Luce e Vita Giovani n.85

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P rima di iniziare a leggere questo arcolo vi invito a cercare su YouTube il video “Te prometo una vida apasionante”, campagna pubblicitaria a cura della Conferenza Episcopale Spagnola per la giornata per le vocazioni. Si traa di un video a mio parere bellissimo, oserei dire geniale dal punto di vista pubblicitario, se non fosse per la preziosa “merce” di cui è la reclame. Il prodoo in quesone è un “posto fisso” un po’ speciale, la vocazione sacerdotale. In una Spagna, dove il tasso di disoccupazione giovanile va oltre il 50%, il più alto tra i Paesi sviluppa, anche il diventare sacerdote viene proposto come alternava alla mancanza di lavoro. In una Spagna, dove un frate è uno dei concorren dell’ulma edizione della “Casa del Grande Fratello”, non stupisce come anche la Chiesa si adegui alle nuove fronere del markeng virale, promeendo una vita “apasionante” ai propri giovani, una vita al servizio dei propri fedeli. Se quel video avesse propagandato un’altra occupazione avrebbe senz’altro raggiunto l’obievo di suscitare interesse in essa… ma fino a che punto una vocazione, una missione, possono essere considera un “lavoro”? La mia non vuole essere una crica all’ulizzo delle nuove tecnologie, ma alle frasi che i sacerdo protagonis 85 Inserto mensile di informazione e comunicazione del mondo giovanile a “Luce e Vita” n.18 del 29 aprile 2012 Piazza Giovene 4 -70056 Molfetta www.lucevitagiovani.it [email protected] Noi, discepoli di Emmaus di giuseppe mancini.................2 Bagaglio Afghanistan di silvia ayroldi.........................5 Uscita in fondo a destra di giuseppe daconto................3 Terzi tempi di francesca messere................6 Dacci oggi la lista quotidiana di carmela zaza..........................4 o finta Quasi perfetta di annarita marrano..................8 10 o Anno PRO-VOCAZIONE 2.0 mauro capurso dello spot ripetono: belle, provocan. Forse un po’ troppo. Le campagne pubblicitarie non si esauriscono alla manifestazione visiva ma è opportuno sempre considerare in che modo esse agiscono sul “consumatore”; una bella pubblicità che non fa aumentare le vendite non è una buona pubblicità. Mai come in questo caso, oltre al dato numerico quel che più conta è la qualità. Come saranno le future generazioni di sacerdo? Ci saranno semplicemente più sacerdo o più uomini al servizio di Dio, più pastori o meno disoccupa?

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Inserto mensile della diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi di informazione e comunicazione giovanile (aprile 2012)

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Prima di iniziare a leggere questo articolo vi invito a cercare su YouTube il video “Te prometo una vida

apasionante”, campagna pubblicitaria a cura della Conferenza Episcopale Spagnola per la giornata per le vocazioni. Si tratta di un video a mio parere bellissimo, oserei dire geniale dal punto di vista pubblicitario, se non fosse per la preziosa “merce” di cui è la reclame. Il prodotto in questione è un “posto fisso” un po’ speciale, la vocazione sacerdotale. In una Spagna, dove il tasso di disoccupazione giovanile va oltre il 50%, il più alto tra i Paesi sviluppati, anche il diventare sacerdote viene proposto come alternativa alla mancanza di lavoro. In una Spagna, dove un frate è uno dei concorrenti dell’ultima edizione della “Casa del Grande Fratello”, non stupisce come anche la Chiesa si adegui alle nuove frontiere del marketing virale, promettendo una vita “apasionante” ai propri giovani, una vita al servizio dei propri fedeli. Se quel video avesse propagandato un’altra occupazione avrebbe senz’altro raggiunto l’obiettivo di suscitare interesse in essa…ma fino a che punto una vocazione, una missione, possono essere considerati un “lavoro”? La mia non vuole essere una critica all’utilizzo delle nuove tecnologie, ma alle frasi che i sacerdoti protagonisti

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Inserto mensile di informazione e comunicazione del mondo giovanile a “Luce e Vita” n.18 del 29 aprile 2012

Piazza Giovene 4 -70056 [email protected]

Noi, discepoli di Emmausdi giuseppe mancini.................2

Bagaglio Afghanistan di silvia ayroldi.........................5

Uscita in fondo a destradi giuseppe daconto................3

Terzi tempidi francesca messere................6

Dacci oggi la lista quotidiana di carmela zaza..........................4o finta Quasi perfetta di annarita marrano..................8

10oAnno

pro-vocAzioNE 2.0mauro capurso

dello spot ripetono: belle, provocanti. Forse un po’ troppo. Le campagne pubblicitarie non si esauriscono alla manifestazione visiva ma è opportuno sempre considerare in che modo esse agiscono sul “consumatore”; una bella pubblicità che non fa aumentare le vendite non è una buona pubblicità. Mai come in questo caso, oltre al dato numerico quel che più conta è la qualità. Come saranno le future generazioni di sacerdoti? Ci saranno semplicemente più sacerdoti o più uomini al servizio di Dio, più pastori o meno disoccupati?

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giuseppe mancini

noi, discepoli di emmaus

Quale senso dare alla vita, quando gli avvenimenti sembrano divertirsi a staccare una alla

volta le dita che si erano aggrappate ad appigli ritenuti sicuri? Nel corso della mia vita, ho conosciuto persone che ritenevo normali, ma che normali non erano; erano indicazioni, modelli, erano valori. Tutti discutono, recitano, cantano, twittano che la vita sia un viaggio: il nostro camminare non è altro che la somma di piccoli o grandi passi. Nel nostro percorso, sentire il rumore dei sandali di Clèopa, non è per nulla difficile, visto quello che stiamo vivendo. Un passo dopo l’altro, i due discepoli, condividono con noi questo senso di precarietà e di debolezza che avvolge molte aspirazioni, pensieri e comportamenti. Questi due discepoli se ne vanno dal Cenacolo il giorno dopo che Gesù è apparso alle donne e che Pietro e Giovanni si sono precipitati alla tomba vuota; i due discepoli sono ormai già a una decina di chilometri dalla Città Santa e non sono neppure andati a verificare se questi fatti siano veri; non sono andati alla tomba, se ne stanno andando chiusi nel loro sconforto, divisi tra loro mentre “conversano e discutono” a tal punto da avere “gli occhi impediti” a riconoscere Gesù che si pone sul loro cammino. Sono davvero convinti che tutto sia finito. La speranza di cambiamento aveva creato nelle diverse ideologie, una bussola di orientamento; anche se essa aveva pesantemente condizionato il modo di

pensare, per molti aveva rappresentato un punto di riferimento ormai svanito. La nostra esistenza è una “campagna elettorale permanente” sulla via che fugge da Gerusalemme. Certo, probabilmente non bestemmiamo, preghiamo e andiamo in Chiesa, ma il cuore è avariato, spera male ed è strozzato nella delusione. Dietro a tante, forse a tutte, le nostre discussioni, ai nostri discorsi, alle nostre interminabili ricerche di verità e di soluzioni, dietro ai sofismi e alle indagini circa i responsabili dei mali che ci affliggono, dietro alla quasi totalità dei nostri pensieri e delle nostre parole vi è una speranza delusa. Meglio sarebbe dire una speranza buttata. E` prevalente una cultura rinunciataria e frammentata, ripiegata sul privato o tesa unicamente al profitto, incapace di grandi progetti e di coraggiose spinte ideali. L’uomo di oggi vive l’esperienza della divisione fra ciò che capisce con la ragione e ciò che prova come emozione, fra quello che pensa e come si comporta, fra le esigenze della verità e l’ebbrezza della libertà senza regole, fra intelligenza e passione. La speranza risulta così frammentata che egli non trova più le forze per spendersi totalmente e con continuità per un ideale: la crisi di identità provoca crisi di impegno. A queste condizioni diventa difficile assumere impegni che durino per sempre, come, ad esempio, giurarsi fedeltà e amore per tutta la vita. La fine dei grandi progetti ideali ha lasciato un

vuoto, ha ristretto gli orizzonti della vita, ha provocato un riflusso nel privato alla ricerca di spazi tranquilli dai quali contemplare se stessi e il proprio mondo individuale. Questa cultura individualista porta a una soggettivizzazione della fede, per cui la verità cristiana viene recepita e considerata valida soltanto nella misura in cui corrisponde alle proprie esigenze e soddisfa il bisogno religioso del singolo: cancellare i problemi; eliminare i fallimenti, le solitudini, la maggior parte di quel che ci tocca vivere ogni giorno. E discutiamo, litighiamo, ci appassioniamo, indaghiamo, scartavetriamo ogni angolo dell’esistenza mentre gli occhi guardano e non vedono. Anche la “predicazione” non ci è sufficiente, come non lo era stato per i due discepoli l’annuncio delle donne che avevano visto gli angeli e il sepolcro vuoto; troppo deboli gli indizi. Questo perché siamo fatti di carne, e la carne vuole la carne. La speranza di libertà che portiamo dentro vuole vedere realizzarsi quella profonda armonia tra la nostra “itinerante umanità” e la “stabile verità”; di altro non è capace.Si dice che il valore di un uomo non si vede da ciò che ha ma da quello che cerca; allora la mia strada la disegnerò io e la faro abbastanza lunga da mettere in fila tutta la mia vita, curva dopo curva, in attesa dell’incontro con chi, spezzando il pane, darà valore alla mia ricerca.

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La flessibilità in uscita. Questo è il tema che sta dietro il fantomatico articolo 18. “Prego, per l’uscita in fondo a destra”. Nel

mercato del lavoro non ci sono maggiordomi che ti accompagnano alla porta, ma regole contrattuali più o meno definite e più o meno estese a tutti i lavoratori. Il campo di ragionamento è minato, perché si tratta della disciplina che regola la perdita di lavoro e se si perde il lavoro si vive un dramma. Lo si sa bene in questo momento storico in cui il tasso di disoccupazione nei Paesi Avanzati e in Italia ha raggiunto livelli seriamente preoccupanti (non c’è bisogno di leggere ciò che dice la Christine Lagarde del FMI o Mario Draghi per capirlo). Riecheggiano imponenti le parole del Vangelo “La messe è molta e gli operai sono pochi!”. Questo è il primo punto, perché parlare di “condizioni di uscita dal mercato del lavoro” in un momento in cui sono tanti i lavoratori che escono dal mercato del lavoro ? E’ opportuno? Alcuni dicono per facilitare la rioccupazione degli stessi, altri dicono per allinearci agli “standard europei”, altri perché è la riforma che manca. In effetti, l’articolo 18 garantisce una “tutela forte” dal licenziamento, applicabile alle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti, per i lavoratori che sono licenziati senza giustificato motivo soggettivo (o disciplinare) e oggettivo (per motivi economici): la cosiddetta tutela reale, ossia la possibilità di reintegro nel posto di lavoro. Effettivamente, pochi scelgono di tornare nel posto di lavoro dove è nata una controversia legale così forte tra lavoratore e datore di lavoro, eppure l’articolo 18 funziona da deterrente. Anzi, per alcuni è così deterrente che rende difficile i licenziamenti stessi, limitando così investimenti esteri e produttività aziendale, nonché disincentivando la “distruzione creativa” di imprese di Schumpeteriana memoria. Questo è il secondo punto. Quanto è controproducente l’effetto deterrente dell’attuale articolo 18, rispetto alla vita delle imprese, agli investimenti e alla nuova occupazione? Qui le scuole di pensiero

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si confondono con ideologie e opinione politica, a scapito dell’evidenza empirica. Non si investe in Italia per paura di doversi tenere in azienda lavoratori improduttivi “illicenziabili”? Il dover giustificar il motivo del licenziamento per l’azienda complica e peggiora le proprie performance economiche aziendale, a vantaggio della ”concorrenza internazionale”? I dubbi sono tanti, eppure sembrerebbero altre le questioni che complicano la vita alle imprese italiane: forse, non sarà la lungaggine e la complessità del contenzioso giudiziario? Benché la proposta iniziale fosse più tranchant: possibilità di reintegro solo per i licenziamenti illegittimi discriminatori e in alcuni casi per quelli disciplinari, il disegno di legge in discussione ora al Senato prevede il reintegro anche per i licenziamenti illegittimi per motivi economici, purché il giudice ne accerti la manifesta insussistenza. Ed è prevista una procedura di conciliazione assistita tra lavoratore e datore di lavoro prima del contenzioso legale. Sarà un modo di gestire l’uscita del lavoratore in maniera meno indolore e meno problematica per

imprese e lavoratori? Non è ancora chiaro e il passaggio parlamentare sarà abbastanza tumultuoso. Ma i problemi restano in ciò che accade nel “corridoio” prima dell’uscita (tendenzialmente in fondo a destra, come il bagno) e ciò che accade dall’uscio della porta in poi. Se ci fosse un contesto organizzativo a livello aziendale (della flessibilità funzionale o organizzativa nessuno ne parla) che mettesse i lavoratori nelle condizioni di lavorare al meglio, ossia maggiore cooperazione, coinvolgimento, sforzo condiviso, partecipazione alla definizione di scelte di management, utilizzo intelligente e condiviso delle ICT (information and communications technology), forse l’accompagnamento all’uscita sarebbe, eventualmente, meno probabile o meno difficile o comunque meno conflittuale. Se ci fosse un mercato del lavoro dinamico, dove lo “stesso mercato” fungesse da migliore ammortizzatore sociale possibile, sarebbe tutto diverso (questo ci differenzia veramente da alcuni Paesi presi a modello, come quelli scandinavi). Quali sono le dinamiche della nostra domanda di lavoro (fortemente concentrata in alcune aree del Paese e per certe tipologie di lavori) e quelle dell’offerta di lavoro, alterata dal lavoro nero e grigio e da una istruzione/formazione spesso non al passo con i tempi? Come si trova lavoro? Quanto valgono i contatti informali (alias “raccomandazioni” ) e quanto i canali dell’istruzione/formazione o dei servizi per l’impiego nella ricerca del lavoro? Quanto questi creano frizioni nella dinamica della ricerca di lavoro? Le imprese come si comportano? Come assumono e perché? Questi sono i nodi da sciogliere. Politiche per l’occupazione e per la crescita economica sono necessarie ma al momento sono abbastanza assenti. “Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”, l’invito valeva ieri tanto quanto oggi.

giuseppe daconto

Uscita, infondo a destra

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Qualche settimana fa ho visto assieme ai giovanissimi del piccolo gruppo che seguo in parrocchia il film “Non è mai troppo tardi”. La pellicola americana racconta le vicende di due uomini di mezza età molto diversi tra loro (un milionario e un meccanico di colore) che si conoscono e si ritrovano in una stanza d’ospedale accomunati dallo stesso male: un tumore ormai inguaribile. Dopo un primo momento di scoramento e impotenza, decidono di dedicare gli ultimi mesi di vita a soddisfare i desideri inconfessati fino ad allora, a dedicare del tempo solo a se stessi. Scrivono così una lista delle cose da fare insieme, prima di giungere al “capolinea”. Così partono per un viaggio intorno al mondo: Taj Mahal, Africa, India, Nepal e poi lancio dal paracadute, guide spericolate, hotel di lusso. Ma inevitabilmente cominciano poi un viaggio più importante, quello dentro di sè, che li fa diventare amici e riscoprire ciò che conta davvero per loro.Giunta ad un’età di bilanci, ho pensato allora di redigere anche io una lista riconsiderando le mie aspettative negli anni passati. A 18 anni volevo andare a studiare a Milano e diventare subito indipendente; a 25 anni volevo avere una famiglia. Oggi ho un lavoro precario e sono ancora sola dal punto di vista affettivo ma quel lavoro precario è quello che mi piace fare e anche se non ho una famiglia “mia”, ho tante altre famiglie a cui sono

legata e di cui mi sento parte. Ma pensiamo al futuro. Mi metto al lavoro e scopro che non è affatto facile scrivere questo elenco. Inizialmente pensavo che anche la mia lista sarebbe stata piena di viaggi esotici e capricci mai assecondati, ma poi mi sono resa conto che non voglio fare chissà che, nonostante il fatto che la mia vita si sia svolta soprattutto nel mio piccolo ma amato paese. La cosa che vorrei fare sicuramente è rivedere, uno per uno, i miei amici e stare con loro per un po’ di tempo, sistemare le mie cose e i miei ricordi e dedicare alla mia famiglia e a tutte le persone che porto nel cuore una frase, una lettera, un ricordo, un oggetto, un biglietto. Non sono diventata ricca e famosa, né mai nessuno mi dedicherà una strada nel mio paese o una sala nella mia parrocchia, ma vorrei andarmene con la certezza di aver amato veramente tante persone e con la speranza di essere stata amata anche da loro.

4dacci oggi la lista quotidianacarmela zaza

Ripenso agli ultimi giorni di Gesù: anche lui ha voluto trascorrerli con i suoi amici e in preghiera. E anche i due amici del film, tornano infine a casa e ai loro affetti. Al termine delle loro vicende, una voce fuori campo ci dice che “al momento di morire avevano gli occhi chiusi ma il cuore aperto”.Mi chiedo: non sarebbe meglio che l’uomo ricordasse ogni giorno, ogni momento che è vivo, che vive, che il suo cuore batte adesso, che non deve sprecare tempo ma dedicare ogni minuto della vita per fare ciò che vorrebbe davvero, per dire ciò che vuole davvero, per essere colui che vuole essere davvero?Ecco, sarebbe meglio una lista quotidiana allora. Sarebbe bellissimo se anche per me si dicesse che ho il cuore aperto ogni giorno! P.S.: dimenticavo di dire che nella mia lista ho lasciato un desiderio faceto: andare a San Siro per vedere una partita dell’Inter (possibilmente con vittoria).

perchè non è mai abbastanzagiusy tatulli

“Libera!”, si legge, si scrive, si urla da pochi mesi, ma è prigioniera dal 22 Ottobre 2011. Circa un mese fa si è anche avuta la speranza che quell’imperativo non fosse stato inutile. Ma così non è stato, e si ritorna a scrivere, a leggere a parlare di Rossella Urru. Una volontaria sconosciuta a molti, a troppi forse. Una donna che ha sempre agito nel silenzio, come tanti altri volontari che non si pavoneggiano per il loro operato. E’ poco più grande di me, 29 anni, è laureata in “Cooperazione Internazionale, Regolazione e Tutela dei Diritti e dei Beni Etno-culturali” e come chiunque altro, dedica la sua vita a ciò che ama. Non è affatto diversa da noi giovani, tranne che per il suo raro ed estremo coraggio, che da oltre due anni l’ha resa cooperante attiva in Algeria e ancora ora prigioniera probabilmente in

Mali al confine con il Niger. Diversi cortei, manifesti, pubblicazioni, appelli anche sui social network si sono succeduti durante questi mesi per la liberazione di Rossella, con lo scopo di rendere pubblica la sua situazione, di richiamare l’attenzione del governo sulla sua prigionia perché solo chi ha potere può aiutarla. A noi, invece, che non abbiamo possibilità materiale per salvarla, ci viene richiesto di sostenerla con le nostre parole e le nostre voci. E io non voglio tirarmi indietro da questo invito, perché ciò che si è fatto è bene che prosegua, perchè non è mai abbastanza. Per questo scrivo: “Libera!”

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5bagaglio afghanistansilvia ayroldi

Ho conosciuto recentemente un amico militare appena tornato dalla sua prima missione in Afghanistan e ho pensato che le mie curiosità potessero essere uguali a quelle di tanti altri, perciò vi riporto qui sotto l’intervista che gli ho proposto.

Quanto i militari fanno questo mestiere per servire la patria e quanti perchè è una possibilità di sicurezza economica? e tu perchè lo fai?Questa è una delle classiche domande che ti pongono quando fai il colloquio durante il concorso per essere ammesso alla carriera militare e ti risponderò sinceramente come ho fatto quel giorno.. prima di tutto perchè la situazione di lavoro è abbastanza critica in questo periodo storico e questo è un mestiere che offre maggiori possibilità di sicurezza economica se riesci a diventare effettivo nell’esercito. Posso dire che tutt’oggi, dopo molti anni di esercito, la motivazione che darei è sempre la stessa, oltre al fatto che le esperienze di vita che ti offre questo lavoro ti arricchiscono personalmente molto. C’è poi qualcuno che lo fa perchè animato da spirito patriottico ma sono davvero pochissimi.

E’ difficile sottostare sempre agli ordini dei superiori e ai loro regimi?A nessuno piace essere comandati, questo è scontato; alcune volte capita di dover fare cose che non vorresti fare, oppure di dover fare ciò che è pensato da più persone e che la esigono in modi differenti e devi cercare di adattarti e farla nel migliore dei modi per non incorrere in rimproveri, ma è quello che comporta questo tipo

VitE PaRallElEgian paolo de pinto

FOTOBLOG

Mi piace partire dai colori di questa foto. Si tratta di tonalitá chiare, che danno l’idea di una primavera giá sbocciata da un pezzo e che, assieme alla posa tranquilla e allo stesso tempo severa di quello che, nella parte destra della foto, sembra essere un Imam, contribuiscono alla creazione del ritratto di un momento di raccoglimento di un gruppo che non si vede ma che é facile immaginare intento a seguire l’Imam che con il dito destro indica il cielo. La figura del soldato nella parte destra della foto sembra avere poco a che fare con il contesto immaginato, non se si tratta di Kabul, la capitale dell’Afghanistan in cui da ormai dieci anni soldati e civili condividono gli stessi spazi in quella che sembra essere una guerra senza fine. Il suo fucile a riposo aiuta a non caricare di tensione la foto mantenendo il quadro di un’apparente tranquillitá.

di attività. In fondo, comunque, tutti nella società sottostiamo a gerarchie, le nostre sono solo più definite e serrate; diciamo che spero un giorno di poter essere io a dare ordini a qualcun altro.

Ci puoi spiegare perchè i militari, dopo tanti anni sono ancora impegnati in Afghanistan?Il perchè principale è che l’Italia alla fine di questa grande “guerra di pace” (se così si può chiamare) vorrebbe una fetta di questa grandissima torta chiamata Afghanistan per soddisfare interessi politici ed economici innanzitutto, ma il nostro compito lì per ora consiste nel cercare di far vivere meglio la popolazione locale ed insegnare cose che ancora non sanno, ad esempio costruire i palazzi, o istruire il loro esercito, e così via.

Cosa ti ha spinto ad accettare di partire per l’Afghanistan sapendo i rischi che si corrono?Beh indubbiamente non c’è molta scelta, diciamo che quando ti chiamano in missione rinunciare sarebbe come affermare di non sapere perchè sei in esercito; poi sicuramente l’esperienza in Afghanistan è come un grande bagaglio che si riempie di esperienza di vita personale, perchè impari a rivalutare tante piccole cose quotidiane che a volte dai per scontato, e soprattutto professionale perchè ti dà la possibilità di praticare cose che studi nella teoria o di cui fai simulazioni ma quando ti trovi su un campo vero, con mine e missili veri è tutta un altra cosa. E poi c’è anche la motivazione economica ovviamente.

Quali sono le prime parole che ti vengono in mente se ripercorri i tuoi 6 mesi in Afghanistan?Sicuramente sono due : sacrificio e paura. Già partire è un sacrificio perchè rischi la tua vita ogni giorno, non puoi avere molti contatti con i cari, per non contare il fatto che spesso si mangiavano pietanze piene di polvere, per via delle condizioni disagiate degli alloggi, e del fatto che se qualcuno sta male ti capita di fare turni di guardia doppi e di non dormire per giorni interi, ma devi sempre essere lucido. Paura perchè ogni giorno ti alzi e preghi che la giornata trascorra tranquilla e senza feriti, specie per me che ho il suolo di rallista, cioè colui che è alla vetta del carrarmato e perciò è il primo che può essere colpito e che ha la responsabilità di coprire chi gli sta davanti.

Se ti chiedo un ricordo che non puoi cancellare dalla mente di questa esperienza in missione?Credo la poca importanza delle donne per la loro cultura. In Afghanistan ad esempio le donne non potevano parlare con noi militari uomini, perciò parlavano solo con le donne dell’esercito che poi riferivano magari al comandante e ci sono ancora matrimoni combinati e promesse spose dall’età di 14 anni. Ad esempio, ti spiego: le bambine fino a circa 9 anni non mettono il burqa, poi quando sono promesse al marito mettono il burqa intero con la retina scura, perchè nessuno le guardi negli occhi; poi una volta sposate indossano il burqa senza retina. Insomma, diciamo che non sono per niente considerate come persone ma quasi solo come oggetti.

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Ricordo quel sabato mattina, una splendida giornata di sole. Il solito quotidiano tra le mani per la lettura del

fine settimana in compagnia degli amici e poi quell’articolo sul famoso torneo di rugby: il “6 nazioni”. All’epoca quasi ignoravo l’esistenza di tale sport ma è bastato un cucchiaio di legno ad attirare la mia attenzione. E da quel piccolo, forse insignificante particolare, è nata una passione. Per comprendere cosa renda unico questo sport, credo non sia sufficiente seguirne semplicemente le partite in tv. E’ stato solo all’inizio di questa primavera che ho avuto il piacere di assistere alla finale del torneo all’Olimpico di Roma: Italia-Scozia. Uno stadio gremito, il tutto esaurito, ed io ero là. Il clima che si respirava era di gran festa: gli scozzesi nel tipico kilt tradizionale, pronti a indossare t-shirt della nostra nazionale e

noi italiani pronti a sventolare il tricolore con orgoglio (come sempre meno spesso accade). Tantissimi bambini, intere famiglie pronte ad assistere all’evento. Al momento dell’inno scozzese un coro di voci si alza intorno a me: guardo la fierezza con cui pronunciano quelle parole a me sconosciute. Poi, al momento del nostro inno nazionale mi pervade un’emozione ancora più forte: mi accorgo che, oltre alle nostre voci, ci sono anche quelle degli avversari che, con il testo di Mameli tra le mani, intonano quelle note insieme a noi. La partita ha inizio

e, per quanto la rincorsa alla conquista della palla ovale

sia a volte caratterizzata da un contatto molto

terzi tempifrancesca messere

insieme, come è nella tradizione di questo sport, tutti insieme a sorseggiare una birra (ma anche più di una) e a scambiarsi opinioni sulla partita: è così che si dà vita al cosiddetto “Terzo tempo”. Ciò che rende questo sport unico credo siano proprio i valori del suo codice genetico: la determinazione, il rispetto dell’avversario, il gioco di squadra, la lealtà con cui giocatori, tecnici, dirigenti e tifosi sono coinvolti in quegli emozionanti tre tempi.Quanto sono diversi invece i terzi tempi del calcio! Polemiche, critiche agli arbitri e agli allenatori, veleni, dubbi di partite combinate. Tutte cose che hanno tolto al nostro sport più popolare anche il tocco di romanticismo che aveva anni fa. Non si parla più o poco della bellezza degli schemi, del gesto atletico dell’attaccante, dei sacrifici del mediano, del giocatore-bandiera di una squadra. Nei terzi tempi calcistici, ormai, sono più appassionati i commenti ai tanti tornei di fantacalcio, che

fisico tra i giocatori, ci si accorge subito che il forte rispetto delle regole rende questo sport tutt’altro che violento. I due tempi scorrono via veloci tra l’esultanza di una tifoseria e dell’altra ma, con il verdetto finale a favore della nostra nazionale. Stupisce di più vedere la gioia con cui gli scozzesi sventolano il famoso “cucchiaio di legno”, trofeo per la squadra ultima classificata nel torneo. I giocatori sfilano lungo il perimetro del campo tra gli applausi degli spalti ma, la festa non finisce lì. Vincitori e vinti, tifosi e giocatori si ritrovano tutti

quelli degli allenatori e dei giocatori veri. Cosa ci resta? Un cucchiaio di legno per ricordare che in certi sport come il rugby anche gli ultimi sono, assieme ai primi, vincitori.

L’inserto è curato da : Vincenzo di Palo, Responsabile.

Silvia Ayroldi, Vincenzo Bini, Mauro Capurso, Mariella Cuocci, Gian Paolo de Pinto, Giuseppe Mancini, Annarita Marrano, Fedele Marrano, Francesca Messere, Manlio Minervini, Maria Teresa Mirante, Antonio Tamborra, Giusy Tatulli, Carmela Zaza.

Grafica: Gian Paolo de Pinto.

Webmaster: Valentina de Leonardis.

Collaboratori allestimento: Donato Magarelli, Milena Soriano

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Vittorio ArriGONi 04/02/1975 - 15/04/2011

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7Fabrizio, trentott’enne di Gioia Tauro. Da circa un mese e mezzo non si hanno più sue notizie. La sua macchina è stata ritrovata nella campagna di Melicucco completamente carbonizzata. E nulla più. Fabrizio si era innamorato di Simona, ventiquattro anni, senza sapere che fosse figlia e moglie di due nomi della ‘ndrangheta calabrese. Alla sparizione del giovane è stata lei ad avvertire la polizia indirizzando le indagini verso suo padre e suo fratello. Un atto di coraggio, questo, che la costringe adesso a vivere in una località segreta sotto protezione speciale insieme a suo figlio di soli quattro anni, mentre suo fratello è in carcere con l’accusa di aver ucciso Fabrizio e suo padre è ancora latitante. L’onore si lava col sangue in Calabria. Ma non tutti la pensano così: di settimana in settimana si susseguono le manifestazioni dei giovani calabresi, che scendono in piazza a chiedere verità per Fabrizio e per una Calabria senza più omertà nè sangue.La storia di Simona è la storia di tante donne costrette a vivere fin dall’infanzia violenze familiari a cui non possono ribellarsi, nella convinzione che alla loro condizione non ci sia giusta alternativa. Donne che non denunciano, che hanno paura, donne che si sentono sole

e in colpa. E intanto il dato è allarmante: in famiglie come quella di Simona muore una donna ogni tre giorni. La storia di Simona si lega a quella di Lea Garofalo, la donna che nel 2009 a Milano è stata sequestrata, torturata perché collaboratrice di giustizia, poi uccisa e sciolta nell’acido. Lea si era ribellata ad una vita di silenzi e soprusi, aveva testimoniato contro suo marito e la sua famiglia anch’essa affiliata alla ‘ndrangheta calabrese e per questo doveva pagare. Dopo la morte di Lea è stata sua figlia Denise, con il coraggio dei suoi diciassette anni, a testimoniare contro il padre che ora insieme agli zii è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lea. Storie di donne, queste, storie di coraggio vero. Simona, Lea, Denise e chissà quante altre, sono donne che hanno voluto respirare “il fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo ? del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” di cui Paolo Borsellino parlava e per il quale hanno dato e danno la propria vita a testa alta, con l’onore di chi non vuole più abbassare lo sguardo. E non ha paura.

donne di (dis)onoremaria teresa mirante

Mi capita di camminare per strada e risentire quel profumo di crisma. Mi giro per cercare il suo volto ma non sempre riesco a vederlo; é il mio legame con lui: dalle sue mani sono stato cresimato. E mi piace pensare, quasi in una liturgia rovesciata, dal Signore verso il popolo, che le sue impronte digitali intrise di olio santo, insieme ai suoi sentimenti, abbiano più volte ridefinito i tratti sintonizzandosi con quelle di tanti giovani che ha toccato, per accogliere i loro doni e amarli con “concretezza e autenticità”. Perché sempre, mentre cammini, ti chiedi se tu, povero di ricchezze materiali ma ricco di doni speciali, sei l’unico ad accorgerti di averli o puoi esserne riconosciuto detentore come, nella verità, lui Vescovo faceva con te. E allora forse, per un attimo, non sei più costretto a stringere a te quell’ultima conquista per paura che ti rubino anche quella. Oggi, come tanti anni fa parlando di mancanza di alloggi, dinanzi alla tanto abusata categoria di crisi economica la sua analisi schietta scorgerebbe, nuovamente, una crisi d’amore: una crisi di attenzione, di prossimità e di accoglienza perché se non sai mettere la croce giusta su quella scheda elettorale o se non ti accolgono nel bar della città chiamandoti dottore sei più che invisibile. E quando anche tu giovane ti accorgi che la profezia si blocca sulle tue labbra per paura di perdere il tuo piccolo potere, e quando ti servi del povero senza servirlo per riempire di solidarietà la tua ultima campagna pubblicitaria allora è difficile che tu possa incontrare don Tonino lungo le strade della tua città.A noi Chiesa l’invito a ricollocare le tende negli accampamenti degli uomini, all’interno del progetto urbanistico della città terrena senza pretendere per i discepoli di Gesù suoli privilegiati all’interno del piano edilizio...e a me giovane, preferendo la categoria della santità rispetto a quella del sacro, annuncerebbe con forza: anche se ti fanno credere di abitare le fibre più profane dell’universo non avere paura, perché sei santo, col crisma sulla fronte! Grazie don Tonino!

con il crisma di don toninocarlo de ruvo

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Involontariamente mi ritrovo a recensire nuovamente un film, a conferma della mia convinzione che il buon cinema offre

sempre i migliori spunti di riflessione. L’ultimo film che ho avuto la fortuna di guardare è stato “Quasi amici”: la sua locandina all’ingresso del cinema e il titolo non mi convincevano tanto. Sembrava il tipico film scontato dal lieto fine. Ugualmente ho deciso di seguire il consiglio di una mia amica ed ho acquistato il biglietto. Una scelta davvero fortunata perché ho avuto la possibilità di conoscere la storia vera del bizzarro rapporto tra un tetraplegico e il suo badante, un ragazzo di colore dei quartieri poveri di Parigi. Un paralitico ricco e un nero strafottente: una ricetta insolita, con ingredienti poco abbinabili che tuttavia creano un gusto inconfondibile. Una storia agrodolce che insegna a guardare con ironia la vita e gli ostacoli che essa spesso ci propone. Di frequente mi capita di guardarmi allo specchio e di notare con una certa morbosità ogni mio singolo difetto: i denti storti, le cicatrici del mio acne adolescenziale, le mie gambe sempre troppo grasse e così via. Nelle giornate peggiori questo senso di insoddisfazione sfocia nel totale pessimismo: ogni attività

della mia vita si tramuta in un fallimento, in sfortuna oppure in un grande senso di colpa. Le relazioni sono sempre troppo complicate o non come vorrei che fossero. Al termine del film ciò che più mi ha colpita è stato il sorriso con cui i protagonisti affrontano i loro problemi, la capacità di non prendersi sempre sul serio, di ridere di se stessi, di apprezzare la propria imperfezione. Se mentre sorrido sposto la mano che uso per coprire la bocca, posso notare quanto siano espressivi i miei occhi, come le lentiggini coprano le cicatrici. I capelli sono cresciuti e i pantaloni nascondono il difetto delle mie gambe. Mi rendo così conto di come non sarei me stessa senza i miei denti storti, senza le mie lentiggini e il mio

quasi perfetta

metro e cinquanta di altezza. Capisco che la vera meraviglia della vita non è la perfezione quanto la sua acerrima nemica: l’imperfezione. È essa che ci rende diversi, unici, inimitabili. È il mio essere testarda e generosa, permalosa e socievole a rendermi piacevole o odiosa agli occhi dei miei amici. È per essa che mi sono innamorata, che ho urlato durante un litigio con un’amica per poi ritrovarla dopo anni negli stessi luoghi di un tempo. È per essa che sono la vera Annarita. Per cui, adesso sorrido ai miei difetti e posso dire che è l’imperfezione la vera bellezza!

lo zen e l’ arte della manutenzione della motomariella cuocci

Quando mi è stato consigliato di leggere questo libro, ho pensato che il mio interlocutore si fosse sbagliato e mi avesse scambiato, non so per quale motivo, per una appassionata di moto. In realtà, come sempre, le apparenze ingannano. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig è uno dei romanzi più avvincenti che abbia mai letto perché narra di un

viaggio, un lungo e tortuoso viaggio che il protagonista, presumibilmente l’autore stesso, compie con il figlio Chris sulla sella della sua motocicletta, attraversando l’America dal Minnesota al Pacifico. Un viaggio che è al contempo reale e metaforico. L’autore, infatti, ripercorre tutta la sua esistenza e soprattutto la sua ricerca di senso, quel senso della vita che

o “sostituire” della nostra carrozzeria per viaggiare meglio? Spesso ci capita di lamentarci della nostra vita, ritenendola un viaggio faticoso e tortuoso, il più delle volte in salita, e sicuramente lo sarà ma il problema non è tanto la strada da percorrere, piuttosto il modo in cui la percorriamo, un modo che è tutto nostro e di cui dovremmo avere cura perché è questo che fa la differenza. Come insegna l’autore del libro, qualsiasi strada percorreremo, ovunque andremo, non dovremmo mai dimenticare che i protagonisti del viaggio siamo noi e se mai dovessimo sentirci soli o persi, basterà alzare gli occhi al cielo per sapere che lassù c’è Qualcuno che veglia e guida il nostro cammino, da sempre e per sempre.

egli ha sempre provato ad afferrare senza mai riuscirci completamente, portandolo molto vicino alla follia. In questa avventura, a cavallo di una motocicletta e della mente, il protagonista si rende finalmente conto di quanto tempo abbia perso chiedendosi chi fosse e dove andasse piuttosto che vivendo ogni giorno al meglio e al massimo come fosse l’ultimo. Grazie anche agli occhi ancora disincantati del figlio Chris, il protagonista riflette su quanto la vita sia un bene talmente prezioso da dover essere preservato. Al pari di una motocicletta. Forse gli appassionati di moto sapranno quanto essa sia una “creatura” meravigliosa, potente ma nel contempo delicata e bisognosa di cure ed attenzioni. L’arte della manutenzione della motocicletta, rivela l’autore del libro, è un’arte difficile perché richiede conoscenza, esperienza, pazienza e passione. È un’arte però che non andrebbe coltivata solo per i beni materiali ma anche e soprattutto per i beni immateriali, come la nostra anima, il nostro spirito. Quante volte ci fermiamo a prenderci cura di noi stessi? Quante volte riusciamo a ritagliarci degli spazi per capire, come un meccanico farebbe con la sua moto, cosa va e cosa non va in noi? Cosa dovremmo “riparare”

annarita marrano

Un film di Olivier Nakache, Eric Toledano. Con François Cluzet, Omar Sy, Anne Le Ny, Clotilde Mollet, Audrey Fleurot. Titolo originale Intouchables. Commedia, durata 112 min. - Francia 2011

Robert M. Pirsiglo zen e l’arte della manutenzione della motociclettaEditore: Adelphi1990, 25ª ediz., pp. 402Letteratura nordamericana€ 11,00