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AGGIORNAMENTO CLAUDIO CONSOLO Ordinario nell’Università di Padova ALBERTO A. ROMANO Straordinario nell’Università di Parma LE NOVELLAZIONI DEL 2012 E LE NUOVE «AMPUTAZIONI» ALLE GARANZIE DELLE IMPUGNAZIONI SOMMARIO: 1. Introduzione alle nuove norme di disincentivo delle im- pugnazioni e disciplina transitoria. – 2. Le nuove norme sulla reda- zione dell’atto di appello …. – 3. (Segue): … e sul contenuto dell’atto di appello. – 4. La restrizione dei limiti imposti alle nuove prove nell’appello ordinario … – 5. (Segue): … e nell’appello a valle di un giudizio svoltosi, in primo grado, con il rito sommario di cognizione. – 6. Il c.d. «filtro» in appello. – 7. (Segue): il grado di accuratezza della valutazione circa l’assenza di una «ragionevole probabilità di accoglimento» dell’appello ex art. 348-bis. – 8. (Se- gue): La pronuncia dell’ordinanza di rigetto ex art. 348-bis: conse- guenze e (in)impugnabilità immediata. – 9. (Segue): Le ipotesi e- scluse dall’ambito di operatività del nuovo «filtro». – 10. Il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – 11. La c.d. «doppia conforme». – 12. C’era davvero bisogno di questo ennesimo intervento e del rad- doppio automatico del contributo unificato per l’impugnante soc- combente ex art. 13, co. 1-quater, DPR n. 115/2002? 1. Introduzione alle nuove norme di disincentivo delle impugnazioni e disciplina transitoria 1.1.- L’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante «misure ur- genti per la crescita 1 del Paese», è intervenuto assai incisiva- _______________________ 1 Crescita del Paese e, per converso, atrofizzazione per le garanzie di accurata decisione in capo alle parti. Si conciliano questi due trends? Di fatto questa novella è, fra le varie recenti, quella peggio concepita e peggio redatta. Quasi

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AGGIORNAMENTO

CLAUDIO CONSOLO Ordinario nell’Università di Padova 

ALBERTO A. ROMANO

Straordinario nell’Università di Parma

LE NOVELLAZIONI DEL 2012 E LE NUOVE «AMPUTAZIONI» ALLE GARANZIE

DELLE IMPUGNAZIONI

SOMMARIO: 1. Introduzione alle nuove norme di disincentivo delle im-pugnazioni e disciplina transitoria. – 2. Le nuove norme sulla reda-zione dell’atto di appello …. – 3. (Segue): … e sul contenuto dell’atto di appello. – 4. La restrizione dei limiti imposti alle nuove prove nell’appello ordinario … – 5. (Segue): … e nell’appello a valle di un giudizio svoltosi, in primo grado, con il rito sommario di cognizione. – 6. Il c.d. «filtro» in appello. – 7. (Segue): il grado di accuratezza della valutazione circa l’assenza di una «ragionevole probabilità di accoglimento» dell’appello ex art. 348-bis. – 8. (Se-gue): La pronuncia dell’ordinanza di rigetto ex art. 348-bis: conse-guenze e (in)impugnabilità immediata. – 9. (Segue): Le ipotesi e-scluse dall’ambito di operatività del nuovo «filtro». – 10. Il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – 11. La c.d. «doppia conforme». – 12. C’era davvero bisogno di questo ennesimo intervento e del rad-doppio automatico del contributo unificato per l’impugnante soc-combente ex art. 13, co. 1-quater, DPR n. 115/2002?

1. Introduzione alle nuove norme di disincentivo delle impugnazioni e disciplina transitoria

1.1.- L’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante «misure ur-genti per la crescita1 del Paese», è intervenuto assai incisiva-_______________________ 1 Crescita del Paese e, per converso, atrofizzazione per le garanzie di accurata decisione in capo alle parti. Si conciliano questi due trends? Di fatto questa novella è, fra le varie recenti, quella peggio concepita e peggio redatta. Quasi

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mente – e per il vero in modo gravemente inadeguato2 – sulla disciplina dell’appello e della cassazione.

Nel suo testo originario, mai entrato in vigore e perciò senz’altro qui trascurabile, tale norma si limitava a prevedere l’introduzione, in materia d’appello di rito ordinario, di due nuovi articoli, gli artt. 348-bis e 348-ter; ad estenderli al proces-so del lavoro giusta un nuovo art. 436-bis; ed infine a modifica-re di riflesso l’art. 383 c.p.c. La norma originariamente concepi-ta interveniva, inoltre, amputandone la valenza, sul disposto dell’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c.

Nel testo attuale, significativamente ampliato in sede di conversione, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, ed oggetto delle il-lustrazioni sistematiche che seguono, l’art. 54 d.l. n. 83/2012 ha previsto due ulteriori modificazioni del capo dell’appello ordi-nario agli artt. 342 e 345; ha esteso la prima di esse al processo del lavoro emendando l’art. 434; ed ha altresì modificato l’appello anche nel nuovo procedimento sommario di cognizio-ne, intervenendo sul testo dell’art. 702-quater c.p.c.3.

1.2.- Delle nove disposizioni nuove o modificate, sei – gli artt. 342, 348-bis, 348-ter, 383, 434 e 436-bis – si applicano ai giudizi d’appello introdotti «con ricorso depositato o con cita-zione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di _______________________ unanime è l’auspicio per una sua rapida abrogazione con ripristino della disci-plina precedente, con lievi ritocchi per renderla più severa ma non asfissiante.  2 Sul punto esiste, tra i primi commentatori, singolare unità di vedute: cfr. da ultimo C. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di «svaporamento», in Corr. giur. 2012, 1133; ID., Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?, in www.judicium.it; M.A. COMASTRI, Note sulla recente riforma della cassazio-ne e dell’appello, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 685; I. PAGNI, Gli spazi per le impugnazioni dopo la riforma estiva, in Foro it., 2013, V, 300. Al ri-guardo si v. altresì, con particolare incisività, R. VACCARELLA, nell’Introdu-zione a AA.VV., Le impugnazioni civili, Torino, 2012, spec. XXI ss. (ed in ef-fetti, con scelta che abbiamo tentato in un primo tempo cercato anche noi di imitare – ecco perché il presente aggiornamento esce solo oggi, per comple-tezza verso il Lettore – queste norme sono nel Volume trattate piuttosto mar-ginalmente: p. 136-140).  3 Inserita in un capo intitolato ad «ulteriori misure per la giustizia civile» e riduttivamente rubricata «appello», la norma in discorso interviene anche sull’art. 447-bis c.p.c., prevedendo l’applicazione delle novità anche al rito delle locazioni. 

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conversione» (così l’art. 54, comma 2°, d.l. n. 83/2012), i.e. dal giorno 11 settembre 2012 compreso4; una – l’art. 360, comma 1°, n. 5 – si applica all’impugnazione delle sentenze di appello o di unico grado pubblicate a partire da tale data (così l’art. 54, comma 3°, d.l. n. 83/2012)5; due – gli artt. 345 e 702-quater – parrebbero invece, in assenza di specifiche norme transitorie, trovare applicazione addirittura dal 12 agosto 20126, e pure per i giudizi d’appello in corso a tale data, allorché in questi ancora non si sia provveduto sulle prove7, ivi diversamente (ossia più restrittivamente) regolate.

_______________________ 4 Essendo la l. n. 134/2012 entrata in vigore (art. 1, comma 2°) il giorno suc-cessivo a quello della sua pubblicazione, avvenuta sulla G.U. 11 agosto 2012, n. 187 s.o. Lo stesso vale per l’intervento di coordinamento sull’art. 447-bis c.p.c. 5 I.e., appunto, dal giorno d’entrata in vigore della legge: v. appena supra, nt. 4. 6 Anche qui il giorno 11 settembre 2012 pare compreso nel campo di applica-zione della riforma: le sentenze pubblicate in tale data sottostanno dunque, già, alla nuova disciplina. Quanto alle sentenze pronunciate secondo il rito del lavoro, deve intendersi per pubblicazione il deposito del documento completo di motivazione, di cui all’art. 430 c.p.c., sì che s’applicherà il nuovo testo dell’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c., in ipotesi di sentenze il cui dispositivo sia stato letto in udienza prima dell’11 settembre 2012, se la sentenza sia poi stata depositata dopo tale giorno. 7 Mancando una previsione in senso contrario, si potrebbe ritenere che le nuo-ve disposizioni di natura processuale trovino applicazione anche ai giudizi in corso (s’intende, solo per gli atti in essi ancora da compiere), e non solo a quelli instaurati dopo: d’obbligo all’uopo il classico richiamo a G. CHIOVEN-DA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli 1935, 85 s.; diff. A. TE-DOLDI, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la riforma «icono-clastica» del 2012, in Riv. dir. proc. 2013, 157. L’A., con argomenti invero convincenti, propone infatti di ritenere operante il novellato regime delle nuo-ve prove in appello solo a quei giudizi di gravame che si collocano in un pro-cesso iniziato, già in primo grado, dopo l’entrata in vigore di questa mini-riforma del settembre 2012. L’interpretazione proposta, come detto, ci trova favorevoli: non pare infatti conforme a principii (specie quello dell’affidamento sull’irretroattività della legge, ex art. 11 prel.) che la parte si veda modificare regole centrali del gioco (e non regole relative a singoli atti isolati, cui solo bene si attaglia – come osserva Tedoldi – il principio tempus regit actus) a partita già iniziata. Fuor di metafora, non può condividersi una interpretazione del regime transitorio dei novellati articoli in tema di prove che pregiudichi, ex post, la parte la quale si sia condotta nel corso del giudizio di primo grado anche in forza della convinzione che l’eventuale appello a-vrebbe avuto un certo (più elevato) grado di ospitalità delle nuove prove (è evidente poi che il vulnus al diritto di difesa della parte sarebbe assai grave

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2. Le nuove norme sulla redazione dell’atto di appello …

2.1.- Seguendo l’ordine del codice, occorre anzitutto con-frontarsi con il nuovo testo dell’art. 342, tuttora rubricato «for-ma dell’appello», di cui il legislatore ha riscritto il comma 1° in modo assai più articolato.

Al lume di tale nuovo testo, l’appello continua a doversi proporre, nel rito ordinario, mediante atto di citazione ad udien-za fissa, nel rispetto dei termini di cui all’art. 163-bis; ed in tale atto continuano a dover figurare «le indicazioni prescritte dall’art. 163», ossia quelle della citazione di primo grado: tutto ciò non è cambiato, sì che non è qui luogo per trattenersi sui problemi, invero comunque ridotti, che il generico rinvio alla norma dettata per l’atto introduttivo di primo grado pone all’interprete.

2.2.- Soppressa è stata, invece, l’esigenza di indicare, nell’atto d’appello, l’«esposizione sommaria dei fatti», da in-tendersi, ovviamente, riferita a qualche, in gran sintesi, fatto processuale, e così allo svolgimento, dopo la citazione, del giu-dice di primo grado. Così intesa, l’ indicazione era d’importan-za trascurabile, e neppure troppo perspicua, verosimilmente da intendere come equivalente a quella «concisa esposizione dello svolgimento del processo», già figurante tra i contenuti della sentenza, ed ora non più richiesta nemmeno in tale atto8. Non è dunque più necessario che l’atto di appello s’apra col racconto, più o meno sintetico, di quanto è accaduto nel processo di prime

_______________________ soprattutto nel caso di appello a valle del rito sommario di cognizione, sul quale più di tutto la novella ha pesantemente inciso: v. oltre).  8 Si confronti il nuovo testo dell’art. 132, comma 2°, n. 4, c.p.c. Questo ci è sempre parso il significato più giusto da attribuire alla vecchia locuzione (conf. ad es. F.P. LUISO, Diritto processuale civile6, II, Milano 2012, 375); la giurisprudenza pareva invece piuttosto riferire l’«esposizione sommaria», già prescritta dall’art. 342, comma 1°, ai fatti costituenti le ragioni della domanda di primo grado, ovvero a quelli costituenti le ragioni dell’impugnazione, così facendone, però, un inutile doppione ora del rinvio fatto dal medesimo art. 342 all’art. 163, comma 3°, n. 4, ora dell’onere di specificazione dei motivi pure ivi prescritto. Per la trascurabile importanza della soppressione v. anche S. CAPORUSSO, Commento agli artt. 342, 345, 434 e 702-quater, in Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di R. Martino e A. Panzarola, Torino 2013, 610 s. 

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cure: questo è quanto, d’altronde, il giudice d’appello ben può ricostruire autonomamente, consultando il fascicolo d’ufficio trasmessogli ed i fascicoli di parte depositati nella sua cancelle-ria (anche perché non è oggidì «garantito» che il racconto sia veridico).

Con tutto questo una, seppur riassuntiva, narrazione dello svolgimento del corso del giudizio di I grado, potrà pur sempre rendere più agevole il compito del giudicante (secondo un prin-cipio di collaborazione tra parti e giudice), ed anche aiutare a fissare sin da subito i vizi denunciati con i singoli motivi di ap-pello, specialmente ove si tratti di errores in procedendo che si radicano, appunto, nello svolgimento del fatto processuale.

La «novità» della non rigorosa novità di tutto questo, con-sentirà allora tutt’al più di risparmiare qualche decina di minuti e qualche foglio di carta all’avvocato dell’appellante, mentre aggraverà forse d’un poco l’opera dei magistrati, ma nell’in-sieme risulta certo di limitatissimo momento.

3. (Segue): … e sul contenuto dell’atto di appello

3.1.- Le maggiori variazioni, almeno sul piano formale, con-cernono la motivazione dell’atto di appello. Se il vecchio testo dell’art. 342, comma 1°, si contentava di prescrivere tout court che l’atto contenesse i «motivi specifici dell’impugnazione», senza curarsi di spiegare cosa essi fossero, né di precisare quale sanzione dovesse applicarsi in caso di loro difetto (lacuna a cui, peraltro, la giurisprudenza aveva già bene posto rimedio, a mezzo della sanzione dell’inammissibilità: v. oltre), il nuovo testo stabilisce espressamente che l’atto di appello non motiva-to, o non adeguatamente motivato, debba giudicarsi inammissi-bile, e si diffonde ad illustrare quali requisiti la motivazione dell’appello debba ora rispettare.

Nel dire di queste variazioni, complessivamente più appa-renti che reali, giova sùbito fare un’ovvia, ma forse non del tut-to inutile premessa. L’appello continua ad essere, pur dopo il d.l. n. 83/2012, un mezzo di gravame a critica pienamente libe-

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ra9. È certamente vero che non è, o non è più, possibile valida-mente appellare allegando genericamente l’ingiustizia della de-cisione, e men che meno la mera circostanza del rigetto delle proprie conclusioni di primo grado, unendo a ciò null’altro che la richiesta di nuovo giudizio; tuttavia, in nessun caso, e non certo per questo, deve cedersi alla tentazione, complicatoria e maturante, di ritenere che i due nuovi numeri dell’art. 342, comma 1°, assai mal scritti, abbiano in qualche maniera inteso restringere i vizi denunciabili dinanzi al giudice dell’appello. L’attuale art. 342, comma 1°, esige insomma che l’appellante denunci, sì, almeno un errore commesso nella sentenza; non lo vincola, però, ad un campione limitato di vizi denunciabili, con-sentendo ancora tanto la denuncia d’un qualsiasi errore di fatto (art. 342, comma 1°, n. 1), quanto la denuncia d’un qualsiasi er-rore di diritto (art. 342, comma 1°, n. 2).

3.2.- Ciò precisato, è poi opportuno un breve richiamo all’evoluzione che l’onere di specificazione dei motivi d’appello, così come l’aveva prescritto il legislatore del 1942, ha fin qui subito nel corso della sua storia, poiché così vien as-sai più facile comprendere la scelta normativa compiuta nel 2012. Ora, codesta evoluzione è, nei suoi tratti essenziali, piut-tosto lineare10.

In origine, l’onere di specificare i motivi dell’appello fu per lo più inteso, in conformità al tradizionale modello del judicium novum, come sprovvisto di reale portata precettiva; in sostanza, si riteneva che l’onere dovesse giudicarsi adempiuto con la me-ra indicazione dei capi o delle parti della sentenza di cui l’appellante desiderasse la riforma, in stretta relazione con l’art. 329 cpv. c.p.c. Insomma, si conveniva che il legislatore avesse sì inteso richiedere all’appellante, con tale onere, uno sforzo

_______________________ 9 Conf. G. COSTANTINO, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del filtro, in <http://www.treccani.it>, 10 settembre 2012, n. 3; TEDOLDI, I motivi specifici, cit., 153.  10 Per più diffusi ragguagli sull’evoluzione in discorso, v. A.A. ROMANO, Pro-fili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d’appello civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2000, 1205 ss., ove ampi riff. a dottrina e giurisprudenza. Più di recente, sul tema, v. C. CONSOLO, Le impu-gnazioni delle sentenze e dei lodi3, Padova 2012, 162 ss.; R. POLI, Il nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc. 2013, 120 ss.; TEDOLDI, I motivi specifi-ci, cit., 150 ss. 

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d’individuazione pure degli errori commessi dal giudice di pri-mo grado, precisandosi però poi che, comunque, trattandosi in appello di rendere una seconda decisione sulla causa, piuttosto che di vagliare criticamente la sentenza, il difetto dei motivi po-tesse semmai dirsi ragione d’irregolarità dell’atto introduttivo, ma di sicuro non di nullità della citazione o di inammissibilità nell’esercizio del potere di gravame.

Col tempo, però, s’è affermata in dottrina, e soprattutto in giurisprudenza, una lettura differente, più incline a valorizzare la lettera della disposizione e l’onere di specificazione da essa imposto, la quale ha poi finito per prevalere nettamente, in spe-cie dopo la riforma del 1990, allorché il legislatore, intervenen-do su varie norme del giudizio d’appello, lo allontanò sensibil-mente dal risalente paradigma del judicium novum. Secondo questa differente lettura, motivare l’appello significava appunto denunciare con precisione i vizi che affliggono la sentenza di primo grado, e l’appello il cui atto introduttivo mancasse di far ciò, nonostante il silenzio del legislatore sul punto, doveva esse-re senz’altro rigettato per inammissibilità11.

3.3.- Così stando le cose, è ben possibile affermare che, in-tervenendo sull’art. 342, comma 1°, il legislatore non tanto ab-bia inteso innovare il diritto vivente, quanto piuttosto abbia vo-luto dargli una più solida base positiva12: ciò, da un lato, con-fermando che l’appellante non solo deve individuare le parti

_______________________ 11 Due sentenze delle sezioni unite, entrambe pubblicate in vari luoghi, hanno soprattutto segnato autentici punti di svolta nella giurisprudenza sul tema: Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, che ha affermato il principio secondo cui motivare l’atto d’appello significa indicare non solo le parti della sentenza impugnate, ma pure le ragioni dell’impugnazione, comminando, in difetto, la nullità dell’atto; e Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, che ha statuito che la nullità dell’atto d’appello per difetto dell’indicazione dei motivi d’impugnazione implica pure l’inammissibilità dell’impugnazione medesima. Per indicazioni ulteriori e più recenti, cfr. da ultimo C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile22, a cura di A. Carratta, II, Torino 2012, 517 ss. e soprattut-to A. TEDOLDI, Commento sub art. 342, in Commentario al codice di proce-dura civile, V ed., Milano, Ipsoa, 2013, 580 ss.  12 Il rilievo secondo cui la riforma dell’art. 342, comma 1°, sarebbe essen-zialmente formale, se non autenticamente «formalistico», ci pare assai condi-viso: v. CAPORUSSO, Commento, cit., 612; CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1135; COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3; MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 517 s. 

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della sentenza che ritiene d’impugnare (il quid dell’impugna-zione, potrebbe dirsi), ma altresì gli errori commessi dal giudice di primo grado (e dunque il quia dell’impugnazione); e, dal-l’altro lato, prevedendo espressamente la sanzione dell’inam-missibilità per il caso in cui siffatta individuazione manchi o – è da ritenere – sia inadeguata. Senza però incorrere in eccessivi formalismi: per dare luogo all’inammissibilità del gravame, la inadeguata individuazione dovrà essere davvero seria, ossia in concreto inidonea a dimostrare cosa si impugna esattamente, e perché (pena il rischio di irrigidimenti inaccettabili, come si so-no visti per il quesito di diritto ex art. 366-bis, e come tuttora si vedono in relazione al requisito dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, fin dal nome esposto a rischi di usi impropri13).

Se questo, palesemente, era il non certo disprezzabile dise-gno della riforma, la pratica realizzazione del medesimo non s’è rivelata, tuttavia, all’altezza. La nuova norma è assai mal scritta, e potrebbe per ciò destare più questioni di quante effettivamente ne dirima. Nel n. 1 dell’art. 342, comma 1°, sono infelicemente commiste prescrizioni che concernono l’oggetto dell’impugna-zione («l’indicazione delle parti del provvedimento che si in-tende appellare») e prescrizioni che paiono piuttosto intese ad esigere la denuncia d’un vizio: precisamente un errore nella ri-

_______________________ 13 Dovrebbe parlarsi e richiedersi solo un onere di localizzazione, come emer-ge dall’art. 366 c.p.c., e come ha di recente riconosciuto il Primo Presidente della Cassazione, Santacroce (v. la lettera indirizzata al Presidente del CNF prov. avv. Alpa, 17.5.2013). Dopo aver esortato gli avvocati ad un agire pro-cessuale intimamente collaborativo con il giudicante, la cui ricaduta prima è quella di redigere atti connotati da «sinteticità» e «chiarezza», il pres. Santa-croce rassicura sul fatto che «le predette raccomandazioni nemmeno si pongo-no in conflitto con il rispetto, da parte del ricorso, del c.d. principio di autosuf-ficienza, in quanto quest’ultimo esige non la completa trascrizione nel ricorso stesso dei documenti, la cui omessa e non corretta valutazione da parte del giudice di merito, sia oggetto del motivo di impugnazione, bensì solo la (anco-ra una volta) «sintetica» indicazione delle «porzioni del documento o docu-menti in questione» (eventualmente allegati al ricorso ai sensi dell’art. 369, comma 2°, n. 4, c.p.c.) che possano illuminare l’analisi da parte del giudice di legittimità». Insomma, il monito prima va certamente agli avvocati, ma vi è pure una esortazione ai giudici a non eccedere in sterili formalismi (un po’ come aveva fatto, con ancora maggior vigore, all’inizio dell’estate, le Sez. Un. in relazione all’impiego savio e giustificato della sanzione dell’inammissi-bilità dei motivi di ricorso la cui rubrica indichi un vizio ex art. 360 c.p.c. di-verso da quello concretamente denunciato: Sez. Un. 17931/2013).  

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costruzione del fatto. E tale commistione non è del tutto inno-cua, poiché, a vero dire, almeno l’indicazione dei capi della sen-tenza impugnata ben poteva ritenersi già imposta dal richiamo che lo stesso art. 342, comma 1°, continua a fare, come si è vi-sto, all’art. 163 c.p.c., ed in specie al n. 3 del suo comma 3°: col rischio di creare un conflitto di sanzioni perché, a rigor di lette-ra, se il difetto delle prescrizioni dell’art. 342, comma 1°, com-porta oggi certamente l’inammissibilità dell’appello, il difetto delle indicazioni di cui all’art. 163, comma 3°, per via mediata dell’art. 164, ne comporta invece la nullità, ch’è sanzione con maggiori margini di sanatoria14.

Ancora a proposito del n. 1 dell’art. 342, comma 1°, desta poi perplessità il modo in cui il legislatore si riferisce alla de-nuncia dell’errore di fatto: la formula legislativa, infatti, a voler-la intendere letteralmente («l’indicazione […] delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado»), piuttosto che esigere una serrata criti-ca alla sentenza, sembra contentarsi della mera richiesta di mo-dificazione della medesima nel senso sostenuto dall’appellante; piuttosto che onerare dell’illustrazione di un errore nella solu-zione del giudice a quo, sembra contentarsi dell’insistita pretesa

_______________________ 14 Sui rapporti tra i motivi di gravame di cui all’art. 342, comma 1°, ed il ri-chiamo, in grado d’appello, agli artt. 163, comma 3°, nn. 3 e 4, c.p.c., sotto l’impero del vecchio testo della norma, v. ROMANO, Profili applicativi, cit., spec. 1223. La nuova norma obbliga ora, probabilmente, ad una soluzione un po’ diversa da quella ivi prospettata: l’oggetto dell’appello, i.e. l’individuazione delle parti della sentenza da riformare, dev’essere indicato a pena d’inammissibilità, giusta l’art. 342, comma 1°, n. 1, prima parte; le ra-gioni dell’appello, i.e. i motivi specifici su cui il gravame si regge, devono essere indicate, pure a pena d’inammissibilità, giusta l’art. 342, comma 1°, n. 1, seconda parte, e n. 2; i nn. 3 e 4 dell’art. 163, comma 3°, c.p.c., che son det-ti applicabili dall’art. 342, comma 1°, c.p.c., paiono invece esprimere l’esigenza che l’appello richiami l’editio actionis di primo grado, ciò ch’è d’altronde essenziale all’identificazione dell’oggetto dell’appello: la mancan-za o l’insufficienza d’un simile richiamo potrebbe dunque impedire tale iden-tificazione, ed in quel caso dovrebbe anch’essa sanzionarsi, ormai, con l’inammissibilità. La nullità dell’atto d’appello, con applicazione dei meccani-smi di sanatoria dell’art. 164, dunque, è ormai possibile solo in relazione alla vocatio in ius (art. 163, comma 3°, nn. 1, 2 e 7: in tema v., si vis, A.A. ROMA-NO, Sulla nullità dell’atto di citazione in appello per vizi inerenti alla vocatio in ius, in Riv. dir. proc., 2010, 1432 ss.). 

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d’una soluzione diversa da parte del giudice ad quem15. Tutta- via, anche ove ci si appagasse di questa interpretazione letterale, la mera richiesta di modificazione gioverebbe molto poco all’appellante: se anche l’appello risultasse ammissibile, sareb-be comunque infondato (forse anche «manifestamente», ex artt. 348-bis e 348-ter: v. oltre) se al giudice dell’impugnazione non si spiega (proprio attraverso una serrata critica alla sentenza di primo grado) qual è l’errore che il giudice di prime cure ha commesso. Ed anzi, una interpretazione rigidamente letterale di questo n. 1 rischia financo di aggravare, senza alcuna ragione, il compimento dell’appellante (meglio: del suo difensore), costret-to a destreggiarsi in spesso lunghe (e poco attraenti per il giudi-cante, oltre che poco utili) ricostruzioni fattuali astratte, e minu-te e non agevoli «estrapolazioni» delle singole «porzioni» della ricostruzione fattuale che si assumono errate.

3.4.- La redazione del n. 2 dell’art. 342, comma 1°, non ap-pare molto più felice. Questa disposizione prescrive la necessità d’individuare, nella sentenza impugnata, una violazione di leg-ge commessa dal giudice di primo grado, i.e. un errore di dirit-to, senza che la necessità di indicare le «circostanze» da cui tale violazione derivi aggiunga nulla di significativo al precetto in questione16.

Insomma, l’art. 342, comma 1°, è davvero mal scritto, co-me dimostra anche la circostanza che – se ci si arrestasse ad una sua interpretazione sordamente letterale (davvero troppo «mio-pe» però, perché sia verosimile che passi) – l’art. 342, comma 1°, per la mancanza d’un adeguato coordinamento tra i suoi due numeri (che avrebbe potuto realizzarsi con agio, ad esempio, _______________________ 15 L’impasse è frutto dell’avventata integrazione, da parte del nostro legislato-re, della norma germanica cui l’art. 342, comma 1°, n. 1, manifestamente s’ispira, i.e. il § 520, comma 3°, n. 1, ZPO; quest’ultima è norma unicamente dedicata a prescrivere che l’appellante indichi le parti della sentenza che in-tende impugnare, ed appunto le modificazioni richieste al giudice dell’impu-gnazione, risultando dunque tutta dedicata all’oggetto del gravame (Beru- fungsantrag): non figurano, in essa, riferimenti alla quaestio facti, giacché, della denuncia degli errori di fatto, che appartengono alle ragioni del gravame (Berufungsbegründung), si cura, nella ZPO, il successivo § 520, comma 3°, n. 3. 16 Cfr. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1135. Il numero in esame è frutto dell’acritico innesto nel codice d’una traduzione del § 520, comma 3°, n. 2, ZPO. 

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per mezzo della congiunzione «o»), sembra quasi comandare che, onde proporre un appello ammissibile, occorra oggi denun-ciare sia un errore di fatto che una violazione di legge.

Da ultimo, è poi appena il caso di notare che quanto osser-vato nel presente paragrafo vale identicamente per l’appello nel rito del lavoro, poiché tutti i rilievi svolti nell’illustrazione del nuovo art. 342 – dalla soppressione del richiamo all’«esposi-zione sommaria dei fatti», al senso del rinvio al contenuto dell’atto introduttivo di primo grado (qui disciplinato dall’art. 414, in luogo dell’art. 163), alla ferma natura di mezzo a critica libera dell’appello, al significato della specificazione dei motivi di gravame, ai problemi generati dalla cattiva formulazione del testo introdotto dalla riforma –, sono essenzialmente riferibili pure al nuovo art. 434 c.p.c., ch’è stato riscritto esattamente sul modello del suo omologo di rito ordinario.

4. La restrizione dei limiti imposti alle nuove prove nell’appello ordinario …

4.1.- La riforma in esame ha poi provveduto a restringere i limiti di ammissibilità della proposizione, nel giudizio d’appello di rito ordinario, di istanze istruttorie non formulate in primo grado, nonché della produzione di prove documentali non ver-sate in causa dinanzi al giudice a quo.

Secondo il vecchio testo dell’art. 345, comma 3°, il giudice dell’appello ordinario poteva ammettere nuove prove costituen-de e nuovi documenti solo se, alternativamente, ciò gli fosse parso indispensabile, o l’istante avesse comunque dimostrato di non aver potuto valersi prima di tali mezzi istruttori per causa a lui non imputabile17. Col testo riformato, la possibilità offerta dal vaglio d’indispensabilità è oggi caduta, sì che, per l’ammis-sione di prove nuove, non rimane ormai, in favore di appellanti e appellati, se non la via della dimostrazione dell’omissione _______________________ 17 Sulle precedenti modificazioni della norma in esame, che nel testo origina-rio del 1942 esigeva, per l’ammissione in appello di nuovi mezzi di prova co-stituendi e precostituiti, la sussistenza di «gravi motivi accertati dal giudice», e che è stata più volte oggetto di riforma legislativa, v. da ultimo F. COSSI-GNANI, Riflessioni sulle recenti modifiche dell’art. 345 c.p.c. (legge n. 69/2009 e legge n. 134/2012), in Giur. it. 2013, 234 ss., ove anche aggiornati riff. 

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scusabile, ciò che già discende, del resto, dal principio generale dell’art. 153, comma 2°, c.p.c. (fermo tuttora il diritto di deferi-re, per la prima volta in appello, il giuramento decisorio).

4.2.- Non si tratta, nemmeno qui, di un intervento destinato a grandi conseguenze pratiche, se è vero che i giudici d’appello erano tradizionalmente già assai parchi nel consentire l’assun-zione o la produzione di prove nuove indispensabili dinanzi a loro18. Certo è che questo intervento non sposta i termini del problema della eccessiva lunghezza dei giudizi di impugnazio-ne, e pure dell’«affollamento» delle nostre corti di appello19. Semmai, questo intervento ha qualche peso sul piano teorico, ove la nuova norma toglie certo una complicazione, giacché il concetto d’indispensabilità non è di quelli che brillano per chia-rezza, ed i suoi confini appaiono anzi assai nebulosi, fino a sco-lorire in poco sondabile discrezionalità20: il sistema delle pre-clusioni, tra primo e secondo grado di giudizio, ne riesce di si-curo più coerente, venendo meno un’importante deroga ad esso; chi per le preclusioni abbia scarsa simpatia, però, farà notare con ragione che, per lo stesso motivo, tale sistema risulta ora, pure, assai più rigoroso e vincolante, almeno in astratto21. Senza

_______________________ 18 Cfr. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1134. 19 A tal fine, certamente più proficuo si mostra lo strumento predisposto dalla l. n. 98/2013 (di conversione con modifiche del c.d. «decreto del fare»), che ha aperto alla possibilità di nomina di giudici ausiliari (sia togati che laici: professori universitari, ricercatori, più dubbia invece la scelta di ammettere anche avvocati e notai), che potranno coadiuvare i giudici ordinari nello smal-timento dell’arretrato (secondo una prospettiva che già da qualche tempo era stata avanzata: si v., si vis, C. CONSOLO, Per una vocazione e dirittura ad un tempo tecnica e politica della organizzazione meno stentata della giustizia civile o comunque non penale, relazione al convegno Primo rapporto sulla giustizia civile in Italia, Roma 2-3 marzo, 2012, in Quaderni del centro studi dell’Avvocatura Civile italiana, 198, ss., spec. 202-203). A Milano, nel I se-mestre 2013, vi furono questi numeri: 3449 sentenze, di cui 243 sentenze a seguito di decisione ex art. 281-sexies, e solo 148 ordinanze ex art. 348-bis (che pure in quella Corte si è cercato molto di valorizzare). Del resto, il tasso di riforma delle decisioni in appello, è del 37% (di cui 4 su 10 sono di riforma totale, e 6 su 10 di riforma parziale).  20 Da ultimo, sul concetto, in giurisprudenza, Cass. 5 dicembre 2011, n. 26020, in Giur. it. 2012, 2336 ss.; Cass. 21 giugno 2011, n. 13606; in dottrina, v. per tutti COSSIGNANI, Riflessioni, cit., 234 ss. 21 V. ad es. CAPORUSSO, Commento, cit., 618 ss. Più dubbio è, invece, che la nuova norma possa avallare l’interpretazione che questa A. propone, secondo

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contare poi che ciò che è stato fatto uscire dalla porta (il concet-to di indispensabilità della prova), viene in realtà fatto subito rientrare dalla finestra: il problema della prova indispensabile, infatti, continuerà a porsi oggi, pur se solo nell’appello a valle del rito sommario di cognizione (v. oltre).

L’indispensabilità del mezzo di prova, come autonoma ra-gione di deroga alle preclusioni istruttorie di primo grado, resta ferma, per contro, in grado d’appello, nel rito del lavoro, non essendo stato modificato l’art. 437, comma 2°, c.p.c.; la diffe-renza tra i due regimi, intorno alla quale non v’è da far questio-ne d’irragionevolezza, si spiega verosimilmente al lume dei maggiori poteri di case management riservati da sempre alla funzione di giudice del lavoro22.

5. (Segue): … e nell’appello a valle di un giudizio svoltosi, in primo grado, con il rito sommario di cognizione

5.1.- Più incisivo e meno commendevole è invece, nel com-plesso, l’intervento della riforma sull’art. 702-quater c.p.c.

Tale norma prevedeva, nel testo anteriore, che l’ordinanza resa all’esito del procedimento sommario di cognizione fosse pienamente idonea a produrre la cosa giudicata, a meno che non fosse impugnata per mezzo dell’appello; e che, in tal caso, per compensare la sommarietà dell’istruzione dinanzi al tribunale, il giudice d’appello potesse valersi di qualsiasi mezzo di prova nuovo, sol che si trattasse di mezzo ammissibile e rilevante, senza che occorresse che lo stesso fosse pure «indispensabi-

_______________________ cui non sarebbero in linea di principio più ammissibili istanze di prova costi-tuenda e produzioni documentali relative a fatti sopravvenuti, o a fatti posti a fondamento di domande o eccezioni formulate ai sensi dell’art. 345, commi 1° e 2°: dove la legge ammette l’allegazione nuova (ed allora, per le eccezioni ammissibili in appello, il problema sta a monte, ed è quello se dette eccezioni si devono fondare solo su fatti già allegati in primo grado, o consentano l’allegazione di fatti nuovi: v., al riguardo, CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 209), è ragionevole ritenere che a fortiori ammetta la prova per dimostrarla; e l’ammetta – si badi – secondo ordinari criteri di rile-vanza, non già secondo eccezionali vagli d’indispensabilità; in ogni caso, poi, si tratterebbe di prove di cui incolpevolmente la parte non avrà potuto valersi in prime cure. 22 V. ancora CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1134. 

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le»23. Ora, per contro, il nuovo testo dell’art. 702-quater, mentre conferma la piena idoneità al giudicato della decisione resa all’esito del rito sommario di cognizione non appellata, limita l’impiego dei nuovi mezzi di prova ai soli mezzi «indispensabi-li»24.

5.2.- Questa limitazione è però indubbiamente inopportuna, sia per chi ritenga che il procedimento sommario sia un proce-dimento che consente una cognizione realmente superficiale, e non un procedimento a cognizione piena ed esauriente di cause di più semplice definizione25; sia per quanti ritengono invece che il rito di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. vada considerato un rito a cognizione piena a tutti gli effetti, poiché di sommario qui vi siano solo le forme dell’istruzione (deformalizzata, appun-to)26.

5.3.- Le ragioni del (comune) dissenso, sono però diverse. Per quanti non riconoscono al rito sommario una capacità di cogni-zione piena, l’appello aperto a tutti i mezzi di prova costituiva un contrappunto prezioso della sommarietà, e fugava ogni dub-bio sulla scelta normativa d’attribuire efficacia di giudicato ad una decisione potenzialmente superficiale, perché lasciava al soccombente la possibilità di reagire ad essa in un giudizio ad istruttoria completa. Ora, specie se l’indispensabilità verrà inte-sa in senso molto rigoroso, quel presidio è caduto, ed il nuovo sistema consente di produrre un giudicato all’esito della combi-nazione tra un giudizio (secondo alcuni, addirittura) superficiale ed un giudizio che – per quanto comunque a cognizione piena – prevede limiti assai penetranti all’ingresso dei mezzi di prova: all’esito, in altri termini, di due gradi di giudizio, in nessuno dei quali è garantita un’istruzione equivalente a quella del giudizio di cognizione ordinario. _______________________ 23 In tema, v. per tutti A. SCALA, L’appello nel procedimento sommario di co-gnizione, in Giur. it. 2010, 739 s. e A. TEDOLDI, Il nuovo procedimento som-mario di cognizione, Torino, 2013, 558 ss. 24 Oltre che, beninteso, a quelli rispetto ai quali sussistano i requisiti per esser rimessi in termini. 25 V. A.A. ROMANO, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizio-ne, in Giusto proc. civ. 2010, 165 ss. 26 Così, tra i molti, C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile2, III, Torino 2012, 192; C. BESSO, Il nuovo rito ex art. 702-bis c.p.c.: tra somma-rietà del procedimento e pienezza della cognizione, in Giur. it. 2010, 722 ss. 

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Il vulnus recato dalla riforma al diritto alla prova non è forse gravissimo (perché le parti possono far molto per prevenirlo27): e tuttavia un vulnus c’è, e basta a far giudicare la novità com-plessivamente inopportuna.

Chi invece non dubita della natura di cognizione piena, seppur con modalità più snelle di questo rito (ed è questa la tesi prevalente), non può esitare a chiedersi quale coraggiosa parte vorrà ancora usufruire di questo più celere strumento di cogni-zione, ora che il (comunque tranquillante) regime delle nuove prove in appello è stato tanto irrigidito. L’elasticità della fase istruttoria in appello originariamente concepita dall’art. 702-quater, e così la possibilità di recuperare prove eventualmente tralasciate in primo grado, era previsione comunque rasserenan-te per le parti (e, crediamo, al fondo non lesiva della ragionevo-le durata del processo). Il pericolo è, allora, che il nuovo rito sommario cada, a soli tre anni dalla sua entrata in vigore, in de-suetudine, a meno che la giurisprudenza – saggiamente – non adotti criteri più duttili di valutazione della «indispensabilità» della prova, rispetto a quelli elaborati in relazione al previgente art. 354, comma 3°, c.p.c. 28. 6. Il c.d. «filtro» in appello

6.1.- La più significativa delle novità recate nel 2012 alla di-sciplina dell’appello civile riguarda tuttavia, senz’alcun dubbio,

_______________________ 27 La previsione, non parrà – ai sostenitori di questa impostazione – necessa-riamente incostituzionale, nemmeno se ciò si può esclude: è vero che ciascuna parte, nel giudizio sommario, potrà procurare di dedurre e produrre comunque tutti i mezzi di prova di cui dispone, togliendosi dall’imbarazzo d’introdurne di nuovi in appello; ed è vero che, così facendo, se poi il tribunale non assuma o utilizzi tutti quei mezzi, perché li ritenga superflui per emanare la decisione sommaria, tale parte potrà poi, in caso di soccombenza, insistere in appello anche per i mezzi di prova non assunti o inutilizzati, per i quali non è previsto nessun vaglio d’indispensabilità; ma è pure vero che i limiti per dedurre i mezzi di prova, nel procedimento sommario, sono assai incerti e potenzial-mente molto angusti. 28 Per la proposizione di analoghi dubbi, in specie con riferimento all’espansione del procedimento sommario operata per mezzo del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150, v. anche COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3.4; sost. conf., da ultimo, TEDOLDI, I motivi specifici, cit., 161 ss. 

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l’introduzione, anche nel campo del giudizio ordinario di se-condo grado, di un preliminare esame del fumus dell’impu-gnazione, che, in caso d’esito negativo, comporta il definitivo rigetto della stessa con ordinanza, e che presenta significative analogie con il vaglio previsto fin dal 2009 dall’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., nel campo del ricorso per cassazione. Di questo secon-do «filtro» – davvero folle, non ci tratteniamo dal dirlo sùbito – si curano, precisamente, i nuovi artt. 348-bis e 348-ter, commi 1°, 2° e 3°, estesi anche all’appello secondo il rito del lavoro dal nuovo art. 436-bis c.p.c.29.

Nel suo nucleo essenziale, il relativo precetto è molto scar-no. Vi si dice semplicemente che, in prima udienza, l’appello dev’essere dichiarato inammissibile, con ordinanza, «quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolt[o]» (art. 348-bis, comma 1°).

La ratio dell’istituto è di consentire al giudice di decidere con maggior agio e celerità quei gravami la cui infondatezza e-gli è in grado di predire immediatamente, se non con sicurezza, almeno con buon grado d’approssimazione (vedremo comunque fra breve con quel grado di sicurezza, sulla scorta della sola let-tura degli atti introduttivi e di quelli di prima istanza)30. In par-ticolare, maggior agio e celerità dovrebbero discendere, rispetto alla procedura ordinaria, dal (parziale) minor sforzo motivazio-nale richiesto al giudice31, dalla sommarietà della cognizione32,

_______________________ 29 Salvo il caso di diversa precisazione, i rilievi contenuti nel presente paragra-fo, formulati in relazione all’appello ordinario, valgono identicamente per l’appello secondo il rito del lavoro. 30 COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3.1, dubita della legittimità costituzionale della norma, per la disparità di trattamento che crea, non prevedendo una spe-culare decisione sommaria di fondatezza per gli appelli che appaiano ictu ocu-li votati all’accoglimento; riteniamo però che, mentre sotto molti altri profili la norma desti effettivamente questioni di costituzionalità (infra, testo e ntt. 51-62), questo appunto sia eccessivo: l’accoglimento di un appello con pronuncia sommaria è assai più delicato del rigetto, perché invariabilmente implica la riforma di una contraria pronuncia resa a cognizione piena, e – soprattutto – implica una nuova statuizione sulla domanda originariamente proposta, che difficilmente potrebbe concepirsi in termini e modi così angusti. 31 L’art. 348-ter, comma 2°, stabilisce che l’ordinanza in questione dev’essere «succintamente motivata», riprendendo la nota locuzione generale dell’art. 133, comma 1°, c.p.c., e consentendo poi che la succinta motivazione consista nel rinvio ad elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa ed a preceden-ti conformi. A meno di non voler argomentare improbabili distinguo tra «suc-

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dallo svolgimento del gravame in un’unica udienza, e dall’o-missione di comparse conclusionali e memorie di replica33.

6.2.- Come avviene per il corrispondente vaglio dell’art. 360-bis, anche qui il rigetto ha dunque formale carattere d’inam-missibilità, benché il giudice sia chiamato a compiere una pro-gnosi che certamente attiene alla fondatezza dell’appello nel merito34. Questa cattiva sistemazione, però, non può dirsi a cuor

_______________________ cintezza» e «concisione», questo vantaggio pare tuttavia ben modesto, sol che si consideri che gli artt. 132, comma 2°, n. 4, c.p.c., e 118 disp. att. c.p.c. con-sentirebbero al giudice di far lo stesso anche in una decisione resa in forma di sentenza. 32 È opinione di alcuni autori (fra cui A.A. Romano, ma non C. Consolo) e di alcuni giudici e Corti di gravame (ma non di altre: v. l’amplio florilegio di ordinanze nei due sensi, nell’Appendice al volumetto, AA.VV., Il filtro del-l’appello, Torino, 2013, spec. pp. 212 ss.) che l’art. 348-bis, comma 1°, con-senta al giudice una cognizione autenticamente sommaria (v. appena infra, n. 7). La differenza, rispetto alla procedura ordinaria, non è qui da poco, almeno in teoria: essa comporta che, ad es., se il giudice, pur con qualche remoto dub-bio, ritenga che il gravame non abbia ragionevoli probabilità di essere accolto, debba pronunciare l’inammissibilità di cui all’art. 348-bis, comma 1°, senza disporre l’istruzione costituenda che, a parità di condizioni, decidendo a co-gnizione piena, egli avrebbe invece disposto, per fugare pure quel menzionato suo remoto dubbio intorno al fondamento del gravame. 33 Evitare il dispendio di tempi e costi prodotto dalle comparse conclusionali e dalle memorie di replica può esser anche il risultato dell’applicazione dell’art. 281-sexies, ora richiamato dall’art. 352, comma 6°, nel testo riformato dall’art. 27 legge 12 novembre 2011, n. 183, che prevede una decisione a co-gnizione piena e con sentenza: vero è, nondimeno, che l’art. 352, comma 6°, e l’art. 281-sexies, oltre appunto a non consentire cognizioni sommarie, non as-sicurano affatto l’unicità dell’udienza. D’altro canto, nemmeno si può esclu-dere che l’ordinanza d’inammissibilità venga pronunciata all’esito di un’udienza successiva alla prima (v. anche infra, nt. 44). Le osservazioni che precedono non valgono poi, naturalmente, per il rito del lavoro, dov’è già previsto che l’appello si concentri ove possibile in un’unica udienza, e dove conclusionali e repliche non sono previste. Qui, sarebbe inve-ro sensato ipotizzare che, per gli appelli di cui sia possibile delibare l’irragionevole probabilità di accoglimento, le udienze vengano fissate con anticipo sui tempi consueti (v. A. PANZAROLA, Commento agli artt. 348-bis, 348-ter, 360, 383, 436-bis e 447-bis, comma 1°, in Commentario alle riforme del processo civile, cit., 654). 34 Rilievo comune: cfr. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1135; MAN-DRIOLI, Diritto, cit., II, 528; G. VERDE, Diritto processuale civile3, II, Bologna 2012, 208; PANZAROLA, Commento, cit., 627 s. (ove però giustamente sono sottolineate pure le molte differenze tre i due istituti), 638 s.; G. SCARSELLI, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it., 2012, V, 287; A. TEDOLDI,

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leggero priva di conseguenze pratiche: trattandosi d’inammis-sibilità, ad esempio, si potrebbe a rigore prospettare l’applica-zione dell’art. 358 c.p.c., secondo la lettura che da tempo ne dà la giurisprudenza maggioritaria, la quale consente la libera ri-proposizione del gravame fino al momento in cui la dichiara-zione d’inammissibilità non sia effettivamente intervenuta. Una tale possibilità, tuttavia, va esclusa, proprio perché qui il vaglio, comunque lo si sia chiamato, attiene alla infondatezza del gra-vame35.

Da ultimo – e prima di «addentrarci» nei vari gravi pro-blemi generati da questa previsione – conviene affrontare un quesito: che «peso» e ruolo ha l’eventuale «eccezione» della parte, di inammissibilità ex art. 348-bis dell’appello avversario (che, ad oggi, è già divenuta assai frequente)? Benché nulla pre-cluda alla parte di «stimolare» detto vaglio, è da escludere che su questa «eccezione» il Giudicante sia chiamato a prendere e-spressa posizione, ove non sia convinto della inammissibilità(-infondatezza) ex art. 348-bis del gravame. Lo strumento predi-sposto dalla l. n. 134/2012, infatti, è rimesso al giudicante, per il caso in cui egli ritenga che l’appello proposto non abbia alcuna chance di accoglimento (e così verrebbe rigettato anche da un collegio giudicante «ragionevole»), sì che – a ben vedere – nemmeno si tratta di una eccezione, sulla quale il giudicante sa-rà chiamato in ogni caso a pronunciarsi. Una diversa imposta-zione avrebbe l’esito funesto di appesantire, anziché – in alcuni casi almeno – «alleviare» il lavoro delle corti di appello.

_______________________ Commento sub artt. 238-bis e -ter, in Codice di procedura civile commentato, V ed., Milano, 2013. 35 Dubitiamo che l’art. 358 possa invocarsi a tal fine (lo nega, ad es., MAN-DRIOLI, Diritto, cit., II, 529); ma per evitarlo, occorre un’esegesi correttiva della norma, che appunto denunci la malaccorta sistemazione legislativa e ne-ghi l’omogeneità tra questa e le altre fattispecie d’inammissibilità: ciò che po-trebbe peraltro farsi richiamando quanto osservato ad es. da Cass., sez. un., 6 settembre 2010, n. 19051, in Foro it. 2010, I, 3333 ss., ed in Giur. it. 2011, 885 ss., a proposito del «filtro» di cui all’art. 360-bis, n. 1. V., sul punto, CON-SOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 340 ss. 

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7. (Segue): Il grado di «accuratezza» della valutazione circa l’assenza di «una ragionevole possibilità di accoglimento» dell’appello ex art. 348-bis

7.1.- Tra tutte le questioni che il nuovo filtro pone (e non so-no poche), centrale ci pare essere proprio la necessità di com-prendere cosa esattamente intenda il legislatore con la disinvolta formula della «ragionevole probabilità di accoglimento» dell’appello. In particolare – e ferme le difficoltà di una sua trat-tazione a priori, discosta dal caso concreto – non appare certo inutile provare a stabilire su di un piano generale, quanto «ele-vato» debba essere il «grado» di codesta probabilità, o ancora a stabilire se la formula comporti che il rigetto in questione non giunga fino ad esigere quei fumi di «manifesta infondatezza», ai quali le nostre corti sono già iniziate da altre disposizioni del codice (artt. 367, 398, o 360-bis, n. 2), ma si contenti di qualco-sa di meno36.

7.2.- Poiché su questa nozione di «ragionevole probabilità di accoglimento» si erge tutto il meccanismo del nuovo «filtro», è di fondamentale importanza comprendere che genere di vaglio la formula legislativa impone al giudice di appello.

Per alcuni, il legislatore ha imposto al giudice di appello una cognizione sommaria37. Secondo questa ricostruzione, la legge non vuole che il giudice respinga con ordinanza i soli ap-pelli la cui infondatezza egli possa pronunciare già in prima u-dienza, perché di essa è già allora soggettivamente certo, né v’è il caso che, istruendo, egli possa cambiare opinione, perché di istanze istruttorie non ve ne sono, o perché il giudice le ritiene inammissibili o inutili; al contrario, la formula imporrebbe al giudice di rigettare pure gli appelli che in prima udienza egli ri-tenga probabilmente non fondati, pur non potendo esserne sicu-ro, e pur non potendo con certezza escludere che, accogliendo le _______________________ 36 In tema, tra i molti, v. A. DIDONE, Note sull’appello inammissibile perché probabilmente infondato e il vizio di motivazione in Cassazione dopo il d.l. c.d. «sviluppo» (con il commento anticipato di Calamandrei), in Giur. it. 2013, 229; M. RUSSO, Le novità in tema di appello dopo la l. 7 agosto 2012, n. 134, in Giur. it. 2013, 233; ampiamente PANZAROLA, Commento, cit., 632 ss.; POLI, Il nuovo giudizio, cit., n. 133 ss. 37 In questo senso v. ad es. MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 528, e pure A.A. RO-MANO, in questa sede.  

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richieste istruttorie dell’appellante, che però nel complesso gli paiono probabilmente inammissibili o inutili, cambierebbe opi-nione. Il giudice sarebbe insomma chiamato ad un’autentica prognosi di fumus boni (o, forse, mali) iuris, la quale a rigore nemmeno è per lui discrezionale: o meglio, egli gode d’ampia discrezionalità nel valutare se l’appello abbia o meno «ragione-voli probabilità d’accoglimento», questo sì, per virtù della cen-nata vaghezza della formula legislativa che gl’impone l’esame38; ma, se poi l’appello gli paia di quelli il cui accogli-mento non è ragionevolmente probabile, egli deve rigettarlo con ordinanza39.

7.3.- A questa lettura se ne contrappone un’altra, opposta40, secondo cui la infondatezza del gravame (perché di ciò – l’abbiamo appurato – si tratta), dovrebbe invece essere manife-sta. Ossia il giudice di appello potrà fare ricorso a questo nuovo strumento «deflattivo», quando davvero l’appello appaia avere ridottissime chances di accoglimento. Ed una tale valutazione deve comunque essere prevalentemente oggettiva, nel senso che l’appello manifestamente infondato è quello che non solo il giudice adito ritiene tale, ma che tale sarebbe anche per altri giudici diversi (non solo della stessa sezione o della stessa corte di appello)41. Ci vuole insomma una infondatezza su «larga sca-_______________________ 38 Ne lamenta l’eccessiva discrezionalità, tra i molti, COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3.1. 39 Sembra di doverlo argomentare, parecchio a malincuore, dall’uso della for-ma verbale «è dichiarata» nell’art. 348-bis, comma 1°. 40 Nel senso che si tratti, invece, di una «nuova modalità decisoria semplifica-ta-sommaria», v. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1135; analogamente ora COMASTRI, Note sulla recente riforma, cit., 703; App. Roma 23 gennaio 2013, in Giur. it., 2013, 1629 ss., con nota di A. DIDONE, Note sull’appello inammissibile ex art. 438-bis c.p.c., che fa dell’art. 348-bis, comma 1°, una sorta di rito speciale, a cognizione piena, degli appelli la cui infondatezza pos-sa essere dichiarata sùbito con sicurezza. Nel senso della infondatezza manife-sta dell’appello, si v. anche A. TEDOLDI, Aporie e problemi applicativi sul «fil-tro» in appello, in AA.VV., Il filtro dell’appello, Torino, 2013, spec. 44 ss., ed ivi ulteriori pronunce giurisprudenziali conformi.  41 La miglior sintesi del criterio imposto dall’art. 348-bis, ci pare quella fatta da un Magistrato, C.R. RAINERI, in Il filtro in appello. Riflessioni agli albori delle novelle, in AA.VV., Il filtro dell’appello, cit., spec. 28: «In altri termini, se saremo certi (e dobbiamo esserlo) della infondatezza dell’appello, sarà as-sai probabile che esse non verrà accolto da qualunque futuro collegio giudi-cante».  

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la», e così da rapportarsi alla giurisprudenza della S.C. (non ba-sterebbe solo un peculiare orientamento interno alla Corte di Appello adita). Insomma, il vaglio di inammissibilità(-infondatezza) non potrebbe essere condotto in forza del criterio del «più probabile che no» (o 50% più 1 di chances di accogli-mento), che pure oggi la S.C. sembra – anche qui poco convin-centemente – adottare nel giudizio di responsabilità risarcitoria contrattuale ed extracontrattuale (come un recente ed assai noto caso ha dimostrato). Altrimenti il rischio è quello di una incosti-tuzionalità della previsione, per davvero evidente disparità di trattamento, connessa all’inclinazione del singolo magistrato o delle varie Corti di appello, che trasformerebbero questo già cri-ticabile «filtro» in un terno al lotto42.

7.4.- Non è chiaro, perché la norma non lo precisa, se l’appello possa essere dichiarato inammissibile, a mente dell’art. 348-bis, comma 1°, anche quando esso legittimamente poggi su elementi nuovi, come ad esempio una nuova prova, un fatto sopravvenuto o un’eccezione rilevabile d’ufficio, almeno ove si ritenga che l’art. 345, comma 2°, c.p.c., consenta, riguar-do a queste ultime, d’allegare, per la prima volta in seconde cu-re, il correlato fatto estintivo, modificativo o impeditivo ante-riormente taciuto43. In proposito, è da ritenere che la nuova pro-va non precluda il rigetto con ordinanza, beninteso se il giudice la stimi irrilevante o inammissibile (secondo un vaglio analogo a quello che deve guidare la prognosi di infondatezza dell’appello). Il nuovo fatto, invece, precluderà un tale esito, perché la possibilità d’un rigetto sommario si giustifica, nell’idea del legislatore, in virtù del completamento d’un grado

_______________________ 42 Anche perché, mentre gli effetti dannosi dell’errato mancato utilizzo del rigetto per inammissibilità sono nel complesso contenuti, e si possono larga-mente neutralizzare con l’uso dell’art. 96 c.p.c. (non potrebbe, in particolare, ipotizzarsi per tale motivo l’impugnazione, da parte dell’appellato vittorioso, della sentenza che abbia poi rigettato l’appello erroneamente non dichiarato inammissibile con ordinanza), gli effetti dannosi dell’errore speculare sono molto gravi, come si cercherà di dimostrare infra, testo e ntt. 51-62 (la prima giurisprudenza d’altronde risulta improntata alla massima cautela: v. supra, nt. 40). 43 V. sul punto, CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 209 ss. 

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di giudizio a cognizione piena: ciò che, con riguardo ai fatti nuovi, in thesi non è consentito predicare. 8. (Segue): La pronuncia dell’ordinanza di rigetto ex art. 348-bis: conseguenze e (in)impugnabilità diretta 8.1.- In punto di procedura, l’ordinanza di cui all’art. 348-bis, comma 1°, dev’essere pronunciata a conclusione della pri-ma udienza d’appello, i.e. dell’udienza di cui all’art. 350 (art. 348-ter, comma 1°)44, previa audizione delle parti costituite. _______________________ 44 Non sarebbe tuttavia formalmente viziata una pronuncia adottata con ordi-nanza all’esito di un’udienza successiva: talora ciò sarà addirittura necessario, se ad es. la prima udienza sia stata rinviata per questioni inerenti all’irregolare costituzione del contraddittorio in appello. Non ci pare invece ben fondata la soluzione proposta da COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3.1, secondo il quale il giudice d’appello dovrebbe comunque rinviare la discussione sulle probabilità d’accoglimento dell’appello, se il dubbio in ordine alle stesse sia stato solleva-to per la prima volta in prima udienza; lo stesso autore ammette inoltre che il giudice possa invitare le parti a trattare la questione per iscritto, a norma dell’art. 83-bis disp. att. c.p.c., il che in effetti, per quanto per lo più sconsi-gliabile, non si può escludere del tutto, in specie là dove la discussione coin-volga profili ulteriori rispetto a quelli inerenti alla fondatezza dell’appello (per i quali ultimi si può invece già contare sugli atti introduttivi): si pensi, ad es., al caso in cui l’applicabilità dell’art. 348-bis, comma 1°, c.p.c., sia contestata perché, secondo l’appellante, si versi in una delle ipotesi in cui la norma non è utilizzabile. Il problema di un tale ulteriore contraddittorio scritto, però, è chiaro: esso rischia di veicolare una maggior completezza espositiva dell’ap-pellante che, in alcuni casi, potrebbe allora rendere più incerta la manifesta infondatezza del gravame. Se così fosse, ci si dovrebbe porre l’ulteriore pro-blema del se vadano dal giudice considerate queste «integrazioni», o se invece egli debba giudicare tamquam non esset, ma allora rigettare per manifesta i-nammissibilità un appello che tale, però, non lo è più, perché «corroborato» tardivamente. Insomma, i problemi – a voleri ricercare – potrebbero essere molti. In realtà ciò che davvero pare inaccettabile (e che quindi andrebbe e-scluso) è che l’applicazione di uno strumento dichiaratamente deflattivo com’è questo nuovo filtro, incrementi le attività da svolgere per magistrati e cancellerie, e dunque comporti un allungamento dei tempi «ordinari» della decisione. Più dubbio è se l’ordinanza possa pronunciarsi nell’udienza di cui all’art. 351, comma 3°, c.p.c. (conf., anche in materia di processo del lavoro, PANZAROLA, Commento, cit., 657), salvo, forse, che tutte le parti appellate siano già costi-tuite con comparsa di risposta in appello e non abbiano a ciò obiezioni; né, ancora, ove si sia comunque dato luogo, in appello, a qualche forma d’istruzione costituenda giusta l’art. 356 c.p.c., parendo che le ridotte probabi-

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L’ordinanza può essere pronunciata indipendentemente da qual-sivoglia istanza degli appellati in tal senso, e pure in caso di contumacia dei medesimi45. Il giudice inviterà le parti costituite a discutere il punto, solo se gli paia che possano esservi i pre-supposti per l’ordinanza; se viceversa ritiene che l’appello non rientri tra quelli che non hanno «ragionevoli probabilità di ac-coglimento», nemmeno sentirà i litiganti al riguardo; e specu-larmente, se, sentitili al riguardo, l’appellante lo convinca che l’appello gravemente infondato non è, non pronuncerà alcuna ordinanza, ma darà corso alla trattazione secondo le regole normali.

Se l’ordinanza sia resa, in udienza o previo scioglimento di riserva ex art. 186, il processo d’appello resta così definito, sen-za che si possa compiere in esso alcuna altra attività46. L’ordinanza, del resto, contiene pure la pronuncia sulle spese, ch’è necessariamente di condanna dell’appellante, così doven-dosi intendere il rinvio limitato, dall’art. 348-ter, comma 1°, al solo art. 91 c.p.c.

_______________________ lità d’accoglimento debbano valutarsi sulla base degli atti introduttivi, e che, se il giudice avverta la necessità d’istruire, ciò significhi ch’egli assegna all’appello, almeno in partenza, qualche punto di probabilità in più di quelli che la legge considera ragione di rigetto. D’altronde sarebbe assai inopportuno l’opinare in senso contrario, poiché, se vi sia stata assunzione di prove in cor-so di giudizio, consentire poi la pronuncia con ordinanza significherebbe sot-trarre codesta assunzione a qualunque successivo controllo. Nemmeno è da ritenere che l’ordinanza d’inammissibilità possa pronunciarsi, una volta che si sia transitati all’udienza di precisazione delle conclusioni; lo si argomenta dal combinato disposto degli artt. 348-ter, comma 1°, e 352, comma 1°, c.p.c.; d’altro canto, all’udienza di precisazione delle conclusioni è ormai possibile, con poco o nullo dispendio in più, la pronuncia di sentenza ex art. 281-sexies. 45 Se vi sia istanza d’inibitoria ex artt. 283 e 351 c.p.c., da decidere in prima udienza e non ex art. 351, comma 3°, c.p.c., ed il giudice d’appello s’avveda della sussistenza dei presupposti per l’ordinanza di cui all’art. 348-bis, comma 1°, egli potrà pronunciare quest’ultima soltanto, senza che si dia luogo a prov-vedere, evidentemente, sull’inibitoria, e perciò senza applicazione della relati-va sanzione. 46 La locuzione «prima di procedere alla trattazione», di cui all’art. 348-ter, comma 1°, è ingannevole, perché può far pensare che alla trattazione occorra poi procedere comunque: il «prima di» deve invece essere inteso come un «anziché». 

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8.2.- L’ordinanza d’inammissibilità non è espressamente di-chiarata «non impugnabile» dalla legge; ma ch’essa spogli il giudice d’appello d’ogni ulteriore potere di decisione sulla cau-sa non sembra lecito dubitare, potendosi argomentare in tal sen-so, oltre che dalla necessità che vi si provveda sulle spese, dall’art. 348-ter, comma 3°, ove è detto tout court che, se l’ordinanza sia pronunciata, l’appellante può proporre ricorso per cassazione contro la decisione di primo grado47, entro un termine decorrente dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza stessa. Con il che, sembra che il legislatore abbia inteso logicamente escludere la possibilità d’un rimedio imme-diato e diretto contro l’ordinanza, da proporsi dinanzi al giudice d’appello.

La previsione che disciplina il termine per proporre ricorso per cassazione contro la decisione di primo grado è pessima: vien fatto di constatare, con amarezza, che il nostro legislatore non si rivela capace di esprimersi propriamente nemmeno su quelle questioni tecniche – i termini d’impugnazione, appunto – per le quali l’esigenza di chiarezza è più avvertita, ed il lin-guaggio giuridico consentirebbe senza sforzo precisione presso-ché da scienza esatta. Testualmente, si legge, nell’art. 348-ter, comma 3°, che «il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inam-missibilità»; ma quale sia questo termine, se quello c.d. breve di sessanta giorni, o quello c.d. lungo di sei mesi, non è affatto cer-to; né l’ultimo inciso del comma in esame, secondo cui «si ap-plica l’art. 327, in quanto compatibile», contribuisce granché a far luce sul problema.

Anche a tale riguardo, quindi, diverse sono le soluzioni proposte. Per alcuni il termine di cui è menzione nell’art. 348-ter, comma 3°, è quello c.d. breve, di cui all’art. 325, comma 2°, c.p.c., perché, nel sistema degli artt. 325 e 327 c.p.c., è que-sto il termine «naturale» per proporre il gravame, mentre il ter-_______________________ 47,Il ricorso per cassazione non è in alcun modo vincolato dai motivi dell’appello rigettato (CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1137). Esso è però vincolato, questo sì, alla scelta dei capi da impugnare compiuta nell’atto d’appello: l’art. 329, comma 2°, osta infatti all’impugnazione, col ricorso per cassazione, di capi della sentenza di primo grado non colpiti dal primo gravame (conf. PANZAROLA, Commento, cit., 665). 

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mine comunemente chiamato «lungo» soccorre solo eccezio-nalmente, quando quello breve non possa decorrere, e dall’art. 327 non è neppure chiamato «termine». Il significato del rinvio all’art. 327, operato nell’ultima parte del comma, secondo que-sta lettura, è conseguentemente quello di specificare che, se per caso l’ordinanza, resa fuori udienza48, non sia né comunicata dalla cancelleria, ex art. 176, comma 2°, c.p.c., né notificata ad istanza dell’appellato, il termine per proporre il ricorso per cas-sazione sarà di sei mesi e decorrerà dalla data della «pubblica-zione» (art. 327, comma 1°, c.p.c.: i.e., dal deposito in cancelle-ria) dell’ordinanza medesima49.

Per altri, invece, la previsione dell’applicabilità dell’art. 327 «salva compatibilità» (affermazione assai «criptica»), an-drebbe interpretata nel senso che se l’ordinanza di inammissibi-lità non fosse notificata e la sua comunicazione avvenisse (in casi dunque davvero patologici) oltre il lungo termine semestra-le dal deposito, allora l’art. 327 non opererà e il ricorso per cas-sazione sarà ammissibilmente proposto decorsi sessanta giorni da questa davvero tardiva comunicazione50.

8.3.- Più ancora che per l’oscura disciplina dei termini, ad ogni buon conto, la scelta d’impedire l’impugnazione dell’or-dinanza d’inammissibilità in esame, e di consentire il solo ricor-so per cassazione contro la sentenza di primo grado, è certo gravemente inopportuna, ed è per lo meno sospetta d’illegit-timità costituzionale per disparità di trattamento. Il legislatore ha assunto, con essa, che, se l’ordinanza d’inammissibilità sia ingiusta, ciò sia dovuto al mancato rilievo, in appello, di vizi contenuti nella sentenza di primo grado; e ha dunque ritenuto che il ricorso per cassazione possa esser direttamente portato contro quest’ultima, senza che occorra pure dolersi del provve-dimento di cui all’art. 348-bis c.p.c.51. In questo modo, però, e-_______________________ 48 Giacché, se sia resa in udienza, deve reputarsi conosciuta ex art. 176, com-ma 1°, c.p.c., ed il termine per l’impugnazione decorrerà allora dal giorno dell’udienza. 49 Così MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 529; PANZAROLA, Commento, cit., 663 s.; e A.A. Romano, in questo scritto. 50 Così CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1137. 51 Se poi il ricorso sia accolto e la Corte pronunci cassazione con rinvio, l’art. 383, comma 4°, introdotto ex novo nel 2012 prevede che il giudice del rinvio sia il giudice che avrebbe dovuto pronunciare a cognizione piena sull’appello,

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gli sottrae del tutto al controllo della Corte di cassazione l’ope-rato del giudice d’appello, non considerando che l’errore di quest’ultimo nella valutazione dei presupposti per l’emanazione dell’ordinanza ex art. 348-bis, in caso di pronuncia d’inammis-sibilità, può tradursi nell’impossibilità di denunciare al giudice superiore quei vizi della decisione di prime cure che, denuncia-bili in appello, non lo siano invece più dinanzi alla Corte di ul-tima istanza, al lume dei nuovi artt. 360, comma 1°, e 348-ter, comma 4°, c.p.c.52.

Si faccia il caso, dai tratti volutamente scolastici, d’un ap-pello che sia molto ben fondato, per aver il giudice di primo grado effettivamente omesso l’esame di un fatto – magari d’uno di quei fatti comunemente detti «secondari»53 – potenzialmente decisivo per il giudizio; e s’ipotizzi che il giudice dell’appello, condotto un superficiale esame del gravame, e marchianamente non avvedendosi della sua fondatezza, lo giudichi privo di ra-gionevoli possibilità d’accoglimento, e lo rigetti ai sensi dell’art. 348-bis, confermando la lacunosa ricostruzione fattuale del giudice a quo. In un caso del genere, l’appellante avrebbe perso la possibilità di denunciare l’errore del giudice di primo grado, perché di esso non potrebbe dolersi né col ricorso per cassazione avverso l’erronea sentenza, preclusa essendogli or-mai la via dell’art. 360, comma 1°, n. 554, né col ricorso per cas-sazione avverso l’erronea ordinanza, impeditogli dall’inimpu-gnabilità di quest’ultima. E tale possibilità egli avrebbe perso, si badi bene, non già per effetto di un errore compiuto dal giudice

_______________________ anziché, secondo la regola generale dell’art. 383, comma 1°, un giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza – in thesi, di prime cure – cassata. Restano impregiudicate così l’applicazione dell’art. 382 c.p.c., come la decisione della causa nel merito, senza rinvio alcuno, qualora non siano ne-cessari ulteriori accertamenti di fatto, prevista dall’art. 384, comma 2°, c.p.c. (v. PANZAROLA, Commento, cit., 672 ss.). 52 Su cui v. infra, nn. 10-11. Conf. MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 529 s. 53 Per questa nozione, v. ad es. L.P. COMOGLIO, Le prove civili3, Torino 2010, 106 s.; ipotizziamo trattarsi d’un fatto secondario perché l’omesso esame di un fatto c.d. «principale» sarebbe per lo più denunciabile col ricorso per cassa-zione anche ex art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c. (maggiori ragguagli, sul punto, infra, n. 10); e dunque l’appellante dell’esempio proposto nel testo non perde-rebbe la chance di dolersene. 54 Giusta i mentovati nuovi artt. 360, comma 1°, e 348-ter, comma 4°, c.p.c.: infra, n. 11. 

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d’appello cognitione plena, come sempre può accadere, ma ap-punto per effetto di un errore di giudizio commesso da costui nell’esercizio di una delibazione sommaria sottratta ad ogni controllo55.

_______________________ 55 In quest’ultimo rilievo risiede la disparità di trattamento possibilmente irra-gionevole che può indurre a sollevare un dubbio d’incostituzionalità (così A.A. Romano). È vero, infatti, che, ogni volta che il giudice d’appello ripeta errori nella ricostruzione del fatto già compiuti in primo grado, o addirittura ne commetta di nuovi e non denunciabili per cassazione, si verifica un vulnus di giustizia analogo a quello ipotizzato nel testo, e purtuttavia da sempre tolle-rato, nella consapevolezza della fallibilità d’ogni giudizio umano, e nel con-tempo della relativa marginalità statistica dell’evento; ma è vero, del pari, ch’è assai più facile tollerare eventi del genere quando siano il frutto di un giudizio d’appello a cognizione piena, piuttosto che quando siano il frutto di una som-maria eppur non più rivedibile valutazione del gravame, specie se si accetta la solida considerazione che le valutazioni sommarie sono più fallibili di quelle a cognizione piena. Siffatta tollerabilità, poi, si riduce ancora, quando s’ipotizzi che il giudice d’appello abbia rigettato il gravame ex art. 348-bis, comma 1°, pur non poten-dolo ritualmente fare, perché si versasse in uno dei casi in cui l’ordinanza d’inammissibilità è esclusa per ragioni formali (ad es. in uno dei casi di cui all’art. 348-bis, comma 2°, dei quali si sta per dire nel testo): qui, la perdita di un motivo di ricorso per cassazione potrebbe finire col prodursi non già, come sopra, per mero effetto di una valutazione superficiale errata, bensì, ancor me-no accettabilmente, per effetto di una valutazione superficiale illegittima ed errata. Eppure, stando alla lettera della legge, nemmeno in questo caso sem-brerebbe potersi proporre impugnazione direttamente contro l’ordinanza. Il nuovo sistema non sembrerebbe invece limitare la possibilità di denunciare a cognizione piena i vizi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, anche se, nel silenzio della legge, la conclusione è assai dubbia. Se infatti la sentenza di primo grado contenga uno di tali vizi, ed il giudice dell’appello, perseverando nell’errore, renda ordinanza sommaria di rigetto, il soccombente per lo più non potrà de-nunciare il vizio col ricorso ordinario per cassazione contro la sentenza di primo grado, perché di regola i vizi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, ed in partico-lare il primo dei due, non sono agevolmente inquadrabili nei motivi dei nn. 1-4 dell’art. 360, comma 1°; e nemmeno potrà impugnare con la revocazione l’ordinanza sommaria, parendo sistematicamente difficile concludere in tal senso in presenza di una norma come l’art. 348-ter, comma 3°, che destina chiaramente ai successivi gradi di giudizio, ed in difetto alla cosa giudicata, la pronuncia di primo grado. Non sembra sussistere grave ostacolo a che la revo-cazione sia proposta contro la sentenza di primo grado, ai sensi e nei termini di cui all’art. 348-ter, comma 3°, trattando la medesima come una «sentenza pronunciata in unico grado» ai fini dell’art. 395, comma 1°, c.p.c. (conf. CON-SOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1138). Quid iuris, per contro, se un vizio revocatorio straordinario affligga solo l’ordinanza di rigetto (si pensi, ad es., ad un giudice d’appello che abbia pro-

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8.4.- Non pare, peraltro, che a questa scelta infelice del legi-slatore possa porsi interpretativamente rimedio, ammettendo comunque l’appellante ad impugnare l’ordinanza di cui all’art. 348-bis con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 4°, c.p.c.56 (e neppure ai sensi dell’art. 111, comma 7°, Cost.57: v. oltre). Senza far questione della na-tura «decisoria e definitiva» dell’ordinanza in esame, per il vero molto dubbia, comunque quest’ordinanza può tutt’al più deter-minare la definitiva preclusione della possibilità di denunciare alla Corte di cassazione alcuni errori della decisione di primo grado; errori che, però, se fossero commessi cognitione plena, non potrebbero comunque esser denunciati in Corte di cassazio-ne58. Si tratterebbe allora, in sostanza, di ammettere il ricorso

_______________________ nunciato tale rigetto con dolo)? Non crediamo che, allo stato, la revocazione possa ritenersi proponibile contro di essa, per le medesime ragioni appena il-lustrate; e sarebbe d’altronde inutile sottoporre a revocazione la sentenza di primo grado, in thesi priva del vizio. Se questo è probabilmente lo ius condi-tum, però, sembrerebbe che ci si trovi qui di fronte ad un altro esito irragione-vole della riforma; si potrà forse osservare, con qualche parziale fondamento, che il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado è comunque una garanzia importante per le parti (se questa non abbia vizi suoi propri, si dirà, non v’è motivo di rimettere in discussione il giudizio, nonostante il vizio revocatorio dell’ordinanza; se la sentenza, invece, di vizi ne abbia, potranno denunciarsi quelli, col ricorso ordinario); ma il vulnus della parità di tratta-mento, rispetto a chi si sia visto respingere un appello a cognizione piena, per effetto di un vizio revocatorio, rimane grave. 56 Com’è stato, invece, sostenuto, ad es., da MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 530; COSTANTINO, Le riforme, cit., n. 3.2; PANZAROLA, Commento, cit., 665 ss.; COMASTRI, Note sulla recente riforma, cit., 705; G. IMPAGNATIELLO, Il «filtro» di ammissibilità dell’appello, in Foro it., 2012, V, 298; aperture anche in PO-LI, Il nuovo giudizio, cit., 138.  57 Così CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1137. 58 Giacché, se si trattasse invece di vizi diversi, l’appellante potrebbe comun-que denunciarli ricorrendo ordinariamente contro la sentenza di prime cure. In particolare, il problema non si pone mai per le violazioni di legge – le sole protette dalla garanzia dell’art. 111, comma 7°, Cost. – giacché queste, se pre-senti nella sentenza di primo grado, possono sempre esser denunciate con il ricorso ordinario ex art. 348-ter, comma 3°, c.p.c. I rilievi svolti nel testo tengono pure quando il giudice d’appello abbia pro-nunciato l’ordinanza di rigetto fuori dei casi in cui ciò sia consentito (contro MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 530, che invoca in proposito il principio di c.d. «prevalenza della sostanza sulla forma» e opta per il ricorso straordinario); benché si tratti di error in procedendo, anche in tale ipotesi, infatti, l’errore ha come unica conseguenza, in danno dell’appellante, quella di escludere l’esame

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straordinario per cassazione, allo scopo di consentire l’esame a cognizione piena, verosimilmente da parte del giudice d’appello in sede di rinvio, di motivi d’impugnazione per i quali il ricorso ordinario per cassazione non è concesso; e ciò, appunto, non sembra molto sensato59. 9. Le ipotesi escluse dall’ambito di operatività del nuovo «filtro» 9.1.- Rimane da dire dei quattro casi in cui l’ordinanza di cui all’art. 348-bis, comma 1°, non può comunque esser pronuncia-ta dal giudice d’appello, quand’anche egli stimasse il gravame privo di ragionevoli probabilità d’esser accolto.

Il più delicato è previsto dallo stesso comma 1°, là dove si dispone l’impossibilità di ricorrere al giudizio sommario, se si versi in un caso in cui l’appello sia inammissibile per ragioni di rito, ad esempio perché proposto fuori termine, o contro un provvedimento non appellabile, o con carenza di motivi specifi-ci, ovvero sia improcedibile a mente dell’art. 348 c.p.c.: in que-ste circostanze, il giudice deve decidere a cognizione piena, e con sentenza. Si tratta di norma gravida di conseguenze: essa comporta, ad esempio, che il giudice d’appello possa pronuncia-re l’ordinanza sommaria di rigetto, ex art. 348-bis, comma 1°, solo quando si sia pienamente persuaso, all’esito di una verifica non sommaria, che l’appello sia stato ritualmente promosso e

_______________________ a cognizione piena di motivi di gravame non spendibili in cassazione, sì che il ricorso straordinario pare rimedio fuori luogo (diversamente, per l’appellato, v. infra, testo e nt. 61). 59 Un autonomo ricorso straordinario per cassazione è possibile invece in rela-zione alle spese liquidate dall’ordinanza d’inammissibilità, perché non è dub-bia la natura «decisoria e definitiva» del provvedimento sul punto (conf. PAN-ZAROLA, Commento, cit., 661; POLI, Il nuovo giudizio, cit., 137). Nemmeno è dubbio, tuttavia, che la Corte di cassazione, investita di un fondato ricorso or-dinario contro la sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 348-ter, comma 3°, possa provvedere anche sulle spese del giudizio d’appello, giusta l’art. 385, commi 2° e 3°, c.p.c. (CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1137). Analoghe opzioni ha probabilmente chi voglia dolersi in sede di cassazione della sanzione pecuniaria di cui al nuovo art. 283, comma 2°, se questa sia stata applicata dal giudice dell’appello, il quale abbia poi rigettato il gravame con ordinanza ex art. 348-bis, comma 1°. 

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debba esser deciso nel merito; ben si può dire, perciò, che il ri-getto con ordinanza sommaria dell’appello implica il rigetto a cognizione piena delle eccezioni processuali eventualmente proposte dall’appellato in ordine alla legittimità del gravame60. Sì che, peraltro, a costui, in caso di ricorso per cassazione dell’appellante contro la sentenza di primo grado, non ci sembra si possa negare di recuperare siffatte eccezioni, per mezzo d’un ricorso incidentale straordinario condizionato proposto contro l’ordinanza, ove si ritenga che quelle eccezioni possano assu-mere rilievo avanti alla Corte di cassazione (ad esempio, per denunciare la tardività dell’appello, al fine di far constare il già intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo gra-do)61.

_______________________ 60 Chi contesti questa conclusione (v. ad es. VERDE, Diritto, cit., II, 209; nel senso del testo, v. ora invece COMASTRI, Note sulla recente riforma, cit., 702) deve concludere, in alternativa, che il giudice d’appello abbia il potere di sce-gliere la via che gli sembri più «liquida», e dunque a rigore che egli dovrebbe rigettare l’appello con ordinanza, se questo gli paia manifestamente infondato, mentre sulla sua inammissibilità, pur eccepita dall’appellato, nutra qualche dubbio; e magari che egli dovrebbe addirittura preferire sempre l’ordinanza, quando l’appello risulti sia manifestamente infondato che manifestamente i-nammissibile, perché appunto la decisione con ordinanza è sempre più celere di quella con sentenza. Questa alternativa, però, è evidentemente paradossale; a sostenerla, si dovrebbe concludere che, se A proponga un appello manife-stamente inammissibile, poniamo perché diretto contro una sentenza da tempo passata in giudicato, e lo costruisca a bella posta in modo manifestamente in-fondato, il giudice dovrebbe rigettarlo nel merito con ordinanza, legittima-mente trascurandone la tardività; ed A potrebbe poi tempestivamente impu-gnare la sentenza di primo grado per cassazione, nel termine di cui all’art. 348-ter, comma 3°, anche facendo valere vizi diversi da quelli infondatamente lamentati in appello (come può: supra, nt. 47), senza che B, in ipotesi conve-nuto, possa dolersi di un’ordinanza che sarebbe, in thesi, formalmente corret-ta. Per evitare esiti di questo genere, riteniamo che il giudice dell’appello non possa mai pronunciare l’ordinanza sommaria, se non sia certo della ritualità del gravame; e che dunque ogni ordinanza sommaria significhi sempre, quand’anche per implicito, rigetto delle eccezioni processuali dell’appellato inerenti alla ritualità dell’appello; o che almeno sia in difetto censurabile per omissione di pronuncia sulle medesime, per mezzo del ricorso straordinario di cui dico sùbito infra, testo e nt. 61. 61 In questo caso, il ricorso incidentale, contro la sentenza di I grado, pare giu-stificato (così, nell’esempio di cui appena supra, nt. 60, B potrebbe proporlo), perché – a differenza di quanto osservato supra, testo e nt. 58 – l’errore de-

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Il profilo merita tuttavia una ulteriore riflessione: indub-biamente appare conforme a giustizia consentire alla parte ap-pellata di far valere (l’inammissibilità per tardività dell’appello avversario, e così ormai) l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di I grado, con ricorso incidentale condizionato. A sostegno di tale facoltà, si può infatti addurre che ciò che il ricorrente incidentale (già appellato) sta facendo valere, è pro-prio una inammissibilità del ricorso per cassazione avversario, che si indirizza avverso una provvedimento ormai irretrattabile. Tuttavia, questo vizio del ricorso, si annida a ben vedere su di un errore del giudice di appello, che ha sovvertito l’ordine di decisione rito-merito, sancito dall’art. 279 c.p.c., affrontando subito la questione di merito, relativa alla manifesta infondatez-za del gravame. Questo errore, però, non è denunciabile in via diretta, poiché avverso l’ordinanza ex art. 348-bis non è conces-so gravame. Con la conseguenza che l’ammissibilità del ricorso incidentale condizionato dell’appellato non appare invero così scontata, poiché si potrebbe argomentare che le questioni di ri-to, pur non espressamente affrontate dal giudice di appello, sia-no state da questo implicitamente risolte in senso positivo, sì che sull’ammissibilità (e tempestività) dell’appello, si è ormai formato un giudicato (dato dall’ordinanza, non impugnabile, ex art. 348-bis, c.p.c.) che precluderebbe la denuncia (e pure il ri-lievo officioso) del passaggio in giudicato della sentenza di I grado. Questa soluzione, non pare invero accettabile (per le ra-gioni dette), e per superarla si potrebbe invero richiamare la po-sizione della Corte di cassazione in ordine alla decisione impli-cita sulla questione di giurisdizione; decisione implicita che la Corte esclude nel caso in cui dalla motivazione del provvedi-mento emerga che «l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., la manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per sal-tum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legisla-tore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito» (Sez. Un., 9.10.2008, n. 24883). In ogni caso, però, si mostra l’irrazionalità del sistema predisposto dalla legge n. 134/2012, ed in particolare della scelta di riconoscere alle parti

_______________________ termina, in capo all’appellato, la perdita di una chance impugnatoria di natura assai diversa da quelle finora esaminate.  

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due impugnazioni in sequenza contro la stessa sentenza (quella di primo grado), anziché due impugnazioni correlati contro i provvedimenti che chiudono ciascun grado di giudizio.

Quid iuris se, confondendo tra le diverse specie d’inam-missibilità, il giudice rigetti l’appello con ordinanza, sulla scorta però di un motivo di rito? O sulla scorta, insieme, di motivi di rito e di merito, ad esempio spiegando che il gravame è sia tar-divo che privo di chances d’accoglimento sul fondo? L’even-tualità è molto delicata e, se si considera la scarsa comprensione che lo stesso legislatore rivela a proposito della distinzione tra inammissibilità ed infondatezza, nient’affatto improbabile. Al lume delle nuove norme, che nulla chiariscono al riguardo, ogni soluzione presenta profili di incertezza grave: ma appare più coerente imporre all’appellante, che intenda reagire con ricorso per cassazione, d’impugnare comunque la sentenza di primo grado, ex art. 348-ter, comma 3°62.

9.2.- Ancora, l’ordinanza non può essere pronunciata nei due casi previsti dall’art. 348-bis, comma 2°, i.e. se l’appello con-cerna una causa in cui è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, o se sia proposto contro l’ordinanza di cui

_______________________ 62 La soluzione pare preferibile onde evitare equivoci richiami al principio di c.d. «prevalenza della sostanza sulla forma», problematici soprattutto nel caso in cui il giudice abbia cumulato insieme, nell’ordinanza, ragioni di rigetto in rito e nel merito, il che costituisce un comportamento discutibile, ma nella prassi non insolito. D’altronde, l’appellante non dovrebbe aver particolare in-teresse a preferire l’impugnazione dell’ordinanza che rigetta il suo appello in rito, rispetto all’impugnazione della sentenza di primo grado (potrebbe avere interesse ad impugnare l’ordinanza, solo se le sue ragioni di doglianza verso la sentenza di primo grado fossero di quelle non spendibili dinanzi alla Corte di cassazione; ma si tratterebbe d’un interesse che s’è visto esser stato variamen-te sacrificato dalla riforma: supra, testo e ntt. 58-59). L’appellante potrebbe anzi trarre vantaggio, dall’obbligo d’impugnare la sentenza di primo grado, se il suo appello fosse stato effettivamente inammissibile, ma non, invece, infon-dato. In quest’ultimo caso, ad esser danneggiato dall’impugnazione diretta contro la sentenza di primo grado, e non contro l’ordinanza, potrebbe anzi es-ser l’appellato, se si concludesse ch’egli perda per ciò la propria difesa in rito contro l’appello avversario; ma non crediamo sia questo il caso: dinanzi alla Corte di cassazione, egli ben potrebbe invocare validamente il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, impugnata ex adverso, per inammis-sibilità dell’appello a suo tempo proposto, facendosi forte dell’ordinanza del giudice di seconde cure (che tuttavia non avrebbe efficacia vincolante in sede di cassazione). 

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all’art. 702-ter c.p.c. Si tratta di eccezioni probabilmente giusti-ficate, l’una dalla ridotta signoria delle parti sui diritti contro-versi e dall’importanza sociale dei medesimi, che sconsigliano la superficialità della cognizione63; e l’altra dal desiderio di evi-tare il succedersi, in primo e secondo grado, di due cognizioni sommarie (per chi in tal senso intenda il rito ex art. 702-bis: v. retro), o di una cognizione semplificata a valle di una cognizio-ne deformalizzata (per la tesi prevalente, corroborata del resto anche dal d.lgs. n. 150/2011)64. Certo, simili rationes possono esser messe in discussione sotto vari profili di convenienza65, ma di fronte allo scempio che l’art. 348-bis, comma 1°, ha fatto del giudizio d’appello, ogni deroga allo stesso pare comunque benvenuta.

9.3.- L’art. 348-ter, comma 2°, infine, stabilisce che, nel caso di appello incidentale, il rigetto con ordinanza d’inammissibilità può darsi solo se il relativo presupposto, di carenza di chances d’accoglimento, ricorra sia per l’impugnazione principale che per quella dell’appellato. Il legislatore ha voluto evitare le com-plicazioni che sarebbero derivate dalla doppia pronuncia del giudice di seconde cure, che avrebbe esposto le parti al rischio di contemporanea pendenza di un giudizio di cassazione ed un giudizio d’appello contro lo stesso capo, o contro capi diversi, ma potenzialmente interdipendenti, della medesima sentenza di primo grado66.

_______________________ 63 In senso critico, PANZAROLA, Commento, cit., 640 ss.; COMASTRI, Note sulla recente riforma, cit., 701. 64 Si richiamano qui i rilievi critici svolti supra, n. 5, che l’assenza della dero-ga in questione avrebbe ulteriormente aggravato, ma che ad ogni buon conto restano fermi. V. ora ampiamente PANZAROLA, Commento, cit., 642 ss. 65 V. ad es. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1136; COSTANTI-NO, Le riforme, cit., n. 3.1. 66 La scelta appare però criticabile (v. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili eser-cizi, cit., 1138 s.), e certo ha risvolti bizzarri: stando a quanto rilevato poc’anzi, circa l’impossibilità di pronunciare ordinanza se l’impugnazione sia inammissibile, l’art. 348-ter, comma 2°, comporta che basti un’impugnazione incidentale inammissibile, magari manifestamente tale, per impedire l’ordi-nanza di rigetto, nonostante, magari, la manifesta infondatezza dell’appello principale. Riteniamo, infine, che, ai fini della norma in esame, debbano trattarsi in ugual maniera tutte le impugnazioni incidentali, tempestive o tardive che siano. Ne consegue, in particolare, che non potrebbe verosimilmente il giudice pronun-

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10. Il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

10.1.- Come abbiamo già ricordato in principio, l’art. 54 d.l. n. 83/2012, nonostante la rubrica incomprensibilmente intitolata al solo giudizio d’appello, è intervenuto pure sulla disciplina del ricorso per cassazione, riformulando, fin dalla stesura origina-ria, l’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c.67. A tenore di questa nor-ma, il ricorso per cassazione è ora possibile, oltre che negl’immutati casi di cui all’art. 360, comma 1°, nn. 1-4, «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»68.

L’intento della riforma è qui chiaramente quello di restrin-gere i margini d’accesso al gravame di ultima istanza – per mo-tivi diversi dalla violazione di legge, la cui necessaria deducibi-lità è assicurata dalla Costituzione – onde ridurre il numero dei ricorsi proposti ed il carico di lavoro della Corte di cassazione69. Se così è, pare tuttavia ben lecito dubitare che i mezzi impiegati siano effettivamente idonei allo scopo che si prefiggono.

Ove si confronti la nuova formulazione del motivo di cui all’art. 360, comma 1°, n. 5, con la vecchia, a tenore della quale poteva darsi ricorso per «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudi-zio», riesce piuttosto complesso tracciare con precisione i con-fini del cambiamento.

_______________________ ciare l’inammissibilità dell’impugnazione principale ex art. 348-bis, comma 1°, e la conseguente «inefficacia» dell’impugnazione incidentale tardiva ex art. 334, comma 2°, senza decidere quest’ultima nel merito. Questa soluzione implica una forzatura del dato testuale, dovendosi rileggere come «infonda-tezza» ciò che la legge chiama «inammissibilità» nell’art. 348-bis, comma 1°: ma crediamo sia corretto farlo (v. anche supra, nt. 35); l’opinione contraria, invero, comporterebbe a sua volta ardue difficoltà applicative, ad es. a propo-sito dell’individuazione della forma e del regime d’impugnazione d’un prov-vedimento del genere (sul problema v. ampiamente PANZAROLA, Commento, cit., 675 ss.). 67 V. supra, n. 1, anche in ordine all’entrata in vigore del testo riformato. 68 In generale, sulla nuova norma, v. soprattutto M. BOVE, Giudizio di fatto e sindacato della Corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., in Giusto proc. civ. 2012, 677 ss.; CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1139 ss.; PANZAROLA, Commento, cit., 693 ss.; S. RUSCIANO, Nomofila-chia e ricorso per cassazione, Torino 2012, 29 ss. 69 V. per tutti CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1139.  

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10.2.- Non pare, in primo luogo, che passi vera differenza tra il «fatto controverso e decisivo per il giudizio» della norma an-teriore, ed il «fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» contemplato da quella attuale. Al di là di qualche pensabile sfumatura al riguardo, è fatto controverso, essenzialmente, ogni fatto, «principale» o «secondario»70, ri-spetto al quale le parti, dinanzi al giudice a quo, hanno sostenu-to versioni discordanti; e rispetto al quale, dunque, per quanto magari concisamente, esse hanno «discusso» nel grado prece-dente. È dubitabile, allora, che il fatto «oggetto di discussione» possa esser altro da ciò, giacché, per differenziarlo efficacemen-te dal fatto controverso, occorrerebbe ipotizzare che si tratti d’un fatto che, dopo esser stato discusso tra le parti, non risulti più controverso: ma è evidente che, se il legislatore avesse inte-so riferirsi a fatti «discussi, ma non controversi», avrebbe intro-dotto un inutile ed assai cripticamente formulato doppione dell’art. 395, n. 4, c.p.c.

Né poi aiuta, ovviamente, a distinguere tra le due formula-zioni il carattere «decisivo» del fatto controverso o discusso, ch’è richiesto nella vecchia e nella nuova versione della norma. Meglio dunque sostenere che, da questo punto di vista, nulla sia cambiato71.

10.3.- In secondo luogo, conviene chiedersi se comporti auten-tico cambiamento la circostanza che la nuova norma discorra d’«esame», là dove prima discorreva di «motivazione». V’è in-somma differenza, ai fini del ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1°, n. 5, tra «omessa motivazione» ed «omesso esame» di un fatto?

Crediamo, anche a questo proposito, che sia corretto ri-spondere in senso negativo. D’istinto, certo, si potrebbe ritenere che l’omesso esame costituisca un vizio più grave, ricorrente quando il giudice a quo non abbia neppure preso posizione in-torno al fatto controverso, mancando del tutto di tenerne conto nella sua decisione; mentre l’omessa motivazione ricorrerebbe quando il giudice, pur avendo deciso intorno al fatto controver-so, sposando in ordine ad esso la tesi sostenuta da una delle par-

_______________________ 70 V. supra, nt. 53. 71 Conf. PANZAROLA, Commento, cit., 696. 

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ti contro l’altra, non abbia però in alcun modo spiegato le ragio-ni della sua decisione sul punto.

Questa istintiva soluzione, però, non persuade. Non per i fatti «principali», almeno: se infatti il giudice omette di tener conto di essi ai fini della sua decisione, egli già incorre con ciò in una violazione di legge denunciabile a’ sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., poiché tali fatti72 integrano o la causa petendi d’una domanda giudiziale, o l’eccezione volta ad ottenerne il rigetto.

Non è ragionevole, insomma, sostenere che «omesso esa-me», a’ sensi del nuovo n. 5 dell’art. 360, comma 1°, significhi omissione della decisione sul singolo fatto controverso; e, di conseguenza, si è indotti a concludere che la nuova norma sé-guiti in realtà a guardare all’omessa motivazione di una deci-sione che, su quel fatto, il giudice abbia tuttavia preso.

Ciò, beninteso, con riguardo ai fatti «principali». Un di-scorso parzialmente diverso deve invece forse farsi in relazione ai fatti «secondari». L’omessa presa di posizione del giudice a quo intorno ad un fatto «secondario» non costituisce di per sé violazione dell’art. 112 c.p.c., se il giudice a quo abbia comun-que preso posizione intorno al fatto «principale» in relazione al quale il «secondario» è stato discusso. Non v’è ragione, perciò, di escludere il caso dall’ambito di applicazione del nuovo art. 360, comma 1°, n. 5. Né, mi pare, v’è infine ragione di esclude-re da tale ambito il caso in cui, pur prendendo posizione anche intorno al fatto «secondario», il giudice a quo ometta del tutto di motivare al riguardo.

In sintesi, il nuovo n. 5 consente la denuncia dell’omessa motivazione in ordine ad un fatto «principale» sul quale il giu-dice a quo abbia nondimeno deciso; la denuncia dell’omessa motivazione in ordine ad un fatto «secondario» sul quale pure il giudice a quo abbia preso posizione; e finanche la denuncia dell’omessa presa di posizione in ordine ad un fatto «seconda-rio», se il giudice a quo abbia nondimeno deciso sul fatto «prin-cipale» ad esso correlato. Il nuovo n. 5 non dovrebbe consenti-re, invece la denuncia dell’omessa decisione in ordine ad un fat-to «principale», la quale integra una violazione di legge. Sì che, stando in tal modo le cose, pare appunto di poter dire che nem-_______________________ 72 Per riferimenti, v. ancora supra, nt. 53. 

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meno la sostituzione del termine «esame» al termine «motiva-zione» abbia introdotto reali novità nel sistema del ricorso per cassazione, se è vero che i vizi denunciabili appena elencati già erano denunciabili in precedenza73.

10.4.- Dove invece è forse giusto riconoscere che del nuovo vi sia, è nella soppressione dei richiami all’«insufficienza» ed alla «contraddittorietà». In forza di essa, il vizio denunciabile è or-mai soltanto quello della decisione in cui, sul fatto controverso considerato, la motivazione sia del tutto omessa, e non più solo insufficiente o contraddittoria.

Di per sé, ad intenderla in senso letterale, non si tratta di una innovazione da poco. Se è dato dolersi solo di motivazioni davvero omesse, la restrizione dell’accesso al ricorso per cassa-zione sembra in effetti parecchio significativa, giacché l’omis-sione totale della motivazione – ancorché, certo, discorriamo qui di motivazione in ordine ad un singolo fatto decisivo e con-troverso, non della motivazione considerata nel suo complesso, il cui totale difetto, che costituisce violazione di legge, è ancor più raro74 – non è verosimilmente un fenomeno frequentissimo (e comunque molto meno di quello di motivazioni insufficienti o contraddittorie).

Se dunque la si interpretasse rigorosamente potrebbe sì in teoria derivare, dalla nuova norma, una certa riduzione del cari-co di lavoro della Corte di cassazione: ancorché probabilmente non grande, soltanto nel medio o lungo periodo, ed al costo – ma è questa, ormai, l’unica via che il nostro legislatore riesce a

_______________________ 73 Resterebbe da chiedersi perché il legislatore avrebbe la mutato formula normativa concernente questi due punti («fatto discusso tra le parti» e non più «fatto controverso»; «omesso esame» e non più «omessa motivazione»), senza in verità innovare alcunché. Crediamo che ciò possa spiegarsi, ricordando che il legislatore, anziché meditare su ciascun singolo cambiamento testuale, abbia piuttosto tout court importato una formula del passato. La nuova disposizione dell’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c., è infatti a rigore un ritorno all’antico, giacché essa coincide – con la sola eccezione dell’uso della preposizione «cir-ca» in luogo della preposizione «di»: il che però pare piuttosto una sciatteria linguistica, che non la spia dell’aspirazione ad un significato più ampio; conf. PANZAROLA, Commento, cit., 706 – con quella originaria del codice, poi modi-ficata con art. 42 legge 14 luglio 1950, n. 581. 74 V. infra, ntt. 79-80. Della rarità del vizio, che è «vera nullità del resto assai difficile a verificarsi», ammoniva già CHIOVENDA, Istituzioni, cit., II, 601. 

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concepire per ridurre la durata dei giudizi – d’una minore giu-stizia delle decisioni delle nostre corti75.

10.5.- Occorre però avvertire che in concreto si rivelerà arduo – e, quando non si rivelerà arduo, si rivelerà magari contrario al senso di giustizia – il distinguere con criterio tra motivazioni presenti, ma gravemente deficitarie, e motivazioni che manchi-no del tutto76; perché, evidentemente, le motivazioni davvero deficitarie finiscono per somigliare molto a quelle omesse. Quid iuris, per esempio, di una motivazione del tutto assurda, eppur non obiettivamente mancante, come quella, per fortuna di sapo-re scolastico, di una sentenza che, rispetto al fatto controverso, in relazione al quale si diano due deposizioni testimoniali con-trastanti, sposasse la versione del teste di sesso maschile, moti-vando con argomentazioni di genere la minore attendibilità di un teste di sesso femminile? Si tratterebbe di una motivazione tamquam non esset e dunque denunciabile, oppure no?

A ben vedere, sui limiti dell’impugnabilità per cassazione delle carenze motivazionali le formule normative possono fino ad un certo punto, semmai possono di più gli equilibri faticosa-mente trovati nella dialettica pluriennale della prassi, come di-mostra l’evoluzione storica del problema nel nostro Paese. Nel 1950, non a caso, la formulazione riaffiorata ora nell’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c., fu abbandonata proprio per l’incertezza che suscitava la possibilità di distinguere tra motivazioni obiet-tivamente omesse e motivazioni tanto carenti da dover essere considerate tali77.

Se davvero il legislatore sia persuaso della bontà di questa scivolosa via – la via, appena ricordata, di migliorare l’effi-

_______________________ 75 Per la solida considerazione d’esperienza secondo cui la riduzione dei moti-vi di gravame accresce il rischio di decisioni errate: v. per tutti CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1139. 76 Nel senso che la possibilità che d’una censura ugualmente ampia rispetto al dettato normativo precedente sia ora comunque da ammettersi ex art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., denunciando la violazione dell’obbligo di motivazione, v. ad es. CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1140; nel senso che verosimilmente non cambierà nulla, MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 568; RU-SCIANO, Nomofilachia, cit., 39.  77 Preziosi riff., al riguardo, in BOVE, Giudizio di fatto, cit., 679 ss., e in PAN-ZAROLA, Commento, cit., 694; v. anche VERDE, Diritto, cit., II, 249. 

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cienza della giustizia limitando l’accesso ai gravami78 –, avreb-be probabilmente fatto meglio a sopprimere del tutto l’art. 360, comma 1°, n. 5. Nemmeno in tal modo, è bene dirlo, avrebbe risolto ogni problema d’impugnabilità per cassazione delle maggiori carenze motivazionali: le omissioni più gravi – ed è senz’altro un bene che sia così – avrebbero potuto comunque trovare riparo sotto l’art. 360, comma 1°, n. 4, per violazione dell’art. 132, comma 2°, n. 4, c.p.c. (quando vigeva il codice del 1865, che non conteneva una norma analoga a quella in com-mento, ciò accadeva sovente: e fu proprio ciò a determinare, nel codice del 1940, l’introduzione dell’art. 360, comma 1°, n. 5)79; ma forse, così facendo, sarebbe almeno riuscito a restringere ef-fettivamente l’accesso alle doglianze concernenti vizi di moti-vazione80, inducendo alla ricerca di equilibri analoghi a quelli che la giurisprudenza pare aver più o meno trovato nel campo dell’impugnazione del lodo arbitrale, in applicazione del com-binato disposto degli artt. 823, comma 2°, n. 5, e 829, comma 1°, n. 5, c.p.c.81. 11. La c.d. «doppia conforme»

11.1.- Resta da dire, in ultimo, delle novità portate dai commi 4° e 5° dell’art. 348-ter c.p.c.82. Si tratta di disposizioni che, con

_______________________ 78 V. appena supra, nt. 76. 79 Anche la differenza tra la violazione dell’art. 132, comma 2°, n. 4, e l’omissione di motivazione rilevante ex art. 360, comma 1°, n. 5, mi pare in nuce piuttosto quantitativa che qualitativa: ciò spiega che perché storicamente si registri una sorta di «comunicazione» tra i due: v. anche supra, nt. 75; infra, nt. 80; PANZAROLA, Commento, cit., 697 s. 80 Sappiamo bene che la Rel. min. al codice del 1940, n. 30, giustifica l’introduzione dell’art. 360, comma 1°, n. 5, con l’intento di limitare l’accesso al ricorso per cassazione, rispetto all’esperienza precedente che, in assenza di norme, aveva finito per essere ammesso con «quasi illimitata ampiezza»; ma crediamo che, al lume delle esperienze maturate nel frattempo, e dell’attuale carico di lavoro della Corte di cassazione, l’abrogazione tout court del n. 5 dell’art. 360, comma 1°, produrrebbe oggi, invece, una restrizione, e lo fareb-be in termini tutto sommato un po’ più chiari e coerenti di com’è stato fatto. 81 Sia pur tra molti dissensi in dottrina: in arg., v. per tutti E. MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma, Milano 2009, 183 ss. 82 In generale e per i tempi d’entrata in vigore di queste disposizioni, v. già supra, n. 1. L’art. 436-bis c.p.c. estende anche queste novità al processo se-

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la riformulazione dell’art. 360, comma 1°, n. 5, condividono l’idea ispiratrice: precisamente l’idea, alla cui intrinseca debo-lezza già abbiamo fatto cenno, di migliorare l’efficienza della giurisdizione civile restringendo il novero dei motivi deducibili col ricorso per cassazione; e che peraltro, attenendo a tale mate-ria, avrebbero piuttosto dovuto esser collocate nel capo dedicato alla impugnazione di legittimità, verosimilmente in due commi aggiunti all’art. 360 c.p.c., anziché esser «nascoste» nel capo dell’appello, dove corrono maggiori rischi di sfuggire agli ope-ratori meno accorti ed aggiornati.

Bersaglio della restrizione – né potrebbe esser diversamente, in virtù della nota garanzia costituzionale del ricorso per cassa-zione per violazione di legge – è pure qui il motivo di cui all’art. 360, comma 1°, n. 5. Oltre ad esser stato circoscritto nel modo poc’anzi illustrato83, questo motivo di ricorso risulta ora esser sta-to soppresso del tutto, ogni volta che l’appello sia stato dichiarato inammissibile a’ sensi dell’art. 348-bis, con ordinanza «fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata» (così l’art. 348-ter, comma 4°); ed altresì ogni volta che l’appello sia stato rigettato con sentenza che «conferma la decisione di primo grado»; col solo avvertimento che quest’ultima soppressione non opera nelle cause di cui all’art. 70, comma 1°, c.p.c. (così l’art. 348-ter, comma 5°).

Evidentemente, il sacrificio del motivo in esame pare dun-que giustificato, al legislatore, in ragione dell’identità di vedute professate da due diversi giudici di merito a proposito della me-desima causa. Al di là di ciò che diremo tra breve sulla proble-matica estensione di codesta «identità», il legislatore ritiene in-somma che l’uniformità di giudizio tra il processo di primo gra-do ed il processo di secondo grado legittimi l’imposizione, alla parte «due volte soccombente», di maggiori limiti di accesso al ricorso per cassazione84.

_______________________ condo il rito del lavoro. In generale, in argomento, v. tra i molti CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1141; MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 529 s., 572; PANZAROLA, Commento, cit., II, 686 ss. 83 V. supra, n. 10. 84 Si coglie qui dunque più di un’eco di passate esperienze e passati dibattiti in tema di c.d. «doppia conforme»: per primi riferimenti, v. al riguardo PANZA-ROLA, Commento, cit., 689 ss. 

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11.2.- Una discussione funditus sull’opportunità tecnica di questa scelta, in questa sede, non è possibile. Di sicuro, come ogni scelta odierna di riduzione dell’ambito dei gravami, anch’essa sacrifica un po’ (troppo) di giustizia in favore d’un po’ (poca) certezza e speditezza in più nella definizione delle liti; ma questo solo rilievo non può ovviamente bastare per con-dannarla, considerata la difficilissima situazione attuale del ser-vizio giurisdizionale offerto nel nostro Paese. Per stabilire se, nella specie, si tratti di scelta assennata, occorrerebbe, piuttosto, il supporto d’analisi statistiche di cui non disponiamo. Se infatti da analisi del genere emergesse che, nei casi in cui il ricorrente per cassazione era soccombente in primo ed in secondo grado, la deduzione e l’accoglimento di motivi di ricorso ex art. 360, comma 1°, n. 5, siano significativamente meno frequenti (non però per «disimpegno» a fronte di una doppia conforme, ma per intima completezza decisoria di quelle decisioni), rispetto ai ca-si in cui non si registri doppia soccombenza nei gradi di merito, la scelta in discorso ne riuscirebbe sufficientemente solida. Di-versamente, se non risultasse alcuna significativa correlazione statistica tra la doppia soccombenza nel merito, da un lato, e la proposizione e l’accoglimento di motivi di ricorso ex art. 360, comma 1°, n. 5, dall’altro, la scelta dovrebbe giudicarsi non so-lo scarsamente giustificabile, ma addirittura irragionevole di fronte all’art. 3 Cost., perché comporterebbe il trattamento im-pari di situazioni sostanzialmente uguali.

È giusto, tuttavia, muovere al legislatore per lo meno un appunto di metodo, non constando che analisi statistiche, e che pure sarebbero oggi certamente agevoli, siano state in alcun modo compiute, come la delicatezza della riforma avrebbe ri-chiesto. Ed è parimenti giusto – ma questa, purtroppo, è ormai una costante – muovere al legislatore un appunto di tecnica normativa, dal momento che i presupposti per l’applicazione delle nuove disposizioni non sono sufficientemente chiari.

11.3.- In proposito, i maggiori problemi interpretativi concer-nono il significato dell’espressione che figura nell’art. 348-ter, comma 4° («fondata sulle stesse ragioni, inerenti alla questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata»), e lo stabilire poi se essa debba riferirsi pure al caso dell’art. 348-ter, comma

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5° (ove si discorre tout court di «sentenza d’appello che con-ferma la decisione di primo grado»).

Quanto dunque all’espressione del comma 4°, occorre ri-cordare che la norma presuppone il «sommario» (v. retro) riget-to dell’appello per mancanza di ragionevole probabilità d’acco-glimento85. Se sia dunque pronunciata l’ordinanza d’inammis-sibilità, non è dubbio che l’appellante risulti per ciò doppiamen-te soccombente nel merito; eppure, la sola sua doppia soccom-benza non basta ad escludere il ricorso per cassazione86 per il motivo di cui al n. 5, occorrendo anche, all’uopo, che l’ordi-nanza d’inammissibilità sia stata pronunciata «sulle stesse ra-gioni di fatto» poste a base della decisione di primo grado. In altri termini, ai fini del bando dell’art. 360, comma 1°, n. 5, la norma richiede che il giudice di secondo grado, nel pronunciare l’ordinanza, confermi (più dubbio, invece, è se sia sufficiente che non modifichi) la ricostruzione dei fatti compiuta nella deci-sione appellata, né la motivazione del giudice di provenienza in ordine ad essi. Così, per intendersi, non potrà darsi ricorso ex art. 360, comma 1°, n. 5, se l’appellante si sia unicamente dolu-to di violazioni di norme giuridiche, quand’anche il giudice d’appello abbia respinto il rimedio sulla base di argomenti di-versi in iure da quelli valorizzati in primo grado; ovvero se l’appellante abbia svolto censure alla ricostruzione dei fatti che il giudice d’appello abbia rigettato, preferendo loro le argomen-tazioni e le soluzioni in fatto del giudice di primo grado.

Quid iuris, invece, se il giudice d’appello abbia concluso in fatto in modo conforme al giudice di primo grado, ma sulla scorta di motivazione diversa (ad esempio: è vero il fatto x, non perché l’abbia confermato il teste A, come erroneamente scrive il giudice a quo, ma perché l’ha confessato l’appellante nel do-cumento B)? La risposta è incerta, ma ci pare che, in tal caso, il ricorso ex art. 360, comma 1°, n. 5, debba reputarsi ammissibi-le: ciò perché, da un canto, onde sopprimere il mezzo, la norma esige che la decisione d’appello sia fondata sulle stesse «ragio-ni» e non solo sugli stessi «fatti» di quella di primo grado; e

_______________________ 85 V. supra, n. 7. 86 Nella specie, da portare contro la sentenza di primo grado: v. ancora supra, n. 8; in caso di accoglimento, troverà poi anche in questo caso applicazione il nuovo art. 383, comma 4°, c.p.c. 

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perché, d’altro canto, è soprattutto rispetto a due motivazioni omogenee che può – forse – aver senso escludere una censura «motivazionale» come quella prevista dall’art. 360, comma 1°, n. 5.

Non crediamo, perciò, che l’art. 348-ter, comma 4°, operi, ogni volta che la motivazione in punto di fatto del giudice di primo grado sia corretta dal giudice di secondo grado, mentre particolare attenzione occorrerà riservare ai casi in cui l’ordinanza non corregga, ma integri la motivazione del giudice a quo: se si tratti di integrazione volta a rafforzare una motiva-zione che già reggeva da sola (ad esempio: il fatto y risulta an-che confermato dal teste C, oltre che dal teste D, come unica-mente si legge nella sentenza di primo grado; oppure: il giudice di primo grado ha erroneamente ritenuto provato il fatto w, ma in ogni caso non lo ha ritenuto rilevante ai fini della decisione, che non si fonda su di esso; oppure: è irrilevante il documento E, prodotto per la prima volta in secondo grado dall’appellante, per questa e quest’altra ragione; etc.), la norma nuova troverà applicazione; se invece l’integrazione rimedi in verità all’insufficienza della motivazione originaria, si versa in verità al di fuori del suo dominio, ed il ricorso per cassazione senza limiti.

11.4.- A fortiori, l’art. 348-ter, comma 4°, non opererà quando il giudice d’appello smentisca la ricostruzione in fatto del giudi-ce di primo grado, e nondimeno rigetti il gravame sulla base di argomenti, di fatto o di diritto non importa, diversi da quelli po-sti a base della decisione appellata (ad esempio: la decisione appellata ha sì errato nel ritenere non provato il fatto z, ma l’appello dev’essere comunque rigettato sulla base del principio di diritto P, non considerato in primo grado). E pensiamo che lo stesso debba dirsi, quand’anche l’ordinanza d’inammissibilità fosse, in circostanze analoghe, costruita in modo meramente i-potetico (ad esempio: è superfluo chiedersi se la decisione ap-pellata abbia errato nel ritenere non provato il fatto z, perché, se anche il fatto z fosse stato provato, l’appello avrebbe dovuto es-ser comunque rigettato, sia pur sulla base del principio di diritto P, diverso da quello posto a fondamento della decisione appella-ta): neppure in tal caso può infatti pienamente dirsi, a rigor di

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lettera, che la decisione di secondo grado si basi sulle medesime ragioni poste a fondamento della decisione di prime cure.

11.5.- Quanto all’art. 348-ter, comma 5°, che concerne i casi in cui l’appello sia rigettato con sentenza, esso si risolve essen-zialmente in un rinvio al comma 4°. Invero, l’espressione usata («la disposizione di cui al comma 4° si applica […] anche al ri-corso per cassazione avverso la sentenza d’appello che confer-ma la decisione di primo grado») potrebbe d’istinto far pensare ad un ambito di applicazione più esteso: si potrebbe, cioè, esser tentati di argomentare che, quando l’appello sia deciso con sen-tenza, il motivo di cui all’art. 360, comma 1°, n. 5, resti sop-presso in qualsiasi caso di identità tra il dispositivo della sen-tenza di primo grado ed il dispositivo di quella di secondo gra-do, appunto attribuendo massima ampiezza al concetto di «con-ferma della decisione». Crediamo, però, che l’argomento non tenga: sia perché il richiamo all’art. 348-ter, comma 4°, è inte-grale, e dunque il comma 4° deve applicarsi così nei suoi pre-supposti come nei suoi effetti; sia per l’identità di ratio che ispi-ra le due norme; sia perché, anche qui, è piuttosto in presenza di due motivazioni omogenee, che non in presenza di due disposi-tivi omogenei, che può – forse – apparire sensato il bando dell’art. 360, comma 1°, n. 5, che appunto sulla motivazione tut-tora87 si concentra. Ci pare, quindi, che anche l’art. 348-ter, comma 5°, onde limitare l’accesso al ricorso per cassazione, e-siga che la sentenza di seconde cure, oltre che d’identico dispo-sitivo, sia pure «fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle que-stioni di fatto, poste a base» della decisione di primo grado88.

Se questo sembra poi esser, dunque, il complesso significato dell’art. 348-ter, commi 4° e 5°, non v’è però da coltivare illusio-ni intorno alla possibilità che ne derivi una reale diminuzione dei ricorsi per cassazione: l’incertezza dei rispettivi confini, e la dif-ficoltà di riconoscerli in concreto, è effettivamente tale da indurre a credere che ne deriverà assai più male che bene89.

_______________________ 87 V. supra, n. 10. 88 V. in tal senso anche CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit., 1141; PANZAROLA, Commento, cit., 684, 687; COMASTRI, Note sulla recente riforma, cit., 695, nota 81. 89 Anche qui vale dunque il monito fatto supra, n. 10, in fine: se il legislatore intende perseguire la strada della restrizione dei motivi di ricorso per cassa-

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È infine da osservare che le due disposizioni in esame, co-me ogni disposizione che attiene ai limiti dell’impugnazione, trovano applicazione con riguardo ad ogni singolo «capo» o «punto» di sentenza autonomamente impugnabile (quale che sia, a monte, il concetto di «capo» o «punto» che si ritenga di sposare). Sì che, per intendersi, i diversi capi di una medesima sentenza potranno esser sottratti o meno al ricorso ex art. 360, comma 1°, n. 5, ogni volta che le condizioni di cui all’art. 348-ter, comma 5°, siano integrate, come ben può accadere, per al-cuni di essi soltanto, e non per gli altri. Né, è appena il caso di notarlo, vi sono difficoltà a che le nuove norme possano valere in casi di soccombenza reciproca.

12. C’era davvero bisogno di questo ennesimo intervento e del raddoppio automatico del contributo unificato per l’impugnante soccombente ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002?

Da ultimo, si deve dare conto di un’altra «novità» (recata

non dalla legge n. 134/2012, ma dalla legge n. 228/2012), tra tutte forse quella che più potrà interessare gli avvocati (certa-mente le parti): l’obbligo (automatico) per la parte che si sia vi-sta rigettare integralmente il gravame (perché infondato, inam-missibile o improcedibile) di versare un ulteriore contributo uni-ficato, di importo parti a quello già versato. Questo è quanto di-spone il nuovo comma 1-quater dell’art. 13, d.P.R. n. 115/2002. Quest’obbligo scatta sol perché si è perso, e parrebbe in modo automatico (nonostante l’infelice formulazione della disposi-zione: v. oltre), a prescindere dal fatto che il gravame risultasse non manifestamente infondato, e pure dalle ragioni che condu-cono al rigetto (ragioni che possono financo portare il giudice a compensare le spese di lite, ma che non elideranno il raddoppio del contributo unificato a carico del soccombente).

In particolare, la disposizione recita così: «quando l’impu-gnazione, anche incidentale, è respinta integralmente, o è di-

_______________________ zione, tanto vale che sopprima del tutto l’art. 360, comma 1°, n. 5, ottenendo almeno d’evitare il sorgere dei dubbi interpretativi cui s’è fatto cenno nel te-sto. 

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chiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha propo-sta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, prin-cipale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà at-to nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». I corsivi sono nostri, ed evidenziano la parte più dubbia della previsione: ci si potrebbe chiedere, in-fatti, se prevedendo questa «ricognizione» dei presupposti dell’obbligo da parte del giudice, il legislatore abbia inteso con-sentirgli un certo margine di manovra, e così la possibilità di escludere tale versamento, in ragione del concreto evolversi dell’impugnazione. La risposta al quesito, però, sembra dover essere negativa: in tal senso depone l’utilizzo della locuzione «la parte … è tenuta», ed altresì la circostanza che la disposi-zione non prevede alcuna formale «condanna» pronunciabile dal giudice. Ne consegue che, con o senza indicazione espressa dei presupposti dell’obbligo nel provvedimento, in ogni caso al soccombente (integrale, però) potrà essere richiesto il versa-mento previsto dal co. 1-quater.

A chiusura di questo excursus, una domanda nasce sponta-nea: ne avevamo davvero bisogno? Il nostro sistema delle im-pugnazioni richiedeva davvero interventi così penetranti?

Con ciò non intendiamo affrontare ancora la questione del-la opportunità di questi «tagli», su cui molto – soprattutto – si sono concentrati i primi interpreti di questa riforma del settem-bre 201290. La questione è un'altra: se «il fine giustifica i mez-zi», ossia se davvero serviva l’introduzione di questi nuovi isti-tuti. Onestamente, ci vien da rispondere: no! Questi mezzi con-traddicono il fine, solo in apparenza gli giovano.

Prendiamo il «filtro in appello», che – come si è visto – molto tempo disperde e molto inchiostro fa comunque spargere (non solo degli interpreti, che faticano a racapezzarvisi, ma pure dei giudici che – e per fortuna – mostrano di non considerarlo un mero escamotage, e molto si impegnano, anche in termini temporali, per dimostrare la «inammissibilità» del gravame). Ebbene, queste «diseconomie» (perché tali sono i tempi che ne-

_______________________ 90 Al riguardo si v., si vis, C. CONSOLO, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?, cit.  

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cessariamente si deve perdere per comprendere come utilizzare un nuovo strumento normativo) ce le saremmo potuti risparmia-re semplicemente potenziando ancora lo strumento della deci-sione orale pressoché immediata (ex art. 281-quinquies), che già l’art. 351, comma 4 rende applicabile all’appello, e che avrebbe potuto essere generalizzato come metodo alternativo di decisio-ne degli appelli che si mostrino particolarmente infondati.

Ed ancora, la limitazione all’accesso del vizio di motiva-zione in cassazione, davvero non poteva che essere attuata at-traverso una tale «amputazione» del n. 5 dell’art. 360? Ancora una volta, no. Si poteva – per sbarrare il passo a quei ricorsi «pretestuosi» (che, peraltro, già bene la Corte di cassazione blocca da sé, con poche eccezioni frutto di relatori rimasti trop-po legati al «merito»), aggiungere, alla formulazione previgente dell’art. 360, n. 5, un avverbio: «gravemente» insufficiente o contraddittoria. Il tempo impiegato dalla Corte di cassazione per «scremare» i ricorsi platealmente infondati non sarebbe poi stati di molto superiore a quello che impiegherà oggi per dire se il vizio motivatorio poteva o meno essere denunciato (non si può certo credere che quanti prima della riforma del 2012 propone-vano ricorso per cassazione per vizi motivatorii al fine di veico-lare un nuovo giudizio di merito, si facciano remore oggi).

Quanto alle nuove prove in appello, lo si è detto: la «restri-zione» nell’appello ordinario è irrilevante; per l’appello a valle del sommario, invece, è – comunque si valuti tale rito – estre-mamente dannosa, sarà una picconata finale contro questo, olim promettente (cioè nel 2009), metodo alternativo di giudicare a seguito di un percorso snello ma affidante.

Insomma, di interventi da fare per aiutare la nostra Giusti-zia a camminare un po’ più speditamente (senza però spingerla a divenire claudicante) ce n’erano; non sono però quelli cui ha deciso di guardare il legislatore del settembre 2012. Confidiamo che non solo nel 2013, ma anche nel 2014, ci si asterrà da nuove improvvisazioni o, se si preferisce (gaddianamente), da nuovi ed indesiderabili (una endiade?) esercizi normativi.