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Nicola Boccella Fabio D’Orlando Azzurra Rinaldi MACROECONOMIA SCIENZE SOCIALI Manuali

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Nicola BoccellaFabio D’OrlandoAzzurra Rinaldi

MACROECONOMIA

SCIENZE SOCIALIManuali

Boccella N. - D’Orlando F. - Rinaldi A.
Macroeconomia
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14.

LA MACROECONOMIA NEI FATTI

14.1. Alcune applicazioni

Le nozioni sinora apprese possono essere utilmente applicate per provare a giustificare teoricamente alcuni avvenimenti che hanno interessato le relazioni economiche internazionali negli ultimi anni.

In particolare analizzeremo, seppur in estrema sintesi, tre temi: 1. che cos’è e come si realizza un attacco speculativo; 2. le ragioni della crisi che ha interessato il Sistema Monetario Eu-

ropeo nel 1992; 3. la politica monetaria attuata dalla Repubblica Popolare Cinese

negli ultimi anni. In questa sede ci limiteremo a fornire alcuni elementi di base per in-terpretare i fenomeni suddetti, invitando il lettore a consultare testi specificamente dedicati all’economia monetaria internazionale per una trattazione più approfondita.

14.2. Gli attacchi speculativi

I mezzi finanziari che, a livello internazionale, vengono quotidiana-mente utilizzati dagli operatori privati per le transazioni in valuta sono di gran lunga maggiori non solo rispetto a quelli utilizzati per le transazioni commerciali (merci e servizi), ma anche rispetto alle riserve di valuta possedute dalle Banche Centrali. Approssimativa-mente, le transazioni internazionali in titoli e valute rappresentano, in un giorno, il 20% dell’interscambio mondiale di beni in un anno. Questa grande disponibilità finanziaria rende particolarmente lucra-tiva (anche se intrinsecamente rischiosa) la speculazione contro una valuta, tanto che in passato ha causato crisi profonde sia in Europa sia negli altri continenti. Al di là di alcuni casi specifici, per i quali rimandiamo al paragrafo successivo e all’ottimo libro di Paul Kru-gman, Il ritorno dell’economia della depressione, cerchiamo qui di capire come (e perché) avvenga un attacco speculativo.

Per semplicità, immaginiamo che gli speculatori internazionali, ossia soggetti e istituzioni che possiedono ingente liquidità e inten-dono farla fruttare, si convincano che il tasso di cambio del Paese

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14. La macroeconomia nei fatti

A, attualmente in un regime di cambi fissi, è sopravvalutato, ossia che le forze del mercato, in futuro, porteranno a un deprezzamento del cambio, per esempio perché siamo in presenza di un crescente deficit della bilancia dei pagamenti. Come vedremo in seguito, non è necessario che la tendenza al deprezzamento esista realmente: è sufficiente che gli speculatori si convincano di tale esistenza e agi-scano di conseguenza. Questo ‘agire di conseguenza’ equivale a ten-tare di trarre il massimo profitto possibile dalla situazione. Vediamo come.

Generalmente, gli speculatori non possiedono moneta del Paese A, ma per speculare sul cambio del Paese A, devono procurarsela. Quindi, si rivolgono ad istituzioni finanziarie del Paese A e richie-dono un prestito. Naturalmente, per questi prestiti dovranno paga-re un tasso di interesse, quello in vigore nel Paese A. Ipotizziamo che chiedano, ad esempio, un prestito di 100 in valuta di A, offren-dosi di pagare un interesse dell’1% al mese. Quindi cambieranno questa valuta in valuta di un altro Paese, ad esempio del Paese B, che ritengono si apprezzerà. Facendo l’ipotesi che il cambio sia alla pari, otterranno 100 in valuta di B. Con questa valuta compreranno titoli di B (per non lasciare denaro inutilizzato: così percepiranno un interesse). Ipotizziamo che anche in B l’interesse sia dell’1% al mese.

Ora, se sono in molti a compiere questa operazione (e, come abbiamo detto all’inizio, la speculazione internazionale è in grado di muovere quantità enormi di denaro), saranno in molti a offrire sul mercato valuta di A domandando valuta di B. Questo creerà tensioni sul mercato dei cambi, e la Banca Centrale di A, per scon-giurare il deprezzamento, offrirà valuta di B tenuta a riserva doman-dando valuta nazionale. Ma se l’attacco speculativo è di dimensioni rilevanti, la Banca Centrale finirà col terminare le proprie riserve valutarie riducendo la capacità di richiederne altre, e sarà costretta a lasciar deprezzare la valuta. Ipotizziamo che, come conseguenza, il tasso di cambio, che prima era identico, diventi pari a ½: una unità valutaria di A ne compra ½ di B o, il che è lo stesso, una unità valu-taria di B ne compra 2 di A.

A questo punto, ipotizzando che sia passato un mese, il nostro speculatore venderà i titoli di B che possiede, incassando anche l’in-teresse di un mese, ed otterrà 101 unità di valuta di B; convertendo-le in valuta di A, otterrà 202 unità di valuta di A. Si rende necessario rimborsare il prestito (100 unità di valuta di A) e pagare l’interesse (l’1% di 100, ossia 1). Fatto questo, rimarrà con un guadagno di 101, che potrà riconvertire nella valuta che preferisce. Effettiva-mente, un guadagno di queste dimensioni è elevato, ma guadagni dell’ordine del 20-30% sono sostanzialmente normali in presenza di attacchi speculativi (tra l’altro, il 20-30% in un mese …).

È opportuno soffermarsi su tre punti importanti:1. Innanzitutto, la Banca Centrale di A, per contrastare l’attacco

speculativo, potrebbe essere tentata ad operare una politica mo-

La Banca Centrale contrasta l’attacco

speculativo

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14.2. Gli attacchi speculativi

netaria restrittiva, determinando un aumento del tasso di interes-se e rendendo in questo modo dispendioso per uno speculatore procurarsi fondi in valuta di A per effettuare la speculazione. Un aumento del tasso di interesse potrebbe anche indurre i non residenti a domandare una quantità maggiore di titoli di A mi-gliorando il conto finanziario. Ma, di fronte a un attacco specu-lativo la cui prospettiva di guadagno è pari al 20-30% in un me-se, l’incremento del tasso di interesse necessario sarebbe tanto alto da creare seri problemi all’economia; inoltre, in presenza di un attacco speculativo (e di un probabile deprezzamento della valuta), è difficile convincere i non residenti ad acquistare titoli nazionali.

2. Secondariamente, non è necessario che vi siano cause economi-che effettive per attaccare una valuta: gli speculatori potrebbero benissimo scegliere un Paese, ad esempio, in surplus di bilancia dei pagamenti. Le risorse di cui dispongono sono tanto ingenti da poter largamente sopravanzare la quantità di valuta interna-zionale che una Banca Centrale può impiegare per difendere il cambio. Naturalmente, in genere gli speculatori attaccano va-lute deboli (perché l’attacco è più facile e il brusco deprezza-mento più massiccio), in cerca di guadagni maggiori in tempi minori; ma, in linea di principio, nulla impedirebbe loro, purché concertassero il proprio attacco, di attaccare valute in perfetta salute.

3. Infine, possiamo rilevare come non vi sia simmetria negli esiti del-le politiche di contrasto ad un attacco speculativo. Spieghiamoci meglio: una Banca Centrale non è in grado di difendere la pro-pria valuta se l’attacco speculativo tende ad ottenere un deprez-zamento, perché per farlo dovrebbe vendere valuta estera che possiede come riserva in quantità limitata. Ma se l’attacco mira a conseguire un apprezzamento della valuta, una Banca Centrale non avrebbe nessun problema a contrastarlo: infatti, in questo caso potrebbe difendersi vendendo valuta nazionale e, se vuole (se è disposta a subirne le conseguenze in termini di inflazione), potrà vendere quantità illimitate di valuta nazionale, poiché è la stessa Banca Centrale a stamparla. Quindi, mentre gli speculatori vincono sempre contro le Banche Centrali nel caso di un attacco tendente al deprezzamento, le Banche Centrali possono vincere (se lo vogliono) quando l’attacco mira all’apprezzamento.

14.3. La crisi dello SME

Il modello Mundell-Fleming si presta a dar conto in maniera molto efficace di un particolare attacco speculativo, quello che nel 1992 ha causato la crisi dello SME. Ma, prima di parlare della crisi, è oppor-tuno spendere qualche parola su che cos’era lo SME e sugli eventi che hanno preceduto la crisi del 1992.

Speculatori vs Banche Centrali

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14. La macroeconomia nei fatti

14.3.1. Lo SME e le aree valutarie ottimali

L’idea che l’Europa, per diventare un’area economica sempre più integrata, avesse bisogno di una moneta unica o, almeno in una pri-ma fase, di un sistema di cambi fissi (come sarà, appunto, lo SME), trovava la sua forza e la sua debolezza nella teoria delle aree valutarie ottimali. La tesi allora (e tutt’ora) dominante tra gli economisti era questa: gli aspetti positivi, per un Paese che partecipa ad una unione monetaria (ossia condivide una moneta comune con altri Paesi) o ad una unione valutaria (ossia mantiene cambi irrevocabilmente fissi con le valute degli altri Paesi dell’area), possono superare quelli negativi se i Paesi interessati all’evento costituiscono appunto un’area valutaria ottimale, ossia un’area geografica all’interno della quale non è costoso per i singoli Paesi rinunciare all’indipendenza monetaria e valutaria (con indipendenza monetaria e valutaria si intende la possibilità di controllare l’offerta di moneta e il tasso di cambio).

Per la teoria economica, le caratteristiche che deve avere un grup-po di Paesi per poter costituire un’area valutaria ottimale sono essen-zialmente due:1. una scarsa propensione a subire shock asimmetrici; 2. la capacità di tornare in equilibrio spontaneamente dopo aver su-

bito uno shock. La prima caratteristica di un’area valutaria ottimale è dunque la bas-sa probabilità di essere colpita da shock asimmetrici, ossia da shock che riguardano solo alcuni Paesi dell’area, oppure da shock diversi da zona a zona. La ratio di questa condizione risiede nella circo-stanza che, in generale, la rinuncia alla possibilità di attuare politi-che monetarie (e/o valutarie) indipendenti da parte dei singoli Paesi non è costosa se i Paesi possono ricorrere a una politica monetaria comune per attenuare l’impatto degli shock; ma una politica mone-taria comune non è possibile se alcuni Paesi sono colpiti da un tipo di shock, ad esempio una recessione, mentre altri Paesi da nessuno shock o da uno shock di segno opposto come, ad esempio, un’ecces-siva inflazione.In questo caso, infatti, alcuni Paesi vorranno mettere in atto una politica (ad esempio, monetaria espansiva, per combattere la re-cessione), mentre gli altri Paesi vorranno mettere in atto la politica opposta (ad esempio, una politica monetaria restrittiva, per evitare di importare inflazione o per combattere l’incremento di inflazione interna generato dalla politica espansiva del vicino). E se una politica comune non è possibile, l’autorità che è stata incaricata di gestire la politica monetaria dell’area (ossia la Banca Centrale dell’unione monetaria) non saprà quale politica seguire, se espansiva come vor-rebbero i Paesi in recessione, o restrittiva come vorrebbero i Paesi con inflazione 1.

1 Nel testo abbiamo discusso di cosa accade, nel caso di unione monetaria, quando uno shock asimmetrico colpisce un’area valutaria non ottimale. In assenza di

Area valutaria ottimale

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14.3. La crisi dello SME

Quali sono le caratteristiche che i diversi Paesi devono possedere per avere minori possibilità di incorrere in shock asimmetrici (e dun-que per comporre un’area valutaria ottimale)? La teoria economi-ca ritiene che i Paesi debbano avere economie più simili possibile e molto differenziate al loro interno (se ciascuna fosse fortemente spe-cializzata solo in alcune produzioni, diverse da Paese a Paese, shock settoriali avrebbero impatti diversi da Paese a Paese). Inoltre, sareb-be opportuno che i tassi di inflazione fossero simili poiché, se così non fosse, un Paese con più alta inflazione perderebbe rapidamente competitività, accumulerebbe passivi di bilancia dei pagamenti e troverebbe notevoli difficoltà nel rispettare gli accordi sottoscritti: nel caso di cambi fissi, questo costringerebbe il Paese a svalutare la propria valuta; nel caso di moneta unica, tale rischio non esisterebbe ma, in assenza di altri meccanismi automatici di riequilibrio, il Paese vedrebbe progressivamente ridursi la domanda estera, cioè le espor-tazioni, e dunque il PIL.

Non si può naturalmente escludere che, anche in economie mol-to simili, si possano verificare shock asimmetrici. Questo spiega la seconda caratteristica che un’area valutaria ottimale deve presentare: la capacità di riassorbire spontaneamente gli shock anche senza ricor-rere a politiche monetarie interventiste.

La teoria delle aree valutarie ottimali ritiene che la capacità del sistema di riassorbire spontaneamente gli shock dipenda da due ele-menti: 1. la flessibilità dei prezzi (e dei salari);2. la mobilità dei fattori. Il primo punto è una conseguenza delle basi logiche della teoria tradizionale: in presenza di prezzi e salari flessibili, dopo aver subito uno shock, il sistema economico tende a convergere rapidamente verso un nuovo equilibrio sia nel mercato interno (ad esempio, in presenza di una recessione e della conseguente disoccupazione, la riduzione dei salari reali indotta dalla disoccupazione porta le im-prese ad assumere un maggior numero di lavoratori e ad aumentare la produzione) sia in quello estero (la riduzione dei prezzi, causata dall’eccesso di offerta sul mercato dei beni, porta all’aumento di competitività nelle esportazioni e dunque ad un loro incremento, con la conseguenza, anche per questa via, di un aumento della pro-duzione e del PIL). Se invece prezzi e salari sono rigidi, le autorità monetarie si troveranno costrette ad intervenire, o con politiche espansive o con un deprezzamento del tasso di cambio, per con-trastare gli effetti dello shock che il mercato non è in grado di rias-sorbire spontaneamente. Anche la mobilità dei fattori permette ad un sistema di riassorbire spontaneamente uno shock: infatti, in pre-senza (ad esempio) di una recessione, la disoccupazione può essere

moneta unica ma in presenza di cambi fissi, la logica è in parte diversa: se le Banche Centrali nazionali, per reagire allo shock, seguono politiche divergenti, non potran-no mantenere la parità dei tassi di cambio tra le valute.

Prezzi e salari flessibili

Prezzi e salari rigidi

Rischio di shock asimmetrici

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riassorbita non solo grazie alla flessibilità del salario reale, ma anche grazie allo spostamento dei lavoratori dai settori (dai Paesi) in ec-cesso di offerta di lavoro ai settori (ai Paesi) in eccesso di domanda. Un discorso molto simile riguarda l’altro fattore della produzione mobilizzabile, ossia il capitale: anche qui la sua mobilità, ossia la presenza di mercati finanziari sviluppati, può permettere la creazio-ne di flussi finanziari tali da sostenere momentaneamente i settori e/o i Paesi in difficoltà.

In un modo o nell’altro, dunque, il problema relativo all’area va-lutaria ottimale è quello di prevenire (o reagire adeguatamente a) shock che dovessero colpire un sistema economico: un’area valutaria ottimale sarà dunque quella in cui gli shock asimmetrici non si veri-ficano e, se si verificano, sono rapidamente e spontaneamente rias-sorbibili; in sostanza, quella in cui i singoli Paesi possono rinunciare, senza danni, alla possibilità di avere politiche monetarie indipenden-ti in quanto scarsamente necessarie.

Una volta individuate le caratteristiche che un gruppo di Paesi deve rispettare per essere qualificato come area valutaria ottimale, ri-mane da valutare se i Paesi europei costituiscano o meno un’area va-lutaria ottimale. Inizialmente, l’idea generalmente accettata era che i singoli Paesi europei fossero troppo diversi tra loro, e la flessibilità dei mercati fosse così poco diffusa, da non poter essere considerati parte di un’area valutaria ottimale. D’altro canto, alcuni autori so-stengono che, sebbene l’Europa non fosse allora (e non sia tuttora) un’area valutaria ottimale, la progressiva integrazione delle econo-mie, degli assetti normativi e di quelli istituzionali, integrazione in-dotta anche dalla partecipazione al sistema di moneta unica, avrebbe innescato un processo dinamico teso a rendere i singoli Paesi euro-pei sempre più simili tra loro, portandoli progressivamente a costi-tuire un’area valutaria ottimale. Prima dell’unificazione monetaria e dell’introduzione dell’euro, nel secondo dopoguerra, l’Europa aveva già conosciuto due esperienze di sistemi a cambi fissi: il sistema di Bretton Woods ed il Sistema Monetario Europeo (SME).

Mentre il sistema di Bretton Woods era un sistema di cambi fissi che comprendeva anche molti Paesi non europei, tra i quali gli Stati Uniti e il Giappone, il Sistema Monetario Europeo, divenuto operativo il 13 marzo del 1979, dopo il crollo del regime di Bretton Woods, era un sistema a cambi fissi limitato ai nove Paesi europei che facevano allora parte della Comunità Economica Europea (ma progressiva-mente esteso ad altri Paesi europei man mano che questi entravano a far parte della CEE). In questo sistema i singoli Stati dichiaravano la parità, ossia il tasso di cambio, delle loro valute con l’ECU (European Currency Unit), una unità monetaria fittizia il cui valore era calcolato come media del valore del paniere di valute europee che lo costitu-ivano; poiché ciascuna valuta dichiarava esplicitamente la propria parità con l’ECU, ciascuna valuta otteneva esplicitamente un tasso di cambio rispetto all’ECU e, implicitamente, un rapporto di cambio con ciascuna (altra) valuta facente parte dello SME.

Il Sistema Monetario Europeo

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14.3. La crisi dello SME

Sebbene lo SME fosse un sistema a cambi fissi, in esso erano pre-senti, almeno sino al 1987, ampi gradi di flessibilità.

Innanzitutto, i singoli Paesi dichiaravano la parità centrale delle proprie valute rispetto all’ECU e si impegnavano a rispettare quella parità, ma era consentito che le valute si svalutassero o rivalutassero di una certa percentuale rispetto alla parità centrale. In pratica, esi-stevano delle bande di oscillazione attorno alla parità centrale (che era definita ‘centrale’ proprio per questo motivo) all’interno delle quali le quotazioni delle singole valute potevano liberamente oscil-lare. Solo qualora l’oscillazione avesse portato la quotazione delle valute al di fuori della banda di oscillazione, le Banche Centrali nazionali sarebbero dovute intervenire, acquistando la moneta che tendeva a deprezzarsi e vendendo quella che tendeva ad apprezzarsi per riportare il tasso di cambio all’interno della banda di oscillazio-ne. L’ampiezza di questa banda di oscillazione è stata per un lungo periodo di tempo diversa per alcuni Paesi (inizialmente tutti i Paesi, ad eccezione di Italia, Spagna e Portogallo, avevano una banda di oscillazione che permetteva uno scostamento del 2,25% in più e del 2,25% in meno rispetto alla parità centrale, mentre la lira, la peseta spagnola e l’escudo portoghese avevano una banda di oscillazione del 6% in più e del 6% in meno).

Un secondo elemento di flessibilità era ancora più radicale e con-sisteva nella possibilità di modificare la parità centrale, ossia di svaluta-re/rivalutare il tasso di cambio della valuta nazionale. In particolare, se un Paese avesse manifestato sistematiche tendenze al deficit della bilancia dei pagamenti (e dunque sistematiche tendenze al deprez-zamento del cambio), sarebbe stato possibile richiedere un rialline-amento delle parità centrali, ossia, in questo caso, una svalutazione (o, viceversa, una rivalutazione in caso di sistematiche tendenze al surplus della bilancia dei pagamenti).

14.3.2. La crisi

Della possibilità di riallineare la parità centrale (oltre che della ban-da di oscillazione più generosa che le era stata concessa) l’Italia si è servita spesso. Infatti il nostro Paese, a causa del tasso di inflazione regolarmente più alto rispetto a quello dei propri partners comu-nitari (ed in particolare più alto rispetto a quello della Germania, principale Paese di destinazione delle nostre esportazioni), perdeva sistematicamente competitività. Se i cambi sono fissi, le merci italia-ne, man mano che aumentano di prezzo in Italia, aumentano di prez-zo anche quando vengono vendute all’estero, ossia quando vengono esportate: trovare acquirenti diventa dunque sempre più difficile.

Poiché per lungo tempo le autorità nazionali hanno preferito una politica economica orientata alla crescita del PIL e dell’occupazione nel breve periodo, piuttosto che al contenimento dell’inflazione, la perdita di competitività delle nostre esportazioni non è stata seriamen-te contrastata, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, con misu-

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14. La macroeconomia nei fatti

re restrittive, ma unicamente sfruttando l’ampiezza della banda di oscillazione e la possibilità di riallineare il cambio, ossia, in sostanza, effettuando ripetute svalutazioni competitive: si svaluta il cambio per recuperare la competitività che si è persa. E questa pratica non è stata propria solo dell’Italia ma, seppur con frequenza minore, anche di altri Paesi europei.

Tale pratica cessò nella seconda metà degli anni Ottanta, appros-simativamente a partire dal 1987. In quegli anni, si affermò infatti la convinzione che l’inflazione fosse il problema principale con cui si dovevano confrontare le economie europee e si decise di affrontarlo con la massima decisione possibile. In particolare, poiché la teoria economica dell’epoca enfatizzava il legame tra inflazione e aspettati-ve di inflazione, le autorità monetarie decisero di intervenire contro le aspettative di inflazione per stroncare l’inflazione 2. Ma, per com-battere le aspettative di inflazione, era necessario convincere i soggetti che la politica monetaria aveva cambiato registro, ponendo la lotta all’inflazione come obiettivo prioritario della propria azione, anche a costo di patire un incremento della disoccupazione. Questa scelta derivava dalla convinzione che combattere l’inflazione contrastando le aspettative di inflazione avrebbe garantito una disinflazione più rapida e meno dolorosa (in termini di contrazione del PIL) rispetto a una strategia tradizionale basata su forti restrizioni monetarie.

Per combattere le aspettative di inflazione, la Banca Centrale doveva dunque dare un segnale forte e credibile del mutamento di strategia e del nuovo obiettivo anti-inflazionistico che si poneva. Per farlo, si decise di non permettere più svalutazioni competitive del tasso di cambio. E questo avvenne in Italia ma anche in molti altri Paesi europei. Lo SME divenne un sistema a cambi fissi.

Ma poiché l’Europa non era un’area valutaria ottimale, un siste-ma a cambi fissi finì per accentuare tensioni che non trovavano più la valvola di sfogo rappresentata dalla flessibilità del tasso di cambio e, d’altro canto, non trovavano quella flessibilità dei prezzi e dei merca-ti che avrebbe permesso di fare a meno della flessibilità del cambio. Così, appena il sistema si trovò ad affrontare uno shock più violento degli altri, crollò.

Lo shock fu rappresentato dall’unificazione tedesca. Dopo il 3 ottobre del 1990, la Germania Ovest, con la riunificazione, si tro-vò a dover sostenere ingentissime spese. Questo forte incremento di spesa pubblica portò ad un incremento del tasso di interesse in quel Paese e dunque alla tendenza all’apprezzamento del marco (la valu-ta tedesca) e alla contestuale tendenza al deprezzamento delle altre

2 In sostanza, in previsione di un aumento futuro dei prezzi, tutti gli operatori economici e le categorie sociali (sindacati quando trattano il rinnovo dei contrat-ti, imprenditori quando devono rivedere i prezzi di vendita dei loro prodotti, ecc.) avrebbero aumentato le loro richieste economiche creando così, sulla base della sola aspettativa di inflazione, inflazione effettiva. La conclusione a cui giunsero molti eco-nomisti e politici sosteneva che fosse possibile controllare l’inflazione combattendo le aspettative di inflazione.

Le svalutazioni competitive

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14.3. La crisi dello SME

valute europee. Nei termini del modello Mundell-Fleming, ciò com-porta uno spostamento della curva IS (della Germania) verso destra. Nella Figura 14.1., dove abbiamo ipotizzato (come verosimile) una situazione di perfetta mobilità dei capitali, la curva si sposta in IS1 e l’equilibrio si colloca in B. In accordo col modello, in una situazione di cambi fissi, l’aumento del tasso di interesse in Germania avrebbe comportato un surplus di bilancia dei pagamenti e un tendenziale apprezzamento del marco, al quale le Banche Centrali facenti parte dell’accordo si sarebbero dovute opporre offrendo marchi sul mer-cato e domandando le valute che tendevano a deprezzarsi. Sempre in Germania, ciò avrebbe comportato un aumento dell’offerta di moneta, ossia uno spostamento della LM verso destra (in LM1, nella Figura 14.1.) e un ritorno del tasso di interesse al livello originario, ma anche un aumento degli investimenti e del reddito. L’equilibrio, interno ed esterno, si sarebbe così collocato in corrispondenza del punto C della Figura 14.1.

Ma la tendenza all’apprezzamento del marco era troppo forte. In breve, le Banche Centrali si trovarono a corto di marchi (per impe-dire il deprezzamento, ad esempio, della lira la Banca d’Italia doveva vendere marchi che aveva a riserva e comprare lire). E la Bunde-sbank, che in teoria avrebbe dovuto finanziare in maniera illimitata la difesa del cambio (stampando marchi ed intervenendo sul mer-cato, vendendoli cioè direttamente o prestandoli alle altre Banche Centrali perché esse li vendessero), nel timore che l’eccesso di of-ferta di moneta interna potesse far crescere a dismisura l’inflazione,

BB

LM

IS1IS

1LM

A

B

C

Y

i

iA = if

iB

AY CYBYFigura 14.1.

Apprezzamento del marco

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14. La macroeconomia nei fatti

si dimostrò restia ad intervenire chiedendo un riallineamento delle parità, ossia una rivalutazione del marco (e una svalutazione delle altre valute).

In sostanza, i tedeschi suggerivano che il ritorno al livello del tas-so di interesse internazionale avvenisse attraverso un apprezzamento del marco che, causando una riduzione delle esportazioni nette (e del reddito), avrebbe riportato la IS verso sinistra e non spostato la LM verso destra (nella Figura 14.1. la IS1 torna in IS). D’altro canto, i tedeschi ricordarono agli altri Paesi la circostanza che, fino a pochi anni prima, ogni volta che qualcuno di loro incontrava qualsiasi pic-colo problema di bilancia dei pagamenti chiedeva immediatamente ed otteneva senza difficoltà un riallineamento; ora che il problema era rilevante e nasceva da un evento di portata storica, la contra-rietà di questi Paesi al riallineamento non era giustificata. Questi Paesi, per contro, facevano resistenza perché temevano di perdere, accettando la svalutazione delle proprie valute, tutta la credibilità internazionale in chiave anti-inflazionistica che avevano guadagnato col rigore monetario, e perdere la credibilità avrebbe significato, essi credevano, lasciar risalire le aspettative di inflazione e, per questa via, l’inflazione stessa.

Nel settembre del 1992, il sistema crollò. Infatti, mentre le Ban-che Centrali esaurivano le loro riserve in marchi, la speculazione internazionale dimostrò la propria forza vendendo massicciamente contro marchi le altre valute europee, nella convinzione che il si-stema sarebbe crollato ed il marco si sarebbe fortemente rivalutato. In particolare si distinse, nell’attacco contro la sterlina, il Quantum Fund di George Soros: sulla base della percezione che il sistema non avrebbe retto, Soros, l’amministratore del fondo, prese a prestito 15 miliardi di sterline in Gran Bretagna e con esse domandò marchi. La mossa di Soros fu resa nota e subito seguita da altri speculatori. Ciò che probabilmente sarebbe dovuto accadere in alcuni mesi accadde in pochi giorni: terminate le loro riserve nel disperato tentativo di sostenere le proprie valute, molte Banche Centrali dovettero abban-donarne la difesa (in pochi giorni la Banca d’Inghilterra acquistò 50 miliardi di sterline, anche se lo fece con operazioni ‘sterilizzate’ – si veda il paragrafo successivo). Si tentò un riallineamento, rivalutando il marco, ma la lira italiana e la sterlina inglese furono egualmente costrette ad andare in libera fluttuazione, ossia a passare al regime di cambi flessibili, mentre le altre valute, dopo ripetuti aggiustamenti al ribasso, tornarono al regime di cambio precedente (ossia tornarono a partecipare allo SME) molto svalutate e con bande di oscillazione assai più ampie di prima (più o meno 15% rispetto alla parità cen-trale).

Rivendendo marchi contro sterline dopo la svalutazione, Soros guadagnò in pochi giorni 2 miliardi di sterline.

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14.3. La crisi dello SME

14.3.3. Dallo SME all’euro

La crisi dello SME rese evidente la necessità di un passaggio crucia-le per il sistema valutario europeo, passaggio che proprio in quegli anni, ed in maniera indipendente dal crollo, stava progressivamente avvenendo nei Paesi europei: il passaggio all’Unione Economica e Monetaria e alla moneta unica.

L’idea era che, con una moneta unica, l’Europa avrebbe potuto sfruttare una serie di vantaggi per la propria economia: a. i costi di transazione si sarebbero ridotti;b. la trasparenza dei mercati sarebbe aumentata; c. l’incertezza degli scambi sarebbe diminuita;d. i tassi di interesse si sarebbero ridotti, grazie all’eliminazione del

rischio di cambio;e. le politiche monetarie sarebbero diventate più rigorose rispetto a

quelle adottate da alcuni Paesi dell’area;f. le riserve valutarie della nuova Banca Centrale sarebbero diventa-

te enormi, pari a tre volte quelle statunitensi;g. non ci sarebbero più stati rischi di attacchi speculativi contro le

valute dei singoli Paesi, per il semplice fatto che queste valute non sarebbero più esistite.

D’altro canto, era noto che l’unificazione monetaria avrebbe anche potuto comportare alcuni significativi svantaggi per le Banche Cen-trali nazionali, le quali: a. avrebbero perso la possibilità di utilizzare lo strumento di politica

monetaria, delegato alla Banca Centrale Europea;b. avrebbero perso anche lo strumento di intervento rappresenta-

to dalle manovre sul cambio (c’è una moneta unica, il tasso di cambio scompare tra le monete che aderiscono all’accordo e, per quanto concerne il tasso di cambio con le valute che non aderi-scono, l’autorità per l’intervento è delegata alla BCE) che, nella forma un po’ patologica della svalutazione competitiva, era stato frequentemente utilizzato da molti Paesi.

Creare una moneta unica in Europa sarebbe stato conveniente qua-lora i vantaggi avessero superato gli svantaggi. Ma, come si è visto, ciò può accadere solo se si è in presenza di un’area valutaria ottimale. E l’Europa, secondo molti commentatori, non era affatto (e non è tuttora) un’area valutaria ottimale. Perché si è proceduto su questa strada, allora? La risposta sta in due considerazioni: 1. In assenza di un’area valutaria ottimale, neppure un sistema di

cambi fissi come lo SME sarebbe stato ottimale; eppure quell’e-sperienza era stata compiuta ed era stata giudicata positiva da molti Paesi fino alla crisi del 1992. La moneta unica avrebbe comportato tutti i vantaggi dello SME, altri nuovi vantaggi (quel-li indicati prima: costi di transazione, trasparenza, tassi di inte-resse, ecc.) e l’eliminazione di uno svantaggio importante: i Paesi partecipanti alla moneta unica non avrebbero più subito attacchi speculativi.

I vantaggi ipotizzati con l’Euro

Svantaggi dell’Unione Monetaria

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14. La macroeconomia nei fatti

2. Tuttavia, proprio la crisi dello SME aveva mostrato che l’Euro-pa non poteva essere considerata un’area valutaria ottimale, e che dunque alcuni Paesi non sembravano in grado di sopportare né la moneta unica né i cambi fissi.

Questa considerazione portò ai parametri fissati per stabilire chi avrebbe potuto far parte della nuova Unione Monetaria: i parametri di Maastricht 3. Questi parametri avevano lo scopo dichiarato di far partecipare solo alcuni Paesi: quelli che avevano economie sufficien-temente simili e che dunque potevano costituire un’area valutaria (più o meno) ottimale. Agli altri Paesi, quelli più deboli e meno omo-genei, sarebbe stato lasciato tempo sufficiente per rinforzare le loro economie e renderle omogenee alle altre prima di lasciarli entrare, in un futuro più o meno prossimo, a far parte dell’UEM.

In particolare, i parametri di Maastricht furono scritti per ‘te-nere dentro’ all’UEM alcuni Paesi, i più forti, ricchi e simili (Ger-mania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e, ma solo perché altrimenti l’unione sarebbe stata troppo debole, Francia) e ‘lasciar fuori’ tutti gli altri, i quali, peraltro, non erano neppure troppo preoccupati dell’esclusione, rendendosi conto che la partecipazione all’UEM avrebbe impedito loro di realizzare le politiche monetarie e del cambio che avevano realizzato in passato, e che la caduta dello SME aveva dimostrato essere inevitabili, pena violente crisi, per le pro-prie economie.

È importante rimarcare come la scelta dei parametri sia stata so-prattutto politica. Infatti, per valutare correttamente se i Paesi pote-vano far parte dell’UEM, si sarebbe dovuto stabilire se possedevano o meno i requisiti per appartenere ad un’area valutaria ottimale. E, come si è visto, questi requisiti sono soprattutto microeconomici, re-lativi alla struttura dell’economia e alla flessibilità dei prezzi e dei mercati. Invece, i parametri fissati implicavano essenzialmente requi-siti macroeconomici, con valori privi oltretutto di qualsiasi ratio eco-nomica. In sostanza, i parametri furono scelti e fissati appositamente perché gli unici a rispettarli fossero i Paesi che si era già deciso, a priori, facessero parte della moneta unica.

I parametri che un Paese doveva rispettare per poter partecipare all’UEM, e quindi alla moneta unica, erano i seguenti:1. il tasso di inflazione non doveva superare di oltre l’1,5% la media

dei tassi di inflazione dei tre Paesi con l’inflazione più bassa;2. il tasso di interesse a lungo termine non doveva superare di oltre

il 2% la media dei tassi di interesse dei tre Paesi più virtuosi in termini di inflazione;

3. il tasso di cambio della valuta che desiderava aderire all’accordo doveva aver rispettato la banda di oscillazione dello SME per al-meno due anni prima dell’ingresso nella moneta unica;

4. il rapporto deficit/PIL non doveva essere superiore al 3%;

3 Nella località di Maastricht venne firmato, il 7 febbraio 1992, il trattato (ap-punto, di Maastricht) per la creazione dell’UEM.

I parametri di Maastricht

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14.3. La crisi dello SME

5. il rapporto debito/PIL non doveva essere superiore al 60% o, se lo era, doveva essere comunque in rapida diminuzione.

Nonostante l’iniziale, diffusa convinzione che solo alcuni Paesi sa-rebbero riusciti a rispettare questi parametri senza imporre micidiali strette recessive alle proprie economie e, soprattutto, che solo alcu-ni Paesi avrebbero avuto convenienza a far parte della moneta uni-ca, i Paesi candidati all’esclusione si resero progressivamente conto che restare fuori dall’UEM sarebbe stato per loro troppo rischioso. Quindi quasi tutti intrapresero le rigide politiche di intervento neces-sarie per rispettare i parametri. D’altro canto, anche i Paesi più forti evidenziarono in quegli anni difficoltà sempre maggiori nel rispet-tare le regole che essi stessi avevano voluto: furono infatti costretti a politiche restrittive e persino a qualche tocco di ‘finanza creativa’, pratica che a quel punto fu considerata lecita ed impiegata abbon-dantemente anche dai Paesi inizialmente candidati all’esclusione. Il parametro più difficile da conseguire rapidamente, ossia il rapporto debito/PIL, fu considerato di secondaria importanza, ed il 1° gen-naio del 1999 l’euro divenne la moneta unica di 11 Paesi europei (la Grecia entrerà a far parte dell’UEM solo il 1° gennaio 2001, non essendo riuscita a rispettare entro i termini stabiliti i parametri di Maastricht).

Fino al 1° gennaio 2002, comunque, l’euro rimase una moneta scritturale, ossia virtuale: utilizzata nelle negoziazioni ufficiali, ma non ancora coniata.

Due considerazioni finali. Innanzitutto, è necessario ricordare la differenza che esiste tra i

parametri di Maastricht, il cui rispetto permette l’ingresso nell’UEM, ed i parametri sanciti dal patto di stabilità (un protocollo del trattato di Maastricht, firmato a Dublino nel dicembre del 1996), al cui ri-spetto sono tenuti i Paesi durante la loro permanenza nell’UEM, che impone dei vincoli alla gestione della finanza pubblica; in particolare, il patto di stabilità sancisce che i singoli Paesi dovranno non solo cercare di ottenere un rapporto tra deficit e PIL inferiore al 3%, sotto pena di richiami e forti sanzioni, ma soprattutto tendere al pareggio il bilancio dello Stato, ossia portare a zero quel rapporto (almeno «in condizioni normali»). Al patto di stabilità si è aggiunto, il 1º gennaio 2013, il cosiddetto Fiscal Compact, che impone un più rigido piano di riduzione del rapporto debito/PIL.

Secondariamente, è importante rimarcare come l’introduzione dell’euro sia l’elemento più visibile della rivoluzione che ha interes-sato l’area monetaria europea, mentre quello più importante è la nascita (il 1° giugno 1998) della Banca Centrale Europea: una sola istituzione monetaria incaricata di gestire la politica monetaria dei dodici Paesi facenti parte dell’UEM. Della Banca Centrale Europea ci siamo occupati in dettaglio nel Capitolo 5. Qui possiamo solo ri-marcare la puntuale realizzazione dei problemi indicati dalla teoria AVO nell’introduzione di una moneta unica in un’area valutaria non ottimale.

Nicola Boccella - Fabio D'Orlando - Azzurra Rinaldi
Macroeconomia
SEGUE
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19. L’evoluzione recente della Macroeconomia e la crisi 2007-2014

19.3. La crisi europea

La crisi colpisce un’Europa nella quale alcuni Paesi presentano già rilevanti segni di debolezza economica. Come abbiamo avuto mo-do di osservare nella sezione 14.3, i Paesi che compongono l’attuale Eurozona non costituivano (e con ogni probabilità non costituiscono tuttora) un’area valutaria ottimale: ciò comporta che, in presenza di shock asimmetrici, i costi della rinuncia alla politica monetaria indi-pendente, e alla possibilità di gestire il tasso di cambio, rischiano di essere notevoli.

Questi costi si erano d’altro canto già dimostrati insostenibili nel 1992, quando proprio uno shock asimmetrico aveva condotto alla crisi del Sistema Monetario Europeo, un regimi a cambi fissi con ogni evidenza troppo rigido per alcuni Paesi. Non c’erano dunque molte ragioni per ritenere che un insieme di Paesi incapaci di reggere un regime a cambi fissi fosse invece capace di sostenere un regime a moneta unica, che è ancora più rigido. È probabile che si ritenesse che Paesi tanto diversi in origine da non costituire un’area valuta-ria ottimale ex-ante fossero destinati, col tempo e con l’integrazione commerciale e istituzionale, a diventare progressivamente più simili, sino a costituirla ex-post.

Oppure, più semplicemente, si riteneva che se questi Paesi non avessero realizzato le riforme necessarie a divenire tra loro simili, per-ché costose dal punto di vista politico (si pensi alla flessibilità dei salari, o alla mobilità del lavoro), prima o poi sarebbero stati costretti a realizzarle dal verificarsi di una crisi sufficientemente violenta.

Affinché tutto ciò avvenisse era però necessario che fosse impos-sibile, o al limite estremamente costoso, abbandonare la moneta unica, in modo che i Paesi non avessero altra scelta se non quella di imple-mentare le necessarie riforme. Questo è proprio ciò che dobbiamo registrare: uscire dall’Eurozona, per i motivi che vedremo, è estrema-mente costoso.

In ogni caso, i Paesi europei che entrano nell’Eurozona devono da subito confrontarsi con le loro differenze, che vanno probabil-mente oltre il non costituire un’area valutaria ottimale. In particola-re la Germania si trova ad adottare la moneta unica con un tasso di cambio sopravvalutato, e dunque scopre di avere esportazioni poco competitive; mentre alcuni altri Paesi europei devono fron-teggiare un basso tasso di crescita della produttività del lavoro, an-che questo un elemento che rende le esportazioni, nel tempo, poco competitive.

La Germania si rende subito conto del problema, e vuoi per lun-gimiranza sindacale, vuoi per la minaccia degli imprenditori di de-localizzare le imprese nei Paesi a più bassi salari dell’Europa orien-tale, aumenta l’orario di lavoro a parità di salario, riducendo così il salario orario, e dunque il costo di produzione per le imprese, che possono ridurre i prezzi di vendita dei loro prodotti e recuperare competitività.

Area valutaria ottimale

Uscire dall’Eurozona

Riduzione del salario orario in Germania

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19.3. La crisi europea

Viceversa molti altri Paesi, nonostante abbiano un problema di produttività che li rende meno competitivi della Germania stessa, invece di ridurre i salari li aumentano. Con il risultato che la Germania conquista quote di mercato per le sue esportazioni (anche grazie alla particolare specializzazione produttiva, in settori dove subisce po-ca concorrenza), mentre altri Paesi (Italia, Francia, Spagna, Grecia, Portogallo…) perdono quote di mercato.

La via più rapida, e nel breve periodo meno dolorosa, per recupe-rare la competitività delle esportazioni sarebbe il deprezzamento del tasso di cambio. Ma se il tasso di cambio non è nel controllo dei sin-goli Stati, perché appartengo ad un’area a moneta unica nella quale i tassi di cambio non ci sono, vi sono poche alternative: o si riducono i salari e per questa via i prezzi dei prodotti, cercando di continuare così a sostenere la domanda aggregata con le esportazioni, o si deve rinunciare a far crescere le esportazioni aumentando la domanda ag-gregata puntando sulle sue altre componenti (spesa pubblica, con-sumi, investimenti).

È proprio ciò che accade nell’Eurozona: alcuni Paesi (Grecia e Portogallo in particolare) realizzano massicce politiche di bilancio espansive, incrementando la componente spesa pubblica della do-manda aggregata, mentre in altri (Spagna e Irlanda) si gonfia una bolla speculativa immobiliare che incrementa la componente consu-mi e investimenti. Altri ancora, come l’Italia, si trovano con un debito pubblico eccessivo e non attuano politiche finalizzate alla competiti-vità.

In ogni caso, dal punto di vista della crescita del PIL tanto la bolla quanto la spesa pubblica espansiva si dimostrano strumenti as-sai potenti, garantendo un’ottima performance economica a questi Paesi. Così come assai efficace si dimostra la politica tedesca tesa al recupero di competitività con la moderazione salariale, che riesce ad ottenere un aumento della domanda aggregata grazie all’aumento delle esportazioni. Nel primo caso però, a differenza del secondo, la crescita del PIL è accompagnata da un rilevante incremento del debito: di quello pubblico, usato per finanziare la spesa pubblica espansiva realizzata in deficit, in Grecia e Portogallo; di quello pri-vato, usato per finanziare gli acquisti immobiliari, in Spagna e Irlan-da. Ma finché flussi consistenti di prestiti giungono dai Paesi core dell’Eurozona, questo non sembra costituire un problema rilevante.

In realtà, i problemi ci sono. Il primo e più rilevante riguarda la Grecia, che nel sostenere la massiccia spesa pubblica espansiva con la quale riesce a far crescere la sua economia, si trova a dover fare i conti con il Patto di Stabilità e Crescita, del quale noi ci siamo già occupati nella sezione 14.3.3. Il Patto infatti, al fine di impedire che la spesa in deficit dei Governi possa generare esternalità rilevanti per gli altri Stati membri dell’Eurozona, prevede delle sanzioni nel caso in cui il deficit di bilancio di uno Stato superi il 3% del PIL. Ma la spesa in deficit della Grecia è così terribilmente efficace proprio perché è largamente superiore ai limiti imposti, e il Paese la può realizzare

Aumento dei salari

Politiche economiche in Grecia e Portogallo

Spesa in deficit in Grecia

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19. L’evoluzione recente della Macroeconomia e la crisi 2007-2014

senza incorrere in sanzioni solo comunicando dati di bilancio con-traffatti.

A parte la situazione greca, anche gli altri Paesi periferici iniziano a evidenziare gravi squilibri, con deficit crescenti nel conto corren-te della bilancia dei pagamenti, indebitamenti (pubblici e/o privati) crescenti, tensioni inflazionistiche. Insomma, i problemi sono latenti ma non vengono ancora esplicitamente allo scoperto.

È su questo composito e problematico scenario che impatta lo scoppio della bolla subprime statunitense. Impatta innanzitutto come crisi finanziaria, poi come crisi reale. Come crisi finanziaria, perché non solo alcune banche Europee hanno acquistato i titoli risultan-ti dalla cartolarizzazione dei mutui subprime degli Stati Uniti, ma in alcuni Paesi (principalmente Spagna e Irlanda) le banche si sono fortemente esposte concedendo mutui immobiliari ai residenti, fi-nanziando cioè la bolla speculativa di quei Paesi.

E quando scoppia la bolla negli Stati Uniti subito dopo scoppia anche quella europea, così che le banche si trovano a subire pesanti perdite sia sui titoli della cartolarizzazione statunitense posseduti, sia sui prestiti concessi ai residenti. Coll’usuale risultato di crisi ban-caria, timore nel concedere prestiti ad altre banche che potrebbe-ro essere sull’orlo del fallimento, blocco del mercato interbancario, blocco dei prestiti all’economia reale (Credit Crunch).

Le imprese si trovano così in difficoltà nell’ottenere prestiti pro-prio mentre arriva la crisi reale, quella scatenata dalla riduzione delle importazioni statunitense, che sono (anche) esportazioni dell’Euro-pa, ossia domanda per le imprese europee. Le imprese quindi ven-dono meno, non riescono a ripagare i prestiti che hanno contratto, non ottengono nuovi prestiti, falliscono o comunque riducono l’oc-cupazione, la disoccupazione aumenta, con l’aumento della disoc-cupazione si riduce la domanda interna e le imprese devono ridurre ancora la produzione. E così via.

La reazione europea alla crisi è differente dalla reazione statuni-tense. Stavolta la Banca Centrale Europea è inizialmente molto pru-dente, ritenendo che il suo obiettivo sia la stabilità dei prezzi e non il sostegno alla domanda, ed interviene con ritardo. Intervengono invece rapidamente alcuni Governi, con politiche di spesa pubblica espansiva, ma a questo punto la situazione precipita.

Infatti, il 10 Novembre 2009 il nuovo Governo di George Papan-dreou dichiara che il bilancio della Grecia è falso: il rapporto deficit/PIL non è del 3.6%, come assicurato dal precedente Governo, ma molto superiore.

Non sarà né facile né rapido scoprire la vera dimensione di que-sto deficit, ma alla fine si rivelerà essere attorno al 15% del PIL. Sui mercati scoppia il panico. Se fino alla crisi subprime il denaro veniva prestato con enorme facilità, nella convinzione (rivelatasi come ab-biamo visto errata) che nessuno potesse fallire, e che se anche fosse successo esistevano strumenti finanziari sofisticati che impedivano ai fallimenti di far danni rilevanti, dopo la crisi USA tutti diventano

Crisi finanziaria

Crisi reale

Credit Crunch

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19.3. La crisi europea

estremamente prudenti, e per prestare a soggetti rischiosi chiedono tassi di interesse elevatissimi. La Grecia incontra così enormi diffi-coltà, ed enormi costi, nel finanziarsi sul mercato. In breve il tasso di interesse che è costretta a pagare diventa così alto che il Paese non può sostenerlo e chiede sostegno finanziario agli altri Stati Europei e al Fondo Monetario Internazionale.

Il sostegno viene concesso, , prima sotto forma di prestiti bilate-rali a tasso agevolato, poi anche con l’intervento dei cosiddetti fondi salva-Stati (dei quali ci occuperemo tra breve), ma che non eviterà alla Grecia il default (fallimento) del marzo del 2012, quando il Paese sostanzialmente cancella il 70% dei suoi debiti – senza comunque ri-solvere i suoi problemi, visto che il debito si ricrea dopo pochi mesi.

Tornando al 2009, l’Irlanda comincia a percepire l’ampiezza del-la crisi bancaria che la colpisce, dopo che l’anno prima il Governo ha concesso garanzie “illimitate” alle proprie banche che apparivano sull’orlo del fallimento, garanzie che si riveleranno in seguito molto più costose di quanto inizialmente ipotizzato.

Le banche irlandesi entrano in crisi per l’aver acquistato ingenti quantità di titoli delle cartolarizzazioni statunitensi e inglesi (anche in Gran Bretagna si è gonfiata, ed è scoppiata, una bolla immobiliare), titoli che poi si sono spesso rivelati carta straccia, ma anche (soprat-tutto) per aver finanziato con eccessiva leggerezza i mutui immobi-liari dei cittadini irlandesi, divenuti anch’essi insolventi quando la bolla irlandese scoppia assieme a quella statunitense. Per salvare le sue banche (ossia i correntisti delle sue banche: se una banca fallisce, chi ha denaro sui conti correnti rischia seriamente di perderlo), il Governo irlandese taglia gran parte delle altre spese e si indebita pesantemente sui mercati.

Un processo analogo si registra in Spagna, dove, però, la dimen-sione del Paese permette di ammortizzare meglio la crisi. E fenome-ni minori, con un misto di coinvolgimento in bolle speculative che scoppiano ed eccesso di indebitamento pubblico, caratterizzeranno anche il Portogallo e la Slovenia. Il nervosismo dei mercati fa alzare il livello medio dei tassi di interesse che devono pagare tutti i Pae-si in difficoltà, Italia compresa, rendendo sempre più problematica la gestione della finanza pubblica soprattutto per i Paesi “deboli” accomunati dal dispregiativo acronimo di PIIGS (Portogallo, Ita-lia, Irlanda, Grecia, Spagna), che ricorda il termine inglese “pigs”, maiali. A lasciar intendere che sarebbe stata una gestione finanziaria eccessivamente disinvolta a mettere questi Paesi nei guai: cosa che, come abbiamo visto, era vera solo per alcuni Paesi, segnatamente la Grecia e, in parte, il Portogallo.

Di fronte a questa situazione, le politiche di intervento impiegano un po’ a stabilizzarsi, ma poi si delineano con chiarezza. Da un lato la Banca Centrale Europea attua una politica monetaria finalmente espansiva, anche senza giungere mai al massiccio quantitative easing della FED. Dall’altro tanto i governi (con alcune eccezioni) quanto le istituzioni europee virano su politiche di bilancio restrittive.

Aumento tasso interesse debito greco

La crisi irlandese

Politiche di intervento nell’Eurozona

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Contemporaneamente, vengono organizzate operazioni di salva-taggio nei confronti dei Paesi in difficoltà, prestando loro denaro a tassi molto più bassi dei tassi di mercato. Questi prestiti sono ero-gati dai fondi temporanei europei di salvataggio, che hanno proprio lo scopo di reperire denaro sul mercato, emettendo obbligazioni garantite dai Paesi europei più “forti”, e prestarlo ai Paesi deboli a tassi contenuti. Questi fondi sono inizialmente l’EFSF (European Fi-nancial Stability Facility, un fondo dei Paesi appartenenti all’Unione Economica e Monetaria) e l’EFSM (European Financial Stabilization Mechanism, un fondo dell’Unione Europea); nell’ottobre del 2012 questi fondi temporanei sono stati sostituiti da un fondo permanen-te, l’ESM (European Stability Mechanism). I fondi intervengono nei salvataggi di Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro. I Paesi che richiedono loro assistenza finanziaria devono sottoscrivere una serie di impegni sostanzialmente volti al rigore di bilancio, al taglio della spesa pubblica e all’introduzione di una serie di riforme, soprattutto nel mercato del lavoro. E sempre al rigore di bilancio, con tagli ai deficit e riduzione del debito pubblico, si impegnano tutti i Paesi dell’Eurozona firmando il cosiddetto Fiscal Compact. La politica del rigore, appunto.

Mentre non ci sono grossi dubbi nell’indicare in una politica mo-netaria espansiva una ricetta ragionevole per combattere una reces-sione, più controversa è la scelta di contrastarla con politiche di bilan-cio restrittive come le politiche del rigore, soprattutto se nel resto del mondo, e in particolare negli Stati Uniti e in Giappone, si compiono scelte opposte. Le politiche di contenimento della spesa infatti, co-me sappiamo, riducono il reddito e aggravano la recessione. Come giustificare, quindi, questa scelta tutta europea?

Da un lato dobbiamo forse ricordare che le istituzioni statuniten-si sono tendenzialmente più pragmatiche, più Keynesiane, rispetto alle analoghe istituzioni europee, che sono tendenzialmente più ne-oclassiche; e che la natura della crisi, e soprattutto la struttura istitu-zionale sulla quale incide, sono profondamente diverse in Europa e negli Stati Uniti. Ciò nonostante, le politiche intraprese nell’Eurozo-na sono apparse discutibili a più di un economista.

Per quanto concerne le implicazioni delle diverse concezioni di politica economica possiamo rimandare all’inizio di questo capito-lo, quando abbiamo rilevato come per l’impostazione neoclassica il sistema tenderebbe spontaneamente alla piena occupazione e l’in-tervento pubblico nell’economia per sostenere la domanda aggrega-ta sarebbe inutile e soprattutto dannoso, mentre per l’impostazione Keynesiana, nonostante il recente avvicinamento alle posizioni neo-classiche, l’intervento pubblico avrebbe ancora un ruolo.

Per quanto invece concerne la differenza tra Europa e Stati Uni-ti, il problema cruciale risiede nelle cause ultime della crisi europea. Secondo una impostazione largamente condivisa, anche se non una-nime, la crisi europea non sarebbe una conseguenza né della crisi subprime degli Stati Uniti, né dell’eccesso di indebitamento pubblico

Le riforme obbligatorie

Le cause della crisi europea

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(o privato) di alcuni Paesi, bensì di un problema di differenziali di produttività/competitività tra Paesi. Secondo questa impostazione il debito sarebbe solo una conseguenza delle strategia di crescita che i diversi Paesi hanno adottato: come abbiamo visto, infatti, per contrastare il calo della domanda associato al calo delle esportazio-ni nette, calo a sua volta determinato dalla perdita di competitività, una volta abbandonate le proprie valute e abbracciato l’euro i Paesi deboli dell’Eurozona non hanno più potuto utilizzare lo strumento della svalutazione del cambio.

Alcuni Paesi hanno dunque sostenuto la domanda e il reddito ge-nerando bolle, e debito privato, altre spesa pubblica espansiva, e dunque deficit di bilancio e debito pubblico. Il debito sarebbe dun-que una conseguenza di un problema, non il problema stesso. Tra l’altro, bolle e spesa pubblica sarebbero solo una soluzione tampone macroeconomica a un problema che è invece microeconomico, os-sia la perdita di competitività. Per risolvere il problema si dovrebbe operare alla radice. Come? Ridando competitività all’economia, os-sia facendo investimenti capaci di incrementare la produttività (istru-zione, formazione, ricerca e sviluppo) o riducendo i prezzi delle mer-ci esportate.

L’ultima strategia tra quelle indicate è la più rilevante, anche se solo perché è la meno costosa, oltre ad essere la più rapida da con-seguirsi, ed è fondata sul concetto di deflazione interna. L’idea di base è che se i salari si riducono, le imprese vedono ridursi i costi di produzione e possono ridurre i prezzi, recuperando competitività internazionale.

Affinché questo accada, però, è cruciale che i salari si riducano, cosa che può accadere o con politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro che riducano la rigidità dei salari verso il basso, o anche lasciando fare al mercato, perché la crisi recessiva, se protratta, ten-de a fiaccare la resistenza dei lavoratori, e dei sindacati, forzandoli ad accettare le riduzioni salariali pur di uscire dalla disoccupazione. Ciò spiega la politica del rigore adottata dalle autorità europee, che impone tagli di spesa pubblica, che tendono a portare in recessione l’economia, e/o riforme strutturali, tipicamente liberalizzazioni del mercato del lavoro. Tra l’altro, secondo i proponenti queste poli-tiche non solo porterebbero ad una maggiore competitività delle esportazioni, ma implicando un minor ruolo dello Stato nell’econo-mia porterebbero gli imprenditori (nazionali ed esteri) ad investi-re nel Paese, e gli investimenti non solo rilancerebbero la domanda aggregata, il reddito e l’occupazione nel breve periodo, ma nel più lungo periodo accrescerebbero lo stock di capitale contribuendo alla crescita, ossia all’aumento della produzione potenziale del Paese.

Naturalmente esiste anche un’altra impostazione, più keynesiana, che pur riconoscendo i problemi di produttività dei Paesi periferici interpreta la crisi principalmente dal lato della domanda e non dal lato dell’offerta, come fa invece l’interpretazione del rigore. Secon-do questa diversa impostazione si potrebbe recuperare l’equilibrio

Non è possibile per i singoli Paesi utilizzare lo strumento della svalutazione del cambio

Deflazione interna

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19. L’evoluzione recente della Macroeconomia e la crisi 2007-2014

tra le diverse competitività dei diversi Paesi non aumentando la com-petitività dei Paesi “deboli”, ma riducendo quella dei Paesi “forti”. In particolare la Germania dovrebbe (come in parte è comunque accaduto) iniziare a far crescere i propri salari, incrementando così i propri prezzi e riducendo la competitività delle proprie esportazioni, e/o far crescere la spesa pubblica, incrementando la domanda aggre-gata, il reddito e dunque le importazioni, che altro non sono se non le esportazioni degli altri Paesi.

I Paesi dell’Eurozona hanno comunque scelto il rigore, probabil-mente preoccupati per le conseguenze sui debiti pubblici di politi-che che lasciassero più spazio alla spesa pubblica espansiva. Il lettore può valutare da solo l’efficacia di tale scelta.

Al momento in cui questo libro va in stampa la crisi europea si è attenuata, ma assolutamente non risolta. Soprattutto, come è evi-dente da quanto abbiamo sin qui detto, per superare la crisi non sarà sufficiente agire sui debiti (pubblici e privati) dei Paesi periferici dell’Eurozona, ma bisognerà intervenire sui divari di produttività che sono alla base di quei debiti. Rendere insomma i Paesi europei più simili tra loro, sia come struttura produttiva sia come assetto istitu-zionale, avvicinandoli all’essere quell’area valutaria ottimale che sola potrebbe permettere a Paesi diversi di condividere un’unica moneta e un’unica politica monetaria. In assenza di queste trasformazioni strut-turali il problema non potrà che ripresentarsi, sotto le attuali o sotto diverse spoglie, e la permanenza di alcuni Paesi nella moneta unica diventerà sempre più problematica.

Sembra dunque corretto affermare che forse sarebbe stato op-portuno riflettere meglio ed essere consci dei problemi che sarebbe-ro potuti sorgere prima di aderire alla moneta unica europea.

19.4. Si può uscire dall’Eurozona?

Poiché molti economisti avanzano, oggi, seri dubbi sulla convenien-za, allora, dell’ingresso nell’Eurozona di alcuni Paesi, ci si potrebbe domandare se, di fronte alle difficoltà di rimanere nell’area euro, non possa essere più conveniente per un Paese abbandonare l’euro e reintrodurre la propria valuta nazionale.

Come abbiamo già accennato, l’euro è stato però costruito per essere una scelta (quasi) irreversibile, con costi elevatissimi in caso di uscita di un singolo Paese: poteva forse convenire non entrare nell’Eurozona, ma una volta entrati uscirne non è affatto facile o indolore.

In quanto segue ci occuperemo delle conseguenze economiche dell’abbandono dell’Eurozona da parte di un Paese, valutandone dun-que la fattibilità economica; trattandosi di un manuale di economia, non ci occuperemo invece dei problemi giuridici e delle controversie che potrebbero sorgere, ossia della fattibilità giuridica della cosa. E non ci occuperemo neppure del caso, più complesso ma probabil-

Debiti pubblici e divari di produttività

I costi dell’uscita dall’Euro

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19.4. Si può uscire dall’Eurozona?

mente meno costoso, rappresentato da un dissolvimento concordato dell’intera Eurozona.

Vediamo dunque cosa accadrebbe se un Paese decidesse di uscire dall’Eurozona e tornare alla precedente valuta nazionale, o introdur-re una nuova valuta nazionale, al fine di recuperare l’indipendenza della politica monetaria e di bilancio e/o la possibilità di manovrare il tasso di cambio.

Innanzitutto, il Paese dovrebbe effettuare l’uscita a sorpresa, non in maniera democratica (non quindi come risultato di un referendum o di una discussione in Parlamento). Questo perché altrimenti non appena si iniziasse a discutere anche solo della possibilità di indire un referendum o effettuare un voto parlamentare, tutti coloro i quali possedessero euro sui propri depositi bancari (o titoli di quel Paese denominati in euro) li trasferirebbero immediatamente in un altro Paese dell’UEM (o, nel caso dei titoli, li venderebbero e ne compre-rebbero altri emessi da un altro Paese), uno di quelli che si presume manterranno la moneta unica europea, al fine di evitare le perdite derivanti dalla conversione dei depositi e dei titoli in depositi e titoli denominati nella nuova moneta che, verosimilmente, si deprezzerà rispetto all’euro. Ma se si verificasse questa fuga di capitali le banche si troverebbero prive di liquidità e il Governo non riuscirebbe più a vendere i propri titoli sul mercato: il che condurrebbe al fallimento tanto le banche quanto il Governo. E questo molto prima che avven-ga la votazione parlamentare, il referendum e il cambiamento di va-luta. Quindi è necessaria una decisione a sorpresa, presa con decreto legge di venerdì sera a mercati chiusi e banche chiuse. Ammesso naturalmente che ci si riesca e non ci siano fughe di notizie.

Con questa decisione il Governo non solo dichiarerà la sostitu-zione dell’euro con una nuova valuta, restituendo potere di emissione e autonomia di politica monetaria alla propria Banca Centrale, ma convertirà anche depositi bancari e debito pubblico denominati in euro in depositi bancari e debito denominati nella nuova valuta. Il cambiamento della denominazione del debito da euro a nuova valuta è indispensabile perché altrimenti il Paese si troverebbe con un inde-bitamento in valuta straniera, compirebbe cioè il cosiddetto “peccato originale” (original sin) che tanti problemi ha creato a parecchi Paesi in via di sviluppo, costretti ogni anno a procurarsi in tutti i modi ingenti quantitativi di valuta straniera per pagare interessi e rimborsi del debito. È dunque opportuna la conversione del debito nella nuo-va valuta. E qui iniziano i problemi veri.

Il primo problema riguarda i depositi bancari. I correntisti, infat-ti, si aspetteranno che la nuova valuta si deprezzi rispetto all’euro, quindi cercheranno di recuperare dalle banche il loro denaro (ormai convertito nella nuova valuta, se la decisione è stata presa a sorpre-sa) per cambiarlo in euro prima del deprezzamento. Se ci riuscisse-ro, non solo le banche si troverebbero in grave crisi di liquidità, ma soprattutto si avrebbe una fuga di capitali che causerebbe proprio il deprezzamento, in questo caso ingentissimo. Per evitare che ciò

Conversione dei depositi e dei titoli

Cambiamento della denominazione del debito

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19. L’evoluzione recente della Macroeconomia e la crisi 2007-2014

accada è ragionevole ipotizzare che si decreti un blocco alla circola-zione dei capitali con l’estero ma anche la chiusura delle banche per un certo periodo di tempo, al fine di evitare che qualcuno ritiri dena-ro contante per portarlo fisicamente all’estero. Tutto ciò creerebbe problemi rilevanti ma non insormontabili all’economia del Paese.

Esiste però un secondo problema che riguarda i debiti privati. Se il solo debito pubblico è convertito nella nuova valuta, mentre non lo è il debito privato, le imprese si troveranno indebitate in euro ma incasseranno (a parte quelle dedite unicamente alle esportazio-ni) almeno in parte pagamenti nella nuova valuta. Qualora, come è verosimile che accada, la nuova valuta finisse per deprezzarsi rispetto all’euro, le imprese vedrebbero aumentare enormemente i propri de-biti nella nuova valuta e finirebbero per dover dichiarare insolvenza. Non sarebbe d’altro canto possibile convertire nella nuova valuta anche i debiti privati perché altrimenti sarebbero le banche che li hanno concessi (e che sono indebitate con altre banche dell’Euro-zona in euro) a dover dichiarare insolvenza. È quindi cruciale che la nuova valuta si deprezzi poco o per nulla nei confronti dell’euro.

È verosimile che la nuova valuta si deprezzi poco o per nulla rispetto all’euro? Non particolarmente. Infatti l’assenza di deprez-zamento richiederebbe un totale blocco della circolazione dei capi-tali a tempo indeterminato e una lunga chiusura delle banche, con pressanti controlli alle frontiere per impedire le esportazioni illegali di denaro: tutto ciò implicherebbe conseguenze assai negative per l’economia nazionale e non permetterebbe comunque di raggiunge-re l’obiettivo, come testimonia il sostanziale fallimento, almeno nel medio/lungo periodo, di blocchi analoghi imposti in alcuni Paesi dell’America meridionale.

Inoltre, il recupero dell’indipendenza di politica monetaria sarebbe utile anche per recuperare lo strumento del cambio: un deprezza-mento del tasso di cambio, infatti, permetterebbe di incrementare le esportazioni e, almeno nel breve periodo, di recuperare tanto la competitività internazionale quanto il “traino” della domanda estera per la spesa aggregata e quindi per il reddito. Insomma, il deprez-zamento del cambio sembra non solo un esito scontato, ma almeno per il breve periodo auspicabile (anche se, nel più lungo termine, aumenterebbe il costo delle materie prime e dei prodotti importati e finirebbe per creare forti pressioni inflazionistiche, con aumenti dei prezzi che rischierebbero di compromettere la ritrovata competitivi-tà). Difficile quindi pensare che non si realizzi, ma se si realizzasse creerebbe default privati a catena nell’economia nazionale.

Questo breve elenco non esaurisce i problemi che si verifiche-rebbero, ma può essere utile per capire l’entità delle difficoltà che si incontrerebbero: difficoltà rilevanti, con costi economici e sociali altissimi. Il che non implica sostenere che l’abbandono dell’Euro-zona sia impossibile o non convenga: vuol solo dire che avrebbe un senso pagare questi costi altissimi solo e unicamente se i costi della permanenza nell’Eurozona fossero ancora più alti.

Blocco circolazione dei capitali

Debiti privati

Deprezzamento del cambio

Nicola Boccella - Fabio D'Orlando - Azzurra Rinaldi
Macroeconomia
SEGUE
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