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Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
Premessa
Nel proporre una lettura registica de “Le Serve” di
Jean Genet non si vuole, sia ben chiaro, proporre
una spiegazione (esplicazione) del testo, bensì
una sua possibilità di lettura, consci (soprattutto
convinti) della potenzialità anamorfica di og
drammatico.
Si potrebbe ora credere che con il termine
“anamorfosi” si voglia presupporre l’esistenza di un
“punto di vista” (magari stabilito dall’autore) capace
di farci cogliere il vero (insito o meno) significato
dell’opera, cui, dunque, la suddetta
lettura anelerebbe.
Niente di più sbagliato.
“Potenzialità anamorfica” dell’opera (drammatica)
sta qui a indicare la possibilità (peculiarità) che
essa ha di essere colta da diversi (innumerevoli)
punti di vista, nessuno dei quali può
essere immaginato come preesistente al momento
in cui si decide di porsi di fronte a un testo.
Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
L’alterità negataovvero
per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
di Bruno Zucchermaglio
Nel proporre una lettura registica de “Le Serve” di
Jean Genet non si vuole, sia ben chiaro, proporre
una spiegazione (esplicazione) del testo, bensì
, consci (soprattutto
convinti) della potenzialità anamorfica di ogni testo
Si potrebbe ora credere che con il termine
“anamorfosi” si voglia presupporre l’esistenza di un
“punto di vista” (magari stabilito dall’autore) capace
di farci cogliere il vero (insito o meno) significato
ddetta possibilità di
“Potenzialità anamorfica” dell’opera (drammatica)
sta qui a indicare la possibilità (peculiarità) che
essa ha di essere colta da diversi (innumerevoli)
punti di vista, nessuno dei quali può (o deve)
essere immaginato come preesistente al momento
in cui si decide di porsi di fronte a un testo.
Chi saranno i delegati a porsi (in un modo o
nell’altro) di fronte all’opera? Tutti, teoricamente;
pochi, in realtà. Vediamo.
La maggior parte delle op
vengono rappresentate sono più o meno
conosciute, sono già state messe in scena diverse
volte, hanno una loro genesi, per così dire, una
loro collocazione storico
dalla critica ufficiale, dagli storici del teatro,
via.
Ogni opera, insomma, appartiene in qualche modo
alla coscienza collettiva per cui si va a teatro con
una certa aspettativa di determinazione, un più o
meno preciso orizzonte d’attesa. In tale accezione
possiamo paragonare il pleroma delle oper
drammatiche1 ad un vocabolario, la
1 “Pleroma: vasto insieme strutturato e completo che
fa la somma totale di realtà di un certo genere: il
pleroma delle filosofie, il pleroma delle opere d’arte.
Termine preso a prestito dagli gnostici: il pleroma degli
eoni”. Dal “Glossario” in Souriau Etie
corrispondenza delle arti, tr. R. Milani, Firenze, Alinea,
1988.
Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
1
L’alterità negata
per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia. . . . I. 2011I. 2011I. 2011I. 2011
Chi saranno i delegati a porsi (in un modo o
nell’altro) di fronte all’opera? Tutti, teoricamente;
opere drammatiche che
vengono rappresentate sono più o meno
conosciute, sono già state messe in scena diverse
volte, hanno una loro genesi, per così dire, una
loro collocazione storico-culturale riconosciuta
dalla critica ufficiale, dagli storici del teatro, e così
Ogni opera, insomma, appartiene in qualche modo
alla coscienza collettiva per cui si va a teatro con
una certa aspettativa di determinazione, un più o
meno preciso orizzonte d’attesa. In tale accezione
possiamo paragonare il pleroma delle opere
ad un vocabolario, la langue di de
“Pleroma: vasto insieme strutturato e completo che
fa la somma totale di realtà di un certo genere: il
pleroma delle filosofie, il pleroma delle opere d’arte.
Termine preso a prestito dagli gnostici: il pleroma degli
eoni”. Dal “Glossario” in Souriau Etienne, La
corrispondenza delle arti, tr. R. Milani, Firenze, Alinea,
Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
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Saussure, i cui significati sociali, ampi, vaghi e
astratti2 aspettano di essere determinati dall’atto
linguistico, dalla parole desaussuriana, dal
contesto.
Una parola, dunque, acquista un suo significato
preciso, concreto, circoscritto e individuale solo se
viene determinata, contestualizzata dalla frase,
dalla catena sintagmatica. Ciò non toglie che “il
significato di una parola consiste essenzialmente
in una certa aspettativa di determinazione. La
parola ‘paesaggio’ stabilisce l’aspettativa di un
contesto in cui probabilmente il discorso verterà
attorno ad elementi del paesaggio”3.
Così il testo drammatico (nonostante aspetti di
essere determinato da una messinscena, da una
pertinentizzazione registica) viene fruito con un
seppur vago orizzonte d’attesa, il quale, se non
riguarda propriamente il livello semantico
dell’opera e quindi le sue diverse possibilità di
d’interpretazione, riguarderà i moduli (che ne so?)
recitativi degli attori, la spazializzazione, i tempi di
fruizione, la ritmomusicalità dell’esecuzione, la
scenotecnica, il (per dirle tutte con un’unica parola
che suona, però, come un po’ riduttiva)
coordinamento registico.
2 La concezione del significato di una parola come
ampio, vago, sociale e astratto che, all’interno di una
frase, per mezzo dell’intendimento, diventa
circoscritto, preciso, individuale e concreto, la
troviamo in Weinrich Harald, Metafora e menzogna: la
serenità dell’arte, Bologna , Il Mulino, 1976. “Assieme
all’ulteriore contesto e alla situazione inerente, la
frase limita il significato (ampio, vago, sociale,
astratto) in funzione dell’intendimento (circoscritto,
preciso, individuale, concreto). Quando si sente una
parola isolata, la mente può vagare per l’intera
ampiezza del significato. Se si sente invece la parola
nel testo, ciò non accade” (Ivi, pp. 145-6). 3 Weinrich, cit. p. 89.
Intendiamo dire che qualora il pubblico non avesse
particolari orizzonti d’attesa nei confronti del
significato dell’opera, li avrà nei riguardi dei modi di
produzione, di (utilizzando un’espressione poco
appropriata, ma forse efficace) presentazione
dell’opera.
Insomma, anche se in attesa di essere
determinata, specificata, attualizzata dalla
messinscena registica, l’opera drammatica
presuppone un vago, indefinibile (ma pur sempre
presente) orizzonte di attesa, frutto di un insieme di
convenzioni (convinzioni), abitudini, ecc., che la
coscienza collettiva ha fatto proprie in un
determinato periodo storico.
Gli orizzonti d’attesa così preesistenti
nell’immaginario collettivo finiscono con il coartare
anche i registi che limitano, preordinano i “punti di
vista” spesso anche perché assoggettati dalla
committenza, da esigenze, insomma, strettamente
commerciali o ad ogni modo contingenti. Ma è pur
vero che per quanto un regista cerchi, diciamo
così, di assecondare il pubblico, non sarà mai
possibile stabilire a priori e con esattezza l’effetto
che un’azione, un gesto, una proposta insomma,
avrà in scena.
E poi, senza correre il rischio di vivere e lavorare
completamente avulsi dalla realtà, non dobbiamo
dimenticare che il teatro (anche se vittima della
sua commercializzazione) rimane sempre un luogo
deputato all’arte, ove l’opera, nonostante la
determinazione che la teatrofania comporta,
rimane suscettibile di infinite altre interpretazioni,
ripertinentizzazioni anche personali da parte dei
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fruitori, vuole, insomma, essere colta come
polisemica.
“Il comportamento teatrale (artistico) della ‘regia’
passa a fianco di tutte le nostre più normali attese
(attese dal Mittelmensch, si capisce, da quell’uomo
medio che sempre sta dentro anche di noi) al
riguardo”4.
Se il testo scritto aspetta di essere specificato,
rifunzionalizzato, dall’intendimento del regista,
l’esecuzione teatrale (in virtù del luogo in cui si
epifanizza e non essendo uno spot televisivo che
come tale ha l’obbligo commerciale di essere
monosemico) è un ritorno al vago,
all’indeterminato, cui il singolo fruitore deve
(dovrebbe) rispondere con la propria
determinazione, per mezzo del proprio “punto di
vista”.
Inutile dire che l’esecuzione di un testo in teatro da
parte di un regista comporta l’esautoramento di
quest’ultimo, al punto che egli, nel fruire il “suo”
spettacolo, potrà a sua volta coglierlo sotto un
nuovo, imprevedibile “punto di vista”.
Horror vacui vs. horror pleni
“Se, in tempi remoti, quando l’uomo viveva nella
solitudine di immensi spazi deserti, l’orrore per il
vuoto fu la prima motivazione delle incisioni
rupestri come quelle dei camuni, delle caverne
aurignaziane e magdaleniane, delle grotte di
Lascaux o di - oggi un orrore eguale e di segno
opposto dovrebbe finalmente occuparlo e
4 Nanni Luciano, Regia come paradosso, in Studi di
regia, Quindi - per l’invenzione del tempo, Bologna,
Magazine, aprile 1987.
preoccuparlo. Invece non è ancora così. L’uomo
non si è ancora accorto di aver saturato quasi
completamente la sua possibilità di neocreazione
d’ immagini. Ci troviamo di fronte al più colossale e
ubiquitario ‘inquinamento immaginifico’ cui la
nostra civiltà abbia mai assistito. L’eccesso di
stimolazioni visive e auditive dovute ai giornali, ai
fumetti, ai film, alla pubblicità ecc., ma anche alla
normale segnaletica del traffico, alle scritte
luminose, … hanno fatto sì che non resti quasi più
nulla di libero da segni. (…) Carichi di troppi
elementi che s’accavallano nella nostra mente -
spesso subliminarmente - finiamo per confonderli e
annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama”5.
Quella che da Raffaele Milani è stata definita
“estasi della nuova modernità”6, nasce proprio
dalla ridondanza di elementi segnici, in particolare
dalla ostensione e dall’accumulo di immagini in
movimento accompagnate, commentate (se non
addirittura forgiate) da musiche, musichette,
jingles, ecc.
Se la percezione equivale alla facoltà di cogliere le
differenze, di fronte a questo flusso visivo-sonoro
siamo privi di sensibilità, privi (soprattutto) di senso
critico. “Come il cane fiuta meglio la selvaggina
quando essa si muove, e muovendosi libera la
nuvoletta del suo odore, così la percezione e il
pensiero captano meglio ciò che è variabile di ciò
che è costante. Quelli che abitano vicino ad una
cascata non sentono il rumore, e, invece, se
5 Dorfles Gillo, L’intervallo perduto, Torino, Einaudi,
1980, pp. 12-3. 6 Milani Raffaele, Tecniche dello sguardo. Filmologia
ed estetica comparata, Modena, Mucchi, 1988, pp. 31
e segg.
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questo si interrompe, percepiscono ciò che sembra
più incredibile: il silenzio”7.
Principale responsabile di questa cascata di
immagini e suoni è la televisione, anche se a
partire dalla metà degli anni Novanta del XX secolo
tale “responsabilità” ricade in modo gradualmente
sempre più importante anche sui personal
computer, in particolare se collegati al web. Ma la
televisione, in particolare a partire dalla fine degli
anni Settanta e in modo decisamente incisivo dalla
metà degli anni Ottanta, struttura i suoi palinsesti al
fine di creare un flusso audiovisivo sempre più
ammiccante e sempre più dinamico, privo di quei
“neri” (ossia di spazi vuoti, di intervalli) che
caratterizzavano la cosiddetta “paleo-tv”8 e che
ora, anche a fronte di un’ampia gamma di canali
disponibili, inviterebbero il telespettatore a
“distrarsi” e soprattutto a utilizzare il telecomando
per sintonizzarsi su un altro programma. Nel
vissuto quotidiano è infatti sempre più presente
quel “terrore del vuoto” per cui è necessario
colmare qualsiasi spazio vuoto, qualsiasi momento
libero, attraverso la fruizione, la consumazione, al
fine di scandire, ritualizzare, i vari momenti della
giornata e della vita. “Il consumo è un processo
rituale la cui funzione primaria è di dare un senso
al flusso indistinto degli eventi”9. Il consumo è
anche consumo-fruizione di immagini, suoni, e
infatti “l’uomo adulto, il bambino, la donna,
l’operaio, l’intellettuale, sono a caccia di
7 Ortega Y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Napoli,
Guida, 1986, p. 431. 8 Cfr. Eco Umberto, Stravideo, in L’Espresso, n. 4,
Roma, 30 gennaio 1983, pp. 52-7. 9 Douglas M. - Isherwood B., Il mondo delle cose,
Bologna, Il Mulino, 1984, p. 73.
sollecitazioni che colmino ogni residuo vuoto di
tempo e di spazio; ogni possibile pausa nel
succedersi degli eventi”10.
Ecco che l’eccesso di immagini in movimento si
risolve in una “immobilità del movimento”, in una
perdita di senso in assenza di un fattore
diastematico, che permetterebbe una “presa di
coscienza”, lo sviluppo di un senso critico nei
confronti di ciò che ci viene reiteratamente
“proposto”.
All’horror vacui dovrebbe sostituirsi l’horror pleni, il
terrore per il “troppo pieno” e dovrebbe prendere
spazio la necessità di una cesura, di un fattore
intervallare attraverso il quale instaurare una
distanziazione critica da quanto ci attornia. Tale
sarà la funzione (e in questo modo dovrà essere
fruita) dall’opera d’arte che si avrà in un luogo (e in
un momento) deputato all’arte, alla ricezione
critica, speculativa, analitica.
Immersi in un vissuto quotidiano sempre più
caotico e “pieno”, cui sembra impossibile sottrarsi,
si propone qui un momento intervallare, un
macrodiastema, caratterizzato dall’epifania
dell’opera d’arte, dalla (nel nostro caso particolare)
teatrofania.
Teatro, quindi, come luogo in cui si va per sot-trarsi
dal flusso indistinguibile di immagini e suoni della
quotidianità; teatro come luogo della dis-trazione e,
perché no?, della diversione, del divertimento,
inteso soprattutto nel suo significato etimologico di
“allontanamento”. Qui intendiamo dunque il teatro
quale luogo peculiare in cui si va - e ciò lo si fa per
precisa nonché deliberata scelta - per godere di
10
Dorfles Gillo, cit., p. 11.
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una pausa, di un momento di riflessione, di
allontanamento, appunto, dallo stress della vita
quotidiana.
“Il gioco è l’arte o la tecnica elaborata dall’uomo
per sospendere virtualmente la sua schiavitù
dentro la realtà, per evadere, fuggire, sot-trarsi al
mondo in cui vive per rifugiarsi in un altro irreale. Il
che significa dis-trarsi, versarsi in un’altra vita:
questo rivolgimento è il divertimento. Esso è
consustanziale alla vita umana (…). Il gioco ha
creato molte forme di divertimento, più o meno
perfette. Le più perfette sono le arti, perché
riescono a liberarci da questa vita, in modo più
efficace di ogni altra cosa. E tra le arti, è stato il
teatro il massimo vertice del divertimento”11.
Teatro, quindi, come momento di sospensione
dell’attività convulsa della quotidianità e teatro
come luogo di fruizione di un’opera (un testo
messo-in-scena) la cui agogica si differenzierà da
quel flusso visivo-sonoro in cui troviamo immersi.
Mentre dalla televisione (e dai mezzi di
comunicazione di massa in genere) veniamo agiti
nostro malgrado, in maniera pressoché continua
(tanto che i programmi televisivi vengono
dilazionati lungo tutto l’arco della giornata e sono
strutturati proprio per essere fruiti distrattamente,
per glances), l’atto dell’andare-a-teatro è un atto
volontario, deliberato, che presuppone l’intenzione
di lasciarsi agire, di fruire e godere di una
esecuzione ritmica particolare, dalla quale si
prenderanno le dovute distanze. Anche per il
teatro, dunque, si può parlare di “serenità dell’arte”,
11
Ortega Y Gasset, cit. Introduzione di Otello Lottini,
pp. 21-2.
nel senso che lo spettatore è “colui che,
liberamente, accetta, per un periodo di tempo
limitato della sua vita, lo stato di lettore, spettatore,
osservatore o ascoltatore. Attributi di questo ruolo
sono la distanza e la libertà, e da queste nasce poi
quella serenità che è del tutto indipendente dal
carattere gaio o triste - in accordo col mondo
esterno o distruttore dei suoi valori - dell’opera
d’arte”12.
Avulsi (ma non per questo narcotizzati) dalla
“circostanza”13 quotidiana, in teatro il nostro
atteggiamento sarà critico, di “presa di coscienza”
di fronte al manifestarsi dell’opera teatrale. Qui i
rituali, i gesti quotidiani e gli automatismi della
realtà vissuta “normalmente” da ciascuno di noi
risalteranno, saranno in un certo qual modo
reificati, resi, quindi, oggetto di analisi critica
nonché, volendo, anche ironica, di derisione.
Così la rappresentazione delle serve di Genet (di
cui si tratterà meglio più avanti) non richiederà di
certo la pietà, l’identificazione del pubblico, bensì
la presa di coscienza (il “prendere atto di
qualcosa”) di una situazione che l’autore (e il
regista) ha voluto porre di fronte a noi (al pubblico)
senza particolari pretese, se non quella di “non
lasciarsi ingannare” da ciò che sta accadendo in
scena.
Sarà necessario, quindi, un between, un fra che
separi l’opera dallo spettatore. Egli dovrà sì
lasciarsi agire, ma sempre nella consapevolezza
12
Weinrich Harald, cit., p. 260. 13
Il termine “circostanza” è qui inteso nel suo
significato di realtà, “mondo presente” che ci circonda
e nel quale ci troviamo catapultati, a dover esistere,
“sussistere”, nostro malgrado. Passim in Ortega y
Gasset, cit.
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che ciò che vede è recitato, “portato” in scena. Di
fronte a questa sorta di parabola risalteranno
anche gli effetti gli effetti costruiti, la scenotecnica,
onde evitare l’immedesimazione (la catarsi) del
pubblico e dell’attore. Quest’ultimo, insomma,
parrà quasi “citare”, declamare, ponendosi sotto
una luce argomentativo-dimostrativa.
Il tipo di regia cui qui si vuole accennare (e si
sottolinea “accennare”, nella convinzione che
queste poche righe indicative dovranno subire a
loro volta, se mai dovessero essere messe in
pratica, una pertinentizzazione data dallo spazio,
dal momento, dalle varie circostanze che via via si
presenteranno) propone la presenza di fattori
intervallari, di più diastemi, all’interno dell’opera
stessa. Il testo teatrale verrà messo in scena
attraverso la proposizione di sequenze, atti (che
non debbono necessariamente coincidere con
quelli proposti nel testo scritto) tra di loro separati
da una caduta di tensione, una cesura, che
favorirà la distanziazione del pubblico, il quale,
rendendosi conto di essere “di fronte” ad un
esempio, avrà modo di speculare intorno a quanto
è stato appena proposto, rap-presentato.
Delle serve o del destino
metaforico dell’uomo
“Le serve” di Jean Genet è un atto unico, non
propone, quindi, pause, intervalli.
Eppure possiamo trovare nella dinamica del
dialogo, nello svolgimento diegetico, più di un
“momento di sospensione”. Questi “battiti” che
scandiscono il tempo, lo scorrere continuo
dell’opera, ci danno la possibilità di dividere il testo
in cinque macrosequenze:
I sequenza: dall’inizio al suono della sveglia che
interrompe il gioco, la commedia di rito inscenata
dalle due sorelle.
II sequenza: dal suono della sveglia al suono del
telefono (la telefonata annuncia la scarcerazione
del Signore).
III sequenza: dal suono del telefono all’arrivo della
Signora.
IV sequenza: dall’arrivo fino all’uscita della Signora
(sequenza nel corso della quale le due sorelle
debbono recitano il ruolo di serve, subordinato di
fronte alla Signora, in virtù della sua presenza).
V sequenza: dall’uscita della Signora fino alla fine
(coincidente con la morte di Chiara).
Ecco dunque individuati quattro momenti, quattro
“chiusure di sipario” ideali, in cui l’azione resterà
come sospesa, la tensione sarà ridotta al minimo
per poter poi riprendere nella sequenza
successiva. Queste quattro “pause” permetteranno
la distanziazione non solo del pubblico dall’opera,
non solo degli attori dal ruolo che stanno recitando,
ma anche delle serve dal gioco (dai ruoli che in
esso si danno), dalla recita che inscenano. Infatti,
all’aprirsi del sipario la serva Chiara gioca ad
essere la Signora e Solange gioca ad essere la
sorella Chiara. L’azione che ne segue coinvolge le
due serve al punto che Solange (Chiara), nel
momento in cui suona la sveglia, sta per uccidere
la sorella Chiara-Signora. Il suono della sveglia
spezza, interrompe il rito, catapultando le sorelle (e
il pubblico) nella realtà dove le serve rimangono
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serve, dove è impossibile fuggire, evadere,
affrancarsi dalla propria condizione.
Nonostante l’unità dell’atto unico, “Le serve” potrà
dunque essere trattato come il risultato di un
montaggio fra parti tra loro diseguali: “l’unità del
racconto nascerà non dalla monotonia della
recitazione, ma da un’armonia fra parti molto
diverse, molto diversamente recitate”14.
Ma anche all’interno delle sequenze or ora
individuate sarà necessario dare dei segnali
attraverso i quali “rendersi conto” che di teatro, di
messa-in-scena, si tratta. Sarà necessario, quindi,
che la recitazione avvenga con moduli il meno
realistici possibile e che i gesti degli interpreti siano
di tanto in tanto interrotti, lasciati in sospeso, come
se in quel momento dubitassero di ciò che stanno
dicendo o come se dimenticassero per un istante
la parte.
Recitazione, insomma, distaccata, straniata nei
confronti del personaggio, tanto che Genet
pensava ad una messinscena de “Le serve”
interpretata da giovanetti. L’attore sarebbe così un
presentatore del suo personaggio, lo citerebbe con
tanto di virgolette e nota a piè di pagina; lo
straniamento sarebbe infatti più che doppio: un
attore (un giovanetto) recita la parte di un’attrice
che recita la parte di una serva che, a sua volta,
recita la parte della Signora (nel caso di Chiara) o
della sorella (nel caso di Solange).
“Se dovessi far rappresentare un lavoro teatrale in
cui ci fossero parti di donna, esigerei che queste
parti fossero interpretate da giovinetti, e ne
14
Genet Jean, Come recitare Le Serve, in Le Serve, tr.
G. Caproni, Torino, Einaudi, 1979.
avvertirei il pubblico con un cartello che resterebbe
appeso a destra o a sinistra della scena, durante
tutta la rappresentazione”15. Le due serve,
insomma, non sono realmente “serve”; esse sono
la rappresentanza di tutti coloro che, in modo
diverso e a diverso titolo, sono oppressi, rifiutati,
reietti, sono (considerati, soprattutto) diversi e
vengono pertanto relegati ex margine.
La diversità prende qui le sembianze di un
qualcosa, di un personaggio il cui desiderio di
alterità, di essere “altro da sé”, di negazione di se
stesso di fronte ad un oggetto (persona) verso cui
indiarsi, gli è consustanziale. Non dobbiamo,
quindi, preoccuparci di rappresentare le serve
secondo un modulo realistico, né preoccuparci del
significato primo ed apparente dell’opera. “Le attrici
non devono salire in scena col loro naturale
erotismo, imitare le donne che si vedono sullo
schermo. L’erotismo personale, in teatro, degrada
la rappresentazione. Le attrici sono perciò pregate,
come dicono i greci, di non scodellar la fica in
tavola. (“Le serve”) è una favola... Bisogna a un
tempo crederci e rifiutarsi di crederci, ma poiché ci
si possa credere occorre che le attrici recitino non
secondo un modulo realistico”16.
Senza rischiare di restare invischiati nella storia,
nel primo livello semantico dell’opera, delle serve
si dovranno conservare il timbro araldico,
l’esemplificazione, la simbolicità. Le serve
rappresentano qui ciò che viene rifiutato, scartato
dagli altri; esse fanno parte del “popolo pallido e
15
Così Genet in Sartre Jean-Paul, Santo Genet,
commediante e martire, Milano, Il Saggiatore, 1972, p.
591. 16
Genet Jean, Come recitare Le Serve, cit.
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multicolore che vegeta nella coscienza della gente
dabbene. (…) Esse sono altre. Pure emanazioni
dei loro padroni, i domestici, come i criminali,
appartengono all’ordine dell’Altro, all’ordine del
Male”17.
Anche nel profondo della Signora (della gente
“dabbene”) vegetano la criminalità, il lerciume,
l’omosessualità, …; componenti, queste, che
vengono costantemente rifiutate, rimosse e che,
tramite proiezioni esorcizzanti, prendono le
sembianze (in una sorta di personificazione
allegorica, di prosopopea) dei domestici, dei froci,
dei criminali, ecc. Costoro vivono solo in virtù dello
scarto esistenziale dei Signori, incarnandone le
rimozioni sociopsicologiche, oggettivandone la
psicomachia.
Le serve, qui, tentano a loro volta di esorcizzare
l’esistenza loro negata attraverso un macabro
gioco simile ad una messa nera o ai riti voodoo. In
questa “recita nella recita” Chiara si fa Signora,
imitandone i gesti, esasperandoli fino al
parossismo che coincide con l’annichilimento, la
smitizzazione della Signora stessa.
La fuga da se stessi (verso il personaggio cui si
tende) si risolve in un’inevitabile prostrazione di
fronte allo stesso personaggio che si vuole
incarnare, perché è proprio questo che ci rifiuta;
esso esiste (così in alto, così “personaggio”, così
blasonato) proprio perché esclude il nostro essere;
e noi, nel voler essere quel personaggio, finiamo
con il rifiutare noi stessi, con il trovarci di fronte ad
uno specchio di cui ripudiamo l’immagine.
17
Sartre Jean-Paul, cit., p. 596.
Alterità negata, dunque, in un gioco di specchi in
cui il riflesso della nostra immagine (che è solo
apparenza) si perde anch’esso, frantumandosi in
un’infinità di “altri” per cui anche l’identità vi è
negata. Alterità e identità sono entrambe negate; e
allora è un continuo tendere, anelare, verso un
qualcosa di impalpabile, indefinito, motore
immobile di una dialettica fra essere, non-essere e
voler-essere.
Così vivono (vegetano) i servi, coloro che sono
altri, senza nemmeno la prospettiva di un
eventuale riscatto, di una rivincita. Fra loro, infatti, i
servi non possono neanche coalizzarsi, fra loro
non possono realmente amarsi, giacché “il
lerciume... non può voler bene al lerciume”18, dato
che amare significa voler essere19. I servi,
insomma, vivono nel continuo desiderio di voler
essere altro, desiderio di una alterità loro negata;
ma in fin dei conti anche gli appartenenti all’ordine
sociale, i Signori, vivono proiettati verso un
personaggio archetipico, recitano la loro parte di
integrati, inclusi in un sistema di cui essi stessi
sono vittime. Anch’essi, dunque, negano se stessi
perché impegnati nell’adempimento del loro ruolo
sociale nel quale, a volte, paiono soffrire, se non
addirittura invidiare la condizione parassitaria dei
domestici. Il loro è come un impegno a vivere nel
“voler essere come” il modello loro prefigurato.
Ecco perché il destino dell’uomo (“servo” o
18
Genet Jean, Le Serve, cit., p. 16, la battuta è di
Solange. 19
Le serve “amano Madame: ciò significa, nel
linguaggio di Genet, che vorrebbero, l’una e l’altra,
diventare Madame; in altri termini integrarsi
nell’ordine sociale di cui sono gli scarti”. Sartre Jean-
Paul, cit., p. 596.
Studi di RegiaStudi di RegiaStudi di RegiaStudi di Regia . I. 2011. Bruno Zucchermaglio. L’alterità negata ovvero per una anamorfosi registica de “Le Serve” di Jean Genet
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“padrone” che sia) è un destino metaforico, vissuto
nella tensione costante nei confronti di un qualcosa
che gli è costantemente negato. “L’unica maniera
in cui per una cosa è possibile esserne un’altra è la
metafora - l’ “essere come” o quasi-essere. Il che
ci rivela inaspettatamente che l’uomo ha un
destino metaforico, che l’uomo è metafora
esistenziale”20.
Risulta chiaro ora come sarebbe riduttivo fare delle
serve delle semplici domestiche frustrate, darne,
insomma, un’impronta realistica. I personaggi
“serve” saranno il risultato di un’operazione di
astrazione in cui elimineremo i referenti realistici,
convinti che esse recitano anche quando sono
serve, anche di fronte alla Signora. “Le due sorelle
recitano sempre, sia nella parte della padrona, sia
in quella dell’altra sorella, sia quando sono se
stesse; sono anzitutto attrici e in questa veste la
passione la passione che le domina è quella di
immaginare, di mettere in scena situazioni”21.
Esse mettono in scena pure il loro personaggio
diventando così mere figure simboliche, retoriche.
“Speravo di ottenere l’abolizione dei personaggi.
(…) Ottenere che questi personaggi fossero
nient’altro che la metafora di ciò che devono
rappresentare”22.
Il tono delle attrici, come suggerisce Genet stesso
nella “Lettera a Pauvert”, sarà un tono
“declamatorio”,23 onde evitare che “lo spettatore si
20
Ortega y Gasset, cit., p. 192. 21
Angelini Franca, Il teatro, in Jean Genet. Tutto il
teatro, Milano, Oscar Mondadori, 1971. 22
Così Jean Genet nella Lettera a Pauvert, cfr. Genet
Jean , Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au
port de la lune, Bordeaux, La Différence, 1988. 23
Ibidem.
lasci trascinare nel giuoco, come quei bambini che
al cinema gridano: ‘Non bere, è un veleno!’, o
come quel pubblico ingenuo che aspettava, si dice,
Frédéric Lemaitre all’uscita degli artisti per
spaccargli il muso”24 o come il Chisciotte che si
scaglia furioso a colpi di spada contro il teatrino di
Mastro Pedro.
Tant’è, a tutt’oggi, quanto riteniamo si possa dire
intorno a “Le serve” di Jean Genet e intorno ad una
possibile “lettura” registica del testo. A ciascuno il
compito (la delega) di rifare, discutere, distruggere
quanto sin qui proposto.
24
Sartre Jean-Paul, cit., p. 592.