Ldb 98 17.01.2015 Dotti welfare 2
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Dicembre 2008- Gennaio 2009
Pensare e agire un altro Welfare
Premessa
E’ necessario, prima di entrare nello specifico, “perdere un po’ di tempo” per approfondire
l’ atteggiamento con cui viene affrontato questo tema. La premessa non è utile solo per
chiarire il punto esperienziale e di riflessione da cui deriva questo scritto,1 ma
necessaria,anche se non sufficiente, per affrontare poi “concretamente” il tema stesso.
Questa premessa è un invito a prendere coscienza. Sia nella sua accezione intellettuale
che morale.
La coscienza è una scienza condivisa. Un sapere che accompagna la scienza nell’atto
stesso di sapere. Coscienza come contenuto e come contenente. Preme qui sottolineare
l’urgenza di recuperare uno spazio significativo alla coscienza nell’affrontare temi vitali,
come quello sul Welfare.
Ci si destina altrimenti a disegnare astratte e sterili ingegnerie sociali , economiche e
giuridiche, corredate da aride tecnicalità.
O peggio ancora ad appoggiarsi su ormai superficiali e consunti derivati ideologici.
La vita richiede amore e conoscenza, la coscienza è la custode di queste fondamentali
espressioni dell’essere.
Prendere parte, sentire nel profondo di sé stessi di condividere la propria sorte con gli altri
e contemporaneamente avere la consapevolezza di essere parte in gioco sono
atteggiamenti che ci aiutano ad entrare nel cuore delle cose, ad arrischiare qualche
visione d’orizzonte. Per provare a proporre qualche traccia di riflessione comune.
Personalmente non appartengo alla categoria di persone per cui alcune parole sono
diventate degli idoli: sviluppo, grande dimensione, velocità, tecnologia. Ma nemmeno a
1 Il capitolo mi da la possibilità di ricostruire in un quadro maggiormente integrato ed organico pensieri, riflessioni e proposte che in
questi ultimi due anni hanno impegnato un buon pezzo della mia vita. Vengono qui ripresi contenuti già apparsi sul settimanale Vita, sul
mensile Communitas e su altre riviste. Sono debitore in particolare verso tutte le persone di CGM con cui ho condiviso molte di queste
riflessioni.
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quella per cui il tempo passato è sempre migliore di ciò che si vive ora. Amo il presente
nella sua pienezza, consapevole del percorso che ci ha condotto sin qui e fiducioso di ciò
che può ancora accadere e che in parte può essere determinato. Sta in questo spazio la
nostra responsabilità e la nostra libertà. C’è un certo fatalismo in giro che rischia di tenerci
tutti quanti prigionieri. Il futuro è prendere vita visibile di ciò che oggi è invisibile ma esiste
già. L’invisibile è tanto reale quanto il visibile. La speranza è infatti relazionata all’invisibile
non ad un astratto futuro. Per fortuna non c’è solo cronos ma anche kairos e l’invisibile
continuerà ad essere reale anche domani.
Vorrei cercare perciò di essere realista. Realista non significa considerare solo ciò che si
vede, ma è sapere che la realtà è fatta di visibile e di invisibile, conoscere il visibile è
importante quanto aver fede nell’invisibile. Il coraggio, la pazienza e la volontà sono virtù
che si applicano ad entrambe queste due evidenze della realtà.
Coscienti di stare dentro la crisi
Essere realista oggi è dire che siamo in un momento straordinario, anche perché da
diversi anni siamo in un momento di crisi straordinaria. Ci sono diverse dimensioni
storico- geografiche di questa crisi ed eventi che la segnano o la prefigurano in modo
preciso, a seconda che prendiamo in esame il nostro paese - l’Europa - l’intero occidente
o il mondo. Ma si tratta di considerare anche la storia e la geografia dell’interiorità delle
persone ed il radicale mutamento che anche lì è avvenuto.
Non si tratta di fare di tutta un erba un fascio. E non si tratta neppure di guardare e
considerare solo fenomeni ed eventi negativi ma anche segni e bagliori evidentemente
positivi. In molti casi la drammatica ambivalenza dei fatti stessi.
Nell’uno e nell’altro caso sono eventi che hanno dato il via a processi durevoli e di forte
impatto nella vita di tutti noi.
Potremmo, esemplificando, citare come eventi paradigmatici: il sequestro ed il delitto
Moro; la caduta del muro di Berlino; l’irrompere sulla scena mondiale di Cina ed India; il
lento delinearsi pur se nella sua componente squisitamente quantitativa, dell’Europa; i
primi massicci sbarchi di immigrati;la prima grande crisi petrolifera; le catastrofi naturali in
Italia (in particolare i terremoti del Friuli e dell’Irpinia); tangentopoli; la distruzione delle due
torri gemelle a New York, ; la strabordante produzione tecnologica degli ultimi venti anni,
in particolare nei mezzi di comunicazione; sino ad arrivare alla crisi finanziaria mondiale di
questi mesi.
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Come si può notare alcuni “fatti” sono storicamente avvenuti alcune decine di anni fa (anni
‘70 dello scorso secolo), altri solo da qualche mese. Se prendiamo alcuni riferimenti
culturali “generali” potremmo addirittura risalire ai grandi sommovimenti del Concilio
Vaticano II ed al Movimento del ‘68.
Ma questi fatti hanno la caratteristica tutta moderna di irrompere diffusamente e
prepotentemente nelle vite quotidiane di tutti, nella nostra parte cosciente , ma anche nel
nostro inconscio e nel nostro immaginario.
Una crisi che mentre dis-vela, ri-vela e suggerisce nuovi percorsi. Incoraggiando
interrogazioni oneste e nuove ricerche.
Ma vi sono altrettanti “avvenimenti” che hanno “pericolosamente” squilibrato i nostri
microcosmi quotidiani ed interiori.
Molto semplicemente se ci raccontassimo le nostre vite probabilmente un numero
considerevole di noi direbbe che negli ultimi tre anni sono successe cose particolari. Che
hanno a che fare con situazioni affettive, proprie e dei propri cari, in difficoltà; conoscenze
di contesti prima non previsti e conosciuti ma ora presenti, con precarietà e flessibilità. Le
“cose della vita” fanno fatica a rimanere connesse ed integrate. Stati di relazione all’interno
di reti sociali che probabilmente sino a dieci, quindici anni fa reggevano (la famiglia, il
gruppo amicale, la propria categoria professionale) e che oggi subiscono pressioni
considerevoli, non solo esogene ma soprattutto endogene, che li portano a non essere più
dei porti sicuri. Per non parlare di come si stanno sfaldando “sicurezze” economiche che
sembravano avere a che fare più con l’assoluto che con il relativo.
Credo che, rimanendo in Italia, potremmo a lungo parlare di come sono concretamente
cambiati i nostri territori fisici, ma anche gli “usi e costumi” quotidiani di ognuno di noi.
Dove facciamo la spesa? Come vanno a scuola i bambini? Quanto guardiamo la
televisione? Dove vivono e con chi vivono i nonni? Quanti comunicati radio ci informano
quotidianamente sugli andamenti delle borse mondiali? Perché vogliamo sempre sapere
che tempo ha fatto, fa, o farà?
Soffia un forte vento su questi tempi e nei nostri spazi. Chi si può dire al riparo?
Insomma forse l’insicurezza o il sentimento di insicurezza è segno dei tempi che viviamo.
Ci attraversa in quanto cittadini, contribuenti, elettori, consumatori, individui, persone. Ci
attraversa in ciò che siamo, non solo in ciò che facciamo. Attraversa tutti i sistemi umani
complessivamente: le organizzazioni, le aziende, i partiti, le istituzioni classiche che hanno
costituito gli assi portanti della nostra civiltà negli ultimi trecento anni. In particolare le due
istituzioni paradigmatiche della civiltà occidentale moderna, i due principali attori dei
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destini storici collettivi occidentali : lo stato e il mercato, nella loro massima espressione ed
espansione quantitativa, lo “stato democratico” ed il “mercato capitalista”.
Benedire la crisi
In questo senso come in ogni situazione del genere, davanti alle crisi i due atteggiamenti
che si possono assumere, senza polarizzare eccessivamente, sono la benedizione e la
maledizione. O si accolgono, accettando il fatto che hanno a che fare con noi, che ci
“riguardano”, o ci si difende e si scappa.
La scelta che faccio coscientemente è quella di benedire questa situazione, di dirne bene:
questa è la modernità, questo è il nostro tempo, il tempo è il contingente, l’esistenza è
contingente. Il tempo non si esaurisce nel contingente, ma il senso che gli attribuiamo non
può prescindere da esso.
Dire bene è però immaginare, sentire, pensare, fare esperienza, fosse anche un
esperienza di pura fede, che io, noi, tu, voi, gli altri abbiano e continuino ad avere un
senso.
E’ questa un affermazione semplice, ma oggi non banale e soprattutto non scontata.
Avere un senso, cioè significare, segnare una possibilità, perciò avere qualcosa da
(bene)dire, da (ben)fare, in ultima istanza per ( ben) essere.
Bene-dire vuol dire che ciò che si vive ha a che fare con il tuo bene, con la tua felicità, con
la tua vita. Dove l’aggettivo” tuo” sta non a rappresentare una proprietà privata (tolta,
separata) dagli altri, ma il pienamente e responsabilmente esserci. Che in questi
cambiamenti travolgenti, in questi paradigmi che cambiano, tu ci sei, non ti alieni. E questo
vale nella dimensione personale singola ma anche nella dimensione di popolo e di
nazione.
Una persona(singolare e plurale) non si aliena se non dimentica le sue radici, senza avere
eccessiva preoccupazione del passato; ma anche se dalla radice risale fin su alle foglie ed
ai frutti nuovi, senza avere l’ossessione del futuro. Questa è in fondo l’energia della
speranza, esprimere intenzionalmente partendo dalle radici qualcosa di nuovo. Questo è il
nostro tempo, il nostro kairos. L’urgenza e l’importanza di ciò che c’è da compiere, dentro
e fuori di noi. La modernità richiede il nuovo. Ma non c’è vera novità che non sia
tradizionale. Il nuovo vero è sempre relazionato all’origine, alla genesi. Questa è
l’aspirazione generativa che ogni uomo ed ogni comunità porta con se e che deve trovare
il modo di esprimere.
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Solidarietà e Welfare
Ma non voglio fare un discorso generale; che cosa è questo “nuovo”di oggi che va
rigenerato per arrivare a vivere , da uomini e non da sopravvissuti, questo tempo?
Qui in particolare vorrei concentrarmi sul binomio solidarietà-welfare.
Certamente il welfare nei paesi occidentali ha bisogno di rigenerarsi. Se non si vuole che
venga travolto dai cambiamenti e in buona sostanza cancellato.
Certamente il welfare state, che già nel linguaggio comune è divenuto semplice welfare,
ha rappresentato, nella storia degli ultimi centocinquant’anni in occidente una delle chiavi
di volta per misurare le scelte solidaristiche di una nazione, la sua propensione , ad
includere costitutivamente, nell’istituzione, principi e quindi comportamenti di equità e
giustizia sociale.
L’istituzionalizzazione dello spirito solidaristico di un popolo, la sua tensione alla
solidarietà, alla giustizia sociale, all’eguaglianza, alla coesione ed alla inclusione sociale.
Una sorta di “contrappeso” alla libertà individuale ed alla sua potenza espansiva nella
dimensione solo egoistica.
La prima cosa che possiamo dire per benedire questo tempo di crisi è riconfermare il
nostro mito. Il nostro mito fondativo è la solidarietà. La solidarietà è un mito. Ci si aderisce
senza un particolare perché, si sente che è così, non si spiega, non si esaurisce in una
spiegazione logica, anche se non contraddice la ragionevolezza. Ha a che fare con
l’essere, che è bene ricordare si esprime anche attraverso il pensiero ma non si esaurisce
in esso. Una persona sente che lì respira un respiro che lo riguarda, che lo fa stare bene.
Allora la domanda è: ” E’ ancora un mito fondativo per noi la solidarietà? O è solo un
fenomeno ed un sentimento collettivo che abbiamo messo alle spalle, anch’esso travolto
da questa crisi? Che c’entra la competizione con la solidarietà, può un sistema essere
competitivo e solidale? Solidali con chi?
Solidarietà significa solido-insieme. E’ anche un mito molto pericoloso, può degenerare in
fondamentalismi e mafie. La solidarietà ha anche degli elementi degenerativi, proprio
perché è molto potente, essendo uno dei fondamenti del pronome personale “noi”.
Può diventare un sistema chiuso, familista, corporativo. L’Italia presenta in questo campo
molti esempi, anche nel presente. Ma questo è il nostro mito fondativo. Non mi riferisco
solo alla carta costituzionale italiana, ma al tessuto profondo delle relazioni particolari e
generali in questo paese. Se lo riconfermiamo allora dobbiamo ri-raccontarlo, ri-narrarlo,
non basta viverlo. Bisogna raccontare il mito, “dagli vita”. Oggi se la solidarietà ha ancora
un senso, in questa modernità, si deve confrontare con la diaspora e la frantumazione,
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deve avere a che fare con la frantumazione della vita quotidiana di ognuno nelle sue
relazioni.
Trasformazione
Ma come si fa a portare in evidenza “il nuovo”, la novità in grado di rigenerare la
solidarietà ed il welfare?
Non mi convince ne il rimanere nello status quo, immaginando come si sta facendo negli
ultimi anni che il problema, tutto quantitativo, sia aumentare o tagliare i costi; che si riduce
ad essere solo una lenta e troppo dolorosa agonia di tanti a discapito della rendita
(sempre più scarsa tra l’altro) di pochi.
Ma nemmeno mi convince un atteggiamento distruttivo e “rivoluzionario”; la storia ha
insegnato troppe volte che si ritorna semplicemente da capo, al punto di prima.
Ma non basta un atteggiamento riformista, il più alla moda a parole oggi; non si tratta di
“sistemare” in una nuova forma i pezzi che ci sono già.
Serve una trasformazione, una vera e propria figura, un nuovo paradigma fondativo. Un
nuovo campo da gioco, con regole nuove e nuovi attori. Che abbia il coraggio di una
nuova visione, sappia declinare nuove finalità pur fondandosi su principi antichi.
Trasformare richiede e genera molta energia, perché significa rivitalizzare e rigenerare.
E’ tempo di saggezza e di responsabilità, di persone sagge e responsabili.
Per costruire alternative servono dirigenti che sappiano interpretare i cambiamenti che
sappiano costruire alternative. Le soluzioni puritane non servono molto. Si deve vivere con
il sistema. Le alternative devono poter entrare in relazione con il sistema. Perché la
maggior parte delle alternative escono dal sistema ed esso più o meno le tollera,
l’alternativa dice “l’uno e l’altro”, sia l’uno che l’altro. Costruire alternative non significa
ricercare solo i mezzi, ma ricercare e proporre i fini che ci fanno trovare i mezzi pertinenti
per realizzarli.
La crisi dell’attuale sistema di welfare in Italia, soprattutto nella sua componente di
tensione universalistica, allora la si può anche leggere come una opportunità
d’innovazione sociale. In particolare come una straordinaria occasione per rigenerare il
“bene-stare” delle nostre comunità. Forse un interrogazione profonda, ed un percorso
comune di ricerca, di cosa sia la solidarietà nella modernità.
Non ci sono proposte magiche che conducono in questa direzione, anzi questa sembra
una fase connotata da un certo irrigidimento nelle posizioni delle diverse istituzioni
coinvolte.
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Ma se accanto ad una pur necessaria visione efficientista/efficiente dei servizi, si riuscisse
ad interpretare i servizi anche come luoghi di costruzione di legame e di significati, in un
tempo in cui i legami si disfano ed i significati si frantumano, si sarebbe fatto già un buon
tratto di strada.
Accanto ai pur importanti contratti economici tra le persone e tra le organizzazioni, vanno
alimentati spazi di incontro gratuito e di scambio simbolico. C’è bisogno di concentrarsi
sulla rigenerazione di fiducia, che è fiducia tra le persone e fiducia nella realtà.
Ogni uomo ha fede, aspira alla fedeltà, ha bisogno di dare e ricevere fiducia. Non si può
vivere di sola “fidelizzazione”, cioè di mercificazione della fiducia.
Questa dimensione è vitale sia nella sua dimensione singolare che in quella plurale.
Perché la fatica e l’isolamento non soffochi sul nascere nuove energie e perché di fronte
alle difficoltà del vivere ci si percepisca insieme agli altri.
Così parlare di Welfare oggi richiede un po’ di coraggio nel tentativo di non scendere nei
soliti luoghi comuni che si esprimono in semplificazioni della realtà. Tali semplificazioni
rassicurano chi le fa e chi le ascolta, ma alla prova dei fatti sono false e non aiutano ad
affrontare il tema.
Proporrò così alcune osservazioni e di seguito alcune tesi.
Osservazioni generali di contesto, che servono ad inquadrare oggi la questione del
welfare.
Prima osservazione. Caratteristiche della modernità
La modernità ha radicalmente cambiato nei paesi occidentali ( occidentali non solo da un
punto di vista geografico), il modo che le persone hanno di percepirsi nel mondo. Il
costante sfaldarsi delle relazioni tradizionali e delle istituzioni che le garantivano oggi è
sotto gli occhi e nella vita di tutti. Ad esempio non basta evocare “la famiglia” per farla
rivivere ( quale famiglia?). Mi sembra che è ormai tempo di non confondere tra loro
identificazione individuale(che procede per differenza di particolari) da identità personale,
che è la consapevolezza di ciò che ci lega agli altri.
Seconda osservazione. Cambiamento demografico
L’allungamento diffuso della vita presenta fenomeni finora sconosciuti, non solo nella parte
finale della vita, ma anche nella fase di progettazione esistenziale. Un conto è avere
davanti a sé 50 anni, un conto è averne 90. Non c’è un allungamento solo temporale ma
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c’è anche un “allungamento” spaziale, il mondo oggi è un evidenza quotidiana palpabile e
sperimentabile.
L’”allungamento” del tempo e dello spazio fa si che moltissimi fenomeni ed accadimenti
della vita risentano di questo cambiamento. Basta pensare alle malattie. Ciò che prima
durava mesi oggi può durare anni se non decenni.
Terza osservazione. La crisi di stato e mercato
Lo stato-nazione(la totale identificazione dello stato con la nazione e con il popolo di
quella nazione), così come lo abbiamo conosciuto, in particolare negli ultimi trecento anni
è sottoposto ad una pressione che possiamo quanto meno prudentemente chiamare
“riformista”. La mia impressione è che siamo solo all’inizio di una rapida ricollocazione
storica.
Ma anche il mercato-capitalista, dove l’unico mercato “vero”, considerato adulto è quello
dei capitali, mostra evidenti segni di “rottura” interna, proprio nel massimo del suo
dispiegarsi nel mondo. La fede cieca nella “quantità”, come unico parametro di valore nella
relazione economica tra gli uomini, sembra implodere su se stessa. Questa deriva
evidente riguarda anche l’interpretazione della democrazia intesa come sola dialettica tra
maggioranza e minoranza.
Abbiamo trascinato nel senso unico dell’individualismo la parola interesse, tagliandole
tutte le sue profonde radici relazionali. Mentre l’inter-essere è ciò che sostiene il legame
interiore ed esteriore tra gli esseri, non l’immediato vantaggio utilitaristico che l’individuo
guadagna dal rapporto con l’altro o con le cose.
Non regge nè una visione dualista, in cui le due istituzioni competono, nè una visione
monista in cui una delle due istituzioni è egemone sull’altra. Forse in questo caso sarebbe
il caso di recuperare un pensiero che non sia solo binario.
Quarta osservazione. Lo strapotere del linguaggio economico
L’economia è lo strabordante “linguaggio” corrente. Che genera una costante invasione di
campo in ambiti e territori che non sono squisitamente quantitativi, distorcendo
costantemente significati di ben altra natura. Nelle cose della vita, anche in economia,non
c’è solo il “massimo”, importante a volte, c’è anche il “buono” ed il “giusto”, e in alcuni casi
anche “l’ottimo”. Non si vuole qui sottovalutare l’importanza dell’economia, anzi , ma
sottolineare che l’eccesso della misura quantitativa di ogni dimensione del vivere alla
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lunga consuma anche il significato della quantità e della stessa economia. L’attuale crisi
finanziaria mondiale è un buon esempio di ciò che affermo.
L’altro polo esistenzialmente rilevante oggi è la libertà. Peccato che la sola dimensione
quantitativa anche qui mortifichi il valore stesso della libertà. E’ certamente importante
avere tante cose da scegliere, ma il problema resta quello - scusatemi il giro di parole - di
essere persone libere nel loro essere. Questo non è in problema solamente quantitativo.
Quinta osservazione L’inevitabilità dei flussi migratori
L’immigrazione non è un fenomeno transitorio né passeggero, ci faremo i conti per lungo
tempo. Se continueremo ad affrontarlo con i paradigmi del Novecento non riusciremo a
venirne fuori. Esso richiede intenzionalità e una disponibilità a cambiare. Solo dopo, in un
secondo momento, necessita di una buona legge.
Parlare molte lingue vuol dire, anche, rendersi conto che non c’è una cultura in grado di
comprendere complessivamente il mondo.
Ci sono ad esempio culture che non hanno, nel loro linguaggio, la parola “individuo”:
hanno le parole comunità, popolo, uomo, donna, ma non “individuo”. Siamo certi che
questo sia un assunto che le rende “sottosviluppate”?
Forse dobbiamo cominciare ad ammettere che la nostra cultura non è “ la cultura”, ma una
cultura; che il mondo ha squilibri assolutamente inaccettabili e che anche da esso nasce il
fenomeno migratorio. E soprattutto dobbiamo cominciare a ragionare di multiculturalità
dentro un quadro di giustizia, libertà, pace: gli uomini sono ontologicamente liberi di
spostarsi, di incontrare altre genti, di andarsi a cercare la possibilità di guadagnare il
proprio pane. Ma questo deve avvenire nella libertà, non nella violenza della necessità,
non può avvenire se non all’interno di una dignità di relazione, in cui ciascuno fa e ha la
sua parte. In cui ciascuno ha il suo proprio nome.
Solo assunta piena consapevolezza di queste dimensioni cui ho fatto riferimento, sarà
possibile abbozzare un progetto politico. Che è il finale, il coronamento se volete, di un
processo.
Si ripete che le comunità territoriali vanno cambiando, anche a causa della presenza degli
immigrati. Il fatto è però che nessuno è in grado oggi di difendere il valore della propria
comunità se non donando la propria comunità in una relazione con la diversità. In caso
contrario, la perderemo, la comunità. L’immigrazione è in qualche modo una possibilità di
raccontare ancora noi stessi, non dentro un’idea rigida, ma dentro un dialogo sincero e
fecondo.
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Sesta osservazione: Il terzo settore possibile laboratorio d’innovazione
In questa situazione c’è una dimensione internazionalmente riconosciuta al terzo settore in
particolare a quello italiano ed è costituita dalla sua capacità produttiva (di valore sociale
ed economico) ormai consolidata da tempo. Una vera e propria infrastruttura sociale ed
economica. Questa innovazione è avvenuta negli ultimi trent’anni.
In molti casi però, rivolgendosi per contratto al committente intermedio e non direttamente
al cittadino, l’innovazione viene percepita nei confini statuali e solo all’interno della spesa
dell’amministrazione pubblica. Se un po’ di universalismo si è mantenuto concretamente
nel Welfare state italiano questo lo si deve in particolare allo stretto rapporto tra
amministrazioni locali e terzo settore, che ha reso fruibile alla maggior parte delle persone
decine di migliaia di servizi. Ma tutto ciò non ha un suo preciso riconoscimento pubblico.
Caso mai si è percepiti come una innovazione della pubblica amministrazione. Fatto salvo
un’aleatoria importanza, perché priva di reale potere, che viene attribuita ciclicamente al
cosiddetto volontariato.
Ma esistono invece, una serie di soggetti, dentro e fuori ciò che è classicamente
considerato terzo settore, che hanno già dimostrato una tensione al nuovo, all'innovazione
sociale ed una disponibilità a fare sistema e che in questa direzione investono non solo
capitale economico ma anche il loro capitale umano. Fuori da una certa retorica del
volontariato e del terzo settore, generalmente utili per sentimenti “natalizi” o di fronte alle
diverse catastrofi che presenta la vita umana e la vita del mondo.
Le realtà più mature di impresa sociale, alcune associazioni e fondazioni, alcune istituzioni
finanziarie, alcune organizzazioni imprenditoriali, alcune amministrazioni pubbliche.
Ci sono insomma realtà a cui la comunità sta realmente a cuore, non come un di più ma
come un elemento imprescindibile se si vuole continuare a pensare ad un futuro vivibile.
Queste rapide osservazioni costituiscono nei fatti quotidiani una trama esistenziale di
persone e comunità sempre più sottoposte contemporaneamente a fare esperienze molto
polarizzate di se stesse, a coniugare molta “libertà” di scelta con molto spaesamento e
spesso con evidenti dipendenze degenerative, singolari e plurali, di ogni genere. Basti
notare per esempio che ad un sempre più basso numero di preti e suore, corrisponde un
sempre più alto numero di psicoterapeuti ( sia detto senza alcun giudizio di bene e di
male), o che le proporzioni delle dipendenze da cibo, da alcol, da gioco, da droghe
stimolanti, per citarne solo alcune, hanno raggiunto dimensioni a dir poco preoccupanti
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Le sette tesi
Quali sono di conseguenza le tesi che riguardano il welfare e che ci possono traghettare
verso una sua trasformazione, che è trasformazione personale, sia singolare che plurale.
Che ci aiutino ad uscire dal circuito vizioso in cui oggi siamo e orientarci a ritrovare un
circuito virtuoso?
Le propongo come nuclei generatori e riflessioni che consolidino quello che troppo spesso
diamo per scontato nel nominalismo imperante. Credo che, portate a coscienza, esse
contengano in sé una potente capacità di presa e trasformazione delle nostre azioni. Il
loro contenuto si rincorre circolarmente marcando in ognuna significati particolari che si
riferiscono però ad un'unica finalità.
Prima tesi : La tensione universalistica
Parlare di welfare, tenendolo connesso alla solidarietà, a questo punto ha senso solo se ci
riferiamo ad un welfare che mantiene una tensione universalista, cioè disponibile ed
accessibile a tutti i cittadini.
Per affrontare i tempi nuovi, è necessario un modo nuovo per rendere fattibile
l’universalismo che stava alla base della positiva intuizione del welfare state.
Per avverare l’affermazione è necessario porsi il problema di cosa sia oggi il “bene
comune”, forse prima ancora dare una dignità culturale, sociale, economica, a questa
espressione. E’ la visione universalistica del welfare state il valore che va preservato,
chiedendo allo Stato di promuoverla e verificarla, non certo - come si incaponisce a fare -
di amministrarla e gestirla.
Comprendere e sollecitare le capacità delle persone, di tutte le persone soprattutto quelle
in difficoltà, sviluppare l’autopromozione di gruppi, scommettere sulle risorse scarse
sapendo estrarre valore e sapendolo distribuire, interpretare la cooperazione come forma
evoluta di competizione, scommettere sul valore della differenza dei singoli territori come
arricchimento delle relazioni, sono il modo profondo e concreto di interpretare la
sussidiarietà e di inverare il mito della solidarietà. La nuova porta alla tensione
universalistica.
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Trattare dell’economia in modo trasparente rendendo l’economia accessibile a tutti, non
vivendosi come semplici consumatori , accanto ad una costante cura dei processi
partecipativi e democratici ( che rappresenta evidentemente un costo nel breve periodo), è
il modo di dare un contributo alla creazione di imprese (sociali ) sane e soprattutto in
grado di pensare e di agire.
Seconda tesi. Il valore della persona
Non è possibile recuperare il tema del bene comune in una società fortemente
individualista, se non si recupera il valore della persona, intesa come nodo di relazioni. La
persona non è l’individuo, l’individuo (io) è un sesto della persona che è l’intreccio di sei
pronomi.
Intendiamo come persona il nodo reale in una rete di relazioni. Il nodo sarebbe l’individuo,
ma il nodo senza i fili che lo costituiscono cesserebbe di esistere, di essere nodo. Non c’è
un solo nodo, cosi’ come non può esistere una sola persona.
Sul lungo periodo bisogna educare le persone a condividere i loro bisogni con altri
portatori di bisogni. In pratica l’idea del mutualismo delle origini. Utilizzando un linguaggio
economico c’è oggi ampio spazio per immaginare forme di mutualizzazione della
domanda. Che è mutualizzazione tra diversi. Forme che sarebbero più efficienti ed efficaci
sul lungo periodo perché genererebbero capitale sociale. Non si tratta solo di generare un
mercato o di trovare soluzioni di gestione.
Il capitale sociale, che è figlio della ricerca di un punto d’incontro vero e stabile tra le
persone, è il valore aggiunto per prevenire le situazioni di disagio o comunque per ridurne
l’impatto. Come dimostrano le esperienze di economia di comunità, le imprese e le
cooperative sociali. Va bene un maggior orientamento alla domanda. Ma quella domanda
deve essere relazionata, mutualizzabile, deve comprendere l’attivazione di tutti i legami
personali. Soprattutto dovrebbe essere vista anche nell’ottica di generare valore,
mutualizzando i bisogni. Non dimentichiamo che le forme mutualistiche sono anche forme
d’impresa.
Aggiungo che le relazioni – tanto più nella società liquida – non sono solo scambio
individuale fra domanda e offerta. Sono relazioni di senso, rigenerabili soprattutto
attraverso il capitale sociale. Bisogna riuscire ad andare oltre ad un rinnovato rapporto tra
“utente” e “operatore specializzato”. Altrimenti mi pare si attivino solo un sesto delle
potenzialità: le relazioni hanno una molteplicità di significati e di valore aggiunto, ben oltre
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lo scambio. Tra due persone, se c’è una relazione vera, avviene uno scambio di
prospettive: i mondi dell’uno diventano anche un po’ i mondi dell’altro.
A corollario della tesi va specificato che il benessere della persona, la sua felicità, è quindi
solo per un sesto un problema individuale.
Oggi nelle esperienze che siamo spinti a fare sia la libertà che l’economia si fondano
sull’individuo. Una sorta di monade atrofica.
Per noi invece la persona è un nodo di relazioni. Un nodo unico, questa unicità
costituisce la propria percezione e dignità anche individuale. In questo nodo c’è anche il
sentimento che ciascuno ha di sé. Nella nostra cultura l’elemento relazionale è importante,
forse più determinante che in altre tradizioni: per il nostro modo di vedere non c’è libertà
senza “res-sponsabilità”. La libertà nella cultura personalista è sempre connessa alla
creazione di legami che hanno significato. Non è semplicemente la libertà di scegliere. È
una liberazione da uno stato, nella fattispecie di bisogno opprimente, anche attraverso dei
legami, interiori ed esteriori. In altri termini la libertà è la scelta dei legami che mi liberano.
Qualcosa di molto diverso dalla sola scelta come arbitrio o come opzione da mettere in
pratica ad esempio in un’esperienza di consumo.
Sottolineo questa impostazione differente perché da essa discendono questioni non
solo filosofiche, ma anche diverse opzioni sociali e organizzative ed esperienze che si
istituzionalizzano.
Non mi pare un caso che oggi prevalentemente per libertà economica s’intenda libertà
dell’individuo in quando consumatore. Certo consumatore consapevole e critico, aiutato a
usare il proprio discernimento specialmente nella gestione del budget che ha in mano. Ma
sempre di consumatore si tratta. È evidente che questo ingrediente non sia secondario,
ma in una visione complessiva può far parte del necessario, forse, non certo del
sufficiente.
Terza tesi. Come uscire dallo spaesamento.
Nella diaspora della modernità, non esistono super-sistemi, tanto meno sistemi
tecnologici, che ti garantiscano la vita, tanto meno una buona-vita.
Ci siamo incatenati in questa ossessione, continuamente alimentata dai media, per la
sicurezza che è la versione sociologica dell’ossessione cognitiva per la certezza.
Ma la sicurezza, anche quella individuale, si coniuga con la qualità delle relazioni e con la
responsabilità delle proprie azioni. Non si coniuga nè con le telecamere nè con le barriere
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corporative. La certezza tecnologica e l’affidamento al gruppo di simili, sono strumenti e
metodi che restano aleatori e superficialmente rassicuranti se non ci si applica con
costanza e cura al territorio, all’abitare il territorio, al renderlo abitabile. Così se si vuole
parlare seriamente di welfare, c’è da mettere mano, ad esempio, ad un nuovo stile
dell’abitare, alla costruzione e ricostruzione di spazi abitativi che abbiano un significato. Di
spazi che abbiano “qualcosa da dire” a chi li abita. Questo riguarda sia le abitazioni
singole che gli spazi comuni e pubblici. La bellezza non è semplice estetica superficiale, è
armonia di spazi , di tempi, é riconoscimento. E’ armonia di relazioni. Un nuovo welfare
richiede anche una nuova urbanistica ed una nuova architettura.
“ Abitare un luogo non è semplice stare ( casomai è star-ci),non è appoggiarsi, occupare
uno spazio e un tempo. Abitare è conoscere, gustare, curare, trasformare, costruire, farsi
innanzi tutto abitare da quel luogo e da quello spazio. Mettersi in sintonia. Abitare è
trasformarsi. Abitare è relazione. Simbolo e significato. Per questo abitare è felicità e gioia
ma contestualmente fatica e sacrificio. E’, comunque sia, condividere un posto, con gli altri
e con il nulla.”2
Chi sta dentro le diverse comunità territoriali questo lo sa bene perché vive il travaglio che
queste stanno vivendo. Travaglio di persone, famiglie, gruppi ed istituzioni.
Non si tratta semplicemente di trovare soluzioni e risposte efficientiste. Mi permetto di
semplificare sostenendo che non si tratta di costruire degli involucri fisici e di infilarci le
persone al più basso costo possibile per loro e per la collettività. Ciò che nel breve periodo
sembra essere una risposta efficiente , la storia degli ultimi anni dimostra costituire un
costo,( sociale , esistenziale ed economico) ben superiore dell’apparente vantaggio
iniziale. Non è possibile oggi, ed in particolare nei casi che presentano già lo stigma
dell’emarginazione o che stanno lentamente scivolando in quella dimensione sociale
scollegare la parola abitare dalla responsabilità, dalla creatività, dalla relazionalità. Sono
queste le dimensioni che garantiscono la cura materiale ed immateriale sul lungo periodo.
Mai come oggi in un tempo di diaspora sociale, abitare è vivere. C’è un bisogno di
soggettività che va interpretato positivamente, che è difficilmente standardizzabile, ed è
una risorsa preziosa per attivare come direbbe l’economista A.Sen percorsi di
capacitazione delle persone sia singolari che plurali.
C’è insomma la sfida a rivedere , accompagnandoli da dentro, i tempi , i modi e gli spazi
dell’abitare, non fermandosi agli stereotipi che identificano famiglia con appartamento,
edilizia pubblica con Aler, case popolari con formicai. Ogni tempo storico ha determinato le 2 Tratto da Abitare luoghi di bene comune in “nuovo welfare ed impresa sociale”, Diabasis 2006 Reggio Emilia.
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ragioni delle sue opere, crediamo che oggi ci sia un tempo per ripensare buone ragioni
prima di procedere nell’appiattire ogni significato con le consuetutini che gli sono attribuite.
C’è bisogno di generare nuove visioni o se volete di rigenerarne di antiche e di
affiancarle a nuove responsabilità , da cui discendono nuovi stili e nuove abitudini.
Quarta tesi. Non c’è libertà senza responsabilità.
Non può esistere, così, un welfare erogato. Il welfare va continuamente rigenerato, direi
anzi rianimato. Personalizzato. Si fonda tendenzialmente sulla capacità di auto-
organizzazione, figlia della libertà ma generatrice di responsabilità.
C’è da recuperare il gusto della responsabilità per alimentare la libertà.
In una fase in cui strutturalmente la nostra nazione vive contemporaneamente una crisi
demografica, una crisi dei redditi ed una crisi fiscale, che si iscrivono oggi strutturalmente
nella crisi finanziaria e a breve economica che investe l’intero mondo. Queste situazioni
richiedono una nuova capacità di immaginare e di agire politiche di creazione e
distribuzione del valore, che è anche valore sociale. Non c’è solo un impoverimento
materiale delle famiglie, c’è un impoverimento relazionale sia quantitativo che qualitativo.
Ed i due fenomeni sono strettamente collegati. Il tutto in un contesto di forti rimescolamenti
culturali generati da massicci flussi migratori.
Come si genera capitale sociale oggi? Come stimolare e accompagnare la nascita di
nuove combinazioni sociali che includano le persone, in un tempo in cui tutto si frantuma ?
Come non disgiungere libertà e desiderio da responsabilità e bisogni da capacità?
Una possibile chiave di lettura e di proposta risiede nel rigenerare relazioni, costruire
legami, tessere reti, rinnovare significati. Sostenendo il processo di costruzione di nuove
istituzioni di comunità, che non possono essere la fotocopia di quelle passate, e che
ricordiamolo nascono prima come esperienze e solo in un secondo momento diventano
istituzioni. Chiedere alle “vecchie” istituzioni che non inneschino solo atteggiamenti
difensivi ed auto conservativi, ma si ricordino dello statuto profondo che nelle diverse
epoche le ha generate e su questa base ritrovino finalità perdute e soprattutto siano
disponibili a far nascere e crescere nuove esperienze. Genitori saggi non fratelli maggiori
gelosi.
Perché la struttura stessa della realtà è “legame solidale”, l’uomo è un essere solidale non
solitario.
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C’è bisogno di orientare le persone, orientarle a risolvere insieme i problemi, stabilizzando
nel tempo questa capacità individuale e comunitaria di generare “ben-essere”.
Vanno incoraggiati tutti i percorsi educativi che aiutino in tal senso.
Quinta tesi. Tutti abbiamo bisogno degli altri
Il welfare non è un tema da specialisti per una fascia specifica di bisognosi, rigidamente
precostituita. Tutti prima o poi - di questi tempi e in questa vita - hanno bisogno degli altri.
Anche per questo il welfare è un problema di tutti, una questione d’interesse generale.
Provo, stavolta semplificando, a polarizzare la questione. Fino a poco tempo fa, a grandi
linee, si immaginava che il welfare fosse una questione della “povera gente”. Si pensava
che i ricchi col welfare non c’entrassero proprio nulla, avendo all’occorrenza a disposizione
i soldi: se succedeva qualcosa in famiglia, la comunità in Svizzera per il figlio
tossicodipendente piuttosto che la clinica in Scandinavia per la mamma con l’Alzheimer si
trovava. Oggi non è più così. E’ paradossale ma facilmente sperimentabile il fatto che
mentre si allarga la forbice dei redditi si restringe e si fa sempre più urgente il bisogno per
ciascuno di poter contare sugli altri. I soldi quindi non bastano. Uno può avere anche
2.000 euro da spendere al giorno per sua mamma con l’Alzheimer, ma questo non lo salva
dai rischi dell’”andare fuori di testa” ! Perché gli spazi ed i tempi di vita rispetto a 10-15
anni fa sono radicalmente cambiati. Traduco: c’era un substrato parentale, amicale, di
vicinato, di sostegno di casta, chiamatelo come volete, che sosteneva la disponibilità di
reddito e quindi questo era soltanto il punto finale su cui si appoggiava un sostegno che
comunque era evidente. Oggi questo non c’è più, anche perché se uno ha un figlio
tossicodipendente non basta mandarlo in comunità: la droga oggi è un po’ più complicata.
L’Alzheimer dura anche 15-20 anni, non basta la clinica estera. Se uno ha un figlio
disabile, questo vive più a lungo, sopravvivendo oltre la morte dei genitori; si pone il
problema del “che cosa succederà a mio figlio quando muoio ?”, del “Chi si curerà di lui?
”, fenomeno sconosciuto in occidente fino a dieci anni fa. I pochi disabili che vivevano oltre
i quarant’anni finivano in case di riposo. Oggi si stimano in almeno 15.000 i disabili che nei
prossimi dieci anni resteranno senza una famiglia. Aggiungo anche : siccome la vita si è
allungata è molto più facile che una persona vada fuori di testa, perché ad esempio
divorzia, perché perde il lavoro a 50 anni, anche se è un manager. E ancora: oggi la
composizione delle persone alle mense dei poveri è sensibilmente diversa anche solo da
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quella di dieci anni fa. La percezione e l’esperienza della povertà è radicalmente cambiata,
la percezione e l’esperienza della precarietà esistenziale è radicalmente cambiata.
Per tutti questi motivi il welfare è un interesse di tutti. Questa è una opportunità da non
perdere. Torniamo dunque all’origine del tema. Il welfare è nato come un tema
comunitario, nel XV secolo in Italia e non all’inizio del ‘900 con Keynes! Cioè il welfare è
un’invenzione dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano. I sistemi di protezione sociale
arrivano molto tempo prima dell’idea addirittura dello stato-nazione ! Cioè hanno a che
fare con l’idea che la felicità è pubblica, non è privata; che la realizzazione di sé non è una
dimensione narcisistica del proprio io, ma ha a che fare con il benessere e con gli altri. Le
evidenze riportate come esempio in precedenza pongono un problema a tutti. A me in
questo momento definire chi sono i ricchi, chi sono i poveri, onestamente interessa poco. Il
problema è se ci definiamo insieme su un progetto di felicità comunitaria oppure no. Cioè
se si ha intenzione di pensare a sé stessi pensando agli altri, consapevoli che pensare agli
altri non è un’attività filantropica donativa ma ha che fare con l’intelligenza, ha a che fare
con te, perché se fai questo, qualcuno si interesserà di te, se non fai questo, quando avrai
problemi nessuno si interesserà di te anche se avrai 1.200 euro al giorno da spendere.
Tutto ciò fa parte di quella che potremmo definire l’inevitabilità della modernità che deve
farci ritrovare punti di unità e di riflessione vera su alcuni temi, per evitare di essere
governati da maschere di ciò che è pubblico, che è la cosa più brutta che possa succedere
all’occidente. La questione, seria, non è di natura ideologica, bensì di paradigma. Si
supera solamente dicendo chiaramente, sostenendo una battaglia, che ciò che è statale
non è vero che esaurisce il tema del pubblico e che c’è bisogno di nuova soggettività
pubblica e di qualcuno che incarni questa soggettività. In termini italiani, abbiamo bisogno
di nuove istituzioni di comunità. Chi fa il parroco, il sindaco, chi fa il farmacista, chi fa il
medico, il carabiniere, che erano le istituzioni di comunità fino all’altro ieri nell’Italia vera,
che è quella ad es. dei quartieri di Milano, che non ci sono più ed era quella dei paesi? Chi
sono oggi le istituzioni comunità che mediano i problemi? Dove sono? In realtà non ci
sono quasi più! E’ questo uno dei problemi urgenti da affrontare.
Sesta tesi. Il valore del “pubblico”
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Il welfare, se è un problema di tutti, va declinato con la parola pubblico, che però non va
più confusa e identificata esclusivamente con le parole statale/amministrazione pubblica.
La dimensione pubblica è la componente plurale dell’essere persona, propria dell’uomo.
Si tratta di riappropriarsi del significato della parola pubblico. Il pubblico non appartiene
allo stato ed alle sue articolazioni. Questa è una distorsione degli ultimi cento anni della
storia occidentale ma non è la storia dei 3.000 anni dell’occidente. Il pubblico non è lo
stato. Lo stato ha dei doveri rispetto al pubblico, ma non coincide nel processo identitario
con ciò che è pubblico.
“ Quand’è che sono pubblico, quand’è che mi dedico al pubblico perché il pubblico sono
anch’io?”. Mai stata così poca sussidiarietà come negli ultimi dieci anni in Italia! Più si è
sventolata la bandiera e più la sussidiarietà è scomparsa! Non si tratta di nominare le
cose, si tratta di rendersi responsabili di una dimensione di sé. Oggi c’è un grandissimo
depauperamento di ciò che è pubblico e c’è un enfasi astratta sul valore di ciò che è
privato. Il pendolo delle questioni legate ad esempio ai beni comuni continua ad oscillare
tra privatizzazioni a favore di aziende profit e proprietà di amministrazioni “pubbliche”in
enti di ogni tipo. Confondendo costantemente i mezzi con i fini. Non avendo quasi mai il
coraggio di disegnare finalità chiaramente riconoscibili, trovando poi, di volta in volta, i
metodi, i mezzi e gli strumenti necessari e congruenti (efficienza ed efficacia) per
perseguirli e quindi verificarli. Non credo sia solo un malcostume penso sia vera e propria
ignoranza.
Ma questo ci riguarda tutti, come cittadini di questo benedetto paese che è bene
ricordarlo è una res-pubblica.
Insisto, si può dire chiaramente che ciò che è pubblico non è automaticamente statale? E’
probabilmente importante stabilire una gerarchia nell’economia (nel senso di ordine) di ciò
che è pubblico; ma è una gerarchia di funzioni, non certo di significati e tanto meno di
etica. Non c’è la serie A e la serie B di ciò che è pubblico. Aggiungendo tra l’altro che oggi
purtroppo ciò che è statale molte volte non è neppure pubblico: se pubblico significa
universale, cioè accessibile, disponibile, distributivo, non familistico, non speculativo.
C’è in questo paese una soggettività ampia, una coscienza civile che al di là della
collocazione che occupi sia in grado di porre liberamente e responsabilmente questo
tema?
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E’ necessario recuperare, da parte di tutti, anche la coscienza della propria dimensione e
missione pubblica.
Prima di formulare ipotesi istituzionali credo sia utile riflettere sull’esperienza vissuta. Ci
sono in tal senso esperienze “sostanzialmente” pubbliche. La cui missione si confronta
costantemente e strutturalmente con la dimensione pubblica. Si dovrebbe cercare di
individuare e possibilmente raccontare esperienze pubbliche. Slanci, passioni, relazioni,
contesti, progetti che costruiscono,aggreghino, energie umane, materiali, immateriali
attorno a beni che siano accessibili a tutti e che in particolare attivino azioni per non
lasciare nessuno escluso. Se così sarà c’è spazio per dire cose nuove su cosa è pubblico
oggi e domani.
C’è poi da riflettere sul proprio contributo alla rigenerazione della democrazia
Il tema precedente costituisce un ingrediente importante della seconda questione. Avrà
capacità di rinnovarsi la democrazia? Che ormai da una decina di anni rincorre riforme
formali (pur importanti) ma non si interroga sostanzialmente sul suo significato e sulle sue
finalità in questi tempi, correndo sovente il rischio di essere un feticcio consumato. Le
diverse realtà che fanno della partecipazione, della responsabilità, della passione e
dell’altruismo i loro cardini credo abbiano ampi spazi, innanzi tutto di elaborazione
interna,per dire la loro.
Tra i temi da affrontare, tra gli altri, potrebbe esserci allora l’individuazione del nucleo
attorno a cui rilanciare, con una chiara finalità pubblica, il terzo settore, se decidiamo di
mantenere questa definizione.
Va sottolineato infine che in tutto ciò resta indispensabile il ruolo dello Stato.
Lo Stato può e deve avere un ruolo da protagonista nel promuovere e regolare questo
welfare. Lo stato sta alla dimensione pubblica come l’apparato scheletrico sta al corpo. C’è
bisogno anche di una buona burocrazia, di elementi di rigidità e di durevolezza che
funzionino. Si tratta però di ritrovare la capacità di mettere in movimento e di investire su
ciò che funziona ed ha contemporaneamente un senso
Settima tesi. Rendere plurale l’economia
Non c’è solo un economia di scambio mercantile, c’è anche un economia di reciprocità e
di dono. Entrambe hanno un etica.
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A costo di sembrare banale mai come oggi è necessario ricordare che l’economia non è
accumulare denaro. L’economia infatti è innanzitutto e nel profondo, nel rispetto della sua
radice greca, la scienza dell’ordine delle cose.
C’è bisogno di dare Il proprio contributo alla diversificazione della economia, c’è bisogno
di un economia plurale. Che riscopra il valore dell’armonia, che sappia individuare nuove
gerarchie nel produrre e distribuire valore.
La questione dell’economia la pongo come una questione dirimente per tutti. Volenti o
nolenti siamo immersi in un “tempo economico”. Anche il welfare fa i conti con questa
dimensione. Sappiamo dire e praticare qualcosa di diverso in tal senso,sappiamo stando
dentro i sistemi proporre qualcosa di alternativo? Sapendo comunque che la pluralità è un
valore, anche in economia.
Per quanto riguarda in specifico l’impresa sociale,la differenza non sta nella
semplificazione tra profit e non profit, ma tra chi mette a funzione pubblica la propria
impresa e chi no, facendosi verificare in tal senso. Oggi è diffusa una scala di valore che
attribuisce nelle aspettative : all’amministrazione pubblica il massimo dell’etica e
all’impresa il minimo dell’etica. Oggi si pensa che fare impresa sia solo fare un sacco di
soldi. Ma si può fare impresa in un altro modo? Mi aspetto uno scarto culturale. C’è un
etica, che comprendono anche elementi di interesse, ma un interesse che non uccide
l’altro, tiene conto della comunità, e tiene conto anche dei lontani.
Non si tratta di essere anticapitalisti o comunisti, però si può dire che noi abbiamo bisogno
di rendere un po’ più plurale l’economia? E che la solita storia che c’è un’economia
pubblica, che è statale, un’economia privata, che è capitalista, è finita concretamente
ormai da decenni? C’è anche qualcosa d’altro e ci possono essere soggetti che
producono e distribuiscono valore contemporaneamente e che forse hanno un idea più
ampia di valore.
E’ una dimensione pubblica ridistribuire il valore che si produce. E si può fare in tanti
modi. Io credo che questo sia arricchente anche per il capitalismo .
Cosa fa un impresa sociale rispetto all’impresa profit? Massimizza il suo obiettivo sociale,
compatibilmente alla sua capacità di sostenibilità economica. Cosa fa l’impresa profit?
Massimizza il suo risultato economico compatibilmente alla sua tenuta sociale. Sarebbe
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già buono che questo si riconoscesse e ancor più interessante sarebbe che entrambe
cominciassero a dedicarsi anche all’ottimo e non solo al massimo.
Allora, io credo che tutto debba essere impresa sociale al mondo? Ma per l’amor di Dio!
Tanto meno non tutto cooperativo! Credo che però il mondo abbia bisogno di un mix di
cose, che ci sono cose che vanno fatte da impresa sociale, perché bisogna massimizzare
il risultato sociale e cose invece in cui bisogna massimizzare il risultato economico. E’ solo
definendo chiaramente le finalità che si può ad esempio parlare con compiutezza di
efficienza.
Torna qui la questione della parola interesse. L’etica dell’interesse – altra distorsione degli
ultimi cento anni – è stata letta come radicalmente distinta dall’etica del dono. Non è vero!
c’è un tempo per ogni cosa. L’etica dell’interesse non è alternativa all’etica del dono. E’
come con i bambini, non è bene (il loro bene) riempirli di regali, tanto meno di caramelle.
Se provassimo a spingere un po’ più in concreto la tesi ci potremmo chiedere quali
saranno i soggetti di questa economia civile, di questa democrazia partecipativa, di questo
welfare di comunità e cittadinanza? Mi immagino forme molto diverse da loro: già oggi
parlare, per esempio, di cooperazione sociale in astratto non ha più molto senso, perché la
scatola di per sé non garantisce la finalità. Forme diverse ma con alla base alcuni elementi
comuni: da un lato il saper fare della comunità e dei luoghi elementi della propria missione
non solo identitaria, ma di costruzione della storia di impresa, dall’altro la capacità di
costruire e mettersi in rete. Infine, dovranno avere la consapevolezza di essere soggetti
politici. Perché mettere al centro del proprio operare la persona, la gratuità, l’interesse
comunitario e dell’ambiente, la bellezza è un atto politico.
Sarà una realtà fatta sempre più da donne, perché avrà bisogno di intuitività e non soltanto
di razionalità analitica, di composizione attraverso i paradossi. Continuerà ad avere una
spinta giovanile. Ma si creerà, grazie al contributo di chi oggi è già attivo, un’area di
anziani in grado di accompagnare con saggezza questa energia giovane. E sarà un
mondo, inevitabilmente, sempre più multiculturale.
Conclusioni
La crisi del welfare, se ben interpretata, è un opportunità di crescita civile, se male
interpretata, può provocare molti danni.
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Ma per farcela occorrono una pluralità di esperienze che siano in grado insieme di
immaginarsi una possibilità di vita migliore. Frammenti che diano e si diano fiducia, capaci
di una visione comune. Si può vivere meglio di così? Io credo di sì.
Forse è questo il compito di una generazione che non consegnerà complessivamente una
condizione di vita materiale quantitativamente superiore alla propria ai propri figli. Forse è
il caso che si impegni a formulare e fare esperienza già da ora di percorsi di vita
qualitativamente diversi. Anche questa potrebbe essere una buona eredità da lasciare.
Fosse anche per riconoscenza con le generazioni che ci hanno preceduto abbiamo il
dovere di provarci.
Concludendo torniamo quindi da dove abbiamo cominciato, con la speranza di aver
portato qualche elemento utile alla coscienza comune su questi temi. Per osare sono
necessari pazienza , coraggio e credo anche un po’ di ironia e di autoironia. Come ci
suggerisce questa breve storiella finale.
“Tre saggi decisero di intraprendere un viaggio poiché anche se nel loro paese erano
considerati sapienti, erano abbastanza umili da sperare che viaggiare avrebbe aperto le
loro menti. Avevano appena attraversato il confine di un paese limitrofo, quando videro da
lontano un grattacielo. Si chiesero che cosa mai potesse essere un oggetto tanto enorme.
La soluzione più ovvia sarebbe stata quella di andare a vedere di persona, ma ciò avrebbe
potuto essere pericoloso: se fosse scoppiato appena si fossero avvicinati? In ogni caso
era più saggio stabilire prima di cosa si trattava. Furono avanzate, esaminate e confutate,
in base all’esperienza passata di ognuno di essi, numerose teorie. Alla fine fu stabilito,
sempre sulla scorta delle loro conoscenze precedenti che erano assai vaste, che l’oggetto
in questione, qualsiasi cosa rappresentasse, non poteva essere stato collocato lì se non
da un gigante. Da tutto ciò trassero la conclusione che sarebbe stato più prudente stare
alla larga da quel paese. Così ritornarono in patria con un elemento nuovo da aggiungere
al loro corredo di esperienze.”3
3 Tratto da “La preghiera della Rana” di Anthony de Mello. Ed Paoline.