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Studi di Regia Studi di Regia Studi di Regia Studi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermagli Premessa Nel proporre una lettura registica de Jean Genet non si vuole, sia ben ch una spiegazione (esplicazione) de una sua possibilità di lettura, cons convinti) della potenzialità anamorfic drammatico. Si potrebbe ora credere che co “anamorfosi” si voglia presupporre l’e “punto di vista” (magari stabilito dall’a di farci cogliere il vero (insito o me dell’opera, cui, dunque, la suddetta lettura anelerebbe. Niente di più sbagliato. “Potenzialità anamorfica” dell’opera sta qui a indicare la possibilità (p essa ha di essere colta da diversi punti di vista, nessuno dei quali essere immaginato come preesisten in cui si decide di porsi di fronte a un io. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean L’alterità negat ovvero per una anamorfos de “Le Serve” di J di Bruno Zucchermaglio e “Le Serve” di hiaro, proporre el testo, bensì sci (soprattutto ca di ogni testo on il termine esistenza di un autore) capace eno) significato a possibilità di a (drammatica) peculiarità) che (innumerevoli) può (o deve) nte al momento n testo. Chi saranno i delegati a nell’altro) di fronte all’ope pochi, in realtà. Vediamo. La maggior parte delle o vengono rappresentate conosciute, sono già state volte, hanno una loro gen loro collocazione storico dalla critica ufficiale, dagli via. Ogni opera, insomma, app alla coscienza collettiva pe una certa aspettativa di d meno preciso orizzonte d’a possiamo paragonare il drammatiche 1 ad un voca 1 “Pleroma: vasto insieme st fa la somma totale di real pleroma delle filosofie, il pl Termine preso a prestito dag eoni”. Dal “Glossario” i corrispondenza delle arti, tr. 1988. n Genet 1 ta si registica Jean Genet Studi di Regia Studi di Regia Studi di Regia Studi di Regia. . . . I. 2011 I. 2011 I. 2011 I. 2011 a porsi (in un modo o era? Tutti, teoricamente; opere drammatiche che sono più o meno e messe in scena diverse nesi, per così dire, una o-culturale riconosciuta storici del teatro, e così partiene in qualche modo er cui si va a teatro con determinazione, un più o attesa. In tale accezione pleroma delle opere abolario, la langue di de trutturato e completo che ltà di un certo genere: il leroma delle opere d’arte. gli gnostici: il pleroma degli in Souriau Etienne, La . R. Milani, Firenze, Alinea,

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Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

Premessa

Nel proporre una lettura registica de “Le Serve” di

Jean Genet non si vuole, sia ben chiaro, proporre

una spiegazione (esplicazione) del testo, bensì

una sua possibilità di lettura, consci (soprattutto

convinti) della potenzialità anamorfica di og

drammatico.

Si potrebbe ora credere che con il termine

“anamorfosi” si voglia presupporre l’esistenza di un

“punto di vista” (magari stabilito dall’autore) capace

di farci cogliere il vero (insito o meno) significato

dell’opera, cui, dunque, la suddetta

lettura anelerebbe.

Niente di più sbagliato.

“Potenzialità anamorfica” dell’opera (drammatica)

sta qui a indicare la possibilità (peculiarità) che

essa ha di essere colta da diversi (innumerevoli)

punti di vista, nessuno dei quali può

essere immaginato come preesistente al momento

in cui si decide di porsi di fronte a un testo.

Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

L’alterità negataovvero

per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

di Bruno Zucchermaglio

Nel proporre una lettura registica de “Le Serve” di

Jean Genet non si vuole, sia ben chiaro, proporre

una spiegazione (esplicazione) del testo, bensì

, consci (soprattutto

convinti) della potenzialità anamorfica di ogni testo

Si potrebbe ora credere che con il termine

“anamorfosi” si voglia presupporre l’esistenza di un

“punto di vista” (magari stabilito dall’autore) capace

di farci cogliere il vero (insito o meno) significato

ddetta possibilità di

“Potenzialità anamorfica” dell’opera (drammatica)

sta qui a indicare la possibilità (peculiarità) che

essa ha di essere colta da diversi (innumerevoli)

punti di vista, nessuno dei quali può (o deve)

essere immaginato come preesistente al momento

in cui si decide di porsi di fronte a un testo.

Chi saranno i delegati a porsi (in un modo o

nell’altro) di fronte all’opera? Tutti, teoricamente;

pochi, in realtà. Vediamo.

La maggior parte delle op

vengono rappresentate sono più o meno

conosciute, sono già state messe in scena diverse

volte, hanno una loro genesi, per così dire, una

loro collocazione storico

dalla critica ufficiale, dagli storici del teatro,

via.

Ogni opera, insomma, appartiene in qualche modo

alla coscienza collettiva per cui si va a teatro con

una certa aspettativa di determinazione, un più o

meno preciso orizzonte d’attesa. In tale accezione

possiamo paragonare il pleroma delle oper

drammatiche1 ad un vocabolario, la

1 “Pleroma: vasto insieme strutturato e completo che

fa la somma totale di realtà di un certo genere: il

pleroma delle filosofie, il pleroma delle opere d’arte.

Termine preso a prestito dagli gnostici: il pleroma degli

eoni”. Dal “Glossario” in Souriau Etie

corrispondenza delle arti, tr. R. Milani, Firenze, Alinea,

1988.

Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

1

L’alterità negata

per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia. . . . I. 2011I. 2011I. 2011I. 2011

Chi saranno i delegati a porsi (in un modo o

nell’altro) di fronte all’opera? Tutti, teoricamente;

opere drammatiche che

vengono rappresentate sono più o meno

conosciute, sono già state messe in scena diverse

volte, hanno una loro genesi, per così dire, una

loro collocazione storico-culturale riconosciuta

dalla critica ufficiale, dagli storici del teatro, e così

Ogni opera, insomma, appartiene in qualche modo

alla coscienza collettiva per cui si va a teatro con

una certa aspettativa di determinazione, un più o

meno preciso orizzonte d’attesa. In tale accezione

possiamo paragonare il pleroma delle opere

ad un vocabolario, la langue di de

“Pleroma: vasto insieme strutturato e completo che

fa la somma totale di realtà di un certo genere: il

pleroma delle filosofie, il pleroma delle opere d’arte.

Termine preso a prestito dagli gnostici: il pleroma degli

eoni”. Dal “Glossario” in Souriau Etienne, La

corrispondenza delle arti, tr. R. Milani, Firenze, Alinea,

Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

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Saussure, i cui significati sociali, ampi, vaghi e

astratti2 aspettano di essere determinati dall’atto

linguistico, dalla parole desaussuriana, dal

contesto.

Una parola, dunque, acquista un suo significato

preciso, concreto, circoscritto e individuale solo se

viene determinata, contestualizzata dalla frase,

dalla catena sintagmatica. Ciò non toglie che “il

significato di una parola consiste essenzialmente

in una certa aspettativa di determinazione. La

parola ‘paesaggio’ stabilisce l’aspettativa di un

contesto in cui probabilmente il discorso verterà

attorno ad elementi del paesaggio”3.

Così il testo drammatico (nonostante aspetti di

essere determinato da una messinscena, da una

pertinentizzazione registica) viene fruito con un

seppur vago orizzonte d’attesa, il quale, se non

riguarda propriamente il livello semantico

dell’opera e quindi le sue diverse possibilità di

d’interpretazione, riguarderà i moduli (che ne so?)

recitativi degli attori, la spazializzazione, i tempi di

fruizione, la ritmomusicalità dell’esecuzione, la

scenotecnica, il (per dirle tutte con un’unica parola

che suona, però, come un po’ riduttiva)

coordinamento registico.

2 La concezione del significato di una parola come

ampio, vago, sociale e astratto che, all’interno di una

frase, per mezzo dell’intendimento, diventa

circoscritto, preciso, individuale e concreto, la

troviamo in Weinrich Harald, Metafora e menzogna: la

serenità dell’arte, Bologna , Il Mulino, 1976. “Assieme

all’ulteriore contesto e alla situazione inerente, la

frase limita il significato (ampio, vago, sociale,

astratto) in funzione dell’intendimento (circoscritto,

preciso, individuale, concreto). Quando si sente una

parola isolata, la mente può vagare per l’intera

ampiezza del significato. Se si sente invece la parola

nel testo, ciò non accade” (Ivi, pp. 145-6). 3 Weinrich, cit. p. 89.

Intendiamo dire che qualora il pubblico non avesse

particolari orizzonti d’attesa nei confronti del

significato dell’opera, li avrà nei riguardi dei modi di

produzione, di (utilizzando un’espressione poco

appropriata, ma forse efficace) presentazione

dell’opera.

Insomma, anche se in attesa di essere

determinata, specificata, attualizzata dalla

messinscena registica, l’opera drammatica

presuppone un vago, indefinibile (ma pur sempre

presente) orizzonte di attesa, frutto di un insieme di

convenzioni (convinzioni), abitudini, ecc., che la

coscienza collettiva ha fatto proprie in un

determinato periodo storico.

Gli orizzonti d’attesa così preesistenti

nell’immaginario collettivo finiscono con il coartare

anche i registi che limitano, preordinano i “punti di

vista” spesso anche perché assoggettati dalla

committenza, da esigenze, insomma, strettamente

commerciali o ad ogni modo contingenti. Ma è pur

vero che per quanto un regista cerchi, diciamo

così, di assecondare il pubblico, non sarà mai

possibile stabilire a priori e con esattezza l’effetto

che un’azione, un gesto, una proposta insomma,

avrà in scena.

E poi, senza correre il rischio di vivere e lavorare

completamente avulsi dalla realtà, non dobbiamo

dimenticare che il teatro (anche se vittima della

sua commercializzazione) rimane sempre un luogo

deputato all’arte, ove l’opera, nonostante la

determinazione che la teatrofania comporta,

rimane suscettibile di infinite altre interpretazioni,

ripertinentizzazioni anche personali da parte dei

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fruitori, vuole, insomma, essere colta come

polisemica.

“Il comportamento teatrale (artistico) della ‘regia’

passa a fianco di tutte le nostre più normali attese

(attese dal Mittelmensch, si capisce, da quell’uomo

medio che sempre sta dentro anche di noi) al

riguardo”4.

Se il testo scritto aspetta di essere specificato,

rifunzionalizzato, dall’intendimento del regista,

l’esecuzione teatrale (in virtù del luogo in cui si

epifanizza e non essendo uno spot televisivo che

come tale ha l’obbligo commerciale di essere

monosemico) è un ritorno al vago,

all’indeterminato, cui il singolo fruitore deve

(dovrebbe) rispondere con la propria

determinazione, per mezzo del proprio “punto di

vista”.

Inutile dire che l’esecuzione di un testo in teatro da

parte di un regista comporta l’esautoramento di

quest’ultimo, al punto che egli, nel fruire il “suo”

spettacolo, potrà a sua volta coglierlo sotto un

nuovo, imprevedibile “punto di vista”.

Horror vacui vs. horror pleni

“Se, in tempi remoti, quando l’uomo viveva nella

solitudine di immensi spazi deserti, l’orrore per il

vuoto fu la prima motivazione delle incisioni

rupestri come quelle dei camuni, delle caverne

aurignaziane e magdaleniane, delle grotte di

Lascaux o di - oggi un orrore eguale e di segno

opposto dovrebbe finalmente occuparlo e

4 Nanni Luciano, Regia come paradosso, in Studi di

regia, Quindi - per l’invenzione del tempo, Bologna,

Magazine, aprile 1987.

preoccuparlo. Invece non è ancora così. L’uomo

non si è ancora accorto di aver saturato quasi

completamente la sua possibilità di neocreazione

d’ immagini. Ci troviamo di fronte al più colossale e

ubiquitario ‘inquinamento immaginifico’ cui la

nostra civiltà abbia mai assistito. L’eccesso di

stimolazioni visive e auditive dovute ai giornali, ai

fumetti, ai film, alla pubblicità ecc., ma anche alla

normale segnaletica del traffico, alle scritte

luminose, … hanno fatto sì che non resti quasi più

nulla di libero da segni. (…) Carichi di troppi

elementi che s’accavallano nella nostra mente -

spesso subliminarmente - finiamo per confonderli e

annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama”5.

Quella che da Raffaele Milani è stata definita

“estasi della nuova modernità”6, nasce proprio

dalla ridondanza di elementi segnici, in particolare

dalla ostensione e dall’accumulo di immagini in

movimento accompagnate, commentate (se non

addirittura forgiate) da musiche, musichette,

jingles, ecc.

Se la percezione equivale alla facoltà di cogliere le

differenze, di fronte a questo flusso visivo-sonoro

siamo privi di sensibilità, privi (soprattutto) di senso

critico. “Come il cane fiuta meglio la selvaggina

quando essa si muove, e muovendosi libera la

nuvoletta del suo odore, così la percezione e il

pensiero captano meglio ciò che è variabile di ciò

che è costante. Quelli che abitano vicino ad una

cascata non sentono il rumore, e, invece, se

5 Dorfles Gillo, L’intervallo perduto, Torino, Einaudi,

1980, pp. 12-3. 6 Milani Raffaele, Tecniche dello sguardo. Filmologia

ed estetica comparata, Modena, Mucchi, 1988, pp. 31

e segg.

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questo si interrompe, percepiscono ciò che sembra

più incredibile: il silenzio”7.

Principale responsabile di questa cascata di

immagini e suoni è la televisione, anche se a

partire dalla metà degli anni Novanta del XX secolo

tale “responsabilità” ricade in modo gradualmente

sempre più importante anche sui personal

computer, in particolare se collegati al web. Ma la

televisione, in particolare a partire dalla fine degli

anni Settanta e in modo decisamente incisivo dalla

metà degli anni Ottanta, struttura i suoi palinsesti al

fine di creare un flusso audiovisivo sempre più

ammiccante e sempre più dinamico, privo di quei

“neri” (ossia di spazi vuoti, di intervalli) che

caratterizzavano la cosiddetta “paleo-tv”8 e che

ora, anche a fronte di un’ampia gamma di canali

disponibili, inviterebbero il telespettatore a

“distrarsi” e soprattutto a utilizzare il telecomando

per sintonizzarsi su un altro programma. Nel

vissuto quotidiano è infatti sempre più presente

quel “terrore del vuoto” per cui è necessario

colmare qualsiasi spazio vuoto, qualsiasi momento

libero, attraverso la fruizione, la consumazione, al

fine di scandire, ritualizzare, i vari momenti della

giornata e della vita. “Il consumo è un processo

rituale la cui funzione primaria è di dare un senso

al flusso indistinto degli eventi”9. Il consumo è

anche consumo-fruizione di immagini, suoni, e

infatti “l’uomo adulto, il bambino, la donna,

l’operaio, l’intellettuale, sono a caccia di

7 Ortega Y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Napoli,

Guida, 1986, p. 431. 8 Cfr. Eco Umberto, Stravideo, in L’Espresso, n. 4,

Roma, 30 gennaio 1983, pp. 52-7. 9 Douglas M. - Isherwood B., Il mondo delle cose,

Bologna, Il Mulino, 1984, p. 73.

sollecitazioni che colmino ogni residuo vuoto di

tempo e di spazio; ogni possibile pausa nel

succedersi degli eventi”10.

Ecco che l’eccesso di immagini in movimento si

risolve in una “immobilità del movimento”, in una

perdita di senso in assenza di un fattore

diastematico, che permetterebbe una “presa di

coscienza”, lo sviluppo di un senso critico nei

confronti di ciò che ci viene reiteratamente

“proposto”.

All’horror vacui dovrebbe sostituirsi l’horror pleni, il

terrore per il “troppo pieno” e dovrebbe prendere

spazio la necessità di una cesura, di un fattore

intervallare attraverso il quale instaurare una

distanziazione critica da quanto ci attornia. Tale

sarà la funzione (e in questo modo dovrà essere

fruita) dall’opera d’arte che si avrà in un luogo (e in

un momento) deputato all’arte, alla ricezione

critica, speculativa, analitica.

Immersi in un vissuto quotidiano sempre più

caotico e “pieno”, cui sembra impossibile sottrarsi,

si propone qui un momento intervallare, un

macrodiastema, caratterizzato dall’epifania

dell’opera d’arte, dalla (nel nostro caso particolare)

teatrofania.

Teatro, quindi, come luogo in cui si va per sot-trarsi

dal flusso indistinguibile di immagini e suoni della

quotidianità; teatro come luogo della dis-trazione e,

perché no?, della diversione, del divertimento,

inteso soprattutto nel suo significato etimologico di

“allontanamento”. Qui intendiamo dunque il teatro

quale luogo peculiare in cui si va - e ciò lo si fa per

precisa nonché deliberata scelta - per godere di

10

Dorfles Gillo, cit., p. 11.

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una pausa, di un momento di riflessione, di

allontanamento, appunto, dallo stress della vita

quotidiana.

“Il gioco è l’arte o la tecnica elaborata dall’uomo

per sospendere virtualmente la sua schiavitù

dentro la realtà, per evadere, fuggire, sot-trarsi al

mondo in cui vive per rifugiarsi in un altro irreale. Il

che significa dis-trarsi, versarsi in un’altra vita:

questo rivolgimento è il divertimento. Esso è

consustanziale alla vita umana (…). Il gioco ha

creato molte forme di divertimento, più o meno

perfette. Le più perfette sono le arti, perché

riescono a liberarci da questa vita, in modo più

efficace di ogni altra cosa. E tra le arti, è stato il

teatro il massimo vertice del divertimento”11.

Teatro, quindi, come momento di sospensione

dell’attività convulsa della quotidianità e teatro

come luogo di fruizione di un’opera (un testo

messo-in-scena) la cui agogica si differenzierà da

quel flusso visivo-sonoro in cui troviamo immersi.

Mentre dalla televisione (e dai mezzi di

comunicazione di massa in genere) veniamo agiti

nostro malgrado, in maniera pressoché continua

(tanto che i programmi televisivi vengono

dilazionati lungo tutto l’arco della giornata e sono

strutturati proprio per essere fruiti distrattamente,

per glances), l’atto dell’andare-a-teatro è un atto

volontario, deliberato, che presuppone l’intenzione

di lasciarsi agire, di fruire e godere di una

esecuzione ritmica particolare, dalla quale si

prenderanno le dovute distanze. Anche per il

teatro, dunque, si può parlare di “serenità dell’arte”,

11

Ortega Y Gasset, cit. Introduzione di Otello Lottini,

pp. 21-2.

nel senso che lo spettatore è “colui che,

liberamente, accetta, per un periodo di tempo

limitato della sua vita, lo stato di lettore, spettatore,

osservatore o ascoltatore. Attributi di questo ruolo

sono la distanza e la libertà, e da queste nasce poi

quella serenità che è del tutto indipendente dal

carattere gaio o triste - in accordo col mondo

esterno o distruttore dei suoi valori - dell’opera

d’arte”12.

Avulsi (ma non per questo narcotizzati) dalla

“circostanza”13 quotidiana, in teatro il nostro

atteggiamento sarà critico, di “presa di coscienza”

di fronte al manifestarsi dell’opera teatrale. Qui i

rituali, i gesti quotidiani e gli automatismi della

realtà vissuta “normalmente” da ciascuno di noi

risalteranno, saranno in un certo qual modo

reificati, resi, quindi, oggetto di analisi critica

nonché, volendo, anche ironica, di derisione.

Così la rappresentazione delle serve di Genet (di

cui si tratterà meglio più avanti) non richiederà di

certo la pietà, l’identificazione del pubblico, bensì

la presa di coscienza (il “prendere atto di

qualcosa”) di una situazione che l’autore (e il

regista) ha voluto porre di fronte a noi (al pubblico)

senza particolari pretese, se non quella di “non

lasciarsi ingannare” da ciò che sta accadendo in

scena.

Sarà necessario, quindi, un between, un fra che

separi l’opera dallo spettatore. Egli dovrà sì

lasciarsi agire, ma sempre nella consapevolezza

12

Weinrich Harald, cit., p. 260. 13

Il termine “circostanza” è qui inteso nel suo

significato di realtà, “mondo presente” che ci circonda

e nel quale ci troviamo catapultati, a dover esistere,

“sussistere”, nostro malgrado. Passim in Ortega y

Gasset, cit.

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che ciò che vede è recitato, “portato” in scena. Di

fronte a questa sorta di parabola risalteranno

anche gli effetti gli effetti costruiti, la scenotecnica,

onde evitare l’immedesimazione (la catarsi) del

pubblico e dell’attore. Quest’ultimo, insomma,

parrà quasi “citare”, declamare, ponendosi sotto

una luce argomentativo-dimostrativa.

Il tipo di regia cui qui si vuole accennare (e si

sottolinea “accennare”, nella convinzione che

queste poche righe indicative dovranno subire a

loro volta, se mai dovessero essere messe in

pratica, una pertinentizzazione data dallo spazio,

dal momento, dalle varie circostanze che via via si

presenteranno) propone la presenza di fattori

intervallari, di più diastemi, all’interno dell’opera

stessa. Il testo teatrale verrà messo in scena

attraverso la proposizione di sequenze, atti (che

non debbono necessariamente coincidere con

quelli proposti nel testo scritto) tra di loro separati

da una caduta di tensione, una cesura, che

favorirà la distanziazione del pubblico, il quale,

rendendosi conto di essere “di fronte” ad un

esempio, avrà modo di speculare intorno a quanto

è stato appena proposto, rap-presentato.

Delle serve o del destino

metaforico dell’uomo

“Le serve” di Jean Genet è un atto unico, non

propone, quindi, pause, intervalli.

Eppure possiamo trovare nella dinamica del

dialogo, nello svolgimento diegetico, più di un

“momento di sospensione”. Questi “battiti” che

scandiscono il tempo, lo scorrere continuo

dell’opera, ci danno la possibilità di dividere il testo

in cinque macrosequenze:

I sequenza: dall’inizio al suono della sveglia che

interrompe il gioco, la commedia di rito inscenata

dalle due sorelle.

II sequenza: dal suono della sveglia al suono del

telefono (la telefonata annuncia la scarcerazione

del Signore).

III sequenza: dal suono del telefono all’arrivo della

Signora.

IV sequenza: dall’arrivo fino all’uscita della Signora

(sequenza nel corso della quale le due sorelle

debbono recitano il ruolo di serve, subordinato di

fronte alla Signora, in virtù della sua presenza).

V sequenza: dall’uscita della Signora fino alla fine

(coincidente con la morte di Chiara).

Ecco dunque individuati quattro momenti, quattro

“chiusure di sipario” ideali, in cui l’azione resterà

come sospesa, la tensione sarà ridotta al minimo

per poter poi riprendere nella sequenza

successiva. Queste quattro “pause” permetteranno

la distanziazione non solo del pubblico dall’opera,

non solo degli attori dal ruolo che stanno recitando,

ma anche delle serve dal gioco (dai ruoli che in

esso si danno), dalla recita che inscenano. Infatti,

all’aprirsi del sipario la serva Chiara gioca ad

essere la Signora e Solange gioca ad essere la

sorella Chiara. L’azione che ne segue coinvolge le

due serve al punto che Solange (Chiara), nel

momento in cui suona la sveglia, sta per uccidere

la sorella Chiara-Signora. Il suono della sveglia

spezza, interrompe il rito, catapultando le sorelle (e

il pubblico) nella realtà dove le serve rimangono

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serve, dove è impossibile fuggire, evadere,

affrancarsi dalla propria condizione.

Nonostante l’unità dell’atto unico, “Le serve” potrà

dunque essere trattato come il risultato di un

montaggio fra parti tra loro diseguali: “l’unità del

racconto nascerà non dalla monotonia della

recitazione, ma da un’armonia fra parti molto

diverse, molto diversamente recitate”14.

Ma anche all’interno delle sequenze or ora

individuate sarà necessario dare dei segnali

attraverso i quali “rendersi conto” che di teatro, di

messa-in-scena, si tratta. Sarà necessario, quindi,

che la recitazione avvenga con moduli il meno

realistici possibile e che i gesti degli interpreti siano

di tanto in tanto interrotti, lasciati in sospeso, come

se in quel momento dubitassero di ciò che stanno

dicendo o come se dimenticassero per un istante

la parte.

Recitazione, insomma, distaccata, straniata nei

confronti del personaggio, tanto che Genet

pensava ad una messinscena de “Le serve”

interpretata da giovanetti. L’attore sarebbe così un

presentatore del suo personaggio, lo citerebbe con

tanto di virgolette e nota a piè di pagina; lo

straniamento sarebbe infatti più che doppio: un

attore (un giovanetto) recita la parte di un’attrice

che recita la parte di una serva che, a sua volta,

recita la parte della Signora (nel caso di Chiara) o

della sorella (nel caso di Solange).

“Se dovessi far rappresentare un lavoro teatrale in

cui ci fossero parti di donna, esigerei che queste

parti fossero interpretate da giovinetti, e ne

14

Genet Jean, Come recitare Le Serve, in Le Serve, tr.

G. Caproni, Torino, Einaudi, 1979.

avvertirei il pubblico con un cartello che resterebbe

appeso a destra o a sinistra della scena, durante

tutta la rappresentazione”15. Le due serve,

insomma, non sono realmente “serve”; esse sono

la rappresentanza di tutti coloro che, in modo

diverso e a diverso titolo, sono oppressi, rifiutati,

reietti, sono (considerati, soprattutto) diversi e

vengono pertanto relegati ex margine.

La diversità prende qui le sembianze di un

qualcosa, di un personaggio il cui desiderio di

alterità, di essere “altro da sé”, di negazione di se

stesso di fronte ad un oggetto (persona) verso cui

indiarsi, gli è consustanziale. Non dobbiamo,

quindi, preoccuparci di rappresentare le serve

secondo un modulo realistico, né preoccuparci del

significato primo ed apparente dell’opera. “Le attrici

non devono salire in scena col loro naturale

erotismo, imitare le donne che si vedono sullo

schermo. L’erotismo personale, in teatro, degrada

la rappresentazione. Le attrici sono perciò pregate,

come dicono i greci, di non scodellar la fica in

tavola. (“Le serve”) è una favola... Bisogna a un

tempo crederci e rifiutarsi di crederci, ma poiché ci

si possa credere occorre che le attrici recitino non

secondo un modulo realistico”16.

Senza rischiare di restare invischiati nella storia,

nel primo livello semantico dell’opera, delle serve

si dovranno conservare il timbro araldico,

l’esemplificazione, la simbolicità. Le serve

rappresentano qui ciò che viene rifiutato, scartato

dagli altri; esse fanno parte del “popolo pallido e

15

Così Genet in Sartre Jean-Paul, Santo Genet,

commediante e martire, Milano, Il Saggiatore, 1972, p.

591. 16

Genet Jean, Come recitare Le Serve, cit.

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multicolore che vegeta nella coscienza della gente

dabbene. (…) Esse sono altre. Pure emanazioni

dei loro padroni, i domestici, come i criminali,

appartengono all’ordine dell’Altro, all’ordine del

Male”17.

Anche nel profondo della Signora (della gente

“dabbene”) vegetano la criminalità, il lerciume,

l’omosessualità, …; componenti, queste, che

vengono costantemente rifiutate, rimosse e che,

tramite proiezioni esorcizzanti, prendono le

sembianze (in una sorta di personificazione

allegorica, di prosopopea) dei domestici, dei froci,

dei criminali, ecc. Costoro vivono solo in virtù dello

scarto esistenziale dei Signori, incarnandone le

rimozioni sociopsicologiche, oggettivandone la

psicomachia.

Le serve, qui, tentano a loro volta di esorcizzare

l’esistenza loro negata attraverso un macabro

gioco simile ad una messa nera o ai riti voodoo. In

questa “recita nella recita” Chiara si fa Signora,

imitandone i gesti, esasperandoli fino al

parossismo che coincide con l’annichilimento, la

smitizzazione della Signora stessa.

La fuga da se stessi (verso il personaggio cui si

tende) si risolve in un’inevitabile prostrazione di

fronte allo stesso personaggio che si vuole

incarnare, perché è proprio questo che ci rifiuta;

esso esiste (così in alto, così “personaggio”, così

blasonato) proprio perché esclude il nostro essere;

e noi, nel voler essere quel personaggio, finiamo

con il rifiutare noi stessi, con il trovarci di fronte ad

uno specchio di cui ripudiamo l’immagine.

17

Sartre Jean-Paul, cit., p. 596.

Alterità negata, dunque, in un gioco di specchi in

cui il riflesso della nostra immagine (che è solo

apparenza) si perde anch’esso, frantumandosi in

un’infinità di “altri” per cui anche l’identità vi è

negata. Alterità e identità sono entrambe negate; e

allora è un continuo tendere, anelare, verso un

qualcosa di impalpabile, indefinito, motore

immobile di una dialettica fra essere, non-essere e

voler-essere.

Così vivono (vegetano) i servi, coloro che sono

altri, senza nemmeno la prospettiva di un

eventuale riscatto, di una rivincita. Fra loro, infatti, i

servi non possono neanche coalizzarsi, fra loro

non possono realmente amarsi, giacché “il

lerciume... non può voler bene al lerciume”18, dato

che amare significa voler essere19. I servi,

insomma, vivono nel continuo desiderio di voler

essere altro, desiderio di una alterità loro negata;

ma in fin dei conti anche gli appartenenti all’ordine

sociale, i Signori, vivono proiettati verso un

personaggio archetipico, recitano la loro parte di

integrati, inclusi in un sistema di cui essi stessi

sono vittime. Anch’essi, dunque, negano se stessi

perché impegnati nell’adempimento del loro ruolo

sociale nel quale, a volte, paiono soffrire, se non

addirittura invidiare la condizione parassitaria dei

domestici. Il loro è come un impegno a vivere nel

“voler essere come” il modello loro prefigurato.

Ecco perché il destino dell’uomo (“servo” o

18

Genet Jean, Le Serve, cit., p. 16, la battuta è di

Solange. 19

Le serve “amano Madame: ciò significa, nel

linguaggio di Genet, che vorrebbero, l’una e l’altra,

diventare Madame; in altri termini integrarsi

nell’ordine sociale di cui sono gli scarti”. Sartre Jean-

Paul, cit., p. 596.

Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet

9

“padrone” che sia) è un destino metaforico, vissuto

nella tensione costante nei confronti di un qualcosa

che gli è costantemente negato. “L’unica maniera

in cui per una cosa è possibile esserne un’altra è la

metafora - l’ “essere come” o quasi-essere. Il che

ci rivela inaspettatamente che l’uomo ha un

destino metaforico, che l’uomo è metafora

esistenziale”20.

Risulta chiaro ora come sarebbe riduttivo fare delle

serve delle semplici domestiche frustrate, darne,

insomma, un’impronta realistica. I personaggi

“serve” saranno il risultato di un’operazione di

astrazione in cui elimineremo i referenti realistici,

convinti che esse recitano anche quando sono

serve, anche di fronte alla Signora. “Le due sorelle

recitano sempre, sia nella parte della padrona, sia

in quella dell’altra sorella, sia quando sono se

stesse; sono anzitutto attrici e in questa veste la

passione la passione che le domina è quella di

immaginare, di mettere in scena situazioni”21.

Esse mettono in scena pure il loro personaggio

diventando così mere figure simboliche, retoriche.

“Speravo di ottenere l’abolizione dei personaggi.

(…) Ottenere che questi personaggi fossero

nient’altro che la metafora di ciò che devono

rappresentare”22.

Il tono delle attrici, come suggerisce Genet stesso

nella “Lettera a Pauvert”, sarà un tono

“declamatorio”,23 onde evitare che “lo spettatore si

20

Ortega y Gasset, cit., p. 192. 21

Angelini Franca, Il teatro, in Jean Genet. Tutto il

teatro, Milano, Oscar Mondadori, 1971. 22

Così Jean Genet nella Lettera a Pauvert, cfr. Genet

Jean , Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au

port de la lune, Bordeaux, La Différence, 1988. 23

Ibidem.

lasci trascinare nel giuoco, come quei bambini che

al cinema gridano: ‘Non bere, è un veleno!’, o

come quel pubblico ingenuo che aspettava, si dice,

Frédéric Lemaitre all’uscita degli artisti per

spaccargli il muso”24 o come il Chisciotte che si

scaglia furioso a colpi di spada contro il teatrino di

Mastro Pedro.

Tant’è, a tutt’oggi, quanto riteniamo si possa dire

intorno a “Le serve” di Jean Genet e intorno ad una

possibile “lettura” registica del testo. A ciascuno il

compito (la delega) di rifare, discutere, distruggere

quanto sin qui proposto.

24

Sartre Jean-Paul, cit., p. 592.