La rassegna stampa diOblique - Oblique, artigianato per l ... · – Natalia Aspesi, «New York,...

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La rassegna stampa di dal primo al 30 settembre 2010 O blique «Vorrei anche scrivere una biografia di Baudelaire, ma non ho trovato un editore americano che sappia chi sia» Edmund White Vito Mancuso, «Cari amici di Mondadori, preferisco la giustizia» la Repubblica, 3 settembre 2010 3 Maurizio Ferraris, «Il Canone post occidentale» la Repubblica, 4 settembre 2010 5 Andrea Inglese, «La vera alternativa è l’autoproduzione» il manifesto, 5 settembre 2010 7 Antonio Carioti, «Ebook, l’editore cambia mestiere» Corriere della Sera, 6 settembre 2010 9 Natalia Aspesi, «New York, White e gli anni Sessanta: “La nostra rivoluzione tra sesso e arte”» la Repubblica, 9 settembre 2010 11 Luigi Mascheroni, «Libri pochi, slogan molti» il Giornale, 13 settembre 2010 13 Massimo Novelli, «Tolgo all’Einaudi gli scritti di Mila» la Repubblica, 14 settembre 2010 15 Stefano Montefiori, «Ho fatto i conti con mio padre» Corriere della Sera, 18 settembre 2010 16 Sigmund Ginzberg, «Quel gran parlare di morti» Il Foglio, 18 settembre 2010 19 Maria Grazia Ligato, «Sono una scrittrice da bar» Io Donna, 18 settembre 2010 22 Maria Grazia Ligato, «Piccoli capolavori nati all’osteria, sul treno dei pendolari, al pub o al fast-food...» Io Donna, 18 settembre 2010 24 rs_settembre2010:Layout 1 07/10/2010 13.40 Pagina 1

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La rassegnastampa di

dal primo al 30 settembre 2010Oblique

«Vorrei anche scrivere una biografia di Baudelaire,ma non ho trovato un editore americano che sappia chi sia»

Edmund White

– Vito Mancuso, «Cari amici di Mondadori, preferisco la giustizia»la Repubblica, 3 settembre 2010 3

– Maurizio Ferraris, «Il Canone post occidentale»la Repubblica, 4 settembre 2010 5

– Andrea Inglese, «La vera alternativa è l’autoproduzione»il manifesto, 5 settembre 2010 7

– Antonio Carioti, «Ebook, l’editore cambia mestiere»Corriere della Sera, 6 settembre 2010 9

– Natalia Aspesi, «New York, White e gli anni Sessanta: “La nostra rivoluzione tra sesso e arte”»la Repubblica, 9 settembre 2010 11

– Luigi Mascheroni, «Libri pochi, slogan molti»il Giornale, 13 settembre 2010 13

– Massimo Novelli, «Tolgo all’Einaudi gli scritti di Mila»la Repubblica, 14 settembre 2010 15

– Stefano Montefiori, «Ho fatto i conti con mio padre»Corriere della Sera, 18 settembre 2010 16

– Sigmund Ginzberg, «Quel gran parlare di morti»Il Foglio, 18 settembre 2010 19

– Maria Grazia Ligato, «Sono una scrittrice da bar»Io Donna, 18 settembre 2010 22

– Maria Grazia Ligato, «Piccoli capolavori nati all’osteria, sul treno dei pendolari, al pub o al fast-food...»Io Donna, 18 settembre 2010 24

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Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali tra il primo e il 30 settembre 2010. Impaginazione a cura di Oblique Studio.

– Tiziano Modesti, «Se l’editore racconta lo scrittore...»Il Secolo d’Italia, 19 settembre 2010 26

– Luca Mastrantonio, «Calvino, uno zeus snob nel Pantheon editoriale»il Riformista, 19 settembre 2010 28

– Angelo Aquaro, «La guerra del re dei libri per salvare Barnes & Noble»la Repubblica, 20 settembre 2010 31

– Silvia Bergero, «Credetemi, domani è un altro giorno»Grazia, 20 settembre 2010 33

– Maria Giulia Minetti, «John Irving: “Racconto la Frontiera come se fossi Sofocle“»La Stampa, 21 settembre 2010 34

– Cesare Martinetti, «Chi ha paura della libertà di Mondadori?»La Stampa, 24 settembre 2010 36

– Annarita Briganti, «Spaini, il re del castello di carta che si batte per i piccoli editori»la Repubblica, 24 settembre 2010 38

– Emanuela Audisio, «La crisi di Belgioioso: “Addio festival“»la Repubblica, 28 settembre 2010 39

– Tommy Cappellini, «L’ebook? Svuoterà le tasche degli scrittori»il Giornale, 30 settembre 2010 40

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Giornali, tv, non vi è stato mezzo di comunicazioneche non abbia ripreso e alimentato il dibattito svilup-patosi in seguito al mio articolo del 21 agosto «Ioautore Mondadori e lo scandalo ad aziendam».Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in meritoalla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata,facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sullemontagne russe della psiche col passare da coscien-za profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso aipocrita opportunista. Su quest’ultimo aspetto nonho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo diindividui così incapaci di prescindere dall’ego e con-centrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati aconcepire che qualcuno faccia qualcosa senza voler-ci guadagnare. Molto più interessante è la dimensio-ne oggettiva della questione, che ritengo di poterriassumere come segue.1. Esistenza del problema: il problema da me solleva-to esiste, non è per nulla nuovo perché risale al 1993cioè a quando il proprietario della Mondadori entròin politica, e spesso riaffiora come i sintomi di unamalattia non curata. Persino i giornali e le tv (Tg1)che ne hanno sostenuto l’inesistenza in realtà colloro zelo hanno confermato che esiste, perché non sidedicano pagine e minuti preziosi a un falso proble-ma. Si fa così solo con un problema vero di cui sivuole sostenere capziosamente la falsità.2. Essenza del problema: nella sua specificità il pro-blema consiste in quell’immenso agglomerato dipotere che (caso unico in Occidente) fa capo all’at-tuale premier e che genera il nodo da tutti conosciu-to come «conflitto di interessi». Se il GruppoMondadori non fosse «sua» proprietà, la discutibilelegge ad aziendam voluta dal «suo» governo rientre-rebbe al massimo nelle normali pressioni che le sin-gole lobby esercitano in ogni democrazia di libero

mercato. Purtroppo però la proprietà del GruppoMondadori e la guida del governo coincidono, il checonduce chi riflette in modo disinteressato a nonpoter evitare di associare la legge di cui ha beneficia-to il «suo» gruppo editoriale (pagando solo 8,6 milio-ni invece di 350) alle altre leggi ad personam finoravolute dal «suo» governo, compresa la legge-bavagliocontro la libertà di stampa e il progetto di legge sulprocesso breve.3. Prospettive di soluzione del problema: EugenioScalfari (le cui parole affettuose ricambio con grati-tudine) affermava in risposta al mio articolo che ilproblema «si combatte politicamente». È vero, ma mipermetto di replicare che la politica, come l’esseresecondo Aristotele, «si dice in molti modi», non tuttiriservati ai politici di professione. Uno di questi modiè la pubblicazione che, come dice la stessa parola, èun gesto pubblico, spesso non privo di risvolti politi-ci e mai privo di risvolti economici, soprattutto perautori da primi posti della classifica vendite.

In questa prospettiva io chiedo due cose: A) l’au-tore ha il dovere di verificare la correttezza etica (enon solo giuridica) del proprio editore? B) l’autore hail dovere di chiedersi quali investimenti sostiene conil profitto da lui generato?

A entrambe le domande si può rispondere di no,che un tale dovere dell’autore non c’è, sostenendo daun lato che l’autore si deve preoccupare solo dellalibertà di esprimere le proprie idee, del prestigio delcatalogo, della professionalità dei funzionari edito-riali e basta, e dall’altro lato che ciò che conta per luiè unicamente la capacità di promozione, distribuzio-ne e vendita dell’editrice alla quale affida il suo testo.Molti degli autori del Gruppo Mondadori intervenutia seguito del mio articolo hanno sostenuto in parte oper intero queste prospettive, compresi Eugenio

CARI AMICI DI MONDADORI,PREFERISCO LA GIUSTIZIA

Vito Mancuso, la Repubblica, 3 settembre 2010

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Scalfari, Corrado Augias e Adriano Prosperi. Mentrenessuno si è posto la domanda B, nella risposta alladomanda A Scalfari ha distinto gli attuali dirigentiche guidano l’Einaudi dalla proprietà da cui i mede-simi dirigenti dipendono, Augias ha dichiarato che ilsuo rapporto con la Mondadori «non è con unamarca ma con uomini», Prosperi è stato duro giun-gendo a negare la stessa pertinenza del problema:«Mettersi ad aprire una discussione in termini moral-editoriali lascia il tempo che trova».

Io non sono d’accordo. Io penso che discutere pub-blicamente delle pubblicazioni sia qualcosa di moltoutile se non un dovere, e penso che alle due doman-de poste sopra si debba rispondere con un netto sì:l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza eticadella sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo)e si deve chiedere a quali investimenti contribuiscecon il profitto generato dalle vendite delle sue opere.Naturalmente mi posso sbagliare, posso essere inge-nuo e mancare di realismo, ma questo è il mio pen-siero. Il quale ritengo valga soprattutto per quegliautori che scrivono di etica, di politica, di filosofia eche sono giunti grazie al valore del proprio lavoro avedersi riconosciuto il ruolo pubblico di «intellettua-li», svolgendo così un compito abbastanza delicatoverso la società.

Penso sarebbe auspicabile che tutti gli autori fos-sero attivi nel cercare di arginare l’immenso conflit-to di interessi del quale da quasi un ventennio tuttinoi italiani (di destra, di centro, di sinistra non

importa) siamo prigionieri, ma so bene che non tuttipossono sempre permettersi questa battaglia, per-ché esprimere pubblicamente il proprio pensiero èun privilegio abbastanza raro. Primum vivere deindephilosophari, questa antica massima di saggezzavale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe. Perquanto mi riguarda poter esprimere liberamente ilmio pensiero coincide con la possibilità di «combat-tere la buona battaglia», per riprendere la celebreespressione di san Paolo. Naturalmente non condan-no nessuno né chiamo nessuno a crociate, mi per-metto solo di dire che provo ammirazione per tuttiquegli intellettuali che, potendo permetterselo, evi-tano di contribuire con i proventi delle loro opere afinanziare quel conflitto di interessi che è «la madredi tutti i problemi». Sono consapevole altresì cheognuno si sceglie le battaglie ideali come megliocrede e io non intendo insegnare nulla a nessuno,tanto meno alle insigni personalità che in questoarticolo ho chiamato in causa, cerco solo di dare ilmio contributo perché l’Italia possa un giorno nonessere più il paese dei furbi. Quando avrò concluso ilvolume per il quale ho un contratto in essere con laMondadori tirerò le logiche conseguenze di tuttoquesto ragionamento, come lo stesso farò per unpiccolo saggio che avrei dovuto consegnare entrodicembre all’Einaudi per un volume a più autori acura di Gustavo Zagrebelsky. Ai cari amici che ho inMondadori ai quali mi legano stima e affetti incan-cellabili ho scritto ieri: «…magis amica iustitia».

Oblique Studio

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«...l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza etica della sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo)

e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere»

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Se novant’anni fa Spengler parlava con toni da trage-dia di Tramonto dell’Occidente, da qualche decennio sisente più spesso parlare di fine del Canone Occidentale,cioè del corpus di testi a cui l’Occidente ha affidato lapropria identità culturale. Il che può sembrare menograve, ma sicuramente fa riflettere, perché non potersipiù riferire a Omero e a Shakespeare, non possedereuna koiné condivisa, rende difficile l’intesa, tra gli indi-vidui e tra le culture.

Questo, secondo me, e non il primato culturale delMaschio Bianco che ne sarebbe il principale produt-tore e destinatario, costituisce il vero argomento afavore del Canone Occidentale.

I confini del Canone sono vaghi, anzitutto per viadi quel riferimento all’Occidente che, molte volte,quando è scritto con la maiuscola non ha a che farecon la geografia, ma con la storia.

L’idea (che dai Greci arriva sino a noi) è che, pro-prio come il sole sorge a Oriente e tramonta inOccidente, così anche la storia universale inizia inOriente e si compie in Occidente proponendo unaciviltà sempre perfezionata e sempre più esemplare,cioè valida per tutti. Che l’Europa – come volevanoHerder e Hegel – sia davvero l’ultimo Occidente èmateria a dir poco controversa, se non altro perché laterra è rotonda, e che davvero la storia si compia inqualche preciso momento è discutibile, visto che iltempo ha la caratteristica di scorrere. Per cui deter-minare l’Occidente Assoluto, o parlare di Fine dellaStoria significa esporsi a facili smentite, come è acca-duto qualche anno fa a Fukuyama, peraltro un ame-ricano di origine giapponese, cioè uno che per Hegelo Herder non avrebbe mai potuto esistere.

Per ora, dunque, la storia non è finita, e con lei nonè finito neanche l’Occidente (e le sue nozioni correlate),che si è rivelato capace di subire mutazioni genetiche

esattamente come i virus. Si pensi alla espressione «cor-tina di ferro». Molto spesso si legge che è stata conia-ta da Churchill in una conferenza del marzo 1946, masi dimentica che il primo a parlare di «cortina di ferro»era stato Goebbels, in un articolo del febbraio 1945,prospettando le sciagure che si sarebbero abbattutesull’Occidente in caso di vittoria sovietica. Malgradol’origine imbarazzante, per più di quarant’anni si èandati avanti con quella cortina che faceva iniziarel’Oriente in piena Berlino, proprio al di là diCheckpoint Charlie, ossia in quello che, per Hegel, erail luogo in cui si compiva la storia universale comestoria occidentale.

Si sarebbe detto che con la fine della contrapposi-zione tra i blocchi questa valorizzazione contrastivadell’Occidente sarebbe finita, ma non è stato così,perché anche la reazione all’11 settembre si è presen-tata come una lotta tra Oriente e Occidente, in cuiperaltro succede che il Marocco si trovi a Oriente el’Australia a Occidente. Attenzione, però: l’idea sisalva, ma perde smalto. Basti dire che la lotta è stataessenzialmente militare, e perdente, il che non devestupire, nel momento in cui, per esempio, in Australial’attrazione dei valori occidentali è in declino, per nondire di ciò che accade nelle élite non occidentali.

In tutto questo che accade al Canone? Qui il pro-cesso è un po’ diverso, perché il Canone è fatto dilibri, cioè di cose molto meno vaghe dell’idea diOccidente. All’inizio i libri sono pochissimi, Omero eEsiodo, poi si aggiungono i tragici, i lirici, gli storici, ifilosofi, e quindi la Bibbia e poco più. Quando ilCanone diventa un po’ troppo grande, ci pensa la crisipolitica e culturale del passaggio dall’antichità alMedio Evo a selezionarlo, e così la biblioteca diMontaigne si coglie in un solo colpo d’occhio.Dunque, relativamente pochi libri, i classici, ma noti a

IL CANONE POST OCCIDENTALELa nostra identità culturale si è fondata per secoli su una lista di autori classicicondivisa da tutte le élite. Ora ogni certezza è perduta: Europa e Usa non sono piùcentrali, l’Asia e l’Africa irrompono sulla scena, si moltiplicano i volumi e le lette-rature. Ma forse è possibile non rassegnarsi a una notte hegeliana in cui tutti i librisono grigi e creare una gerarchia nella biblioteca della contemporaneità

Maurizio Ferraris, la Repubblica, 4 settembre 2010

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«...non potersi più riferire a Omero e a Shakespeare, non possedere una koiné condivisa,

rende difficile l’intesa, tra gli individui e tra le culture»

tutti quelli che appartenevano a una classe, ristrettama ubiqua. La citazione di Persio o di Ovidio potevaessere colta dagli aristocratici russi come dagli scien-ziati inglesi, dai filosofi tedeschi o dai gesuiti polac-chi. Certo, già alla fine del Seicento, con la disputa tragli Antichi e i Moderni, si sono aggiunte altre opere,e nel Settecento le enciclopedie si sono propostecome riorganizzazione del Canone. L’accelerazionedecisiva, però, ha avuto luogo con lo sviluppo dell’in-dustria culturale, con l’arrivo di cinema, radio, televi-sione e computer.

Ancora alla fine dell’Ottocento Mallarmé potevascrivere, sia pure in una poesia: «La carne è triste,ahimè! E ho letto tutti i libri». Cosa gli sarebbe succes-so se si fosse fatto un giro su internet? Si sarebbeaccorto che di libri da leggere gliene restavano tantis-simi, per non dire dei testi che non hanno più la formadel libro. Chi si leggerà tutta quella roba? E come sitrasmetterà ai posteri quell’ammasso di file e di cartemescolato con caroselli, film, mp3, dvd e loro succes-sori? Certo, si possono ipotizzare radicali (e, comeabbiamo visto, tutt’altro che implausibili) rivolgimentigeopolitici, e in questo caso il problema non si pone:tutto scompare, o vivacchia in forma ridotta e margi-nale, in un mondo in cui la parola «Occidente» non dicepiù niente a nessuno, o è una semplice sopravvivenzastorica per quei pochi a cui la parola «storia» diceancora qualcosa. Ma se queste trasformazioni trauma-tiche non dovessero aver luogo, o non avvenissero cosìrapidamente, il Canone potrebbe semplicemente

implodere, per inflazione e obesità, nell’epoca in cuiognuno ha i suoi quindici minuti di celebrità suYouTube. Di fronte a una simile prospettiva, potremmoimmaginare due finali per tutta questa storia.

Il primo è che il Canone si particolarizzi, si regio-nalizzi, si moltiplichi in una miriade di sub-canonieffimeri e locali, al limite puramente individuali, checomporterebbe il venir meno della stessa idea di«Canone». Non credo che si debba valutare questaeventualità come il male assoluto, all’umanità puòaccadere di peggio. Di certo però sarebbe una cata-strofe in senso tecnico ed etimologico, ossia, nelgreco di Aristotele, una katastrophé, il rovescia-mento o la rivoluzione radicale che pone fine aldramma. Personalmente preferisco immaginare unaltro finale, meno fatalistico, e in cui gli uomini dicultura, le scuole e le università possano giocarequalche ruolo. In questo happy ending il Canoneriesce a rinnovarsi. Non certo attenendosi a unalista volenterosa e un po’ velleitaria di libri da nonperdersi, a meno che per qualche calamità docu-mentale non si salvino, per avventura, solo quelli.Ma, piuttosto, accogliendo nuovi titoli, e facendo sìche diventino canonici quanto Omero eShakespeare. Ossia che risuonino nei nostri discorsie nei nostri pensieri, o, mal che vada, che sianoconosciuti da tutti, magari più per sentito dire cheper frequentazione diretta, che è il segno inconfon-dibile del Classico, dell’autore orgogliosamenteentrato nel Canone Occidentale.

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Il grande tema di fine estate («Scrittori e lettoriMondadori: che fare?»), capace di suscitare massiccediscussioni in Rete e sulla carta stampata, non è certonuovo né scoperto da Vito Mancuso. Difficile, certo,definirlo questo tema, che deve la sua forza catalizza-trice forse al suo carattere ambiguo: questione politi-ca, etica, letteraria, o di costume? Di certo, questavolta, esso ha suscitato prese di parola da parte deipiù diversi e autorevoli tra scrittori, critici, intellettua-li, oltre che da parte di una combattiva popolazione dicommentatori in Rete. Nonostante alcuni effetti dispossante monotonia, sono state dette, in tale occa-sione, anche cose interessanti, intelligenti, a volte per-sino molto divertenti (la scena di Luca Casarini accol-to a Segrate rimarrà memorabile, quanto i primi passidi Marcel nel salotto dei duchi di Guermantes).

Sacrificando molte sfumature, verrebbe da direche il dibattito ruota sull’opportunità o no di boicot-tare da parte di scrittori ad essa affiliati la casa edi-trice Mondadori. Alcuni si spingono a sostenere unboicottaggio nei confronti di ogni prodotto editoria-le Mondadori (purché il consiglio di classe del lorofiglio non adotti il libro di matematica o italiano diuna casa editrice scolastica facente capo a Segrate!).Se si parla di boicottaggio, si parla di una campagnapolitica. Un boicottaggio, per avere senso, deve darsidegli obiettivi pratici, ben definiti e ad esso adeguati.

Immagino io, che se si lancia una campagna controla Mondadori, essa fa parte della più ampia battagliapolitica che una fetta importante di italiani ha ingag-giato contro il governo e la politica di SilvioBerlusconi, una battaglia che ha un chiaro obiettivo:non farlo rieleggere, sottrargli quei poteri politici chegli permettono, ad esempio, di creare leggi per depe-nalizzare frodi fiscali che qualche sua azienda hapotuto o potrebbe realizzare. Questa battaglia politica

si può concretizzare di volta in volta in campagnespecifiche: la campagna per il ritiro della legge-bava-glio, la campagna contro i tagli alla scuola e alla ricer-ca universitaria proposti dalla riforma Gelmini, e cosìvia. Di ogni campagna politica, così come della batta-glia più generale in cui essa confluisce, si può chiara-mente dire: 1) se abbia raggiunto o meno i suoi scopi;2) se abbia adottato o meno le forme più efficaci eadeguate per essere perseguita. Quali sono gli scopiverosimili, plausibili, di una campagna per il boicot-taggio della Mondadori propugnata da autori che,fino a ieri, erano nel suo catalogo? L’indebo limento(magari il crack) dell’impero economico di Berlusconi?Ma il rendere Berlusconi un po’ meno ricco non sem-bra un obiettivo politico, a meno di immaginare che lepressioni esercitate dalla campagna di boicottaggiosu una delle sue aziende non lo inducano ad abban-donare il governo o a cambiare politica. Tatticaalquanto tortuosa e, date le circostanze, poco realisti-ca nei suoi esiti.

Ma qualcuno dirà che, in effetti, non si tratta diuna campagna politica, bensì di una campagnamoralizzatrice. Non contano più gli obiettivi concre-ti, conta la capacità degli autori Mondadori di faredei gesti esemplari, che hanno valore in sé, in quan-to testimoniano di un’opposizione intransigente,capace di giungere sino al sacrificio di vantaggimateriali. Qui sembra che il nemico non sia piùBerlusconi, ma «il berlusconismo», ossia il latoBerlusconi di ognuno di noi. Il significato di unacampagna moralizzatrice è grosso modo questo: seBerlusconi ha vinto è perché tutti noi (elettori omeno di Berlusconi) abbiamo ceduto al «berlusconi-smo». Qui siamo passati, però, dalla battaglia politica(non fare rieleggere Berlusconi, bloccare i provvedi-menti del suo governo) a una battaglia culturale

L A V E R A A LT E R N AT I VAÈ L’ A U T O P R O D U Z I O N E

Andrea Inglese, il manifesto, 5 settembre 2010

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(cacciare fuori dalla nostra pelle e dalle nostre mentiil «berlusconismo»). Ma che cos’è questo «berlusconi-smo»? Non è la forma propriamente italiana, quellapiù aggiornata, della mercificazione sempre più este-sa della vita che tutti i paesi del capitalismo avanza-to conoscono? O meglio, il «berlusconismo» non è cheuno dei nomi di questa cultura da tutti condivisa –una volta si diceva «ideologia dominante» – in quan-to essa, nonostante le differenze negli stili di vita, hapermeato la nostra formazione o il nostro invecchia-mento sociale sia a destra che a sinistra. Non siamotutti quanti a bagno nella merce, sia essa solida odigitale, in forma di beni o di servizi? Così va il nostromondo, nell’epoca in cui siamo venuti al mondo. Equesto non significa certo né che questa cultura deltardo capitalismo sia l’unica cultura di riferimento néche sia impossibile, per noi che vi siamo nati inmezzo, sottoporla a critica anche radicale.

Se comunque è questa la battaglia culturale in cuisiamo ingaggiati, è evidente che è altamente difficiledefinire obiettivi circoscritti e verificabili. A questopunto diventa arduo decidere se sia più opportuno edefficace, per uno scrittore, realizzare la sua battagliacontro la mercificazione abbandonando la casa editri-ce Mondadori o scrivendo per la Mondadori un libroche manifesta, nell’onda lunga della ricezione, altrivalori, altre possibilità di vita più degne e umane diquelle offerte dalla società presente. L’esemplarità

riguarda sia il gesto concreto di un individuo, alcospetto del gruppo sociale che ne legge il senso, sia ilmessaggio complesso e stratificato di un testo lettera-rio che agisce sulla visione del mondo di ogni lettore.

Molti scrittori, intervenuti nel dibattito in corso, sisono mostrati convinti, pur in maniera diversa, cheboicottare la Mondadori non è un passo decisivo nellabattaglia culturale per una società meno mercificata.(L’argomento più sensato fatto al riguardo segnala glisvantaggi di un tale atteggiamento: accelerare unprocesso di omogeneità ideologico-culturale forse giàavviato ai vertici dell’azienda.) Io aggiungerei unacosa soltanto. Boicottare l’editoria capitalista sarebbeun passo decisivo in questo senso, dedicandosi intera-mente a forme di editoria digitale autoprodotta efinanziata da lettori altrettanto impegnati in tale boi-cottaggio. Se esistono scrittori che hanno convinzio-ni anticapitalistiche radicali, essi senz’altro starannobattendo questa strada. Un gesto davvero utopico e disfida non potrà limitarsi, per chi è un autore noto, alpassaggio da un’azienda del capitalismo tracotantead un’azienda del capitalismo temperato. Dove sta-rebbero, in tal caso, il coraggio e il sacrificio esempla-ri? Che un autore da 50 mila copie decida di autopro-dursi il proprio libro in Rete, finanziandosi con unasottoscrizione di lettori, questo sì che sarebbe ungesto capace di scuotere le coscienze e di sconvolge-re le odierne pratiche editoriali.

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«Che un autore da 50 mila copie decida di autoprodursi il proprio libro in Rete,finanziandosi con una sottoscrizione di lettori, questo sì che sarebbe un gestocapace di scuotere le coscienze e di sconvolgere le odierne pratiche editoriali»

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Nulla sarà più come prima per l’editoria con la rivolu-zione digitale. Tra gli addetti ai lavori è diffusa la con-sapevolezza che, come osserva Paolo Zaninoni, diret-tore editoriale di Rizzoli, «entriamo in una fase disperimentazione ricca d’incognite». A suo avviso peròè anche un ritorno all’antico. «Bisogna recuperare»sostiene Zaninoni «il ruolo creativo che l’editore avevauna volta e si era in parte smarrito con il prevalere dilogiche industriali. Con l’ebook ridiventa prioritaria laricerca del talento e della qualità, mentre perdonoimportanza obiettivi come stampare più in fretta,distribuire in modo rapido e capillare, riempire gliscaffali dei rivenditori. L’editore del futuro sarà unproduttore di contenuti declinati in forme diverse,non più soltanto testuali. Ad esempio con Dada, unasocietà della Rcs specializzata in multimedialità, svi-lupperemo un’applicazione per iPad con i contenutidelle Storie della Bibbia, un’opera che abbiamo realiz-zato con i migliori disegnatori di libri per ragazzi». Trai meglio piazzati in fatto di ebook c’è il gruppo Giunti:«Abbiamo un catalogo digitale di un centinaio di tito-li» spiega il vicepresidente Bruno Mari «e contiamo disuperare i 700 entro la fine dell’anno. Siamo partiti inanticipo perché crediamo che sia in corso una trasfor-mazione profonda. Nel 2009 si diceva che ci sarebbe-ro voluti dieci anni perché l’ebook raggiungesse unaquota del 10 per cento del mercato. Oggi nessunoripeterebbe una valutazione così limitativa. Mal’aspetto più interessante è la possibilità di organizza-re nuovi formati editoriali, disponibili su supportimobili agevolmente trasportabili, che offrano gli stes-si contenuti complessi del volume di carta, ma concaratteristiche di ipertestualità, multimedialità e inte-rattività. Per esempio noi stiamo lavorando a unaguida turistica di Roma per smartphone con tutti icontenuti di quella classica del Touring Club, più

diverse opportunità multimediali e interattive. Tutto ilsettore della manualistica si presta a un numero scon-finato di applicazioni. Di fatto dovremo imparare unaltro mestiere».

Un compito non facile, secondo Ernesto Ferrero,direttore del Salone del libro di Torino: «Ho coltonotevoli preoccupazioni tra gli operatori perché l’av-vento dell’ebook tende a conferire un’assoluta liber-tà di manovra agli autori di bestseller. Se gli scrittoripiù redditizi potranno gestirsi da soli, come ha pro-spettato in America Andrew Wylie, instaurando unrapporto diretto con la distribuzione per via telema-tica, gli editori si vedranno sottrarre una parte consi-stente dei loro guadagni».

Tuttavia Gian Arturo Ferrari, presidente del Centroper il libro del ministero dei Beni culturali, invita adiffidare degli scenari apocalittici: «Al momento ilbusiness dei libri riguarda in larghissima prevalenzala carta e lo scenario non cambierà a breve termine,diciamo per i prossimi cinque anni. Però si avvicinauna radicale trasformazione, nella quale il ruolo deglieditori non verrà meno, ma sarà insidiato da altrisoggetti come gli attori della tecnologia e gli agentiletterari. La funzione mediatrice tra chi crea e chifruisce della creazione non scomparirà, anzi verràesaltata dall’aumento della complessità, ma bisognavedere come cambierà. Ci attende una fase di transi-zione che va affrontata senza troppa paura. Anche ilpericolo della pirateria digitale nel campo dei libri,che qualcuno paventa indicando l’esempio dellamusica, mi sembra lontano finché il mezzo elettroni-co resta minoritario in fatto di consumo dei libri».

Il problema però, sottolinea Riccardo Cavaliero,direttore generale di Mondadori Libri Trade, va oltre ilpassaggio dalla carta ai bit: «In realtà l’ebook è un sin-golo aspetto di una rivoluzione nella quale a divenire

EBOOK,L’EDITORE CAMBIA MESTIERE

«Una nuova missione per riscoprire il nostro ruolo creativo»

Antonio Carioti, Corriere della Sera, 6 settembre 2010

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uno spettacolo teatrale da cui si può trarre un dvd ecosì via».

Più scettico Elido Fazi, fondatore dell’omonimacasa editrice: «L’ebook sembrava all’ordine del giornogià nel 2000. All’epoca creai una società, Libuk, chedoveva curarne lo sviluppo, ma non ebbe alcun suc-cesso e ho finito per cederla. La rivoluzione digitalenel campo dei libri sarà epocale, ma in Italia e inEuropa, rispetto ai ritmi incalzanti degli Stati Uniti,avrà uno sviluppo molto più lento. In ogni caso èsbagliata l’idea di Wylie che gli agenti letterari possa-no scavalcare gli editori e vendere direttamente sulweb le opere dei loro autori in formato ebook. Questopuò valere per libri già lanciati o di personaggi famo-si. Non certo per le novità».

Intanto nell’era della virtualità, l’editore Mursia hacercato il contatto fisico con il lettori, girando con lalibreria mobile Passpartù: «Andare controcorrente»nota la presidente Fiorenza Mursia «è un po’ unanostra caratteristica. Le nuove tecnologie rendonopiù facile confezionare libri e c’è il rischio che idistributori online tendano a rubare il mestiere comefanno le catene di supermercati, che mettono invendita pasta e biscotti con il loro marchio accantoa quello dei produttori storici. Di fronte alla rivolu-zione digitale non ci si deve preoccupare tanto del-l’ebook quanto del potenziale utente, di quello chepotremmo chiamare e-lettore: chi è, che cosa siaspetta? Per me la priorità è lavorare sul catalogo,puntare sulla riconoscibilità di una linea editoriale. Illibro non è un prodotto standardizzato, perciò lacapacità progettuale dell’editore resta un fattorefondamentale».

digitale non è soltanto il libro, ma soprattutto il rap-porto con il pubblico. Il nostro lavoro consiste semprenell’interagire con comunità di lettori sorte sul web:gruppi in continua trasformazione, poco sensibili allapromozione pubblicitaria o alle recensioni sulla stam-pa. Per l’editore si pone l’esigenza di fornire agli auto-ri un sostegno efficace nello sforzo di comunicare conquesta platea esigente e frammentata. Inoltre diven-ta fondamentale conferire un’identità riconoscibilenon solo ai diversi marchi di un gruppo comeMondadori, ma anche alle singole collane, che devo-no parlare direttamente al pubblico. Ciò esige muta-menti anche nella organizzazione aziendale, che varipensata puntando sulle piccole unità».

Una svolta che Daniele Di Gennaro, fondatore del-l’editrice minimum fax, sostiene di aver anticipato:«Per noi si tratta di proseguire sulla strada che abbia-mo intrapreso sin dal 1992. Abbiamo capito che l’edi-tore non poteva più porsi in modo autoritario, comecolui che cola la cultura dall’alto, ma doveva piuttostomettersi in ascolto, sondare gli orientamenti del pub-blico, cogliere la nascita di nuovi linguaggi, recepire leesigenze manifestate dai lettori e i loro suggerimenti.Il web ha moltiplicato le opportunità e l’ebook è unulteriore passo in avanti. C’è il rischio che si sviluppi lapirateria digitale, ma sarebbe un errore chiudersi a ric-cio. Bisogna invece accettare la sfida e puntare sullaqualità: attraverso la cura della grafica si può fare delvolume cartaceo un oggetto importante, con cui sisviluppa un legame affettivo. E poi occorre esaltarneal massimo le potenzialità, senza paura di contamina-re le forme comunicative: intorno a un buon libro sipuò organizzare un evento, quindi ne può nascere

«Con l’ebook ridiventa prioritaria la ricerca del talento e della qualità, mentre perdono importanza obiettivi come stampare più in fretta,

distribuire in modo rapido e capillare, riempire gli scaffali dei rivenditori. L’editore del futuro sarà un produttore di contenuti declinati in forme diverse,

non più soltanto testuali»

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omosessualità i genitori, gli amici e i colleghi, e cheavesse la percezione di costituire un’unione autentica disentimenti», ricorda lo scrittore: «Ero un gay che non siaccettava e che andava da uno psicoterapeuta conl’obiettivo di guarire e di sposarsi».

Le sue nuove memorie, dal titolo Ragazzo di città(Playground, traduzione di Alessandro Bocchi, pagg.302, euro 18), meno personali e drammatiche di Mylives (pubblicato nel 2007 dallo stesso editore) sono unaffascinante racconto, dagli anni Sessanta all’iniziodegli anni Ottanta, della stagione dei diritti civili, deicortei contro la guerra in Vietnam, del movimento

In quegli anni New York era una città sudicia, degrada-ta e pericolosa, «una discarica a cielo aperto con aspira-zioni artistiche elevate». Ma era anche poco costosa, esoprattutto l’unico rifugio, con San Francisco, dove duepersone dello stesso sesso potevano camminare manonella mano. Chiunque fuggisse da sé stesso e sognassefama e libertà, finiva lì. Ci finì anche, dal Midwest e conuna laurea in cinese, Edmund White; era il 1962, aveva22 anni, era un aspirante scrittore e aveva inseguito aManhattan il ragazzo di cui si era innamorato. «Alloraera rarissimo trovare una coppia di amanti che vivessealla luce del sole, che avesse informato della propria

Natalia Aspesi, la Repubblica, 9 settembre 2010

«LA NOSTRA RIVOLUZIONE TRA SESSO E ARTE»NEW YORK, WHITE E GLI ANNI SESSANTA:

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studentesco più radicale, e soprattutto della vita gay edel suo turbolento mutamento: dalla clandestinità eillegalità, alla rivolta di Stonewall nel 1969 che segnòl’inizio della presa di coscienza anche politica dei gay,alla tragedia dell’Aids, che decretò la fine di quello cheSusan Sontag ha definito «il solo periodo di autenticalibertà sessuale in tutta la storia umana».

Edmund White, oggi settantenne, è l’autore celebra-to di romanzi come Un giovane americano, L’uomosposato, La sinfonia dell’addio e delle biografie diGenet, di Proust e di Rimbaud, premio Mondello 2010(pubblicata da minimum fax); sarà domenica al Festivaldella letteratura di Mantova per presentare il suo libro.Intanto, «da un paese malinconico e desolato delMaine», dice: «Ci sono dei cervelloni che sostengonocome i gay se la passavano meglio in passato, quandovenivano perseguitati, ma non è vero, si tratta di unaposizione crudele e falsa. Non credo ci siano mai statiomosessuali anche molto intelligenti, come Proust, oribelli, come Rimbaud e Genet, che non abbiano soffer-to terribilmente, disprezzandosi e autodistruggendosi.Forse essere giovani negli anni Sessanta, etero o gay,offriva più di oggi l’opportunità di trovare un lavorointeressante, di farsi strada. Come creatura di queitempi, naturalmente preferisco la promiscuità allamonogamia, le avventure sessuali ed emotive alladomesticità, ma mi rendo conto di come l’Aids abbiacambiato i costumi a intere generazioni».

Omaggio a una New York perduta e a un mondointellettuale disintegrato, Ragazzo di città è pieno diincontri importanti e di storie, che oggi chiameremmovolgarmente gossip: da cui risulta che nei tempi dellaclandestinità e della frenetica promiscuità, White, oltrea rimorchiare tutte le sere degli sconosciuti, si portava aletto un gran numero di maschi celebri che si guardava-no bene dal rivelarsi. «Ho conosciuto tanti gay perchéero attratto da loro. Ma c’erano settori della culturamolto omofobici. Per esempio nella corrente dell’Espres -sionismo Astratto, c’erano gay o bisessuali che però sinascondevano. Anche la letteratura era dominata dascrittori ebrei, Roth, Bellow, Malamud, ritenuti omofobi-ci. Le coppie gay erano rare, e comunque negli anniSessanta mi odiavo talmente che guardavo agli amicigay con disprezzo, giudicandoli “ammalati”».

C’è William Burroughs vecchio che gli dice: «Se voglioscrivere di sesso non mi faccio seghe per molti giorni,così sono sicuro di essere arrapato e pronto per descri-vere quello stato». C’è Harold Brodkey dagli innumerevo-li partner sessuali, presuntuoso e dispettoso, che muoredi Aids lo stesso giorno del più famoso poeta russoJoseph Brodsky, che gli sottrae le commemorazioni. C’è

Jasper Johns, che White va a intervistare e che maiparla della sua omosessualità, «ammesso che fossereale», anche se si diceva che fosse stato compagnonegli anni Cinquanta di Robert Rauschenberg. C’èRobert Mapplethorpe che lo corteggia sperando in unarticolo, e che «era interessato al leather, al sadomaso-chismo, alle feci, al dolore, al sangue».

Ma la stella più luminosa del mondo intellettualedi New York era Susan Sontag che, dice White, «èstata una delle persone importanti della mia vita».Anche se, scrive in Ragazzo di città, «disapprovavaquello che era insolito: l’omosessualità, l’ebraismo, lacondizione di afroamericano». Era autoritaria, super-ba, insofferente, avida di riconoscimenti, si puliva identi con le unghie, ma era intelligentissima: «Leavrebbero dovuto dare il Nobel. La cosa l’avrebbe resapiù simpatica».

Per qualche estate degli anni Settanta, invitato daDavid Kalstone, compagno di allora, White ha sog-giornato a Venezia: «Una città unica, ancora piùincantevole di quanto mi aspettassi. Ho avuto la for-tuna di abitare nell’incomparabile palazzo Barbaro, diessere ospite della gondola privata di PeggyGuggenheim». Lui e David frequentavano la piscinadel Cipriani e i suoi vecchi elegantoni, e lì incontra-vano John Hohnsbeen «un bel tipo dell’Oklahoma…che viveva con Peggy e si occupava del museo».Quando lei morì nel 1979, «non gli lasciò nulla tran-ne un disegno di Picasso. I curatori newyorchesi delmuseo si trasferirono a Venezia e trovarono le luma-che che strisciavano sul retro dei dipinti».

Ricco di storie, per non dire pettegolezzi, questo capi-tolo non dice nulla che tra canali e calli non si sappiagià, ma resta particolarmente succulento per noi italia-ni. Testimone di un’epoca che pur dolente, oggi, trasposi e genitori gay, appare romantica e avventurosa,imputa alla chiesa cattolica il fatto che in Italia moltiomosessuali non fanno coming out: «Non credo perfede, ma perché il Vaticano continua ad avere moltopotere sulla vita politica e privata degli italiani. Del restotutte e tre le religioni monoteiste, ebraismo, cristianesi-mo e islam, sono profondamente omofobiche».

Sieropositivo dal 1985 ma in ottima salute, un po’avvilito dagli anni che hanno spento la sua grazia fisi-ca, Edmund White pensa di scrivere un altro libro dimemorie dedicato ai dieci anni vissuti a Parigi, nonappena avrà finito il romanzo non autobiografico, incui racconta dell’amicizia tra due uomini, uno etero euno gay, negli anni Sessanta e Settanta. «Vorrei anchescrivere una biografia di Baudelaire, ma non ho trova-to un editore americano che sappia chi sia».

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Come recita, ripetendosi, uno scontato luogo comu-ne sul festival, «Mantova ha inventato un modelloimitato in tutta Italia». Un modello replicato nelleidee e nei pregi. Ma anche nei limiti e nelle imitazio-ni. Tutta l’Italia alla fine è un grande festival, e tutti ifestival alla fine sono uguali.

Dovrebbero soprattutto far leggere i libri, invecefanno solo parlare gli autori. Dovrebbero aumentaregli spazi della letteratura, invece offrono più spesso ilpalco alla politica. Dovrebbero suggerire nuove idee,invece ripetono vecchie ideologie. L’hanno notato intanti, qui a Mantova. Sono più affollati i dibattiti che

i reading. Hanno più successo i giornalisti dei poeti.Interessa molto di più l’attualità italiana che la nar-rativa straniera. Poche pagine e tanti slogan. Unmenu più politico che letterario: e non si capisce sesia il pubblico a sceglierlo, e quindi l’organizzazione aservirlo, o l’organizzazione a proporlo e il pubblico afarselo andar bene. È quel che passa il momento.

Tanto, il pubblico è ammaestrato e applaude acomando. Se Corrado Augias difende (indirettamen-te) Vito Mancuso e la sua critica alla Mondadori,tutto il Cortile della Cavallerizza batte le mani. SeAntonio Pennacchi gli dà (sempre indirettamente)

LIBRI POCHI, SLOGAN MOLTIIN PIAZZA IL SOLITO SHOW DA CARROZZONE ITINE-RANTE. CHE SENSO HA UNA MANIFESTAZIONE PIENADI OSPITI SOVRAESPOSTI TUTTO L’ANNO? NESSUNO

Luigi Mascheroni, il Giornale, 13 settembre 2010

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dei due giornali più venduti del Paese; gli illusionistiche vogliono convincerti che anche Moccia, laMurgia e la Avallone sono letteratura, quando inve-ce sono solo libri; e poi i soliti nani del pensiero, idomatori di volumi, i clown della scrittura, e le bal-lerine. Perché se porti i tacchi, a Mantova sei troppodi destra. Come la Santanché, «che figurati se leggeun libro».

Maurizio Maggiani, Emanuele Trevi, AntonioFranchini. Già sentito, già letto, già visto. L’unica dif-ferenza è che a Festivaletteratura c’è GustavoZagrebelsky, a Pordenonelegge Natalino Balasso. Nonci rimane che Gianrico Carofiglio. Alla fine, gli uniciscrittori italiani importanti presenti a Mantova eranoquelli morti. Flaiano e la Pivano.

Ma per fortuna ci sono gli stranieri. Solo che aMantova l’incontro con Seamus Heaney è statoannullato, quello con V.S. Nalpaul è stato rovinato equello con Edmund White relegato alle 10 delladomenica mattina in un teatro di periferia.

Ridottisi a periferie del pensiero, in realtà i festivalsono il centro della politica. I predicatori sono sempregli stessi, la linea è quella, e le parole d’ordine identi-che: questa destra è impresentabile, la democrazia èa rischio, qualcuno vuol mettere a tacere Saviano, noinon ci faremo mettere il bavaglio.

E invece vi servirebbe: per pulirvi la bava che avetealla bocca. Che rabbia.

Il festival di Mantova è finito: con il solito «succes-so di pubblico» che spingerà l’organizzazione a «lavo-rare con passione alla prossima edizione». E fanno 15.L’impressione, però, è che il pubblico sia rimasto lostesso della prima. È invecchiato con il festival: tantesignore, pochi ragazzi. Ma tant’è. Chiuso un festival,se ne apre un altro. E per il resto, come impone il piùscontato luogo comune sul festival, «sarebbe ingiustonegare il fascino degli scorci suggestivi di Mantova».

dell’infame, l’intero Teatro Ariston si alza in una stan-ding ovation. Il curioso è che la gente è la stessa. Eanche gli autori, purtroppo.

Mantova smonta il tendone, la compagnia di girosale sui camper e fra tre giorni si fa tappa in Friuli:«Prego Signori, entrino. Benvenuti a Pordenone -legge». Stessi ospiti, stessi libri, stesso pubblico.Stesse idee, perché la fantasia scarseggia ovunque. Esolita campagna elettorale, perché l’antiberlusconi-smo è in servizio permanente effettivo su tutto il ter-ritorio. Che nausea. Partono da Mantova, passano dacasa, e senza disfare neppure la borsa-omaggio condentro la torta sbrisolona e i tratto-pen dello spon-sor, ripartono per Pordenone. Fino a ieri erano qua, dadomani sono là. Sono i pendolari dei festival, gli sta-canovisti del pensiero, i travet della cultura.

Corrado Augias ha presentato l’altroieri il suonuovo libro in uno degli ultimi appuntamenti delfestival di Mantova, e aprirà dopodomani quello diPordenone con una lectio magistralis dal titolo«Perché leggere». Risposta: in effetti non lo so, datoche ti sento tutti gli anni a Mantova, ti leggo ognigiorno su Repubblica e ti vedo tutte le sere da FabioFazio. Che noia che fa. E dopo la A di Augias, anchela B di Belpoliti, la C di Corona, e poi – guarda caso– la neo vincitrice del Campiello Michela Murgia, chea Pordenone ripeterà le stesse indignazioni che hadetto a Mantova, Margherita Hack che rifarà le iden-tiche previsioni catastrofistiche su questa Italiamalata, Antonio Pennacchi che riproporrà l’ennesi-mo show anti-tutto e anti-tutti, e poi l’intero CircoBarnum della Cultura Italiana: i funamboli che pub-blicano per Mondadori, ma sputano in faccia aBerlusconi; i trapezisti che si arrampicano suglispecchi del pericoloso regime berlusconiano, mapotendolo dire in piazze strapiene, ripetendolo inprima serata televisiva e rispiegandolo sulle pagine

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LA VEDOVA DEL MUSICOLOGO: «NON C’È PIÙ SINTONIA,TOLGO I DIRITTI». «NELLA MIA DECISIONE, CHE HO PRESO INQUESTI ULTIMI GIORNI, OLTRE AL MANCATO ACCORDO, HAPESATO ANCHE IL CASO MANCUSO E IL PROBLEMA ETICO»

Massimo Novelli, la Repubblica, 14 settembre 2010

«TOLGO ALL’EINAUDI GLI SCRITTI DI MILA»

state l’occasione «per prendere atto della mancanza disintonia, ormai, tra ciò che ha rappresentato e rappre-senta mio marito e le esigenze e le linee editorialidell’Einaudi di oggi».

Le polemiche sulla legge «ad aziendam» relative algoverno Berlusconi, alla Mondadori e dunque allacontrollata Einaudi, in particolare gli interventi suRepubblica di Vito Mancuso, continua Anna Mila, «mihanno poi confortata, o sconfortata se si vuole, nel-l’idea che, proprio per una ragione etica, non avreipotuto consentire ancora la pubblicazione di un librodi forte impegno morale quale gli Scritti civili. A quelpunto, nonostante la disponibilità della casa editricerispetto alle mie richieste, ho deciso di fare una scel-ta». In un suo promemoria sulla vicenda, non a casoha appuntato una citazione riportata negli Scritti civi-li. E quando Mila, nel gennaio del 1946, scriveva su G.L. il quotidiano di Giustizia e Libertà: «Cultura ed arte,per lo più, intisichiscono quando non sono sorrette dauna intensa partecipazione umana agli interessi poli-tici e civili del loro tempo. […] Ma questo impegno è ilpunto di partenza, non un punto d’arrivo».

Ernesto Franco, direttore editoriale dell’Einaudi, haespresso in una lettera, in questi giorni, il suo dispia-cere per la decisione di Anna Mila, affermando direndersi conto «che le tue scelte sono principalmen-te motivate dalla tua valutazione circa le miglioripossibilità di diffondere e comunicare le opere diMassimo Mila». Tra qualche mese, in ogni caso, loStruzzo stamperà una plaquette numerata e non incommercio, dedicata al lavoro editoriale dello studio-so torinese in occasione dei cento anni della nascita.

Porta la data del 30 agosto scorso, tuttavia le è statarecapitata sabato 11 settembre. È la lettera con cuil’Einaudi, «facendo seguito alle intese intercorse»,conferma ad Anna Giubertoni, vedova di MassimoMila, che l’aveva richiesto, «l’annullamento della ces-sione dei diritti di pubblicazione» (scadevano alla finedel 2012) di dieci libri del critico e musicologo che fuuno dei principali collaboratori della casa editricedello Struzzo. Tra questi vi sono la Lettura del DonGiovanni di Mozart, L’esperienza musicale e l’esteti-ca, la Lettura della Nona Sinfonia, gli Scritti civili,L’arte di Béla Bartók, la traduzione de L’eredità di Guyde Maupassant, gli Scritti di montagna e I quartettidi Beethoven. S’incrina così, dopo oltre mezzo secolo,il rapporto fra l’Einaudi e Mila, cominciato sui banchidi scuola del liceo classico Massimo d’Azeglio diTorino, dove, intorno al magistero e all’amicizia diAugusto Monti, nacque un sodalizio studentescod’eccezione, maturato in seguito nella militanza anti-fascista, che annoverava, oltre al futuro insignemusicologo, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, LeoneGinzburg e Cesare Pavese.

Ci sono diversi motivi all’origine della volontà diAnna Mila Giubertoni di richiedere la piena titolaritàdei diritti di pubblicazione di quelle opere del marito,scomparso nel 1988 e del quale ricorre quest’anno ilcentenario della nascita. La prima riguarda il mancatorispetto da parte dello Struzzo di una serie di clausole,come l’impegno sul numero minimo di copie da ristam-pare, il termine di pubblicazione e la sospensione del-l’uscita di due volumi d’inediti. Ma in realtà, come spie-ga la signora stessa, le difformità contrattuali sono

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«HO FATTO I CONTICON MIO PADRE»

Houellebecq: nel nuovo romanzo la famiglia e la passione per l’arte contemporanea

Stefano Montefiori, Corriere della Sera, 18 settembre 2010

Le proverbiali, lunghissime pause si sono fatte piùbrevi, il sorriso è meno amaro, di sesso non si parla (lasigaretta, quella, non si tocca). Il Michel Houellebecqche ci accoglie nei locali della casa editriceFlammarion in Place de l’Odeon, a Parigi, è uno scrit-tore diverso. Uno scrittore che ha appena ucciso séstesso, almeno nel nuovo La carta e il territorio (cheuscirà in Italia da Bompiani il 29 settembre). È il librodel momento in Francia, primo in classifica e favori-to per il premio Goncourt: la storia dell’ascesa socia-le di un artista, del suo rapporto con il padre e i suoisilenzi, e anche il dipinto di una società, il bilancio

doloroso di un mondo dove «l’amore… l’amore èraro», come Houellebecq fa dire a un certo punto alsuo amico Frédéric Beigbeder. Amato e odiato comeuna rockstar, Houellebecq ha scritto il suo romanzopiù complesso e maturo, forse il più riuscito. Non cisono provocazioni, i tanti temi e registri – dal noiralle gioie di guidare auto tedesche, dal ruolo dell’ar-te al name-dropping, dall’ironia all’accettazione dellamorte – sono tenuti insieme da una nuova, strug-gente malinconia.

Perché inserire Michel Houellebecq nel romanzo?

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«Non so, non è centrale, bizzarramente. Volevo soloavere un buon personaggio secondario. Il protagoni-sta è un artista che vuole commissionare la prefazio-ne del suo catalogo a uno scrittore famoso. Mi èvenuto in mente me stesso» (due anni fa Houellebecqha scritto la prefazione al catalogo di Jeff Koons aVersailles, ndr).

E ha visto che funzionava.«Sì. A titolo personale lo trovo interessante, ma nonappassionante. Perfetto per un ruolo di questo tipo».

Lei si dipinge come un misantropo depresso dedito aisalumi e al vino rosso. Si è divertito a farsi la carica-tura da solo?«Sì moltissimo, quei passaggi sulla mortadella… èstato un vero piacere giocarci sopra. È molto faci-le prendere la distanza da sé stessi. All’inizio delromanzo io e il mio personaggio siamo abbastanzasimili, ma via via ci allontaniamo. Io ho un rappor-to ragionevole con la mortadella e bevo un po’meno vino del mio personaggio».

La carta e territorio sviluppa il pessimismo deiromanzi precedenti ma il tono è diverso, c’è accetta-zione. E più dolcezza.«L’accettazione è nuova in me. Gli ultimi pezzi dimusica da camera di Franz Liszt, che cito nelromanzo, sono allo stesso tempo funebri e dolci. Lafine di Liszt è molto bella: vecchio, rimasto solo(anche Wagner, che è più giovane di lui e avevasposato sua figlia Cosima, è morto), Liszt continuaa comporre, tutti se ne infischiano perché pensanosia spazzatura, ma a lui non importa. Am GrabeRichard Wagners e Prière aux anges gardiens sonobrani magnifici. Ho voluto ispirarmi a quel tono».

Lei non parla più né di scenari apocalittici, di clona-zione e di raeliani come in La possibilità di un’isola,né di luoghi esotici e sesso come in Piattaforma. Siconcentra invece sul mondo parigino dell’arte con-temporanea e sulla campagna. È una novità piutto-sto interessante.«Un ribaltamento di prospettiva possibile grazie alfatto che sto sempre più lontano dalla Francia,vivo in Irlanda, e quindi comincio a rapportarmianch’io al mio Paese con lo spirito del turista. Hoattraversato la Francia in macchina e ho scelto unalbergo di charme come avrebbe fatto un turista.Del resto la Francia ormai non ha molto altro daoffrire».

Che cosa la affascina tanto dell’arte contemporanea?«So che se vado a una mostra con ogni probabilitàsarò sorpreso. E questo è già qualcosa. Al cinema noncapita così spesso».

È attratto dalla tecnologia e pure dalle istruzioni diuna videocamera, che ha inserito nel racconto.«Ho l’ambizione di potere utilizzare tutto, qualsiasimateriale. Per me leggere, più precisamente leggerein francese, è una droga. Quando ero bambino miricordo di avere letto dei cataloghi di sementi, pomo-dori, piante da giardino, solo perché non avevo nien-t’altro da leggere. Dunque ho voglia di integrarequalsiasi cosa, ma riprendere dei passaggi tali e qualinon funziona quasi mai, da un punto di vista lettera-rio. Solo Georges Perec ci riusciva. Sono sempreobbligato a rilavorare il materiale letterario ancoraun po’».

Qual è il movente fondamentale di questo romanzo?Che cosa l’ha fatta cominciare a scrivere?«La voglia di andare fino in fondo a una relazionepadre-figlio. Che non è mai facile, neanche da scrive-re. Nel libro ci sono un padre e suo figlio Jed, sembrache niente possa capitare di nuovo, tengono fede alloro incontro annuale, ma invece alla fine riescono aparlarsi. Il padre affronta finalmente il suicidio dellamadre».

Ha deciso di farne il cuore del romanzo per risolveredelle cose dentro di lei?«L’idea di una sorta di fatalità genetica che prende ilruolo del destino è l’unica cosa che ho conservatodalla relazione reale. Ho sempre avuto paura di finirecol commettere gli stessi errori di mio padre. E cosìaccade nel romanzo, Jed finisce con l’avere nient’al-tro nella sua vita che il lavoro, proprio come suopadre».

Il personaggio Michel Houellebecq viene massacratoper soldi. È una denuncia? Le cose importanti succe-dono per soldi?«Mi è piaciuto più che altro descrivere la delusionedel poliziotto, che davanti ai resti straziati diHouellebecq si era immaginato un delitto fuori delcomune, una follia religiosa, qualcosa di originale, oun’imitazione di Jackson Pollock fatta con il sangue,e invece niente di tutto questo. Quando sono andatoal Quai des Orfèvres per documentarmi, la prima cosache ho imparato è che il 90 per cento dei criminisono causati dai soldi e il 10 per cento dal sesso. Solo

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lo 0,0001 dipende da altri fattori. Un insegnamentochiaro».

Il successo di Jed Martin comincia rielaborando lecarte della Michelin. Le carte geografiche sono dimoda, da Google all’arte contemporanea.«Il mio interesse è di lunghissima data, è una dellecose più autentiche del libro. Le carte Michelinsono bellissime, senza pari al mondo, e continuanoa migliorare, le ultime sono sublimi. Da bambinoguardavo in continuazione le cartine geografiche ecercavo di indovinare, a seconda della posizionedella città, se la gente di quel villaggio fosse feliceo no».

Pensa che la carta sia più bella del territorio?«Più bella non so, più interessante sì».

È una metafora del rapporto tra arte e realtà?«Sì, è una scelta estetica, rivendicata dall’artista. È unaltro modo di dire che il romanzo è più interessantedella vita».

Lei lo pensa?«Sì. L’ho espresso in modo più brutale e negativo inEstensione del dominio della lotta, quando scrivo“Una vita intera a leggere avrebbe appagato i mieidesideri”. C’è anche un lato positivo: se la vita non vaci sono sempre i romanzi nei quali rifugiarsi».

Dipingere la società, alla Balzac, è sempre fonda-mentale per lei?«Sì. Scrivo un romanzo ambientato in un Paese e inun’epoca, in una situazione sociale data, e questodeve apparire, ho bisogno di questo in un romanzo».

Il libro sta avendo prevalentemente ottime recensio-ni. Ha paura di diventare amato dalla critica?«Me ne farò una ragione… Ma le persone di cui temodavvero il giudizio sono quelle che hanno apprezza-to i miei romanzi precedenti, ho paura che possanodire: “Ah, che delusione, non è più lo scrittore diprima“».

Il premio Goncourt è importante?«Mi farebbe molto piacere vincerlo, naturalmente.Quando ero giovane leggevo soprattutto dei classici,in tascabili, e compravo il vincitore del Goncourt pertenermi al corrente, per sapere che si faceva in lette-ratura alla mia epoca. Gli sono affezionato. E poi favendere molto».

«All’inizio del romanzo io e il mio personaggio siamo abbastanza simili,

ma via via ci allontaniamo. Io ho un rapporto ragionevole con

la mortadella e bevo un po’ meno vinodel mio personaggio»

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Da settimane, nella lista dei bestseller del New YorkTimes figurano due libri scritti da moribondi chehanno voluto rendere pubblica la loro imminentedipartita. Al sesto posto Christopher Hitchens, conHitch-22. Addirittura al primo posto Tony Judt con Illfares the land. In Italia è atteso nelle librerie il libro incui il giornalista Pietro Calabrese ha raccontato lapropria malattia, come fosse quella del suo «amicoGino», e che aveva anticipato a puntate sul magazinedel Corriere della Sera. Tra poche settimane dovrebbearrivare sugli schermi il film in cui un altro giornalista,Tiziano Terzani – interpretato da Bruno Ganz – rac-conta al figlio Folco – interpretato da Elio Germano –i suoi ultimi giorni, come in La fine è il mio inizio, unlibro uscito postumo nel 2006 che ha abbondante-mente superato il milione di copie. Il suo bestsellerprecedente era Un altro giro di giostra, in cui raccon-tava la malattia che l’avrebbe ucciso nel 2004.

Alla morte, alla malattia, al consumarsi del corpo edella mente è dedicato anche l’ultimo volume dellaquadrilogia di Philip Roth iniziata con Everyman. Siintitola Nemesis, sta per arrivare in libreria anche inItalia, edito da Einaudi. Il protagonista, ormai sessan-tacinquenne, si sta spegnendo. Lui, che era «l’ultimodei grandi attori di teatro classico americani», èossessionato dal fatto che sta perdendo il talento.«Aveva perso la sua magia. L’impulso si era spento».L’angoscia non riguarda tanto il morire, quanto laperdita della capacità di comunicare, di occupare lascena del grande teatro che è la vita, come già dice-va Shakespeare. A pensarci bene è la preoccupazionedi fondo che accomuna tutti gli altri narratori dellapropria fine. Anche in questo ultimo libro di Roth c’èovviamente sesso, che come il cibo e la morte è il saledella vita. Simon Axler, che certamente è sempre unpo’ lo stesso Roth, si innamora di una quarantenne, e

vive nel terrore che la relazione non potrà funziona-re e durare. Torna in mente l’interpretazione cheSigmund Freud aveva dato del Re Lear diShakespeare. Le tre figlie di Lear sarebbero, sostiene,la madre, l’amante e la morte. Ma il fatto è che«quando un uomo è vecchio» di scelta gliene resta inrealtà una sola: «Solo la terza delle creature fatali, lasilenziosa morte, lo accoglierà tra le sue braccia». Cosìè la vita.

La letteratura sulla morte è sterminata. I confinitra pubblico e privato mutevoli nel tempo e nellediverse culture. Ma ultimamente è come se la pro-spettiva della fine reclamasse per sé l’intera scena.Tanto che, da lettore, a volte ho provato disagio peril modo in cui si mette in scena la propria morte,anche se capisco che sia un modo di accomiatarsi,anche dal proprio pubblico, da parte di persone chescrivevano per il pubblico.

Il mio amico Tiziano è morto cinque anni fa, anchese mi sembra ieri. C’è un documentario, sui suoi ulti-mi giorni, in cui lo si vede cadavere, ancora bello,sereno, non fa affatto brutta impressione. Era ilTiziano di sempre, brillante, esuberante, focoso anchequando lo avevo incontrato malato. Ma a me piacericordarlo vivo. Non credo di aver voglia di vedere lanuova fiction. Il mio amico Napoleone Colajanni èmorto giusto dopo aver corretto le bozze del suoCapitalismi, che anticipava tutto sulla crisi ancora incorso. Il mio amico Alfredo De Marzio poco dopo averchiesto le bozze del mio libro che stava pubblicando.Mi mancano molto, davvero, non è un modo di dire,ma non mi manca affatto che di questo argomentonon abbiano mai parlato o detto in pubblico.

Tony Judt, intellettuale raffinato, autore di unamonumentale storia dell’Europa nel Dopoguerra,attentissimo osservatore di quella dell’era post

QUEL GRAN PARLARE DI MORTEDa mesi tra i bestseller ci sono libri di scrittori che raccontano, a volte con disperato compiacimento, la propria agonia. E che, atei o non credenti, pensano all’aldilà

Siegmund Ginzberg, Il Foglio, 18 settembre 2010

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comunista, è morto agli inizi di agosto. Come tuttiquelli che hanno qualcosa di originale da dire, si eraattirato polemiche e odii a non finire quando, lui, exsionista di sinistra, si era esposto a caldeggiare Israelein quanto stato unico di arabi ed ebrei, anziché l’idea,per lui impraticabile, di due stati, uno ebraico, unopalestinese. Aveva fatto arricciare il naso anche ilfatto che continuasse, «anacronisticamente» adichiararsi «socialdemocratico». Il titolo di un suosaggio del 1996, A Grand Illusion? An Essay onEurope, conserva, purtroppo, un sapore profetico. Suqueste cose probabilmente ci vorrà ancora moltotempo per appurare chi abbia ragione. Il suo ultimolibro, che si potrebbe tradurre: Le cose vanno male inquella terra, è un’amara riflessione sulle occasioniperdute della sinistra nel nostro continente. Ma lacosa che gli ha dato più notorietà è il fatto che siastato costretto a presentarlo in sedia a rotelle, con lacannula dell’ossigeno al naso, già sopraffatto dallasclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Lou Gehrig.«In effetti, si tratta di imprigionamento progressivo,senza possibilità di sospensione della pena», avevagià anticipato in uno dei suoi ultimi articoli sulla NewYork Review of Books.

Il suo cruccio era quello di perdere il controllo delleparole, proprio lui che era stato «allevato a parole», econ loro aveva saputo giostrare così magistralmente.«Nelle grinfie della malattia neurologica, sto rapida-mente perdendo il controllo delle parole, propriomentre il mio rapporto col mondo si sta sempre piùriducendo a quelle. Si formano ancora con impecca-bile disciplina e spazio non limitato nel silenzio deimiei pensieri – con la visione interiore ricca come èsempre stata – ma non riesco più a convogliarle confacilità. Vocali e consonanti sibilanti scivolano dallamia bocca senza forma, e incomprensibili anche aimiei stretti collaboratori… Comunicazione, perfor-mance, affermazione, sono diventati ora i miei puntideboli. Presto sarà oltre le mie possibilità tradurrel’essere in pensiero, i pensieri in parole, e le parole incomunicazione…». «E se le parole non funzionano,cosa potrà sostituirle? È tutto quello che abbiamo»,l’angosciosa conclusione. Eppure, Judt sapeva benis-simo che non si trattava affatto di un suo problemapersonale. Le parole possono di questi tempi diventa-re confuse e perdere senso anche se non si è malati omoribondi. Non per niente è proprio lui a citareGeorge Orwell, che ce l’aveva coi suoi contemporaneiperché usavano il linguaggio per mistificare anzichéinformare, e sosteneva che si scrive male perché sicerca di dire qualcosa di non chiaro o di prevaricare

deliberatamente. L’ipotesi di Judt è invece che ainostri giorni il linguaggio sia confuso perché trasudadi «insicurezza intellettuale», perché non si ha piùfiducia in quel che si dice e quindi ci si rifugia in unapusillanime ambiguità. Si sarebbe forse potuto con-solare, o si sarebbe disperato ulteriormente, se aves-se passato più tempo ad ascoltare i talk-show.

Christopher Hitchens è invece ancora vivo. «Stomorendo… tutti stiamo morendo. Solo che la mia èpiù accelerata…». E ancora: «In qualsiasi cosa sia lacorsa della vita, sono bruscamente diventato un fina-lista». Così si addentra nei dettagli clinici e complica-zioni del suo tumore in un articolo sul numero di set-tembre di Vanity Fair. Non c’è particolare o sintomodel suo passaggio «dal paese di chi sta bene» alla«terra della malattia» che venga risparmiato al letto-re. Annota tutto, ma proprio tutto, come nei suoi for-midabili reportage di guerra. L’aveva annunciato loscorso giugno, alla presentazione del suo nuovo libroautobiografico: «Sto morendo… Sarei davvero fortu-nato se riuscissi a vivere ancora cinque anni…». Cisaranno quindi altre puntate.

Sia Judt che Hitchens, hanno una cosa in comune,oltre all’essere grandi giornalisti e all’aver scelto diparlare della propria agonia rivolgendosi, diretta-mente e pubblicamente, alla loro audience. Sono noncredenti, anzi atei dichiarati. Judt quasi in sordina. Siè limitato, in un’intervista con Terry Gross dellaNational Public Radio, a dire che non crede «né in Dioné nell’aldilà». Anche se non si ritrae dall’attenuarequesta affermazione con tonalità di misticismo uma-nistico: «Sono molto più cosciente di quanto lo fossiprima – per ovvie ragioni – di ciò che la mia mortesignificherà per le persone che mi sopravvivranno.Per me non significherà nulla. Ma per loro significhe-rà molto. Per loro – intendo per i miei figli, o miamoglie, o gli amici stretti – sarà importante che qual-che tipo di mia presenza spirituale positiva sia pre-sente nelle loro vite, nella loro testa, nelle loro imma-ginazioni, e così via. Così curiosamente finisco colcredere in una sorta di aldilà, come luogo in cui hoancora responsabilità morali, come ne ho in questavita. Tranne che potrò esercitarle solo prima di finirenell’aldilà».

Anche Terzani è stato un non credente tranquillo,che non offende nessuno. Semmai si potrebbe soste-nere che crede in qualcosa di diverso, ha una suasuggestiva visione di totalità cosmica, in cui tuttofinisce col fondersi armonicamente con l’universo.Non aveva voluto funerali, di nessuna religione. Sonoconvinto che anche la spiritualità orientale fosse per

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lui più che altro un vezzo, un modo di recitare, al paridel travestirsi da maoista in Cina e da sadu in India.Da toscanaccio, non aveva certo peli sulla lingua. Macredo che sulla questione specifica dell’aldilà avrebbepotuto benissimo concordare con quel che il teologocattolico Jean Guitton rispose al laico Mitterrand,quando questi lo visitò poco prima di morire e glichiese di parlargli dell’aldilà: «Non se ne può saperenulla: per questo si chiama appunto aldilà».

Hitchens invece tiene a presentarsi, per così dire,come un «ateo furioso». Così come in tutta la sua car-riera giornalistica si era atteggiato a giornalista furio-so. È uno che non ha mai avuto mezze misure nellesue prese di posizione, ed è curioso il motto di Spinozache apre a modo di distico Hitch-22, (gioco di parolasul suo cognome e il Comma 22, il paradosso per cuise uno è pazzo può evitare di andare in guerra, ma senon vuole andare in guerra non è pazzo). Suona nellaconcisione del latino: «caute», con prudenza. Macomunque lo si rigiri sarebbe impossibile applicarlo alui. Aveva rotto brutalmente coi suoi compagni giova-nili scozzesi di trotzkismo, poi col comunismo nel ‘68,aveva inventato dopo l’11 settembre la nozione di«islamofascismo», anzi rotto con l’islam tout court,quello «moderato» compreso: «Penso che la nostraciviltà sia superiore? Sì, lo penso. Penso che valga lapena di combattere per essa? Sì, certamente», ribadi-sce in una delle sue più recenti interviste. Avrebbevoluto trascinare Henry Kissinger come criminale diguerra davanti a un tribunale internazio nale. Ma poiaveva rotto con i liberal americani sostenendo contutta l’anima, anzi con la foga da neocon le guerre diBush, poi le aveva criticate con pari veemenza. Se l’erapresa con identica foga con Saddam Hussein, MadreTeresa di Calcutta e Papa Benedetto XVI. E ne è tut-t’altro che pentito. Nel suo «testamento» su VanityFair insiste che anziché morire precocemente glisarebbe piaciuto poter vivere abbastanza da vedere ifigli sposarsi o «scrivere in occasione della morte divecchi criminali come Henry Kissinger e JosephRatzinger». Quel che pensa della religione lo avevaaffidato a un libro che dice già tutto nel titolo: «Dionon è poi così grande». Dopo l’annuncio della suamalattia i blog si erano scatenati in commenti disostenitori e avversari, a fargli una pubblicità inaudi-ta, la qual cosa era forse quel che desiderava.

Un reverendo protestante aveva proclamato per il20 settembre una giornata nazionale di preghiera perHitchens, invitandolo a ritrovare la fede, con l’argo-mento che la sua conversione «potrebbe fare per lacristianità dei nostri giorni quel che la conversione di

Paolo fece per i primi cristiani». E lui aveva ripostomandandoli a quel paese. Poi qualcuno gli avevachiesto se davvero trovava offensivo che qualcunopregasse per lui. E lui aveva smussato, per modo didire, i toni: «No, no. Lo prendo come una gentilezza,a patto che preghino per la mia salute». L’inter -vistatore aveva insistito: «È sicuro, niente conversionimagari in extremis?». «Se anche succedesse, non sareiio, ma una persona terrorizzata il cui cancro ha ormairaggiunto il cervello. Non posso escludere che unessere ridotto in quelle condizioni faccia qualcosa dicosì ridicolo, ma uno che possa essere riconosciutocome me stesso non lo farà mai».

Fatti suoi, mi limiterei a dire. Ma Hitchens è unofatto così, se no non sarebbe lui. Racconta nella suamemoir (guai a chiamarla semplicemente autobio-grafia) che sua madre (che era ebrea, cosa che veni-va nascosta come un segreto di famiglia e che luiseppe solo molto dopo la sua morte da suicida) glidiceva sempre che «l’unico peccato imperdonabile èessere noiosi». Hitchens giornalista, per non esserenoioso e volere sempre stupire i suoi lettori, ha fon-dato l’intera sua strepitosa carriera sull’atteggiarsi abastian contrario. Sottovalutando però forse il rischiodi finire coll’annoiare proprio per eccessiva ansia dinon essere noioso.

Quasi due millenni fa Luciano di Samosata, autoreanche di uno spassosissimo Dialogo dei morti, avevascritto una satira sferzante su un filosofo cinico ecapopopolo nato, il quale, pur di far parlare di sé, incerca sfrenata com’era di pubblicità, «fece di tuttoalla ricerca della fama e del consenso della maggio-ranza, tanto da saltare perfino nel fuoco». Si tratta diun tale Peregrino, soprannominato Proteo per la fre-quenza con cui cambiava amicizie, inimicizie, affilia-zioni politiche e simpatie religiose, che effettivamen-te si era dato fuoco a Olimpia nel 165 dopo Cristo. Gliantichi non avevano evidentemente la nostra stessasensibilità sul tema.

Ma non vorrei essere frainteso, passare per unoche se la prende con morti e moribondi. Tutto questoè solo umano, fin troppo umano. A Sigmund Freudera capitato di osservare, in uno scritto meno noto dialtri, Il nostro atteggiamento verso la morte, che infondo il problema è che «noi non crediamo allanostra morte», che la nostra morte è addirittura«inimmaginabile» e che quindi «ogni volta che tentia-mo di raffigurarci come andranno le cose dopo lanostra morte, lo facciamo immaginando di essereancora lì come spettatori». Si potrebbe aggiungere:oppure come attori, anzi primattori.

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«Il passato di Emi emerge per piccoli lampi, ma la sta-gione politica non ha lasciato tracce su di lei. È stataun’indossatrice, ha vissuto il mondo della moda e fre-quentato artisti. Mi interessava sottolineare la legge-rezza profonda delle donne di quell’epoca, sia quelleche sono rimaste casalinghe che le altre, quelle chehanno ribaltato il loro destino: come Emi mantengo-no un senso di disponibilità, una tolleranza nei con-fronti della vita».

Nonostante il segreto che l’ha segnata? «Quello si scoprirà alla fine. Ma Emi ha un modo di but-tarsi nelle cose che è molto naturale. È quella che iochiamo la “ragazzitudine” di chi è stato giovane neglianni Sessanta, la capacità di accettare l’imprevisto».

«Forse mi hanno chiusa in uno sgabuzzino da piccola».Letizia Muratori è seduta al caffè dell’albergo

Locarno, a Roma. Sorseggia un tè, prende «appuntimentali» (poi ci spiegherà) e sintetizza con una bat-tuta il motivo per cui mette in scena i suoi personag-gi in situazioni anguste, al limite del soffocamento.

Stiamo parlando di Sole senza nessuno, il nuovoromanzo pubblicato da Adelphi. Anche qui Emilia, laprotagonista, è chiusa nel suo mondo, dal quale altrepersone e situazioni la tireranno fuori. In più si trat-ta di una donna che è stata giovane negli anni Ses -santa, raccontata prescindendo dal coté politico:praticamente un miracolo.

Come ha fatto?

Maria Grazia Ligato, Io Donna, 18 settembre 2010«SONO UNA SCRITTRICE DA BAR»

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Parliamo del Caffè Locarno, quello in cui ci troviamo: èvero che viene qui spesso quando lavora a un romanzo? Sì. Io raccolgo le idee camminando, tutta la costruzio-ne del romanzo, gli snodi, la definizione dei personaggiavviene nella mia testa. Procedo da Prati, dove abito, alPantheon. A metà di questo tragitto, c’è il Locarno.Mica male, andata e ritorno sono circa 4 chilometri. Unpit-stop ci vuole. Mi riposo e rielaboro le idee: prendoappunti mentali. L’americana protagonista di Il giornodell’indipendenza io l’ho “vista” al Locarno. Penso,osservo le persone che attraversano la sala. E invento».

Per questo nei suoi libri ci sono sempre alberghi.«Sono hotel inventati, in Sole senza nessuno c’èl’Atlantic. Mi affascina la dimensione albergo perchésono spazi attraversati da persone di tutto il mondo».

Gente che viene, gente che va.«Su Roma e i suoi monumenti, da Trinità dei monti aFontana di Trevi aleggia sempre lo sguardo di chiviene a visitarla, è “vista” dall’esterno. La stessa pro-spettiva che respiri in hotel».

È vero che ha anche dormito qui?«Per due notti. Volevo sperimentare un punto di vistaangolare. Affacciarti alla finestra e vedere personeche ti guardano pensando che tu non sia di qui è unmotore creativo che può dar vita a mille storie. Èinsolito vedere Roma da turista, sei straniero nellatua città. E questo credo sia una metafora della scrit-tura, come cedere personalità al personaggio che staicostruendo sulla carta».

Nel libro si apre anche uno squarcio sulla moda del-l’epoca: i grandi atelier, le mitiche sorelle Fontana.«Da tempo volevo raccontare una storia di moda.Anche perché le sorelle Fontana sono mie prozie:Roberta, la figlia di Giovanna, è mia zia. Con miacugina Cristina, ora critico d’arte e curatrice dellafondazione Fontana, andavamo nell’atelier di via SanSebastianello, su piazza di Spagna. I luoghi racconta-ti nel romanzo sono veri, ma i personaggi inventati:non c’è mai stata una première con una figlia dallesorelle Fontana».

Però c’è stato il «tradimento» di Audrey Hepburn.«Sì, certo, aveva ordinato l’abito da sposa, ma poi ilmatrimonio andò a monte e disse di regalarlo a unalavorante».

Comunque è entrato nella storia, come molti altrivestiti.«Alla fondazione sono esposti quelli da sogno diJacqueline Kennedy, il tubino di Liz Taylor, quelloverde smeraldo di Ava Gardner, il vestito da sposa diLinda Christian per il matrimonio con Tyrone Power.Niente male per tre sorelle partite da Traversetolo,provincia di Parma. Tentarono l’avventura poco primadella guerra; alla stazione del paesello si dissero: “Ilprimo treno che passa lo prendiamo. Se va a Milanocominciamo da là”. Invece arrivarono a Roma».

Cosa ha ereditato dalle zie?«L’idea “fontanesca” del lavoro. Sole senza nessuno èil mio modo per raccontare il mito di far da sola».

«Io raccolgo le idee camminando,tutta la costruzione del romanzo,

gli snodi, la definizione dei personaggiavviene nella mia testa»

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A Hemingway bastava un posticino caldo e ben illu-minato in un caffè di Parigi. Del resto Jean Paul Sartree Simone de Beauvoir avevano «studio» al Café deFlore e Scott Fitzgerald alla brasserie Lipp. «Per essereprecisi, credo che mio nonno abbia scritto Grandefiume dai due cuori nei locali di Saint Germain-des-Prés. E Gatto sotto la pioggia all’hotel Riviera diRapallo» ci dice John Hemingway, nipote del grandescrittore. «Sono entrambi molto cari alla critica, fannoparte dei Quarantanove racconti. Credo che con que-ste prove Ernest si sia reso conto di aver talento comescrittore». E che talento! Salutiamo John Hemingwaye gli chiediamo dove ha scritto il suo romanzo dimemorie familiari, A Strange Tribe. «Per lo più a casa.Ma alcune parti le ho elaborate in viaggio, negli aero-porti e sui treni». Per un altro esempio by train, vede-re alla voce Scott Turow: Presunto innocente, succes-so planetario che ha appena compiuto vent’anni, havisto la luce sul vagone pendolari che lo portava alsuo studio di avvocato. Perché se Geoff Dyer (Amorea Venezia, morte a Varanasi) proclama che scriverenon si possa fare nei luoghi pubblici, ma sia un’attivi-tà intima, «come andare al gabinetto», il binomio let-teratura e bar (o caffè o albergo o, anche, pizzeria)appare consolidato. E nel loro piccolo (di locali e ven-dite) anche gli scrittori italiani sembrano preferirel’atmosfera dei luoghi pubblici: da Andrea Pinketts, alquale il bar Trottoir di Milano, dove beve e opera, hadedicato una sala, a Claudio Magris che da sempreverga editoriali al Caffè degli Specchi in Piazza Unitàd’Italia, a Trieste. Fino alla «suite Gaetano Afeltra» abi-tata per trent’anni dallo scrittore al Principe di Savoiadi Milano. Ma, sorge il dubbio, che cosa ci trova unautore in un luogo pubblico? L’ispirazione vola piùalta che tra le mura domestiche? Per dire, l’espressoservito al tavolo agevola l’incontro con la Musa?

Paolo Colagrande, avvocato («ma seguo il mestierecon scarsa vocazione»), autore di Dioblù (Rizzoli) e diFìdeg (premio Campiello per l’esordio), ha le ideechiarissime e teorizza anche una metodica.

Scrive alla Trattoria la Pireina di Piacenza. «Quisono nate le storie e mi sono trattenuto spesso ametterle su carta. A cena, e più spesso nei dopocena,si realizza uno stato (a volte etilico) che diventa ter-reno fertilissimo per idee sensazionali. Poi a pranzoprocedo alla scrittura. E a rivedere gli appunti che agradazione alcolica più bassi mi appaiono un po’meno sensazionali». Colagrande consiglia anche unadieta letteraria che possiamo sintetizzare così: crapu-la a cena, cioè antipasti, primi, secondi in abbondan-za per la genesi delle idee. E maggior morigeratezzaa pranzo (quando si «quaglia»): «Meglio mantenersileggeri» enuncia. Quindi lei cosa mangia? «La piccoladi cavallo». Sarebbe? «Carne di cavallo, soffritta conpeperoni». Effettivamente è lieve come un’incudinesul piede. «Ma no, assunta come piatto unico aiuta ascrivere. Del resto a casa con due bambini piccoli, di8 e 5 anni, sarebbe peggio».

In fuga dalle distrazioni domestiche ancheGiuseppina Torregrossa, medico e scrittrice, esordioclamoroso con Il conto delle minne l’anno scorso(Mondadori). «Ho due luoghi del cuore: il Bar dellaPace a Roma, e Scopello, in Sicilia». Ma perché scappada casa? «Mi concentro meglio. Al bar ci sono solo ioe il computer. E poi la strada è un teatro, basta unpassante a suggerire delle idee». Ma non si senteosservata? «No, ormai tanti, nei locali pubblici, scrivo-no al computer o mandano mail. Diciamo che c’è una“buona” indifferenza». A Roma, certo. Vale anche perla Sicilia di Scopello? «Lì è diverso, Scopello è un pae-sino di 25 abitanti. Tutti sanno chi sono e spesso mivengono a raccontare. A volte le loro storie diventano

PICCOLI CAPOLAVORI NATI ALL’OSTERIA,SUL TRENO DEI PENDOLARI, AL PUB O AL FAST-FOOD: ECCO DOVE GLI AUTORI INCONTRANO LALORO MUSA. E PERCHÉ PROPRIO LÌ

Maria Grazi a Ligato, Io Donna, 18 settembre 2010

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parte delle mie». E se Colagrande discetta di menuipercalorici propedeutici alla creatività, Torregrossaadduce una motivazione opposta e molto femminile:va via da casa anche per sfuggire alle tentazioni delfrigorifero.

Non cerca l’atmosfera di bar e osterie storicheTommaso Labranca, scrittore underground e trasho-logo, di un anticonformismo quasi sublime: si vantadi scrivere i suoi romanzi (l’ultimo Haiducii, excelsior1881, pubblicato prima a puntate per un giornale,come ai bei tempi del feuilleton) al McDonald dipiazza Oberdan, a Milano. «Il mio Café de Flore per-sonale» commenta. Come J.K. Rowling che scrisse ilprimo tomo della saga di Harry Potter al fast-food?«Con qualche minima differenza nelle vendite» pre-cisa. Anche Labranca condanna le distrazioni casa-linghe, nell’ordine adsl, facebook, dvd, televisione,frigo. «Qui mi isolo dalla confusione e i gestori mitrattano come un principino: penso di essere l’unicoal mondo al quale servono il caffè al tavolo in unMcDonald».

Senso di familiarità a parte qual è, diciamo così, ilplus per uno scrittore? «C’è un via vai di persone di

tutte le nazioni, nessuna delle quali mi ha mai fattopaura. Osservo la clientela fissa, per esempio c’è ungruppo di ucraine, genere Dolly Parton, grandi tette ecapelli cotonati che sta creando relazioni con giova-ni eritrei. È un fiume di emozioni, la lingua franca èun italiano originalissimo. Mi fanno tenerezza, vogliovedere come va a finire».

C’è poi chi usa il bar come un’istitutrice, un pun-golo per «costringersi» a scrivere, un po’ «come que-gli studenti che vanno in biblioteca a studiare» diceRosa Matteucci (Tutta mio padre, Bompiani). «A casami annoio, vado da Montanucci (celebre per i ciocco-latini, ndr). C’è un bel giardino e mi conoscono tutti,fanno il tifo per me».

Come si concentra? «Non guardo la gente, sono inuna bolla, mangio, scrivo su vecchi quaderni anniSettanta». Poi tira fuori un asso dalla manica e con-fessa di aver scritto, spesso, nientedimeno che nelDuomo di Orvieto. «Per me è un ambiente familiare,ci vedevo sempre mia madre che lavorava lì comeguida turistica. La seguivo quando portava in giro igruppi di inglesi per imparare la lingua. È quasi casamia». Divino.

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Tiziano Modesti, Il Secolo d’Italia, 19 settembre 2010

SE L’EDITORE RACCONTA LO SCRITTORE…

Tropea e Pietro Ingrao: l’editore chiede al politico,mito della sua giovinezza, un libro per raccontarsi,ma Ingrao nicchia «è una fatica improba, ho deciso dilasciar perdere e ti restituisco l’anticipo». Soldi cheperò Tropea non rivuole «perché magari in futuro ciripenserai». E infatti Ingrao ci ripensa e l’autobiogra-fia esce. Ma da un altro editore.

Tra scrittori e editori (cioè tra quelli che umana-mente se lo possono permettere) spesso è un gioco dicomplicità: Rosellina Archinto, ad esempio, ha inmente una collana per bambini e allora chiama tantiscrittori-amici, chiedendo loro almeno una storiella:«Calvino si entusiasmò all’idea, anche perché avevaappena avuto una figlia». In effetti, anche lungo ilcrinale delle famiglie si dipanano altre storie di que-sto libro. Famiglie editoriali, come è logico che sia, oche si formano attorno ai libri. Esemplare è il caso diSandro Ferri e Sandra Ozzola: lui lavorava in unalibreria «alternativa» romana, La Vecchia Talpa, leiscende a Roma da Torino, giovane studentessa appe-na laureata in russo. Poi hanno fondato la e/o. Eancora oggi lavorano fianco a fianco in una famigliadecisamente allargata, per via dei soliti, tanti amiciche pullulano attorno alle case (sia in senso lato –perché spesso tutto si risolve in un appartamentosolo un po’ più grande del classico due camere e ser-vizi – che case editrici). Oppure «coppie di fatto» (masempre da un semplice punto di vista editoriale, percui ci si passi la battuta) come quella formata daMarco Cassini e Daniele Di Gennaro: oramai è strano-to il loro avventurarsi nel mondo dei libri a partire dauna rivistina redatta nell’appartamento di mamma emandata per l’appunto via fax (Cassini ha raccontatoil tutto in un delizioso volumetto uscito da Laterza),ma da questa come da altre testimonianze vienefuori il necessario ruolo della gavetta anche per chi

Se avete una mezza intenzione di diventare editori,sono due le cose da acquistare subito: una decina diguide ai ristoranti d’Italia e Potresti anche dirmi gra-zie, l’ultimo libro di Paolo Di Stefano (Rizzoli, pagine418, euro 22). Da questo bel volumone, infatti, capi-rete che le sorti dell’editoria di casa nostra nel 99 percento dei casi si sono risolte (oppure no) tra i tavolidi ristoranti e trattorie più o meno alla moda. Maicomunque in un fast-food o su un autogrill.Naturalmente c’è molto di più in questo libro di DiStefano, 54 anni, siciliano, scrittore e giornalista,inviato del Corriere della Sera. Non a caso il sottoti-tolo recita «Gli scrittori raccontati dagli editori»:attraverso 28 interviste (in realtà degli accattivantiracconti) l’autore disegna un quadro pressoché com-pleto di quella che è stata e che per molti versi è lanostra editoria. Da Rizzoli a Piemme, dalla Mondadoria sigle più piccine come minimum fax e Tropea, den-tro c’è davvero tutto, comprese sei signore che dannolustro al modo tutto italiano di fare i libri.

L’aneddotica è eccezionale e si resta impressionatida molti degli episodi citati, spesso anche inediti. Unosu tutti: Giulio Einaudi che infila la forchetta neipiatti altrui, senza star troppo a guardare al sottile,alle… pietanze e ai commensali. Oppure Umberto Ecoche non crede granché al suo libro e teme che Ilnome della rosa possa diventare nome della… resa.

Ma del resto, di libri nati alla chetichella e poidiventati dei successi, è pieno questo volume. Oppuredi insuccessi clamorosi, come l’editore americano chegrida di gioia alla Fiera di Francoforte (molte dellescene più gustose si svolgono proprio tra i padiglionidella kermesse tedesca) dopo essersi aggiudicato asuon di dollaroni l’autobiografia di Cassius Clay: unfiasco colossale. Autobiografie che restano sul grop-pone anche per diversi motivi. Prendiamo Marco

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non è stato facile, si accumulano anche frustrazioni:hanno inventato dal nulla la Sellerio […] ma coltempo ho guadagnato fiducia e deleghe. Ora pren-diamo le decisioni insieme». Solo respirando atmosfe-re simili, un bambino riesce ad assorbire emozioni esensazioni e a diventare davvero «grande» in unmondo anche di pescecani – perché non dirlo? Micaè tutto rose e fiori – come quello dell’editoria.L’atmosfera di Siciliano e Sciascia che scorrono lapresentazione di un libro fotografico, una banalità sevogliamo, scritta però con dovizia da un oscuro pro-fessore di liceo di Comiso. «Scommettiamo che ha unromanzo nel cassetto?» esclama donna Elvira primadi chiamare il professor Gesualdo Bufalino. «Non houn romanzo, ne ho due: di uno sono convinto, dell’al-tro no». Quel romanzo Sciascia lo legge tutto d’unfiato mentre di notte va a Roma, nel vagone letto. Eal mattino chiama L’espresso per annunciare unarecensione entusiastica. Va da sé che Diceria dell’un-tore vincerà poi il Campiello e diventerà un successodi vendite.

Ecco, assieme ai ristoranti di cui all’inizio, anchequesto delle telefonate improvvise è un bel trattoaneddotico di questo libro: Vincenzo Pardini, adesempio, lamenta in un’intervista che nessuno sidegna neanche di leggere il suo nuovo libro. «Allora»racconta Marco Monina «presi il telefono: “Sono dellaPeQuod e capisco che le possa suonare quasi offensi-vo, ma se me lo vuole far leggere…”».

fa libri. E poi le soddisfazioni: «Mentre finora tantiautori scoperti da noi sono finiti altrove, adesso lecose cominciano a cambiare». Storie di famiglia comequelle della Laterza, qui raccontate da Giuseppe, apartire da una cartolibreria in quel di Putignano,Puglia, con aneddoti tramandati di padre in figlio. Ecosì il vecchio Vito ricordava Giangiacomo Feltrinellinel pieno dello splendore editoriale, anche economi-co: a Francoforte comprava tutto, firmava assegni agetto continuo, si infatuava di questo o quel libro. Poiperò magari finiva per non pubblicarli «perché leg-gendoli capiva che non ne valeva la pena».

Ma senza nulla togliere a questa e ad altre storie,ci sono dei passaggi da autentica commozione nelcapitolo che Paolo Di Stefano dedica alla Sellerio,pagine evidentemente scritte poche settimane primache donna Elvira lasciasse questo mondo. E il suo (eun po’ anche il nostro, grazie a figure straordinariecome questa) mondo di libri. Elvira viene raccontataal presente nel ritratto dell’autore e di suo figlioAntonio, un 38enne pieno di giudizio che, c’è dascommetterci, seguirà quelle orme: «Mia madre» rac-conta per l’appunto Antonio «sostiene che il segretoè quello di pensare il lettore come una persona piùcolta e più esigente di noi». E poi, un piccolo grandetributo di affetto: «Pur leggendo di tutto, sin da pic-colo la mia curiosità andava ai libri che facevano imiei genitori. I miei maestri sono i miei genitori, holavorato solo con loro ed è a loro che mi ispiro. Certo,

«I miei maestri sono i miei genitori, ho lavorato solo con loro ed è a loro che mi ispiro. Certo, non è stato facile,

si accumulano anche frustrazioni: hanno inventato dal nulla la Sellerio […] ma col tempo ho guadagnato fiducia e deleghe.

Ora prendiamo le decisioni insieme»Antonio Sellerio

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Italo Calvino? Era come Zeus nel Pantheon editorialeitaliano, ma sul lavoro emergeva la componentesarda del suo carattere: come un pastore, la sera,controllava le pecore dell’ovile, i suoi autori, i suoilibri. Italo Calvino, il cui studio all’Einaudi era unastanza monastica, grande abbastanza per una scriva-nia e basta, non voleva che i premi letterari si vinces-sero con le pressioni, come avviene oggi: era il cam-pione dello snobismo torinese dell’Einaudi gloriosa,quella di Giulio Einaudi, quella «partigiana», che fusalvata da Pertini quando intervenne su una leggemessa a punto da Prodi che aiutava le aziende,abbassando la soglia del numero dei dipendentinecessari per usufruire della agevolazioni. Una leggead aziendam. Ma nulla a che vedere con l’Einaudi dioggi, sottolinea Ernesto Ferrero, al telefono con ilRiformista alla vigilia della due giorni torinese chePortici di carta (ideata dal libraio Rocco Pinto) dedi-ca ai 25 anni dalla morte di Italo Calvino (avvenutatra il 18 e 19 settembre).

Ferrero, da diversi e fortunati anni direttore dellaFiera del libro di Torino, in forza all’Einaudi e poi aBollati Boringhieri e Garzanti, da scrittore ha vinto,tra l’altro, uno Strega con N, romanzo einaudiano suigiorni elbani di Napoleone, è stato collega all’Einaudie amico di Calvino. Impenetrabile sul lavoro, dove sinascondeva dietro la maschera dell’imbranato, affa-bile e affabulante nel privato. «Quando veniva a casanostra era delizioso» racconta Ferrero «ricordo cheper far mangiare mia figlia Chiara si inventava storie,faceva l’aeroplanino… In pubblico era molto control-lato e in privato soprattutto in piccola compagniaallora si lasciava andare. Diventava un conversatoreamabilissimo, pieno di humour e autoironia».

La prima volta che Ferrero varcò l’ingresso di viaBiancamano, nell’autunno 1962, fu a seguito di un

annuncio letto su La Stampa. Cercasi redattore perl’ufficio stampa Einaudi. Come andò la prova?«Dovevo fare un risvolto di copertina di prova.All’epoca l’ufficio stampa doveva fare anche i risvoltidi copertina, anzi, Calvino era un maestro in quell’ar-te. Mia figlia Chiara, tra l’altro, ha fatto una tesi suisuoi risvolti di copertina, è diventato un libro, unChristmas gift Einaudi. Il libro era I contrattempi sen-timentali di Lollina Baligioni Terni, il mio risvolto,comunque, non piacque a Calvino, in effetti era unpo’ legnoso, ma per Einaudi andava benissimo. Permia fortuna, fui preso». Ferrero arriverà a fare il diret-tore editoriale (1984-89).

Ma lì, per la prima volta, si trova catapultato nellefamose riunioni del mercoledì, con Elio Vittorini, ItaloCalvino e Natalia Ginzburg. «Erano un vero e proprioteatro, ciascuno recitava una parte. La parte di Italoera la parte dell’imbranato balbuziente. Com’è notoaveva grandi difficoltà epistemologiche con la paro-la parlata, la considerava una cosa molle, sgonfia, unpo’ schifosa e sostanzialmente imprecisa. E lui dete-stava le imprecisioni. Alle riunioni parlava con fatica,alzando gli occhi al cielo, scuotendo le mani, rotean-do le braccia, tartagliando un po’, cercava la parolagiusta ma, di fatto, recitava la parte dell’oratoreimpacciato… Faceva un po’ Buster Keaton. Se dovevafare proposte sue era sempre estremamente cauto,ne enfatizzava i limiti più che sottolinearne i pregi,quando invece non era d’accordo su qualche libro eramolto duro, perché diceva, con santa ragione, chel’editoria si fa soprattutto con i no».

Calvino aveva il carisma del grande maestro, manon era portato per «insegnare» ai giovani colleghi ilmestiere. Semplicemente, era molto rigoroso e trop-po bravo per non farlo, malgré soi. «Italo era diventa-to consulente, non c’era sempre, veniva alcuni giorni

CALVINO, UNO ZEUS SNOB NEL PANTHEON EDITORIALEA colloquio con Ernesto Ferrero sul grande scrittore, morto 25 anni fa. Il suo studio monastico all’Einaudi, la balbuzie del mercoledì, l’etica editoriale perduta. E la legge «ad aziendam» di Prodi

Luca Mastrantonio, il Riformista, 19 settembre 2010

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e stava nel suo studio, una stanza monastica, c’eragiusto lo spazio per la scrivania. Non aveva il tempe-ramento del maestro, perché non ne amava le pose ecredo non volesse avere allievi; però ti insegnava lostesso, perché ti dava delle tali bacchettate che locapivi immediatamente dove avevi sbagliato. Dopo -diché i rapporti erano, come sempre con lui, moltolaconici. Tutto passava attraverso le cose da fare, soloquelle contavano. Era molto severo, con gli altri comecon sé stesso. Anche con gli autori suoi era duro:com’è cambiata l’editoria. Ha scritto lettere piene diriserve a gente come Sciascia. E allo stesso Andrea DeCarlo, di cui ha pubblicato Treno di panna, fece pre-sente molti e approfonditi dubbi».

Con i colleghi scrittori, quelli editi, «era estrema-mente cauto e diplomatico, si apriva poco, si difen-deva con formule scherzose, limitava il suo ruolo,faceva quello che lì dentro non conta nulla, sai, sonogli altri che decidono, soldi e libri sono due universiincompatibili. C’era in lui un elemento sardo cheviene trascurato, la madre era una Mameli di Sassari,la prima donna ad andare su una cattedra scientifica,di botanica. Anche Italo era molto sardo, tutte le sere,metaforicamente, contava le sue pecore, chiudeval’ovile e vigilava con lo scoppio. Carattere sardo eligure sommati producevano i noti effetti di laconici-tà su cui esiste la famosa lettera a Domenica Rea».Dove la laconicità era una necessità logistica, perché

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Calvino scriveva in ufficio, una scelta di stile, classi-co, un retaggio genetico.

In un’altra lettera famosa, a Pescio Bottino,Calvino raccontava che, poiché di un autore contano,crocianamente, solo le opere, non dava dati anagra-fici. O li dava falsi, cercando sempre di cambiarli divolta in volta. Si divertiva? «Era una legittima difesa,dalla noia, e frutto della sua poetica. Li cambiava per-ché gli facevano sempre le stesse domande. Così halasciato credere per anni che fosse nato a Sanremo,mentre era nato a Santiago de Las Vegas, a Cuba.Come scrittore detestava l’io narcissico, teorizzandoaddirittura una pagina scritta da un computer.Giustamente diceva che l’autobiografia è una formadi fiction in cui ognuno dice di sé quello che vuole».Anni luce da Saviano, Scurati, Walter Siti e la loroautofiction.

«Decisamente sì, lontanissimo. Calvino cancellavale proprie tracce. Il Barone Rampante è un personag-gio autobiografico. Voleva sfuggire ai genitori estre-mamente ingombranti, alle chiacchiere».

Il rapporto con i premi letterari fu molto conflit-tuale. Varie sconfitte, anche allo Strega, alcune vitto-rie, prima e dopo un Viareggio rifiutato che avevavinto con Le cosmicomiche, nel 1968, per Ti con zero,con un celebre telegramma: «Non mi sento di conti-nuare ad avallare con il mio consenso istituzioniormai svuotate di significato». Per Ferrero, «ilViareggio glielo fece rifiutare Einaudi. Calvino eramolto disciplinato, obbediente, ossequiente alladisciplina del partito. Lui l’avrebbe anche preso, maEinaudi fece tante scenate, era l’epoca in cui i premiletterari venivano contestati, era il ‘68. Corse inveceper uno Strega che perse, perché allora noi non face-vamo una sola telefonata d’appoggio. Era considera-ta una spaventosa volgarità: mai un einaudiano sisarebbe abbassato a chiedere qualcosa a qualcuno,una caduta di stile gravissima. Io stesso facevo faticaa far firmare a Calvino le lettere di ringraziamentoper pezzi importanti. Lui, per principio, non ringrazia-va, tutto era dovuto, quanto Zeus del Pantheon edi-toriale italiano».

Altri tempi. Oggi l’Einaudi, grazie alla Mondadori, èuna macchina da guerra letteraria. Se AntonioPennacchi ha vinto lo Strega con Canale Mussolini,Einaudi ha vinto Viareggio (Lagioia) e Campiello

(Murgia). «Devo dire che sono tre buoni libri» conti-nua Ferrero «se ne fai di buoni, se sono migliori diquelli degli altri, se hai la maggior parte del mercato,è abbastanza logico che poi vinci. Mondadori nonvince tutti i premi semplicemente perché ha unapparato elettorale – sì ce l’ha, come altri, e funziona–, ma li vince perché mediamente i suoi libri sonomigliori di quelli degli altri. Facciamo il caso diTiziano Scarpa, poi, che ha vinto per un voto. QuelloStrega l’ha perso Scurati. Comunque era un’Einaudimolto snobistica quella di Calvino, afflitta da un sim-patico complesso di superiorità».

Tra l’Einaudi di oggi e quella di Calvino, c’è statal’Einaudi di Ferrero, che ha attraversato difficilimomenti economici. «Era un po’ come fare la guerrapartigiana in collina, eravamo in un’emergenza con-tinua, eravamo commissariati» racconta Ferrero «c’eraall’epoca una legge, una legge Prodi che era di salva-taggio delle aziende in difficoltà, la cui coperta fuallungata proprio per l’Einaudi che aveva meno di200 dipendenti. La soglia minima allora fu abbassataper salvare anche noi dalla pressione delle banche. Ilproblema dell’Einaudi è sempre stato finanziario, nonavendo una dotazione propria, dovendo chiederesoldi alle banche, con il costo dei soldi al 25 percento, più vendi più fai debiti. La legge prevedeva ilblocco dei debiti, noi ne usufruimmo grazie all’inter-vento di Pertini, poi l’Einaudi si è messa a fare utiliimmediatamente, anzi» ride Ferrero «se fossimo statiastuti avremmo dovuto fare una cooperativa, com-prarcela e dividere».

Fu una legge ad aziendam? «Sì, la soglia fu abbas-sata per noi. Ma in fondo non eravamo un’azienda,non come l’Einaudi di oggi. Sono state abolite quelleriunioni del mercoledì, non si svolgono più comeprima. Oggi anche I’Einaudi deve pensare al profitto,alla redditività, è cambiato il sistema decisionale.Giulio Einaudi era un incredibile direttore d’orchestra,l’Einaudi oggi continua a fare cose buonissime, manon credo si divertano quanto ci divertivamo noi.C’era grande euforia progettuale, eravamo una fami-glia rumorosa, disordinata e pittoresca, come quelladescritta da Natalia in Lessico famigliare, non c’era-no gerarchie e ruoli precisi, tutti facevano tutto».Raccontata così, sembra il Milan di Sacchi condecenni di anticipo.

Oblique Studio

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Il signore dei libri non dimenticherà mai le battutecon cui gli editori più glamour d’America cercaronodi scongiurare la sua formidabile ascesa. A queitempi, nei memorabili Novanta, prima che la Rete diinternet imbrigliasse ogni cosa, Barnes & Noble era labestia nera: il marchio che aveva trasformato la libre-ria in supermercato, il gigante che si era mangiato lepiccole botteghe orgogliosamente polverose di tuttigli States, il superstore che aveva per primo osatofarsi pubblicità nientemeno che in quel diabolicoelettrodomestico chiamato televisione. «Il problema»dice ancora adesso Leonard Riggio, classe ‘41, il pre-sidente della libreria più grande d’America e delmondo, «è che la gente di lettere tende a guardaredall’alto in basso quelli che fanno i profitti». Ma laverità che allora Len raccontava agli amici era un’al-tra: in fondo quegli snob degli editori, con la lorocode di riverenti letterati, non perdonava che nell’al-to dei cieli del mercato fosse assurto proprio lui, ilfiglio del tassista italiano di Bensonhurst, l’ultimaenclave tricolore di Brooklyn.

Perché gli italiani, si sa, in America hanno saputofare grandi cose, popolo di cantanti (ah, quel Sinatra)e irresistibili mafiosi (ah, quel piccolo Cesare di AlCapone). Ma la letteratura, come argomentò in unfamoso saggio sulla New York Review Of Books unodei pochi che nel campo aveva sfondato, Gay Talese,proprio no. E lui, un Riggio qualsiasi, il figlio piùintraprendente di quella famiglia di origine siculo-campana, pretendeva adesso di ergersi a dominusdella situazione?

Sì, nessuno gliela perdonò allora e tutti gli stannotifando contro adesso.

Adesso che i superstore si stanno sbriciolando susé stessi, adesso che Barnes & Noble è valutata unterzo di quel valeva quatto anni fa, adesso che il

colosso ha annunciato di voler chiudere a gennaioanche uno dei negozi simbolo di New York, i quattropiani di libri al Lincoln Center, adesso che pure larivale Border – disastrosa la pagella dell’ultimo trime-stre, 12 per cento giù dopo la scivolata a meno 18dello scorso anno – sta lottando disperatamente perla sopravvivenza.

«Vi dico che ogni business nato prima del 1997sarà un fossile nel 2010» profetizzò quindici anni fa ilsignore dei libri. Ma quando decise di prendere illargo sul vento di internet, sbagliò perfino il giornodel lancio: 11 settembre 2001. L’iniziativa coordinatacon Microsoft si rivelò un disastro: «Eravamo troppoin anticipo. E negli affari essere troppo in anticipo ècome essere troppo in ritardo». Nel 2007 inveceAmazon scommise su Kindle e fu subito un successo:però Riggio ci mise quasi tre anni per rispondere conquel Nook che, dice, «oggi è il prodotto che vendia-mo di più».

Proprio questo è il problema: che farsene, oggi chele vendite digitali crescono al quadrato, di quellemontagne di libri che giacciono nel mega hub delladistribuzione che Barnes & Noble ha finito di costrui-re appena qualche anno fa nel New Jersey?

Riggio ha vissuto tutta la vita in contropiede maadesso rischia di essere scavalcato lui dal contrattac-co dell’era digitale. Cominciò come impiegato allalibreria della New York University, quella storica inWashington Square, la piazza cantata in uno dei piùbei romanzi americani di Henry James, e arrivò adacquistare la vecchia Barnes & Noble di FifthAvenue, quello che negli anni Trenta era stato ilnegozio di libri più grande d’America ma allora,1971,era un relitto che nessuno voleva. Trasformò quelmarchio in oro, aprì più di 700 negozi negli States ecostruì il successo applicando davvero un pizzico di

LA GUERRA DEL RE DEI LIBRI PER SALVARE BARNES & NOBLE

Il fondatore Riggio vuole rilevare la catena americana ora in crisi. Contro di lui il socio di minoranza che punta a cambiare il nome

Angelo Aquaro, la Repubblica, 20 settembre 2010

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Oblique Studio

vivant, seguito dai tabloid, sempre in compagnia diuna fiamma nuova.

Ma Riggio non si arrende: non lascerà che la suaBarnes & Noble diventi Barnes & Burkle. E mentre daun lato è costretto a mettere sul mercato l’azienda,dall’altro sta organizzando una società per ricom-prarsela: naturalmente al prezzo ridotto dalla quota-zione attuale di mercato.

D’altronde il suo libro preferito non è Il conte diMontecristo, come ha scritto il settimanale NewYorker in un gustosissimo ritratto, ma La Metamorfosi.E don Len – che il profumo delle sfide impossibili haportato fino a New Orleans, dove lui (che è già uno deibenefattori più generosi, anche se non in vista, di NewYork) ha lanciato come Brad Pitt una charity per rico-struire le case dopo Katrina – non ha nessuna voglia difarsi schiacciare come un Gregor Samsa qualsiasi.

italianità al business style che non si è forgiato aHarvard ma alla Brooklyn Technical High School:piazzò il fratello minore Stephen sulla poltrona diamministratore delegato e cominciò un balletto disocietà dal portafoglio di famiglia a quello del-l’azienda, intanto quotata in borsa. Un giochetto chegli è valso ora la guerra di quell’azionista di mino-ranza, Ron Burkle, lui sì proprietario di superstoreveri (alimentari) e amico di Clinton, che sta tentan-do di scalare la società.

Per Riggio è la nemesi: tanto don Leonardo èriservato, chiuso, una vita tutta in famiglia (l’unicomomento in cui la sua casa di Manhattan è statabattezzata da un evento conviviale in tanti anni èstato qualche mese fa per una raccolta fondi del-l’amico e aspirante governatore Andrew Cuomo,naturalmente italiano come lui), così Burkle è un bon

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Silvia Bergero, Grazia, 20 settembre 2010

Un pastore travolto da un lutto. E dallemaldicenze dei suoi parrocchiani. «Ma la vita riserva sempre sorprese»,dice l’autrice, premio Pulitzer. «Basta non arrendersi alla paura»

CREDETEMI, DOMANIÈ UN ALTRO GIORNO

Katherine, chiusa nel suo silenzio, è un personaggiobellissimo…«Sono sempre stata interessata alle patologie che sisviluppano quando non è permesso allo spiritoumano di esprimersi. Un altro esempio nel libro è ildiacono Charlie Austin, che ha vissuto non si sa qualetrauma durante la guerra e non può comunicare conla moglie».

Tutti i personaggi sono bloccati, impauriti. Che cos’èla paura?«È uno strano sentimento. Da un lato ha una fun-zione protettiva, può tirar fuori da una situazionepericolosa e allora è utile. Ma, se prende il soprav-vento, è distruttiva. Metaforicamente è il diavolo,perché produce malvagità: le maldicenze dei fedelinei confronti di Tyler nascono proprio così. Lapaura che fa più danni, però, è il timore di nonvalere abbastanza: è da lì che sorge l’odio verso glialtri».

E lei, di che cosa ha paura?«Io colleziono ansie e preoccupazioni: sto facendo lacosa giusta nel lavoro, nella vita, con mia figlia? Ha27 anni, è una ragazza stupenda e felice, ma mi chie-do se sarà sempre così, se sarò capace di starle vicinoquando ne avrà bisogno. Si è genitori per tutta lavita, no?».

Come è diventata scrittrice?«Ho cominciato a scrivere a 5 anni, sognavo già difare questo mestiere. Da grande mi sono resa contodi non padroneggiare la lingua in maniera adeguatae ho studiato, con un lavoro di autodisciplina a cuimi sono dedicata scientificamente e che non misembrava mai abbastanza. Verso la metà di Amy eIsabelle ho capito che stavo cominciando a usare leparole esattamente per quello che volevo, ma è unprocesso che continua, sempre. Per quanto riguardai contenuti, invece, lì è la vita che ti prende e ti sbal-lotta un po’ e ti fornisce la materia e le emozioni dadare agli altri».

Il romanzo si conclude in maniera speranzosa. Lei èottimista?«Irragionevolmente, ma sì, lo sono. Sono toccatadalla capacità delle persone di resistere alle avversità.E da quelle coincidenze magiche che nascono dall’in-contro tra persone o da situazioni particolari in cuis’intuisce che c’è sempre un’altra possibilità».

C’è una sorta di gelo che, dai desolati inverni delMaine, «passa» nei personaggi dei romanzi diElizabeth Strout, irrigidendoli in falsi tracciati esi-stenziali (Olive Kitteridge, Pulitzer 2009, Amy eIsabelle, Fazi Editore). Sono storie familiari rappresein interni sconfortanti, vite assiderate in una sequeladi giorni senza luce, nel silenzio della campagna enella reticenza delle persone. Elizabeth è nata nelMaine: la prima domanda è se le sue descrizioni sonorealistiche. «Sì, il paesaggio è molto drammatico ebello, impossibile da ignorare. E le persone, più chereticenti, è come se non avessero le parole: non sipossono scindere dal contesto geografico». Alla finedell’intervista con una delle scrittrici più calorose eamabili che abbia incontrato, le chiedo come mai leisia così diversa. «La mia famiglia ha sempre detto cheparlo troppo. È uno dei motivi per cui 26 anni fa mene sono andata a New York».

Resta con me è ambientato nel 1959. Nella citta-dina di West Annett arriva il nuovo ministro del culto,Tyler Caskey: giovane e brillante, sposato a unadonna bellissima e fuori contesto. La piccola comuni-tà è affascinata dal carisma e dai sermoni di Tyler, lacoppia si ama nonostante le ristrettezze, ma lamoglie s’ammala e muore. Katherine, la figlia di 5anni, smette di parlare, la più piccola viene affidataalla nonna, Caskey è sempre più in difficoltà, a casacome in chiesa, e i fedeli gli si rivoltano contro, conpettegolezzi e maldicenze.

Quando viene messo alla prova, Tyler è quasi ottuso,incapace di capire. È mancanza di intelligenza emotiva? «È giovane e ingenuo. La morte della moglie rompe ilsuo guscio, costringendolo a guardare, forse per laprima volta, la realtà e anche dentro di sé, non solocome religioso, ma come uomo e padre».

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JOHN IRVING«RACCONTO LA FRONTIERA COME SE FOSSI SOFOCLE»

Maria Giulia Minetti, La Stampa, 21 settembre 2010

A 68 anni e al dodicesimo romanzo, John Irving con-serva l’aspetto solido e compatto di un uomo piccolodi statura ma nerboruto; la chioma scura delle fotogiovanili ora è grigio argento, ma folta come allora, esta seduto al tavolino della prima colazione (sono lenove di mattina) teso e all’erta, pronto, diresti, a saltar-ti addosso. Sicché fargli domande è un po’ intimiden-te. Da come le accoglie, sembrano tutte sbagliate. Nonrisponde mai subito, e ogni volta l’intervistatore temeche si alzi e se ne vada, esasperato. Invece sta soloconcentrandosi, accettando il ruolo che il tour promo-zionale gli infligge: ascoltare i giornalisti e replicare

esaurientemente, tenendo a bada l’impazienza.Quanto a me, comincio subito con un passo falso.

L’ultima notte a Twisted River è la storia di unromanziere, Daniel Baciagalupo, cui lei ha prestato,per così dire, il suo curriculum professionale. Perchéun libro autobiografico?«Vede questo? [Ha in mano il cartoncino rettangolaresu cui è scritto il menu del breakfast, ne piega un pic-colo lembo, pochi millimetri]. Ecco, la parte autobio-grafica sta al libro completo quanto questo minuscololembo all’intero pezzo di carta. È vero, visto che Danny

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è uno scrittore gli ho dato il mio approccio al mestie-re. Un tratto autobiografico “tecnico”, diciamo. Ma peril resto! Non ho mai creato un personaggio tantodiverso da me come Daniel Baciagalupo, un uomo per-seguitato dalla sorte, un uomo cui capitano tutte lecose che io ho paura persino a immaginare, e che peròimmagino continuamente…».

Un esorcismo, allora, più che un’autobiografia…Va avanti senza badare all’interruzione: «Scrivo daglianni Sessanta. E durante i Settanta, gli Ottanta, ancorafino alla metà dei Novanta, nessuno ha mai tirato fuoriquesta storia dell’autobiografia. Ma dalla seconda metàdegli anni Novanta in poi, tutti a frugare nei miei libriin cerca di elementi autobiografici. È una moda».

E se invece dipendesse dal fatto che passano glianni? Nelle opere tarde si suppone che l’elementoautobiografico affiori più facilmente…«Direbbe lo stesso di Sofocle o di Shakespeare?».

Ma non scrivevano romanzi!«Io penso che il mio modo di scrivere abbia più tratti incomune con Shakespeare e Sofocle di quanto ne abbiacoi romanzieri contemporanei. Quello che mi ha sem-pre interessato, nella scrittura, è il racconto di vicissi-tudini, la trama, l’intreccio. La complessità delle trameè la prima ragione del mio amore per i romanzi del XIXsecolo. E Sofocle e Shakespeare non sono da meno.Amleto ha un intreccio da romanzo dell’Ottocento».

Lei non parla in generale dei tragici greci, lei indica spe-cificamente Sofocle, tra i suoi «sodali» letterari. Perché?«Sofocle è il mio preferito. Quello che amo, in lui, è l’“ine-vitabilità“ delle sue trame. Ogni annuncio si compie. E ilcoro, in Sofocle – lo senti – è proprio la voce dell’autore,narrativa come la voce di un romanziere moderno,anche se è la voce di uno che è vissuto quattrocentoanni prima di Cristo. In questo mio ultimo romanzocerco di adoperare la stessa voce, di “annunciare” allostesso modo quello che accadrà, inevitabilmente».

Invece del mito greco, nel suo libro c’è il mito ameri-cano della Frontiera. «La Frontiera è il luogo fisico e spirituale di tutti i per-sonaggi. Twisted River è un romanzo sulla mentalitàdi frontiera degli Stati Uniti d’America».

Sentendola parlare, appare davvero curioso che tra isuoi maestri (all’università) ci sia stato Kurt Vonnegut,un moralista tanto ironico, svagante nelle trame,

quasi sperimentale nella scrittura. Vonnegut comun-que riconobbe subito il suo valore, le disse che pochigiovani scrittori in America promettevano quanto lei. Irving tace anche più a lungo del solito, rumina e riru-mina qualcosa, alla fine si decide: «Lo diceva a tutti, aisuoi studenti, ai suoi figli. Chiunque gli portasse qual-cosa da leggere riceveva spropositati incoraggiamenti.Anche quella frase che mi disse a suo tempo, e che nellibro io gli faccio dire a Danny: “Forse il capitalismo saràgentile con te”, be’, la ripeteva a chiunque, in ognioccasione. Lo salutavi: “Buonanotte!”, e lui: “Forse ilcapitalismo sarà gentile con te”. Gli ho voluto moltobene, siamo diventati grandi amici, negli anni, ma il suomodo di scrivere non ha avuto nessuna influenza su dime. Quando l’ho incontrato, i giochi erano già fatti».

Lei ha sempre appoggiato le cause dei liberal demo-cratici, le ha messe al centro dei suoi romanzi. Il dirit-to all’aborto in Le regole della casa del sidro, peresempio, o la condanna della guerra in Vietnam inPreghiera per un amico…«Proprio così».

Però s’è guadagnato una vera campagna d’insultiopponendosi all’Act 60, una legge varata nel 1998 inVermont, dove lei vive, che obbliga le città ricche asottrarre risorse alle loro superscuole per dirottarlesui comuni più poveri, con scuole insufficienti. L’Act60, ha tuonato lei, è una legge marxista.Irving diventa cupo, stringe i denti. Oddio!: «Unalegge demagogica, che ha regalato al Vermont ottoanni di governo repubblicano. Chi l’ha proposta vole-va punire i “ricchi”, non incrementare l’istruzione.Risultato: i democratici che l’hanno voluta sono statispazzati via alle elezioni».

Ma non è giusto che chi ha più soldi aiuti chi ne ha meno?«Rovinando buone scuole senza migliorare quellecattive? Perché i soldi arrivati ai comuni “poveri”mica sono stati usati per scopi scolastici. Ci hannocomprato gli spazzaneve!»

E adesso?«Adesso, nonostante sia stato uno dei responsabilidell’Act 60, faccio campagna perché il democratico PeterShumlin diventi il prossimo governatore del Vermontsconfiggendo Brian Dubie, il candidato della NuovaDestra repubblicana. In agenda Shumlin ha il matrimo-nio dei gay. E il “marriage equality”, l’uguaglianza di tuttinel matrimonio, nel rispetto dei diversi orientamenti ses-suali, è l’ultima frontiera dei diritti civili».

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Maurizio Costa contempla i colori dell’autunno chearriva dalle grandi finestre del palazzo Mondadori diSegrate. L’estate, ammette, ha portato «amarezze».Accuse, polemiche, sospetti, veleni. Non è facile gui-dare un’azienda che ha più di cent’anni ma che oraappartiene al capo del governo più chiacchieratod’Europa. Costa, vicepresidente e amministratoredelegato, si consola con i riconoscimenti di profes-sionalità e libertà editoriale che alla fine sono venutianche dai polemisti più accaniti. E guarda al futuroannunciando l’arrivo, a giorni, del primo pacchetto diebook: entro Natale 1400 titoli in formato digitale. Lanuova era dell’editoria comincia due anni dopo ilpunto di caduta più basso della crisi, quando pochiavrebbero scommesso sul futuro.

Ingegner Costa, lei è appena tornato da Berlino doveha celebrato i 175 anni del più grande gruppo dicarta stampata del pianeta, Bertelsmann, e dove haincontrato gli editori del mondo. Che aria tira? «Direi maggior consapevolezza, non euforia, ma lenebbie si stanno diradando, i conti economici delleaziende cominciano a respirare un po’ di più e abbia-mo la possibilità di ragionare sul futuro e investirerisorse in questo new deal. Siamo a un punto di svol-ta epocale, paragonabile a quella di Gutenberg di cin-quecento anni fa. Adesso come allora un’altra gran-de discontinuità tecnologica: il digitale».

Lei crede che la carta sparirà? «No, anzi. Ma per l’editoria sarà un altro inizio, lanuova tecnologia ci darà la possibilità di diffonderenuovi contenuti. L’editoria ha un grande futuro, conrischi e opportunità».

Le opportunità?

«Intanto innovazione nel mercato. Nel passato c’eraun’egemonia, un rapporto gerarchico tra prodotto elettore nella quale guidava il prodotto. Oggi il rapportosi inverte perché il lettore ha molto più potere, bombar-dato da proposte e suggestioni, può scegliere. A noitocca il compito di raggiungerlo e proporgli quello checerca. L’altro giorno leggevo su La Stampa un articolodi Guido Ceronetti in difesa dei giornali. Mi ha colpitoun passaggio. Diceva: torniamo agli strilloni. E questo èil punto: dobbiamo andare a cercare i lettori».

Sembra il quadro dell’«editoria senza editori» guida-ta dal marketing raccontata nel pamphlet di AndréSchiffrin: scelte editoriali dettate dall’ufficio vendite.È così?«No. Intanto il marketing non è un’attività spregevo-le, anche se io preferisco chiamarlo servizio al cliente:conoscerlo per fargli la proposta giusta e consegnar-gli in tempo rapido il prodotto, che siano libri, perio-dici o quotidiani. Oggi il digitale ci dà la possibilità diinterpretare il cliente e suggerirgli ciò che desidera».

Appunto, detta così sembra una rinuncia al ruoloculturale dell’editore che pubblica dei libri per il valo-re che hanno e non perché pensa che assecondino ilgusto del pubblico.«No, è il contrario. Noi pubblichiamo 1500 nuovi titoliall’anno. Per pubblicare questi ne vengono scartatimigliaia, purtroppo. Pubblicare un libro oggi significafare un investimento molto importante: carta, stampa,promozione. Nel futuro si potrà fare in termini econo-micamente molto più vantaggiosi. E si potranno pub-blicare molti più autori».

Insisto: ma se non avete la certezza che un certolibro venderà, lo pubblicate o no?

«CHI HA PAURA DELLA LIBERTÀ DI MONDADORI?»Dopo le «amarezze» estive l’amministratore delegato Maurizio Costa rivendical’indipendenza culturale e annuncia l’operazione ebook: 1400 titoli entro Natale

Cesare Martinetti, La Stampa, 24 settembre 2010

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«Con le nuove forme di diffusione i rischi economicisaranno minori, potremo allargare enormemente l’of-ferta. Però chi conosce il lavoro editoriale sa che nonesiste editor che dica: questo libro è buono ma non sipubblica. Il nostro è ancora un lavoro da idealisti».

Eppure questa è stata la polemica letteraria del-l’estate sostenuta dal critico Andrea Cortellessa nelsuo film Senza scrittori. L’ha visto?«No».

Cortellessa ha fatto un’inchiesta per dimostrare cheormai le scelte editoriali sono dettate dal marketing,a cominciare dai grandi premi che negli ultimi annisono sempre stati vinti dal gruppo Mondadori.Perché?«Non me ne posso certo rattristare. Ma non è una que-stione di marketing: è un tema di qualità editorialedella proposta. Prendiamo l’ultimo Campiello: su cin-que finalisti tre erano nostri e il primo e il secondo sonostati un libro Einaudi e uno Mondadori. Quest’anno èandata bene. L’anno prossimo non so. D’altra parte nonsempre i buoni libri vincono i premi…».

E non sempre i libri che vincono i premi sono buoni…«Infatti. Invece sono convinto che la qualità degliuomini che fanno i libri in Mondadori è molto alta ehanno un rapporto unico con gli autori. È questoche determina il circolo virtuoso. Comunque le douna notizia: fra pochi giorni presenteremo aFrancoforte 1200 ebook di cui duecento novità. Edentro Natale ne arriveranno altre duecento. Stiamocavalcando questa opportunità. Vogliamo essereall’avanguardia».

Gli ultimi mesi sono stati difficili per la Mondadoriaccusata di essere condizionata dalla politica del suoproprietario-premier, incalzata dagli altri editori perla legge sulle intercettazioni, minata dalle polemichedi alcuni tra i suoi stessi autori. Come ha vissutoquesti ultimi mesi?«Con amarezza, certo, ma non voglio entrare nelmerito. Già prima vi erano stati tentativi di tirare inballo la Mondadori in maniera strumentale, creandouna sorta di dicotomia tra azienda e proprietà. Pensoche Marina Berlusconi abbia risposto con grandechiarezza: non c’è dicotomia. Io sono a capo di que-sta azienda da quindici anni e lo posso testimoniare».

Tutto è cominciato quando Berlusconi ha detto che ilibri come Gomorra di Roberto Saviano (che viene

pubblicato da Mondadori) fanno male all’immaginedell’Italia. Che ne pensa?«Mondadori è un editore libero, per la sua storia, per ilrispetto che ha per ogni idea, per i libri e le riviste chepubblica, per i suoi autori, giornalisti, per i suoi mana-ger. E lo è anche per il suo azionista. Lo hanno testi-moniato le decine di dichiarazioni di questi mesi».

Nel dibattito sono entrati anche numerosi autoriMondadori. «Rispondo con i fatti: se c’è un confronto di idee, uneditore non può che essere contento. Se sono gliautori ad animare questo dibattito, ancora meglio.Noi siamo per la libertà di espressione. Quello che nonpossiamo accettare è il fatto che ogni idea venga lettasotto la lente deformante della battaglia politica. Inquesto paese ci sono fin troppe corporazioni e ideolo-gismi. Guardate il nostro catalogo storico e quello cheabbiamo pubblicato. Ma nell’amarezza di questo ago-sto, c’è stato un riconoscimento unanime di qualità,di professionalità e serietà della Mondadori. Meritodelle nostre strutture editoriali, di quegli editor chesono innamorati del nostro lavoro».

Ma se siete così gelosi della vostra indipendenza,perché al Salone del libro di Torino non avete fir-mato l’appello degli editori contro la legge sulleintercettazioni?«Per rispondere sarei costretto a entrare in polemicheormai superate. Preferisco tenere un tono più alto.Quella fu un’operazione di marketing dei nostri con-correnti, come dicemmo allora. Noi avevamo sotto-scritto la presa di posizione di associazione e federa-zione editori. Perché avremmo dovuto firmare unappello sopra e oltre a quello? Solo perché qualcunoin piena bagarre ha alzato il dito per metterci presun-tamente in imbarazzo?».

Però di là siamo arrivati al caso del teologoMancuso, il quale ha annunciato – con molti ondeg-giamenti – che lascerà Mondadori. Come lo spiega?«Ormai è un capitolo chiuso. Si sono fatte fin troppeillazioni. Restiamo ai fatti, e mi torna in mente un epi-sodio del ‘94, quando il gruppo Mondadori assunse ilcontrollo dell’Einaudi. Fui proprio io a incontrareGiulio Einaudi e il gruppo dirigente di via Biancamanoper favorire l’ingresso in Mondadori. Allora un giorna-le titolò: «Il Biscione si mangia lo Struzzo». Sono pas-sati sedici anni, l’Einaudi vive una straordinaria sta-gione editoriale, è tornata in piena salute e lo Struzzocorre libero e sereno».

Rassegna stampa, settembre 2010

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«Ora sai dove cercare quello che non trovavi» è lo slo-gan della XX edizione della mostra mercato sulla pic-cola editoria che sabato e domenica torna ad anima-re il Castello di Belgioioso (a una decina di chilometrida Pavia). I vent’ anni di «Parole nel tempo» seguonoil decennale di «Parolario» (Como) e anticipano ifesteggiamenti (2011) per il XV Festivaletteratura diMantova. La cultura, nel nostro territorio, tiene. Ladue giorni di Belgioioso ospiterà 130 piccoli editori diqualità da tutta Italia. «Capienza massima occupata»,dice Guido Spaini, ideatore e organizzatore della sto-rica vetrina: «Riceviamo molte richieste, ma lo spazioè contingentato e numerosi editori partecipanofedelmente a quasi tutte le edizioni». L’inizio è meri-to dell’editrice siciliana Elvira Sellerio, scomparsarecentemente. È la fine degli anni Ottanta. Spaini haun isolato castello pavese e un’attrazione fatale per ilibri difficili da rintracciare. «Una domenica vedoun’intervista alla signora Sellerio. La chiamo, senzaconoscerla, e le parlo dell’idea di portare la piccolaeditoria a Belgioioso. Lei aderisce subito dandomi irecapiti di altri editori da contattare a suo nome».Alla prima «Parole nel tempo» partecipano in settan-ta. Tra i fedelissimi che torneranno anche in questoweekend, molti milanesi: Isbn, ObarraO, Eleuthera e,in ambito poetico, Crocetti. E la pavese Ibis, l’udineseCampanotto, la leccese Manni, la padovanaMeridiano Zero, e la romana Stampa Alternativa diMarcello Baraghini, che compie quarant’ anni. Nonmancano nomi noti, come minimum fax, che haappena pubblicato il nuovo libro di Zadie Smith, oemergenti. Tra loro, la milanese Sedizioni, che aBelgioioso lancerà una colonna di poesia diretta da

Nicola Gardini (docente a Oxford e scrittore), e ladebuttante 66thand2nd, romana ma con nome ecatalogo newyorkesi. La scena della piccola editoriasembra vivace. È così, Spaini? «I piccoli editori sonoabituati a soffrire, ma resistono. Un tempo “piccolo”era bello. C’era chi si vantava di non appartenere auna major, con il risultato che apriva e chiudeva dicontinuo. Oggi è aumentata la professionalità. L’edi -toria di qualità non è più considerata un hobby dilusso, ma un mestiere vero e proprio». Che rapportoha, da capostipite, con gli altri festival letterari? «Il“Festivaletteratura” di Mantova o “Più libri più liberi”di Roma non sono paragonabili per dimensioni e spi-rito a Belgioioso. La nostra è una mostra mercato,privilegiamo la vendita agli incontri con gli autori,che pure avvengono, nelle sale del castello o passeg-giando tra gli stand. Ci sta a cuore, soprattutto, che ipiccoli editori facciano conoscere a un pubbliconumeroso titoli fuori dalle classifiche, raramentedisponibili nelle grandi librerie. Rivendichiamo l’esse-re rimasti anarchici e di nicchia». Evento specialedella XX edizione, un giro in mongolfiera con decollodal parco del Castello: i lettori che compreranno duelibri ObarraO potranno ammirare dall’alto il territoriodi Belgioioso. In cartellone, omaggi a Gianni Brera eagli scrittori ospiti delle passate edizioni: Volponi,Maria Corti, Davico Bonino, Sanguineti, Pontiggia.Nel ricordo di un’altra signora della cultura: AldaMerini, amica di Spaini, che ricorda: «L’ho ospitata induemila occasioni, ma non era mai puntuale. Unavolta arrivò con un giorno di ritardo. Fingevo di esse-re arrabbiato. Allora, Alda estrasse dalla borsa unapolaroid e me la donò. Era una foto del suo pube…».

SPAINI, IL RE DEL CASTELLO DI CARTA CHE SI BATTE PER I PICCOLI EDITORIAnnarita Briganti, la Repubblica, 24 settembre 2010

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Chiude il festival dei piccoli editori e forse chiudeanche la favola del re del castello di Belgioioso e delreame «Parole nel tempo». La XX edizione che haappena compiuto 20 anni rischia di essere l’ultima.Senza scomodare Nizan, essere giovani e crescere èdura. Pure per i libri e per chi se ne ne occupa, soprat-tutto nella campagna pavese. Guido Spaini nel ‘90chiamò Elvira Sellerio e le propose un festival per edi-tori ancora artigianali, che seguissero tutte le fasidella creazione del libro. In questo senso piccoli, nonper creatività e interesse. «La signora Sellerio disse sì,mi interessa. Mio figlio Tommaso era appena nato,Camilleri era sconosciuto, mi buttai nell’avventura.Siamo partiti con 50 editori ora siamo saliti a un cen-tinaio, con titoli che in libreria non si trovano, autoricome Alda Merini, Paolo Volponi, Maria Corti, veniva-no a trovarci, si discuteva qui in giardino, la nostraera ed è una formula affettuosa: vediamoci, parlia-moci, scambiamoci passioni. Ora anche se facciamopagare un biglietto di 8 euro, perché da noi viene chiè veramente interessato, senza aiuti pubblici è diffi-cile far sopravvivere questa manifestazione. L’auto -finanziamento non basta più, mio figlio ora è all’uni-versità, forse è tempo di fare altre scelte. Ho vinto lascommessa, ma non credo che convenga più gioca-re». Vent’anni fa non c’erano i festival che ci sonooggi, internet era in sala parto, nei centri commercia-li si comprava il sugo, ma non letteratura, e nessunopensava di ordinare i libri online. Oggi il panoramaattorno è cambiato, il castello di Belgioioso con il suofestival resta bello, ma c’è meno gente e un filo distanchezza. I meriti restano, perché ormai nelle libre-rie si trova solo l’appena uscito e il grande successo.Dice Spaini: «Qui approdò Gesualdo Bufalino, pubbli-cato da un piccolo editore di Catania, qui quest’annoabbiamo ospitato Hacca, realtà marchigiana, lanuova 66thand2nd, che mischia ad alto livello sporte sociale, Ibis, con i suoi libri di viaggio, dalle ricettedi cucina di Dumas a quelle di Tolouse Lautrec,Moretti e Vitali che pubblicano Hillman». Le bancarel-le al posto della grande libreria dove se chiedi

Shakespeare ti domandano: come fa di nome? Manniè un editore pugliese che è cresciuto con Belgioioso,sempre presente nei 20 anni di mostra, molto legatoa Alda Merini. Agnese, figlia di Piero e Anna Grazia,insegnanti, dai quali ha ereditato la passione, spiegacome l’azienda sia passata da uno a 16 dipendenti edi come non sia vero che nelle librerie trovi di tutto:«Lì i volumi hanno vita breve, vanno subito fuoricatalogo e bisogna ordinarli. Chi ama il libro vuole ilcontatto fisico, sfogliare, parlare. Ma questo è unmomento difficile, dove le grandi case si mangiano lepiccole, anche perché hanno librerie, tv, catene didistribuzione, e una legge schifosa che permettesconti tutti l’anno». Massimo Spagnoli, Book Editore,di Ferrara, arte, poesia e saggistica, dice: «C’è flessio-ne di pubblico, disattenzione generale, il piccolo edi-tore che propone percorsi alternativi era una nicchia,ora è un angolo della nicchia, in poco tempo la spro-porzione è cresciuta, in Italia ogni giorno escono 200titoli, ma a leggere sono pochi. Lo scambio del libroattraverso la posta non funziona perché ad aprilehanno tolto le tariffe ridotte editoriali, il libraio nonordina perché non ha più guadagno. E poi oggi c’èl’ebook, e molta meno resistenza a leggere non sulcartaceo». Gabriele Dadati, 28 anni, di Piacenza,Laurana Editore, che ha curato anche «Antologia pri-vata», la mostra di quadri dedicata a Davide Corona,però non si rassegna: «Pubblico Tomassini, Bosonetto,Cassani, narrativa italiana, perché credo nel rapportoumano, con gli autori, e perché mi dà soddisfazioneeseguire un progetto, proprio come chi gioca a cal-cio. Sì c’è crisi e depressione, ma i piccoli editori con-tinuano a mandare i loro segnali sotterranei. Sonocerchi nell’acqua, anche se il lago ormai si è prosciu-gato». Isabella Ferretti, di Roma, della casa editrice66thand2nd, alla sua prima esperienza a Belgioioso:«Il bilancio è positivo, ci siamo allargati sul territorio,molto più che a Torino, che ha un pubblico più com-patto. Questo festival ha un passo tranquillo e matu-ro, la gente si ferma e chiede». Una piccola grandevisibilità: parole nel tempo e nel vento?

LA CRISI DI BELGIOIOSO: «ADDIO FESTIVAL»La manifestazione più antica, fatta per i piccoli editori, è in crisi: «Troppa concorrenza»Emanuela Audisio, la Repubblica, 28 settembre 2010

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È vero, Dostoevskij scriveva in mutande perché avevaimpegnato i pantaloni al Monte di Pietà, ma lui,appunto, era Dostoevskij. Oggi i romanzieri – quantoa tenore di vita e condizioni di scrittura – sono abi-tuati meglio. Soprattutto gli americani, che da braviprofessionisti campano di royalties, mica di stile efilosofia. Notizia: anche loro saranno costretti a tira-re – un po’ – la cinghia. Da un articolo di JeffreyTrachtenberg sul Wall Street Journal, infatti, appren-diamo che l’arrivo degli ebook sta cambiando, in peg-gio, le cifre che gli editori anticipavano ai propriautori. Trachtenberg racconta la storia dell’agenteletterario Sarah Yake e dei suoi inutili tentativi dipiazzare a importanti editori newyorkesi il romanzoSleight di Kirsten Kaschock, che reputava moltobuono. Alla fine, autrice e agente si sono ritrovati avalutare tristemente l’anticipo di soli 3500 dollariofferto dalla Coffee House Press di Minneapolis. «Unapiccola frazione» scrive Trachtenberg «del tipico anti-cipo pagato da una grossa casa editrice».

La colpa di tutto questo? «La rivoluzione digitale»scrive Trachtenberg «ha scompigliato il modello del-l’industria editoriale e sta avendo ora un impatto sullacarriera dei giovani scrittori». Gli fa eco l’agente lette-raria Ira Silverberg: «Gli anticipi degli editori sono oggiai minimi». La nuova economia dell’ebook, di fatto, haabbassato automaticamente le cifre: se negli Usa un

hardcover viene venduto in libreria a 28 dollari, l’edi-tore ne intasca 14, l’autore 4,20. Un ebook costa dimedia 12,99 dollari: all’editore ne vanno 9,09 e all’au-tore «solo» 2,27. Siccome in America gli ebook stannoesplodendo (gli introiti derivati dalla loro vendita sonosaliti tra il 3 e il 5 per cento rispetto all’anno scorso,attestandosi sull’8 per cento di tutti i ricavi degli edi-tori, e c’è chi dice che nel 2012 gli ebook rappresen-teranno tra il 20 e il 25 per cento di tutti i titoli ven-duti), ecco che allora diventa facile dar loro la colpa.Ad esempio Nan Talese, che in America pubblicagiganti come Ian McEwan e Margaret Atwood, preve-de che quello che è successo nel mondo della musica,a causa del download a basso costo, succederà anchenel mondo dell’editoria: «Per quanto riguarda la pos-sibilità di vivere facendo gli scrittori: è meglio avereun’altra fonte di reddito».

C’è però qualche voce fuori dal coro. «Le cose stan-no diversamente» ci dice Vicki Satlow, uno dei piùimportanti agenti del mercato anglosassone «e lacolpa non è dell’ebook. Gli anticipi bassi sono untrend a prescindere, dovuto al fatto che gli editoriinvestono molti soldi su pochi libri, facendo così spa-rire quel “livello medio” che pubblicavano nella spe-ranza di veder crescere l’autore. Il quale non devecerto preoccuparsi dell’ebook, che gli permetterà dinon uscire mai dal catalogo».

L’EBOOK? SVUOTERÀ LE TASCHE DEGLI SCRITTORIL’editore di Ian McEwan al Wall Street Journal: «Non si potrà più vivere facendo solo l’autore»

Tommy Cappellini, il Giornale, 30 settembre 2010

«Per quanto riguarda la possibilità di vivere facendo gli scrittori: è meglio avere un’altra fonte di reddito»

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