio (telefono, moduli, dati precedenti,

leggi e circolari esplicative, ecc.), l’abitazione del cliente permette di approfondire la

conoscenza, la comprensione diagnostica dell’utente e della sua famiglia.

L’operatore si trova in una posizione più favorevole alla risposta empatica a ciò che il

cliente dice. L’interazione familiare in vivo, l’espressione della sua individualità

nell’ambito del quotidiano (come arreda la casa, la tiene in ordine, i libri, le letture)

sono delle realtà aperte ad una osservazione professionale. La situazione familiare può

essere letta come veramente è, e non come si pensava fosse dalla descrizione.1

Nel caso particolare dei SERT, ad esempio, la visita domiciliare rappresenta un grosso

contributo per l’èquipe nel momento della definizione del programma terapeutico e

conseguenti trattamenti e/o interventi modulari.

Sempre in argomento di visite domiciliari, si richiama la necessità della loro attenta

programmazione rispetto alla programmazione complessiva dei tempi di lavoro.

Poiché richiedono un alto dispendio di tempo devono essere effettuate in giorni

prestabiliti e concordati con l’èquipe e l’organizzazione, mai lasciate alla

improvvisazione per il rispetto dell’agire professionale.

1 per un approfondimento vedi in “Prospettive sociali e sanitarie”, La visita domiciliare nel servizio

sociale: Aspetti storici , n. 1/96; Aspetti metodologici, n. 5/96

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5.2 Il colloquio e la comunicazione interpersonale: caratteristiche e proprietà Il servizio sociale è un processo di aiuto che si realizza attraverso il rapporto

interpersonale. Gli strumenti dell’assistente sociale sono dunque quelli della

comunicazione umana già descritti: il colloquio nel setting vis vis, nella visita

domiciliare, nelle riunioni e la documentazione.

La comunicazione è un processo fondamentale della vita di relazione ed implica la

reciprocità. E’ l’elemento chiave dell’agire umano e animale. Non esiste situazione di

interazione senza che avvenga una qualche forma di scambio comunicativo.

Nelle scienze sociali e di comportamento per comunicazione si intende un processo di

trasferimento di una informazione -il prodotto del processo di comunicazione- da un

sistema emittente ad un sistema ricevente. Il flusso comunicativo non è mai

unidirezionale, ma circolare implicando sempre azione e retroazione, ossia di feed back

e viceversa.

Per la comunicazione verbale valgono le sette domande di Laswell:

CHI PARLA , l’emittente

COSA DICE, il messaggio

A CHI, il ricevente

DOVE, il contesto

COME, il canale o mezzo di espressione del messaggio (linguaggio con gesti e sguardi)

e le modalità (incontri, riunioni, lettere, radio, TV)

PERCHE’, informare, suscitare e mozioni, ordinare, verificare

CON QUALE RISULTATO, feed back

L’emittente trasmette il messaggio e, pur adoperando lo stesso vocabolario e lo stesso

linguaggio del ricevente, non sempre emittente e ricevente danno lo stesso significato

alle stesse parole. Ogni persona ha un proprio codice di lettura della realtà che risente

delle sue esperienze, dell’ambiente culturale, dello stato emotivo.

Esistono inoltra slogans e stereotipi specie per sintetizzare una situazione, una

condizione della vita sociale (qualità della vita, reinserimento sociale, normalità,

anormalità) che nell’abuso comune condensano un immaginario stereotipato con il

rischio di produrre una relazione comunicativa distorta.

Di conseguenza nel colloquio di servizio sociale è importante costruire una piattaforma

comune di comunicazione, verificare il codice comune.

Perciò nella fase preparatoria di un colloquio attenzione a:

• Individuare il destinatario a cui ci si rivolge

• Scegliere i veicoli

• Abituarsi a descrivere la realtà oggettivamente, verificando la coincidenza

descrittiva con l’utente

• Accertarsi della ricezione del messaggio

• Compilare il messaggio, separando i fatti dalle interpretazione dalle sensazioni o

sentimenti.

La comunicazione non verbale

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Durante il colloquio infatti uguale attenzione richiede la metacomunicazione, tutto

quanto cioè viene affidato alla comunicazione non verbale (tonalità, voce, gestualità,

postura) che rafforzano o smorzano il contenuto del messaggio.

Nel servizio sociale nel momento in cui, con lo strumento del colloquio ci si affida alla

comunicazione verbale anche la comunicazione non verbale deve essere attentamente

controllata e conosciuta.

Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche.

Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro là dove la

parola conduce. Se poi invece della parola c’è il silenzio allora ci si fa guidare da quel

silenzio

Le funzioni della comunicazione non verbale (come sostenere il linguaggio per

esprimere emozioni, per trasmettere informazioni sulla persona, durante il colloquio o le

riunioni) riguardano:

• Cinesica, i gesti delle mani, della testa, dei piedi; simbolici, per mimare la stupidità

si batte l’indice sulla tempia; tecnici, i segnali dei cameramen; regionali, lavarsi le

mani.

• Postura, la posizione del corpo: E’ importante negli incontri di servizio sociale

perché manifesta la disponibilità o meno al rapporto interpersonale. Stare seduti con

i piedi orientati alla porta, può nascondere una volontà di fuga; diritti verso

l’assistente sociale, l’intenzione di interagire. L’atteggiamento posturale sia

dell’assistente sociale che dell’utente, segna in termini di chiusura o apertura,

dominanza o sottomissione, disponibilità o supponenza, ostilità o amicalità.

• Mimica facciale, nell’ambito della comunicazione vis a vis, il feed back trova nel

viso una incredibile fonte di verifica e di decodifica dei messaggi: approvazione,

disaccordo, ostilità.

Gli occhi soprattutto: in due persone che interagiscono positivamente il contatto

visivo è forte, in caso opposto lo sguardo è sfuggente. Una situazione emotiva non

ansiogena permette un contatto visivo prolungato, una situazione di imbarazzo

accorcia il contatto.

Nella fase del procedimento metodologico di raccolta delle informazioni , diventa

determinante questo tipo di attenzione.

• Paralinguaggio, la cantilena, le inflessioni dialettali, l’enfasi. Chi sottolinea

enfaticamente tutte le sue parole è imbarazzato; chi ride delle proprie battute chiede

assenso e sostegno.

• La prossemica, ossia la vicinanza e distanza nelle diverse tipologie: distanza intima;

distanza personale, quando allungando entrambi le braccia ci si può toccare.

Distanza sociale, per trattare gli affari impersonali. Le persone che lavorano insieme

tendono a usare la distanza sociale più prossima, quella abitualmente mantenuta

negli incontri e nei convenevoli -colloquio, visita domiciliare-.

Con la distanza politica, ci si allontana dalla sfera del coinvolgimento -riunioni,

assemblee-.

L’abbigliamento La scelta dell’abbigliamento corrisponde alla offerta della propria immagine ed un

potenziale investimento affettivo: il primo appuntamento, un colloquio di lavoro, ecc.

Disegna anche il rapporto tra i processi di identità, l’immagine del sé e del proprio

corpo, con il contesto sociale e ambientale: il look.

Esistono delle regole non scritte del presentarsi. L’attenzione al confort sottolinea la

prevalenza del non-sociale, del personale; al pudore quando invece si vogliono certi far

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tacere i segnali fisici. L’esibizione di status infine, riguarda la funzione dell’abito come

distintivo culturale: appartenenza di ceto, credenza religiosa, imitazione di modelli

sociali, ecc.

E, proprio nel mondo dei servizi -popolato per la maggioranza di donne- il corpo e

l’abito femminile hanno una particolare rilevanza simbolica e socio-culturale.

Ma anche il maschile ha i suoi segnali: i jeans, al look casual degli intellettuali, il

doppiopetto di vigogna grigia dell’organizzazione.

Dall’abbigliamento emergono come non mai i temi dell’essere, del fare, dell’apparire.

Quando l’assistente sociale, uomo o donna, nei servizi socio-sanitari non indossano il

camice, quale immagine di sé intendono proporre, trasmettere?

L’abito è utilizzato come buccia o corazza o come una elastica pelle sociale, che si

adatta alle funzioni e ai contesti diversi.

L’uso del camice, quando è una discrezionalità dell’operatore, l’avere in mano carta e

penna, quasi un completamento del proprio abbigliamento professionale sono esempi

del bisogno di sostenersi con segni formali.

Talvolta il camice è esplicitamente riconosciuto come una utile protesi, oppure perché

allude al più prestigioso ruolo medico, come nei Sert. Altro abito che rappresenta la

plasticità del ruolo è la tuta (es. terapisti della riabilitazione).

Per le assistenti sociali poi vale il look situazionale, che cambia a secondo del contesto.

Il look usato come strumento, come strategia comunicativa. Momenti formali di

rappresentanza, di affermazione sociale del ruolo, e i momenti più discreti di servizio,

come la visita domiciliare.

Esistono anche le attese di ruolo che prescrivono alle assistenti sociali di apparire, non

di eccedere. Di qui la consapevolezza, da parte dell’operatore, delle potenzialità

comunicative dell’abito che indossa.

Porsi con il proprio vestire, o atteggiarsi in modo paritario, se non simmetrico con

l’utente, può dar luogo ad una relazione confusiva, rischiando di autosqualificarsi.

A volte la squalifica si ritorce sull’interlocutore, più che agire sul ruolo dell’operatore.

Un operatore trasandato comunica disaffezione per il suo lavoro per il quale non vale la

pena di vestirsi un po’ a festa e, quindi, la persona incontrata per lavoro non è

importante.

Il richiamo alla festa, nel lavoro di cura, non è mai secondario: chi, quotidianamente si

rapporta con la sofferenza può trovarsi nella condizione emotiva del vestire dimesso,

quasi a lutto per non apparire potenziale oggetto di invidia.

Anche per l’utente nel setting vis a vis, l’abito e la postura sono segni da decifrare,

indizi con cui tentare di inferire il significato latente e sconosciuto di entrambi.

Così come sono da interpretare i meccanismi di difesa che inconsapevolmente l’utente

mette in atto per proteggersi dalla situazione comunque ansiogena del colloquio di

servizio sociale. Fenomeni di rimozione, di proiezione o di identificazione -attribuire

ad altre persone quanto si ritiene riprorevole per sé; appropriarsi delle qualità

desiderabili degli altri- sono i più frequenti.

All’interno del processo di aiuto, nella fase di riflessione sul primo colloquio per

l’impostazione dei successivi, al fine di focalizzare meglio il contenuto, l’area da

indagare, le ulteriori informazioni da ricercare, è importante interrogarsi sui processi

comunicativi non verbali anche quelli meno appariscenti e contradditori.

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La comunicazione scritta Una altra forma di comunicazione inter umana è la comunicazione scritta. La scrittura

costringe, sia chi scrive, sia chi legge, ad esaminare con maggiore attenzione ogni

aspetto di un problema. Inoltre potendo tornare più volte, ed in tempi diversi, su

quanto scritto essa consente di limitare eventuali incomprensioni, fraintendimenti e

distorsioni di messaggio. Infine l’annotazione dei fatti e delle opinioni consente, quando

si tratta di prendere una decisione, di precisare e ricordare le posizioni assunte da

ciascuna parte partecipante al processo di scelta.

Nel processo metodologico ad esempio, il rispetto di tutte le fasi, il rigore, l’efficacia si

basa sulla capacità dell’assistente sociale di raccogliere i dati, le informazioni, le

riflessioni in forma scritta -documentazione- .

La scrittura, l’annotazione dei fatti e delle opinioni, consente infatti:

• Di soffermarsi più volte ed in tempi diversi su una massa di informazioni raccolte,

ordinandole ai fini della individuazione e successiva delimitazione dell’area da

indagare e dei contenuti da approfondire nel corso dei colloqui.

• Di rendere più efficace le interpretazione e l’eventuale decodifica della situazione

problematica.

• Di valutare gli sbocchi delle azioni sia dell’assistente sociale che dell’utente e

formulare il piano di lavoro.

• Di definire gli obiettivi, e per quanto riguarda il contratto, di precisare e ricordare le

posizioni assunte da ciascuna parte partecipante al processo decisionale.

• Infine di inquadrare il lavoro dell’assistente sociale da parte dei colleghi del

servizio, favorendo l’adozione di categorie di lettura della situazione.

Ne consegue anche per questi motivi, come la Documentazione sia uno strumento

basilare cui dedicare tempo e spazio.

Documentazione che riguarda:

• l’esercizio della professione e si distingue in sommaria -con la prima sintesi dei

colloqui-, di processo e di valutazione.

• Il governo del servizio, cui l’assistente sociale prende parte grazie alla analisi

della domanda sociale, alla sua incidenza e/o prevalenza. Servizio come cliente

interno.

• L’informazioni a terzi. E’ il caso delle relazioni agli Enti sovraordinati, al

Tribunale, ecc.

Documentare/registrare comporta profonde modificazioni di mentalità e cultura rispetto

al rapporto con il dato empirico, con la rilevazione e la elaborazione dei dati ed il loro

uso ai fini dell’intervento e dell’azione.

Spesso il numero, la codificazione, la scrittura sono considerati come qualcosa di

impersonale che non giova alla relazione con l’utente , che non lo aiuta. E’ in questo

spazio mentale che si annida quel primato dell’agire rispetto al conoscere, rispetto al

tradurre le informazioni in dato. Erroneamente il fare sembra più importante del

conoscere.

Si ritiene che la conoscenza -codificata e teorica- provochi distanza dal problema,

poco utile di fronte a situazioni di bisogno che richiedono risposte dettate da capacità

personali di intuito, dedizione, comprensione empatica.

E’ vero invece, il contrario: solo la distanza favorisce l’agire professionale e la pratica

consapevole degli atteggiamenti professionali di attenzione, accettazione,

autodeterminazione, cambiamento. A volte l’ansia della disponibilità nasconde una

insicurezza di base.

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5.3 La Documentazione professionale Poiché il colloquio è uno strumento professionale è necessario documentarlo per

renderlo visibile e lasciarne traccia. A partire dai passaggi significativi.

DOVE (la cartella sociale ) in cui riportare:

• La preparazione del colloquio -obiettivi, ipotesi, informazioni da raccogliere, aree

da indagare-;

• La registrazione del colloquio che rispecchia o meno la rispondenza ai presupposti

della fase preparatoria e che annota le decisioni e gli accordi;

• Le riflessioni dell’assistente sociale, ossia l’analisi, i ragionamenti sulle connessioni

tra informazioni ricevute e richieste; sulla comunicazione non verbale (aspetto, tono,

atteggiamento); sugli aspetti di relazione nei confronti dell’assistente sociale

(squalifiche, alleanze, insubordinazioni) e del servizio (critiche, accuse, alleanze con

altri operatori); le tappe del processo (mosse, strategie).

• Il risultato delle riflessioni per consentire all’assistente sociale di orientarsi

coerentemente nel processo di costruzione di ulteriori ipotesi interpretative -che non

hanno valore di verità, ma solo di utilità-.

PER CHI

• Per sé, poiché l’assistente sociale deve costantemente controllare il processo

metodologico, valutare il rispetto degli obiettivi e degli impegni assunti dalle parti.

• Per il Servizio ed i colleghi, sia per inquadrare un “caso” nelle riunioni di èquipe,

che per avviare eventuali paralleli interventi.

• Per l’Organizzazione. Occorre infatti instaurare sia una prassi professionale non

casuale, controllabile, ripetibile e verificabile. Trattandosi di una attività ad alto

contenuto di lavoro occorre mettere in evidenza l’intero processo metodologico

insito nel colloquio professionale e nel processo di aiuto: preparazione, svolgimento

in sede o visita domiciliare, registrazione. Soprattutto per quanto riguarda i tempi

per unità di colloquio e unità di intervento.

PER COSA Gli scopi sono molteplici e dipendono dall’obiettivo che si è dato l’assistente sociale:

• Sostenere, o correggere se distorta, l’immagine sociale della professione e del lavoro

dell’assistente sociale.

• Pianificare il lavoro per Unità/colloquio, Unità/intervento, Unità/progetto.

• Programmare il lavoro sociale all’interno di èquipes pluridisciplinari e delimitare

gli spazi di autonomia professionale.

• Definirsi come professionista che possiede competenze che gli consentono di

scegliere una strategia di intervento non casuale, ma controllabile, ripetibile,

verificabile, rivolta a produrre cambiamento.

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La cartella sociale La cartella sociale è la modalità strumentale studiata per raccogliere in modo selettivo

e sistematico gli elementi significativi della documentazione professionale, soprattutto

per:

• Stabilire un legame tra conoscenza e intervento sociale, anche sul piano teorico e

all’interno di uno strumento non solo non casuale, costante, comparabile, ma in

quanto interno ad un servizio pubblico ufficiale.

• Dare concretezza e coerenza alla conoscenza rispetto all’obiettivo generale

dell’intervento sociale, il produrre benessere. Concretezza che potrebbe tradursi

nella realizzazione di un Osservatorio permanente dei bisogni e delle situazioni di

rischio attraverso operazioni standardizzate di connessione -tanto nell’analisi che

nelle risposte- tra i bisogni espressi via via dai singoli utenti e le dimensioni della

vita quotidiana della realtà osservata. Oltre a rappresentare un segmento del

giacimento culturale della professione

• Disporre di dati già ordinati ed implementare una Banca dati, utile non solo

all’esterno del servizio, ma funzionale alla programmazione del lavoro di

prevenzione.

La prevenzione deve essere una dimensione costante del lavoro dell’assistente

sociale; un qualsiasi intervento sul singolo non può prescindere dalla analisi delle

cause che hanno determinato il disagio o la situazione problematica. Ed è da questa

analisi documentale che si prefigura l’azione di prevenzione primaria in campo

sociale, tesa al mantenimento delle condizioni di benessere, allo stesso modo che la

prevenzione primaria in campo sanitario è tesa al mantenimento del benessere

psico-fisico individuale e collettivo.

I processi di verifica La cartella sociale rappresenta lo strumento ufficiale più funzionale e usato per quanto

attiene i processi di verifica o valutazione.

Il lavoro sociale, il processo di aiuto basato sulla relazione, sulla collaborazione a più

voci -l’assistente sociale, l’utente, l’istituzione, la rete di risorse ai vari livelli,

familiare, parentale, dei servizi, del volontariato- ha introdotto modalità di lavoro

innovative. Modalità che nonostante siano percepite come trainanti per il futuro della

organizzazione del sistema dei servizi alle persone, al momento si trovano nella

necessità di doversi legittimare, di dover dimostrare la propria efficacia.

Sugli assistenti sociali a differenza di altri operatori grava sempre l’onere della prova:

con l’utente, con i colleghi, con l’organizzazione, con il contesto allargato. L’unico

modo per accreditare il lavoro sociale e difendere l’assistente sociale dal rischio

dell’incomprensione e della sottovalutazione è la costante della verifica/valutazione in

ambito lavorativo. In particolare per due motivi:

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• In primo luogo per aiutare il singolo operatore a reggere l’incertezza che affronta

quotidianamente, a trasferire la responsabilità di scelte complesse in uno spazio

riservato alla riflessione, alla analisi, allo studio. E’ in atto un radicale mutamento

della filosofia e del raggio di azione del servizio sociale. Elementi sostanziali

dell’intervento diventano le relazioni tra i soggetti, individui e organizzazioni che

ruotano intorno alla condizione di bisogno, indipendentemente dalla loro

collocazione formale e responsabilità istituzionale. In un contesto operativo sempre

più orizzontale la costante della verifica è l’unica garanzia di non trovarsi “altrove”

senza avvedersene.

• In secondo luogo la verifica mette il servizio, inteso come complesso di prestazioni,

al riparo delle disfunzioni che si producono per la rotazione del personale. Si evita

quella perdita secca di esperienze e conoscenze possedute dagli operatori e si

favorisce invece “l’accumulazione di un patrimonio culturale ,, ossia il modo con

cui il servizio si crea una storia che può trasmettere all’esterno e soprattutto

confrontare con gli operatori delle professioni contigue.

I soggetti delle verifica sono gli operatori, gli amministratori, gli utenti in forma

associata. In questa dimensione la valutazione va vista come un processo che rende

attivi gli interlocutori, li educa al dialogo, al confronto e pone l’accento sul possesso

allargato dell’ informazione.

Oggetto della verifica o valutazione sono le prestazioni, l’operato dell’assistente sociale,

il servizio, il settore di intervento.

Nell’ambito del servizio sociale però lo sviluppo di procedure valutative incontra

particolari difficoltà, sia di ordine metodologico che tecnico, legate alla complessità

dell’oggetto indagato.

Infatti i servizi sociali producono principalmente relazioni e scambi (ovvero beni

immateriali) capaci solo in seconda istanza di veicolare o di ampliare l’accesso a risorse

e a beni materiali.

Relazioni e scambi i cui gli aspetti operativi, comunicativi e affettivi all’interno del

processo di aiuto sono influenzati dalla complessità crescente dei bisogni da un lato, e

dalla frammentazione e la specializzazione dell’ offerta dall’altro, che richiedono una

capacità di ricomposizione e di lettura sistemica dei problemi.

Nessuno scambio inoltre può mai essere uguale ad un altro nemmeno se uguale è il

tipo di problema affrontato (basso livello di standardizzazione delle proprie attività).

Inoltre ognuno degli attori coinvolti nella relazione di aiuto è immerso in flusso di

comunicazioni più ampio:

• L’assistente sociale interagisce non solo con l’utente ma anche con le sue reti

familiari e sociali e con il sistema organizzativo del proprio servizio.

• L’utente porta con sé nella relazione con l’assistente sociale il suo mondo di

esperienze pregresse e attuali e un reticolo relazionale che, per quanto povero e

disfunzionale, rappresenta un ambito di riferimento imprescindibile.

Diventa così imprevedibile, per il carattere dinamico irripetibile, plurale e

interdipendente degli scambi relazionali, la previsione degli esiti e delle conseguenze

dell’intervento.

Una multifattorialità di situazioni e condizioni che legata alla produzione di beni

immateriali (relazioni e scambi), fa sì che sia la sola professionalità la dimensione

implicata nella produzione e nella qualità, implicando l’esigenza di porre al centro del

processo valutativo non tanto l’operato dell’assistente sociale o le prestazioni, ma la

professione. Esigenza fortemente avvertita dagli assistenti sociali per il bisogno di

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aumentare la visibilità del proprio operato. Infatti, avendo spesso sofferto una sorta di

subordinazione culturale, intravedono nella valutazione una occasione per conseguire

un più pieno riconoscimento del proprio agire professionale, troppo spesso inficiato

dall’emergenza all’interno della quale gli spazi di auto-osservazione e di confronto

risultano inadeguati.

Burn out Il lavoro sociale, è quasi sempre espresso dall’incontro di due persone coinvolte in

una relazione di scambio profondo, un rapporto asimmetrico in cui un individuo è nella

condizione di offrire e gestire aiuto mentre l’altro lo richiede. Scambio che però

comporta, oltre al contatto continuo:

• Un alto carico di lavoro

• Un elevato rischio di conflitto

• Una scarsa efficacia dei risultati e una difficile valutazione degli esiti.

Tutte condizioni oggettive del lavoro sociale cui, a volte, sia per le ricorrenti

situazioni di emergenza, sia per la insufficienza di spazio per l’autoanalisi, si aggiunge

la percezione soggettiva di vivere situazioni di:

• sovraccarico lavorativo, fare troppo in troppo poco tempo, con risorse non

adeguate a causa di una più severa gestione delle risorse umane senza una

parallela razionalizzazione dell’impegno complessivo.

• Perdita di controllo del proprio lavoro, per un eccesso di approcci standard,

procedure rigide e verifiche delle prestazioni, che sembrano sottendere

messaggi di inaffidabilità o incapacità.

• Scarso riconoscimento sociale e contrattuale, soprattutto se connesso alla

adozione del lavoro a tempo determinato.

• Calo del senso di appartenenza, connessa a conflitti irrisolti con i colleghi e

superiori.

• Assenza di equità, negli incarichi professionali, promozioni, remunerazione.

• Conflitto di valori, se i principi personali e professionali non concordano con

gli obiettivi perseguiti nel contesto lavorativo.

Se queste percezioni perseverano nel tempo, il rischio di burn out è alle porte.

Il termine -bruciato, scoppiato- deriva dal mondo dello sport, e veniva attribuito

all’atleta che dopo un certo numero di successi non riusciva a ripetere le performances

passate.

Solo nel 1974 viene utilizzato dal dr. Herbert Freudenberger per definire la sindrome

dell’operatore scoppiato che colpisce soprattutto le helping professions, le professioni

di aiuto come quella dell’assistente sociale.

La sintomatologia più immediata per riconoscerlo, concerne:

• Forme di stanchezza cronica unite alla incapacità di recupero. Al mattino ci si

alza ancora più stanchi della sera. Viene meno l’energia per affrontare i

cambiamenti insiti nella consueta attività lavorativa.

• Atteggiamenti distaccati nei confronti del lavoro e dei colleghi. Rifiuto di

qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo. Negatività e cinismo di fronte alle

sollecitazioni.

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• Inefficienza, perchè qualsiasi nuovo progetto viene vissuto come opprimente,

non ritenendosi in grado di affrontarlo. Al senso di inadeguatezza fa seguito la

perdita di fiducia in se stessi che genererà, a sua volta, la perdita di fiducia degli

altri alimentando così una spirale perversa di incapacità.

Nei casi più gravi -abbastanza rari- la perdita di interesse per le persone con cui si

lavora e per cui si lavora, la fuga psicologica, comporta costi elevati. A parte i

disturbi fisici e psichici, le difficoltà relazionali che possono condurre all’uso e

all’abuso di farmaci, in termini lavorativi si trasforma in riduzione della quantità di

lavoro e della sua qualità, sino all’abbandono o alla retrocessione.

5.4 Il processo di aiuto e il procedimento metodologico Il Servizio sociale è una professione di aiuto le cui specificità professionali si

riconoscono dal modo in cui l’aiuto alla persona viene organizzato e realizzato.

Gli elementi fondamentali del processo di aiuto sono:

utente (persona, famiglia, gruppo…)

1. Protagonisti assistente sociale

istituzione

durata totale

2. Tempo tempo medio

termine obbligatorio dell’aiuto

domicilio dell’utente

3. Spazio sede dell’ente

sede dell’istituzione

4.1 problema o condizione di bisogno

4. Contenuto 4.2 aiuto focalizzato sulla persona

dato solo con il consenso dell’utente

basato sulle capacità/risorse dell’utente

inserito all’interno delle risorse dell’ente

utilizzo delle risorse (intervento socio-assistenziale)

5. Tecniche finalizzate sostegno dell’io (consulenza pisco-sociale)

Chiarificazione/orientamento (segretariato sociale)

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Nel processo di aiuto l’assistente sociale deve (per sapere, saper fare, saper essere):

Conoscere i tipi di comunicazione presenti nel contesto e nel colloquio professionale

Leggere il linguaggio non verbale

i riferimenti teorici legati a quel caso e a quel contesto

Scrivere relazioni

perizie

registrazioni del caso sulla cartella sociale

programmi

verbali

Trattare l’utente impostando un buon colloquio

impostando un buon rapporto

impostando una corretta diagnosi

impostando un piano di intervento

Verificare l’intervento con l’utente rispetto ai risultati

con l’assetto gerarchico rispetto il mandato

con il supervisore per una verifica professionale 2

Ma l’ agire professionale dell’assistente sociale, ossia il processo di aiuto, si polarizza

intorno alla ricerca di criteri, di regole, di percorsi che consentono di individuare,

organizzare, sistematizzare il come fare.

Il processo di aiuto, con l’insieme di regole, criteri e principi che lo caratterizzano, si

configura in uno schema concettuale -il procedimento metodologico- che serve

appunto ad orientare l’azione, a qualificarne l’appartenenza professionale. Ossia lo

schema concettuale e la razionalità scientifica che, nell’ambito della pratica

professionale, prevede l’applicazione oggettiva di principi e strumenti metodologici.

Niente a che vedere con il ricorso all’ intuizione o alla tradizione (vedi 1.1).

La necessità di possedere nell’attività di Servizio sociale, una guida al fare, è una

acquisizione recente e, il procedimento metodologico è un modo coerente e logico per

collegare i fatti scatenanti una situazione problematica o i sintomi di un disagio con

gli obiettivi dell’intervento che, una volta raggiunti, incidono sulle cause,

rimuovendole.

E’ un procedere di tipo induttivo perché parte dall’analisi della realtà per arrivare a

formulare ipotesi operative sul modo di affrontare o il problema oggetto dell’intervento.

E’ un metodo operativo e non speculativo, perché finalizzato al cambiamento di una

realtà o situazione data, e non solo alla conoscenza o allo studio.

Le coordinate, cui ancorare il metodo rispetto l’operatività, continuano ad essere quelle

precedentemente esposte:

• CHI, utente, assistente sociale, istituzione

2 Da: M.Cesaroni, A.Lussu, B.Rovai “Professione assistente sociale: metodologie e tecniche

dell’intervento sociale”, Ed. Dal Cerro, Pisa 2000

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• COSA, i contenuti della domanda di aiuto (problema o condizione di bisogno)

• PERCHE’, le attese e gli obiettivi (cambiamento)

• COME, le modalità dell’intervento (focalizzata sulla persona, basato sulle risorse

della persona, inserito all’interno delle risorse dell’ente)

• DOVE, il contesto (domicilio utente, sede dell’istituzione)

• QUANDO, i tempi dell’intervento (durata totale, tempo medio, termine obbligatorio

del processo di aiuto)

• CON COSA, le risorse umane e istituzionali (segretariato sciale, intervento socio-

assistenziale, consulenza psico-sociale)

Il processo metodologico si applica osservando una determinata sequenza che

garantisce correttezza e razionalità scientifica al “fare”, rendendo visibile e

trasmissibile la pratica professionale. Le fasi della sequenza sono in sintesi:

• Accoglimento della domanda e analisi della situazione

• Valutazione e individuazione obiettivi

• Elaborazione del progetto e contratto

• Realizzazione della strategia di intervento

• Conclusione e verifica (quest’ultima come costante di ciascuna fase)

Accoglimento della domanda e analisi della situazione

• La domanda, presentata ad un servizio sociale, può essere portata direttamente

dall’utente o mediata da altri (parenti, amici) o, ancora, giungere indirettamente

dall’utente tramite segnalazione (organi giudiziari, medici di base, altri servizi).La

richiesta di aiuto che perviene all’assistente sociale o è una mossa di un gioco più

ampio che al momento della richiesta non si conosce, ma nel quale l’assistente

sociale è autorizzata ad addentrarsi. Prima della presa in carico” (Ferrario)

Occorre ricordare la distinzione tra processo di aiuto e presa in carico. Il primo

riguarda l’agire professionale dell’ assistente sociale, ossia l’azione teoricamente

fondata, metodologicamente ordinata, che gli assistenti sociali collocati nei servizi

attivano per rispondere ai bisogni dei singoli e della collettività attraverso il ricorso alle

risorse professionali, istituzionali, del terzo settore, assieme alle risorse personali e

familiari del richiedente.

La presa in carico è il processo attraverso il quale il servizio, tramite l’azione degli

operatori, si assume la responsabilità operativa e professionale di intervenire a favore

delle persone che richiedono aiuto.

Valutazione e individuazione obiettivi

• La valutazione della situazione è un giudizio professionale sulla situazione ricavata

dalla elaborazione delle informazioni raccolte, confrontate con le conoscenze

teoriche possedute e con il punto di vista dell’utente relativamente al suo modo di

vivere il problema, alle sue aspettative e prospettive di soluzione

Elaborazione del progetto e contratto

• Il progetto struttura l’intervento e lo dirige; corrisponde teoricamente ad una

operazione di pensiero che, a fronte di una situazione considerata ne ipotizza

un’altra realizzabile, e risponde alla situazione definendo degli obiettivi indotti dal

problema stesso, e che si concretizzano in prestazioni/esiti da raggiungere attraverso

le azioni previste o i processi da promuovere. L’assistente sociale nel definire il

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progetto deve avere ben chiaro il quadro d’insieme nel quale convergono i soggetti

beneficiari, gli obiettivi da raggiungere, le risorse da utilizzare, le strategie, gli

strumenti e le tecniche da utilizzare, la definizione dei tempi e gli ambiti di

realizzazione del progetto..

• Il contratto è invece l’esplicito accordo tra assistente sociale e utente relativamente

allo sviluppo dell’intervento. Costituisce la parte pubblica e visibile del progetto di

intervento di servizio sociale, di cui è responsabile l’assistente sociale ma è anche

un impegno esplicito e bilaterale. In sostanza, è l’accordo che pone in evidenza gli

obiettivi, le modalità, i compiti di ogni soggetto coinvolto: organizzazione, utente,

famiglia, altri servizi tenuto conto delle risorse, dei tempi, delle verifiche.

Realizzazione della strategia di intervento

• E’ la fase che prevede la realizzazione di una serie di attività (colloqui, riunioni,

contatti, stesura di atti amministrativi, relazioni) svolte dai vari componenti del set

di aiuto. L’attuazione del piano implica una serie di interventi volti inoltre ad

ottenere cambiamenti che possono avere bersagli diversi, le persone, l’ambiente, i

servizi.

Conclusione e verifica

• La conclusione dell’intervento non segna la risoluzione del caso, ma il compimento

del progetto. La conclusione dell’intervento dovrebbe essere prevista all’interno del

progetto, per dare il messaggio all’utente che potrà uscire dalla situazione

problematica e che non avrà più bisogno dell’assistente sociale.

• La verifica, a sua volta, deve basarsi sull’intervento attuato, sull’intero processo

metodologico, sul ruolo dell’ utente, dell’operatore e degli altri operatori coinvolti,

dei servizi pubblici e privati. Ossia deve riflettere una prospettiva di ricerca che

comprende l’analisi dell’errore, il reperimento di nuove informazioni, la correzione

e la riprogettazione..

5.5 Il processo di aiuto e il progetto di intervento I principi e gli obiettivi della legislazione sociale da un lato, e del lavoro sociale

dall’altro rispetto la esclusione sono rivolti alla de-segregazione delle quote deboli di

popolazione attraverso lo sviluppo della persona umana degli emarginati e il loro pieno

inserimento sociale. Rivitalizzando ciò che è diverso (debole) in rapporto al

“normale”.

Ciò avviene attraverso il processo di aiuto e soprattutto all’interno di un progetto di

intervento, avendo presente che:

• un intervento di aiuto che prescinda dal riconoscimento delle capacità

dell’interlocutore e dal coinvolgimento nel progetto di intervento delle sue

risorse personali, rischia di innescare un processo interattivo che, invece di

sollecitare le potenzialità del soggetto in un percorso di costruzione

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dell’autostima e dell’autonomia, contribuisce a rafforzare l’inadeguatezza della

persona che viene aiutata;

• un intervento di aiuto che prescinda dalla comprensione del contesto

interpersonale e sociale entro cui il bisogno si origina, rischia di contribuire a

mantenere immutato tale contesto;

• un intervento di aiuto che si attui a prescindere dalla riflessione sulla sua

valenza costruttiva, può impedire di vedere che si sta contribuendo a

mantenere la situazione che si vuole cambiare.

Di conseguenza bisogna partire dai significati sociali che l’intervento contribuisce a

costruire, dalla considerazione delle risorse che le persone possono esprimere pur

trovandosi in una condizione di bisogno, dall’analisi del contesto e dei processi psico-

sociali all’interno dei quali la condizione di necessità si origina e si mantiene. Infatti:

1) Si hanno utenti, a volte, capaci e competenti a provvedere alla maggior parte dei

propri bisogni, che presentano delle difficoltà economiche o socio-relazionali a

causa di situazioni specifiche dagli stessi individuate. Sono persone che

attraversano un momento di crisi finanziaria (disoccupati, cassa-integrati, ammalati);

persone che appartengono a categorie socialmente svantaggiate (anziani over 75,

madri sole con figli); persone che, per la propria situazione personale o ambientale,

non hanno le risorse contestuali per risolvere i problemi (madri sole che hanno

trovato un buon lavoro prima dell’inizio dell’anno scolastico, famiglie che non

possono accudire un congiunto in ospedale). Le richieste non sono diverse da quelle

degli altri utenti, si tratta però di persone che hanno una immagine di sé positiva,

sono consapevoli di avere risorse limitate solo a causa della situazione contingente.

La domanda si dirige sulla ricerca attiva di soluzioni, perciò il progetto di intervento

non può prescindere dal riconoscimento di questa capacità e dal conseguente

personale coinvolgimento già nella fase elaborativa del progetto. Altrimenti si

rischia davvero di innescare un processo che cronicizza l’inadeguatezza temporanea

della persona che chiede aiuto.

2) Altri utenti invece non sono capaci o non riescono a leggere e a reagire a difficoltà

insorte nello stesso sistema di welfare cui sono approdati per necessità contingenti.

Ad esempio come superare o aggirare una lista di attesa eccessiva a fronte di una

sintomatologia preoccupante, oppure capire modalità e tempi di accesso per

ottenere un assegno di accompagnamento a fronte di una condizione

improvvisamente invalidante. In questi casi mancano alle persone i modelli di

utilizzo delle risorse per cui, un intervento di aiuto che prescinda dalla

comprensione della situazione personale e del contesto sociale entro cui il bisogno

si origina (condizione ansiogena o depressiva l’una, basso livello scolare o

estraneità normativa la seconda) si rischia di contribuire a mantenere immutato il

contesto e il disagio dallo stesso prodotto. Sono i casi in cui l’intervento risolutivo

può creare dipendenza perché la risposta alla mera domanda di aiuto concorre a

mantenere la condizione iniziale. Il progetto di intervento si muoverà a partire dalla

attenta conoscenza della situazione e delle risorse personali per valutare le reali

capacità di apprendimento arrivando alla offerta di informazioni e/o di

accompagnamento alle azioni necessarie per sbloccare la situazione o attivare una

procedura. E’ il classico caso in cui il lavoro sociale assume valenze pedagogico-

educative, perché mira ad accrescere la capacità delle persone a far fronte con

maggiore autonomia e responsabilità alla propria vita. Non dimentichiamo che

l’assistente sociale è un professionista che attraverso metodologie e tecniche

proprie, contribuisce a promuovere e ad attuare il sistema di sicurezza sociale nel

quale il singolo, la comunità trovano risposte adeguate ai bisogni. E che la sua

azione assume contenuti educativi essendo rivolta a sviluppare autonomia basata

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sulla intenzionalità professionale che la persona che chiede aiuto diventi l’attore

principale del cambiamento.

3) Ci sono inoltre utenti che appartengono a categorie fortemente svantaggiate, come

tossicodipendenti o sofferenti mentali, e che implicano di per sè l’incapacità

all’autosufficienza. Il progetto di intervento deve tenere conto della interdipendenza

stretta tra utente e operatore, utente e servizio all’interno di un sistema complesso,

il cui obiettivo socio-terapeutico è comunque di tipo costruttivo per migliorare, se

non modificare, la situazione di svantaggio, a livello di qualità della vita e di

percezione da parte del soggetto non tanto del contributo ricevuto dall’operatore

quanto delle risorse personali attivate dal processo di aiuto e quotidianamente

messi in gioco rispetto un obiettivo condiviso di miglioramento. 3

Il contratto è una fase del procedimento metodologico implicito al progetto di

intervento, che si esplicita in forme e modalità differenziate a seconda dell’interlocutore

e della situazione presentata.

Se si definisce contratto “un accordo sancito tra le parti”, nelle situazioni (di cui al

punto (1) l’accordo è sancito tenendo conto della stessa situazione di carattere

contingente e transitorio che, una volta superata, conduce alla conclusione

dell’intervento di aiuto.

Nelle situazioni (2) che richiedono un intervento a valenza pedagogico-educativa di

apprendimento sociale, l’accordo si delinea intorno a compiti individuati e modulati per

segmenti. Il chi fa cosa, per….è pregiudiziale.

Se la persona ha difficoltà a muoversi nel labirinto burocratico e procedurale di una

richiesta di riconoscimento di invalidità verrà invitata a procurarsi la modulistica che

letta e chiarita insieme e partendo dalle esigenze del soggetto, da iniziale causa di ansia

può trasformarsi in guida di percorso.

Verifiche in progress e controlli assumono un significato rafforzativo della volontà

messa in campo rispetto l’obiettivo di apprendimento sociale.

Nei casi (3) pensando a un TD, il contratto è esplicito, “centrato sul compito” e

soggetto a controlli formali. Ossia verterà intorno ad una serie di azioni concrete,

affidate all’utente che sperimenterà, nell’impegno di realizzarle, la possibilità di

praticare comportamenti diversi sino a farli propri se ritenuti postitivi.

L’unica cautela è che la durata del contratto sia circoscritta in un lasso di tempo dato,

perché il non rispetto delle regole e l’insuccesso dovrà essere oggetto di attenta

valutazione e verifica, con l’utente sollecitato a trovare da sé e in sé le cause e i perché.

Dalla valutazione si può partire per stilare un nuovo contratto.

3 vedi in Prospettive sociali e sanitarie n. 3/1995: “Utente, contesto, intervento”

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5.6 I servizi socio-assistenziali di base e i servizi socio-sanitari. Il sistema dei servizi sociali e socio-sanitari rappresenta l’insieme delle modalità con le

quali si traducono competenze istituzionali (servizi pubblici) e scelte solidali (No Profit)

in prestazioni ed interventi.

Le funzioni pubbliche in materia di offerta dei servizi sociali e sanitari hanno subito nel

corso degli anni vari cambiamenti di segno. La pubblica amministrazione -ossia

l’insieme dei soggetti pubblici che svolgono attività amministrative- è caratterizzata

dalla distinzione fra amministrazione diretta e amministrazione indiretta.

L’amministrazione diretta ha luogo attraverso:

• i ministeri (es. M. Grazia e Giustizia con i CSSA e i Servizi Sociali per Minori), e

con i rispettivi uffici periferici (es. Ministero degli Interni, Prefetture e Questure.

Dalle Prefetture attualmente dipendono i Nuclei Operativi Antidroga preposti alle

sanzioni amministrative ai consumatori di sostanze psicotrope, ex DPR 309/90).

• le aziende e le amministrazioni autonome -es. Poste, strade, ecc.-

L’amministrazione indiretta, avviene attraverso forme di decentramento amministrativo

e le Autonomie locali. Queste ultime sono caratterizzate da trasferimenti e deleghe di

poteri appartenenti allo Stato -Comuni, Province, Regioni-.

Nel nostro paese, i cambiamenti all’interno del sistema della sicurezza sociale non

sono mai stati repentini e con confini precisi, ma ugualmente possiamo ascriverli a tre

scenari ben individuati (come è stato richiamato in precedenza) e così definibili:

1. del centralismo settoriale o della logica corporativa (prima degli anni ’70)

2. della logica della razionalizzazione democratica e dei diritti di cittadinanza

(anni ’70 – ’80)

3. della logica della razionalità economica, della compartecipazione della spesa, del

welfare misto (anni ’90)

Il primo scenario è caratterizzato da una situazione socio-politica di consolidamento

democratico attraverso l’accentramento e il mantenimento del potere dei partiti

dell’area moderata e cattolica.

La situazione economica è in fase espansiva, autarchica, non programmata, selvaggia:

dalla ricostruzione post bellica si passa alla conquista di nuovi mercati interni ed

esteri.

Il fenomeno sociale più grave è dato dalle migrazioni interne. Un dato emblematico

riguarda la dinamica demografica di un comune della cintura torinese (Settimo): 18.000

ab. nel ’61, 26.000 ab. nel ’64, 36.000 ab. nel ’68, 43.000 ab. nel ’71.

Il sistema della sicurezza sociale a sua volta è caratterizzato dalla presenza di una

miriade di Enti, oltre 30.000.

Tutti si riconoscono per :

• una distribuzione territoriale casuale -di solito il modello è di tipo centralizzato

con diramazioni periferiche-.

• l’assenza di controllo dei flussi finanziari. (ad es. INPS; INAIL; INAM; ENPAS

INADEL e altri 28, elargiscono nel 1954 631 milioni di lire, il triplo delle spese

dei ministeri: LL.PP -219 milioni-, P.I. -234 milioni-)

• l’assenza di controllo delle prestazioni.

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• l’assenza di controllo della gestione (trasparenza). L’assetto istituzionale è

variegato: Consigli di Amministrazione, Commissari. La rigidità burocratica è una

costante.

• un target o di tipo assicurativo previdenziale o settoriale (per categorie di bisogno).

• Solo i più importanti occupano personale professionalizzato

Il secondo scenario presenta, a livello politico, la stabilizzazione dei governi moderati,

che però all’autoreferenzialità precedente aggiungono un occhio di attenzione al mondo

esterno. Nel ’68 si apre la stagione della messa in discussione del sistema sociale e

culturale e del modello organizzativo dei servizi, troppo rigido e gerarchico, con

dimensione acritica dell’utenza.

Sul piano socio-economico lo sviluppo e l’apertura verso l’esterno (competitività

internazionale) richiede servizi pubblici più funzionali ad uno sviluppo ordinato e

programmato.

Il territorio assume un ruolo significativo rispetto gli obiettivi di razionalizzazione e di

democraticità (maggiori possibilità di comunicazione tra potere economico -aziende- e

potere politico), sui quali convergono sia le leadership confindustriali che le

organizzazioni dei lavoratori e della sinistra parlamentare e sociale. Strumenti della

razionalizzazione saranno il controllo delle prestazioni attraverso forme di

partecipazione degli utenti e l’individuazione di un target universalistico.

Assistiamo così alla:

• eliminazione degli Enti inutili per contrastare soprattutto la dispersione di fondi

(L. 22.7.1975 n° 382 e seguente DPR 616/1977).

• distribuzione territoriale delle funzioni amministrative e delle competenze. Il

Comune è il titolare delle funzioni socio-assistenziali, 4 la associazione dei comuni

ha il compito strumentale della erogazione dei servizi per bacini di utenza di 50-

200.000 ab. E, precisamente ex art. 22 del DPR 616/77, di “tutte le attività che

attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di

servizi, gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in

natura, a favore dei singoli, o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono

individuati i destinatari, anche quando si tratta di forme di assistenza a categorie

determinate, escluse soltanto le funzioni relative alle prestazioni economiche di

natura previdenziale".

• Nascita dei Distretti socio-assistenziali e dei servizi sociali di base in cui operano

prevalentemente assistenti sociali.

• erogazione uniforme dei flussi finanziari.

4 Vedi in: E.Neve Il servizio sociale , tab. 5.1, pag.127 l’elenco dei servizi e delle prestazioni

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Le più significative Leggi del cambiamento riguardano:

1970 1° dicembre, L. 898 Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio

1971 16 marzo, sentenza della Corte Costituzionale che legittima l’informazione

contraccettiva; L. 1204 Tutela lavoratrici madri e L. n° 1044 istituzione asili nido

comunali

1974 Referendum abrogativo del divorzio

1975 L. 405 Consultori Familiari; L. n° 685 (TD); L. 151, Riforma del diritto di

famiglia;

Decreto istitutivo Centri Servizio Sociali Adulti (CSSA) Ministero Grazia e Giustizia;

L. 382, completamento trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni;

1977 DPR 616, Trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di assistenza

sanitaria e dei servizi sociali.

1978 13 maggio, L. 180, soppressione manicomi; 22 maggio L. 194 (IVG); 12

dicembre L. 833 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”

Il terzo scenario si apre nella instabilità e nella turbolenza socio-politica. Si registra un

diffuso rifiuto della delega incondizionata e una diminuzione dello spazio alle ideologie

assieme all’emergere prepotente delle soggettività. Alla storica classe operaia si

accompagnano nuovi soggetti: l’impiegato, il consumatore, il cittadino utente.

A livello economico abbiamo la crisi del capitalismo assistito accanto alla

mondializzazione dei mercati e delle produzioni (made in Corea).

Crisi delle Aziende di Stato, mercato del lavoro senza più certezze, posto di lavoro non

più assicurato, parcellizzazione industriale (nord est)

A livello sociale, alla riforma della riforma sanitaria, con correzioni al target

universalistico attraverso la compartecipazione della spesa, l’accorpamento delle USL

e loro trasformazione in Aziende, si accompagna una riflessione forte sul sistema di

welfare state attraverso una rilettura che vede compresenti servizi pubblici e servizi

privati del settore NO Profit, arrivando così ad una nuova definizione: welfare society.

Leggi del periodo:

1983 Legge 184 sull’adozione e sull’affidamento

1990 L. 142 di riassetto delle competenze degli EE.LL; 7 agosto L. 241 sulla

trasparenza del procedimento amministrativo; Legge 162 sulle tossicodipendenze.

1991 11 agosto, L. 266 sul volontariato, Coop. Integrate e coop sociali

1992 Legge quadro sui diritti del cittadino portatore di handicap

2000 Legge quadro 328 per il sistema di interventi e servizi sociali

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I Servizi socio-assistenziali di base, sono gestiti dai Comuni o Consorzi di Comuni

(ex DPR 616/77, art. 22; DLgs 502/92; L. 142/90; Dlgs 229/99: L. 328/00).

In Piemonte, ai sensi della L.R. 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la realizzazione del

sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di

riferimento”, i servizi sono organizzati a livello distrettuale con le seguenti Finalità:

a) superamento delle carenze del reddito familiare e contrasto della povertà;

b) mantenimento a domicilio delle persone e sviluppo della loro autonomia;

c) soddisfacimento delle esigenze di tutela residenziale e semiresidenziale delle

persone non autonome e non autosufficienti;

d) sostegno e promozione dell’infanzia, della adolescenza e delle responsabilità

familiari;

e) tutela dei diritti del minore e della donna in difficoltà;

f) piena integrazione dei soggetti disabili;

g) superamento, per quanto di competenza, degli stati di disagio sociale derivanti da

forme di dipendenza;

h) informazione e consulenza corrette e complete alle persone e alle famiglie per

favorire la fruizioni dei servizi;

i) garanzia di ogni altro intervento qualificato quale prestazione sociale a rilevanza

sanitaria e inserito tra i livelli di assistenza secondo la legislazione vigente.

Le prestazioni e i servizi essenziali (LIVEAS), per assicurare risposte adeguate alle

finalità sono identificati nelle seguenti tipologie:

1. servizio sociale professionale e segretariato sociale

2. servizio di assistenza domiciliare territoriale e di inserimento sociale

3. servizio di assistenza economica

4. servizi residenziali e semiresidenziali

5. servizi per l’affidamento e le adozioni

6. pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari.

Le aree di intervento infine riguardano:

• le politiche per le famiglie con particolare attenzione ai tempi di cura, di lavoro e

della città

• il materno-infantile

• gli anziani

• l’handicap

• i soggetti deboli (detenuti ed ex detenuti, senza fissa dimora, dipendenze da

sostanze)

• il contrasto della povertà

• l’immigrazione

Invece i servizi socio-sanitari, a carattere interdisciplinare e, al cui interno operano

medici, assistenti sociali, infermieri, psicologi, educatori professionali, sono gestiti dalle

ASL: Consultori Familiari, Servizi per le Tossicodipendenze (SERT), Servizi per la

salute mentale.

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5.7 I servizi nelle strutture periferiche dello Stato I CSSA (Centri di servizio sociale adulti) sono strutture periferiche del Ministero di

Grazia e Giustizia, un esempio di gestione diretta dello Stato.

La L. 395/90 sopprime la Direzione generale per gli Istituti di prevenzione e pena

istituendo a livello centrale il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria -DAP-

da cui dipendono a livello regionale:

- i Provveditorati con funzioni di rapporto con gli EE.LL. le ASL; amministrative e di

gestione del personale; i trattamenti intramurali.

- L’Istituto Superiore Studi Penitenziari, con compiti di formazione e specializzazione

quadri direttivi.

- I Penitenziari

- I CSSA, organismi autonomi presieduti da un direttore, preposti al settore del

sistema penitenziario definibile come “area dell’esecuzione penale esterna”, con

compiti molto complessi affidati operativamente alle assistenti sociali (600 AS

inserite in cinquantadue CSSA) ai sensi dalla legge 354/75, quali:

• Il reinserimento sociale degli ex detenuti

• Gli inserimenti lavorativi all’esterno dell’istituto carcerario

• I raccordi con le Comunità terapeutiche per TD e attività di controllo e aiuto ai

condannati TD ammessi all’affidamento in prova ;

• La concertazione con i servizi sociali di base per supportare le famiglie durante il

periodo di detenzione del congiunto o familiare e nel periodo immediatamente

successivo la detenzione (artt. 23 e 25 DPR 616/77);

• L’osservazione scientifica della personalità per l’affidamento in prova, ossia la

trasformazione delle pene detentive non superiori a tre anni in un periodo di prova

in libertà a particolari condizioni e con eventuali prescrizioni poste dal Tribunale di

sorveglianza sotto il controllo del Servizio sociale;

• L’attività di vigilanza e assistenza dei condannati ammessi alla detenzione

domiciliare, alla semilibertà, alla libertà vigilata.

Per quanto riguarda i reati commessi dai minori le competenze sono attribuite agli

Uffici distrettuali di servizio sociale, istituiti con la legge 1085/1962. In particolare

nelle fasi del procedimento penale con la raccolta di elementi conoscitivi per

l’applicazione di istituti quali il perdono giudiziale, la sospensione condizionale della

pena, il regime di semilibertà, gli affidamenti in prova.

E, ancora, collaborare nella elaborazione del piano di trattamento del minore inserito nel

circuito penale; stabilire e mantenere rapporti con la famiglia e con gli operatori dei

servizi territoriali di base.

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5.7 Il welfare state

Nel sistema di welfare le funzioni di assistenza sociale passano dall’assistenza

particolaristica e per categorie di assistiti, dagli interventi previdenziali per i lavoratori

ai servizi resi alla generalità dei cittadini.

Ad esempio gli asili nido, sorti per favorire l’inserimento lavorativo delle donne, le

refezioni scolastiche aperte per sopperire alle carenze alimentari dei bambini delle

classi disagiate, le colonie estive che avevano lo scopo di allontanarli dai “miasmi

insalubri” delle città, diventano “servizi” aperti a tutti, che rispondono ai bisogni

sociali sottratti al condizionamento economico.

Ogni qualvolta “si usa deliberatamente il potere organizzato, attraverso le leggi e

l’amministrazione, per modificare il gioco delle forze di mercato” 6ci troviamo in una

situazione di welfare state o stato sociale, che tende a:

• garantire agli individui e alle famiglie un reddito minimo indipendentemente dal

valore di mercato del loro lavoro e della loro proprietà (è il caso delle politiche

del lavoro, delle riduzioni fiscali, degli interventi integrativi, ecc.)

• restringere l’arco della insicurezza, ponendo individui e famiglie in grado di far

fronte alle contingenze sociali (malattie, vecchiaia, disoccupazione)

• assicurare che a tutti i cittadini senza differenze di status o di classe, vengano

offerti gli standard più alti, in relazione ad una gamma di servizi ritenuti

socialmente indispensabili (salute e sanità pubblica, istruzione di base e

superiore, tutela dell’ambiente).

Di conseguenza gli ambiti riguardano:

garanzie del reddito: in rapporto al lavoro (Previdenza lavorativa e post lavorativa,

ammortizzatori sociali). Fuori dal mercato del lavoro (assistenza economica)

servizi alla persona: sanità; servizi sociali (socio-assistenziali, socio-educativi, socio-

giudiziari, socio-culturali)

occupazione e lavoro: servizi per l’impiego; formazione, riqualificazione, inserimento.

Istruzione: scolarità obbligatoria, istruzione superiore e universitaria, extrascolastica.

Abitazione: sostegno all’acquisto o all’affitto della casa; recupero urbano.

Meglio ancora la seguente, più attuale, definizione di Stato sociale del sociologo

Luciano Gallino (2005) che spiega l’evoluzione e l’involuzione della situazione:

“Produrre e riprodurre l’essere umano, quale entità biologica e sociale e culturale,

comporta molti tipi di costi. Vi sono i costi necessari per ridurre gli aggravi della

malattia, degli incidenti di lavoro, della vecchiaia vissuta in solitudine. I costi per far

6 Una società che non si definisce capitalistica non ha bisogno del welfare.

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fronte alla disoccupazione involontaria, alle traversie familiari, alle improvvise crisi

economiche e sociali.

Ma anche i costi per poter godere di un tempo libero non solo marginale e di poter

scegliere liberamente se e quanto studiare, nonchè il tipo di professione che si

preferisce, indipendentemente dalle limitazioni dovute al fatto di essere nati in un

determinato strato sociale.

Lo Stato sociale (Stato del benessere), welfare state, può quindi essere definito come lo

Stato che si assume la responsabilità di coprire nella maggior parte possibile, per il

maggior numero di persone possibile, i suddetti costi di produzione e riproduzione

dell’essere umano.

Chiedendo a ciascuno un congruo contributo. E ponendo speciale attenzione ai costi

che non è nemmeno pensabile di poter coprire.

Così inteso lo Stato sociale è una grande conquista della seconda meta del secolo XX,

anche se le sue radici sono partite nell’ottocento: conquista ottenuta in gran parte con

le lotte sindacali e l’azione dei governi socialdemocratici e laburisti dell’epoca. Ma

anche con il contributo di forze conservatrici. Colui che si può definire l’inventore del

moderno Stato sociale è William Henry Beveridge, un moderato che pubblicò il primo

rapporto Social Insurance and Allied Services, in piena guerra, nel 1942 su richiesta

del governo conservatore di Winston Churchill, che poi lo adottò. Ne Beveridge né

Churchill erano mossi solamente da intenti umanitari, intendevano contrastare

l’influenza ideologica e politica dell’URSS che essi prevedevano si sarebbe estesa in

Europa dopo la guerra. Ciò significa che nelle fondamenta dello Stato sociale non c’è

soltanto una ispirazione “socialista”, ma anche una discreta dose di timore che le idee

della sinistra avessero presa sulle masse lavoratrici”.

Il percorso evolutivo del sistema dei servizi sociali, considerati la struttura operativa del

sistema di welfare, è stato sinteticamente tratteggiato nel passaggio dalla beneficenza

all’assistenza, alla previdenza. 7

Ricordando che in Italia l’evoluzione del sistema dei servizi sociali, che consegue alle

politiche di protezione sociale, ha visto in questi stessi anni, sempre più riconosciuto il

ruolo delle/degli assistenti sociali, investiti di funzioni via via più ampie: dal lavoro di

fabbrica -in una posizione ancora ambigua perchè gli assistenti sociali si trovano ad

occupare uno spazio intermedio tra gli interessi del datore di lavoro e quelli dei

lavoratori-, alla presenza negli Enti nazionali di assistenza e nelle amministrazioni

statali (ONMI, ENAOLI, AAI, Ministero di Grazia e Giustizia, ecc.).

Funzioni riconosciute agli operatori, mentre al servizio sociale non corrispondeva,

specularmente, altrettanta presenza ai tavoli delle proposte per le trasformazioni delle

politiche sociale. 7 La beneficenza è caratterizzata dalla sua natura privata e volontaria, facoltativa e discrezionale,

caritativa. Essa non dà luogo a diritti e doveri, non discende da norme giuridiche e le sue motivazioni

sono di carattere religioso e filantropico.

L’assistenza si differenzia dalla beneficenza per la sua natura pubblica, anche se ancora discrezionale,

per la sua legittimazione statuale, per la sua dipendenza da un diritto potenziale subordinato ai mezzi

finanziati disponibili e a motivazioni di controllo sociale.

La previdenza non si caratterizza soltanto per la sua derivazione pubblica, ma configura diritti oggettivi

per singole categorie di prestatori d’opera, che traggono origine nella difesa del mercato del lavoro, nel

duplice interesse del datore di lavoro e dei lavoratori. Gli universi dei destinatari degli interventi

assistenziali o dei trasferimenti diretti di reddito, di beni e servizi, sono ugualmente differenti.

La beneficenza, privata e discrezionale, si rivolge ai poveri, agli ammalati, agli esclusi; così l’assistenza

pubblica. La previdenza privilegia i lavoratori e le loro famiglie, mentre nel sistema di welfare i

destinatari dei servizi e delle prestazioni sono i cittadini in quanto tali.

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5.8 Volontariato Il terzo settore Il volontariato è un fenomeno che risale agli anni ‘90 e si iscrive a pieno titolo

nell’ambito del Terzo settore o tra gli organismi No-Profit.

Si tratta di associazioni nate dalla gente comune, tra persone animate dal senso di

responsabilità, capaci di fare al di fuori delle logiche del profitto. La motivazione

iniziale può riconoscersi nella protesta sociale, nella crisi di un welfare “garantista” e

non consapevole che attraverso l’egualitarismo (che è l’applicazione burocratica del

principio di eguaglianza) e la standardizzazione delle prestazioni, contribuisce ad

aumentare disagio e sofferenza. Sono persone convinte del valore del legame e della

relazione che riescono a fare della debolezza la propria forza. La logica è quella della

disseminazione, delle multi-attività, della messa in rete della eterogeneità. Il sapere del

volontariato è caratterizzato dallo stare nelle cose senza trasformarsi in esse, dal sentire

le storie individuali e dare importanza ai linguaggi di ogni giorno. Il fare è gratuito,

solidale, cooperativo e ricerca la trasformazione dei rapporti sociali che si realizza nei

comportamenti; un modello di alterità da vivere e non da edificare.8

Accanto a questa chiave di lettura piuttosto agiografica, è utile riflettere sugli altri

perché della nascita, della disseminazione sul territorio e della forte attrattiva del

fenomeno. Il volontariato in realtà si nutre anche della disaffezione per le istituzioni e

per l’assetto politico-istituzionale da cui esse derivano. E’ una disaffezione dalla

“politica”, una secessione dalla politica con la conseguente scelta di un ruolo da

apolide e di straniero rispetto le istituzioni. Non si riconosce l’autorità sia essa di

natura amministrativa, legislativa, giudiziaria, scolastica, militare e religiosa. E poiché

il volontario non è un eversivo, ma semplicemente un estraneo, ecco che si sostituisce

alle istituzioni testimoniando questa sua estraneità in quel fare eterogeneo e

frammentario.

Consapevole, inoltre, del suo essere No Profit e No Power, cerca alleanze e complicità

istituzionali, mettendo in campo la gratuità, la bontà, la non professionalità. Ossia

l’assenza di vincoli burocratici-organizzativi, propri del sistema pubblico.

Un campione di volontari interrogati su quale sia la definizione che meglio caratterizza

il loro impegno, rispondono:

1. per il 51% , aiutare le persone in difficoltà

2. per il 40%, migliorare la qualità della vita dei cittadini

3. per il 9%, coltivare un interesse comune ai membri della organizzazione.

Di conseguenza le funzioni del volontariato o meglio dei volontariati proprio per la

logica della “disseminazione”, possono essere così raggruppate:

8 La prima legge che ha riconosciuto il mondo associativo è la L. 11.8.1991, n° 266; la legge che ha

riconosciuto e disciplinato le cooperative sociali e, al loro interno, il ruolo di soci volontari, è la

L.8.11.1991, n° 381.

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• concorso nella risposta ai bisogni, come testimonianza del prendersi cura nei

confronti della povertà e delle emarginazioni più gravi (es. assistenza ai barboni

“Bartolomeo & C”; ammalati di AIDS);

• anticipazione nella lettura di bisogni nuovi e nella sperimentazione di risposte.

Ci sono le vecchie povertà ma anche le nuove, più difficili da esplorare e

leggere, che richiedono modalità nuove di risposta (es. per le donne sole con

figli i gruppi di auto-aiuto con l’obiettivo dell’empowerement);

• l’azione politica, ossia l’azione di sollecitazione, stimolo, controllo sulle

istituzioni (es. Il tribunale del malato, le associazioni di consumatori);

• la cultura della solidarietà, dell’impegno civile, della promozione sociale per far

fronte ai problemi della società (es. Intercultura, FAI, WWF).

Il rapporto tra volontariato e istituzioni, e tra volontari e operatori pubblici, si è snodato

attraverso più modelli:

• Il modello competitivo, dove i due settori sono impegnati nella produzione di servizi

e prestazioni paralleli, spesso alternativi e i rapporti sono improntati a una logica

fortemente strumentale di uso reciproco.

• Il modello di tipo collaborativo, fondato sulla cooperazione e sul sostegno reciproco.

Soprattutto di tipo finanziario da parte delle istituzioni pubbliche.

• Il modello del mutuo adattamento, quello più diffuso, che configura una relazione in

cui non esiste una compenetrazione tra i settori per quanto riguarda gli obiettivi e gli

orientamenti delle politiche, ma si limita al mutuo sostegno di carattere strumentale.

Da parte pubblica oltre al finanziamento, non si ritiene di esercitare una attività di

governo rispetto l’inserimento delle associazioni di volontariato nell’ambito della

rete complessiva dei servizi. Da parte del privato si risponde con la disponibilità a

una crescente gestione dei servizi, senza tuttavia accettare ingerenze interne e

organizzative. Tranne nei casi che una norma legislativa non espliciti e regolamenti

il rapporto: come ad esempio il DPR 309/90 sulle tossicodipendenze. Nel prevedere

la delega dei trattamenti riabilitativi agli Enti ausiliari (comunità terapeutiche) viene

istituito l’Albo, i criteri per la iscrizione, la tipologia delle comunità e le

professionalità richieste per gli operatori.

Più strette relazioni si stringono in modo informale tra gli operatori di entrambi i

settori. Le assistenti sociali che, a livello di territorio, riconoscono il volontariato come

risorsa per avviare e gestire i progetti di intervento, ne ricercano la collaborazione

spesso in chiave di co-progettazione (es. i Club di alcolisti in trattamento).

L’assistente sociale si trasforma nel regista di microsistemi di aiuto, in ricercatore e

organizzatore di nuove risorse ogni qualvolta il suo lavoro lo richiede.

Il volontario invece, che può essere definito come quel soggetto che si organizza con

altri per una finalità solidaristica, spinto da una forte motivazione, di impianto

autoreferenziale, personalistica e di gruppo, accetta le proposte di coinvolgimento con

diffidenza e solo a patto che sia salvaguardata la sua autonomia di azione, senza

preoccupazioni rispetto né alla trasparenza, né alla rappresentanza.

Il volontario non si pone il problema della professionalità, per lui è sufficiente la

motivazione sociale e la gratuità, domina la prassi altruista.

Il pericolo, per assistente sociale e volontari nell’ambito dei microsistemi di azione

sociale in assenza di riferimenti programmatici, è che l’una si identifichi nel welfare

state e si faccia carico del sistema assistenziale, mentre i secondi si identificano nella

spinta motivazionale facendosi carico del bene comune. Di qui l’orgoglio di

appartenenza, la concorrenza, il silenzio reciproco.

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Occorre aggiungere che, in Italia, le famiglie rappresentano ancora la principale rete di

tutela per i suoi membri, cui si aggiunge l’importanza delle reti relazionali che

producono assistenza e reciprocità, senza rientrare nella tipologia sopra definita del

volontariato vero e proprio.

Infatti l’80,3% degli italiani ha dedicato parte del suo tempo a persone che si sentivano

demotivate o depresse; il 68,6% ha aiutato persone in difficoltà; il 60,3% ha aiutato

nelle faccende domestiche una persona con cui non convive; il 59,2% ha dato soldi ha

una associazione di volontariato; il 26,6% ha svolto attività di volontariato; il 20,8% ha

partecipato a una progetti di adozione a distanza. (Rapporto Censis 2003)

5.9 Il welfare plurale Diverso è lo scenario che oggi viene disegnato dalla L. 328/2000 ”Legge quadro per la

realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.

La legge intanto si situa all’interno di un welfare plurale, nel quale soggetti pubblici e

privati condividono poteri e responsabilità nel promuovere le risorse della comunità in

risposta ai problemi dei cittadini in difficoltà.

A tale scopo la legge traccia un sistema di erogazione di prestazioni che spazia dalle

nuove forme di gestione, alla esternalizzazione, all’accreditamento, al coinvolgimento

del volontariato .

Come:

• risposta diretta dell’ente locale, ai sensi della L.142/90. Soprattutto per quel che

riguarda le povertà emergenti, le nuove esclusioni non riconosciute nelle

tradizionali “categorie di intervento”, ma attraverso soluzioni in grado di ricondurre

i progetti individuali in un sistema di inclusione e non di assistenza. (es. Le

Consulte comunali degli immigrati)

• la previsione di servizi esternalizzati, acquistati direttamente dall’ente pubblico ed

erogati dal privato o dal privato sociale. (es. assistenza domiciliare svolta da

cooperative sociali)

• l’introduzione di un sistema di servizi acquistati direttamente dai cittadini tramite

vaucher, nella logica dell’accreditamento, 9 con un controllo ex ante dell’ente

pubblico ed il ricorso alla logica di mercato (es. cattering e lavanderia a domicilio,

servizio taxi, collegamento “salvavita”)

• lo sviluppo del volontariato e dei gruppi di mutuo-auto-aiuto, nella logica del

potenziamento delle possibilità di risposta diretta della collettività ai propri bisogni

(es. famiglie affidatarie organizzate che si fanno carico non solo dei minori in

difficoltà, ma anche del destino di adulti portatori di handicap, sul modello della

organizzazione di volontariato “Dopo di noi” di Biella).

9 Interpretato nella recente legislazione sanitaria come strumento regolativo/autorizzativo basato sul

controllo di conformità a requisiti di qualità predeterminati.

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Problemi accennati e ancora aperti, perché è iniziato per la prima volta, e non solo per il

rapporto pubblico-privato, un percorso e un processo di totale rinnovamento. La legge

328/2000 infatti:

• sostituisce il testo Crispi del 1890;

• fonda il sistema delle politiche sociali -welfare di comunità-, affiancando il welfare

delle persone e delle famiglie al welfare della previdenza e della sanità in una ottica

di sistema integrato;

• ribadisce la dimensione cruciale del territorio per la definizione delle politiche

sociali e la implementazione degli interventi;

• individua i livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni sul territorio nazionale e

fissa i requisiti minimi per l’accesso.

Strumento principe di questa trasformazione sono i Piani zona, un processo di

programmazione territoriale che vede coinvolti Comuni, Aziende sanitarie locali e

Consorzi socio-assistenziali, terzo settore o volontariato. Ossia tutti i soggetti preposti

alle prestazioni sociali, socio-sanitarie e assistenziali.

I Piani di zona hanno lo scopo non solo di definire l’integrazione del sociale con il

sanitario e il terzo settore, ma anche con il sociale istituzionale dei Comuni,

rappresentato da politiche o servizi quali:

• Asili nido, centri estivi, mediazione familiare, ludoteche

• Politiche giovanili, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, Osservatori e

sportelli, Consulte

• Politiche culturali, biblioteche e formazione permanente.

• Ricorso alle risorse comunitarie per Progetti strettamente comunali o intercomunali.

• Centri diurni per anziani, politica degli alloggi per anziani e handicap, protocolli

d’intesa con l’ASL di settore.

La mission, il risultato atteso dei Piani di zona è complesso perché riguarda:

• i livelli essenziali della assistenza

• le modalità dell’integrazione socio-sanitaria e della interazione con il sociale

istituzionale

• la compatibilità dei costi all’interno dei bilanci comunali e dell’azienda sanitaria, le

economie di scala

• la reciprocità dell’assunzione delle responsabilità di programmazione,

progettazione, gestione, in forma circolare e partecipata.

• la gestione degli strumenti e delle procedure che attivano processo e percorsi

(procedimenti amministrativi, accordi di programma, protocolli d’intesa).

Sui Piani di zona incombe inoltre una difficoltà che riguarda la relativa capacità o

abitudine alla comunicazione, per linguaggi e logiche diverse, tra gli attori chiamati a

realizzare il processo di programmazione territoriale: Comuni, Consorzi e ASL.

Le Amministrazioni comunali, con la costituzione dei Consorzi socio-assistenziali

hanno effettuato la delega della gestione delle competenze in materia di assistenza quale

atto dovuto, ferma restando una incomprensione di fondo sulle modalità organizzative

dei servizi e le metodologie d’intervento degli operatori. Ne è conseguito un

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ripiegamento sul sociale istituzionale, meno programmato e più contingente che,

rappresentando una risposta ai bisogni dell’utenza collettiva di fatto accentua la

residualità dei servizi assistenziali.

Gli apparati tecnici (sistema dei servizi e operatori), a loro volta, nell’accogliere la

delega hanno iniziato a lavorare avendo come referente l’utente, ignorando sia l’utenza

allargata -cittadini e comunità-, sia la rappresentanza istituzionale delle comunità

locali.

Anzi la comunicazione tra operatori e cittadini risulta quasi inesistente. L’ assenza di

questa dimensione nella prospettiva di lavoro dei servizi dipende dal fatto che i servizi

guardano alla popolazione soprattutto in termini di utenza, ovvero guardano, e

“servono”, a quelle quote di popolazione che si rivolgono alle strutture portando

bisogni e, tendenzialmente configurano la risposta a tali bisogni in termini di prestazioni

tecniche. Una visione di questo tipo che non chiama in causa la comunità, nè nella

costruzione e nella analisi dei problemi né nella scelta delle modalità più adeguate per

gestirli, porta a lasciare in ombra l’idea che i servizi lavorano per la società nel suo

insieme e, conseguentemente, a non ritenere prioritaria la partecipazione, perdendo così

l’opportunità di influenzare la domanda.

Le ASL sembrano assolutamente e volutamente assenti, disposte eventualmente a

sostituirsi, mentre il terzo settore, tende dialogare separatamente con le istituzioni

attraverso l’offerta di collaborazione e gestione di progetti che riguardino particolari

porzioni delle aree d’intervento (materno-infantile, handicap, anziani, adulti in

difficoltà).

Ha così luogo una comunicazione per segmenti che non può che provocare disfunzioni.

Strumenti opportuni dei Piani di zona per raccordare tra loro i diversi comparti

operativi, istituzionali e non, possono essere la costituzione di più occasioni stabili

d’incontro, quali un:

Tavolo di regia, di cui fanno parte i Sindaci, i Consorsi, l’ASL, il terzo settore

Tavolo tecnico, che raccoglie organismi consortili, sistema dei servizi, esperti.

Tavoli di area, (materno-infantile o delle responsabilità familiari, handicap, anziani,

adulti in difficoltà o del contrasto della povertà, immigrazione) dove si confrontano gli

operatori dei servizi sociali e sanitari, i funzionari e gli operatori del sociale

istituzionale, il volontariato, il privato accreditato.

Il Tavolo politico o di regia ha il compito di avviare il percorso e individuare le

ipotesi programmatiche per il passaggio dell’assistenza da interventi residuali alla

definizione dei livelli essenziali, dai target per categorie all’ universalismo, dal

centralismo alle politiche territoriali.

Il Tavolo tecnico è incaricato di avviare una prima fase conoscitiva attraverso la

raccolta dei dati quali-quantitativi resi disponibili dai tavoli di area e di formulare le

ipotesi del Piano integrato, modulate per livelli di risposta e di costo e che saranno

successivamente trasmesse al tavolo di regia.

Infine, i tavoli di area, ponendo a confronto esperienze e metodologie operative,

professionalità e pratiche sociali, saranno in grado di immettere nel network di risorse

rappresentato dal cosiddetto welfare plurale elementi di circolarità delle conoscenze,

implementando così le opportunità della comunità e le risorse cui attingere per i servizi.

Il Piano di zona è un atto obbligatorio previsto:

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• Dalla legge nazionale 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema

integrato di interventi e servizi sociali”

• Dal DPR 3 maggio 2001 “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali

200-2003”

• Dalla LR 1/2004 “Norme per la realizzazione del sistema integrato di interventi

e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento”

E’ uno strumento fondamentale e obbligatorio per la definizione del Sistema integrato

degli interventi e dei servizi sociali e può anche essere utilizzato come:

• Il piano regolatore dei servizi alla persona

• Lo strumento nelle mani della comunità locale per promuovere il proprio

sviluppo

• L’atto con il quale i diversi soggetti della comunità definiscono il livello di

welfare garantibile sul territorio.

Il Piano di zona è integrato nel più generale quadro delle politiche di welfare:

⇒ sanità

⇒ ambiente

⇒ istruzione

⇒ formazione

⇒ lavoro

⇒ casa

⇒ servizi

⇒ tempo libero

⇒ trasporti

⇒ comunicazioni…..

Soprattutto rappresenta un innovativo livello di pianificazione trasversale alle politiche

settoriali di ogni singolo Ente incidente sul territorio, quali:

⇒ Provincia

⇒ ASL

⇒ Autonomie scolastiche

⇒ Centri per l’impiego

⇒ Autorità giudiziarie

⇒ C.S.S.A. Ministero della Giustizia

⇒ I.P.A.B.

⇒ Volontariato

⇒ Cooperative sociali

⇒ Confessioni religiosi

⇒ OO.SS. e patronati sindacali

La finalità generale del Piano di zona è quella di promuovere una comunità

informata, consapevole, competente e responsabile; soprattutto capace di mettere in

rete responsabilità, competenze e risorse per realizzare i propri obiettivi di

salute/benessere in funzione del proprio sviluppo.

Le finalità specifiche sono invece:

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1) Conoscere meglio il territorio, i bisogni e la domanda che esprime, i servizi e

le risorse -attive ed attivabili- nel nuovo sistema integrato degli interventi e

dei servizi sociali delle comunità locali.

2) Il coordinamento e l’integrazione delle politiche sociali con gli interventi

sanitari. Dell’istruzione, nonchè con le politiche attive della formazione, del

lavoro e della casa.

3) La cooperazione tra i diversi livelli istituzionali e tra questi e i soggetti

comunitari.

4) La costruzione di una “rete di servizi e di interventi sociali e socio-sanitari”

5) L’acquisizione di comuni metodologie di lavoro che garantiscano progetti

individualizzati e concordati.

6) La costruzione di un sistema informativo locale, accessibile e aggiornato.

7) La costruzione di una carta di cittadinanza e di un piano di comunicazione

sociale, predisposti e condivisi dai vari soggetti che partecipano al nuovo

sistema integrato.

Gli strumenti per la costruzione di un Piano di zona sono rappresentati dai

Tavoli di lavoro.

⇒ Tavolo politico, con funzioni di indirizzo politico,di regia e verifica

del Piano di zona. Composto dai rappresentanti dei Comuni, della

provincia, della ASL.

⇒ Tavolo tecnico,con funzioni di supporto tecnico al Tavolo politico e

ai tavoli di area. Composto da tecnici dei Comuni, dell’ASL, della

Provincia.

⇒ Tavoli di area. Ricoprono un ruolo strategico nella costruzione del

Piano di zona. Rappresentano il Laboratorio di idee della comunità

locale. Composti dai rappresentanti dei soggetti istituzionali e

comunitari che operano nei servizi.

Le fasi del Piano di zona sono:

⇒ definizione linee programmatiche da parte del Tavolo politico

⇒ costruzione della base conoscitiva da parte del Tavolo tecnico e dei

tavoli di area

⇒ Diagnosi della comunità da parte dei Tavoli politico, tecnico e di area

⇒ Scelta obiettivi e priorità da parte del Tavolo politico e di area

⇒ Stesura bozza di Piano del Tavolo tecnico

⇒ Allocazione delle risorse da parte del tavolo politico e di area

I Tavoli di Area sono:

• Area minori

• Area disabili

• Area adulti

• Area anziani

• Area immigrati

Al Tavolo di Area Minori si prevede inoltre la partecipazione di rappresentanti di

soggetti istituzionali quali:

• Scuole materne e elementari

• Scuole medie inferiori

• Scuole medie superiori

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• Formazione professionale

• Centro per l’impiego

• Procura della Repubblica

• IPAB

Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:

• Associazioni di volontariato

• Fondazioni

• Cooperative sociali

• OO.SS. e Patronati

• Confessioni religiose

Al Tavolo di Area Disabili i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:

• Scuole materne e elementari

• Scuole medie inferiori

• Scuole medie superiori

• Formazione professionale

• Centro per l’impiego

• Procura della Repubblica

• IPAB

Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:

• Associazioni di volontariato

• Fondazioni

• Cooperative sociali

• OO.SS. e Patronati

• Confessioni religiose

Al Tavolo di Area Adulti i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:

• CSSA Ministero della Giustizia

• Formazione professionale

• Centro per l’impiego

• Procura della Repubblica

Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:

• Associazioni di volontariato

• Fondazioni

• Cooperative sociali

• OO.SS. e Patronati

• Confessioni religiose

Al Tavolo di Area Anziani i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:

• Procura della Repubblica

Rappresentanti soggetti comunitari:

• Associazioni di volontariato

• Cooperative sociali

• OO.SS. e Patronati

• Confessioni religiose

Al Tavolo di Area Immigrati i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:

• Scuole materne e elementari

• Scuole medie inferiori

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• Scuole medie superiori

• Formazione professionale

• CSSA Ministero della Giustizia

• Procura della Repubblica

Rappresentanti soggetti comunitari:

• Associazioni di volontariato

• Cooperative sociali

• OO.SS. e Patronati

• Confessioni religiose

I rappresentanti designati non rappresentano la singola associazione di appartenenza, ma

la tipologia di interessi rappresentata.

⇒ Sono i portavoce di un interesse

⇒ Sono il raccordo tra i tavoli di Area e tutti i soggetti rappresentanti

⇒ Sono coloro che facilitano il coinvolgimento di tutti i soggetti

rappresentati

I Rappresentati di soggetti comunitari che non partecipano ai Tavoli di area:

⇒ Saranno costantemente informati sullo svolgimento del percorso nelle

sue varie fasi

⇒ Saranno chiamati a portare il proprio contributo di esperienze e di idee

per delineare la diagnosi di comunità

⇒ Saranno coinvolti nella definizione della rete di interventi e servizi

sociali della comunità locale.

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