Modulo 5 Strumenti dell’intervento sociale professionale … · rapporti con le istituzioni, con...
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Modulo 5
Strumenti dell’intervento sociale professionale
5.1 Il colloquio Altre professioni effettuano colloqui (in psicologia, in psichiatria; colloqui di controllo
come l’interrogatorio di polizia e l’interrogazione in classe; l’intervista, ecc.)
Per gli assistenti sociali è una attività peculiare. L’assistente sociale passa il suo tempo
facendo colloqui e tutto quanto si concretizza nella successiva fase dell’intervento
dipende dal colloquio.
E’ facile confondere conversazione e colloquio, perché tutti conversano. Il colloquio
professionale ha sempre uno scopo, reciprocamente accettato dagli interlocutori.
Di conseguenza non è mai soltanto uno scambio di parole tra soggetti in comunicazione,
è anche:
• ascolto, attento a cogliere il significato delle cose che l’utente dice e non dice e
orientato alla restituzione all’utente di ciò che si è compreso rispetto al
problema.
• Osservazione della meta-comunicazione (postura, gesti, reazioni emotive
evidenti).
• Riflessione, ossia la capacità di mettere in relazione parole e segnali dell’utente
con la situazione presentata e con il contesto allargato di cui è parte.
• Silenzio, come capacità costruttiva di relazione empatica, di attenzione, di
rispetto dei tempi necessari ad elaborare risposte, di riconoscimento delle
difficoltà, e spazio all’emotività.
L’empatia, la capacità cioè di entrare in comunicazione affettiva con l’altro in seguito
ad un processo di identificazione, è un momento comunicativo-relazionale che apre il
colloquio professionale.
Inoltre, poiché spesso se ne sottovaluta l’uso professionale, o meglio si sottovaluta chi
lo usa come strumento di lavoro, occorre individuarne le caratteristiche distinguendo:
1) il contesto - all’interno di un servizio (Sert, Consultorio); oppure all’interno di una
istituzione (carcere, tribunale, comunità terapeutica); a domicilio (visita domiciliare).
Contesti come il Sert, il Consultorio determinano l’accesso, selezionano la domanda e
la relazione di aiuto: consulenza, informativa, di sostegno, di controllo.
Il contesto influenza la percezione dell’utente rispetto alla funzione dell’assistente
sociale (filtro, passaggio obbligato, sostegno nel percorso terapeutico, facilitatore nei
rapporti con le istituzioni, con la Scuola, la famiglia).
Il contesto segna l’assistente sociale ed il suo lavoro (prestazioni/risorse, adempimenti
derivanti dal quadro normativo di riferimento, programmi e orientamenti del servizio).
Di conseguenza nel colloquio preliminare o durante la prima parte del colloquio occorre
chiarire sempre e definire la cornice, il contesto, perché la confusione dei contesti va di
pari passo con la confusione dei significati
2) l’utente, al fine di tutelarne i diritti; o ancora per favorire l’accesso al sistema dei
servizi. Non dimenticando che l’utente è il soggetto più competente nella lettura del suo
bisogno perché ne conosce il livello di disagio, di sopportabilità, assieme alla capacità o
meno di uscirne da solo
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3) lo scopo e gli obiettivi -raccogliere informazioni; dare informazioni; chiarire;
sostenere; coinvolgere; valutare- che devono essere condivisi.
Preparazione del colloquio/i Considerato che il colloquio non è una interazione occasionale in quanto avviene
all’interno di un dato contesto, ha degli obiettivi ed è diretto dall’assistente sociale, la
fase della impostazione e preparazione è importante. Anche per quanto riguarda la
programmazione del lavoro giornaliero e settimanale, ai fini della verifica dei tempi di
lavoro e della quantità dei carichi di lavoro. Prefigurare le tappe e i tempi di un
colloquio serve all’assistente sociale per impostare il proprio piano di lavoro e,
contestualmente, ne permette la visibilità alle professioni contigue e alla
organizzazione.
Il colloquio segue le fasi del procedimento metodologico.
Fase preliminare o di analisi della domanda sociale, della richiesta di aiuto diretta e/o
indiretta, ossia la manifestazione e il riconoscimento del problema del procedimento
metodologico. L’attenzione è rivolta sull’utente a seconda che chieda per sé, per un
amico, per un parente. Oppure sia portatore del problema di altri e questi altri sono al
corrente, lo hanno delegato, incoraggiato oppure (caso piuttosto frequente nei Sert).
Nel caso esista un inviante, occorre riflettere su chi è, in che rapporti è con l’inviato
(un medico, un altro servizio), se il caso è già noto ad altri servizi (quali e e con quali
risultati).
Si decide poi in linea di massima quali siano le informazioni da raccogliere rispetto il
problema sotteso all’invio. Da quanto tempo questo problema esista (recente, cronico,
riacutizzazione della cronicità e delle cause). Ossia il momento della raccolta delle
informazioni.
E ancora, come è stato affrontato in passato dal richiedente, o da un altro servizio e
come il richiedente intende affrontarlo ora e con quali aspettative, ossia
l’interpretazione ed eventuale decodifica del problema.
Convocazione La convocazione può riguardare anche il primo colloquio nel caso, ad esempio, che la
segnalazione avvenga da altro servizio o istituzione.
Può essere formale o informale, sempre pensata, mai improvvisata.
Può interessare l’utente o più persone.
L’esplicitazione del numero e delle relazioni tra i convocati delimita sin dall’inizio il
campo, l’ambito di intervento.
Una convocazione con Ordine del giorno connota la riunione.
Una uguale attenzione deve avere il luogo (l’ufficio dell’assistente sociale, una corsia
d’ospedale, la strada per gli operatori di strada -street’s worker-), l’orario per dare il
segno dell’accoglienza, del rispetto, della riservatezza.
Il clima accogliente, la riservatezza, la sicurezza nella relazione si sviluppano in un
servizio accessibile, informato e competente (a livelli diversi, da chi risponde al
telefono, al gestore del budget, ai “decisori”), trasparente e coerente, che non aumenti il
disorientamento.
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Non dimentichiamo che l’assistente sociale rappresenta la società e le sue norme, svolge
una funzione di controllo non poliziesca, ma ricostitutiva delle opportunità, a difesa dei
deboli.
L’assistente sociale rappresenta un servizio che si è assunto degli impegni per rendere
possibile il controllo gestito in chiave anti-emarginante, all’interno di uno specifico
ambiente materiale (spazi e arredi) e umano (le persone con ruoli diversi: uscieri,
impiegati). L’assistente sociale che accoglie e non discrimina, sostiene e
responsabilizza, deve essere inserita in una organizzazione con la quale essere in
sintonia o che realisticamente possa essere oggetto di cambiamento, stimolandone la
graduale modifica.
L’assistente sociale non può essere la sola, unica responsabile, o apparire tale (ma
dove sono i superiori?) quando la sua azione si trova ad urtare interessi consolidati,
comportamenti e abitudini radicate, a scontrarsi con omertà colpevoli e disfunzioni.
Altrimenti, nella sostanza, ci troviamo di fronte a due debolezze che si confrontano: la
persona in difficoltà, deviante rispetto i valori sociali e l’assistente sociale “avanposto
del nulla”.
Troppo spesso invece incontriamo ambienti angusti, in fondo a corridoi oscuri, spazi
ritagliati per una utenza già frustrata e innervosita da rapporti precedenti con uffici
frettolosi e impiegati sbrigativi.
Anche l’arredamento trasmette segnali, “parla”. Un arredamento di tipo sanitario,
decoroso o indecoroso, influenza positivamente o negativamente l’immagine del
servizio, ma anche della professione. Condiziona l’atteggiamento dell’utente,
condiziona la domanda.
E’ bene riflettere che assicurare un luogo di lavoro confacente alle funzioni sia del
servizio (di base o specialistico) che dell’assistente sociale o dell’èquipe, è una
responsabilità politica rispetto al mandato istituzionale, ad es. degli Enti Locali.
I servizi sociali oggi si collocano tra le misure proposte per prevenire e affrontare le
crescenti situazioni di marginalità sociale nell’ambito della popolazione di un dato
territorio, in alternativa alle passate forme di intervento assistenziale come gli istituti
per i minori, gli ospizi per i vecchi, i sussidi, le iniziative rivolte a categorie giuridiche
di assistiti (minori, orfani, illegittimi).
L’insieme delle scelte organizzative e operative effettuate in questo settore si
definisce politica dei servizi sociali: dai servizi rivolti alla intera popolazione
(distrettuali di base), ai servizi rivolti a fasce individuate di popolazione (anziani,
minori), ai servizi rivolti a specifiche aree di problemi quali la devianza, la salute
mentale, l’handicap, la tossicodipendenza, la famiglia.
E poiché si tratta di responsabilità politica occorre anche riflettere come ci sia una
stretta interdipendenza tra le risorse a disposizione di un operatore (prestazioni,
mezzi, strutture di sostegno) e le altre misure di politica sociale o di welfare.
Si rifletta, ad esempio, su
⇒ come l’orario di un asilo nido debba tenere conto degli orari di lavoro delle aziende
del territorio o come le richieste di sussidio siano maggiori o minori a seconda
dell’importo delle pensioni e del costo della vita.
⇒ Come la formazione professionale sia una risorsa per i figli delle famiglie
multiproblematiche, affinchè non entrino a loro volta nel circuito dell’assistenza.
⇒ Come l’autobus sotto casa renda più autonomi gli anziani per l’accesso alle
prestazioni ambulatoriali o ai centri diurni, e così la eliminazione delle barriere
architettoniche.
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⇒ Come l’informazione attraverso conferenze, dibattiti, cicli di film o spettacoli
teatrali, sui fenomeni emergenti di esclusione sociale possa contribuire ad arrestare
o diminuire i processi di esclusione molto più dell’intervento del singolo operatore.
⇒ Come le dismissioni precoci di anziani da ospedali sempre più aziendalizzati
influenzano e aumentano la domanda di assistenza domiciliare, e così via.
Ovvietà forse, ma che descrivono esattamente l’interdipendenza tra la struttura
economica di una comunità, i fenomeni sociali radicati o emergenti (marginalità, tasso
di invecchiamento, immigrazione, ecc.), che influenzano e prefigurano i livelli di
accesso ai servizi socio-assistenziali, la tipologia della utenza.
Svolgimento del colloquio Il tempo del colloquio deve essere definito insieme all’utente come fatto, sia di metodo
che di attenzione, o di controllo reciproco delle divagazioni, dopo il primo momento
della accoglienza (comunicazione empatica), dell’ascolto reciproco e della definizione
del contesto relazionale.
I preliminari non devono essere sottovalutati, marcano l’atmosfera e permettono di
passare dalla fase conversativa al colloquio vero e proprio.
Chiedere all’utente Cosa l’ha spinta qui? pone l’accento sul problema.
Per cosa è venuto? lo sposta sull’utente;
mentre Perché è venuto al SERT? ad esempio, accentua il ruolo istituzionale del
servizio.
Importante è sempre chiarire, precisare il ruolo dell’assistente sociale e le funzioni del
servizio.
La direzione del colloquio è nelle mani dell’assistente sociale che, sin dall’inizio, lo
orienta in modo da raccogliere le informazioni ritenute utili per la formulazione delle
ipotesi e verificare, inoltre, con l’utente le eventuali informazioni già raccolte
indirettamente. Ciò al fine di evitare il sospetto di alleanze con operatori di altri servizi
oppure dello stesso servizio, soprattutto quando si lavora inseriti in una èquipe
multidisciplinare.
Il corpo del colloquio riguarda i contenuti che nella fase di preparazione l’assistente
sociale ha deciso di trattare per non andare fuori tema o per non essere inconcludenti. A
volte è un meccanismo di difesa dell’utente che riesce a coinvolgere anche l’assistente
sociale.
I colloqui successivi sono orientati più rigidamente all’approfondimento, alle aree da
sondare, alla reiterazione e all’accertamento.
E’ sempre utile riformulare i contenuti che mano a mano vengono affrontati per
restituire all’utente il senso del processo che si sta svolgendo e restituire così un
apprendimento dalla esperienza che sta vivendo. In questo modo si lavora per la crescita
del soggetto e si liberano energie rispetto alla esigenza di autonomia personale:
obiettivo fondante della relazione professionale, indipendentemente dagli obiettivi
specifici e particolari.
Riprendere e riformulare quanto detto dall’utente significa anche comunicare che si è
ascoltato e, rendersi conto, se si è capito. Il consentire all’utente di rettificare quanto ha
detto permette di acquisire nuove visioni del problema, segna e facilita la percezione del
processo di crescita.
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Conclusione del colloquio E’ il momento della ricapitolazione di quanto di significativo è emerso, degli accordi su
impegni reciproci o futuri incontri.
Questa fase tende a dilatarsi perché, spesso, è alla fine che si affollano aspetti rilevanti
del problema, nuove chiavi di lettura, segnali di ansia.
Piuttosto che dilatare il colloquio -la cui durata è stata concordata all’inizio- è utile
prendere nota in modo formale delle ulteriori informazioni e interpretazioni,
riformularle e riproporle in modo organico al cliente, con l’impegno di riflettere ed
approfondirne il significato nell’intervallo di tempo disponibile tra un colloquio e
l’altro.
Si dà così il messaggio di aver accolto la comunicazione, ma ugualmente si
ridefiniscono le regole ed il controllo della relazione.
Riesaminare e riproporre alcune parti od alcuni aspetti della comunicazione nella fase
conclusiva, serve per tracciare la direzione del prossimo colloquio. Inoltre è una
marcatura dei ruoli.
La visita domiciliare. La scelta di svolgere il colloquio a casa dell’utente è una scelta da valutare
attentamente, anche nelle situazioni di controllo.
In qualsiasi caso bisogna avvisare l’utente per non incorrere nel pericolo della
intrusione.
Mentre i colloqui in ufficio presentano il vantaggio per l’assistente sociale del controllo
dell’ambiente fisico e dei supporti utili al colloquio (telefono, moduli, dati precedenti,
leggi e circolari esplicative, ecc.), l’abitazione del cliente permette di approfondire la
conoscenza, la comprensione diagnostica dell’utente e della sua famiglia.
L’operatore si trova in una posizione più favorevole alla risposta empatica a ciò che il
cliente dice. L’interazione familiare in vivo, l’espressione della sua individualità
nell’ambito del quotidiano (come arreda la casa, la tiene in ordine, i libri, le letture)
sono delle realtà aperte ad una osservazione professionale. La situazione familiare può
essere letta come veramente è, e non come si pensava fosse dalla descrizione.1
Nel caso particolare dei SERT, ad esempio, la visita domiciliare rappresenta un grosso
contributo per l’èquipe nel momento della definizione del programma terapeutico e
conseguenti trattamenti e/o interventi modulari.
Sempre in argomento di visite domiciliari, si richiama la necessità della loro attenta
programmazione rispetto alla programmazione complessiva dei tempi di lavoro.
Poiché richiedono un alto dispendio di tempo devono essere effettuate in giorni
prestabiliti e concordati con l’èquipe e l’organizzazione, mai lasciate alla
improvvisazione per il rispetto dell’agire professionale.
1 per un approfondimento vedi in “Prospettive sociali e sanitarie”, La visita domiciliare nel servizio
sociale: Aspetti storici , n. 1/96; Aspetti metodologici, n. 5/96
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5.2 Il colloquio e la comunicazione interpersonale: caratteristiche e proprietà Il servizio sociale è un processo di aiuto che si realizza attraverso il rapporto
interpersonale. Gli strumenti dell’assistente sociale sono dunque quelli della
comunicazione umana già descritti: il colloquio nel setting vis vis, nella visita
domiciliare, nelle riunioni e la documentazione.
La comunicazione è un processo fondamentale della vita di relazione ed implica la
reciprocità. E’ l’elemento chiave dell’agire umano e animale. Non esiste situazione di
interazione senza che avvenga una qualche forma di scambio comunicativo.
Nelle scienze sociali e di comportamento per comunicazione si intende un processo di
trasferimento di una informazione -il prodotto del processo di comunicazione- da un
sistema emittente ad un sistema ricevente. Il flusso comunicativo non è mai
unidirezionale, ma circolare implicando sempre azione e retroazione, ossia di feed back
e viceversa.
Per la comunicazione verbale valgono le sette domande di Laswell:
CHI PARLA , l’emittente
COSA DICE, il messaggio
A CHI, il ricevente
DOVE, il contesto
COME, il canale o mezzo di espressione del messaggio (linguaggio con gesti e sguardi)
e le modalità (incontri, riunioni, lettere, radio, TV)
PERCHE’, informare, suscitare e mozioni, ordinare, verificare
CON QUALE RISULTATO, feed back
L’emittente trasmette il messaggio e, pur adoperando lo stesso vocabolario e lo stesso
linguaggio del ricevente, non sempre emittente e ricevente danno lo stesso significato
alle stesse parole. Ogni persona ha un proprio codice di lettura della realtà che risente
delle sue esperienze, dell’ambiente culturale, dello stato emotivo.
Esistono inoltra slogans e stereotipi specie per sintetizzare una situazione, una
condizione della vita sociale (qualità della vita, reinserimento sociale, normalità,
anormalità) che nell’abuso comune condensano un immaginario stereotipato con il
rischio di produrre una relazione comunicativa distorta.
Di conseguenza nel colloquio di servizio sociale è importante costruire una piattaforma
comune di comunicazione, verificare il codice comune.
Perciò nella fase preparatoria di un colloquio attenzione a:
• Individuare il destinatario a cui ci si rivolge
• Scegliere i veicoli
• Abituarsi a descrivere la realtà oggettivamente, verificando la coincidenza
descrittiva con l’utente
• Accertarsi della ricezione del messaggio
• Compilare il messaggio, separando i fatti dalle interpretazione dalle sensazioni o
sentimenti.
La comunicazione non verbale
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Durante il colloquio infatti uguale attenzione richiede la metacomunicazione, tutto
quanto cioè viene affidato alla comunicazione non verbale (tonalità, voce, gestualità,
postura) che rafforzano o smorzano il contenuto del messaggio.
Nel servizio sociale nel momento in cui, con lo strumento del colloquio ci si affida alla
comunicazione verbale anche la comunicazione non verbale deve essere attentamente
controllata e conosciuta.
Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche.
Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro là dove la
parola conduce. Se poi invece della parola c’è il silenzio allora ci si fa guidare da quel
silenzio
Le funzioni della comunicazione non verbale (come sostenere il linguaggio per
esprimere emozioni, per trasmettere informazioni sulla persona, durante il colloquio o le
riunioni) riguardano:
• Cinesica, i gesti delle mani, della testa, dei piedi; simbolici, per mimare la stupidità
si batte l’indice sulla tempia; tecnici, i segnali dei cameramen; regionali, lavarsi le
mani.
• Postura, la posizione del corpo: E’ importante negli incontri di servizio sociale
perché manifesta la disponibilità o meno al rapporto interpersonale. Stare seduti con
i piedi orientati alla porta, può nascondere una volontà di fuga; diritti verso
l’assistente sociale, l’intenzione di interagire. L’atteggiamento posturale sia
dell’assistente sociale che dell’utente, segna in termini di chiusura o apertura,
dominanza o sottomissione, disponibilità o supponenza, ostilità o amicalità.
• Mimica facciale, nell’ambito della comunicazione vis a vis, il feed back trova nel
viso una incredibile fonte di verifica e di decodifica dei messaggi: approvazione,
disaccordo, ostilità.
Gli occhi soprattutto: in due persone che interagiscono positivamente il contatto
visivo è forte, in caso opposto lo sguardo è sfuggente. Una situazione emotiva non
ansiogena permette un contatto visivo prolungato, una situazione di imbarazzo
accorcia il contatto.
Nella fase del procedimento metodologico di raccolta delle informazioni , diventa
determinante questo tipo di attenzione.
• Paralinguaggio, la cantilena, le inflessioni dialettali, l’enfasi. Chi sottolinea
enfaticamente tutte le sue parole è imbarazzato; chi ride delle proprie battute chiede
assenso e sostegno.
• La prossemica, ossia la vicinanza e distanza nelle diverse tipologie: distanza intima;
distanza personale, quando allungando entrambi le braccia ci si può toccare.
Distanza sociale, per trattare gli affari impersonali. Le persone che lavorano insieme
tendono a usare la distanza sociale più prossima, quella abitualmente mantenuta
negli incontri e nei convenevoli -colloquio, visita domiciliare-.
Con la distanza politica, ci si allontana dalla sfera del coinvolgimento -riunioni,
assemblee-.
L’abbigliamento La scelta dell’abbigliamento corrisponde alla offerta della propria immagine ed un
potenziale investimento affettivo: il primo appuntamento, un colloquio di lavoro, ecc.
Disegna anche il rapporto tra i processi di identità, l’immagine del sé e del proprio
corpo, con il contesto sociale e ambientale: il look.
Esistono delle regole non scritte del presentarsi. L’attenzione al confort sottolinea la
prevalenza del non-sociale, del personale; al pudore quando invece si vogliono certi far
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tacere i segnali fisici. L’esibizione di status infine, riguarda la funzione dell’abito come
distintivo culturale: appartenenza di ceto, credenza religiosa, imitazione di modelli
sociali, ecc.
E, proprio nel mondo dei servizi -popolato per la maggioranza di donne- il corpo e
l’abito femminile hanno una particolare rilevanza simbolica e socio-culturale.
Ma anche il maschile ha i suoi segnali: i jeans, al look casual degli intellettuali, il
doppiopetto di vigogna grigia dell’organizzazione.
Dall’abbigliamento emergono come non mai i temi dell’essere, del fare, dell’apparire.
Quando l’assistente sociale, uomo o donna, nei servizi socio-sanitari non indossano il
camice, quale immagine di sé intendono proporre, trasmettere?
L’abito è utilizzato come buccia o corazza o come una elastica pelle sociale, che si
adatta alle funzioni e ai contesti diversi.
L’uso del camice, quando è una discrezionalità dell’operatore, l’avere in mano carta e
penna, quasi un completamento del proprio abbigliamento professionale sono esempi
del bisogno di sostenersi con segni formali.
Talvolta il camice è esplicitamente riconosciuto come una utile protesi, oppure perché
allude al più prestigioso ruolo medico, come nei Sert. Altro abito che rappresenta la
plasticità del ruolo è la tuta (es. terapisti della riabilitazione).
Per le assistenti sociali poi vale il look situazionale, che cambia a secondo del contesto.
Il look usato come strumento, come strategia comunicativa. Momenti formali di
rappresentanza, di affermazione sociale del ruolo, e i momenti più discreti di servizio,
come la visita domiciliare.
Esistono anche le attese di ruolo che prescrivono alle assistenti sociali di apparire, non
di eccedere. Di qui la consapevolezza, da parte dell’operatore, delle potenzialità
comunicative dell’abito che indossa.
Porsi con il proprio vestire, o atteggiarsi in modo paritario, se non simmetrico con
l’utente, può dar luogo ad una relazione confusiva, rischiando di autosqualificarsi.
A volte la squalifica si ritorce sull’interlocutore, più che agire sul ruolo dell’operatore.
Un operatore trasandato comunica disaffezione per il suo lavoro per il quale non vale la
pena di vestirsi un po’ a festa e, quindi, la persona incontrata per lavoro non è
importante.
Il richiamo alla festa, nel lavoro di cura, non è mai secondario: chi, quotidianamente si
rapporta con la sofferenza può trovarsi nella condizione emotiva del vestire dimesso,
quasi a lutto per non apparire potenziale oggetto di invidia.
Anche per l’utente nel setting vis a vis, l’abito e la postura sono segni da decifrare,
indizi con cui tentare di inferire il significato latente e sconosciuto di entrambi.
Così come sono da interpretare i meccanismi di difesa che inconsapevolmente l’utente
mette in atto per proteggersi dalla situazione comunque ansiogena del colloquio di
servizio sociale. Fenomeni di rimozione, di proiezione o di identificazione -attribuire
ad altre persone quanto si ritiene riprorevole per sé; appropriarsi delle qualità
desiderabili degli altri- sono i più frequenti.
All’interno del processo di aiuto, nella fase di riflessione sul primo colloquio per
l’impostazione dei successivi, al fine di focalizzare meglio il contenuto, l’area da
indagare, le ulteriori informazioni da ricercare, è importante interrogarsi sui processi
comunicativi non verbali anche quelli meno appariscenti e contradditori.
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La comunicazione scritta Una altra forma di comunicazione inter umana è la comunicazione scritta. La scrittura
costringe, sia chi scrive, sia chi legge, ad esaminare con maggiore attenzione ogni
aspetto di un problema. Inoltre potendo tornare più volte, ed in tempi diversi, su
quanto scritto essa consente di limitare eventuali incomprensioni, fraintendimenti e
distorsioni di messaggio. Infine l’annotazione dei fatti e delle opinioni consente, quando
si tratta di prendere una decisione, di precisare e ricordare le posizioni assunte da
ciascuna parte partecipante al processo di scelta.
Nel processo metodologico ad esempio, il rispetto di tutte le fasi, il rigore, l’efficacia si
basa sulla capacità dell’assistente sociale di raccogliere i dati, le informazioni, le
riflessioni in forma scritta -documentazione- .
La scrittura, l’annotazione dei fatti e delle opinioni, consente infatti:
• Di soffermarsi più volte ed in tempi diversi su una massa di informazioni raccolte,
ordinandole ai fini della individuazione e successiva delimitazione dell’area da
indagare e dei contenuti da approfondire nel corso dei colloqui.
• Di rendere più efficace le interpretazione e l’eventuale decodifica della situazione
problematica.
• Di valutare gli sbocchi delle azioni sia dell’assistente sociale che dell’utente e
formulare il piano di lavoro.
• Di definire gli obiettivi, e per quanto riguarda il contratto, di precisare e ricordare le
posizioni assunte da ciascuna parte partecipante al processo decisionale.
• Infine di inquadrare il lavoro dell’assistente sociale da parte dei colleghi del
servizio, favorendo l’adozione di categorie di lettura della situazione.
Ne consegue anche per questi motivi, come la Documentazione sia uno strumento
basilare cui dedicare tempo e spazio.
Documentazione che riguarda:
• l’esercizio della professione e si distingue in sommaria -con la prima sintesi dei
colloqui-, di processo e di valutazione.
• Il governo del servizio, cui l’assistente sociale prende parte grazie alla analisi
della domanda sociale, alla sua incidenza e/o prevalenza. Servizio come cliente
interno.
• L’informazioni a terzi. E’ il caso delle relazioni agli Enti sovraordinati, al
Tribunale, ecc.
Documentare/registrare comporta profonde modificazioni di mentalità e cultura rispetto
al rapporto con il dato empirico, con la rilevazione e la elaborazione dei dati ed il loro
uso ai fini dell’intervento e dell’azione.
Spesso il numero, la codificazione, la scrittura sono considerati come qualcosa di
impersonale che non giova alla relazione con l’utente , che non lo aiuta. E’ in questo
spazio mentale che si annida quel primato dell’agire rispetto al conoscere, rispetto al
tradurre le informazioni in dato. Erroneamente il fare sembra più importante del
conoscere.
Si ritiene che la conoscenza -codificata e teorica- provochi distanza dal problema,
poco utile di fronte a situazioni di bisogno che richiedono risposte dettate da capacità
personali di intuito, dedizione, comprensione empatica.
E’ vero invece, il contrario: solo la distanza favorisce l’agire professionale e la pratica
consapevole degli atteggiamenti professionali di attenzione, accettazione,
autodeterminazione, cambiamento. A volte l’ansia della disponibilità nasconde una
insicurezza di base.
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5.3 La Documentazione professionale Poiché il colloquio è uno strumento professionale è necessario documentarlo per
renderlo visibile e lasciarne traccia. A partire dai passaggi significativi.
DOVE (la cartella sociale ) in cui riportare:
• La preparazione del colloquio -obiettivi, ipotesi, informazioni da raccogliere, aree
da indagare-;
• La registrazione del colloquio che rispecchia o meno la rispondenza ai presupposti
della fase preparatoria e che annota le decisioni e gli accordi;
• Le riflessioni dell’assistente sociale, ossia l’analisi, i ragionamenti sulle connessioni
tra informazioni ricevute e richieste; sulla comunicazione non verbale (aspetto, tono,
atteggiamento); sugli aspetti di relazione nei confronti dell’assistente sociale
(squalifiche, alleanze, insubordinazioni) e del servizio (critiche, accuse, alleanze con
altri operatori); le tappe del processo (mosse, strategie).
• Il risultato delle riflessioni per consentire all’assistente sociale di orientarsi
coerentemente nel processo di costruzione di ulteriori ipotesi interpretative -che non
hanno valore di verità, ma solo di utilità-.
PER CHI
• Per sé, poiché l’assistente sociale deve costantemente controllare il processo
metodologico, valutare il rispetto degli obiettivi e degli impegni assunti dalle parti.
• Per il Servizio ed i colleghi, sia per inquadrare un “caso” nelle riunioni di èquipe,
che per avviare eventuali paralleli interventi.
• Per l’Organizzazione. Occorre infatti instaurare sia una prassi professionale non
casuale, controllabile, ripetibile e verificabile. Trattandosi di una attività ad alto
contenuto di lavoro occorre mettere in evidenza l’intero processo metodologico
insito nel colloquio professionale e nel processo di aiuto: preparazione, svolgimento
in sede o visita domiciliare, registrazione. Soprattutto per quanto riguarda i tempi
per unità di colloquio e unità di intervento.
PER COSA Gli scopi sono molteplici e dipendono dall’obiettivo che si è dato l’assistente sociale:
• Sostenere, o correggere se distorta, l’immagine sociale della professione e del lavoro
dell’assistente sociale.
• Pianificare il lavoro per Unità/colloquio, Unità/intervento, Unità/progetto.
• Programmare il lavoro sociale all’interno di èquipes pluridisciplinari e delimitare
gli spazi di autonomia professionale.
• Definirsi come professionista che possiede competenze che gli consentono di
scegliere una strategia di intervento non casuale, ma controllabile, ripetibile,
verificabile, rivolta a produrre cambiamento.
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La cartella sociale La cartella sociale è la modalità strumentale studiata per raccogliere in modo selettivo
e sistematico gli elementi significativi della documentazione professionale, soprattutto
per:
• Stabilire un legame tra conoscenza e intervento sociale, anche sul piano teorico e
all’interno di uno strumento non solo non casuale, costante, comparabile, ma in
quanto interno ad un servizio pubblico ufficiale.
• Dare concretezza e coerenza alla conoscenza rispetto all’obiettivo generale
dell’intervento sociale, il produrre benessere. Concretezza che potrebbe tradursi
nella realizzazione di un Osservatorio permanente dei bisogni e delle situazioni di
rischio attraverso operazioni standardizzate di connessione -tanto nell’analisi che
nelle risposte- tra i bisogni espressi via via dai singoli utenti e le dimensioni della
vita quotidiana della realtà osservata. Oltre a rappresentare un segmento del
giacimento culturale della professione
• Disporre di dati già ordinati ed implementare una Banca dati, utile non solo
all’esterno del servizio, ma funzionale alla programmazione del lavoro di
prevenzione.
La prevenzione deve essere una dimensione costante del lavoro dell’assistente
sociale; un qualsiasi intervento sul singolo non può prescindere dalla analisi delle
cause che hanno determinato il disagio o la situazione problematica. Ed è da questa
analisi documentale che si prefigura l’azione di prevenzione primaria in campo
sociale, tesa al mantenimento delle condizioni di benessere, allo stesso modo che la
prevenzione primaria in campo sanitario è tesa al mantenimento del benessere
psico-fisico individuale e collettivo.
I processi di verifica La cartella sociale rappresenta lo strumento ufficiale più funzionale e usato per quanto
attiene i processi di verifica o valutazione.
Il lavoro sociale, il processo di aiuto basato sulla relazione, sulla collaborazione a più
voci -l’assistente sociale, l’utente, l’istituzione, la rete di risorse ai vari livelli,
familiare, parentale, dei servizi, del volontariato- ha introdotto modalità di lavoro
innovative. Modalità che nonostante siano percepite come trainanti per il futuro della
organizzazione del sistema dei servizi alle persone, al momento si trovano nella
necessità di doversi legittimare, di dover dimostrare la propria efficacia.
Sugli assistenti sociali a differenza di altri operatori grava sempre l’onere della prova:
con l’utente, con i colleghi, con l’organizzazione, con il contesto allargato. L’unico
modo per accreditare il lavoro sociale e difendere l’assistente sociale dal rischio
dell’incomprensione e della sottovalutazione è la costante della verifica/valutazione in
ambito lavorativo. In particolare per due motivi:
70
• In primo luogo per aiutare il singolo operatore a reggere l’incertezza che affronta
quotidianamente, a trasferire la responsabilità di scelte complesse in uno spazio
riservato alla riflessione, alla analisi, allo studio. E’ in atto un radicale mutamento
della filosofia e del raggio di azione del servizio sociale. Elementi sostanziali
dell’intervento diventano le relazioni tra i soggetti, individui e organizzazioni che
ruotano intorno alla condizione di bisogno, indipendentemente dalla loro
collocazione formale e responsabilità istituzionale. In un contesto operativo sempre
più orizzontale la costante della verifica è l’unica garanzia di non trovarsi “altrove”
senza avvedersene.
• In secondo luogo la verifica mette il servizio, inteso come complesso di prestazioni,
al riparo delle disfunzioni che si producono per la rotazione del personale. Si evita
quella perdita secca di esperienze e conoscenze possedute dagli operatori e si
favorisce invece “l’accumulazione di un patrimonio culturale ,, ossia il modo con
cui il servizio si crea una storia che può trasmettere all’esterno e soprattutto
confrontare con gli operatori delle professioni contigue.
I soggetti delle verifica sono gli operatori, gli amministratori, gli utenti in forma
associata. In questa dimensione la valutazione va vista come un processo che rende
attivi gli interlocutori, li educa al dialogo, al confronto e pone l’accento sul possesso
allargato dell’ informazione.
Oggetto della verifica o valutazione sono le prestazioni, l’operato dell’assistente sociale,
il servizio, il settore di intervento.
Nell’ambito del servizio sociale però lo sviluppo di procedure valutative incontra
particolari difficoltà, sia di ordine metodologico che tecnico, legate alla complessità
dell’oggetto indagato.
Infatti i servizi sociali producono principalmente relazioni e scambi (ovvero beni
immateriali) capaci solo in seconda istanza di veicolare o di ampliare l’accesso a risorse
e a beni materiali.
Relazioni e scambi i cui gli aspetti operativi, comunicativi e affettivi all’interno del
processo di aiuto sono influenzati dalla complessità crescente dei bisogni da un lato, e
dalla frammentazione e la specializzazione dell’ offerta dall’altro, che richiedono una
capacità di ricomposizione e di lettura sistemica dei problemi.
Nessuno scambio inoltre può mai essere uguale ad un altro nemmeno se uguale è il
tipo di problema affrontato (basso livello di standardizzazione delle proprie attività).
Inoltre ognuno degli attori coinvolti nella relazione di aiuto è immerso in flusso di
comunicazioni più ampio:
• L’assistente sociale interagisce non solo con l’utente ma anche con le sue reti
familiari e sociali e con il sistema organizzativo del proprio servizio.
• L’utente porta con sé nella relazione con l’assistente sociale il suo mondo di
esperienze pregresse e attuali e un reticolo relazionale che, per quanto povero e
disfunzionale, rappresenta un ambito di riferimento imprescindibile.
Diventa così imprevedibile, per il carattere dinamico irripetibile, plurale e
interdipendente degli scambi relazionali, la previsione degli esiti e delle conseguenze
dell’intervento.
Una multifattorialità di situazioni e condizioni che legata alla produzione di beni
immateriali (relazioni e scambi), fa sì che sia la sola professionalità la dimensione
implicata nella produzione e nella qualità, implicando l’esigenza di porre al centro del
processo valutativo non tanto l’operato dell’assistente sociale o le prestazioni, ma la
professione. Esigenza fortemente avvertita dagli assistenti sociali per il bisogno di
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aumentare la visibilità del proprio operato. Infatti, avendo spesso sofferto una sorta di
subordinazione culturale, intravedono nella valutazione una occasione per conseguire
un più pieno riconoscimento del proprio agire professionale, troppo spesso inficiato
dall’emergenza all’interno della quale gli spazi di auto-osservazione e di confronto
risultano inadeguati.
Burn out Il lavoro sociale, è quasi sempre espresso dall’incontro di due persone coinvolte in
una relazione di scambio profondo, un rapporto asimmetrico in cui un individuo è nella
condizione di offrire e gestire aiuto mentre l’altro lo richiede. Scambio che però
comporta, oltre al contatto continuo:
• Un alto carico di lavoro
• Un elevato rischio di conflitto
• Una scarsa efficacia dei risultati e una difficile valutazione degli esiti.
Tutte condizioni oggettive del lavoro sociale cui, a volte, sia per le ricorrenti
situazioni di emergenza, sia per la insufficienza di spazio per l’autoanalisi, si aggiunge
la percezione soggettiva di vivere situazioni di:
• sovraccarico lavorativo, fare troppo in troppo poco tempo, con risorse non
adeguate a causa di una più severa gestione delle risorse umane senza una
parallela razionalizzazione dell’impegno complessivo.
• Perdita di controllo del proprio lavoro, per un eccesso di approcci standard,
procedure rigide e verifiche delle prestazioni, che sembrano sottendere
messaggi di inaffidabilità o incapacità.
• Scarso riconoscimento sociale e contrattuale, soprattutto se connesso alla
adozione del lavoro a tempo determinato.
• Calo del senso di appartenenza, connessa a conflitti irrisolti con i colleghi e
superiori.
• Assenza di equità, negli incarichi professionali, promozioni, remunerazione.
• Conflitto di valori, se i principi personali e professionali non concordano con
gli obiettivi perseguiti nel contesto lavorativo.
Se queste percezioni perseverano nel tempo, il rischio di burn out è alle porte.
Il termine -bruciato, scoppiato- deriva dal mondo dello sport, e veniva attribuito
all’atleta che dopo un certo numero di successi non riusciva a ripetere le performances
passate.
Solo nel 1974 viene utilizzato dal dr. Herbert Freudenberger per definire la sindrome
dell’operatore scoppiato che colpisce soprattutto le helping professions, le professioni
di aiuto come quella dell’assistente sociale.
La sintomatologia più immediata per riconoscerlo, concerne:
• Forme di stanchezza cronica unite alla incapacità di recupero. Al mattino ci si
alza ancora più stanchi della sera. Viene meno l’energia per affrontare i
cambiamenti insiti nella consueta attività lavorativa.
• Atteggiamenti distaccati nei confronti del lavoro e dei colleghi. Rifiuto di
qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo. Negatività e cinismo di fronte alle
sollecitazioni.
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• Inefficienza, perchè qualsiasi nuovo progetto viene vissuto come opprimente,
non ritenendosi in grado di affrontarlo. Al senso di inadeguatezza fa seguito la
perdita di fiducia in se stessi che genererà, a sua volta, la perdita di fiducia degli
altri alimentando così una spirale perversa di incapacità.
Nei casi più gravi -abbastanza rari- la perdita di interesse per le persone con cui si
lavora e per cui si lavora, la fuga psicologica, comporta costi elevati. A parte i
disturbi fisici e psichici, le difficoltà relazionali che possono condurre all’uso e
all’abuso di farmaci, in termini lavorativi si trasforma in riduzione della quantità di
lavoro e della sua qualità, sino all’abbandono o alla retrocessione.
5.4 Il processo di aiuto e il procedimento metodologico Il Servizio sociale è una professione di aiuto le cui specificità professionali si
riconoscono dal modo in cui l’aiuto alla persona viene organizzato e realizzato.
Gli elementi fondamentali del processo di aiuto sono:
utente (persona, famiglia, gruppo…)
1. Protagonisti assistente sociale
istituzione
durata totale
2. Tempo tempo medio
termine obbligatorio dell’aiuto
domicilio dell’utente
3. Spazio sede dell’ente
sede dell’istituzione
4.1 problema o condizione di bisogno
4. Contenuto 4.2 aiuto focalizzato sulla persona
dato solo con il consenso dell’utente
basato sulle capacità/risorse dell’utente
inserito all’interno delle risorse dell’ente
utilizzo delle risorse (intervento socio-assistenziale)
5. Tecniche finalizzate sostegno dell’io (consulenza pisco-sociale)
Chiarificazione/orientamento (segretariato sociale)
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Nel processo di aiuto l’assistente sociale deve (per sapere, saper fare, saper essere):
Conoscere i tipi di comunicazione presenti nel contesto e nel colloquio professionale
Leggere il linguaggio non verbale
i riferimenti teorici legati a quel caso e a quel contesto
Scrivere relazioni
perizie
registrazioni del caso sulla cartella sociale
programmi
verbali
Trattare l’utente impostando un buon colloquio
impostando un buon rapporto
impostando una corretta diagnosi
impostando un piano di intervento
Verificare l’intervento con l’utente rispetto ai risultati
con l’assetto gerarchico rispetto il mandato
con il supervisore per una verifica professionale 2
Ma l’ agire professionale dell’assistente sociale, ossia il processo di aiuto, si polarizza
intorno alla ricerca di criteri, di regole, di percorsi che consentono di individuare,
organizzare, sistematizzare il come fare.
Il processo di aiuto, con l’insieme di regole, criteri e principi che lo caratterizzano, si
configura in uno schema concettuale -il procedimento metodologico- che serve
appunto ad orientare l’azione, a qualificarne l’appartenenza professionale. Ossia lo
schema concettuale e la razionalità scientifica che, nell’ambito della pratica
professionale, prevede l’applicazione oggettiva di principi e strumenti metodologici.
Niente a che vedere con il ricorso all’ intuizione o alla tradizione (vedi 1.1).
La necessità di possedere nell’attività di Servizio sociale, una guida al fare, è una
acquisizione recente e, il procedimento metodologico è un modo coerente e logico per
collegare i fatti scatenanti una situazione problematica o i sintomi di un disagio con
gli obiettivi dell’intervento che, una volta raggiunti, incidono sulle cause,
rimuovendole.
E’ un procedere di tipo induttivo perché parte dall’analisi della realtà per arrivare a
formulare ipotesi operative sul modo di affrontare o il problema oggetto dell’intervento.
E’ un metodo operativo e non speculativo, perché finalizzato al cambiamento di una
realtà o situazione data, e non solo alla conoscenza o allo studio.
Le coordinate, cui ancorare il metodo rispetto l’operatività, continuano ad essere quelle
precedentemente esposte:
• CHI, utente, assistente sociale, istituzione
2 Da: M.Cesaroni, A.Lussu, B.Rovai “Professione assistente sociale: metodologie e tecniche
dell’intervento sociale”, Ed. Dal Cerro, Pisa 2000
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• COSA, i contenuti della domanda di aiuto (problema o condizione di bisogno)
• PERCHE’, le attese e gli obiettivi (cambiamento)
• COME, le modalità dell’intervento (focalizzata sulla persona, basato sulle risorse
della persona, inserito all’interno delle risorse dell’ente)
• DOVE, il contesto (domicilio utente, sede dell’istituzione)
• QUANDO, i tempi dell’intervento (durata totale, tempo medio, termine obbligatorio
del processo di aiuto)
• CON COSA, le risorse umane e istituzionali (segretariato sciale, intervento socio-
assistenziale, consulenza psico-sociale)
Il processo metodologico si applica osservando una determinata sequenza che
garantisce correttezza e razionalità scientifica al “fare”, rendendo visibile e
trasmissibile la pratica professionale. Le fasi della sequenza sono in sintesi:
• Accoglimento della domanda e analisi della situazione
• Valutazione e individuazione obiettivi
• Elaborazione del progetto e contratto
• Realizzazione della strategia di intervento
• Conclusione e verifica (quest’ultima come costante di ciascuna fase)
Accoglimento della domanda e analisi della situazione
• La domanda, presentata ad un servizio sociale, può essere portata direttamente
dall’utente o mediata da altri (parenti, amici) o, ancora, giungere indirettamente
dall’utente tramite segnalazione (organi giudiziari, medici di base, altri servizi).La
richiesta di aiuto che perviene all’assistente sociale o è una mossa di un gioco più
ampio che al momento della richiesta non si conosce, ma nel quale l’assistente
sociale è autorizzata ad addentrarsi. Prima della presa in carico” (Ferrario)
Occorre ricordare la distinzione tra processo di aiuto e presa in carico. Il primo
riguarda l’agire professionale dell’ assistente sociale, ossia l’azione teoricamente
fondata, metodologicamente ordinata, che gli assistenti sociali collocati nei servizi
attivano per rispondere ai bisogni dei singoli e della collettività attraverso il ricorso alle
risorse professionali, istituzionali, del terzo settore, assieme alle risorse personali e
familiari del richiedente.
La presa in carico è il processo attraverso il quale il servizio, tramite l’azione degli
operatori, si assume la responsabilità operativa e professionale di intervenire a favore
delle persone che richiedono aiuto.
Valutazione e individuazione obiettivi
• La valutazione della situazione è un giudizio professionale sulla situazione ricavata
dalla elaborazione delle informazioni raccolte, confrontate con le conoscenze
teoriche possedute e con il punto di vista dell’utente relativamente al suo modo di
vivere il problema, alle sue aspettative e prospettive di soluzione
Elaborazione del progetto e contratto
• Il progetto struttura l’intervento e lo dirige; corrisponde teoricamente ad una
operazione di pensiero che, a fronte di una situazione considerata ne ipotizza
un’altra realizzabile, e risponde alla situazione definendo degli obiettivi indotti dal
problema stesso, e che si concretizzano in prestazioni/esiti da raggiungere attraverso
le azioni previste o i processi da promuovere. L’assistente sociale nel definire il
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progetto deve avere ben chiaro il quadro d’insieme nel quale convergono i soggetti
beneficiari, gli obiettivi da raggiungere, le risorse da utilizzare, le strategie, gli
strumenti e le tecniche da utilizzare, la definizione dei tempi e gli ambiti di
realizzazione del progetto..
• Il contratto è invece l’esplicito accordo tra assistente sociale e utente relativamente
allo sviluppo dell’intervento. Costituisce la parte pubblica e visibile del progetto di
intervento di servizio sociale, di cui è responsabile l’assistente sociale ma è anche
un impegno esplicito e bilaterale. In sostanza, è l’accordo che pone in evidenza gli
obiettivi, le modalità, i compiti di ogni soggetto coinvolto: organizzazione, utente,
famiglia, altri servizi tenuto conto delle risorse, dei tempi, delle verifiche.
Realizzazione della strategia di intervento
• E’ la fase che prevede la realizzazione di una serie di attività (colloqui, riunioni,
contatti, stesura di atti amministrativi, relazioni) svolte dai vari componenti del set
di aiuto. L’attuazione del piano implica una serie di interventi volti inoltre ad
ottenere cambiamenti che possono avere bersagli diversi, le persone, l’ambiente, i
servizi.
Conclusione e verifica
• La conclusione dell’intervento non segna la risoluzione del caso, ma il compimento
del progetto. La conclusione dell’intervento dovrebbe essere prevista all’interno del
progetto, per dare il messaggio all’utente che potrà uscire dalla situazione
problematica e che non avrà più bisogno dell’assistente sociale.
• La verifica, a sua volta, deve basarsi sull’intervento attuato, sull’intero processo
metodologico, sul ruolo dell’ utente, dell’operatore e degli altri operatori coinvolti,
dei servizi pubblici e privati. Ossia deve riflettere una prospettiva di ricerca che
comprende l’analisi dell’errore, il reperimento di nuove informazioni, la correzione
e la riprogettazione..
5.5 Il processo di aiuto e il progetto di intervento I principi e gli obiettivi della legislazione sociale da un lato, e del lavoro sociale
dall’altro rispetto la esclusione sono rivolti alla de-segregazione delle quote deboli di
popolazione attraverso lo sviluppo della persona umana degli emarginati e il loro pieno
inserimento sociale. Rivitalizzando ciò che è diverso (debole) in rapporto al
“normale”.
Ciò avviene attraverso il processo di aiuto e soprattutto all’interno di un progetto di
intervento, avendo presente che:
• un intervento di aiuto che prescinda dal riconoscimento delle capacità
dell’interlocutore e dal coinvolgimento nel progetto di intervento delle sue
risorse personali, rischia di innescare un processo interattivo che, invece di
sollecitare le potenzialità del soggetto in un percorso di costruzione
76
dell’autostima e dell’autonomia, contribuisce a rafforzare l’inadeguatezza della
persona che viene aiutata;
• un intervento di aiuto che prescinda dalla comprensione del contesto
interpersonale e sociale entro cui il bisogno si origina, rischia di contribuire a
mantenere immutato tale contesto;
• un intervento di aiuto che si attui a prescindere dalla riflessione sulla sua
valenza costruttiva, può impedire di vedere che si sta contribuendo a
mantenere la situazione che si vuole cambiare.
Di conseguenza bisogna partire dai significati sociali che l’intervento contribuisce a
costruire, dalla considerazione delle risorse che le persone possono esprimere pur
trovandosi in una condizione di bisogno, dall’analisi del contesto e dei processi psico-
sociali all’interno dei quali la condizione di necessità si origina e si mantiene. Infatti:
1) Si hanno utenti, a volte, capaci e competenti a provvedere alla maggior parte dei
propri bisogni, che presentano delle difficoltà economiche o socio-relazionali a
causa di situazioni specifiche dagli stessi individuate. Sono persone che
attraversano un momento di crisi finanziaria (disoccupati, cassa-integrati, ammalati);
persone che appartengono a categorie socialmente svantaggiate (anziani over 75,
madri sole con figli); persone che, per la propria situazione personale o ambientale,
non hanno le risorse contestuali per risolvere i problemi (madri sole che hanno
trovato un buon lavoro prima dell’inizio dell’anno scolastico, famiglie che non
possono accudire un congiunto in ospedale). Le richieste non sono diverse da quelle
degli altri utenti, si tratta però di persone che hanno una immagine di sé positiva,
sono consapevoli di avere risorse limitate solo a causa della situazione contingente.
La domanda si dirige sulla ricerca attiva di soluzioni, perciò il progetto di intervento
non può prescindere dal riconoscimento di questa capacità e dal conseguente
personale coinvolgimento già nella fase elaborativa del progetto. Altrimenti si
rischia davvero di innescare un processo che cronicizza l’inadeguatezza temporanea
della persona che chiede aiuto.
2) Altri utenti invece non sono capaci o non riescono a leggere e a reagire a difficoltà
insorte nello stesso sistema di welfare cui sono approdati per necessità contingenti.
Ad esempio come superare o aggirare una lista di attesa eccessiva a fronte di una
sintomatologia preoccupante, oppure capire modalità e tempi di accesso per
ottenere un assegno di accompagnamento a fronte di una condizione
improvvisamente invalidante. In questi casi mancano alle persone i modelli di
utilizzo delle risorse per cui, un intervento di aiuto che prescinda dalla
comprensione della situazione personale e del contesto sociale entro cui il bisogno
si origina (condizione ansiogena o depressiva l’una, basso livello scolare o
estraneità normativa la seconda) si rischia di contribuire a mantenere immutato il
contesto e il disagio dallo stesso prodotto. Sono i casi in cui l’intervento risolutivo
può creare dipendenza perché la risposta alla mera domanda di aiuto concorre a
mantenere la condizione iniziale. Il progetto di intervento si muoverà a partire dalla
attenta conoscenza della situazione e delle risorse personali per valutare le reali
capacità di apprendimento arrivando alla offerta di informazioni e/o di
accompagnamento alle azioni necessarie per sbloccare la situazione o attivare una
procedura. E’ il classico caso in cui il lavoro sociale assume valenze pedagogico-
educative, perché mira ad accrescere la capacità delle persone a far fronte con
maggiore autonomia e responsabilità alla propria vita. Non dimentichiamo che
l’assistente sociale è un professionista che attraverso metodologie e tecniche
proprie, contribuisce a promuovere e ad attuare il sistema di sicurezza sociale nel
quale il singolo, la comunità trovano risposte adeguate ai bisogni. E che la sua
azione assume contenuti educativi essendo rivolta a sviluppare autonomia basata
77
sulla intenzionalità professionale che la persona che chiede aiuto diventi l’attore
principale del cambiamento.
3) Ci sono inoltre utenti che appartengono a categorie fortemente svantaggiate, come
tossicodipendenti o sofferenti mentali, e che implicano di per sè l’incapacità
all’autosufficienza. Il progetto di intervento deve tenere conto della interdipendenza
stretta tra utente e operatore, utente e servizio all’interno di un sistema complesso,
il cui obiettivo socio-terapeutico è comunque di tipo costruttivo per migliorare, se
non modificare, la situazione di svantaggio, a livello di qualità della vita e di
percezione da parte del soggetto non tanto del contributo ricevuto dall’operatore
quanto delle risorse personali attivate dal processo di aiuto e quotidianamente
messi in gioco rispetto un obiettivo condiviso di miglioramento. 3
Il contratto è una fase del procedimento metodologico implicito al progetto di
intervento, che si esplicita in forme e modalità differenziate a seconda dell’interlocutore
e della situazione presentata.
Se si definisce contratto “un accordo sancito tra le parti”, nelle situazioni (di cui al
punto (1) l’accordo è sancito tenendo conto della stessa situazione di carattere
contingente e transitorio che, una volta superata, conduce alla conclusione
dell’intervento di aiuto.
Nelle situazioni (2) che richiedono un intervento a valenza pedagogico-educativa di
apprendimento sociale, l’accordo si delinea intorno a compiti individuati e modulati per
segmenti. Il chi fa cosa, per….è pregiudiziale.
Se la persona ha difficoltà a muoversi nel labirinto burocratico e procedurale di una
richiesta di riconoscimento di invalidità verrà invitata a procurarsi la modulistica che
letta e chiarita insieme e partendo dalle esigenze del soggetto, da iniziale causa di ansia
può trasformarsi in guida di percorso.
Verifiche in progress e controlli assumono un significato rafforzativo della volontà
messa in campo rispetto l’obiettivo di apprendimento sociale.
Nei casi (3) pensando a un TD, il contratto è esplicito, “centrato sul compito” e
soggetto a controlli formali. Ossia verterà intorno ad una serie di azioni concrete,
affidate all’utente che sperimenterà, nell’impegno di realizzarle, la possibilità di
praticare comportamenti diversi sino a farli propri se ritenuti postitivi.
L’unica cautela è che la durata del contratto sia circoscritta in un lasso di tempo dato,
perché il non rispetto delle regole e l’insuccesso dovrà essere oggetto di attenta
valutazione e verifica, con l’utente sollecitato a trovare da sé e in sé le cause e i perché.
Dalla valutazione si può partire per stilare un nuovo contratto.
3 vedi in Prospettive sociali e sanitarie n. 3/1995: “Utente, contesto, intervento”
78
5.6 I servizi socio-assistenziali di base e i servizi socio-sanitari. Il sistema dei servizi sociali e socio-sanitari rappresenta l’insieme delle modalità con le
quali si traducono competenze istituzionali (servizi pubblici) e scelte solidali (No Profit)
in prestazioni ed interventi.
Le funzioni pubbliche in materia di offerta dei servizi sociali e sanitari hanno subito nel
corso degli anni vari cambiamenti di segno. La pubblica amministrazione -ossia
l’insieme dei soggetti pubblici che svolgono attività amministrative- è caratterizzata
dalla distinzione fra amministrazione diretta e amministrazione indiretta.
L’amministrazione diretta ha luogo attraverso:
• i ministeri (es. M. Grazia e Giustizia con i CSSA e i Servizi Sociali per Minori), e
con i rispettivi uffici periferici (es. Ministero degli Interni, Prefetture e Questure.
Dalle Prefetture attualmente dipendono i Nuclei Operativi Antidroga preposti alle
sanzioni amministrative ai consumatori di sostanze psicotrope, ex DPR 309/90).
• le aziende e le amministrazioni autonome -es. Poste, strade, ecc.-
L’amministrazione indiretta, avviene attraverso forme di decentramento amministrativo
e le Autonomie locali. Queste ultime sono caratterizzate da trasferimenti e deleghe di
poteri appartenenti allo Stato -Comuni, Province, Regioni-.
Nel nostro paese, i cambiamenti all’interno del sistema della sicurezza sociale non
sono mai stati repentini e con confini precisi, ma ugualmente possiamo ascriverli a tre
scenari ben individuati (come è stato richiamato in precedenza) e così definibili:
1. del centralismo settoriale o della logica corporativa (prima degli anni ’70)
2. della logica della razionalizzazione democratica e dei diritti di cittadinanza
(anni ’70 – ’80)
3. della logica della razionalità economica, della compartecipazione della spesa, del
welfare misto (anni ’90)
Il primo scenario è caratterizzato da una situazione socio-politica di consolidamento
democratico attraverso l’accentramento e il mantenimento del potere dei partiti
dell’area moderata e cattolica.
La situazione economica è in fase espansiva, autarchica, non programmata, selvaggia:
dalla ricostruzione post bellica si passa alla conquista di nuovi mercati interni ed
esteri.
Il fenomeno sociale più grave è dato dalle migrazioni interne. Un dato emblematico
riguarda la dinamica demografica di un comune della cintura torinese (Settimo): 18.000
ab. nel ’61, 26.000 ab. nel ’64, 36.000 ab. nel ’68, 43.000 ab. nel ’71.
Il sistema della sicurezza sociale a sua volta è caratterizzato dalla presenza di una
miriade di Enti, oltre 30.000.
Tutti si riconoscono per :
• una distribuzione territoriale casuale -di solito il modello è di tipo centralizzato
con diramazioni periferiche-.
• l’assenza di controllo dei flussi finanziari. (ad es. INPS; INAIL; INAM; ENPAS
INADEL e altri 28, elargiscono nel 1954 631 milioni di lire, il triplo delle spese
dei ministeri: LL.PP -219 milioni-, P.I. -234 milioni-)
• l’assenza di controllo delle prestazioni.
79
• l’assenza di controllo della gestione (trasparenza). L’assetto istituzionale è
variegato: Consigli di Amministrazione, Commissari. La rigidità burocratica è una
costante.
• un target o di tipo assicurativo previdenziale o settoriale (per categorie di bisogno).
• Solo i più importanti occupano personale professionalizzato
Il secondo scenario presenta, a livello politico, la stabilizzazione dei governi moderati,
che però all’autoreferenzialità precedente aggiungono un occhio di attenzione al mondo
esterno. Nel ’68 si apre la stagione della messa in discussione del sistema sociale e
culturale e del modello organizzativo dei servizi, troppo rigido e gerarchico, con
dimensione acritica dell’utenza.
Sul piano socio-economico lo sviluppo e l’apertura verso l’esterno (competitività
internazionale) richiede servizi pubblici più funzionali ad uno sviluppo ordinato e
programmato.
Il territorio assume un ruolo significativo rispetto gli obiettivi di razionalizzazione e di
democraticità (maggiori possibilità di comunicazione tra potere economico -aziende- e
potere politico), sui quali convergono sia le leadership confindustriali che le
organizzazioni dei lavoratori e della sinistra parlamentare e sociale. Strumenti della
razionalizzazione saranno il controllo delle prestazioni attraverso forme di
partecipazione degli utenti e l’individuazione di un target universalistico.
Assistiamo così alla:
• eliminazione degli Enti inutili per contrastare soprattutto la dispersione di fondi
(L. 22.7.1975 n° 382 e seguente DPR 616/1977).
• distribuzione territoriale delle funzioni amministrative e delle competenze. Il
Comune è il titolare delle funzioni socio-assistenziali, 4 la associazione dei comuni
ha il compito strumentale della erogazione dei servizi per bacini di utenza di 50-
200.000 ab. E, precisamente ex art. 22 del DPR 616/77, di “tutte le attività che
attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di
servizi, gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in
natura, a favore dei singoli, o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono
individuati i destinatari, anche quando si tratta di forme di assistenza a categorie
determinate, escluse soltanto le funzioni relative alle prestazioni economiche di
natura previdenziale".
• Nascita dei Distretti socio-assistenziali e dei servizi sociali di base in cui operano
prevalentemente assistenti sociali.
• erogazione uniforme dei flussi finanziari.
4 Vedi in: E.Neve Il servizio sociale , tab. 5.1, pag.127 l’elenco dei servizi e delle prestazioni
80
Le più significative Leggi del cambiamento riguardano:
1970 1° dicembre, L. 898 Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio
1971 16 marzo, sentenza della Corte Costituzionale che legittima l’informazione
contraccettiva; L. 1204 Tutela lavoratrici madri e L. n° 1044 istituzione asili nido
comunali
1974 Referendum abrogativo del divorzio
1975 L. 405 Consultori Familiari; L. n° 685 (TD); L. 151, Riforma del diritto di
famiglia;
Decreto istitutivo Centri Servizio Sociali Adulti (CSSA) Ministero Grazia e Giustizia;
L. 382, completamento trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni;
1977 DPR 616, Trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di assistenza
sanitaria e dei servizi sociali.
1978 13 maggio, L. 180, soppressione manicomi; 22 maggio L. 194 (IVG); 12
dicembre L. 833 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”
Il terzo scenario si apre nella instabilità e nella turbolenza socio-politica. Si registra un
diffuso rifiuto della delega incondizionata e una diminuzione dello spazio alle ideologie
assieme all’emergere prepotente delle soggettività. Alla storica classe operaia si
accompagnano nuovi soggetti: l’impiegato, il consumatore, il cittadino utente.
A livello economico abbiamo la crisi del capitalismo assistito accanto alla
mondializzazione dei mercati e delle produzioni (made in Corea).
Crisi delle Aziende di Stato, mercato del lavoro senza più certezze, posto di lavoro non
più assicurato, parcellizzazione industriale (nord est)
A livello sociale, alla riforma della riforma sanitaria, con correzioni al target
universalistico attraverso la compartecipazione della spesa, l’accorpamento delle USL
e loro trasformazione in Aziende, si accompagna una riflessione forte sul sistema di
welfare state attraverso una rilettura che vede compresenti servizi pubblici e servizi
privati del settore NO Profit, arrivando così ad una nuova definizione: welfare society.
Leggi del periodo:
1983 Legge 184 sull’adozione e sull’affidamento
1990 L. 142 di riassetto delle competenze degli EE.LL; 7 agosto L. 241 sulla
trasparenza del procedimento amministrativo; Legge 162 sulle tossicodipendenze.
1991 11 agosto, L. 266 sul volontariato, Coop. Integrate e coop sociali
1992 Legge quadro sui diritti del cittadino portatore di handicap
2000 Legge quadro 328 per il sistema di interventi e servizi sociali
81
I Servizi socio-assistenziali di base, sono gestiti dai Comuni o Consorzi di Comuni
(ex DPR 616/77, art. 22; DLgs 502/92; L. 142/90; Dlgs 229/99: L. 328/00).
In Piemonte, ai sensi della L.R. 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la realizzazione del
sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di
riferimento”, i servizi sono organizzati a livello distrettuale con le seguenti Finalità:
a) superamento delle carenze del reddito familiare e contrasto della povertà;
b) mantenimento a domicilio delle persone e sviluppo della loro autonomia;
c) soddisfacimento delle esigenze di tutela residenziale e semiresidenziale delle
persone non autonome e non autosufficienti;
d) sostegno e promozione dell’infanzia, della adolescenza e delle responsabilità
familiari;
e) tutela dei diritti del minore e della donna in difficoltà;
f) piena integrazione dei soggetti disabili;
g) superamento, per quanto di competenza, degli stati di disagio sociale derivanti da
forme di dipendenza;
h) informazione e consulenza corrette e complete alle persone e alle famiglie per
favorire la fruizioni dei servizi;
i) garanzia di ogni altro intervento qualificato quale prestazione sociale a rilevanza
sanitaria e inserito tra i livelli di assistenza secondo la legislazione vigente.
Le prestazioni e i servizi essenziali (LIVEAS), per assicurare risposte adeguate alle
finalità sono identificati nelle seguenti tipologie:
1. servizio sociale professionale e segretariato sociale
2. servizio di assistenza domiciliare territoriale e di inserimento sociale
3. servizio di assistenza economica
4. servizi residenziali e semiresidenziali
5. servizi per l’affidamento e le adozioni
6. pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari.
Le aree di intervento infine riguardano:
• le politiche per le famiglie con particolare attenzione ai tempi di cura, di lavoro e
della città
• il materno-infantile
• gli anziani
• l’handicap
• i soggetti deboli (detenuti ed ex detenuti, senza fissa dimora, dipendenze da
sostanze)
• il contrasto della povertà
• l’immigrazione
Invece i servizi socio-sanitari, a carattere interdisciplinare e, al cui interno operano
medici, assistenti sociali, infermieri, psicologi, educatori professionali, sono gestiti dalle
ASL: Consultori Familiari, Servizi per le Tossicodipendenze (SERT), Servizi per la
salute mentale.
82
5.7 I servizi nelle strutture periferiche dello Stato I CSSA (Centri di servizio sociale adulti) sono strutture periferiche del Ministero di
Grazia e Giustizia, un esempio di gestione diretta dello Stato.
La L. 395/90 sopprime la Direzione generale per gli Istituti di prevenzione e pena
istituendo a livello centrale il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria -DAP-
da cui dipendono a livello regionale:
- i Provveditorati con funzioni di rapporto con gli EE.LL. le ASL; amministrative e di
gestione del personale; i trattamenti intramurali.
- L’Istituto Superiore Studi Penitenziari, con compiti di formazione e specializzazione
quadri direttivi.
- I Penitenziari
- I CSSA, organismi autonomi presieduti da un direttore, preposti al settore del
sistema penitenziario definibile come “area dell’esecuzione penale esterna”, con
compiti molto complessi affidati operativamente alle assistenti sociali (600 AS
inserite in cinquantadue CSSA) ai sensi dalla legge 354/75, quali:
• Il reinserimento sociale degli ex detenuti
• Gli inserimenti lavorativi all’esterno dell’istituto carcerario
• I raccordi con le Comunità terapeutiche per TD e attività di controllo e aiuto ai
condannati TD ammessi all’affidamento in prova ;
• La concertazione con i servizi sociali di base per supportare le famiglie durante il
periodo di detenzione del congiunto o familiare e nel periodo immediatamente
successivo la detenzione (artt. 23 e 25 DPR 616/77);
• L’osservazione scientifica della personalità per l’affidamento in prova, ossia la
trasformazione delle pene detentive non superiori a tre anni in un periodo di prova
in libertà a particolari condizioni e con eventuali prescrizioni poste dal Tribunale di
sorveglianza sotto il controllo del Servizio sociale;
• L’attività di vigilanza e assistenza dei condannati ammessi alla detenzione
domiciliare, alla semilibertà, alla libertà vigilata.
Per quanto riguarda i reati commessi dai minori le competenze sono attribuite agli
Uffici distrettuali di servizio sociale, istituiti con la legge 1085/1962. In particolare
nelle fasi del procedimento penale con la raccolta di elementi conoscitivi per
l’applicazione di istituti quali il perdono giudiziale, la sospensione condizionale della
pena, il regime di semilibertà, gli affidamenti in prova.
E, ancora, collaborare nella elaborazione del piano di trattamento del minore inserito nel
circuito penale; stabilire e mantenere rapporti con la famiglia e con gli operatori dei
servizi territoriali di base.
83
5.7 Il welfare state
Nel sistema di welfare le funzioni di assistenza sociale passano dall’assistenza
particolaristica e per categorie di assistiti, dagli interventi previdenziali per i lavoratori
ai servizi resi alla generalità dei cittadini.
Ad esempio gli asili nido, sorti per favorire l’inserimento lavorativo delle donne, le
refezioni scolastiche aperte per sopperire alle carenze alimentari dei bambini delle
classi disagiate, le colonie estive che avevano lo scopo di allontanarli dai “miasmi
insalubri” delle città, diventano “servizi” aperti a tutti, che rispondono ai bisogni
sociali sottratti al condizionamento economico.
Ogni qualvolta “si usa deliberatamente il potere organizzato, attraverso le leggi e
l’amministrazione, per modificare il gioco delle forze di mercato” 6ci troviamo in una
situazione di welfare state o stato sociale, che tende a:
• garantire agli individui e alle famiglie un reddito minimo indipendentemente dal
valore di mercato del loro lavoro e della loro proprietà (è il caso delle politiche
del lavoro, delle riduzioni fiscali, degli interventi integrativi, ecc.)
• restringere l’arco della insicurezza, ponendo individui e famiglie in grado di far
fronte alle contingenze sociali (malattie, vecchiaia, disoccupazione)
• assicurare che a tutti i cittadini senza differenze di status o di classe, vengano
offerti gli standard più alti, in relazione ad una gamma di servizi ritenuti
socialmente indispensabili (salute e sanità pubblica, istruzione di base e
superiore, tutela dell’ambiente).
Di conseguenza gli ambiti riguardano:
garanzie del reddito: in rapporto al lavoro (Previdenza lavorativa e post lavorativa,
ammortizzatori sociali). Fuori dal mercato del lavoro (assistenza economica)
servizi alla persona: sanità; servizi sociali (socio-assistenziali, socio-educativi, socio-
giudiziari, socio-culturali)
occupazione e lavoro: servizi per l’impiego; formazione, riqualificazione, inserimento.
Istruzione: scolarità obbligatoria, istruzione superiore e universitaria, extrascolastica.
Abitazione: sostegno all’acquisto o all’affitto della casa; recupero urbano.
Meglio ancora la seguente, più attuale, definizione di Stato sociale del sociologo
Luciano Gallino (2005) che spiega l’evoluzione e l’involuzione della situazione:
“Produrre e riprodurre l’essere umano, quale entità biologica e sociale e culturale,
comporta molti tipi di costi. Vi sono i costi necessari per ridurre gli aggravi della
malattia, degli incidenti di lavoro, della vecchiaia vissuta in solitudine. I costi per far
6 Una società che non si definisce capitalistica non ha bisogno del welfare.
84
fronte alla disoccupazione involontaria, alle traversie familiari, alle improvvise crisi
economiche e sociali.
Ma anche i costi per poter godere di un tempo libero non solo marginale e di poter
scegliere liberamente se e quanto studiare, nonchè il tipo di professione che si
preferisce, indipendentemente dalle limitazioni dovute al fatto di essere nati in un
determinato strato sociale.
Lo Stato sociale (Stato del benessere), welfare state, può quindi essere definito come lo
Stato che si assume la responsabilità di coprire nella maggior parte possibile, per il
maggior numero di persone possibile, i suddetti costi di produzione e riproduzione
dell’essere umano.
Chiedendo a ciascuno un congruo contributo. E ponendo speciale attenzione ai costi
che non è nemmeno pensabile di poter coprire.
Così inteso lo Stato sociale è una grande conquista della seconda meta del secolo XX,
anche se le sue radici sono partite nell’ottocento: conquista ottenuta in gran parte con
le lotte sindacali e l’azione dei governi socialdemocratici e laburisti dell’epoca. Ma
anche con il contributo di forze conservatrici. Colui che si può definire l’inventore del
moderno Stato sociale è William Henry Beveridge, un moderato che pubblicò il primo
rapporto Social Insurance and Allied Services, in piena guerra, nel 1942 su richiesta
del governo conservatore di Winston Churchill, che poi lo adottò. Ne Beveridge né
Churchill erano mossi solamente da intenti umanitari, intendevano contrastare
l’influenza ideologica e politica dell’URSS che essi prevedevano si sarebbe estesa in
Europa dopo la guerra. Ciò significa che nelle fondamenta dello Stato sociale non c’è
soltanto una ispirazione “socialista”, ma anche una discreta dose di timore che le idee
della sinistra avessero presa sulle masse lavoratrici”.
Il percorso evolutivo del sistema dei servizi sociali, considerati la struttura operativa del
sistema di welfare, è stato sinteticamente tratteggiato nel passaggio dalla beneficenza
all’assistenza, alla previdenza. 7
Ricordando che in Italia l’evoluzione del sistema dei servizi sociali, che consegue alle
politiche di protezione sociale, ha visto in questi stessi anni, sempre più riconosciuto il
ruolo delle/degli assistenti sociali, investiti di funzioni via via più ampie: dal lavoro di
fabbrica -in una posizione ancora ambigua perchè gli assistenti sociali si trovano ad
occupare uno spazio intermedio tra gli interessi del datore di lavoro e quelli dei
lavoratori-, alla presenza negli Enti nazionali di assistenza e nelle amministrazioni
statali (ONMI, ENAOLI, AAI, Ministero di Grazia e Giustizia, ecc.).
Funzioni riconosciute agli operatori, mentre al servizio sociale non corrispondeva,
specularmente, altrettanta presenza ai tavoli delle proposte per le trasformazioni delle
politiche sociale. 7 La beneficenza è caratterizzata dalla sua natura privata e volontaria, facoltativa e discrezionale,
caritativa. Essa non dà luogo a diritti e doveri, non discende da norme giuridiche e le sue motivazioni
sono di carattere religioso e filantropico.
L’assistenza si differenzia dalla beneficenza per la sua natura pubblica, anche se ancora discrezionale,
per la sua legittimazione statuale, per la sua dipendenza da un diritto potenziale subordinato ai mezzi
finanziati disponibili e a motivazioni di controllo sociale.
La previdenza non si caratterizza soltanto per la sua derivazione pubblica, ma configura diritti oggettivi
per singole categorie di prestatori d’opera, che traggono origine nella difesa del mercato del lavoro, nel
duplice interesse del datore di lavoro e dei lavoratori. Gli universi dei destinatari degli interventi
assistenziali o dei trasferimenti diretti di reddito, di beni e servizi, sono ugualmente differenti.
La beneficenza, privata e discrezionale, si rivolge ai poveri, agli ammalati, agli esclusi; così l’assistenza
pubblica. La previdenza privilegia i lavoratori e le loro famiglie, mentre nel sistema di welfare i
destinatari dei servizi e delle prestazioni sono i cittadini in quanto tali.
85
5.8 Volontariato Il terzo settore Il volontariato è un fenomeno che risale agli anni ‘90 e si iscrive a pieno titolo
nell’ambito del Terzo settore o tra gli organismi No-Profit.
Si tratta di associazioni nate dalla gente comune, tra persone animate dal senso di
responsabilità, capaci di fare al di fuori delle logiche del profitto. La motivazione
iniziale può riconoscersi nella protesta sociale, nella crisi di un welfare “garantista” e
non consapevole che attraverso l’egualitarismo (che è l’applicazione burocratica del
principio di eguaglianza) e la standardizzazione delle prestazioni, contribuisce ad
aumentare disagio e sofferenza. Sono persone convinte del valore del legame e della
relazione che riescono a fare della debolezza la propria forza. La logica è quella della
disseminazione, delle multi-attività, della messa in rete della eterogeneità. Il sapere del
volontariato è caratterizzato dallo stare nelle cose senza trasformarsi in esse, dal sentire
le storie individuali e dare importanza ai linguaggi di ogni giorno. Il fare è gratuito,
solidale, cooperativo e ricerca la trasformazione dei rapporti sociali che si realizza nei
comportamenti; un modello di alterità da vivere e non da edificare.8
Accanto a questa chiave di lettura piuttosto agiografica, è utile riflettere sugli altri
perché della nascita, della disseminazione sul territorio e della forte attrattiva del
fenomeno. Il volontariato in realtà si nutre anche della disaffezione per le istituzioni e
per l’assetto politico-istituzionale da cui esse derivano. E’ una disaffezione dalla
“politica”, una secessione dalla politica con la conseguente scelta di un ruolo da
apolide e di straniero rispetto le istituzioni. Non si riconosce l’autorità sia essa di
natura amministrativa, legislativa, giudiziaria, scolastica, militare e religiosa. E poiché
il volontario non è un eversivo, ma semplicemente un estraneo, ecco che si sostituisce
alle istituzioni testimoniando questa sua estraneità in quel fare eterogeneo e
frammentario.
Consapevole, inoltre, del suo essere No Profit e No Power, cerca alleanze e complicità
istituzionali, mettendo in campo la gratuità, la bontà, la non professionalità. Ossia
l’assenza di vincoli burocratici-organizzativi, propri del sistema pubblico.
Un campione di volontari interrogati su quale sia la definizione che meglio caratterizza
il loro impegno, rispondono:
1. per il 51% , aiutare le persone in difficoltà
2. per il 40%, migliorare la qualità della vita dei cittadini
3. per il 9%, coltivare un interesse comune ai membri della organizzazione.
Di conseguenza le funzioni del volontariato o meglio dei volontariati proprio per la
logica della “disseminazione”, possono essere così raggruppate:
8 La prima legge che ha riconosciuto il mondo associativo è la L. 11.8.1991, n° 266; la legge che ha
riconosciuto e disciplinato le cooperative sociali e, al loro interno, il ruolo di soci volontari, è la
L.8.11.1991, n° 381.
86
• concorso nella risposta ai bisogni, come testimonianza del prendersi cura nei
confronti della povertà e delle emarginazioni più gravi (es. assistenza ai barboni
“Bartolomeo & C”; ammalati di AIDS);
• anticipazione nella lettura di bisogni nuovi e nella sperimentazione di risposte.
Ci sono le vecchie povertà ma anche le nuove, più difficili da esplorare e
leggere, che richiedono modalità nuove di risposta (es. per le donne sole con
figli i gruppi di auto-aiuto con l’obiettivo dell’empowerement);
• l’azione politica, ossia l’azione di sollecitazione, stimolo, controllo sulle
istituzioni (es. Il tribunale del malato, le associazioni di consumatori);
• la cultura della solidarietà, dell’impegno civile, della promozione sociale per far
fronte ai problemi della società (es. Intercultura, FAI, WWF).
Il rapporto tra volontariato e istituzioni, e tra volontari e operatori pubblici, si è snodato
attraverso più modelli:
• Il modello competitivo, dove i due settori sono impegnati nella produzione di servizi
e prestazioni paralleli, spesso alternativi e i rapporti sono improntati a una logica
fortemente strumentale di uso reciproco.
• Il modello di tipo collaborativo, fondato sulla cooperazione e sul sostegno reciproco.
Soprattutto di tipo finanziario da parte delle istituzioni pubbliche.
• Il modello del mutuo adattamento, quello più diffuso, che configura una relazione in
cui non esiste una compenetrazione tra i settori per quanto riguarda gli obiettivi e gli
orientamenti delle politiche, ma si limita al mutuo sostegno di carattere strumentale.
Da parte pubblica oltre al finanziamento, non si ritiene di esercitare una attività di
governo rispetto l’inserimento delle associazioni di volontariato nell’ambito della
rete complessiva dei servizi. Da parte del privato si risponde con la disponibilità a
una crescente gestione dei servizi, senza tuttavia accettare ingerenze interne e
organizzative. Tranne nei casi che una norma legislativa non espliciti e regolamenti
il rapporto: come ad esempio il DPR 309/90 sulle tossicodipendenze. Nel prevedere
la delega dei trattamenti riabilitativi agli Enti ausiliari (comunità terapeutiche) viene
istituito l’Albo, i criteri per la iscrizione, la tipologia delle comunità e le
professionalità richieste per gli operatori.
Più strette relazioni si stringono in modo informale tra gli operatori di entrambi i
settori. Le assistenti sociali che, a livello di territorio, riconoscono il volontariato come
risorsa per avviare e gestire i progetti di intervento, ne ricercano la collaborazione
spesso in chiave di co-progettazione (es. i Club di alcolisti in trattamento).
L’assistente sociale si trasforma nel regista di microsistemi di aiuto, in ricercatore e
organizzatore di nuove risorse ogni qualvolta il suo lavoro lo richiede.
Il volontario invece, che può essere definito come quel soggetto che si organizza con
altri per una finalità solidaristica, spinto da una forte motivazione, di impianto
autoreferenziale, personalistica e di gruppo, accetta le proposte di coinvolgimento con
diffidenza e solo a patto che sia salvaguardata la sua autonomia di azione, senza
preoccupazioni rispetto né alla trasparenza, né alla rappresentanza.
Il volontario non si pone il problema della professionalità, per lui è sufficiente la
motivazione sociale e la gratuità, domina la prassi altruista.
Il pericolo, per assistente sociale e volontari nell’ambito dei microsistemi di azione
sociale in assenza di riferimenti programmatici, è che l’una si identifichi nel welfare
state e si faccia carico del sistema assistenziale, mentre i secondi si identificano nella
spinta motivazionale facendosi carico del bene comune. Di qui l’orgoglio di
appartenenza, la concorrenza, il silenzio reciproco.
87
Occorre aggiungere che, in Italia, le famiglie rappresentano ancora la principale rete di
tutela per i suoi membri, cui si aggiunge l’importanza delle reti relazionali che
producono assistenza e reciprocità, senza rientrare nella tipologia sopra definita del
volontariato vero e proprio.
Infatti l’80,3% degli italiani ha dedicato parte del suo tempo a persone che si sentivano
demotivate o depresse; il 68,6% ha aiutato persone in difficoltà; il 60,3% ha aiutato
nelle faccende domestiche una persona con cui non convive; il 59,2% ha dato soldi ha
una associazione di volontariato; il 26,6% ha svolto attività di volontariato; il 20,8% ha
partecipato a una progetti di adozione a distanza. (Rapporto Censis 2003)
5.9 Il welfare plurale Diverso è lo scenario che oggi viene disegnato dalla L. 328/2000 ”Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
La legge intanto si situa all’interno di un welfare plurale, nel quale soggetti pubblici e
privati condividono poteri e responsabilità nel promuovere le risorse della comunità in
risposta ai problemi dei cittadini in difficoltà.
A tale scopo la legge traccia un sistema di erogazione di prestazioni che spazia dalle
nuove forme di gestione, alla esternalizzazione, all’accreditamento, al coinvolgimento
del volontariato .
Come:
• risposta diretta dell’ente locale, ai sensi della L.142/90. Soprattutto per quel che
riguarda le povertà emergenti, le nuove esclusioni non riconosciute nelle
tradizionali “categorie di intervento”, ma attraverso soluzioni in grado di ricondurre
i progetti individuali in un sistema di inclusione e non di assistenza. (es. Le
Consulte comunali degli immigrati)
• la previsione di servizi esternalizzati, acquistati direttamente dall’ente pubblico ed
erogati dal privato o dal privato sociale. (es. assistenza domiciliare svolta da
cooperative sociali)
• l’introduzione di un sistema di servizi acquistati direttamente dai cittadini tramite
vaucher, nella logica dell’accreditamento, 9 con un controllo ex ante dell’ente
pubblico ed il ricorso alla logica di mercato (es. cattering e lavanderia a domicilio,
servizio taxi, collegamento “salvavita”)
• lo sviluppo del volontariato e dei gruppi di mutuo-auto-aiuto, nella logica del
potenziamento delle possibilità di risposta diretta della collettività ai propri bisogni
(es. famiglie affidatarie organizzate che si fanno carico non solo dei minori in
difficoltà, ma anche del destino di adulti portatori di handicap, sul modello della
organizzazione di volontariato “Dopo di noi” di Biella).
9 Interpretato nella recente legislazione sanitaria come strumento regolativo/autorizzativo basato sul
controllo di conformità a requisiti di qualità predeterminati.
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Problemi accennati e ancora aperti, perché è iniziato per la prima volta, e non solo per il
rapporto pubblico-privato, un percorso e un processo di totale rinnovamento. La legge
328/2000 infatti:
• sostituisce il testo Crispi del 1890;
• fonda il sistema delle politiche sociali -welfare di comunità-, affiancando il welfare
delle persone e delle famiglie al welfare della previdenza e della sanità in una ottica
di sistema integrato;
• ribadisce la dimensione cruciale del territorio per la definizione delle politiche
sociali e la implementazione degli interventi;
• individua i livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni sul territorio nazionale e
fissa i requisiti minimi per l’accesso.
Strumento principe di questa trasformazione sono i Piani zona, un processo di
programmazione territoriale che vede coinvolti Comuni, Aziende sanitarie locali e
Consorzi socio-assistenziali, terzo settore o volontariato. Ossia tutti i soggetti preposti
alle prestazioni sociali, socio-sanitarie e assistenziali.
I Piani di zona hanno lo scopo non solo di definire l’integrazione del sociale con il
sanitario e il terzo settore, ma anche con il sociale istituzionale dei Comuni,
rappresentato da politiche o servizi quali:
• Asili nido, centri estivi, mediazione familiare, ludoteche
• Politiche giovanili, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, Osservatori e
sportelli, Consulte
• Politiche culturali, biblioteche e formazione permanente.
• Ricorso alle risorse comunitarie per Progetti strettamente comunali o intercomunali.
• Centri diurni per anziani, politica degli alloggi per anziani e handicap, protocolli
d’intesa con l’ASL di settore.
La mission, il risultato atteso dei Piani di zona è complesso perché riguarda:
• i livelli essenziali della assistenza
• le modalità dell’integrazione socio-sanitaria e della interazione con il sociale
istituzionale
• la compatibilità dei costi all’interno dei bilanci comunali e dell’azienda sanitaria, le
economie di scala
• la reciprocità dell’assunzione delle responsabilità di programmazione,
progettazione, gestione, in forma circolare e partecipata.
• la gestione degli strumenti e delle procedure che attivano processo e percorsi
(procedimenti amministrativi, accordi di programma, protocolli d’intesa).
Sui Piani di zona incombe inoltre una difficoltà che riguarda la relativa capacità o
abitudine alla comunicazione, per linguaggi e logiche diverse, tra gli attori chiamati a
realizzare il processo di programmazione territoriale: Comuni, Consorzi e ASL.
Le Amministrazioni comunali, con la costituzione dei Consorzi socio-assistenziali
hanno effettuato la delega della gestione delle competenze in materia di assistenza quale
atto dovuto, ferma restando una incomprensione di fondo sulle modalità organizzative
dei servizi e le metodologie d’intervento degli operatori. Ne è conseguito un
89
ripiegamento sul sociale istituzionale, meno programmato e più contingente che,
rappresentando una risposta ai bisogni dell’utenza collettiva di fatto accentua la
residualità dei servizi assistenziali.
Gli apparati tecnici (sistema dei servizi e operatori), a loro volta, nell’accogliere la
delega hanno iniziato a lavorare avendo come referente l’utente, ignorando sia l’utenza
allargata -cittadini e comunità-, sia la rappresentanza istituzionale delle comunità
locali.
Anzi la comunicazione tra operatori e cittadini risulta quasi inesistente. L’ assenza di
questa dimensione nella prospettiva di lavoro dei servizi dipende dal fatto che i servizi
guardano alla popolazione soprattutto in termini di utenza, ovvero guardano, e
“servono”, a quelle quote di popolazione che si rivolgono alle strutture portando
bisogni e, tendenzialmente configurano la risposta a tali bisogni in termini di prestazioni
tecniche. Una visione di questo tipo che non chiama in causa la comunità, nè nella
costruzione e nella analisi dei problemi né nella scelta delle modalità più adeguate per
gestirli, porta a lasciare in ombra l’idea che i servizi lavorano per la società nel suo
insieme e, conseguentemente, a non ritenere prioritaria la partecipazione, perdendo così
l’opportunità di influenzare la domanda.
Le ASL sembrano assolutamente e volutamente assenti, disposte eventualmente a
sostituirsi, mentre il terzo settore, tende dialogare separatamente con le istituzioni
attraverso l’offerta di collaborazione e gestione di progetti che riguardino particolari
porzioni delle aree d’intervento (materno-infantile, handicap, anziani, adulti in
difficoltà).
Ha così luogo una comunicazione per segmenti che non può che provocare disfunzioni.
Strumenti opportuni dei Piani di zona per raccordare tra loro i diversi comparti
operativi, istituzionali e non, possono essere la costituzione di più occasioni stabili
d’incontro, quali un:
Tavolo di regia, di cui fanno parte i Sindaci, i Consorsi, l’ASL, il terzo settore
Tavolo tecnico, che raccoglie organismi consortili, sistema dei servizi, esperti.
Tavoli di area, (materno-infantile o delle responsabilità familiari, handicap, anziani,
adulti in difficoltà o del contrasto della povertà, immigrazione) dove si confrontano gli
operatori dei servizi sociali e sanitari, i funzionari e gli operatori del sociale
istituzionale, il volontariato, il privato accreditato.
Il Tavolo politico o di regia ha il compito di avviare il percorso e individuare le
ipotesi programmatiche per il passaggio dell’assistenza da interventi residuali alla
definizione dei livelli essenziali, dai target per categorie all’ universalismo, dal
centralismo alle politiche territoriali.
Il Tavolo tecnico è incaricato di avviare una prima fase conoscitiva attraverso la
raccolta dei dati quali-quantitativi resi disponibili dai tavoli di area e di formulare le
ipotesi del Piano integrato, modulate per livelli di risposta e di costo e che saranno
successivamente trasmesse al tavolo di regia.
Infine, i tavoli di area, ponendo a confronto esperienze e metodologie operative,
professionalità e pratiche sociali, saranno in grado di immettere nel network di risorse
rappresentato dal cosiddetto welfare plurale elementi di circolarità delle conoscenze,
implementando così le opportunità della comunità e le risorse cui attingere per i servizi.
Il Piano di zona è un atto obbligatorio previsto:
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• Dalla legge nazionale 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali”
• Dal DPR 3 maggio 2001 “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali
200-2003”
• Dalla LR 1/2004 “Norme per la realizzazione del sistema integrato di interventi
e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento”
E’ uno strumento fondamentale e obbligatorio per la definizione del Sistema integrato
degli interventi e dei servizi sociali e può anche essere utilizzato come:
• Il piano regolatore dei servizi alla persona
• Lo strumento nelle mani della comunità locale per promuovere il proprio
sviluppo
• L’atto con il quale i diversi soggetti della comunità definiscono il livello di
welfare garantibile sul territorio.
Il Piano di zona è integrato nel più generale quadro delle politiche di welfare:
⇒ sanità
⇒ ambiente
⇒ istruzione
⇒ formazione
⇒ lavoro
⇒ casa
⇒ servizi
⇒ tempo libero
⇒ trasporti
⇒ comunicazioni…..
Soprattutto rappresenta un innovativo livello di pianificazione trasversale alle politiche
settoriali di ogni singolo Ente incidente sul territorio, quali:
⇒ Provincia
⇒ ASL
⇒ Autonomie scolastiche
⇒ Centri per l’impiego
⇒ Autorità giudiziarie
⇒ C.S.S.A. Ministero della Giustizia
⇒ I.P.A.B.
⇒ Volontariato
⇒ Cooperative sociali
⇒ Confessioni religiosi
⇒ OO.SS. e patronati sindacali
La finalità generale del Piano di zona è quella di promuovere una comunità
informata, consapevole, competente e responsabile; soprattutto capace di mettere in
rete responsabilità, competenze e risorse per realizzare i propri obiettivi di
salute/benessere in funzione del proprio sviluppo.
Le finalità specifiche sono invece:
91
1) Conoscere meglio il territorio, i bisogni e la domanda che esprime, i servizi e
le risorse -attive ed attivabili- nel nuovo sistema integrato degli interventi e
dei servizi sociali delle comunità locali.
2) Il coordinamento e l’integrazione delle politiche sociali con gli interventi
sanitari. Dell’istruzione, nonchè con le politiche attive della formazione, del
lavoro e della casa.
3) La cooperazione tra i diversi livelli istituzionali e tra questi e i soggetti
comunitari.
4) La costruzione di una “rete di servizi e di interventi sociali e socio-sanitari”
5) L’acquisizione di comuni metodologie di lavoro che garantiscano progetti
individualizzati e concordati.
6) La costruzione di un sistema informativo locale, accessibile e aggiornato.
7) La costruzione di una carta di cittadinanza e di un piano di comunicazione
sociale, predisposti e condivisi dai vari soggetti che partecipano al nuovo
sistema integrato.
Gli strumenti per la costruzione di un Piano di zona sono rappresentati dai
Tavoli di lavoro.
⇒ Tavolo politico, con funzioni di indirizzo politico,di regia e verifica
del Piano di zona. Composto dai rappresentanti dei Comuni, della
provincia, della ASL.
⇒ Tavolo tecnico,con funzioni di supporto tecnico al Tavolo politico e
ai tavoli di area. Composto da tecnici dei Comuni, dell’ASL, della
Provincia.
⇒ Tavoli di area. Ricoprono un ruolo strategico nella costruzione del
Piano di zona. Rappresentano il Laboratorio di idee della comunità
locale. Composti dai rappresentanti dei soggetti istituzionali e
comunitari che operano nei servizi.
Le fasi del Piano di zona sono:
⇒ definizione linee programmatiche da parte del Tavolo politico
⇒ costruzione della base conoscitiva da parte del Tavolo tecnico e dei
tavoli di area
⇒ Diagnosi della comunità da parte dei Tavoli politico, tecnico e di area
⇒ Scelta obiettivi e priorità da parte del Tavolo politico e di area
⇒ Stesura bozza di Piano del Tavolo tecnico
⇒ Allocazione delle risorse da parte del tavolo politico e di area
I Tavoli di Area sono:
• Area minori
• Area disabili
• Area adulti
• Area anziani
• Area immigrati
Al Tavolo di Area Minori si prevede inoltre la partecipazione di rappresentanti di
soggetti istituzionali quali:
• Scuole materne e elementari
• Scuole medie inferiori
• Scuole medie superiori
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• Formazione professionale
• Centro per l’impiego
• Procura della Repubblica
• IPAB
Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:
• Associazioni di volontariato
• Fondazioni
• Cooperative sociali
• OO.SS. e Patronati
• Confessioni religiose
Al Tavolo di Area Disabili i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:
• Scuole materne e elementari
• Scuole medie inferiori
• Scuole medie superiori
• Formazione professionale
• Centro per l’impiego
• Procura della Repubblica
• IPAB
Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:
• Associazioni di volontariato
• Fondazioni
• Cooperative sociali
• OO.SS. e Patronati
• Confessioni religiose
Al Tavolo di Area Adulti i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:
• CSSA Ministero della Giustizia
• Formazione professionale
• Centro per l’impiego
• Procura della Repubblica
Rappresentanti di soggetti comunitari, quali:
• Associazioni di volontariato
• Fondazioni
• Cooperative sociali
• OO.SS. e Patronati
• Confessioni religiose
Al Tavolo di Area Anziani i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:
• Procura della Repubblica
Rappresentanti soggetti comunitari:
• Associazioni di volontariato
• Cooperative sociali
• OO.SS. e Patronati
• Confessioni religiose
Al Tavolo di Area Immigrati i rappresentanti di altri soggetti istituzionali sono:
• Scuole materne e elementari
• Scuole medie inferiori
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• Scuole medie superiori
• Formazione professionale
• CSSA Ministero della Giustizia
• Procura della Repubblica
Rappresentanti soggetti comunitari:
• Associazioni di volontariato
• Cooperative sociali
• OO.SS. e Patronati
• Confessioni religiose
I rappresentanti designati non rappresentano la singola associazione di appartenenza, ma
la tipologia di interessi rappresentata.
⇒ Sono i portavoce di un interesse
⇒ Sono il raccordo tra i tavoli di Area e tutti i soggetti rappresentanti
⇒ Sono coloro che facilitano il coinvolgimento di tutti i soggetti
rappresentati
I Rappresentati di soggetti comunitari che non partecipano ai Tavoli di area:
⇒ Saranno costantemente informati sullo svolgimento del percorso nelle
sue varie fasi
⇒ Saranno chiamati a portare il proprio contributo di esperienze e di idee
per delineare la diagnosi di comunità
⇒ Saranno coinvolti nella definizione della rete di interventi e servizi
sociali della comunità locale.