L'oro di Sicilia. Quando il grano fece la fortuna dei gabellotti

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L'oro di Sicilia: quando il grano fece la fortuna dei gabelloti Curatoli, soprastanti e campieri: i personaggi che ruotavano intorno alla coltivazione del frumento nell´Isola del periodo latifondista di Pino Aiello Il tempo non è ancora riuscito ad avere ragione della dura quercia dei dentali e dell´acciaio temprato dei vomeri. Breve tempo è passato dalla loro dismissione, da quando l´aratro a chiodo ha passato definitivamente il proprio ruolo ai moderni trattori. Ha avuto vita lunghissima, come attestano le immagini che restano del lavoro agricolo nell´antico Egitto. FOTO: La vita nella Sicilia del latifondo Non c´è stata operazione di semina o d´impianto che non abbia visto l´aratro protagonista indiscusso ora della permanenza ossessiva della monocoltura cerealicola nelle aree interne del Mediterraneo, ora delle trasformazioni di vaste aree delle zone costiere. Diversamente dalle campagne dell´Europa centrale, l´evoluzione delle macchine agricole a trazione animale, raramente ha sfiorato le vaste aree del latifondo siciliano. La permanenza, sia dei mezzi di produzione sia delle strategie agrarie, ha consegnato alle nostre generazioni di contadini, che uscivano dall´ultimo conflitto mondiale, un mondo che si era trascinato immutabile per secoli sordo ad ogni richiesta di cambiamento. Il feudo, con la sua estensione, dominava il mondo rurale dell´interno della Sicilia: centinaia di salme con un unico insediamento stabile (i casi) ubicato in posizione strategica. Magazzini, stalle, granai, abitazioni per i dipendenti e lo stesso piano nobile riservato al padrone si affacciavano in un vasto cortile interno. Un solo grande portone carrabile immetteva nel baglio, permettendo il controllo in entrata e in uscita di uomini, merci e animali. Verso l´esterno si apriva solo

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Curatoli, soprastanti e campieri: i personaggi che ruotavano intorno alla coltivazione del frumento nell´Isola del periodo latifondistadi Pino Aiello

Il tempo non è ancora riuscito ad avere ragione della dura quercia dei dentali e dell´acciaio tempratodei vomeri. Breve tempo è passato dalla loro dismissione, da quando l´aratro a chiodo ha passatodefinitivamente il proprio ruolo ai moderni trattori. Ha avuto vita lunghissima, come attestano leimmagini che restano del lavoro agricolo nell´antico Egitto.

FOTO: La vita nella Sicilia del latifondo

Non c´è stata operazione di semina o d´impianto che non abbia visto l´aratro protagonista indiscussoora della permanenza ossessiva della monocoltura cerealicola nelle aree interne del Mediterraneo,ora delle trasformazioni di vaste aree delle zone costiere.

Diversamente dalle campagne dell´Europa centrale, l´evoluzione delle macchine agricole a trazioneanimale, raramente ha sfiorato le vaste aree del latifondo siciliano. La permanenza, sia dei mezzi diproduzione sia delle strategie agrarie, ha consegnato alle nostre generazioni di contadini, cheuscivano dall´ultimo conflitto mondiale, un mondo che si era trascinato immutabile per secoli sordoad ogni richiesta di cambiamento.

Il feudo, con la sua estensione, dominava il mondo rurale dell´interno della Sicilia: centinaia di salmecon un unico insediamento stabile (i casi) ubicato in posizione strategica.

Magazzini, stalle, granai, abitazioni per i dipendenti e lo stesso piano nobile riservato al padrone siaffacciavano in un vasto cortile interno. Un solo grande portone carrabile immetteva nel baglio,permettendo il controllo in entrata e in uscita di uomini, merci e animali. Verso l´esterno si apriva solo

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qualche angusta finestra difesa da solide sbarre, in maniera che il caseggiato, serrato il portone, sipotesse chiudere completamente al mondo esterno.

La monocoltura cerealicola, associata all´allevamento, era il sistema che bastava a finanziare l´agiatavita nei palazzi di città della nobiltà terriera. Per questa, l´unica preoccupazione era ridurre all´essenziale la propria presenza nei luoghi di produzione, delegando altri alla conduzione del feudo eal mantenimento del proprio potere.

Venne così ad imporsi la figura del suprastanti­curatulu, spesso unico vero monarca del feudo. Lasua estrazione era di solito contadina, mentre l´appartenenza ad una famiglia, che avesse giàespresso con buoni risultati analoghe figure, era un´indiscutibile garanzia. Non più l´occhio distrattodel proprietario a vigilare, ma quello avvezzo a stimare in un colpo le condizioni di un mulo o il pesodi un vitello.

Non c´era trucco che il sovrastante non conoscesse. Il suo controllo sul feudo era totale. Stimava ilpane che il ribattieri preparava e toccava il culo alle galline pur di impedire il furto di un uovo.

Doveva saper dosare generosità e rigore, possedere competenza, carisma e una risoluta violenza daesercitare quando occorreva. Si circondava di fidati campieri, costituendo una guardia armatacapace di dissuadere, prevenire e reprimere ogni atto che potesse turbare il corso normale della vitadel feudo.

Dava palese dimostrazione della sua fedeltà al proprietario, ben sapendo che dietro l´infimo deigarzoni spesso si nascondeva il delatore, la spia che, per un tozzo di pane, lo avrebbe informato d´ogni suo profittare del bene affidatogli. Ancora negli anni Sessanta era possibile vedere le carcassedegli animali del feudo morti, accidentalmente o per malattia, penzolare dagli alberi ad imputridirenell´attesa dell´ordine di rimozione che poteva venire solo dal padrone. Una regola adottata perdissuadere gli abitanti della masseria dal furto d´animali da cortile o di qualche ovino per usoalimentare.

Era il curatulu a decidere, all´interno delle deleghe date, la macellazione di un capo, conservandonela pelle a dimostrazione dell´uso cui era stato destinato. Assegnava i pascoli e decideva i carnaggi,sanava ogni controversia che potesse nascere all´interno del feudo e decideva le rotazioni e lestrategie colturali. Teneva un´ordinata e aggiornata contabilità. Se analfabeta, ricorreva a sistemi chepotevano includere il ricorso ai bastoncini di ferula (tagghi) dove con incisioni convenzionali segnava

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le quantità di vari prodotti o ad un sacchetto dove depositava sassolini di varia misura che corrispondevano ora al numero di capi di bestiame ora alla quantità del grano nei depositi.

Di questa figura la letteratura e la cronaca ci hanno consegnato un ritratto che nell´immaginariocollettivo identifica il mafioso. Stivali di cuoio, pantaloni da cavallante e giacca di velluto associata allacoppola, contribuivano a disegnare un´immagine che spesso abbiamo scelto per rappresentare laSicilia nel mondo.

Erano uomini chiamati ad interpretare un ruolo in una rappresentazione che la classe padronaleaveva scritto. C´erano i giusti, c´erano i rispettati, i temuti e gli odiati, tutti accomunati da un impegno,la garanzia e la difesa della proprietà in un mondo dove la precarietà e la fame, tristemente diffuse,potevano spingere alla ribellione e anche alla criminalità.

Non avevano il compito né gli strumenti per comprendere l´incalzare dei tempi e le istanze dicambiamento. Per loro il mondo finiva dove arrivava il loro potere, sino ai confini dei riarsi feudi;qualunque legge, anche quella di uno Stato lontano e latitante, doveva arrestarsi se veniva a cozzarecon le loro regole.

L´assenteismo sistematico e le crescenti necessità economiche della nobiltà terriera, in qualchecaso, spianarono la strada ai più risoluti fra questi personaggi. Mettendo prima in discussione lasicurezza nel feudo, e presentandosi al tempo come gli unici in grado di mantenervi l´ordine, alcuniriuscirono ad imporsi come gabelloti. Questi rappresentanti della «nuova imprenditoria» agraria sidistinsero solo per la rigorosa osservanza delle logiche del feudo, assurgendo spesso al ruolo dibrutali, presenti e vigili custodi di un sistema cui ci si poteva sottrarre solo con l´emigrazione.

Rinunziando al controllo diretto della proprietà, la nobiltà terriera finì così per esercitare il ruolo dipadrone ossequiato solo durante le sempre più rare presenze. Scelti o subiti, i nuovi soggettiemergenti, ancora più ostili ad ogni cambiamento, vennero ad incidere sugli stessi rapporti di

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produzione all´interno del feudo. Le aree in cui dominava la cerealicoltura, si trovarono strette fra lelogiche del feudo da un lato e della piccola precaria proprietà dall´altra.

In questa realtà, dove l´obiettivo della polverizzazione si poneva come unica alternativa al latifondo,si finì per continuare ad attingere forza lavoro dalla grande riserva di braccia che premeva ai confinidel feudo, il basso costo della manodopera si rivelò un freno anche per l´introduzione d´ogniinnovazione tecnica. I movimenti per la conquista della terra, particolarmente attivi nei duedopoguerra, naufragarono nel mare dei velleitarismi e nella diffidenza verso le strategie che lasinistra più radicale tentava di affermare.

Le cooperative, come scelta, e le stesse affittanze collettive si scontravano con un individualismo chereclamava solo il pieno possesso di qualche salma di terra, giusto quella che un paio di braccia e unacoppia di muli sarebbero stati in condizioni di lavorare. Se a questo si aggiunge la cecità e laconnivenza di una buona parte della classe politica, sempre pronta a schierarsi con quello che saràdefinito come «blocco agrario», l´unico risultato non poteva essere altro che la permanenza dellevecchie pratiche produttive.

A una maggiore resa, possibile con l´ammodernamento dei mezzi e con l´adozione di nuovestrategie colturali, si preferiva la logica dell´estensione della proprietà. Un effettivo ammodernamentoavrebbe avuto bisogno di capitali e di un´imprenditorialità che si caratterizzasse anche attraverso unapresenza costante nei luoghi di produzione.

E fu questo ruolo che i grandi proprietari terrieri siciliani non furono mai disposti ad assumere, né igoverni ad incoraggiare. Il grande gabelloto venne così a porsi come figura d´intermediazione,rilevato il feudo, concedeva ai contadini piccole quote (tinuti) delle vaste aree seminative in cambiodella metà del prodotto.

Da questa quota accantonava la gabella trattenendo per sé la differenza che tendeva ad incrementare ricorrendo ad ogni sorta d´espediente. Questo rapporto, al contrario della mezzadria vera e propria, prevedeva che fosse il contadino a fornire i mezzi di produzione; animali per l´aratura e per i trasporti in aggiunta alle braccia indispensabili per tutte le altre fasi di lavorazione. La mitataria in Sicilia s´impose come rapporto di lavoro ben lontano dalla mezzadria classica e di cui non è affatto la versione regionale ma piuttosto un rapporto regolato da una serie di articolate varianti che in molti casi nascondevano angariche vessazioni.

Succedeva anche che per contadini più poveri, privi di qualsiasi mezzo e risorsa, si aprissero qualche

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volta le porte del feudo. A essi venivano assegnati lotti già arati e seminati mentre a loro caricorestavano tutti i successivi lavori compresa la mietitura. Ogni ricorso agli animali della masseria, siaper la battitura e per i trasporti; l´anticipazione delle sementi e di quant´altro necessario a trascinarela loro esistenza da un raccolto all´altro, avrebbe visto la quota di prodotto loro spettante ridursiprogressivamente.

É facile intuire come il possesso, almeno dei mezzi di produzione, diventasse una credenziale pervedersi assegnata una tinuta da parte del gabelloto. Fra queste credenziali, il disporre di animali datiro e da soma risultava fondamentale, un buon mulo era già tanto, una coppia spesso sanciva l´acquisizione della condizione di burgisi.(09 agosto 2008)

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