G.M. Barale - Kant e le contemporanee filosofie della mente.

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1 G.M. Barale (I semestre, anno accademico 2011-2012) 10/10/11 Piano dell’opera: indagine sulla natura del mentale, critica delle concezioni meramente strumentali del linguaggio e della tesi di una linguisticità radicale del pensabile, alla luce di una preliminare reinterpretazione organicistico-funzionale dell’apriori kantiano (di contro alle più diffuse letture innatistiche). Indagheremo la natura degli eventi mentali (emozioni, percezioni, immagini…) con la consapevolezza che avremmo potuto perdere il diritto di ritenerli tali. Ad ogni spiegazione di tali eventi chiederemo infatti di giustificare la propria idea di un orizzonte mentale che mente possa essere chiamato e in tal modo possa essere distinto. Scopriremo così come la loro capacità di legittimare ipotesi di un orizzonte immateriale (mente) e di circoscriverlo compatibilmente con la scoperta e l’ammissione di un concomitante livello di costituzione materiale degli eventi che immateriali (mentali) ci appaiono. Si chiarirà che una conoscenza della mente in grado di dare conto dell’immaterialità degli eventi che considera, senza disconoscere la costituzione materiale è incompatibile sia con quelle concezioni di un linguaggio che semplice strumento vorrebbero indurci a considerarlo, sia con quelle concezioni che alla tesi di una radicale linguisticità di tutto il pensabile vorrebbero ancorarci. Le prime concezioni “strumentali” hanno il torto di pensare che un linguaggio nasca e funzioni come un sistema di segni convenzionalmente ammessi e destinati unicamente a consentire la trasmissione di contenuti mentali (sentimenti, pensieri, credenze…) già disponibili e completamente elaborati secondo logiche che da qualsivoglia mediazione linguistica sarebbero in grado di prescindere. Questo è l’effetto meno desiderabile di un linguaggio concepito come mera comunicazione, che interverrebbe per così dire “a cose fatte”, in presenza di contenuti mentali già disponibili e senza pertanto incidere sulla modalità della loro acquisizione. Questa concezione riduttiva che un linguaggio quale che

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Corso tenuto dal professor Barale per il corso di laurea magistrale, Università di Pisa, anno accademico 2011-2012 (I semestre).

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G.M. Barale

(I semestre, anno accademico 2011-2012)

10/10/11 – Piano dell’opera: indagine sulla natura del mentale, critica delle concezioni

meramente strumentali del linguaggio e della tesi di una linguisticità radicale del pensabile,

alla luce di una preliminare reinterpretazione organicistico-funzionale dell’apriori kantiano

(di contro alle più diffuse letture innatistiche).

Indagheremo la natura degli eventi mentali (emozioni, percezioni, immagini…) con la

consapevolezza che avremmo potuto perdere il diritto di ritenerli tali. Ad ogni

spiegazione di tali eventi chiederemo infatti di giustificare la propria idea di un orizzonte

mentale che mente possa essere chiamato e in tal modo possa essere distinto.

Scopriremo così come la loro capacità di legittimare ipotesi di un orizzonte immateriale

(mente) e di circoscriverlo compatibilmente con la scoperta e l’ammissione di un

concomitante livello di costituzione materiale degli eventi che immateriali (mentali) ci

appaiono. Si chiarirà che una conoscenza della mente in grado di dare conto

dell’immaterialità degli eventi che considera, senza disconoscere la costituzione materiale

è incompatibile sia con quelle concezioni di un linguaggio che semplice strumento

vorrebbero indurci a considerarlo, sia con quelle concezioni che alla tesi di una radicale

linguisticità di tutto il pensabile vorrebbero ancorarci.

Le prime concezioni “strumentali” hanno il torto di pensare che un linguaggio nasca e

funzioni come un sistema di segni convenzionalmente ammessi e destinati unicamente a

consentire la trasmissione di contenuti mentali (sentimenti, pensieri, credenze…) già

disponibili e completamente elaborati secondo logiche che da qualsivoglia mediazione

linguistica sarebbero in grado di prescindere. Questo è l’effetto meno desiderabile di un

linguaggio concepito come mera comunicazione, che interverrebbe per così dire “a cose

fatte”, in presenza di contenuti mentali già disponibili e senza pertanto incidere sulla

modalità della loro acquisizione. Questa concezione riduttiva che un linguaggio quale che

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sia si troverebbe ad assolvere, è compatibile solo con un’idea della mente (da rifuggire)

quale sfera in sé conchiusa di condotte autarchiche e autoreferenziali. Ma una

concezione di questo tipo oltre a sollevare dubbi forse insuperabili circa tali condotte (il

produrre rappresentazioni veritiere di realtà che di ordine mentale non possono essere

ritenute) risulta in linea di principio incompatibile con l’idea di una costituzione materiale

degli eventi che in quel modo autoreferenziale verrebbero ad essere gestiti.

Diffideremo pertanto da quelle concezioni del linguaggio che lo riducono a mero

strumento, ma non meno diffidenti saremo nei confronti di quelle concezioni

diametralmente opposte che alla tesi di una radicale linguisticità del pensabile vorrebbero

ancorarci. L’incompatibilità di questa tesi con l’assunto di una costituzione

originariamente materiale degli eventi a cui una mente impresta condizioni sue proprie di

intelligenza, è abbastanza evidente da non ammettere commenti preliminari. Il confronto

tra le concezioni degli eventi in questione, che non hanno rinunciato a insistere su una

loro presunta matrice linguistica e quelle spiegazioni e concezioni che su una spiegazione

di tipo schiettamente materialistico hanno preferito puntare, sarà sviluppato nella

seconda parte del corso. Parleremo dei dibattiti teorici che hanno accompagnato lo

sviluppo delle scienze cognitive negli ultimi decenni e in particolare la svolta del ’79,

volendo con ciò riferirsi al libro di Paul Churchland (filosofo e neurofisiologo

americano) intitolato Scientific Realism and the Plasticity of Mind. Churchland prendeva di

mira quella spiegazione degli eventi mentali di tipo rappresental-computazionale,

concezione esposta nel 1975 da Jerry Fodor (filosofo e psicologo statunitense, allievo di

Chomsky), nel libro The Language of Thought, dove si sosteneva che ogni attività mentale

sarebbe espressione e articolazione di un linguaggio invisibile, sottinteso ai tanti

percepibili in cui possiamo cercare di articolarlo. Questo linguaggio invisibile Fodor lo

definiva “linguaggio del pensiero”, o anche “mentalese”. Le sue componenti elementari

coinciderebbero con dati di natura neurofisiologica, con vere e proprie configurazioni

del sistema nervoso centrale. Di queste configurazioni che entrerebbero in gioco ogni

qual volta siano stimolate da eventi esterni, Fodor pensava e continua a pensare che

siano potenzialmente o virtualmente significanti; più esattamente pensava che il loro

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valore fosse quello di rappresentazioni virtuali, destinate a diventare attuali e a liberare i

significati di cui sono le virtuali depositarie, ogniqualvolta sono chiamate ad assumere

quella funzione rappresentativa che può essere la loro. Questo avverrebbe secondo

operazioni di tipo puramente sintattico, calcoli logici, che costituirebbero l’essenza stessa,

l’unica essenza possibile di quella organizzazione funzionale del cervello che chiamiamo

mente.

Queste tesi divennero popolari; il successo del modello rappresental-computazionale fu

dovuto alla sua capacità (filosofica più che scientifica) di corrispondere alle attese (ai

gusti) di un vasto gruppo di filosofi consapevoli di non poter disconoscere le matrici

neurofisiologiche che eventi che mentali tuttavia non volevano rinunciare a considerare,

in un orizzonte che come tali, cioè come forme d’intelligenza ci consenta di apprezzarli;

di un pubblico ancora oggi si tratta, sensibile alla lezione dell’ultimo Wittgenstein ed

anche alle suggestioni delle ontologie di indirizzo ermeneutico, cioè ad orientamenti

accomunati dalla convinzione che le questioni più propriamente filosofiche, quando cioè

si chiede che cosa in ultima istanza sia ciò che in forma molteplice ci appare, siano

riconducibili a questioni di ordine linguistico, posto che “quell’essere che può essere per

noi, non sarebbe in ultima istanza pensabile se non come linguaggio”. L’idea fodoriana

di un linguaggio invisibile, sottinteso ai tanti percepibili in cui potremmo tentare di

articolarlo, sembrava andare incontro a questa tradizione di pensiero, largamente

dominante e poteva contare inoltre sull’importante sostegno di una teoria con essa

compatibile esposta qualche anno prima, esattamente nel 1966, da un linguista molto

autorevole, Noam Chomsky, nel più celebre dei suoi lavori, l’aureo libretto Cartesian

Linguistics.

Gli argomenti usati da Churchland nel ’79 contribuirono non poco a minare

l’attendibilità del modello di spiegazione degli eventi mentali che a originarie matrici

linguistiche del nostro rappresentare (mentale = rappresentare) le riduceva. Il nuovo

modello a cui Churchland apre la strada, un modello fondato sull’idea di reti e circuiti

neurali nei cui confini ogni nostra condotta maturerebbe e si manterrebbe, un modello

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esplicativo generalmente caratterizzato come biomeccanico o connessionistico, è una

spiegazione squisitamente materialistica. Sui suoi meriti e sui suoi limiti arriveremo a

riflettere al termine di un percorso che prenderà le mosse da lontano, da premesse

antecedenti ai dibattiti attuali, che i loro protagonisti perlopiù ignorano, ma destinati a

sorprenderci per la loro pertinenza e chiaroveggenza. Ripartiremo infatti da Kant e più

esattamente da una reinterpretazione della sua teoria della conoscenza e in essa dalla sua

dottrina dell’apriori che risulterà alternativa rispetto alle immagini della sua filosofia

ancora oggi dominanti. Mostreremo in particolare quanto poco rispondente alle

intenzioni di Kant sia quel modo di concepire quanto di apriorico ci ha chiesto di

riconoscere nei processi formazione delle nostre conoscenze, che assume l’apriorità

quale sinonimo di innatezza e che alle forme inevitabilmente aprioriche di ogni nostro

sentire, intendere e ragionare, conseguentemente guarda come a una struttura in grado di

coincidere una volta per tutte con una configurazione naturale della nostra mente e di

stabilire in maniera altrettanto univoca lo statuto epistemologico di quegli eventi mentali.

Barale contrasta la concezione dominante del criticismo kantiano, mosso dalla

consapevolezza che aderirvi significa non soltanto tradire le intenzioni più profonde del

criticismo, ma anche, vanificandone l’eredità teorica, relegarlo nel circuito chiuso di un

passato irrecuperabile. Nessuno degli indirizzi di ricerca più attuali potrebbe infatti avere

interesse a fare i conti con una filosofia convinta che la mente umana possa essere

identificata una volta per tutte con un sistema di forme cosiddette pure, ovvero con un

dispositivo di ordine logico in linea di principio indipendente non solo dalle esperienze

che rende possibili, ma anche dalla complessiva maniera d’essere dell’ente chiamato a

gestirlo, dalle sue configurazioni corporee, dalla sua condizione storica, dai suoi bisogni e

dalle sue aspirazioni. Barale mostrerà che le cose non stanno così, che dalle pregiudiziali

innatiste che non erano solo quelle del razionalismo cartesiano, ma anche quelle delle

metafisiche premoderne, da cui il criticismo kantiano ha certamente preso le mosse, ma

con un intento opposto a quello che le correnti odierne di questo pensiero gli

attribuiscono, e con esiti tali da giustificare una concezione che nella mente riconosce

non più, come pensava Rorty, un immobile specchio di realtà ad esse estranea, ma un

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potere di organizzazione (sintesi) funzionale organicamente (ipotesi organicistico-

funzionale), alla maniera d’essere dell’ente chiamato ad esercitarlo. Se riusciamo a

restituirgli una concezione del mentale all’altezza dei suoi propositi, degli obbiettivi che il

suo criticismo si era proposto di raggiungere, avremmo posto le premesse per scoprire

quale interlocutore prezioso possa ancora essere nell’odierno dibattito su questi

argomenti.

12/10/11 – Denuncia della «[…] più devastante e fuorviante di tutte le accuse che a

Kant sono state mosse[…]», frutto di una lettura “scolastica” della Ragion Pura

(concepita alla stregua di un meccanismo isolabile dal proprio contesto operativo).

Proponimento di una rilettura “cosmica” della filosofia kantiana e della concomitante

riscoperta della natura essenzialmente organica della ragione, nonché del suo rapporto

essenzialmente linguistico con la realtà ambientale di cui risulta partecipe.

La rilettura che Barale farà del criticismo kantiano, sarà alternativa perché disposta a

riconoscere in essa una nozione di esperienza decisamente più complessa di quanto

generalmente attribuitogli: ossia una teoria della conoscenza meno vincolata ai poteri di

una determinata struttura categoriale e una dottrina dell’apriori in grado di proiettarci

oltre ogni pregiudiziale innatista. Il modello di spiegazione degli eventi mentali

potremmo ricavarlo solo liberando la teoria kantiana dell’esperienza e la connessa

dottrina della conoscenza, da equivoci e pregiudizi che ne prendono il posto e che

inevitabilmente sorgono quando le singole dottrine che possono suscitarli vengono

riprese al di fuori della prospettiva sistematica che lo stesso Kant ci ha chiesto di

approntare.

Barale vuole andare oltre, prendendo di mira una tesi che come poche ha contribuito ieri

come oggi a promuovere un’immagine distorta della filosofia kantiana e più direttamente

del modo kantiano di concepire l’insieme dei poteri che Kant assume sotto il titolo di

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ragion pura. La convinzione che nell’ottica kantiana una ragione non per nulla definita

pura, sia destinata a coincidere con un dispositivo formale in linea di principio

indipendente, non solo dall’esperienza che rende possibile ma anche dalla complessiva

maniera d’essere dell’ente che ne dispone, dalla sua costituzione corporea, dalla sua

condizione storica, dai suoi bisogni e dalle sue aspirazioni. Questa maniera di rileggere

Kant ha trovato un decisivo sostegno nella convinzione che Kant abbia ritenuto

irrilevante rispetto ai percorsi della loro costituzione logica, la veste linguistica che i

nostri pensieri sono destinati ad assumere; obbligandosi in tal modo (povero, ingenuo

Kant !) ad ignorare la funzione che nel processo di formazione delle nostre conoscenze,

può e deve essere riconosciuta ai linguaggi in cui le formuliamo e comunichiamo.

Se la dottrina kantiana dell’apriori non lasciasse spazio ad alcun riconoscimento della

funzione che nel processo di formazione delle conoscenze deve essere riconosciuta ai

linguaggi, diventerebbe impossibile sostenere che quel potere di organizzazione (di

sintesi) che l’apriori kantianamente inteso ha la pretesa di rendere intelligibile, non

dipenda unicamente da determinate disposizioni logiche, ma abbia un legame organico

con la maniera d’essere complessiva dell’ente che di quel poter dispone. Posto che di una

maniera d’essere si tratta che come vedremo, organica non potrebbe essere ritenuta se

non riconoscendo la duplice dimensione, naturale e storica, del progetto che caratterizza

e posto che, come anche vedremo, a una natura e a una storia non potremmo ritenerla

organicamente collegata se non per mezzo di linguaggi dall’una e dall’altra definibili. La

tesi che Barale intende debellare ha una lunga storia e accompagna la ricezione del

criticismo kantiano sin dagli anni successivi alla pubblicazione della prima critica.

Autorevoli commentatori sostennero che una mente costruita come la ragion pura

sarebbe costretta a produrre ogni forma d’intelligenza possibile in una dimensione

prelinguistica da cui resterebbe pertanto escluso ogni rapporto di complicità con quei

linguaggi che pure si rivelano in grado di oggettivarla e comunicarla. Questa tesi fu

sostenuta per la prima volta da uno dei padri spirituali del primo romanticismo tedesco,

Johann Georg Hamann, in un saggio del 1784 (Metakritik über den Purismus der Reinen

Vernunft), anche se pubblicato solo nel 1800 un anno dopo la pubblicazione di un libro

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di Johann Gottfried von Herder (Verstand und Erfahrung. Metakritik zur Kritik der reinen

Vernunft), che ribadì la tesi di Hamann a lui nota per averla con lui dibattuta quindici anni

prima.

La lettura di questi due scritti non lascia dubbi circa l’interpretazione dell’opera kantiana

su cui il loro assunto polemico si reggeva e su cui avrebbe continuato a reggersi ogni

successiva ripresa della più devastante e fuorviante tra tutte le accuse che a Kant sono

state mosse: quella di aver fatto coincidere la mente umana con una struttura

prelinguistica dalla quale senza neppure saperlo tutte le nostre condotte dipenderebbero

(teoriche e pratiche) e al cui meccanico operare ogni forma di intelligenza per noi

possibile dovrebbe essere imputata. Un’accusa come questa si regge su tre presupposti:

1) una nozione di ragion pura che con una struttura in grado di assumere in sé,

adempiendovi per virtù propria, in ragione unicamente della propria formale

costituzione, ogni funzione attribuibile ad una mente umana;

2) la convinzione che nulla più che una semplice descrizione di una tale struttura la

sua presunta critica abbia saputo darci, una descrizione ottenuta scomponendola

in sue presunte componenti elementari (“dottrina degli elementi”) e a partire da

queste ricomponendola (metodo analitico: “analitica dei concetti”) come

potremmo fare con gli ingranaggi di un meccanismo;

3) la convinzione infine che in questo modo appunto, al modo di un meccanismo

come tale isolabile dal contesto in cui dovrebbe operare, piuttosto che di un

organismo in esso coinvolto, la struttura in questione sia stata concepita e

realizzata.

Solo ammettendo questi tre presupposti e supponendo che nei confini da essi stabiliti

l’impresa di Kant si sia costantemente mantenuta, nei confini di una concezione della

ragione quale struttura e di una sua presentazione che al modo di un meccanismo,

anziché di un organismo, obbligherebbe a concepirla; solo ammettendo questo diventa

non solo possibile ma anche inevitabile che il suo esito sia stato una concezione della

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mente ignara di quel suo e nostro legame col mondo, che proprio l’uso di linguaggi ad

esso riferibile rende manifesto. Sarà dunque proposito di Barale mostrarci che nessuno

dei tre presupposti su cui tale accusa si regge è in grado di resistere ad una rilettura

dell’opera kantiana che eviti di spezzarla in tanti capitoli separabili l’uno dall’altro.

Supponendo che una rappresentazione veritiera dell’impresa kantiana, degli obbiettivi

che ha perseguito e delle acquisizioni cui è pervenuto, possa emergere da una semplice

sommatoria di quei diversi capitoli, ciascuno dei quali verrebbe inevitabilmente a

coincidere con l’esposizione di una particolare dottrina. Questo modo di rileggere la sua

impresa critica che ne sottolinea gli aspetti dottrinali e che il nucleo portante della sua

opera (pars costruens) di fatto risolve nell’esposizione congiunta di due dottrine, con le

quali avrebbe preteso di stabilire una volta per tutte quali siano le forme del nostro

sentire e quali quelle del nostro intendere; questo modo di rileggere è dallo stesso Kant

definito “scolastico”1, contestualmente A 838 – B 866, in una pagina di quel capitolo

terzo della dottrina trascendentale del metodo (l’ “Architettonica”) che lo vede

impegnato in una sorta di bilancio della propria impresa critica, ed opposto ad una

lettura non scolastica ma “cosmica” o “cosmopolitica”2. Barale contribuirà ad una

rilettura cosmica della filosofia kantiana: ad una tale rilettura concorrerà la scoperta della

funzione decisiva che a dispetto di ogni apparenza, Kant ha saputo riconoscere al nostro

legame essenzialmente linguistico con le realtà di cui siamo partecipi. A questa riscoperta

perverremo sfruttando al meglio alcuni testi:

1) capitolo sullo “schematismo trascendentale”;

2) § 59 della Critica del Giudizio;

3) §§ 38 e 39 dell’Antropologia Pragmatica.

1 «[…]cioè il concetto di un sistema della conoscenza, che è cercata solo come scienza, facendo astrazione da qualsiasi scopo che non sia quello dell’unità sistematica del sapere, quindi della perfezione logica della conoscenza» (A 838 – B 866, trad. it. P. Chiodi). 2 «Sotto questo profilo, la filosofia è la scienza della relazione di ogni conoscenza ai fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae), e il filosofo non è un artista della ragione, ma il legislatore della ragione umana. In questo caso sarebbe vanagloria qualificarsi da se filosofo, pretendendo di aver raggiunto il modello che sta solo nell’idea» (A 839 – B 867).

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17/10/11 – Riconsiderazione kantiana della distinzione operata dalla tradizione logica

(Wolff, Meier) tra Urteile e Sätze, nell’ottica più generale della messa in luce, da parte di

Barale, della funzione non meramente strumentale, bensì teorico-trascendentale, che il

linguaggio si troverebbe ad espletare nel processo inevitabilmente logico-linguistico di

formazione delle nostre conoscenze.

Ci proponiamo di mostrare che la kantiana critica di una ragione nondimeno definita

pura lascia spazio al riconoscimento di una funzione teorica e non puramente

strumentale dei linguaggi in cui ci esprimiamo. In altre parole vogliamo mostrare che i

linguaggi in cui ci esprimiamo non sono concepiti da Kant quali semplici strumenti di

comunicazione di contenuti mentali già disponibili e compiutamente elaborati secondo

logiche che da qualsivoglia mediazione linguistica potrebbero pretendersi indipendenti;

ma che al contrario, proprio la ricerca kantiana di condizioni aprioriche del loro prodursi,

che di ordine non unicamente formale ma trascendentale possano essere ritenute, ha

saputo chiarire come di un loro modo essenzialmente linguistico di rapportarsi ai dati di

un'esperienza per noi possibile, i nostri supposti contenuti mentali, i sentimenti e i

concetti che comunichiamo, già abbiano tenuto conto nel processo della loro

formazione.

La posta in gioco è una concezione della mente che non cessi di riconoscervi un

orizzonte immateriale delle nostre esperienze da ogni altro distinguibile, senza tuttavia

esporci al rischio di derive dualistiche, inevitabile se l'orizzonte in questione non fosse in

altro modo pensabile se non come una sfera in se conclusa di condotte autarchiche e di

presidi formali ad esse preposti. La tesi secondo cui Kant sarebbe rimasto prigioniero di

una concezione del linguaggio quale semplice strumento di comunicazione, così come la

tesi ad essa solidale, che la comunicazione sia successiva ad ogni processo di produzione

di contenuti mentali, è talmente radicata nelle interpretazioni correnti della sua filosofia,

da non ritenere inutile una prima sventagliata di citazioni, poiché l'assunto che ci

chiedono di esplorare e far valere è proprio quello opposto di un legame indissolubile tra

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pensiero e linguaggio. Particolarmente eloquenti risultano in questo senso i passi in cui

Kant dichiara: (A) inaccettabile il senso che i logici del suo tempo attribuivano alla loro

distinzione tra giudizi e proposizioni, (B) pertinente e teoricamente feconda l'analogia tra

logica e grammatica e (C) falso quel modello di spiegazione delle nostre conoscenze –

del loro modo di prodursi e del tipo di verità a cui possono ambire – che non è

improprio definire “ottico”, poiché il loro status di rappresentazioni equipara a quello di

immagini riferibili immediatamente agli oggetti che rappresenta.

Veniamo ora a trattare il primo di questi punti: la distinzione tra giudizi (“Urteile”) e

proposizioni (“Sätze”) – quale era stata teorizzata ad esempio da Christian Wolff nei §§

41-42 della sua Philosophia rationalis sive logica (1728), oppure anche nel § 462 del

compendio di logica Auszug aus der Vernunftlehre di Georf Friedrich Meier, manuale

utilizzato dallo stesso Kant – si basava sulla presunzione che una proposizione o

enunciato nella quale si appresta a essere espresso quel nucleo originario e portante di

ogni conoscenza per noi possibile, che giudizio veniva chiamato, sia in ogni circostanza il

risultato di operazioni che null'altro presuppongono se non l'agire silenzioso di un

dispositivo di ordine logico, costruito in modo da garantire rappresentazioni unitarie

delle informazioni che consentono l'identificazione di un tale meccanismo con la realtà

immateriale di una mente: ciò sembrava ai logici del '700 tedesco una ulteriore garanzia

della natura prelinguistica delle operazioni che promuoverebbe. Solo supponendo che al

silenzioso e meccanico operare di una mente così concepita la loro formazione possa

essere interamente imputata, i logici del '700 tedesco avevano potuto pensare che quelle

forme primarie di conoscenza che chiamiamo giudizi fossero qualcosa di originariamente

diverso dagli enunciati linguistici (Sätze) in cui li formuliamo. A questo modo di pensare

dominante nella cultura del suo tempo Kant si ribella apertamente, là dove scrive:

«i logici non fanno affatto bene a definire una proposizione (Satz) come un giudizio

espresso con parole. Infatti anche per giudizi che non facciamo valere come proposizioni

dobbiamo servirci nei pensieri delle parole» (Sulla scoperta secondo la quale ogni nuova critica

può essere resa superflua da una più nuova, contro Eberhard ,1790, p. 68).

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Così Kant, nel medesimo contesto, dopo aver affermato con inequivocabile chiarezza

che tutti i giudizi, vengano o meno pronunciati, comportano un uso di segni linguistici

con i quali ci riferiamo a qualcos'altro, chiarisce anche cosa intende per giudizi che non

facciamo valere come proposizioni. Non intende riferirsi a giudizi per la cui

formulazione non sarebbe richiesta alcuna mediazione linguistica, ma a giudizi formulati

in modo da non comportare alcuna asserzione che vera o falsa possa pretendersi,

laddove lo status di proposizione viene negato ad entrambi gli enunciati che concorrono

a formare il giudizio ipotetico “se un corpo è semplice allora è inalterabile”. Un

enunciato come questo consta di una relazione tra due giudizi nessuno dei quali è una

proposizione, perché l'esistenza di corpi semplici nel primo, così come quella di corpi

inalterabili non sono affermate ma sono ammesse in via di ipotesi. Proposizione nel

nuovo senso che sta assumendo, è soltanto il conseguire del secondo dal primo e dunque

solo la relazione tra i due giudizi in quel modo formulati. Essa soltanto è un'asserzione

che vera o falsa si presta ad essere considerata. Kant ha imparato a distinguere da altri,

giudizi che affermando qualcosa di qualche cosa avanzano una pretesa di verità. Di

questi soltanto pensa che meritino il nome di proposizioni. Ma la distinzione che in

questo modo inaugura non ha più nulla a che vedere con qualsivoglia separazione tra

dimensione linguistica e dimensione logico-intellettuale o mentale dei giudizi che

considera. La consapevolezza che una separazione di questo tipo è inaccettabile e va

respinta, perché comporterebbe una decontestualizzazione dei nostri percorsi logici

incompatibile con ogni serio tentativo di dare conto delle loro valenze ontologiche, cioè

della loro capacità di produrre rappresentazioni veritiere di realtà che stanno

presupponendo, è per Kant un dato acquisito fin dagli anni in cui il tema di una

legittimazione ontologica dei nostri procedimenti logici era diventato per lui la questione

filosofica per eccellenza; la questione che la sua critica di quella struttura portante delle

nostre esperienze, che ragion pura ha scelto di definire, si stava ponendo nei termini e al

livello di una logica che si pretendeva non più semplicemente generale e formale, ma

trascendentale. Nella Logik Pölitz leggiamo

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«i logici definiscono una proposizione (Satz) iudicium verbis prolatum giudizio esposto in

parole, il che però è falso: noi potremmo affatto giudicare se non avessimo parole»

(Band XXIV p. 580).

Affermazioni analoghe le troviamo in un altro corso di logica dei primi anni '80 noto

come Wiener Logik (Band XXIV p.934). L'inseparabilità di logica e linguaggio – e più

esattamente l'incompatibilità con l'idea stessa di una loro possibile legittimazione

trascendentale di ogni considerazione delle nostre procedure logiche che non sappia

riconoscervi un qualche livello di formalizzazione dei linguaggi attraverso i quali

comunichiamo – pone il problema dei diversi livelli di formalità che è necessario

ammettere ed esplorare affinché la nostra descrizione di questo complesso orizzonte

apriorico delle nostre esperienze, di quel loro orizzonte che logico-linguistico merita di

essere nel suo complesso definito, possa ritenersi sufficientemente indicativo. Questa

domanda tocca il secondo dei tre temi da cui abbiamo scelto di lasciarci guidare: il tema

dell'analogia che Kant ha stabilito e costantemente mantenuto, tra logica e grammatica.

Scopriremo come questa analogia ampiamente documentata si sviluppi in realtà su due

livelli distinti: a un primo livello si fa valere l'idea di un parallelismo tra quella logica che

veniva detta generale e le grammatiche delle diverse lingue naturali; a un secondo e più

impegnativo livello si fa balenare l'idea di una prospettiva unificante in grado di stabilire

non una semplice analogia ma un nesso indissolubile, che non riguarda, né potrebbe

riguardare, le regole che consentono un esercizio coerente del pensiero, e quelle, diverse

già tra loro, che possono assicurare l'uso coerente dell'uno o dell'altro di linguaggi

naturali anch'essi tra loro inevitabilmente diversi, ma le modalità in cui all'uno e agli altri

è consentito di riferirsi a forme di esistenza che stanno presupponendo.

24/10/11 – Sul rapporto tra una presunta “Allgemaine Grammatik” ed una presunta

logica generale.

Col primo dei tre temi abbiamo visto come Kant abbia preso le distanze dalla distinzione

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tra “urteile” e “sätze”. Aveva scritto Wolff nel § 42 della sua Philosophia Rationalis sive

Logica del 1728: «iudicium est actus mentis, propositiones non sunt nisi combinationem

terminorum». Come molte altre dottrine wolffiane anche questa separazione tra giudizi e

proposizioni riprendeva e codificava una distinzione, una maniera di pensare corrente,

destinata a fare scuola. Kant l’avrebbe ritrovata nel manuale di cui si serviva per i suoi

corsi di logica (l’Auszug aus der Vernunftlehre di Maier) dove nel § 462 si legge che «un

giudizio che è espresso in parole si dice proposizione [propositio enunciatio]». La replica

di Kant è netta: «sbagliano i logici a definire una proposizione un giudizio espresso in

parole [iudicium verbis prolatum], poiché senza parole non potremmo giudicare affatto»

(Logik Pölitz, v. supra).

Affermazioni come questa, ripresa da un corso di logica dei primi anni ’80 (la Logik Pölitz

appunto) si ritrovano anche nella Wiener Logik, in cui l’antica distinzione tra giudizi e

proposizioni viene riformulata in modo da riservare la qualifica di proposizioni a quelli

tra tutti i giudizi possibili (le asserzioni) con cui diciamo qualche cosa di qualche cosa e

che non possono pertanto essere pronunciati senza avanzare una qualche pretesa di

verità. Come già Aristotele e d’accordo con una lunga tradizione che nella apofantica

aristotelica aveva riconosciuto il nucleo portante dell’unica logica che generale potesse

pretendersi, Kant è convinto che giudizi di questo tipo, asserzioni o proposizioni, cioè

pronunciamenti circa uno stato di cose, siano alla base di tutti gli altri, ma non vuole

ignorare il fatto che non tutti sono ad essi formalmente riducibili. Fa l’esempio

illuminante dei giudizi ipotetici (se x allora y) e introduce una distinzione di cui Barale ci

diceva come sia presente e reperibile anche nelle semantiche formali odierne, ma a

proposito della quale merita di sottolineare soprattutto quanto importante sia per

arrivare a distinguere anche nei termini d’una logica generale, come quella a cui Kant si

richiamava e di cui era prigioniero, l’uso della facoltà che chiama Intelletto, con ciò

intendendo una forma d’intelligenza rappresentativa disponibile solo a giudizi di tipo

categorico, cioè ad asserzioni o proposizioni, dall’uso di quella ulteriore facoltà che

Ragione in stricto sensu definiva e che idonea unicamente a giudizi di tipo ipotetico o

disgiuntivo ha dovuto riconoscere.

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In ogni caso il nuovo modo di legittimare una distinzione tra giudizi e proposizioni si è

ormai lasciato alle spalle il pregiudizio che giudizi meritino di essere definiti atti che

dovremmo ammettere di natura esclusivamente mentale e proposizioni, quelle loro

traduzioni verbali che interverrebbero solo in un secondo tempo e solo quali strumenti

di una comunicazione non richiesta dal processo della loro formazione. Scopriamo un

Kant non più disposto a considerare il linguaggio quale strumento di una comunicazione

subalterna al processo di formazione dei nostri pensieri (scopriremo che il linguaggio

entrerà a far parte dello stesso processo di formazione dei nostri pensieri), se è vero

come è vero che nel § 22 dei Prolegomeni scrive: «pensare è parlare con se stessi»3. Poiché

la consapevolezza kantiana dell’inseparabilità di pensiero e linguaggio è in questi termini

stabilita già in testi contemporanei alla redazione della prima critica, e dunque alle prime

formulazioni critiche di un progetto di filosofia trascendentale, Barale ha avanzato

l’ipotesi che il rifiuto di ogni cesura tra le condotte logiche che ci consentono di pensare

e le condotte linguistiche che ci consentono di comunicare quanto stiamo pensando, sia

interpretabile quale riconoscimento che solo procedure logiche nelle quali sia possibile

riconoscere un qualche livello di formalizzazione dei linguaggi attraverso i quali

comunichiamo, si prestano a un tentativo di legittimazione del loro valore ontologico che

di ordine propriamente trascendentale possa pretendersi. Un’ipotesi come questa, se

verificata, comporterebbe una vera e propria rivoluzione nel modo corrente di intendere

il programma filosofico di Kant, perché in altro modo non potremmo tentare di

verificarle se non riflettendo sul significato del tutto inedito che la parola “esperienza” è

destinata ad assumere nella prospettiva di una logica che ha ritenuto di potersi definire

trascendentale, cioè in grado di rendere riconoscibili in determinate modalità di esercizio

delle nostre capacità logiche, modalità di esperienza che quali condizioni di possibilità di

ciò che un’esperienza in quanto tale non può non essere per noi, si presterebbero ad

essere interpretate.

3 A ben vedere il § 22 dei Prolegomeni sostiene qualcosa di diverso, ossia «Denken aber ist:

Vorstellungen in einem Bewußtsein vereinigen», che non a caso P. Carabellese traduce «Ma pensare è: unire delle rappresentazioni in una coscienza». La citazione di Barale si trova nel § 39 dell’Antropologia Pragmatica.

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Limitiamoci ad assumere per ora il dato innegabile che la tesi di un nesso essenziale tra

logica e linguaggio è maturata in Kant contemporaneamente alla logica trascendentale

(dato filologicamente innegabile: contro Herder…). I sottintesi di questo potranno forse

cominciare a chiarirsi quando avremo sviluppato il secondo dei nostri tre temi, il tema

dell’analogia tra logica e grammatica, e dei diversi livelli di formalità, di formalizzabilità

dell’una e dell’altra, che Kant ritiene necessario ammettere e che ci obbliga a fare,

affinché una tale analogia possa essere mantenuta e sviluppata. Partiamo da due citazioni

apparentemente opposte e che segnano in realtà i confini entro i quali l’analogia tra

logica e linguaggio dovrà riuscire a mantenersi per risultare compatibile con la

concezione kantiana dei saperi per noi possibili.

1) «I grammatici sono stati i primi logici» (appunto degli anni ’80, Reflexionem 1620);

2) «La grammatica è solo una disciplina, la logica una scienza» (Logica Busolt, degli

stessi anni).

Per stabilire le regole di una grammatica, siamo obbligati a “consultare l’esperienza”

mentre le regole della logica si prestano ad essere stabilite in via apriorica a livello di un

sapere che da qualsivoglia esperienza sembra in grado di prescindere, perché per

ottenerle, per averne un quadro completo, è sufficiente “consultare” quella nostra facoltà

sempre identica a se stessa che chiamiamo intelletto. Domanda: come si spiega che a

dispetto della empirica molteplicità e storica mutevolezza delle lingue, alle cui regole

facevano riferimento, i grammatici si siano trovati a fare da battistrada ai logici? Una

prima risposta si può ricavare da appunti e testi in cui Kant sottolinea: a) il carattere

formale delle indagini che i grammatici hanno saputo promuovere e b) la loro presunta

capacità di convogliare nella direzione unitaria indicata dal modello non meramente

empirico di una supposta grammatica generale o universale (“Allgemaine”: Kant allude

con ciò a un tipo di universalità del dato empirico; può valere come condizione di

universalità per l’ordine empirico).

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Proprio perché la grammatica è una disciplina formale, leggiamo in un appunto degli

anni ’80 (Reflexionem 1628) che «per mezzo della sola grammatica non s’impara alcuna

lingua» e d’altra parte leggiamo in un corso di logica degli stessi anni che «i grammatici

non hanno alcun interesse a insegnarci una lingua quale che sia, perché mirano piuttosto

a sviluppare una “Allgemaine Grammatik”», a proposito della quale si precisa che

«contiene non parole, non una moltitudine di vocaboli, ma solo la forma del linguaggio».

Una forma (N.B.) di cui si ritiene possibile parlare al singolare sul presupposto che di

quella tra le molte possibili possa trattarsi che ogni linguaggio indipendentemente dalla

forma che è andato storicamente assumendo, sarebbe tenuto ad assumere per potersi

pretendere compiutamente sviluppato. Il presupposto che Kant sta facendo valere è

quello di una grammatica che generale o universale meriterebbe di essere considerata,

perché ricca e articolata al punto da poter essere ritenuta compiuta e perfetta, e come tale

comprensiva di ogni altra possibile, perché in grado di corrispondere pienamente alle

necessità formali di un pensiero non altrimenti esercitabile se non in forma di giudizi e

dunque a partire da una condizione che per qualunque pensiero, comunque formulato,

deve essere ritenuta la sua disponibilità a stabilire qualche cosa di qualche cosa.

È evidente che l’idea di una grammatica generale è strettamente connessa a quella di una

logica che generale a sua volta possa essere considerata e di fatto la presuppone. Una

grammatica non potrebbe essere ritenuta perfetta rispetto a un parametro che altro non

potrebbe essere se non quello delle necessità formali dell’umano pensiero, se non

ammettendo che necessità di questo tipo siano una volta per tutte determinabili.

Presupposto che oggi ci ripugna ma che Kant non rifiutò come dimostrano le pretese di

completezza che accompagnano nel § 9 della prima critica quella tavola dei giudizi, da cui

fa discendere nel § 10 una corrispondente tavola delle categorie. Il quadro dei pregiudizi

entro il quale è maturata l’idea di una grammatica generale analoga e parallela a quella

logica che generale a sua volta meriterebbe di essere considerata, non sarebbe completo

se non ribadissimo quanto dobbiamo ritenere sottinteso, nella convinzione kantiana, che

a dispetto della subalternità della loro disciplina i grammatici abbiano aperto la strada ai

logici e non viceversa. Questa convinzione sottintende la tesi che non solo i logici

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abbiano preso esempio dagli sforzi dei grammatici di far emergere dalle diverse lingue

naturali regimi disciplinari in grado di rappresentare la forma di qualcuno, ma anche che

in un caso almeno siano riusciti a offrirci (i grammatici) l’esempio di una grammatica

tanto generale da poter essere assunta quale modello di ogni altra e da giustificare

pertanto che una grammatica omnicomprensiva e perfetta possa pretendersi. È la tesi

apertamente sostenuta negli appunti di un corso dedicato all’ipotesi di un’enciclopedia

filosofica (volume XXV dell’edizione completa delle opere di Kant):

Così come si ha una grammatica generale delle lingue si cerca di escogitarne anche una per il pensiero, che

dovrebbe contenere certe leggi generali del pensiero. Una grammatica generale contiene regole generali delle

lingue senza considerare ciò che è particolare in esse, per esempio le parole. La grammatica latina si adatta a tutte

le lingue perché è quella elaborata nel modo migliore. Poiché la forma del linguaggio e la forma del pensiero

sono parallele e simili [analoghe] l’una all’altra, dato che noi pensiamo con parole e comunichiamo il nostro

pensiero ad altri per mezzo del linguaggio, allora c’è anche una grammatica del pensiero.

Il quadro tracciato è ricco di ombre (pregiudizi per noi inaccettabili) e luci (indicazioni

che sarebbe lasciato far cadere).

26/10/11 – Alcuni limiti impliciti al parallelismo kantiano tra grammatica e logica

generale, nonché il riconoscimento della funzione prettamente apriorico-trascendentale svolta

dal linguaggio nella costituzione di un’esperienza “überhaupt”, sulla base dell’ipotesi

kantiana di una vera e propria “grammatica trascendentale”, concepita come articolazione

interna della logica trascendentale e derivabile mediante semplice scomposizione dalla tavola

delle categorie (le quali risulterebbero pertanto dotate di un pregiudizievole contenuto

rappresentativo).

Il parallelismo tra una grammatica generale, il cui modello è la grammatica latina, e una

logica generale, il cui modello resta l’apofantica di Aristotele, si regge su almeno 4 assunti

incompatibili con le conclusioni a cui sono pervenute le discipline logiche e linguistiche

odierne. Improponibili sono per noi: 1) l’assunto di una grammatica delle lingue naturali

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che generale o perfetta (perfetta perché generale) possa essere ritenuta; 2) l’assunto che la

garanzia della sua perfezione possa essere trovato in una non meno perfetta logica del

pensiero in generale e in quanto tale, alla quale perfettamente corrisponderebbe; 3)

l’assunto che il modello di una grammatica perfetta (perché in grado di offrire un

equivalente linguistico a ogni possibile necessità formale non altrimenti se non in forma

di giudizi esercitabile) possa essere riconosciuta nella struttura di una lingua come quella

latina caduta in disuso; 4) l’assunto che in un dato storico addirittura precedente, quale

l’apofantica di Aristotele, sia possibile riconoscere quella necessità una volta per tutte e

non più sul terreno empirico di una disciplina che si limiterebbe a metterle a regime, ma

su quello apriorico che dalla natura di un pensiero non altrimenti esercitabile la farebbe

discendere.

Sono assunti per noi inaccettabili, ma sarebbe sbagliato rifiutarli senza contestualmente

chiedersi se per uno di quei paradossi che si rivelano spesso decisivi nei percorsi quasi

mai lineari delle nostre acquisizioni teoriche, non meno che delle nostre conquiste

sociali, anche in questo caso, convinzioni errate non abbiano finito per favorire scoperte

importanti. L’esempio più importante è quello di Cristoforo Colombo che ha costretto

tutti ad abbandonare le vecchie mappe che un pregiudizio stantio alimentava. Un altro

esempio potrebbe offrircelo Kant stesso, quando si riflettesse sul modo paradossale in

cui la sua logica trascendentale ha saputo avvalersi di quel mito di una logica generale a

cui si è inizialmente appoggiata. Se n’è avvalsa per porre in termini compatibili con

orizzonti e parametri della cultura logica del tempo, di un tempo che era anche il suo,

una questione di legittimità e validità a proposito della quale ha finito per mostrarci come

non possa trovare sviluppi coerenti e risposte pertinenti se non quando dall’orizzonte

iniziale di una presunta logica generale si impari ad uscire.

L’ipotesi di Barale è che qualcosa di simile sia accaduto anche nel caso del mito parallelo

di una grammatica generale. Dobbiamo chiederci se la funzione non meramente

strumentale che Kant ha riconosciuto ai linguaggi attraverso i quali comunichiamo, la

funzione che dovremmo essere in grado di riconoscere loro nel processo di formazione

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delle nostre conoscenze, non obblighi a dar conto di una costituzione non meramente

empirica (ma apriorica) del potere che il suo esercizio comporta a proposito di

quell’apriori linguistico che dovremmo riconoscere in essa incorporato; una questione di

legittimità e validità analoga e contestuale a quella che riguarda i dispositivi logici con cui

coopera. È una questione infatti che non potrebbe riguardare gli uni (quei dispositivi

logici che apriorici fossimo obbligati a riconoscere) senza riguardare l’altro, quel loro

modo di operare che non meno apriorico ed essenzialmente linguistico dovessimo

ammettere; ed è una questione che trascendentale nell’accezione kantiana del termine

merita di essere detta, quando la legittimazione a cui mira, venga cercata non in un

qualche fondamento trascendente dell’esperienza che i dispositivi in questione

consentono, ma nel significato che si prestano ad assumere quando come condizioni di

possibilità di un’esperienza “überhaupt” (cioè, di ciò che un’esperienza non potrebbe

non essere per noi) si arrivi a interrogarli e interpretarli. Quella che Barale ci propone è

un’ipotesi complessa la cui corretta formulazione esige tre passaggi successivi:

A) l’identificazione nel processo di formazione delle nostre conoscenze di una

funzione che linguistica e al tempo stesso apriorica debba essere riconosciuta

(linguistica nel senso di espletabile solo mediante l’uso di un linguaggio e apriorica

nel senso di originariamente costitutiva delle possibilità di cui un linguaggio quale

che sia si troverebbe ad essere interprete).

B) L’identificazione di dispositivi (possiamo ipotizzare una determinata tipologia di

regole) di cui sia lecito pensare che siano in grado di assolverla e che di ordine

linguistico nel senso appena indicato si configurino.

C) Un modo di porre la questione della loro ontologica validità che funzionale a una

loro legittimazione di ordine trascendentale e dunque tale da consentire di

riconoscere nei dispositivi linguistici in questione, così come in tutti i dispositivi di

ordine logico con cui cooperano, una condizione destinata a far sì che le

esperienze grazie ad essi possibili godano delle caratteristiche statutarie che

un’esperienza tale che sia, ogni esperienza per noi, possibile deve poter avere.

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Affrontiamo uno per volta questi tre passaggi, il primo dei quali ci chiede di identificare

nel processo formativo delle nostre conoscenze una funzione che linguistica (espletabile

solo mediante l’uso di un linguaggio) e apriorica (nel senso di originariamente costitutiva)

possa essere riconosciuta. Come prima mossa proviamo a ricercare dei testi kantiani

indicativi in tal senso. Premesso che non sono molti e che in nessuno è possibile trovare

una trattazione sistematica di semiotica trascendentale, Barale ci propone di

confrontarne tre, da cui è possibile evincere come esso sia stato seppur indirettamente

affrontato. Considereremo nell’ordine: un passo di un corso tenuto nel semestre

invernale del 1790-91 e pubblicato postumo sotto il titolo di Metaphysik L/2, il § 39

dell’Antropologia Pragmatica e alcune di quelle pagine del libro secondo della analitica

trascendentale della K.r.V. (introduzione e cap I).

Nel primo passo Kant sta richiamando la propria ipotesi di una filosofia che

trascendentale meriti di essere definita. In questo contesto con un intento che è quello di

rendere più perspicua la sua idea di filosofia trascendentale, dopo aver ricordato che altri

contenuti non può pretendere di avere se non quelle condizioni di esperienza che

possano valere quali principi di una conoscenza a priori: «la filosofia trascendentale è la

filosofia dei principi […] a priori»; dopo aver ricordato questo e dopo aver richiamato la

distinzione tra principi apriorici della sensibilità e dell’intelletto, ricorda che quest’ultimi,

identificati in prima battuta con i cosiddetti concetti puri o categorie, «esauriscono tutto

ciò che l’intelletto comprende in sé a priori», ma solo nel senso che ogni altro concetto

apriorico per noi possibile, di cui fosse impossibile fare a meno, deve poter risultare in

esse implicato e da esse pertanto, mediante semplice scomposizione, derivabile.

Premesso questo a proposito di quei concetti che apriorici siamo tenuti a riconoscere e

che trascendentali in ragione della loro funzione si credevano, prosegue dicendo:

«Se scomponessimo in questo modo i concetti trascendentali [quei concetti a priori che

“trascendentali” in ragione della loro funzione meritano di essere detti e che “categorie”

sono stati peraltro chiamati], allora questa sarebbe una Grammatica Trascendentale4,

4 Unico passo dell’intero corpus kantiano in cui compare tale espressione.

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che contiene il fondamento del linguaggio umano; per esempio, in che modo il presente,

il perfetto, piuccheperfetto siano contenuti nel nostro intelletto, che cosa siano gli

avverbi, ecc. Se si riflettesse su questo, allora si avrebbe una grammatica trascendentale.

La logica conterrebbe l’uso formale dell’intelletto, poi potrebbe seguire la filosofia

trascendentale, la dottrina dei concetti universali a priori» (Metaphysik L/2, Ak. XXVIII,

2, 1, pp. 576-77).

Si parla qui di concetti che apparterrebbero di diritto all’orizzonte di una grammatica

definita “trascendentale” e che sul suo terreno soltanto, su un terreno dallo stesso Kant

mai sistematicamente esplorato, si presterebbero ad essere identificati. Se ne parla come

di concetti derivabili per semplice scomposizione da quelli che Kant ha indagato e

identificato sotto il titolo di “categorie” e da ciò consegue se non altro che la scienza in

grado di identificarli, la nuova scienza da Kant ipotizzata sotto il titolo di “Grammatica

Trascendentale”, dovrebbe poterci apparire quale sezione e interna articolazione di quella

che ci ha presentato sotto il titolo di “Logica Trascendentale, di una sua sezione ed

articolazione dovrebbe più esattamente trattarsi che di diritto le appartiene, di cui la

nostra intelligenza di ciò che una logica trascendentale ha cercato di essere dovrebbe

tener conto, anche se di fatto tutto ciò che nei testi kantiani è possibile trovarne sono

poche ma importanti tracce di ciò che avrebbe dovuto essere ma non è stata.

La sua assenza dal quadro sistematico è forse dovuta non solo a motivi estrinseci, al fatto

che non tutto si può fare e che quando l’ipotesi di una grammatica trascendentale ha

cominciato a delinearsi con più chiarezza nella sua mente (primi anni ’90) Kant era ormai

troppo anziano per tentare di darle uno sviluppo sistematico, ma molto hanno influito

difficoltà di ordine oggettivo, imputabili al suo modo di concepire quella dimensione

categoriale delle nostre esperienze a cui per sua stessa ammissione avrebbe dovuto far

riferimento. Anche nel passo appena citato, il suo modo di esprimersi appare fortemente

condizionato da un’ambiguità che non ha mai cessato di minare e penalizzare la sua

dottrina delle categorie, del loro statuto e della loro funzione. Se ne parla alla stregua di

concetti puri da cui altri dovremmo poterne derivare attraverso un procedimento di

semplice scomposizione che li presuppone in essi contenuti. Ma nessun concetto può

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ritenersi contenuto in un altro se non ammettendo che a un suo contenuto denotativo o

rappresentativo del concetto da cui si sceglie di procedere si stia facendo riferimento.

Ogniqualvolta in questo modo al loro riguardo si esprime, Kant ricade nell’antico

pregiudizio che anche il più astratto tra i nostri concetti (perfino le categorie) non possa

essere altrimenti pensato se non quale rappresentazione di qualcosa, di uno stato di cose

di cui altri concetti in esso implicati, starebbero a rigore offrendoci altre e più parziali

rappresentazioni.

Solo attribuendo alle categorie un proprio contenuto rappresentativo è possibile pensare

che concetti ad esse associabili possono derivarne per semplice scomposizione, ma di

concetti verrebbe in tal caso a trattarsi non altrimenti pensabili se non quali

rappresentazioni parziali di una realtà di cui le categorie starebbero invero offrendoci una

rappresentazione compiuta. È chiaro che non potrebbe essere questa la natura di

concetti in grado di dar conto della dimensione linguistica delle nostre conoscenze. La

ricerca di concetti siffatti di concetti in grado di soddisfare le istanze di una grammatica

trascendentale, è incompatibile con un modo di considerare le categorie di riferimento

che alla stregua di rappresentazioni di qualcosa continui ad assumere. È necessario aprire

un diverso scenario nel quale la vera natura delle categorie venga in primo piano (ossia la

loro natura di regole per la formazione di schemi trascendentali della temporalità).

31/10/11 – Reale natura delle categorie e necessità di un livello di generalità e formalità

ulteriore (la struttura sintattico-semantica di un’eventuale “grammatica trascendentale”),

rispetto a quello di una grammatica e di una logica generale, in grado di andare oltre un

loro rapporto meramente analogico ed una conseguente concezione strumentale del

linguaggio, all’interno del quale divenga possibile ricondurre le forme in cui comunichiamo e

quelle in cui pensiamo ad un’origine comune, in grado infine di dar conto della duplice

dimensione (logica e linguistica) di ogni esperienza possibile.

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Riflettendo sulle difficoltà oggettive che potrebbero avere tolto ossigeno all'idea kantiana

di una grammatica trascendentale ostacolandone lo sviluppo sistematico siamo arrivati

alla conclusione che una tale ipotesi può trovare spazio solo in uno scenario che ci eviti

di travisare la vera natura delle categorie e ci obblighi a tener conto di ciò che

unicamente sono: non rappresentazioni (come Kant sembra intendere quando dice che

le categorie sono rappresentazioni di oggetti in generale) in e per sé stesse significanti

(nessuno si chiede il significato della rappresentazione tavolo), ma regole o più

esattamente (primo capitolo analitica dei principi) “condizioni” (“codici”, come dice

Barale) che è necessario ammettere affinché regole finalizzate alla rappresentazione di

una determinata tipologia di oggetti possano contare su un fondamento aprioristico che

eviti loro di risultare arbitrarie. Prima di inoltrarci in questo scenario, certamente diverso

da quello che siamo abituati ad imprestare a Kant e che lo stesso Kant ci induce ad

assumere quando leggendo la sua Critica della Ragion Pura prendiamo per buoni gli

sfondi metafisici della sua estetica trascendentale e della sua analitica trascendentale dei

concetti, Barale vorrebbe completare con un paio di osservazioni: la nostra analisi del

brano che abbiamo tratto dal corso di metafisica del 1790-91 (cfr. p. 9).

Si osserva, in primis, lo slittamento di prospettiva implicito nel passaggio dall'idea di una

corrispondenza unicamente analogica tra una presunta logica generale ed una presunta

grammatica generale, all'idea di una grammatica trascendentale incorporata in una

rinnovata logica trascendentale quale sua componente ineludibile. La corrispondenza tra

una presunta logica generale ed una non meno presunta grammatica generale era

destinata a restare di tipo analogico e a non andare oltre un semplice parallelismo tra

regole che è lecito supporre funzionali le une alle altre (ad esempio è certamente

funzionale alle regole di formazione di un giudizio apofantico la presenza grammaticale

di soggetto e predicato) senza tuttavia poter pensare che godano di un identico statuto e

con esso di un origine comune. Infatti anche ammettendo che l'ipotesi di una

grammatica generale possa essere ragionevolmente perseguita e che il modello di una

logica che generale si pretendeva possa trovare in essa riscontri speculari tali da

alimentare l'illusione che coestensive e funzionali a quelle di una logica generale le sue

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regole possano alla fine rivelarsi; anche ammettendo una grammatica che alle così dette

lingue naturali non cessi di fare riferimento, così che dal dato contingente che ciascuna di

esse rappresenta, la sua ricerca di regole in grado di valere per ognuna non possa

prescindere e si limiti per semplice astrazione a procedere, non potrebbe evitare di

configurarsi come una disciplina empirica (Kant non ha cessato di considerare la

grammatica comunque empirica) la cui massima ambizione potrebbe essere solo quella

di risultare parallela a quel sapere apriorico di un dato per nulla contingente con cui il

suo corrispondente analogico una logica generale ha invece la pretesa di coincidere. Al

traguardo di un perfetto parallelismo potrebbe pretendere di essere pervenuta nel

momento in cui il complesso di regole che fosse in grado di evincere dal corpo delle

lingue naturali si rivelasse coestensivo al complesso delle leggi logiche aprioristicamente

determinabili al livello di una logica generale, coestensivo quale potrebbe pretendersi

solo un complesso di regole linguistiche in grado di tener conto di ogni possibile

necessità del pensiero, offrendovi forme di espressione compatibili con le forme in cui si

presta ad essere esercitato. Di questo potrebbe nel migliore dei casi trattarsi, di una

grammatica in grado di tener conto di tutte le istanze di una logica a sua volta in grado di

tener conto di tutte le possibili istanze di un pensare quale che sia e di risultare ad essa

funzionale. Il linguaggio grammaticalmente perfetto che avrebbe la pretesa di disciplinare

continuerebbe ad essere concepito quale semplice strumento empirico di comunicazione

dei pensieri costruiti in forme indipendenti dalle sue.

Oltre una relazione di tipo unicamente analogico, tra logica e grammatica ed un

parallelismo destinato a confermare il pregiudizio di una funzione meramente

strumentale dei linguaggi in cui comunichiamo, è possibile procedere solo ammettendo

che il livello di generalizzazione delle rispettive regole, suggerito dall’ ipotesi di una logica

generale e di una corrispondente grammatica generale, non sia il più elevato possibile e

che quando ad un superiore livello di generalità e formalità si arrivi a considerarle, le

forme in cui pensiamo e le forme in cui comunichiamo siano riconducibili ad un origine

comune che della dimensione inevitabilmente duplice, logica e linguistica di ogni assetto

formale delle nostre esperienze dà contestualmente conto. Appare chiaro che proprio a

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questo, ad un livello di generalità e formalità compatibile con il riconoscimento di un

vincolo indissolubile di solidarietà e reciproca dipendenza tra modalità di formazione e

modalità di comunicazione dei nostri pensieri si stia alludendo. L'ipotesi di una

grammatica non più generale, cioè adattabile ad ogni possibile lingua naturale, ma

trascendentale nel senso kantiano di una condizione disciplinare che ogni nostra

esperienza sta presupponendo, perché solo ammettendo che una disciplina di quel tipo si

dia è possibile riconoscere in ciò che esperienza diciamo quella maniera d'essere che in

nessun caso può cessare di essere per noi. Barale si chiede retoricamente se non si debba

ammettere che solo ad un livello ed in una prospettiva che trascendentali in questo senso

meritino di essere detti, indisgiungibili si rivelino le prospettive altrimenti parziali di una

logica, che non più generale nel senso kantiano ma formale pur sempre ed a maggior

ragione avrebbe il diritto di pretendersi, e di una riflessione che con un sapere volto a

stabilire le formali condizioni di significatività dei linguaggi per noi possibili sia disposto

a coincidere. La tesi di Barale, che non è unicamente sua, ma che vorrebbe far emergere

da una rilettura del criticismo kantiano consapevole delle difficoltà che ha incontrato,

non meno che delle acquisizioni a cui è pervenuto, la tesi è che ad una considerazione

unitaria della loro natura quale potrebbe essere garantita da una reinterpretazione in

chiave trascendentale della loro funzione, si prestino soltanto logiche e grammatiche che

a null'altro, se non alla più generale struttura sintattico-semantica di quel discorso che

ogni esperienza presuppone, abbiano la pretesa di riferirsi.

2/11/11 – Riflessioni sulle nozioni di “trascendentale” e di “Erfahrung Überhaupt”,

prefigurazione di una logica trascendentale in grado di rompere col mito fondatore di una

logica generale (mito fondatore a cui si rivolge ogni ontologia mentalistica e soggettivistica),

di per sé incompatibile con una considerazione unitaria e sistematica della natura

inevitabilmente multidimensionale (non solo logica e linguistica, ma anche biologica,

neurofisiologica…) delle forme in cui operiamo.

Nella lezione di lunedì scorso siamo andati oltre l’idea di una relazione non più che

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analogica fra logica e grammatica; di un semplice parallelismo tra regole imputabili alla

natura del pensiero e regole imputabili alla struttura dei linguaggi che ci costruiremmo

allo scopo di comunicare pensieri, che ritroveremmo pertanto ad aver prodotto in una

dimensione unicamente mentale, indipendente dalle regole che li rendono comunicabili.

Ci siamo chiesti questo ed avendo convenuto che al di là di un apparente parallelismo

non saprebbero condurci le ipotesi di una logica generale e di una grammatica generale,

di una logica in grado di tener conto di ogni necessità del pensiero e di una grammatica

in grado di prevedere tutte le forme che potrebbero rivelarsi idonee a comunicarlo;

avendo convenuto in questo abbiamo convenuto anche che queste ipotesi vanno

superate in una direzione che lasci presagire e ci aiuti a scoprire un più elevato livello di

generalità e formalità delle regole in questione, di regole che continuerebbero altrimenti

ad apparirci o di natura unicamente logica o di natura unicamente linguistica e ci siamo

resi conto che ad un loro livello di generalità e formalità, compatibile con il

riconoscimento di un vincolo di reciproca dipendenza tra modalità di formazione e

modalità di comunicazione, precisamente allude l'ipotesi di una grammatica non più

generale, cioè adattabile ad ogni possibile lingua naturale, ma trascendentale nel senso

kantiano di una condizione disciplinare che ogni nostra esperienza sta presupponendo

perché solo ammettendo che una disciplina di quel tipo si dia è possibile riconoscere in

ciò che esperienza diciamo quella maniera d'essere che in nessun caso può cessare di

essere per noi.

Sono molte a questo punto le anticipazioni che questa nostra riflessione fin qui tutta

incentrata sui problemi che intendiamo affrontare ha finito per darci riguardo alle ipotesi

con cui tenteremo di rispondere. Su una di queste anticipazioni intendiamo oggi aprire

una parentesi: riguarda l'uso che costantemente faremo dell'aggettivo trascendentale. Tra

i molti usi di questa parola di cui è possibile trovare traccia (circa 26!) continueremo a

privilegiare quello che più kantiano di ogni altro abbiamo ragione di ritenere perché è

l'unico in grado di associare stabilmente l'ipotesi di una prospettiva che trascendentale

meriterebbe di essere definita, col grande tema di una legittimazione del valore

ontologico dei dispositivi apriorici da cui la nostra intelligenza di quanto accade mostra

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di dipendere. Ad una legittimazione del loro valore ontologico Kant si era illuso di poter

pervenire una volta per tutte nel contesto di quella che ha non per nulla definito

“deduzione trascendentale dei concetti puri dell'intelletto” (§§ dal 15 al 26 della Critica

Ragion Pura), salvo dover ammettere che il problema restava aperto – lo ha ammesso

riprendendolo in momenti successivi della sua indagine (così si esprime nei lineamenti

metafisici di una scienza della natura) – ed inevitabilmente si riproponeva in contesti che

quantomeno più ampi di quello presupposto dal tentativo di una deduzione

trascendentale dei soli concetti puri dell'intelletto si andavano rivelando. Il costante

riproporsi di una questione che in altro modo non sapremmo definire se non come

trascendentale, questione di legittimità ed ontologica validità di assetti formali delle

nostre esperienze che apriorici si debbano riconoscere, è l'unico filo conduttore

dell'indagine che Critica della Ragion Pura Kant ha definito, e tale resta anche nelle imprese

e negli sviluppi che ne ha tentato al di là dei confini iniziali: è il filo conduttore delle tre

critiche, perché vale a definire sia la questione di legittimità da cui l'indagine kantiana si

lascia costantemente guidare, sia quei tentativi di rispondervi che la riterrebbero risolta

quando fosse possibile riconoscere negli assetti formali, sulla cui ontologica validità ci si

interroga, condizioni in assenza delle quali un'esperienza non sarebbe quale deve poter

essere per noi.

E' dunque questa l'accezione dell'aggettivo trascendentale a cui un lettore di Kant è

tenuto a far riferimento se non vuole rischiare di fraintendere gli intenti programmatici

della sua impresa teorica. Ad essa costantemente ci atterremo definendo trascendentali

sempre e soltanto quelle considerazioni che nei dispositivi formali sulla cui ontologica

validità stanno interrogandosi, fossero in grado di riconoscere condizioni in assenza delle

quali un'esperienza non sarebbe quale deve poter essere per noi. A questa accezione di

trascendentale ci atterremo con un'unica indispensabile precisazione a proposito della

nozione da cui l'idea di qualcosa che un'esperienza in generale ed in quanto tale è, e non

potrebbe essere per noi, può e deve essere inferita: è la nozione di “Erfahrung

Überhaupt”, che i traduttori rendono prudentemente con l’espressione “esperienza in

generale”, rinunciando a chiedersi in che cosa un'esperienza possa consistere quando

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non all'una o all'altra di esperienze particolari si stia facendo riferimento, ma a qualcosa

di cui sarebbe inevitabile pensare che un'esperienza in quanto tale sempre lo sia. E' un

interrogativo che un traduttore ha il diritto di eludere, ma che noi abbiamo il dovere di

porci, ed al quale se non vogliamo nasconderci dietro l'uso generico e polivalente della

parola esperienza, si può dare solo l'una o l'altra di due risposte possibili: si può pensare

che sotto il titolo di esperienza in generale Kant a null'altro intendesse riferirsi se non a

quello scheletro che tutte le esperienze si troverebbero a condividere, una volta ammessa

la loro dipendenza da un assetto formale che sarebbe il medesimo per tutte ed in assenza

del quale nessuna sarebbe possibile. Ma se così davvero fosse, se dovessimo ammettere

che ad un presunto assetto formale di tutte le esperienze possibili, la nozione di

“esperienza in generale” unicamente si riferisca e fossimo pertanto obbligati a pensare

che di null'altro se non delle forme entro cui la scopriamo possibile, un'esperienza come

tale considerata, possa darci testimonianza, perderemmo la possibilità di riconoscervi un

parametro da esse distinto rispetto al quale il valore ontologico delle forme in questione

possa essere stabilito.

Ogni tentativo di darne una legittimazione che decisiva volesse considerare, che rispetto

alla possibilità rappresentata da un'esperienza quale che sia dovremmo ritenere assolta da

forme con cui la supponessimo coincidere, sarebbe destinato a risolversi in un

tautologico rinvio a quanto stiamo presupponendo. L'ipotesi di una loro legittimazione

che di ordine trascendentale possa pretendersi perché in grado di stabilire quale funzione

possono assolvere e quale valore possono rivendicare in quanto condizioni a cui la

possibilità di ciò che un'esperienza non potrebbe non essere risulta in quel momento

affidata, resta in piedi solo ammettendo che questa possibilità possa essere tenuta distinta

da quelle che un qualsivoglia sistema di forme si trova a rappresentare, ovvero solo

ammettendo che ad una condizione di ordine non logico, ma ontologico l'uso kantiano

della parola esperienza stia riferendosi, laddove a qualcosa ci rimanda che un'esperienza

non potrebbe non essere e per noi sempre è. Trascendentale nell'accezione più

tipicamente kantiana del termine potrebbe legittimamente pretendersi solo quel modo di

considerare gli assetti formali delle nostre esperienze che fosse in grado di riconoscervi

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altrettante interpretazioni possibili di quella maniera d'essere per noi inderogabile che gli

usi kantiani della parola esperienza stanno sottintendendo. Ad una loro considerazione

che trascendentale in questo senso sia, intendiamo pervenire nella condizione che sia

l'unica in grado di dare conto della duplice dimensione logica ed al tempo stesso

linguistica che ognuna delle forme in cui operiamo può a buon diritto vantare.

Una seconda indicazione importante è emersa dalle riflessioni a cui l'ipotesi kantiana di

una grammatica trascendentale ci ha indotto a proposito del modo in cui potremmo

andare oltre una considerazione unicamente analogica del rapporto tra le forme in cui un

pensiero si produce e le forme in cui lo scopriamo comunicabile. La nozione di

trascendentale a cui riteniamo di doverci attenere e l'obiettivo a cui la associamo quando

ipotizziamo che una considerazione a giusto titolo trascendentale delle forme in cui

operiamo, sia come nessun altra in grado di dar conto della funzione inevitabilmente

duplice – logica ed al tempo stesso linguistica (non si pensa se non comunicando e non

si comunica se non pensando) – che sono tenute ad assumere, ci obbligano a tentar di

rompere il nesso che l'idea kantiana di una logica trascendentale ha accettato di

mantenere col mito di una logica generale. Su un tale nesso e più esattamente sulla

duplice presunzione che la natura dell'umano pensiero sia quella di un giudicare possibile

sempre e soltanto in determinate forme e che in nessuna di esse possa prodursi senza

contestualmente produrre l'uno o l'altro di concetti in grado di fungere da vere e proprie

matrici di tutti gli altri per noi possibili, si fondano come è noto le due tavole che Kant

ha proposto nei §§ 9 e 10 della sua analitica trascendentale dei concetti: con la pretesa di

poter raccogliere nella prima, tutte le forme in cui un giudicare e conseguentemente un

pensare sarebbe per noi possibile e di poterne dedurre nella seconda un quadro

altrettanto esauriente di quei concetti che per il solo fatto di doversi produrre nell'una o

nell'altra delle forme indicate, un pensiero a tale necessità vincolato non potrebbe evitare

di produrre.

La corrispondenza che tra queste due tavole stabilisce ed il conseguente passaggio da una

tavola delle forme in cui ci sarebbe dato pensare ad una tavola di concetti che in quelle

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forme pensando non potremmo evitare di produrre, sono ciò che Kant ha definito

“esposizione metafisica dei concetti puri dell'intelletto o categorie” e che ci ha obbligato

a considerare la struttura portante di una logica trascendentale come quella che nella

tavola delle categorie avrebbe il proprio nocciolo duro e che è poi quella che le viene

tradizionalmente attribuita. Orbene, supporre che una logica trascendentale possa in

questo modo discendere da una logica generale e non riuscire neppure a concepire che in

altro modo la sua possibilità possa essere acquisita, significa formulare una tesi

chiaramente incompatibile con ogni ipotesi di un'origine comune e paritetica delle forme

in cui pensiamo e di quelle in cui i nostri pensieri diventano comunicabili. Quell'origine

comune e paritetica infatti non potrebbe essere di ordine esclusivamente logico quale

dovremmo invece ritenerla se in un assetto inderogabile del pensiero fossimo obbligati a

riconoscerla. Questo dunque siamo in grado di anticipare a proposito di una logica che

trascendentale voglia risultare nel senso che stiamo privilegiando e che la vedrebbe

coincidere con una considerazione unitaria e sistematica della natura inevitabilmente

multidimensionale (oltre alle considerazioni logiche e linguistiche, dovremmo prendere

in considerazione anche l'ipotesi biologica e neurofisiologica) delle forme in cui

operiamo. Una simile logica trascendentale va liberata da ogni contaminazione con quel

mito fondatore di ogni ontologia mentalistica e soggettivistica, ossia dall'idea di una

logica in grado di rappresentare, in uno scenario unico e definitivo, la generalità delle

forme in cui ad un pensiero quale che sia sarebbe concesso prender forma e di

rappresentarle avendo riguardo non alla funzione che può trovarsi ad assolvere, ma

unicamente ad una natura di cui sarebbe portatore. Da questo mito fondatore ci libererà

sorprendentemente la nostra riconsiderazione della prospettiva trascendentale che Kant

ha tentato di delineare.

7/11/11 – Delineamento della logica trascendentale come “logica dell’esperienza in

generale e in quanto tale”, messa in evidenza della non esaustività della tavola dei giudizi

(fondata sull’apofantica aristotelica) e della sua inidoneità, pertanto, a dare conto di una

autarchica natura del pensiero; approdo infine a quel “canone per il Giudizio” incarnato

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dalla Analitica dei Principi (distinzione tra “Prinzipien” e “Grundsätze) e al capitolo

sullo Schematismo, zona franca, avulsa dalle pregiudiziali della logica generale perché,

indagandone i principi direttivi, non avrebbe potuto acriticamente assumerli come scontati.

Abbiamo formulato l’ipotesi di una logica trascendentale, nel senso di una logica

dell’esperienza in generale e in quanto tale, in un senso che la vedrebbe coincidere con

una considerazione unitaria e sistematica della natura inevitabilmente multidimensionale

delle forme in cui operiamo; e su uno dei suoi requisiti ci siamo più in particolare

soffermati chiarendo come e perché dovrebbe risultare libera da ogni contaminazione

con quel mito fondatore di ogni ontologia mentalistica e soggettivistica che è l’idea di

una logica in grado di rappresentare in uno scenario unico e definitivo la generalità delle

forme in cui a un pensiero quale che sia sarebbe concesso prendere forma e di

rappresentarle avendo riguardo non alla funzione che può trovarsi ad assolvere ma

unicamente a una natura di cui sarebbe portatore.

Non solo questo abbiamo imparato a proposito di una logica che ambisca a essere

dell’esperienza in generale e il cui obbiettivo sia pertanto una considerazione delle forme

in cui un’esperienza si rende possibile, in grado di dare conto della loro originaria e

irriducibile multidimensionalità (logica, linguistica, biologica…) e del valore diverso che

possono assumere rispetto a quel parametro costantemente offerto da quella maniera

d’essere che nessuna esperienza può evitare di essere per noi. Stiamo imparando anche in

quale direzione ogni suo residuo legame non solo col mito fondatore di una logica

generale ma con ogni logica che a una autarchica natura del pensiero abbia la pretesa di

riferirsi, possa e debba essere superato-spezzato. Ci ha detto Kant: va spezzato in una

direzione che consenta di dare spazio a questioni che nel brano tratto dal corso di

metafisica del semestre 1790-91 dichiara di competenza di una grammatica

trascendentale; e che a ben guardare pongono condizioni del significare non assumibili

nel quadro formale di un’apofantica come quella che egli stesso ha elevato al rango di

logica generale.

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Quando ci chiede di stabilire in che modo siano contenuti del nostro cervello il presente,

il perfetto, il piuccheperfetto, gli avverbi ecc. e tante altre componenti essenziali dei

linguaggi in cui i nostri pensieri divengono comunicabili e sulla cui capacità di

contribuire alla loro formazione nulla hanno saputo dirci sia quella logica che egli stesso

ha assunto come generale, sia una logica trascendentale come quella che ne ha ricavato;

sta in realtà chiedendoci un mutamento di prospettiva in grado di far uscire quelle nostre

riflessioni che di ordine trascendentale si pretendono dal cono d’ombra di una presunta

logica del pensiero in generale e in quanto tale; perché solo in una prospettiva diversa

può trovare spazio la questione di come possano appartenere alla nostra facoltà di

intendere forme d’intelligenza e dunque modalità del suo esercizio non derivabili dalle

semplici forme di un giudicare quale che sia; quando di quelle forme unicamente si tratti,

alla cui identificazione si è pervenuti sul presupposto che null’altro fossero tenute a

rappresentare se non necessità imputabili alla natura di un pensiero in e per se stesso

considerato.

È infatti evidente come al livello e nel senso di una logica governata da un tale

pregiudizio, convinta di dover considerare essenziali nel processo di formazione di un

pensiero, solo forme che sia pure entro uno spettro ben definito di possibili alternative

(al quale sarebbe necessario attenersi) sarebbe dovuto assumere in ragione di una propria

inderogabile natura, al livello e nel senso di una logica generale, un giudizio con cui ci

limitassimo a pensare che “Mario è un uomo probo” dovrebbe essere riconosciuto

formalmente e non solo contenutisticamente identico a quello con cui pensassimo che

“Un uomo probo Mario lo è stato”. E difatti un identico soggetto e un identico

predicato (uomo/probo) sono posti in una relazione che stando alla kantiana tavola delle

funzioni e relative forme del giudicare risulta in entrambi i casi di tipo categorico

piuttosto che ipotetico o disgiuntivo e di tipo assertorio piuttosto che problematico o

apodittico e tale da produrre giudizi che sotto il profilo qualitativo sono entrambi

affermativi e sotto il profilo qualitativo, entrambi singolari. Eppure ci rendiamo conto

che diverso è il loro significato dal momento che col primo ci limitiamo a dare

informazioni utili a definire il carattere e le condotte di Mario, mentre nel secondo diamo

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un’informazione supplementare e tutt’altro che irrilevante circa il fatto che Mario è

defunto. Conclusione: i paradigmi offerti dalla kantiana logica generale si rivelano

insufficienti a dare conto delle diversità che possono intercorrere tra i modi di coniugare

i medesimi concetti che ci obbligano a considerare formalmente identici.

Da ciò consegue un’analoga inadeguatezza di quella logica supplementare che altre

norme di esercizio del pensiero non ammettendo, oltre a quelle che da una sua presunta

logica generale ha potuto evincere e su di esse pertanto unicamente basandosi, ha tentato

di raccogliere in un’unica tabella le fondamentali modalità di riferimento di un pensiero

in quelle forme formulato, ai possibili oggetti di un’esperienza quale che sia. La logica

supplementare che di una tale impresa è stata investita è quella che Kant ha definito

trascendentale. La tavola prodotta dal suo infelice connubio con una presunta logica del

pensiero in generale e in quanto tale è la celebre tavola delle categorie, un elenco di

concetti che lo stesso Kant ha dovuto riconoscere incapace di stabilire da sé le

condizioni che possono renderli significativi; tant’è che di questa ha potuto incominciare

a parlare solo oltre i confini di quel I libro della sua analitica trascendentale che alla loro

presunta natura di puri concetti ha ritenuto di poter dedicare.

Delle condizioni che siamo obbligati ad ammettere per poter pensare che un concetto

quale che sia possa risultare significativo (condizioni che si rileveranno le medesime tanto

per quei concetti che si presentano come puri tanto pur quelli empirici) si parla infatti

per la prima volta nel primo capitolo di quel libro II dell’analitica trascendentale in cui

ogni precedente pregiudizio circa le predisposizioni del loro pensiero a produrre in

maniera autarchica determinati concetti anziché altri, lascia il passo a una più

approfondita riflessione circa la vera natura di quelle formazioni del pensiero che

concetti diciamo e circa i contesti in cui si prestano ad assolvere quell’unica funzione che

può essere la loro. A proposito dei concetti vale l’assunto che nulla si concepisce se non

giudicando: questo significa che la vera natura di un concetto non può pretendersi

riconosciuta se non quando si siano date le condizioni per poterlo pensare quale

componente elementare di giudizi alla cui formazione sta concorrendo. È una prima

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acquisizione implicita nella ripresa di ciò che un concetto è, del suo modo di prodursi ed

applicarsi, in un’analitica che dei principi si definisce, ma che quale dottrina

trascendentale del giudizio pretende di essere recepita. Come tale infatti si presenta

nell’ultimo capoverso del preambolo che la introduce5.

I principi in questione sono non “prinzipien” ma “grundsätze” (= proposizioni

fondamentali), principi non nel senso forte di punti di partenza assoluti, in grado di

definire lo spazio logico e ontologico di ogni condotta per noi possibile, ma nel senso

più debole e generico di assunti iniziali in grado di valere quali premesse di una

determinata tipologia di condotte possibili (Cfr. A 300 – B 356-7). La pretesa kantiana è

che dei punti di partenza siffatti, il cui status sarebbe quello di pronunciamenti inespressi

siano costantemente presupposti da quei giudizi che effettivamente formuliamo. Ci

chiederemo se all’origine di questa pretesa non stia affiorando una consapevolezza non

interamente riconducibile ai pregiudizi che la motivano e che già avevano suggerito l’idea

di un assetto categoriale unico e definitivo delle nostre condotte conoscitive; il

presupposto a cui la kantiana dottrina dei principi vorrebbe attenersi è pur sempre quello

di un pensiero obbligato da una propria autarchica natura ad estrinsecarsi in forme

compatibili unicamente con una determinata tipologia di concetti e con una determinata

tipologia di giudizi, all’elenco che degli uni ci ha dato nel primo capitolo dell’analitica dei

concetti (tavola delle categorie) tenta in ogni modo di corrispondere l’elenco che degli

altri (dei grundsätze) ci offre il secondo e conclusivo capitolo dell’analitica dei principi.

Ma tra l’uno e l’altro di questi due elenchi di una logica trascendentale ancora governata

dagli assunti dogmatici di una presunta logica generale ha trovato spazio un capitolo che

quegli assunti ha dovuto porre tra parentesi, perché il tema dei giudizi inespressi che ogni

nostro giudizio si troverebbe a sottintendere e che quali suoi principi direttivi starebbe

facendo valere, non può essere legittimamente affrontato se non da una riflessione che

5 «L’analitica dei principi non potrà quindi essere altro che un canone per il giudizio, a cui essa insegna il

modo di applicare ai fenomeni i concetti dell’intelletto, i quali contengono le condizioni per le regole a priori. È per questo motivo che, venendo a trattare dei veri e propri principi dell’intelletto, userò la denominazione di dottrina del giudizio, con cui viene più rigorosamente indicato questo argomento» (A 132 – B 171).

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non dia per scontata la possibilità che sta ammettendo, quella di un giudicare che di tale

natura sia.

Quale possibilità un giudizio rappresenti e quali condizioni diventi possibile pensare che

le stia realizzando è la questione che sia pure in un contesto inidoneo ancora a offrirle

tutto lo sviluppo che meriterebbe (cfr. di contro K.U.), nel primo dei due capitoli di

un’analitica trascendentale dei principi, che dottrina trascendentale della capacità di

giudizio si sarebbe voluta.

09/11/2011 – I concetti puri (ma anche gli empirici) non sono rappresentazioni – una

tale concezione perpetrerebbe un depotenziamento imperdonabile della questione

trascendentale (inaugurata in A 11/12 – B 25), consistente nella sua riduzione alla

problematica della mera apriorica disponibilità delle nostre forme d’intelligenza (deduzione

metafisica), tagliando fuori, di fatto, l’altrettanto problematica questione dell’apriorica

riferibilità e adattabilità (deduzione trascendentale) dei concetti al dato fenomenico

(risulterebbe difatti tautologico interrogare una rappresentazione circa la propria capacità di

riferirsi a ciò che rappresenta) – bensì regole, il che significa prendere atto dell’inemendabile

“mediatezza” della loro applicazione sussuntiva al “molteplice fenomenico come tale dato”

(distinzione “Gegestand” / “Objekt”), da cui origina il problema dell’assenza di

omogeneità (“gleichartigkeit”) tra istanza concettuale ed istanza intuitiva, a cui la nozione

di “schema” tenterà di sopperire.

“Se l'intelletto in generale viene definito come la facoltà delle regole, quella del giudizio

sarà la facoltà di sussumere sotto le regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o non stia

sotto una data regola (casus datae legis)”(A132/B171). Così si apre l'introduzione di quei 3

capitoli di logica trascendentale che Kant ci ha lasciato con il titolo di Analitica dei

Principi, così dà definizioni delle nostre facoltà di intendere e di giudicare. Una doppia

definizione a cui va il merito di un chiarimento decisivo circa la natura di quelle forme di

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intelligenza che puri concetti o categorie erano stati in prima battuta definiti. E di un

chiarimento non meno decisivo, anche se per ora soltanto preliminare, circa le condizioni

che è necessario ammettere o più esattamente circa il contesto che è necessario

assicurare loro affinché possano pretendersi ontologicamente significativi di qualcosa che

effettivamente sia. Della natura di quelle forme d’intelligenza che quali concetti allo stato

puro ci erano state in prima natura presentate, ci viene esplicitamente detto, che il loro

statuto logico ed epistemologico può essere solo quello di una regola. Quanto alle

condizioni che è necessario ammettere affinché possano pretendersi ontologicamente

significativi si chiarisce significativi di qualcosa che effettivamente è, possono pretendersi

solo nel contesto di giudizi a cui debba essere riconosciuta la capacità di stabilire quali tra

i dati delle esperienze che le regole in questione concorrono a rendere possibili si

prestino ad essere sotto di esse sussunti.

Dover riconoscere che lo statuto logico ed epistemologico di un concetto (come

vedremo non solo di quei concetti che puri cioè privi di un contenuto empirico loro

proprio siamo obbligati ad ammettere, ma anche di quelli che empirici non abbiamo

difficoltà a riconoscere) non potrebbe essere se non quello di una regola, ha significato

per Kant porre le premesse di una svolta a proposito della quale possiamo solo

rimproverargli di non aver osato assecondarla fino alle estreme conseguenze. Con quel

riconoscimento infatti ha forzato purtroppo non in via definitiva, ma certamente in

questa circostanza, i confini di una logica trascendentale sino a quel momento costruita

sul presupposto che tutte le forme di intelligenza, sulle cui aprioriche condizioni di

possibilità stava interrogandosi, potessero contare su un loro status originario di

rappresentazioni. Quali vantaggi un tale status era ritenuto in grado di garantire è presto

detto. Anche quelle tra le nostre rappresentazioni che dovessimo riconoscere non

derivabili da esperienze che già non le presuppongano, altro problema non ci porrebbero

se non quello di dar conto della loro apriorità, mentre fuori discussione rimarrebbe la

loro capacità, una volta date, di riferirsi in via apriorica ai dati che ci consentono di

assumere. Una tale capacità di riferimento infatti dovrebbe essere ritenuta implicita in ciò

che rappresentazione per propria natura fosse. La questione che trascendentale potrebbe

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ritenersi si troverebbe per così dire dimezzata e depotenziata al punto da non lasciare

spazio a qualsivoglia distinzione tra condizioni che trascendentali fossimo tentati di

riconoscere (condizioni di possibilità di un esperienza in generale e in quanto tale), e

condizioni nelle quali qualcosa di apriorico dovesse prodursi.

A un tale depotenziamento della questione trascendentale, che la renderebbe nel

contesto culturale contemporaneo improponibile, sembra effettivamente mirare la

definizione di conoscenza trascendentale che Kant ci ha dato in quel passo spesso citato

dell’introduzione generale alla Critica della Ragion Pura (sez. VII, A11-12/B25) in cui

scrive: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che in generale si occupi non tanto di

oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo modo

deve essere possibile a priori». Questa definizione del sapere che su di esse verte e che

trascendentale meriterebbe di essere per ciò stesso definito, sembra suggerire che

problematica un tale sapere debba ritenere unicamente la possibilità che forme di

intelligenza come quelle che considera, possano prodursi in via apriorica e che quando di

una tale possibilità sia arrivato a dare conto, ogni questione di ordine trascendentale

possa pretendersi risolta; posto che l'altra questione che si porrebbe, ossia la questione di

una loro apriorica riferibilità e adattabilità ai dati delle esperienze che promuovono,

diventa improponibile o proponibile solo in maniera tautologica, quando

preventivamente si ammetta che le forme a proposito delle quali ci si chiede come

possano aprioricamente costituirsi, siano non forme di intelligenza in senso lato, ma

forme di conoscenza in senso proprio, cioè rappresentazioni, a proposito delle quali una

volta chiarito come possano prodursi, sarebbe davvero superfluo chiedersi quali

condizioni sia necessario ammettere per poterle ritenere rappresentative di ciò che

stanno rappresentando e che, stante la loro natura di rappresentazioni, non potrebbero

evitare di rappresentare.

Se questo davvero fosse il significato della definizione di conoscenza trascendentale da

Kant proposta nelle pagine introduttive della sua prima critica, se una considerazione

trascendentale di quanto di apriorico le nostre esperienze stanno presupponendo,

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potesse davvero limitarsi a dar conto della possibilità che qualcosa di concettualmente

rilevante aprioricamente si dia, saremmo autorizzati a concludere che ogni questione di

ordine trascendentale debba ritenersi risolta da quella presentazione dei parametri

concettuali di esperienze che si pretendono le uniche per noi possibili, sui cui limiti lo

stesso Kant ci ha insegnato a riflettere, quando metafisica l'ha definita, ma alla quale è

impossibile negare il merito di aver mostrato come potrebbero spontaneamente e

pertanto aprioricamente prodursi a partire dalla necessità di un pensiero solo in

determinate forme esercitabile. Ritenere che una conoscenza di ordine trascendentale

abbia raggiunto il proprio obbiettivo quando a una deduzione metafisica dei fondamenti

concettuali delle nostre esperienze fosse pervenuta, a una loro deduzione che altra

legittimazione non potrebbe loro offrire se non quella di poter corrispondere alle

necessità di un pensiero che dovessimo ritenere solo in determinate forme esercitabile, ci

autorizzerebbe a ritenere superflua quella questione ulteriore che trascendentale in un

senso più proprio di ogni altro lo stesso Kant ci ha indirizzato a considerare, nel

momento in cui ha affidato il compito di rispondervi a una deduzione che trascendentale

e non più metafisica dovrebbe anch'essa poter risultare.

Superflua dovremmo considerare la questione delle condizioni che è necessario

ammettere affinché forme di intelligenza che semplici regole e non già rappresentazioni

stiamo riconoscendo possano trovare nella loro natura e nelle condizioni di un loro

possibile esercizio una legittimazione della loro pretesa di riferirsi a qualcosa di

ontologicamente dato. Al di là delle interpretazioni diverse a cui può prestarsi una

definizione di conoscenza trascendentale come quella che abbiamo qui richiamato,

restano fatti incontestabili l'uso costante da parte di Kant della parola

“rappresentazione” (Vorstellung) per indicare il tratto comune di tutte le forme di

intelligenza per noi possibili e il tentativo di confermare la loro natura di

rappresentazioni tanto a livello di estetica trascendentale, dove lo status di

rappresentazioni non potrebbe più essere negato alle nostre nozioni originarie di spazio

e di tempo quando si ammetta la loro natura di intuizioni, sia a livello di analitica

trascendentale dei concetti, grazie all'escamotage di presentare quali rappresentazioni di

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una non meglio identificata essenza oggettiva di ogni oggetto possibile, rappresentazioni

di qualcosa che ogni oggetto sarebbe quando in generale e in quanto tale lo si consideri,

quei concetti che puri, cioè privi di un contenuto rappresentativo loro proprio si è

costretti a riconoscere. Il presupposto di una natura rappresentativa di ogni forma di

intelligenza per noi possibile è messo in mora nel momento in cui si ammette che

semplice regola un concetto sempre è. Lo si ammette dapprima a proposito di quei

concetti che vengono definiti puri, ma il riconoscimento viene successivamente esteso

anche a quelli che con un proprio contenuto empirico sembrano potersi identificare.

Vale, tanto per intenderci, nel caso di concetti come “sostanza” o “causa”, ma vale anche

nel caso dei concetti di “cane” e di “tavolo”.

Limitandoci per ora ai primi di cui anzitutto ci si occupa nei capoversi iniziali del

capitolo di logica trascendentale che stiamo considerando, e che è il capitolo primo della

cosiddetta analitica dei principi, vorrei fosse chiaro quali conseguenze comporta

l'ammissione che con semplici regole e non con sia pur generalissime rappresentazioni

abbiamo a che fare. Ammettere questo significa dover prendere atto dell'impossibilità

per quei concetti che puri sono stati definiti di riferirsi direttamente o per sola virtù

propria a quel molteplice spazio temporalmente dato che dovrebbero poter organizzare,

e poiché sulla loro presunta capacità di organizzazione di un molteplice spazio-

temporalmente dato si era fondata nei capitoli precedenti la presunzione di aver

riconosciuto in essi, in quei concetti in e per se stessi privi di qualsivoglia contenuto

empirico che categorie sono stati anche chiamati, le aprioriche matrici di tutti gli altri per

noi possibili; posto che nessun altro potrebbe essere pensato se non quale momento

terminale di un processo di organizzazione di cui li si sarebbe voluti unici protagonisti, la

scoperta della loro incapacità di riferirsi senza mediazioni a quel molteplice che

dovrebbero organizzare e dalla cui organizzazione dipende e discende ogni altro

concetto per noi possibile, questa scoperta, equivale a riconoscere che il prodursi di un

patrimonio concettuale come quello di cui costantemente disponiamo, diventa

inspiegabile quando in quelle sue matrici di ordine logico a cui dovessimo tentare di

ricondurlo, null'altro fossimo in grado di riconoscere se non istanze e necessità di un

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pensiero che di una propria autarchica natura stesse tenendo unicamente conto. Kant ne

prende atto a modo suo muovendo dalla premessa che «in allen subsumtionen eines

Gegenstandes unter einen Begriff muss die Vorstellung des ersteren mit der letzter

gleichartig sein» (A 176 – B137), ammettendo che una tale “gleichartigkeit”, di una tale

“omogeneità” non v'è traccia quando il raffronto sia tra il concetto puro di sostanza e

quanto di sensibile al modo di una sostanza dovremmo poter pensare.

In molti usi correnti nel linguaggio comune “Gegenstand” è sinonimo di oggetto e non

v'è traduttore che non ceda alla tentazione di mantenere una tale sinonimia, che invece

non vale per Kant, per il quale lo status del Gegenstand, di ciò che se ne sta li al modo di

un dato non elaborato, può essere attribuito solo a impressioni e apparenze ancora in

attesa che un concetto ad esse appropriato intervenga a unificarle e identificarle, mentre

lo status dell'Objekt presuppone che una tale unificazione e identificazione già sia

intervenuta. A qualcosa che Gegestand unicamente è e che Objekt non potrebbe

pertanto ancora pretendersi Kant si riferisce nel passo citato, laddove di una sua

unificazione e identificazione concettuale e delle difficoltà che poterbbe incontrare pone

il problema, e dunque se vogliamo evitare una confusione che dal senso di tale problema

ci allontanerebbe dobbiamo fare in modo che anche nella versione italiana la parola

“Gegenstand” mantenga quel significato che Kant ci chiede di attribuirle, un significato

che non è quello di oggetto, ma quello di “molteplice come tale dato (o che potremmo

avere)”. Un esempio della omogeneità che sta teorizzando Kant lo trova nel raffronto tra

il concetto empirico di un piatto e il puro concetto geometrico di un circolo. Questo

esempio ci permette di stabilire che l'omogeneità richiesta si dà ogni qual volta pensiero

e intuizione, per intuizione intendendo l'apprensione di qualcosa di sensibile nella sua

conformazione sensibile, convergono nella rappresentazione di qualcosa che alla sfera

dell'uno non meno che a quella dell'altra possa pretendere di appartenere. È il caso

secondo Kant di tutti quei concetti il cui riferimento sensibile siano proiezioni nello

spazio e nel tempo di relazioni speculari ai concetti geometrici nel primo caso, aritmetici

nel secondo caso, con cui ci è dato pensare. Non sarebbe invece il caso di quei concetti

che altro riferimento sensibile non potessero avere se non i dati discreti delle impressioni

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che riceviamo. Non v'è traccia dell'omogeneità richiesta quando direttamente si

raffrontino un concetto come quello di sostanza e quanto di sensibile al modo di una

sostanza dovremmo poter pensare. È dunque giustificata la domanda che al loro

riguardo Kant si pone: come è possibile l'applicazione della categoria ai fenomeni? Per

rispondere a questa domanda Kant introduce a una nozione di “schema”.

14/11/11 – La “rappresentazione analitica” che Kant ci offre del regime disciplinare

delle nostre esperienze (estetica, analitica dei concetti e analitica dei principi), una

rappresentazione che lo assume come sempre operante, si dimostra incapace di dare conto di

una costituzione unitaria dei dispositivi operativi in questione, e della sua compatibilità con

una prospettiva trasversale a ciascuno dei tre livelli considerati (concetti puri, concetti

empirici, concetti geometrici-aritmetici); al contrario, un simile ruolo pare assolto dal

capitolo sullo schematismo trascendentale, in cui si denuncia la favola di una reciproca

indipendenza del logico e del sensibile, e dai relativi schemi trascendentali

dell’immaginazione, vere e proprie forme primarie d’intelligenza, consistenti in

organizzazioni funzionali dello spazio-tempo (alla stregua di orizzonti di senso) a cui

viene affidata la capacità di produrre e riconoscere immagini, senza le quali la benché

minima apparenza (Erscheinung) non risulterebbe significativa per noi.

Kant è convinto che la possibilità delle esperienze come quelle che ci è concesso

compiere non possa ritenersi adeguatamente compresa e la loro strutturale complessità

adeguatamente rappresentata se non quando si pervenga a riconoscervi l'esito mai

interamente garantito e per sua stessa natura problematico, di una disciplina che la sua

stessa rappresentazione analitica ci obbliga a considerare articolata su tre distinti livelli

funzionali: analitica Barale definisce quella rappresentazione del regime disciplinare delle

nostre esperienze che Kant ci offre laddove (estetica trascendentale ed analitica

trascendentale dei concetti e dei principi) lo assume come un meccanismo già sempre

operante, in tal modo astenendosi ed esonerandosi dall'obbligo di porre in tutta la sua

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radicalità la questione di una costituzione unitaria dei dispositivi che stiamo

presupponendo. Una questione che non potrà avere risposta, se non ammettendo che

qualsivoglia disciplina debba poter risultare compatibile con una prospettiva trasversale a

ciascuno dei tre livelli considerati. Ma anche volendo per il momento limitarci a quella

considerazione analitica che di una tale prospettiva trasversale ed unitaria non sta

ponendosi il problema, un regime disciplinare come quello che Kant ritiene di dover

ammettere non potrebbe ritenersi funzionale alle caratteristiche qualitative delle nostre

esperienze se a tre livelli almeno non risultasse articolabile.

Di livelli si tratta gerarchicamente ordinati in modo che primario possa esser ritenuto

l'operare di regole con cui diventa possibile riferirsi ad ogni forma di datità per noi

possibile (quali regole siffatte sono concepiti i così detti concetti puri dell'intelletto), e

conseguente il prodursi di regole di identificazione dell'uno piuttosto che dell'altro di

oggetti tra loro distinti (quali regole siffatte sono concepiti i così detti concetti empirici).

Il terzo livello sarebbe quello di regole costruite avendo riguardo non ai possibili

contenuti sensibili di un'esperienza quale che sia, ma unicamente all'orizzonte formale

spaziale e temporale entro il quale una sensibilità come la nostra si presta ad essere

esercitata. Quali regole di questo terzo tipo sono concepiti i concetti della geometria e

dell'aritmetica. Lasciando da parte le questioni che potrebbero proporsi a proposito di

questi ultimi, limitiamoci a quelle che Kant si pone a proposito degli altri due livelli

disciplinari che decisivi nel processo di formazione delle nostre conoscenze sta

riconoscendo. A proposito di entrambi si chiede in queste pagine come la capacità di

riferimento che stiamo loro attribuendo possa essere acquisita, nel primo caso, cioè nel

caso dei così detti concetti puri, da regole i cui correlati sensibili debbano essere

riconosciuti in apparenze discrete non ancora unificate e concettualmente identificate, e

nel secondo caso, nel caso dei così detti concetti empirici da regole i cui correlati sensibili

debbano essere riconosciuti in apparenze non più discrete, a proposito delle quali un

qualche processo di unificazione e concettuale identificazione già è stato avviato, il cui

status è ormai quello di oggetti indissociabili da proprie corrispondenti immagini ed alle

cui immagini oggettive pertanto le regole in questione, quelle regole di identificazione

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che i così detti concetti empirici hanno la pretesa d essere dovrebbero poterci rinviare.

In entrambi i casi (conclusione schematismo) la capacità di riferirsi a dati non omogenei

con quello che esse stesse si troverebbero altrimenti a rappresentare, è riconosciuto a

regole di intelligenza che in una dimensione unicamente logica non restano confinate e

quali espressioni di istanze interamente riconducibili ad un'autarchica natura del nostro

pensiero risultano non più interpretabili, poiché la loro funzione, l'unica che ci consente

di dare loro un'identità non illusoria, è quella di regole destinate a disciplinare una

capacità di riprodurre e riconoscere immagini a cui quando della sua strutturale

complessità si tenga conto, ogni nostra conoscenza può essere ricondotta e che

immaginazione, nel senso più lato del termine, si presta ad essere definita. Di regole

siffatte ci parla il capitolo di logica trascendentale dedicato al così detto schematismo dei

concetti puri, di regole che si rivelano formazioni miste dotate di una duplice natura,

perché a nulla di sensibile potrebbero essere associate se in veste sensibile non potessero

esse stesse presentarsi, e d'altra parte il loro modo di riferirsi a quanto di sensibile

evocano, non potrebbe essere quello di ordinarlo ed organizzarlo se di capacità logiche

non fossero al tempo stesso espressioni. A questa duplice natura delle formazioni che

sotto questo titolo assumono, rimandano tutti gli usi kantiani della parola schema, ed

aver chiarito che non v'è concetto, né puro né empirico, che al modo di uno schema non

si trovi ad operare, è il grande merito del capitolo di logica trascendentale a cui stiamo

riferendoci.

Suo demerito sono formulazioni di questa tesi che non rinunciano ad utilizzare le

coordinate di cui ci si era avvalsi nei capitoli precedenti per raccontarci la favola di una

reciproca indipendenza del logico e del sensibile. A questa favola apparteneva l'idea di

forme che ad una natura esclusiva della nostra sensibilità o viceversa ad una natura

esclusiva della nostra intelligenza logica apparterrebbero e che “pure”, nell'uno e

nell'altro caso venivano pertanto definite. Coordinate come queste continuano a pesare

anche laddove insostenibili si rivelano gli assunti a cui erano funzionali. Anche quando

la scoperta di una irriducibile duplicità o bidimensionalità dell'orizzonte formale entro il

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quale le nostre esperienze si sviluppano, dovrebbe comportare un radicale ripudio del

pregiudizio che pure, nel senso di una natura puramente sensibile od in alternativa

puramente logica delle loro matrici, forme e modalità del nostro operare possano essere

in un qualsiasi momento ed ad un qualsivoglia livello considerate. Questo pregiudizio

continua a gettare la propria ombra anche su una scoperta che si rivela con esso

incompatibile, poiché ne detta formulazioni ambigue e gravide di falsi problemi e

possibili fraintendimenti. E' il caso di tutte le definizioni di uno schema che

indipendentemente dalla funzione che stanno attribuendogli, non rinunciano a

presentarcelo quale modalità di esperienza e di conoscenza che altre di ordine

unicamente logico o viceversa unicamente sensibile ne starebbe presupponendo e che

come terza tra esse intermedia ed ad esse in definitiva subalterna esigerebbe pertanto di

essere pensata. A definizioni di questo tipo Kant indulge sia nel caso di quegli schemi

che ritiene di dover ammettere quali condizioni di possibilità di un'esperienza in generale

ed in quanto tale (schemi in questo senso più proprio trascendentali) sia nel caso di

schemi che empirici definisce perché modi in cui diventa possibile associare al concetto

di qualcosa contenuti immaginativi in grado di corrisponderne. Cominciamo dai primi e

dalla definizione che dà subito dopo essersi chiesto quale condizione è necessario

ammettere per poter pensare che rappresentazioni di qualcosa di sensibile in una sua

dimensione che unicamente sensibile fosse lecito supporre, rappresentazioni di questo

tipo sarebbero quelle che Kant definisce intuizioni, possano essere sussunte sotto

concetti che “puri”, cioè privi di qualunque interno rimando a qualcosa di sensibile, per

parte loro si pretendono.

La risposta è nel passo A 138, B 177, terzo capoverso: «E' chiaro che si deve dare un

terzo elemento, il quale da un lato deve essere omogeneo con la categoria e dall'altro lato

con l'apparenza sensibile che dovrebbe essere sotto di essa sussunta per rendere possibile

l'applicazione della prima alla seconda». È stato tradotto “Erscheinung” non con

“fenomeno” ma con “apparenza”. Con l'unica eccezione di Giorgio Colli tutti i

traduttori italiani di Kant rendono “Erscheiung” che letteralemnte significa “apparenza”

con “fenomeno”, senza dare conto che non tutti i significati possibili di “fenomeno”

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sono coperti da “Ersceinung”, dato che per alcuni di essi Kant usa il termine di origine

greca “Phenomenon”. In generale, se è vero che a nessun fenomeno può esser negato lo

status di qualcosa che si mostra e dunque appare e che l'uso dei due termini quali

sinonimi può esser sotto questo riguardo giustificato, è vero anche che non tutti i

fenomeni sono apparenze dello stesso tipo e che quando si abbia interesse a distinguere

tra lo status fenomenico attribuibile ad apparenze che discrete e pertanto non ancora

identificate volessimo supporre, e lo status fenomenico attribuibile ad apparenze che

unificate e concettualmente identificate e dunque al modo di oggetti veri e propri già si

presentano, quando tra questi due tipi di apparenze si voglia distinguere, diventa

opportuno per non dire necessario rinunciare a quella sinonimia limitando il nostro uso

della parola fenomeno ai fenomenici oggetti (Objekte) di un'esperienza già strutturata e

chiamando apparenze i dati discreti (Gegenstande) da cui ogni esperienza che voglia

strutturarli e strutturarsi è obbligata a partire. Una forma di intelligenza dovrebbe

trattarsi in grado di mediare tra le due che sarebbe tenuta a presupporre. Infatti «questa

rappresentazione mediatrice deve essere pura e tuttavia da un lato deve essere

intellettuale e dall'altro sensibile. Una rappresentazione di questo tipo è lo schema

trascendentale» (Ibid.).

Il passo che abbiamo letto contiene una scoperta decisiva, ma la formulazione che Kant

ne dà rischia di risultare fuorviante – e fior di filosofi, da Fichte e Heiddeger ne sono

stati fuorviati – nella misura in cui si sforza di mantenere quale sua cornice assunti non

più necessari che non possono essere fatti valere senza oscurarne la verità. Perché

continuare a pensare che la condizione d’intelligenza che scopriamo di dover ammettere

affinché diventi intellegibile la possibilità di esperienze come quelle che ci è concesso

fare, stia presupponendone altre che incapaci di assicurarci un'analoga intelligenza delle

nostre condotte si sono rivelate? Perché intestardirsi a pensare che dispositivi logici – a

proposito dei quali abbiamo imparato che il loro statuto ontologico ed epistemologico

potrebbe essere solo quello di una disciplina delle nostre esperienze non vincolata a

contenuti empirici determinati e pertanto talmente generale da obbligarci a ritenerla

funzionale non unicamente all'una piuttosto che all'altra tipologia di dati sensibili, ma alla

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possibilità stessa che qualcosa di sensibile si dia – perché pensare che simili dispositivi

siano in grado di assolvere una funzione su tale possibilità mirata (e che in null'altro

potrebbe consistere se non nel far sì che risulti in ogni caso significativa), potendola

assolverla non in ragione di ciò che essi stessi per sé stessi sono, ma solo mediando tra le

istanze di un pensiero e di una sensibilità che abbiamo presupposto interamente

autoreferenti e reciprocamente indifferenti? Se andiamo a vedere in cosa poi

effettivamente consistano quelle regole di formazione del nostro patrimonio concettuale,

di cui Kant ci mostra come in altro modo non si prestino a funzionare se non quali

trascendentali schemi dell'immaginazione, ciò che significa regole in ragione delle quali si

produce quella condizione di ogni esperienza per noi possibile che è la capacità di

produrre e riconoscere immagini, scopriamo come in null'altro consistano se non in

un'organizzazione funzionale del tempo (e dello spazio) che egli (Kant) trasforma in veri

e propri orizzonti di senso, per tutto ciò che in essi in qualunque modo si dia. Regole di

tanto capaci, come quelle che troveremmo elencate nella pagine centrali di questo

capitolo, tra A 142 - B 182 ed A 145 - B 184, sono forme di intelligenza che primarie è

difficile non ritenere e che altre non ci obbligano a presupporre quando l'obiettivo sia

dare conto di quella condizione non meno primaria di ogni esperienza per noi possibile

che è l'impossibilità di assumere apparenze quali che siano che significative non debbano

per noi risultare.

16/11/11 – La concezione dello schematismo quale “traduzione” di un dato originario

(concetti puri dell’intelletto) in immagini, incapace di considerare gli schemi trascendentali

quali forme d’intelligenza primarie (e non subordinate alle categorie, fautrici di

un’autarchica ed immutabile natura del pensiero), appare, anche alla luce dell’impossibilità

di principio di una corrispondenza tra dati eterogenei, un’ipotesi inutilmente complicata,

frutto di un’illusione ottica; così ci appare anche in virtù dell’effetto combinato della

considerazione analitica che Kant ci offre in tre livelli distinti dell’assetto formale delle

nostre conoscenze e di una rivisitazione ancora inadeguata dell’assunto cartesiano secondo

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cui un esperienza quale che sia debba poter essere riconosciuta come un “pensare in prima

persona”. Tale inadeguata rivisitazione consisterebbe da un lato nell’abbandono di una

concezione dell’Io quale sostanza pensante, quale autocoscienza reificata che in

un’esperienza in prima persona pensi e si pensi come pensante (fin qui Cartesio) e dall’altro

nella concomitante formulazione di un pensiero che quale un modus operandi

(presupposto da ogni nostra esperienza, che come tale risulta in prima persona)

obbligherebbe ciascuno di noi a pensarsi quale Io.

Dopo aver riconosciuto nei così detti schemi trascendentali regole e dunque forme di

intelligenza destinate a far sì che gli orizzonti temporali (ma anche spaziali) in cui

collochiamo le nostre esperienze risultino in ogni momento funzionali a quella modalità

di ogni esperienza per noi possibile che è la capacità di produrre e riconoscere immagini,

Barale ci aveva promesso una considerazione più ravvicinata della tipologia di regole che

stiamo ammettendo e del tipo di organizzazione funzionale delle nostre coordinate

spazio-temporali che regole di quel tipo sono in grado di determinare. Profitteremo a

tale scopo dell'elenco che Kant ci fornisce, premettendo che quell'elenco è per Kant

esaustivo, mentre per chi come noi non è più disposto ad ammettere che ogni disciplina

delle nostre esperienze debba risultare compatibile da un lato con un'inderogabile natura

del nostro pensiero e dall'altro con una non meno inderogabile natura della nostra

sensibilità e degli orizzonti formali che ogni suo esercizio starebbe presupponendo,

quell'elenco può avere solo un valore indicativo. Dunque, nei sette capoversi successivi

(A 142 / B 182 – A 145 / B 184) Kant parla di otto schemi (di contro alle 12 categorie)

il primo dei quali è ritenuto capace di tradurre in immagini le tre categorie della quantità,

il secondo le tre categorie della qualità (sei categorie con 2 soli schemi); il terzo, il quarto

e il quinto le tre così dette categorie della relazione; infine il sesto, il settimo e l'ottavo le

tre così dette categorie della modalità.

Prima di entrare nel dettaglio è bene sottolineare come l'impresa che Kant sta

teorizzando e che “traduzione” stiamo definendo, presupponga tre momenti distinti, il

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primo dei quali corrisponderebbe ad un dato che stiamo supponendo originario, il

secondo ad un codice che dovremmo ritenere impegnato nel tradurlo, il terzo ad una

versione di quel dato originario che sua traduzione in un linguaggio diverso dovremmo

poter considerare. Nella sequenza che l'analitica kantiana sta privilegiando, originarie

potremmo considerare solo quelle forme di intelligenza che sarebbe possibile

riconoscere in un sistema di presunti concetti puri dell'intelletto, mentre ad esse

subalterne, perché destinate unicamente a tradurle, dovremmo considerare quelle, i così

detti schemi, che siamo arrivati a riconoscere come l'unico modo per noi possibile di

rendere intellegibili i dati sensibili di un'esperienza quale che sia. Per quanto riguarda poi

l'esito di questo presunto lavoro di traduzione, ossia immagini la cui presunzione di poter

valere quali forme appropriate di intelligenza dovrebbe risultare alla fine legittimata, va

precisato che il criterio di riuscita del lavoro di traduzione che alla loro legittimazione

dovrebbe portare, mai potrebbe esserci dato da una corrispondenza diretta tra i concetti

da cui supponiamo di dover partire (i concetti puri dell'intelletto) e le immagini che loro

versioni in un linguaggio diverso, non più logico ma iconico, ci riteniamo autorizzati a

considerare. Una corrispondenza tra dati eterogenei è in linea di principio impossibile. Il

criterio di riuscita della traduzione che stiamo ipotizzando, potrebbe essere allora solo la

compatibilità delle immagini in cui li avremmo comunque tradotti, non con concetti che

dovremmo continuare a supporre ad ogni immagine eterogenei, ma con quelle loro

edizioni schematizzate che eterogenee non saremmo più autorizzati a considerare.

Questa tesi è inutilmente complicata [e sintomatica del fatto che non si tenga conto in

modo appropriato]6 di forme di intelligenza al proposito delle quali siamo arrivati a

concludere che sono per noi l'unico modo possibile di rendere intellegibili i dati sensibili

di un'esperienza quale che sia, quando ad una tale conclusione non ci si voglia attenere e

ci si ostini a supporre che primarie queste forme di intelligenza comunque non siano, ma

subalterne ad altre che starebbero presupponendo.

Un'altra importante considerazione preliminare sembra a Barale opportuna prima di

6 n.d.r.

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gettare uno sguardo più ravvicinato su forme d’intelligenza che primarie alla fine

dovranno poter risultare, ma che primarie stentiamo ancora a riconoscere. La sequenza

che Kant ha stabilito, quando ha ritenuto che rappresentazione adeguata della struttura

disciplinare delle nostre esperienze possa ritenersi quella che la riconosce articolata su tre

distinti livelli funzionali, gerarchicamente ordinati in modo da prospettarci come

originarie forme d’intelligenza riconducibili direttamente ed interamente ad un'autarchica

ed immutabile natura dell'umano pensiero, con la conseguenza che sussidiarie e

subalterne dovremmo considerare quelle che nella nostra condizione di enti operanti in

un tempo ed in uno spazio stanno tenendo conto, e più subalterne ancora quelle che in

immagini scopriamo di aver tradotto; questa è una sequenza che nasce da un'illusione

ottica. Più esattamente dall'effetto combinato di una considerazione della struttura in

questione che lo stesso Kant definisce “analitica”, e di una rivisitazione ancora

inadeguata dell'assunto cartesiano secondo cui un'esperienza, che umana sia, deve poter

essere riconosciuta come un pensare in prima persona.

La tesi che Barale intende far valere anche rispetto alle contemporanee filosofie della

mente, secondo cui la propria esperienza dovrebbe poter essere riconosciuta come un

pensare in prima persona, era in Cartesio connessa e solidale con un'idea della mente

umana quale sostanza pensante. Ad un’idea come questa Kant è convinto di dover

rinunciare: sarebbe infatti incompatibile col suo esplicito rifiuto delle implicazioni

dualistiche che comporta e con un orientamento critico che lo ha portato a riconoscere

nella categoria di sostanza, così come in ogni altra, una modalità di unificazione di un

molteplice come tale dato che proprio per questo, solo nella rappresentazione di dati

come quelli sensibili che a tale caratteristica rispondono, può trovare un legittimo

impiego conoscitivo. Ma abbandonata l'idea che protagonista delle umane esperienze sia

una realtà la cui caratteristica essenziale sarebbe quella di non poter essere se non

pensandosi come pensante, di una realtà dunque identificabile con quella non di una

coscienza ma di un'autocoscienza reificata, concepita come qualcosa di per sé sussistente

e per sé consistente, e volendo tuttavia salvare l'assunto che esperienze condotte in prima

persona, le nostre debbano non di meno poter risultare, si poneva a Kant il problema

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(ma si pone anche oggi) di dare ad un tale assunto una legittimazione meno

compromettente sotto il profilo ontologico ma non meno cogente sotto un profilo

logico.

La risposta di Kant si rivelerà alla fine molto più profonda ed articolata di quanto ancora

non appaia, ma non si vede più che la sua prima idea sia stata quella di ancorare la

possibilità di esperienze in prima persona all'identità non di un io che in esse pensa e si

pensa, ma a quella di un pensiero che lo pensa. Se prendiamo per buona la nozione di

Io-penso come egli stesso la propone nel contesto di una deduzione, cioè di un tentativo

di legittimazione della così detta deduzione trascendentale delle categorie, a null'altro

mirata se non a mostrare che la validità ontologica delle nostre esperienze può ritenersi

sufficientemente garantita da loro fondamenti di ordine unicamente logico, scopriamo

che quella condizione di esperienza che non rinuncia a chiamare Io, l'Io della così detta

appercezione trascendentale, non è più per lui una realtà di cui sia lecito pensare che per

sé sussista ed in qualcosa di inalienabile consista, ma un modus operandi che una presunta

natura, essa sì inalienabile, del nostro pensiero ci obbliga ad ammettere come funzionale

ad un suo esercizio sistematico. Ma nel momento in cui il ruolo di fondamento delle

nostre esperienze viene attribuito non più ad un Io che pensa, ma ad un pensiero che

obbligherebbe ciascuno di noi a pensarsi come Io, dal momento in cui si sostiene questa

tesi, è inevitabile che primarie possano apparirci solo forme di intelligenza che ad

un'autarchica ed inalienabile natura del nostro pensiero si prestano ad essere imputate. E'

un'illusione ottica dovuta ad una rivisitazione dell'assunto cartesiano di una realtà che

non potrebbe essere se non pensandosi come pensata, incapace di “desostanzializzarla”

se non attribuendole lo status di una mera rappresentazione. In questi termini Kant

effettivamente ne parla in B 132 e B 135, cioè nel § 16 della seconda edizione della

critica, come di una rappresentazione funzionale alla maniera di procedere di un pensiero

che la pensa e che di null'altro, se non di una propria natura, producendola, starebbe

tenendo conto.

Barale ci diceva poco fa come l'illusione ottica suscitata da questa pretesa che il nostro

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modo di fare esperienza sia interamente spiegabile e convalidabile a partire dai suoi

fondamenti di ordine unicamente logico, della cui capacità, se non di produrla quanto

meno di renderle significativa, l'illusione ottica sia stata favorita da una considerazione

dell'assetto disciplinare delle esperienze ritenute per noi possibili che “analitica” è stata

dallo steso Kant definita. Una considerazione è possibile solo assumendolo come un

meccanismo già sempre all'opera e sottraendosi pertanto all'obbligo critico di porre in

tutta la sua estensione e radicalità la questione di una costituzione unitaria dei dispositivi

formali che sta presupponendo. Una questione come questa troverà nella critica kantiana

un suo spazio proprio, solo oltre i limiti della considerazione meramente analitica dei

dispositivi formali che un modo di fare esperienza come il nostro, sempre all'origine

mediato, non può evitare di presupporre e di cui esige comunque la disponibilità oltre i

limiti di una considerazione meramente analitica di qualsivoglia dispositivo formale ci si

trovi a presupporre; cioè nell'ottica di quella vocazione “dialettica” dell'umana ragione, la

cui comprensione critica coincide con la scoperta di una prospettiva trasversale ad ogni

altra possibile e con essa di un orizzonte non meramente logico ma ontologico delle

umane esperienze entro il quale ogni loro orizzonte logico si mantiene e ci mantiene.

Torneremo su questo punto perché l'idea di mente e la concezione del linguaggio di cui

stiamo ponendo le premesse e che alla fine dovrà tutta intera emergere come Minerva

dal cranio di Giove, non sarà compiutamente intellegibile se non ammettendo che ogni

nostra esperienza sia un modo di procedere nell'orizzonte ontologico a cui stiamo

alludendo. Ma prima completiamo la nostra analisi di quelle forme d’intelligenza

certamente aprioriche, ma per loro natura “impure” (apriorico non significa

necessariamente puro) che di ogni nostra esperienza sono in ogni momento la sola

intelaiatura ammissibile e che schemi stiamo imparando a chiamare, in attesa di scoprire

che il più importante schema merita di essere definito linguaggio.

21/11/11 – Da una corretta riconsiderazione degli schemi trascendentali, emancipata

dalla residuale cornice metafisica entro cui Kant ce li presenta e in linea col primato

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ermeneutico che la propria natura pluridimensionale e codificatoria conferisce loro, si

comprende come la loro validità non possa che risultare funzionale a precise assunzioni di

ordine ontologico ed epistemologico (nel caso dello schema di numero, una considerazione del

tempo come un continuum omogeneo, infinito ed infinitamente frazionabile, nonché la

disponibilità di pensieri, pensieri di quantità e grandezze, con le quali rendere pensabile ciò

che stiamo immaginando). Forme d’intelligenza che alla stregua di codici in senso proprio

meritano di essere pensate, prefigurano il fatto che schema per eccellenza Kant ci inviti a

riconoscere quel linguaggio di cui continuamente staremmo avvalendoci.

Proviamo a ripensare i kantiani schemi trascendentali e rileggere l'elenco che Kant ci ha

fornito in una prospettiva libera da quei residui di naturalismo metafisico che ancora

ostacolavano un pieno riconoscimento della loro funzione primaria. Proviamo a far

valere non l'assunto pregiudiziale secondo cui di forme di intelligenza potrebbe

unicamente trattarsi che altre imputabili rispettivamente ad una metafisica natura del

nostro pensiero e ad una non meno metafisica, perché formale, natura della nostra

sensibilità starebbero presupponendone, ma la conclusione a cui lo stesso Kant è

pervenuto quando ci ha obbligato ad ammettere che sono l'unico modo per noi possibile

di rendere intellegibili i dati sensibili di un'esperienza quale che sia. Proviamo a liberare

questa scoperta, quest'unica verità veramente rivoluzionaria contenuta nella ricostruzione

kantiana dei meccanismi all'opera in ogni nostro atto di conoscenza, dalla cornice più

tradizionale entro la quale il suo stesso artefice si è sforzato di mantenerla. Ammettiamo

insomma che le forme di intelligenza esemplificate nell'elenco kantiano degli schemi

trascendentali dell'immaginazione siano a tutti gli effetti primarie e chiediamoci che cosa

è lecito supporre che stiano davvero sottintendendo una volta ammesso che né ad una

metafisica natura formale dei pensieri che consentono di formulare, né ad una non meno

metafisica natura formale delle sensazioni che consentono di disciplinare, debbano

ritenersi vincolate. Come già Barale diceva, rinunciando a pensare che schemi possano

pretendersi solo forme di intelligenza compatibili da un lato con una inderogabile natura

formale del nostro pensiero, e dall'altro con un altrettanto inderogabile natura formale

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della nostra sensibilità, ci sottraiamo all'obbligo di considerare esaustivo ed acquisiamo il

diritto di considerare unicamente indicativo, l'elenco a cui Kant attiene. Di tale diritto ci

avvaliamo per concentrare l'attenzione su quelle tra le forme di intelligenza in questione

in cui più esplicito è il rimando a quanto stanno sottintendendo, ad una condizione

d'esperienza che è inevitabile considerare altrettanto primaria degli schemi che

scopriamo impegnati a garantirla e che con un dato di natura ontologica, con una

maniera d'essere di quanto di sensibile per noi è, non è improprio identificare.

Quando su loro sottintesi di ordine trascendentale ed ontologico li si voglia interrogare,

su sottintesi che coinciderebbero con una condizione d'esperienza in assenza della quale

nessuna esperienza sarebbe per noi possibile e con una maniera d'essere al di fuori della

quale niente di sensibile potrebbe essere per noi, particolarmente illuminanti si rivelano

quello schema di ogni quantità che Kant riconosce nella nozione di numero ed i tre che

ritiene di dover ammettere affinché le apparenze di cui può essere per noi questione

risultino compatibili con la possibilità di un ordine che non accidentalmente ma

costitutivamente possa riguardarle. Sono questi ultimi i tre schemi della “permanenza di

un reale del tempo quale sostrato di ogni sua possibile determinazione empirica”, di un

“succedersi necessario di enti che reali nello stesso senso, nel senso di sostrati di ogni

loro possibile determinazione empirica, sono destinati ad apparirci”, e di una

“connessione non meno necessaria tra mutamenti che in realtà tra loro diversi stiano

simultaneamente determinandosi”. Sono i tre schemi che Kant fa corrispondere alle

categorie di sostanza, causa ed azione reciproca e che quando si scelga di non

presupporre categorie, cioè regole di formazione dei nostri concetti che di una

autarchica ed inderogabile natura del nostro pensiero debbano essere ritenuti schemi, si è

tenuti ad interpretare come una disciplina da nessun'altra derivabile, destinata a far sì che

la nostra maniera di coordinarci a quanto in un tempo ed in uno spazio accade, possa

risultare funzionale sia ad una valenza ontologica che il sensibile non può non assumere

per noi, sia alla nostra necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia concesso

riconoscere.

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Proviamo a verificare se ad una tale interpretazione della loro essenza e della loro

funzione effettivamente si prestino schemi come quelli appena ricordati. Proviamo a

rispondere a questa domanda chiedendoci ad esempio quali condizioni stiamo

implicitamente ammettendo e contestualmente istituendo quando assumiamo che un

numero possa essere in ogni circostanza regola idonea a rappresentare una quantità quale

che sia e che il suo modo di rappresentarla sia più precisamente quello di uno schema,

cioè di una regola grazie alla quale ci troveremmo ad aver pensato quanto stiamo

immaginando e viceversa. E' proprio di uno schema infatti promuovere rappresentazioni

nelle quali un pensiero ed un'immagine coincidono. Chiediamoci allora se e come

condizioni in grado di determinare una tale situazione, un tale contesto esperienziale si

stiano davvero ammettendo ed istituendo quando si assume che regola di tal natura e di

tanto capace un numero sia. Stiamo ammettendo anzitutto che l'orizzonte temporale

delle nostre esperienze si presti ad essere rappresentato come uno sfondo unico ed

omogeneo, come un'unica estensione le cui caratteristiche sarebbero quelle di un

continuum infinito ed infinitamente frazionabile. Il rimando ad uno sfondo siffatto deve

tenersi implicito ogni qualvolta interpretiamo le quantità in gioco in una esperienza quale

che sia, secondo lo schema che ciascuna di esse identifica con un determinato numero di

altre possibili. Lo schema che stiamo considerando si rivela indissociabile da questo suo

sottinteso che di ordine ontologico merita di essere considerato, perché riguarda

qualcosa in cui il tempo in e per sé stesso consisterebbe, una maniera d'essere che

diventa inevitabile attribuirgli; ma non meno indissociabile si rivela anche da una sua

implicazione di ordine epistemologico che consiste nella disponibilità di pensieri

(pensieri di grandezze) perfettamente in linea con immagini non più vincolate ad un

precario e problematico rapporto di corrispondenza, perché di essi già in sé stesse

inclusive. Il modo in cui lo schema di numero ci consente di assumere le quantità a cui lo

applichiamo è infatti quello di renderle pensabili quali le stiamo immaginando, come

frazioni diverse perché diversamente estese di un continuum omogeneo ed infinitamente

frazionabile.

Quando stavamo ipotizzando sembra a questo punto provato: lo schema su cui stiamo

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riflettendo risponde alle caratteristiche di una regola funzionale sia ad una valenza

ontologica che qualcosa di sensibile non può non assumere per noi, sia alla nostra

necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia concesso riconoscerlo. Ancora però

non sappiamo quale valore regole siffatte ci autorizzano ad attribuire ai loro sottintesi di

ordine ontologico, e alle loro implicazioni di ordine epistemologico. Solo risposte a

domande come queste, di cui sia lecito pensare dell’effettiva natura delle regole in

questione stiano rendendo conto, potranno favorirne un'intelligenza compiuta. Prima di

procedere a questa ulteriore esplorazione della loro natura, Barale vorrebbe introdurre

un paio di questioni collaterali, utili ad una più corretta formulazione degli interrogativi

suscitati da quel loro modo di funzionare che pluridimensionale si sta effettivamente

rilevando. Un secolo dopo Kant un filosofo a cui dobbiamo un'importante ripresa critica

della nozione kantiana di tempo e a cui va il merito di aver meglio di ogni altro chiarito a

quale tipologia di esperienze i suoi sottintesi ontologici debbano ritenersi funzionali;

questo filosofo ha osservato che ogni quantificazione in termini numerici di ciò che in

esso si dà sottintende una rappresentazione del tempo come spazio. Il filosofo Henri

Bergson, vittima di un pregiudizio storico, inseriva questa sua scoperta in una cornice per

noi non più accettabile quando pretendeva che quella spazializzazione dell'orizzonte

temporale delle nostre esperienze, che nessuna quantificazione in termini numerici di ciò

che in esso accade può evitare di promuovere, debba essere pensata quale manipolazione

, tradimento di una sua più originaria natura. Per Kant al contrario vivere il tempo come

uno spazio che staremmo abitando sarebbe il solo modo di rapportarci ad esso che

conforme alla sua natura avremmo il diritto di considerare. Per noi, che al pregiudizio di

una irrevocabile natura del tempo e dello spazio, così come a quello di un'altrettanta

natura formale del nostro pensiero abbiamo scelto di rinunciare, quantificare in termini

numerici quanto in un tempo accade non può significare né tradirne né assecondarne

un'inderogabile essenza, ma unicamente rapportarsi ad esso, coordinarci con esso in

modo conforme a schemi che di una determinata tipologia di rapporti e non di altre, in

linea di principio non meno ammissibili, possono esserci garanti. La rinuncia ad ancorare

le forme d’intelligenza in questione ad un'inderogabile natura formale degli orizzonti

entro cui sono tenute a prodursi e chiamate ad operare, può far nascere il sospetto che

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siano condannate a risultare arbitrarie, impermeabili a qualsivoglia criterio che per tutte

debba valere e della maggiore delle quali sia pertanto impossibile misurarne legittimità ed

efficacia.

Chiedersi come a un tale sospetto di arbitrarietà possano sottrarsi forme di intelligenza

che primarie abbiamo scelto di considerare e disancorate da qualsivoglia essenza

invincolabile negli orizzonti in cui sono tenuti a prodursi e chiamate ad operare, significa

porre la prima e forse più importante tra le questioni che Barale ha definito collaterali ed

utili ad una più corretta formulazione degli interrogativi che il loro modo di funzionare

suscita e che sulla loro natura infine vertono. Alla questione che sta (sempre Barale) in

questi termini ponendo vorrebbe rispondere richiamando le ragioni che ci hanno spinto

ad assumere come primarie le forme di intelligenza riconoscibili nei così detti schemi

trascendentali dell'immaginazione. Primarie le abbiamo considerate avendo riguardo alla

loro funzione, al primato ermeneutico loro riconosciuto da una dottrina dello

schematismo che pure si è sforzata di non rompere il proprio legame con un quadro

pregiudiziale alle cui lacune stava cercando di porre rimedio. La principale tra quelle

lacune era data dall'impossibilità che un autarchico sistema di presunte forme del

pensiero e un non meno autarchico sistema o sottosistema di presunte forme della

sensibilità potessero risultare direttamente coniugabili e dalla conseguente impossibilità

di riconoscere nel sistema che le prime sarebbero venute a costituire un codice in grado

di produrre direttamente senza mediazioni una lettura delle informazioni di cui il

secondo dovesse esserci portatore. Una tale capacità di lettura può essere attribuita solo a

forme di intelligenza per loro natura pluridimensionali come quelle che Kant riconosce

nei così detti schemi trascendentali dell'immaginazione ed in ogni schema anche

empirico nei loro limiti di essi avvalendoci formulabile. Forme siffatte di intelligenza

sono le sole che codici in senso proprio meritano di essere definite, perché ad esse

soltanto può essere riconosciuta la capacità di produrre interpretazioni sistematiche nei

loro limiti coerenti di ogni forma di esistenza di cui ci sia dato di avere notizia. Una volta

ammesso che questa sia in ogni caso la loro funzione, la rinuncia a pensare che vi sia un

modo obbligato di assolverla e la consapevolezza che si presta ad essere assolta in

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maniera diversa da codici diversi, non possono impedirci di assumerla quale parametro in

base al quale la funzionalità di ciascuno e con essa la misura della sua legittimità possano

essere stabilite. Lo capiremo meglio quando nei prossimi due incontri scioglieremo gli

ultimi nodi, quando prenderemo atto in sintonia con Kant che la funzione di un codice

in senso proprio, nel senso in cui hanno la pretesa di esserlo quelle forme di intelligenze

che schemi abbiamo imparato a chiamare, può essere assolta solo da una disciplina che

ad un linguaggio possa essere riferita e che di natura linguistica essa stessa sia e

trarremmo ogni conseguenza dal fatto che schema per eccellenza Kant ci invita a

riconoscere il linguaggio di cui stiamo avvalendoci e sia pure soltanto in uno dei suoi usi

possibili.

23/11/11 – Il pluralismo epistemologico evidenziato dalla possibile validità di schemi

alternativi a quello di “numero” nel processo di quantificazione del tempo (Henri Bergson

avrebbe proposto la sua “durée”), non preclude la possibilità di identificare nel loro

esercizio, la comune capacità di promuovere e di far valere una qualche loro propria

“condizione di senso” – un orizzonte temporale quale luogo a vario titolo abitabile e

popolabile nel caso dello schema di “numero” (e coerentemente nel caso delle altre regole di

“coabitazione” possibile incarnate dai tre schemi relativi alle categorie di relazione),

nonché, nel caso della “durata”, di un orizzonte temporale quale processo di progressiva

integrazione ed armonizzazione. Far valere schemi del genere significa in ogni caso

predisporsi alla costruzione e all’esercizio di un linguaggio che W.V.O. Quine avrebbe

definito “cosale” e di cui tali schemi costituirebbero le premesse, di ordine prettamente

trascendentale, in assenza delle quali esperienze linguisticamente mediate come le nostre,

semplicemente non sarebbero per noi possibili. Si precisa infine come una simile

ontologizzazione dell’orizzonte spazio-temporale non dovrebbe mai coincidere con una sua

reificazione o entizzazione in un Essere Omnicomprensivo (come la metafisica da

Parmenide in poi non ha potuto fare a meno di perseguire), bensì con una logica

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dell’esperienza che sappia istituire una maniera d’essere (declinabile secondo apposite

condizioni di senso) inevitabilmente assunta da qualsivoglia ente che in quell’orizzonte si

dia.

La nostra analisi degli schemi trascendentali della ragione ci ha condotto a riconoscervi

delle regole funzionali sia ad una valenza ontologica che ogni sensibile deve poter

assumere per noi, sia alla nostra necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia

consentito identificarli. Questa diagnosi più generale ha trovato conferma in una

considerazione ravvicinata di quanto accade ogniqualvolta. ad esempio, interpretiamo le

quantità in gioco in un'esperienza quale che sia secondo uno schema che ciascuna di esse

identifica con un determinato numero di altre possibili. Il ricorso a tale schema è

risultato infatti indissociabile da quel suo sottinteso di ordine ontologico che consiste nel

conferire all'orizzonte temporale delle nostre esperienze una maniera d'essere che gli

sarebbe propria e che principio ordinatore di ogni forma di esistenza sensibile, di ogni

forma di esistenza che di una propria costituzione temporale debba tener conto, diventa

inevitabile considerare. Di quale maniera d'essere nel nostro caso si tratti, lo abbiamo

sufficientemente chiarito, osservando che l'uso dello schema in questione è indissociabile

da un'assunzione dell'orizzonte temporale delle nostre esperienze quale continuum unico

ed uniforme, infinito ed infinitamente frazionabile. Le è tanto funzionale, da suggerirci

di considerarlo ad essa funzionale così come funzionale si rivela a quella sua implicazione

di ordine epistemologico che è il prodursi di una condizione nella quale diventa legittimo

supporre che null'altro stiamo pensando se non quanto stiamo negli stessi termini

immaginando e null'altro immaginando se non quanto stiamo negli stessi tempi

pensando. Barale ci propone di vedere più chiaro in entrambi questi eventi in cui le

forme d’intelligenza si rivelano funzionali perché di entrambi sono condizione.

Cominciamo da quello a cui ci siamo riferiti in maniera inevitabilmente equivoca

parlando di una valenza ontologica che il sensibile in quanto tale non può non assumere

per noi. Chiediamoci: di quale valenza ontologica è legittimo pensare che il sensibile sia

tenuto ad assumerla in quanto sensibile e dunque indipendentemente da ogni successiva

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elaborazione delle informazioni che sta offrendoci? Stiamo forse riferendoci a quella che

gli è proferita da un orizzonte temporale di cui si stia ammettendo che le sue

caratteristiche ontologiche sono quelle di un continuum unico ed uniforme infinito ed

infinitamente frazionabile? Un'ipotesi come questa è destinata a cadere nel momento in

cui ammettiamo che schemi diversi sarebbero applicabili, schemi che a forme diverse di

ontologizzazione del tempo inevitabilmente porterebbero. Lo schema della durata, ad

esempio, che Bergson propone in alternativa a quello di numero, quale regola di

quantificazione di ogni realtà che in un tempo non possa evitare di prodursi, le cui

ricadute sul nostro modo di coordinarci a quanto in esso accade sono altrettanto pesanti

sotto il profilo ontologico non meno che epistemologico; non meno pesanti di quelle

provocate dallo schema alternativo del numero, ma certamente diverse, poiché le

quantità che ci obbliga a privilegiare si prestano ad essere esperite immaginate e pensate

non più quali multipli di uno stato convenzionalmente assunto come iniziale, ma solo

come gradi diversi di un processo di progressiva integrazione ed armonizzazione

(esempio delle note di una musica). Una volta ammesso questo, ammessa la pluralità

degli schemi disponibili e pertanto delle forme possibili di ontologizzazione

dell'orizzonte temporale delle nostre esperienze, improponibile può sembrare l'ipotesi di

una valenza ontologica che il sensibile in quanto tale, non unicamente possa ma debba

poter assumere. Il pluralismo epistemologico che la cultura del nostro tempo ci invita a

sposare sembra incompatibile, e di fatto lo è, con le presunzioni monistiche di ontologie

che ai significati più tradizionali della parola “essere” volessero restare fedeli.

Ma non dobbiamo demordere ed a proposito delle ontologizzazioni del tempo promosse

da schemi come quelli tra loro alternativi che la nostra conoscenza di Kant e Bergson ci

ha permesso di evocare, torniamo a chiederci con riferimento a Kant in quale modo

diventa pensabile che un qualcosa sia in un orizzonte temporale la cui maniera d'essere

fosse quella di un continuum infinito, uniforme ed infinitamente frazionabile. Poniamoci

questo interrogativo a proposito di un qualcosa di tanto generale da poter rappresentare

la condizione di un sensibile in quanto tale e diamo la sola risposta possibile: l'unica

maniera d'essere compatibile con la condizione di un ente che in un orizzonte temporale

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come quello che stiamo ipotizzando fosse obbligato a trovar posto, in un orizzonte

temporale che al modo di un luogo, di uno spazio unico ed uniforme siamo arrivati a

pensare ed a immaginare, l'unica maniera d'essere compatibile è quella di abitarlo ed a

vario titolo popolarlo. Schemi come quelli che stiamo facendo valere sono forme di

coordinamento all'orizzonte temporale delle nostre esperienze che null'altro, se non enti

siffatti, enti dimensionati in modo da dover supporre che stiamo abitandolo ed in vario

modo popolandolo, ci predispongono a riconoscere. In comune con gli schemi

alternativi suggeriti da Bergson, con schemi che ci obbligano ad assumere quanto in un

tempo si dà, non come qualcosa che in esso abita, ma come qualcosa che in una

determinata direzione, nel senso di una progressiva sua integrazione sta percorrendolo,

in comune hanno la capacità di produrre e far valere una condizione di senso.

Ce lo conferma, nel caso di Kant, l'uso di schemi che solidali a quello di numero, nella

realizzazione di una tale impresa si rivelano. Prendiamo lo schema della permanenza di

un reale nel tempo quale sostrato di ogni sua possibile determinazione, il tipo di realtà

che ci obbliga a tematizzare è quella della res nell'accezione più tradizionale del termine.

In quella accezione che con un sostrato per l'appunto la identifica, unitario e permanente

di ogni sua possibile determinazione, di ordine sia qualitativo che quantitativo, ciascuna

delle quali ci obbliga contestualmente a pensare quale sua proprietà. Uno schema che ci

obbliga ad attribuire ad ogni realtà riconoscibile nell'orizzonte temporale delle nostre

esperienze lo status di una res, è regola di formazione delle nostre conoscenze, delle

nostre immagini e dei nostri pensieri, del tutto coerente con l'assunto che un orizzonte

come quello che stiamo ipotizzando possa essere solo abitato e popolato. E' un tale

assunto a tener sempre le fila del gioco, un assunto implicito già nell'uso di uno schema

di quantificazione che ogni quantum fa corrispondere ad un determinato numero di altri

con esso omogenei e che risulta ulteriormente esplicitato, non più che esplicitato con la

constatazione che enti ridotti a grandezze tra loro omogenee e destinati in quanto tali ad

abitarlo, in altro modo non potrebbero abitarlo se non al modo di cose occupandolo. A

considerazioni analoghe si prestano lo schema di una “successione necessaria di enti che

reali nello stesso senso, nel senso di sostrati di ogni loro possibile determinazione

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empirica siano destinati ad apparirci”, e di una “connessione non meno necessaria tra

mutamenti che in realtà con quelle caratteristiche, ma tra loro diverse, stiano

simultaneamente determinandosi”. Fermo restando l'assunto in ognuno di questi schemi

esplicitamente richiamato, circa la natura delle realtà considerate, o meglio circa lo status

ontologico degli enti tematizzati, abbiamo a che fare con regole impegnate a stabilire

quali forme di coabitazione possono essere ammesse in uno spazio che da cose soltanto

dovremmo ritenere abitato e più precisamente occupato.

E' a questo punto chiaro che far valere schemi come questi significa porre le premesse e

più esattamente le basi disciplinari di un linguaggio che di cose è destinato a parlarci e

che cosale è stato pertanto autorevolmente definito – non da un metafisico o da uno

spiritualista poco disposto a riconoscervi una modalità per noi irrinunciabile di

coordinarci a quanto attorno a noi accade, ma da un logico ed epistemologo tra i

maggiori del nostro tempo, sostenitore di una forma di naturalismo che dal

riconoscimento dell'importanza di un tipo di linguaggio come quello che cosale stava

definendo, non poteva né intendeva prescindere. Barale si riferisce a Willard Van Orman

Quine: a lui e ad una concezione del linguaggio che è il risultato di un lungo percorso

attraverso alcuni tra i momenti più importanti della cultura filosofico-scientifica del

novecento (Whitehead ed Łukasiewic, Tarski e Carnap sono stati tra i suoi diretti

interlocutori e maestri); ad una concezione del linguaggio che molto ci ha aiutato a

riconoscere gli inevitabili “impegni ontologici” (Quine) di linguaggi diversi ed in primis

di quei linguaggi da lui stesso definiti cosali, a cui più frequentemente ricorriamo, e che le

nostre lingue così dette naturali emblematicamente rappresentano.

Far valere schemi come quelli che Kant ha elencato, significa predisporsi, ponendo le

premesse, alla costruzione e all'uso dell'uno o dell'altro di quei linguaggi di cose (un

linguaggio di cose ha bisogno di soggetti e predicati) che “naturali” siamo tentati di

definire, ma che da quelle loro premesse non potrebbero prescindere (i linguaggi fisico-

matematici, di tipo relazionale, non prevedono strutture soggetto-predicato), da

premesse che di ordine trascendentale nell'accezione più kantiana del termine meritano

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di essere definite, perché mirate ad istituire condizioni in assenza delle quali, esperienze

come quelle che effettivamente ed ordinariamente compiamo, non sarebbero per noi

possibili; premesse che quando alla loro struttura multidimensionale, multifunzionale si

abbia riguardo, non sembrano altrimenti interpretabili se non come un codice destinato a

disciplinarle, cioè a consentirne un uso coerente con gli impegni ontologici che stanno

assumendo e con le opportunità di ordine epistemologico che stanno promuovendo. Dei

primi, ancora per qualche istante attenendoci, siamo ormai in grado di capire di quale

natura essi siano.

Dalla dottrina kantiana dello schematismo e, più direttamente dalla rappresentazione

kantiana del ruolo decisivo che in ogni processo di formazione delle nostre conoscenze

dovremmo riconoscere a quelle forme primarie di intelligenza che schemi trascendentali

dell'immaginazione ci ha insegnato a chiamare, abbiamo imparato che nessun sistema di

riferimento a quanto attorno a noi accade, linguaggio nell'accezione più lata del termine

potrebbe costituire quella forma di coordinamento metodico di cui abbiamo bisogno e

che di fatto i nostri linguaggi sono, se decisivo non si rivelasse nella sua formazione così

come in ogni suo uso disciplinato e coerente, l'assunto di una qualche ontologica identità

dell'orizzonte temporale (ma anche spaziale) entro il quale quel che può accadere accade.

Stiamo tuttavia imparando anche che lo status ontologico che l'orizzonte temporale delle

nostre esperienze viene inevitabilmente ad assumere rispetto a qualunque sistema di

riferimento che non possa evitare di riferirglisi, non può e non deve essere confuso con

quello di un ente comprensivo di ogni altro ed alla cui formazione pertanto ogni altro

concorrerebbe. Se questo potesse essere il suo status saremmo autorizzati a chiedergli di

aprirci il suo scrigno per lasciarci vedere o piuttosto prevedere tutto ciò che in una

totalità di enti possibili potrebbe pretendersi contenuto. Una tentazione come questa

neppure ci sfiora, ma questo significa che ontologizzare un orizzonte, impresa che

inevitabilmente compiamo, non significa conferirgli lo status di un ente e sia pure di

quell'ente comprensivo di ogni altro che da 2500 anni in qua, da Parmenide a certe

ontologie di impianto analitico dei nostri giorni, ogni uso metafisico della parola “essere”

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ha preteso di evocare ed ha cercato in ogni modo di indurci a pensare.

L'ontologizzazione dell’orizzonte – si tratti del tempo, dello spazio o di altro ancora – è

un operazione che si compie secondo una logica (una logica dell'esperienza che mira ad

istituire quelle tra le sue condizioni di possibilità che un'esperienza esige in quanto tale e

per potere essere tale) che non ha più nulla a che fare con quella delle ontologie più

tradizionali, perché non ha la pretesa di conferirgli un essere, ma solo quella di

riconoscergli una maniera d'essere che condizioni di senso inevitabilmente diventa per

ogni ente che in quell'orizzonte sia.

28/11/11 – Il solo modo di pensare gli orizzonti di senso riconducibili a forme

d’intelligenza primarie (i suddetti schemi trascendentali) per una realtà organicamente

connessa con ogni altra che nel suo ambiente viva, è quello di rappresentarli come dei sistemi

di riferimento e di riconoscere loro, a prescindere dalla loro costituzione materiale, lo status

funzionale di linguaggi, sempre in grado di mediare ogni nostra esperienza già al livello

primario di accesso al dato sensibile. Tale assimilabilità a un linguaggio di ogni sistema di

riferimento riconducibile all’uso metodico di schemi, è ciò che Kant ha posto in essere

considerando la dottrina dello schematismo come parte integrante di una teoria dei segni,

secondo la quale ogni istanza di significato divenga per noi riconoscibile per mezzo di

un’“ipotiposi schematica” e risulti istituibile per mezzo di un’“ipotiposi simbolica” (la tesi

di Barale è comunque quella per cui “riconoscere” ed “istituire” spesso in Kant facciano

tutt’uno).

Kant era consapevole che gli esiti della sua impresa critica, i suoi resoconti del modo in

cui per noi si rendono disponibili forme d’intelligenza come quelle di cui disponiamo, si

sarebbero prestati a letture diverse, perché inevitabile sarebbe stato assumere per lettori

intelligenti quale chiave di una lettura complessiva, l’una piuttosto che l’altra di

acquisizioni non tutte tra loro compatibili che gli vengono prospettate.

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Egli stesso indicava le possibili direzioni di lettura sostenendo che l’una avrebbe

mantenuto le sue conclusioni in un’ottica definita “scolastica”, mentre l’altra avrebbe

consentito di ripensarle in una prospettiva “cosmopolitica”, in una prospettiva che ci

aiuta a scoprirci cittadini del mondo. La rilettura del capitolo sullo schematismo di Barale

può pretendersi una passo in questa seconda direzione, senza il quale la prospettiva

cosmopolitica che Kant ci suggerisce di privilegiare non potrebbe delinearsi. Vediamo a

quali conclusioni ci ha condotto la scelta di privilegiare come primarie, forme

d’intelligenza come quelle che Kant ha tematizzato come schemi trascendentali

dell’immaginazione e dell’intelletto (di un’immaginazione che intende e di un intelletto

che immagina).

La prima riguarda la prospettiva che ci ha consentito di acquisirli, avendoci autorizzato a

pensare che le forma d’intelligenza di cui può essere a nostro riguardo questione, siano

per loro natura tali da rinviare non alle autarchiche istanze di un pensiero per sé

sussistente e di per sé consistente, né a quelle non meno autarchiche e permanenti di una

mente conformata in modo da potersi pretendere in ogni momento sua espressione

sovrana, ma alla condizione di un organismo vivente costantemente impegnato a

riconoscere e realizzare tra le forme di esistenza per lui possibili, quelle che più

convenienti possano apparirgli con le opportunità che gli si stanno offrendo. Riferire

ogni forma d’intelligenza per noi possibile alle condizioni di un organismo vivente

significa ammettere che alle sue origini vi sia una realtà organicamente connessa a ogni

altra che nel suo spazio viva. In ciò è consistito il mutamento di prospettiva a cui ci ha

obbligato la revisione dell’opera kantiana. Una reinterpretazione non allineata alle più

ricorrenti ma non per questo arbitraria, e anzi pienamente legittima, quando si scelga di

riconoscere il valore primario di forme di intelligenza a proposito delle quali lo stesso

Kant ha dovuto ammettere che una primato di ordine ermeneutico hanno il diritto di

rivendicare.

Assumere che ogni forma d’intelligenza per noi possibile rimandi alla realtà di un

organismo vivente, e concepire quest’ultimo come una realtà organicamente connessa

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con ogni altra, che nel suo spazio si manifesta, significa ammettere una condizione che in

tutti i casi deve potersi dare, ma non ci obbliga a pensare che identico in tutti i casi e per

ogni organismo considerato debba risultare il modo in cui le è consentito di prodursi.

Sarebbe quanto meno azzardato supporre che questo, cioè il modo in cui a un

organismo vivente è consentito di rivelarsi ciò che in effetti è, possa risultare

indipendente dalle caratteristiche dell’organismo in questione. Ce lo ha confermato il

modo del tutto peculiare in cui una connessione come quella su cui ogni organismo

vivente deve poter contare, arriva a istituirsi negli enti che stiamo considerando e che più

direttamente ci interessano, perché di qualcosa che anche noi siamo e di una maniera

unicamente nostra di esserlo, lo riteniamo documentato. È questa la seconda conclusione

importante a cui ci ha condotti una reinterpretazione del resoconto kantiano basata sul

riconoscimento del valore primario di quelle forme d’intelligenza che la nostra natura

d’organismo, con tutto ciò che con il loro spazio vitale si mantiene, più direttamente

rinviano. In esse, negli schemi che le rappresentano e che quali loro condizioni di

possibilità Kant ci ha proposto di assumere abbiamo infatti riconosciuto un nostro

modo davvero inconfondibile di riferirci ai dati inevitabilmente sensibili di una

qualsivoglia esperienza per noi possibile. Un modo di riferirvisi che indiretto o mediato

già al suo livello più elementare, già al livello di un accesso primario ai dati in questione

deve essere riconosciuto, se non altro perché non può evitare di temporalizzarli e di

spazializzarli, cioè d’inscriverli in un orizzonte di cui siano partecipi e che non gli è

consentito tematizzare se non facendo valere sottointesi ontologici ed epistemologici che

consistono nel conferirgli una qualche maniera d’essere e nell’istituire una condizione

nella quale pensieri e immagini possano pretendersi versioni diverse di forme unitarie

d’intelligenza a cui entrambi rinvierebbero.

Abbiamo imparato come da un tale modo peculiare di riferirsi ai dati di ogni esperienza

per noi possibile non possa prescindere, il nostro modo di mantenerci ad essi

organicamente connessi e di sistemi di riferimento che indipendentemente dalla loro

costituzione materiale (un fascio di nervi?) una funzione come questa sono tenuti ad

adempiere, è stato giocoforza pensare che a una qualche logica che li permette stiano

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rispondendo, a una logica anche in essi riconoscibile che non potrebbe pretendersi

unicamente la loro (= logica dell’esperienza). Un sistema di riferimento coincide, lo si

voglia o no, con una forma preliminare d’intelligenza, preliminare a ogni utilizzo

empirico; ammettere che da forma d’intelligenza in questo senso preliminari, nel senso

in cui può esserlo un sistema di riferimento, il nostro modo di fare esperienza non possa

prescindere, è conforme non solo allo spirito ma anche alla lettera di una dottrina

dell’apriori come quella kantiana.

A una terza conclusione importante siamo pervenuti quando ci siamo resi conto che in

un solo modo si prestano ad essere pensati coerentemente, sistemi di riferimento come

quelli che Kant fa coincidere con l’uso di una determinata tipologia di schemi, di schemi

tipologicamente definibili come trascendentali, per il valido e semplice motivo che altre

ragioni d’essere non potrebbero vantare e altra funzione rivendicare se non quella di

rendere disponibili condizioni in assenza delle quali, non sarebbero possibili esperienze

con le caratteristiche di quelle che effettivamente contiamo. In un solo modo si prestano

ad essere pensati sistemi di riferimento che forme d’intelligenza primarie, non derivabili,

fossimo tenuti a riconoscere e di cui non ci fosse possibile dar conto se non ammettendo

che non tutti altrimenti che non da un uso metodico di schemi come quelli da Kant

definiti trascendentali, di schemi dunque non utilizzabili se non facendo valere

sottointesi di natura ontologica ed epistemologica, possano nascere. Il solo modo

conforme di pensarli è quello di riconoscere loro indipendentemente dalla loro

configurazione materiale lo status funzionale di linguaggi. A questa conclusione siamo

pervenuti attraverso tre passaggi:

1) il primo è consistito nell’ammettere che un orizzonte a cui sia impossibile riferirsi

senza dover supporre che di una maniera d’essere propria e di quanto in essa può

accadere si trovi ad essere garante, è destinato a fungere da vero e proprio

orizzonte di senso.

2) Il secondo passaggio è consistito nell’ammettere che quanto in un orizzonte di

senso non può evitare di darsi, altro modo di manifestarsi non ha se non quello di

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coincidere con un proprio significato possibile.

3) Il terzo passaggio è consistito nel trarre la logica conseguenza delle due premesse

che la dottrina kantiana dello schematismo ci ha obbligato ad ammettere: tutto ciò

che con una possibilità di significato è destinato a coincidere è rappresentabile

solo da un sistema di riferimento in grado di significarlo, cioè un linguaggio.

Preme però provare a proposito di Kant, dimostrare che non stiamo ragionando alle sue

spalle, teorizzando qualcosa che egli stesso non sia arrivato a teorizzare. La tesi che più

preme potergli attribuire è quella della assimilabilità a un linguaggio del sistema di

riferimento e più in generale di ogni sistema di riferimento riconducibile all’uso metodico

di schemi, con ciò intendendo forme d’intelligenza che altra legittimazione non possano

vantare, se non quella che ricevono dal riconoscimento della funzione di ordine

trascendentale che stanno assolvendo e a proposito dei quali sia chiaro quali impegni di

ordine ontologico la loro adozione comporti e quali opportunità di ordine

epistemologico contestualmente apra. Della consapevolezza kantiana che un sistema di

riferimento con tali caratteristiche, ai cosiddetti schemi trascendentali dell’intelletto e

dell’immaginazione, non può evitare di sperare al modo di un linguaggio, sembra (a

Barale) indizio, se non prova esauriente, indizio eloquente la disponibilità a considerare la

dottrina dello schematismo come parte di una teoria dei segni. Di questa disponibilità ci

offrono precise testimonianze un appunto (probabilmente risalente ai primi anni ’80, la

Reflexionem n° 1486, p. 710 del volume XV…) e alcune pagine dell’antropologia

pragmatica (§ 38-39) che di quell’appunto possono essere considerati uno sviluppo

teoricamente importante, perché nel primo di questi testi, la riflessione verte sul nesso

tra la facoltà di schematizzare e una facoltà di designare, definita in quel contesto

“facultas characteristica”, mentre nel secondo, oggetto di riflessione è il nesso tra la

facoltà di schematizzare e una facoltà di designare definita “facultas signatrix”.

Si può essere tentati di pensare che simili denominazioni siano maniere diverse di riferirsi

a un medesimo ordine di operazioni. Ma così non è, come ci avverte il § 59 della Critica

del Giudizio, in cui nel terzo capoverso ove l’uso dei segni come semplici caratterismi è

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contrapposto a quel loro uso che consiste nel rendere possibili l’una o l’altra di due

operazioni che “ipotiposi”, “schematica” l’una, l’altra “simbolica”, vengano entrambe

definite. L’alternativa è tra un uso di segni che consiste nell’associarli a dei concetti già

formati, in tal modo utilizzandoli quali caratterismi, quasi che con caratteri, cioè con

tratti oggettivi degli oggetti a cui i concetti in questione si riferiscono, potrebbero

coincidere; e un uso che fa valere la loro capacità di associare un concetto in via di

formazione all’immagine dell’uno o dell’altro di oggetti di cui solo così diventa e può

pretendersi concetto. Va da sé che segni di cui fossimo obbligati a pensare che alla prima

soltanto di queste due funzioni stessero adempiendo, dovrebbero essere considerati

semplici strumenti di comunicazione di pensieri già formati. Va da sé anche che ritenerli

non unicamente idonei a favorire una comunicazione di forme d’intelligenza già

acquisite, che null’altro se non una loro riproduzione potrebbe pretendersi (è quanto

Kant sottolinea in un passo del secondo capoverso § 38 dell’antropologia pragmatica,

dove leggiamo che: «il carattere accompagna il concetto solo come un custode, per

riprodurlo all’occasione»), ma decisivi nel processo stesso della loro formazione,

comporta che si stia attribuendo loro una funzione che non i singoli segni, ma solo un

più complesso sistema di riferimento, di cui sia lecito ritenervi partecipi e che al modo di

uno schema (kantianamente inteso) stia funzionando, può essere in grado di adempiere.

Funzionale al modo di uno schema, vuol dire riferirsi a ciò che siamo chiamati a

rappresentare in quel modo che ci obbliga ad assumerlo in un orizzonte di senso e

pertanto come una possibilità di significato che stiamo come tale riconoscendo, se non

addirittura come tale istituendo (la tesi di Barale è che riconoscere in Kant spesso

coincide con l’istituire). Ipotiposi schematica Kant definisce l’operazione che si

limiterebbe a riconoscerla e ipotiposi simbolica, l’operazione che ci consente di istituirla.

Introduce con ciò un elemento di possibile confusione perché parlare di una ipotiposi,

cioè di un significare, che non sarebbe schematico ma simbolico, può suggerire che di

una ipotiposi, cioè di un significare possa trattarsi che in uno dei due casi contemplati,

nel caso di quella ipotiposi simbolica viene definita, non avrebbe bisogno di passare

attraverso il filtro di un linguaggio, di un sistema di riferimento che al modo di uno

schema linguistico sia in grado di funzionare.

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È un’ipotesi da respingere, la distinzione che ci propone riguarda due modi diversi di

procedere, di avvalersene all’interno di un sistema di riferimento che alle caratteristiche

funzionali e strutturali di uno schema, cioè di un linguaggio, mai dovrebbe, né potrebbe

abdicare. Di questi due modi diversi di avvalersi di uno schema, schematico Kant

definisce quello che più direttamente dipendente dalla sua natura ritiene e che logico è

contestualmente tentato di definire; simbolico invece definisce quello che analogico gli

appare.

30/11/2011 – La scoperta kantiana per cui non ci sarebbe concesso di conoscere se non

rappresentando quanto stiamo significando secondo possibilità di senso che staremmo

riconoscendo o istituendo (ipotiposi), deve essere anch’essa svincolata dal pregiudizio

logicistico/mentalistico per cui ogni nostro processo cognitivo debba poter contare sulla

disponibilità preventiva di universali (concetti puri) come tali dati. A tale pregiudizio Kant

non sembra rinunciare nemmeno quando si dimostra apertamente in conflitto con le

conclusioni della sua terza critica, ossia con la scoperta di un principio eminentemente

“riflessivo” – cioè riflettente un progetto di vita e uno stile cognitivo ad esso conforme, in

grado di promuovere una ricerca esperienziale il cui tema è quanto di universale quel

particolare si presta a significare in un orizzonte di senso che gli viene prospettato come suo

– a capo di ogni nostra condotta conoscitiva, di ogni nostro rappresentare significando, che

in un giudizio non possa fare a meno di realizzarsi. Autocoscienza e Ragione sono due

orizzonti di senso originati da un uso analogico/metaforico del medesimo linguaggio

“cosale”, in grado di promuovere oltre ad una spazializzazione del tempo, una

temporalizzazione dello spazio, strutture (sottintesi ontologici) rispettivamente

“orizzontale” e “verticale” attraverso i quali assume senso per noi quella dimensione

dell’essere nota come “divenire”. Si esplicita infine come ad una struttura verticale del

divenire, ad una riorganizzazione riflessiva delle informazioni ricavate da ciò che diviene e

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dalle forme di concettualità che ci consentono di codificarle, si pervenga assumendo che tutte

possano contare su di un centro unitario di ricezione ed elaborazione. Un tale centro nel §

16 di K.r.V. ci è presentato come Io-penso, nella duplice veste (“wircklich”, non “real”) di

una rappresentazione trasversale alle molte che le mie esperienze mi consentono e

propongono (Unità analitica dell’appercezione), e di una rappresentazione anche solo

interiore del supposto artefice della loro connessione ed unificazione (Unità sintetica

dell’appercezione).

Abbiamo scoperto di non poter rappresentare alcunché se non come una possibilità di

significato, meglio sarebbe dire di senso, che attende di essere riconosciuta, o esige di

essere istituita. Il nostro rappresentare si è rivelato pertanto un'operazione le cui

caratteristiche sono, in entrambi i casi, quelle di un significare. Al nostro modo di

arrivare a significare qualche cosa Kant si è riferito, con la sua dottrina dello

schematismo, e su di esso ritorna in quel § 59 della Critica del Giudizio, in cui l'atto del

significare è definito ipotiposi e in cui ci chiede di assumere questa parola, ipotiposi, nel

significato di “esibizione”, anche se nella prospettiva kantiana significherà qualcosa di

più. L'esibizione a cui sta pensando, e che ipotiposi sta definendo, consisterebbe nel

procurare a un concetto, che tale unicamente fosse, e come tale, come concetto allo stato

puro potesse pretendersi dato, un contenuto intuitivo ad esso adeguato o con esso

quantomeno congruente. Solo così, pensa Kant, potremmo pretendere di averlo reso

significativo. I concetti che l'esibizione di contenuti intuitivi ad essi adeguati, o con essi

congruenti, dovrebbe rendere significativi sono quelli che Kant non perde l'occasione di

definire puri, concetti puri dell'intelletto, e concetti puri della ragione. La disponibilità di

concetti siffatti, cioè di universali come tali dati, è il presupposto sia di quelle operazioni

che dovrebbero procurare loro un contenuto intuitivo adeguato (operazioni ritenute

possibili solo nel caso dei cosiddetti concetti puri dell'intelletto, e che ipotiposi di tipo

schematico vengono definite), sia di quelle operazioni che dovrebbero procurare loro un

contenuto intuitivo non più che congruente, operazioni che ipotiposi di tipo simbolico

vengono definite e di cui si pensa che a beneficiarne potrebbero essere i cosiddetti

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concetti puri, o idee della ragione. Ma leggiamo per intero il secondo capoverso del

paragrafo in questione (§ 59, da “Ogni ipotiposi” a “non secondo il contenuto”).

Affermare come qui Kant fa che i due modi di significare considerati sono analoghi, ma

non identici, perché identica è solo la maniera di procedere, che in entrambi i casi è

quella di una ipotiposi, ma diversi nel senso di una diversa disponibilità a risultare

significativi, si rivelano i dati sensibili che in quel modo procedendo si vorrebbero

assumere e codificare. Affermare questo codificare (correlare a un concetto quali suoi

contenuti intuitivi), significa fare un'affermazione i cui sottintesi meritano di essere

rapidamente esplicitati, distinguendo tra quelli che rimandano a caratteristiche strutturali

delle operazioni che teorizzano, a caratteristiche che non potremmo disconoscer loro

senza renderle irriconoscibili e inintelligibili, da quelli che ad altro non mirano, se non a

tenere in gioco pregiudizi da cui abbiamo interesse a liberarci.

Quintessenza di tutti i pregiudizi che ancora gravano sulla dottrina kantiana del

significato e del significare, e per conseguenza di quel modo tipicamente umano di

conoscere le cui caratteristiche si sono rivelate quelle di un rappresentare possibile solo

significando, è l'idea che ogni processo cognitivo possa contare sulla disponibilità

preventiva non di sistemi di riferimento che per la loro stessa costituzione

pluridimensionale e polifunzionale alla condizione di un organismo vivente palesemente

rimanda, ma di universali che allo stato puro dovremmo ritenere dati. A un pregiudizio

come questo e alla conseguente convinzione che l'atto del significare sia un'operazione

con la quale ci limiteremmo ad esibire circoscrivendoli i possibili correlati sensibili o

contenuti intuitivi di concetti costruiti a partire da forme di concettualità già sempre date

allo stato puro, Kant si sforza di non rinunciare neppure quando è arrivato a chiarire

come proprio nell'atto del significare, e in esso soltanto congiuntamente si diano non per

diritto ereditario, ma in ragione di ciò che esso stesso è, tutte le condizioni che è

necessario ammettere affinché una forma di intelligenza quale che sia si renda per noi

disponibile.

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Neanche allora Kant rinuncia a supporre che significando qualche cosa null'altro

staremmo facendo se non riempiendo di contenuti intuitivi ad essi adeguati, o con essi

quantomeno congruenti concetti come tali, cioè al modo di vuoti universali, già sempre

disponibili. A questo pregiudizio logicistico e mentalistico non rinuncia neppure quando

la ricostruzione che esso gli detta si rivela incompatibile non solo con il riconoscimento

della natura primaria delle forme di intelligenza che solo da un significare ciò che

significativo abbiamo fatto diventare mostrano di poter nascere, ma anche con le

conclusioni della sua terza critica riguardo al modo in cui si rendono per noi disponibili

le condizioni di un giudicare quale che sia, conclusioni che la sua teoria della conoscenza

sarebbe tenuta a far valere, anche e soprattutto nel momento in cui è obbligata ad

ammettere che in dato modo non ci è concesso conoscere se non rappresentando

quanto stiamo significando, possibilità di senso che stiamo riconoscendo e anche più

radicalmente istituendo. Resistere all'obbligo di affidare a tale scoperta le conclusioni a

cui è nel frattempo pervenuto circa le condizioni che è necessario ammettere affinché un

giudicare quale che sia diventi per noi possibile, significa per Kant entrare in conflitto

con se stesso, scoprire all'improvviso di avere sempre sostenuto che nelle forme di un

giudizio ogni condotta rilevante sotto il profilo cognitivo e dunque ogni rappresentare

significando deve potersi realizzare. Le condizioni a cui sto appellandomi coincidono

con la scoperta che la nostra Urteilskraft ha un proprio unitario principio, e che questo

non potrebbe essere se non un principio eminentemente riflessivo, come quello di

finalità. “Riflessivo”, spesso si dimentica di precisarlo, significa principio che non

potrebbe darsi se non riflettendo un progetto di vita ed uno stile cognitivo ad essa

conforme.

È una scoperta che ho menzionato solo per poter ricordare quali convinzioni ci obbliga

ad escludere. Ammettere che ogni nostro giudicare è per sua natura riflettente e che lo

statuto di quei giudizi che “determinanti” Kant definì potrebbe essere nella migliore

delle ipotesi riconosciuta solo a quelli tra tutti i giudizi possibili, che quali puri principi di

intelligenza potessero valere, equivale ad ammettere che mai la nostra esperienza

giudicante potrebbe configurarsi come un procedere dall'universale al particolare, da un

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universale come tale dato a un particolare che quale caso in esso compreso verrebbe

determinato. Mai la nostra esperienza giudicante potrebbe procedere secondo un

procedimento siffatto, ma sempre si configura come un procedere inverso, come un

procedere dal particolare all'universale, in una ricerca il cui tema è quanto di universale

quel particolare si presta a significare in un orizzonte di senso che gli viene prospettato

come il suo. Alla luce dei risultati della sua terza critica, determinanti nel senso di una

determinazione del particolare a partire da un universale come tale dato Kant potrebbe

ritenere solo giudizi che principi di una intelligenza pura, priva di riferimenti sensibili,

potessero pretendersi. E infatti mai ha rinunciato a considerare determinanti, nel senso

appena ricordato, quei principi di intelligenza che “Grundsätze des reinen Verstandes”,

cioè principi costitutivi di forme metaempiriche di intelligenza, ha egli stesso definito.

Ma ciò solo nella migliore delle ipotesi, cioè solo quando si ammettano tutti i pregiudizi

logicistici e mentalistici che l'ipotesi di principi siffatti sottintendono.

Nella distinzione kantiana tra un significare che si configurerebbe come una ipotiposi di

tipo schematico e un significare che si configurerebbe come una ipotiposi di tipo

simbolico gioca un altro pregiudizio che rischia di oscurare la portata rivoluzionaria della

scoperta che sta maturando. Mai Kant ha rinunciato a considerare come unico linguaggio

verbale possibile quel linguaggio di cose che abbiamo visto nascere nello spazio

semantico dei cosiddetti schemi trascendentali dell'immaginazione. Unico possibile

perché l'unico ancorabile a quella struttura categoriabile che mai ha cessato di apparirgli

come una sorta di linguaggio naturale del pensiero. Questo pregiudizio gli ha impedito di

distinguere in linea di principio da un linguaggio di cose, linguaggi che alla

rappresentazione di enti in sé consistenti e per sé sussistenti non poteva ritenere

funzionali. A questa difficoltà ha ovviato ammettendo che da un uso analogico e

metaforico del medesimo linguaggio che alla rappresentazione di realtà fenomeniche

strutturate al modo di cose in ogni suo uso logico inevitabilmente conduce possano e

debbano risultare. Su due di essi, su due possibili esiti di un uso analogico di un

linguaggio di cose ha specialmente insistito, su un linguaggio che potremmo definire

dell'autocoscienza e su un linguaggio che potremmo definire della ragione.

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Autocoscienza e ragione infatti sono i nomi tradizionali di due orizzonti di senso che

l'uso metodico di linguaggi ad essi riferibili non può evitare di istituire. In comune hanno

il fatto di riferirsi a una medesima dimensione dell'essere che ci si scopre impegnati a

pensare immaginandola, e a immaginare pensandola, quando ad una spazializzazione del

tempo non ci si limiti, ma con una temporalizzazione dello spazio la si collochi.

Spazializzazioni del tempo e temporalizzazioni dello spazio sono infatti i sottintesi

ontologici attraverso i quali acquisisce un senso quella dimensione dell'essere che

abbiamo imparato a chiamare divenire, un senso e una duplice struttura, verticale e

orizzontale, che un senso non meno duplice non può evitare di conferirgli. Struttura

verticale del divenire sto definendo una riorganizzazione in chiave riflessiva delle

informazioni che ricaviamo da ciò che diviene e delle forme di concettualità che ci

consentono di codificarle. A una loro riorganizzazione in chiave riflessiva si perviene

assumendo che tutte possano contare su un centro unitario di recezione ed elaborazione.

Il §16 della seconda edizione della KrV, ove Kant si pone il problema di una coscienza

che con l'una o l'altra rappresentazione di qualcosa di empiricamente dato non si presta a

coincidere, perché a definirla è l'interrogativo che si sta ponendo circa una propria

identità non riducibile a nessuna di quelle che può solo occasionalmente assumere, di

quella forma di coscienza si parla che abbiamo imparato a chiamare autocoscienza. Kant

ce la presenta sotto il titolo di appercezione pura e le riconosce una funzione che

trascendentale ci autorizza a ribattezzarla. Il modo in cui, fin dal primo capoverso del

paragrafo ne pone il problema non lascia dubbi circa la sua convinzione che l'unica

identità attribuibile a una coscienza che non potrei identificare se non come mia, e

parlandone quindi in prima persona, sia quella che le conferiamo riconoscendone lo

status e il valore di una rappresentazione.

«Ma questa rappresentazione, l'Io penso è un atto della spontaneità» (B132)

Qui si sta dicendo che il famoso Io penso null'altro è che una rappresentazione, e, nello

specifico, una rappresentazione spontanea, cioè non imposta dalla necessità di

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rappresentare un qualsivoglia dato che tale si voglia riconoscere. Questa tesi è ribadita

alla fine della pagina seguente (B133), dove si aggiunge che il suo status e la sua funzione

potrebbero essere solo quelli di una rappresentazione trasversale alle molte che le mie

esperienze mi consentono e mi propongono. Consiste nella rappresentazione di un loro

connettersi e unificarsi non già di un qualcosa o un qualcuno che di tale connessione ed

unificazione debba ritenersi artefice. È tuttavia, insiste Kant, una rappresentazione che

alla condizione di un qualcuno di tanto capace non può evitare di rinviare, e sia pure

soltanto come una rappresentazione interiore che sta presupponendo. All'inizio della

pagina successiva si ritiene utile precisare che la prima delle due corrisponde a quella che

Kant definisce “unità analitica dell'appercezione”, mentre la seconda corrisponde al

presupposto di una sua “unità sintetica”. Al di là o al di qua delle difficoltà non sempre

terminologiche in cui si aggroviglia la presunzione kantiana di un orizzonte unitario delle

nostre rappresentazioni e di una struttura autoreferenziale delle nostre esperienze in

grado di garantirne la costante disponibilità, non lascia dubbi sul fatto che il solo modo

in cui Kant ritiene legittimo riferirsi a queste due condizioni del nostro essere esperienza,

all'una e all'altra di queste due condizioni, che non di meno ammette come reali nel

senso proprio di quella che i tedeschi chiamano non “Realität” ma “Wirklicheit”, nel

senso cioè di qualcosa, fosse anche soltanto una semplice rappresentazione, di

effettivamente operante e incidente, e interagente, è quello di considerarle nulla più che

rappresentazioni; ma una rappresentazione non in grado di riferirsi a qualcosa di reale, se

non diventandolo essa stessa, è interpretabile solo come un costrutto linguistico che sta

avvalendosi delle capacità performative di un determinato linguaggio.

5/12/11 – Ammettere, come Kant fa, che un Io che si pensa come pensante e in tal modo

pensante si assume come orizzonte unitario di ogni sua possibile rappresentazione,

ammettere che altra realtà non abbia se non quella di una rappresentazione in grado di

riferirsi a qualcosa di reale divenendolo essa stessa (divenendo “wirklich”, ossia qualcosa di

effettivamente operante, incidente e interagente), significa interpretarlo come un costrutto

linguistico che sta avvalendosi delle capacità performative di un linguaggio. Nell’esercizio di

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parole come “io” e “mio” è possibile rintracciare il principio di performatività per eccellenza

(in grado di rendere ogni altro atto performativo possibile) tale da concorrere all’istituzione

non solo dell’orizzonte comune di ogni rappresentazione per noi possibile, ma anche di un

orizzonte “comunitario” distinto da quello “comune” per l’impegno che comporta nei

riguardi di chiunque al modo di un Io non possa evitare di convenire. Grande merito di

Kant è l’aver messo in chiaro come un simile orizzonte comunitario venga ad istituirsi in

ossequio alle esigenze del nostro procedere ragionando, ossia a quella modalità di esperienza

che all’orizzonte di senso più ampio e di ogni altro omnicomprensivo inevitabilmente

rimanda. Ragionare significa far valere un principio di possibile coesistenza universale il cui

correlato noematico è l’idea di un tutto come tale dato e il cui correlato noetico è un progetto

che a una tale prospettiva ci vincola e che ad essa ogni altra subordina.

Rileggendo nel §16 della C.r.P. la presentazione kantiana di un orizzonte unitario delle

nostre rappresentazioni e di una struttura autoreferenziale delle nostre esperienze, che di

un orizzonte siffatto dovrebbe poter garantire la costante disponibilità, abbiamo

scoperto che il solo modo in cui Kant ritiene legittimo riferirsi all’una e all’altra di queste

due condizioni, è quello di considerarle nulla più che rappresentazioni. L’uso

dell’espressione “nulla più!” è utile per sottolineare che al di là di quelle realtà che esse

stesse sono, nulla di reale a cui stiamo rinviando è lecito ammettere.

Se dovessimo ammettere (in deroga a questa scelta di Kant) che alla realtà di un ente da

esse distinguibile stiano rinviando, ci consegneremmo ancora una volta a uno di quei

paralogismi che Kant ha riconosciuto nell’idea comunque fortunata di una sostanza

pensante e dei quali come da equivoci esiziali ci ha chiesto di rifuggire. Riconoscendo

invece che altre realtà non hanno se non quella che esse stesse per se stesse sono, siamo

comunque autorizzati a trattarle e interrogarle come qualcosa che reale nel suo modo è;

reale non nel modo o nel senso di una qualsivoglia “Realität”, cioè quel tipo di realtà che

potrebbe essere solo di una res, di un ente che potessimo supporre per sé consistente e

sussistente, ma reale nel modo e nel senso di quella “Wircklikeit”, di quella “effettualità”

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che non può essere disconosciuta a qualcosa che “wirklich”, cioè effettivamente

operante, incidente e interagente si sta rivelando.

Ammesso questo, ammesso che la condizione di un Io, che si pensa come pensante

(livello dell’autocoscienza) e che in tal modo pensante si assume quale orizzonte unitario

di ogni sua possibile rappresentazione, ammesso che altra realtà non abbia se non quella

della rappresentazione, ci siamo trovati a dover pensare che una rappresentazione non in

grado di riferirsi a qualcosa di reale se non diventandolo essa stessa, è interpretabile solo

come un costrutto linguistico che sta avvalendosi delle capacità performative di un

determinato linguaggio. Sembra necessario aprire una parentesi su quanto di dati

enunciati verbali, sulle loro capacità di autolegittimarsi, di produrre da sé la propria

verità, ci ha insegnato un grande filosofo del linguaggio, John L. Austen, prof. Oxford

(1952-60), nel suo libro intitolato “How to Do Things with Words” (1962). Vi sono

parole che hanno lo straordinario potere di far cose quando si danno. La maggior parte

delle frasi che costruiamo si limitano a dire qualcosa riguardo realtà estranee e sono

pertanto enunciati la cui verità resta da decidere e può essere decisa solo da esperienze in

grado di metterli alla prova. Enunciati di questo tipo, sono enunciati del tipo “Oggi

piove” e sono definiti da Austen “constativi” in quanto hanno la pretesa di constatare

qualcosa che a loro dire sarebbe, ma la cui realtà così come la verità dell’enunciato che le

afferma resta da stabilire.

Da questi si distinguono enunciati che non si limitano a constatare qualcosa, ma fanno

quel che dicono: e. g. “ti saluto!”, “scommetto dieci euro che domani piove”. Di tali

enunciati non ho il diritto di cercarne la verità o meno poiché tali enunciati sono azioni

che si compiono nel momento dell’enunciazione e proprio in virtù di essa. Per

sottolinearne la natura di azioni Austen li ha definiti “performativi”. Questi enunciati-

azione, queste parole che fanno, hanno il potere di modificare i dati delle realtà, nel cui

contesto agiscono, nei casi citati i rapporti con la persona che saluto e con la persona

verso cui la promessa mi impegna, producendo effetti irreversibili anzitutto per lo status

di colui che la pronuncia. (Barale ci ricorda, en passant, che saluti tipicamente mafiosi,

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come quelli che eminenti personalità del mondo politico sono non di rado còlti – tramite

intercettazioni o testimonianze dirette – a rivolgere a non meno eminenti personalità

delle mafie nostrane, siano qualcosa in più che semplici o meri “saluti”, denotando

performativamente altrettante prove giudiziarie di appartenenza, collusione o ingerenza

col rappresentante del clan in questione). Tali enunciati fanno tutti riferimento ad “atti

verbali” il cui valore performativo consiste nelle loro capacità di modificare un contesto

comunitario dato, impegnando chi li compie nei riguardi di coloro che possono essere

considerati suoi interlocutori. Su queste basi fenomenologiche non si ha difficoltà a

riconoscere che condizione primaria dell’uso performativo della parola, sia l’esistenza di

un linguaggio condiviso, ma si è tentati di supporre anche che sua condizione non meno

essenziale, sia l’esistenza di condizioni che ci obbligano a prenderci la responsabilità di

quanto diciamo.

E’ chiaro infatti che se non ci fossero norme che ci disciplinano e istituti che ne

garantiscano il rispetto, nessuno degli impegni che parlando assumo, disconoscimenti e

riconoscimenti, potrebbe acquisire il valore performativo, l’efficacia pratica che assume

invece, nelle nostre comunità organizzate. Su queste basi si è cercato di stabilire quali

enunciati e perché proprio quelli siano destinati ad assumere il valore performativo che

siamo costretti a riconoscergli. Si è cercato di stabilirlo su un piano strettamente

linguistico, attraverso rilievi ed analisi che hanno a volta a volta puntato sul significato

speciale che alcune parole si prestano ad assumere, o sulla forma sintattica degli

enunciati. Tutti questi tentativi sono falliti nel rintracciare un qualche principio di

performatività. Gli ostacoli incontrati rimandano a una difficoltà di fondo, a una sorta di

peccato d’origine, che consiste nell’aver preso le mosse da una nozione di performatività

troppo descrittiva per dar conto dell’uso performativo a cui si prestano parole e costrutti

la cui diversità sotto un profilo unicamente linguistico risulta irriducibile; parole e

costrutti la cui disponibilità ad assumere valori performativi non può essere spiegata a

partire da loro comuni proprietà lessicali o sintattiche. Troppo restrittivo per consentirci

di risalire a una condizione fondante di ogni performatività possibile si rivela l’assunto

che performativi siano e debbano ritenersi solo atti linguistici capaci di modificare un

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contesto comunitario dato.

Al di là di essi è necessario risalire fino a quell’atto performativo per eccellenza a cui ogni

contesto comunitario dato rimanda come a una condizione preliminare, in assenza della

quale non potrebbe darsi perché è la fonte di tutte le obbligazioni su cui si regge.

Performativo per eccellenza perché fonte diretta di ogni obbligazione possibile deve

ritenersi non l’uno o l’altro di quei comportamenti verbali che lo diventano solo in e

rispetto a un contesto comunitario già dato, ma quell’unico tra tutti che ritroviamo al

fondo di ogni altro e di cui quale che sia il contesto comunitario o socio-linguistico in cui

ci siamo calati è legittimo pensare che concorra a legittimare e a mantenerne aperte le

possibilità.

L’unico tra tutti i nostri comportamenti a cui è lecito attribuire una tale capacità fondante

senza la quale nessun comportamento verbale potrebbe risultare performativo, per la

buona ragione che non si darebbe alcun sistema di obbligazioni suscettibile di essere

valido, è quel comportamento nell’uso delle parole “mio” e “Io”, il comportamento di

chi si assume quale autore dei propri atti e si impegna a riconoscerli e a far sì che

vengano riconosciuti come suoi propri. Barale sfida chiunque a sostenere che tale

comportamento non sia alla base di ogni performazione individuale e collettiva; sfida

chiunque a sostenere che in assenza di tale comportamento, potrebbe sussistere

qualunque organizzazione comunitaria (una società, uno stato), e dunque, sfida chiunque

a disconoscere il valore performativo di un comportamento che non si limiti a

modificare un contesto esistente ma si rivela decisivo nel renderlo possibile.

Merito di Kant è averlo saputo interpretare nella medesima ottica organicistica che già gli

aveva consentito di cogliere la funzione dei cosiddetti schemi trascendentali dell’

immaginazione, ossia di ogni forma d’intelligenza possibile. Se in quel caso si trattava di

attivare, in questo caso si tratta di “inscrivere” in una prospettiva più ampia di quella sin

lì ammessa un sistema di riferimento i cui requisiti essenziali si confermano l’apriorità (su

di esso, su un sistema di riferimento in grado di disciplinare e nei limiti del quale le sia

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concesso procedere, e ogni umana condotta deve poter già sempre contare) e la

disponibilità ad adattarsi ad orizzonti di senso tra loro diversi, dalla cui istituzione una

maniera di fare esperienza come la nostra non potrebbe prescindere se non rinunciando

a nostre caratteristiche essenziali. Dirsi “Io” e pensarsi come un Io equivale a compiere

un atto performativo che concorre a istituire non solo un orizzonte comune di ogni

rappresentazione per noi possibile, ma anche un orizzonte comunitario, che da un

semplice orizzonte comune si distingue per l’impegno che comporta nei riguardi di

chiunque al modo di un Io non possa evitare di convenire.

Grande e ulteriore merito di Kant è aver chiarito che nell’economia del nostro far

esperienza quell’orizzonte che stiamo definendo comunitario non si istituisce né per

caso, né quale semplice conseguenza dell’istituirsi di un orizzonte comune, ma per una

necessità che direttamente lo riguarda, e in ossequio ancora una volta a una logica

dell’esperienza che lo richiede, affinché una sua modalità per noi irrinunciabile non si

trovi svuotata di ogni significato, privata di ogni possibile riferimento. Di quale modalità

di esperienza si tratti Kant lo dice in quella parte della sua indagine critica (prima

indagine critica) dedicata alla ragione nel senso più stretto possibile. Nella dialettica

trascendentale chiarisce quale tra i modi di condurre le nostre esperienze che si sono

rivelati per noi irriducibili e a proposito dei quali ci ha aiutato a capire quali orizzonti di

senso offrano loro i riferimenti ontologici di cui hanno bisogno, quale tra essi esiga un

riferimento costante a un orizzonte di senso che non potrebbe essere unicamente quello

che abbiamo visto nascere dalla spazializzazione di orizzonti temporali comunque

circoscritti, come quelli in cui qualcosa diventa per noi percepibile; nè potrebbe

coincidere con quello di una rappresentazione che consente a un ipotetico Io di fungere

da orizzonte comune di ogni sua possibile rappresentazione.

La modalità di esperienza che a un orizzonte di senso più ampio e di ogni altro

comprensivo inevitabilmente rimanda, è quella che si rende riconoscibile nel nostro

procedere ragionando. Ragionare significa far valere un principio di possibile coesistenza

universale il cui “correlato noematico” (Husserl), cioè la cui interna condizione di senso

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è l’idea di un tutto come tale dato e il cui “correlato noetico” (il cui versante soggettivo)

è un progetto che a una tale prospettiva ci vincola e che ad essa ogni altra subordina.

(Barale rimanda alle pagine 19-38 del suo saggio Sui fondamenti ontologici ed epistemologici di

una filosofia in senso cosmopolitico, in «Studi kantiani» XXII, 2009). (Cfr. anche per quel che

riguarda la natura dell’Io il saggio di Sandro Nannini Kant e le scienze cognitive sulla natura

dell’’io, in Critica della ragione e forme dell’esperienza, ETS, 2011).

7/12/11 – A partire dalla metà del XX secolo, alcune filosofie analitiche di stampo

comportamentista (Ryle, Quine) hanno avuto il gran merito di denunciare l’inadeguatezza

del tradizionale linguaggio metafisico nella trattazione dei fenomeni mentali, trattazione che

tuttavia finiva con l’essere delegata alle montanti scienze cognitive capaci di formulare teorie

che si sarebbero rivelate più o meno appropriate: la “type identity theory” (nella sua

versione “eliminativista” o “riduzionista”), il “token physicalism”. Quest’ultimo

“fisicalismo delle occorrenze” è stato così definito e ripreso quale punto di partenza da Jerry

Fodor nel 1975 (nel suo libro The Language of Thought) per lo sviluppo della

propria teoria definita “funzionalismo rappresental-computazionale”. Tale approccio

riconosceva alla mente lo status di una struttura operativa (alla stregua di un computer) i

cui stati funzionali, se attivati da stimoli esterni, sarebbero in grado di interagire e di

risultare significativi attraverso le operazioni sintattiche (calcoli logici) tipiche di un

linguaggio di base di cui saremmo naturalmente dotati. Tra i meriti che la cultura di quegli

anni, incline a un certo “buonismo ontologico” e al naturalismo epistemologico, ha saputo

riconoscergli, annoveriamo l’aver saputo stabilire condizioni d’identificazione dell’evento

mentale in grado di garantirne l’autonomia, e la riduzione dei fenomeni supposti mentali a

calcoli logici pervenendo a una completa naturalizzazione del dispositivo che li compie. Tra

i demeriti oggi ben più consistenti di una simile prospettiva, annoveriamo l’innegabile

disumanizzazione e decontestualizzazione esperienziale dell’ambiente in cui una mente si

troverebbe ad agire, nonché l’incapacità di dare conto della dimensione soggettiva della

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coscienza.

Il libro del 1979 di Churchland ha segnato una svolta in una stagione culturale al cui

interno esige di essere pensato e che ci obbliga pertanto a richiamare nelle sue

coordinate principali. È una stagione iniziata intorno agli anni ’50 quando gli indirizzi

filosofici dominanti, filosofie di indirizzo analitico al cui approccio logico-linguistico va

riconosciuto il merito di aver sgretolato le pregiudiziali metafisiche implicite nei

tradizionali linguaggi mentalistici della psicologia (vedi gli effetti dirompenti del libro The

Concept of Mind, G. Ryle, 1949, di scuola comportamentista, critico del dualismo

cartesiano dove la res cogitans agirebbe come “the ghost in the machine”), hanno

consegnato alle scienze con cui intendevano lavorare il compito di rispondere alla grossa

questione che il buon esito della loro impresa critica lasciava aperto.

Avendo concluso (Ryle e compagnia bella) che di null’altro uno studio scientifico degli

eventi un tempo definiti mentali, ci autorizza a parlare se non di determinati

comportamenti e di disposizioni suscettibili di caratterizzarli, e avendo con ciò

scongiurato ogni riferimento a entità metafisiche (quali intelletto, volontà,

immaginazione, Io…), ad agenti segreti annidati nell’invisibile teatro della mente,

sollevavano e lasciavano aperto il problema delle vere cause delle disposizioni e

proprietà, che stavano constatando. Di fronte a ipotesi ben controllabili e orientate a

identificare il proprio compito con quello di una semplice analisi logica, si dichiaravano

incompetenti a rispondere. Da quel momento in poi demandavano ogni risposta alle

scienze naturali, di cui si scoprivano ancella e con le quali si sforzavano di stabilire un

rapporto di continuità (W.V.O.Quine: teorico più coerente di una tale ristrutturazione

secolare del rapporto di subordinazione e continuità tra filosofia e scienza).

Nell’arco di un trentennio, sino a metà degli anni ’80 le scienze deputate a rispondere alle

domande circa le vere cause dei nostri comportamenti intelligenti e volontari hanno

elaborato e sperimentato varie ipotesi. Le prime in ordine cronologico, risalenti agli anni

’50 ma entrate in crisi già nei primi anni ’60, sono riconducibili alla tesi che tra mente e

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cervello, tra eventi un tempo ritenuti immateriali ed eventi di natura fisiologica la cui

materialità mai è stata messa in discussione, vi sia una identità totale (definita non a caso

“type identity theory”). Questa tesi, individuante un medesimo tipo di realtà la quale non

possa avere altra struttura se non quella dei processi cerebrali con cui si realizza, si è fin

dall’inizio scontrata con obiezioni e difficoltà molto serie sia nella sua versione cosiddetta

“eliminativista”, sia nella sua versione cosiddetta “riduzionista”. I cosiddetti eliminativisti

erano i più “cattivi” perché pensavano fosse sbagliato parlare di eventi mentali: essi

predicavano l’abbandono dell’intero linguaggio psicologico-metafisico a favore del

linguaggio scientifico. I riduzionisti, più “bonaccioni”, sostenevano che fosse necessario

tradurre l’antico linguaggio in un altro di tipo scientifico che spiegasse anche il primo,

illuminando sui relativi stati fisici e fisiologici di cui anche il linguaggio mentale parla

(eviteremo qui di interrogare le effettive possibilità di una simile “traduzione”).

Questa seconda prospettiva (la riduzionista) era più moderata ma anche più debole della

prima (come sostiene Quine: tradurre significa costruire un altro linguaggio e pensare

cose diverse). La type identity theory entrò definitivamente in crisi negli anni ’60, colpita

a morte da una obiezione formulata da un filosofo per la prima volta, ancora oggi

presente e influente nel panorama internazionale: il professore, oggi emerito ad Harvard,

Hilary Putnam. La sua obiezione nasceva dalla costatazione che uno stesso tipo

psicologico può essere realizzato (= implementato) da tipi fisici diversi; pensare il

contrario, pensare ad esempio che il tipo psicologico “dolore” coincida col tipo

neurologico “attivazione del delle fibre C” (come si sosteneva all’epoca), ci

costringerebbe a concludere che un vivente di qualsiasi specie, solo nel caso in cui sia

dotato di fibre C e queste vengano attivate, esso possa provare dolore. Ma poiché nel

sistema fisiologico del gatto non sono presenti fibre C, dovremmo allora concludere che

i gatti non provano dolore. La falsità di questa conclusione comporta anche la falsità

della premessa che ci obbliga ad ammettere anche la falsità della type identity theory,

secondo cui mente e cervello sarebbero due maniere diverse di riferirsi alla stessa cosa.

L’idea di una identità di tipo, lasciò allora il posto a un tipo di identità che venne detta

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“di occorrenza” e che contemplava tra mente e cervello un rapporto non rigido, non

deterministico, che venne detto di “sopravvenienza”: ci si limitò a pensare che mai uno

stato mentale potrebbe determinarsi se non in ragione o in funzione di un qualche

evento di natura fisiologica, non però necessariamente dell’uno o dell’altro, ma di uno dei

diversi possibili all’interno dell’una o dell’altra tipologia. “Fisicalismo delle occorrenze” è

stata definita questa versione di una concezione materialistica del mentale, cioè di

qualsivoglia forma di intelligenza per noi possibile, indisponibile a concedere che

possano essercene di non pienamente identificabili con un qualche processo di natura

materiale, ma disposta ad ammettere che una qualche molteplicità di processi

materialmente diversi e dunque in qualche misura indipendenti dalla loro natura

materiale, una medesima forma d’intelligenza si presenti ad essere realizzata.

A definire fisicalismo delle occorrenze (“token physicalism”) una forma di materialismo

come questa è stato nelle prime 25 pagine del suo libro più celebre, apparso nel 1975

(sotto il titolo di “The Language of Thought”) Jerry Fodor, cioè l’artefice principale di

un modello di spiegazione dei nostri modelli cognitivi, che con l’identità non di tipo ma

di occorrenza fra mente e cervello non soltanto è compatibile, ma solidale al punto da

assumerla quale proprio punto di partenza e da costruirle attorno una cornice teorica

con cui si proponeva di renderla compiutamente intelligibile: la cornice è quella di un

concezione del mentale che “funzionalistica” sarebbe stata chiamata.

Fodor nel ’75 ne pone le basi e ne fissa i paletti offrendocene al tempo stesso una

versione che classica viene oggi considerata. Per distinguerla da ogni altra è definita

rappresental-computazionale, con esplicito riferimento alle due funzioni (rappresentare e

computare) che Fodor ritiene di poter attribuire e con cui funzionalisticamente identifica

il dispositivo (nel senso di regime) corporeo che chiama mente. Da una rapida

esposizione non possiamo prescindere non solo perché la sua rappresentazione del

mentale fu dominante tra i ’70 e gli ’80 e in versione aggiornata continua ad esercitare la

propria influenza anche oggi, ma anche perché è il riferimento più diretto delle

argomentazioni polemiche con cui nel suo libro del ’79 Paul Churchland apre la strada a

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quella diversa spiegazione dei processi cognitivi, che è oggi la più gettonata (il

“connessionismo”).

Del modello rappresental-computazionale ci limiteremo a ricordate che il suo modo di

salvare l’idea di mente è quello di considerarla niente di più, ma anche niente di meno,

che un insieme di stati funzionali. Pensarla come un insieme di stati funzionali significa

riconoscere alla mente lo status di una struttura operativa, più esattamente di un modo

strutturalmente definito in cui il nostro cervello si troverebbe a operare quando viene

chiamato in causa, obbligato a interagire con il mondo circostante. La sua

determinatezza discenderebbe dal fatto che al pari della componente meccanica di un

computer il nostro cervello ci metterebbe a disposizione nelle e con le configurazioni

che assume ogniqualvolta un qualche stimolo lo raggiunge e lo “accende”, ci metterebbe

a disposizione una sorta di linguaggio di base, suscettibile di essere attivato in ragione e

nei limiti di potenzialità sintattiche che dovremmo considerare in esso implicite e dunque

con esso una volta per tutte date.

Sul modo di concepire questo presunto linguaggio di base si registrano tra i sostenitori

della teoria che li prevede, divergenze di non poco conto che riguardano soprattutto la

possibilità di riconoscergli potenzialità che non siano di tipo unicamente sintattico, ma

già in origine anche semantiche; non tutti i funzionalisti ammettono che la base

semantica delle forme di intelligenza possibili sia altrettanto originaria di quella sintattica.

Non tutti concordano con Fodor secondo cui il valore semantico di rappresentazioni

mentali identificabili con le diverse configurazioni possibili del nostro cervello sarebbe

quella di possibili predicati verbali e nominali. Si tratta di divergenze interessanti per i

problemi che aprono ma ai fini del nostro discorso meno importanti delle tesi su cui si

registra la più ampia convergenza e che possono pertanto valere quali tratti significativi

del modello fodoriano di spiegazione. Le tesi sono principalmente tre:

1) La tesi secondo cui l’orizzonte originario di questo sistema di rappresentazioni

virtuali sarebbe dato dalle configurazioni che il nostro cervello assume in risposta

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agli stimoli di origine esterna e di natura sensibile.

2) La tesi secondo cui questa base di partenza dei nostri processi cognitivi

meriterebbe di essere equiparata a una ragnatela di rappresentazioni tanto primarie

da non poter essere pensate se non come mentali e non di meno strutturate al

modo di un linguaggio perché dotato di un proprio regime sintattico e di una

propria valenza simbolica; di una sempre preterintenzionale predisposizione a

“stare per…” e a “riferirsi a…” che a nessun tipo di rappresentazione per quanto

virtuale può essere disconosciuta quando a titolo di rappresentazione la si

ammetta.

3) La tesi infine secondo cui quelle rappresentazioni virtuali nel cui orizzonte

conosciamo diventerebbero attuali e per così dire libererebbero i significati di cui

sono le virtuali depositarie ogni qual volta sono chiamate ad assumere quella

funzione rappresentativa che può essere la loro e questo avverrebbe attraverso

operazioni di tipo puramente sintattico, calcoli logici che costituirebbero l’essenza,

l’unica essenza possibile di quella organizzazione funzionale del cervello che

chiamiamo mente.

Concepire la mente come un sistema in grado di produrre operazioni senza le quali un

cervello non sarebbe quella struttura organizzata che invece in ogni momento è significa

stabilire condizioni di identificazione dell’evento mentale che ne garantiscano

l’autonomia. Nello stesso tempo assumere che le operazioni in questione null’altro siano

se non calcoli le cui regole fondamentali sarebbero date una volta per tutte significa

porre le condizioni di una completa naturalizzazione del dispositivo che le compie.

Questo spiega la popolarità di cui ha potuto godere un modello di spiegazione dei nostri

processi cognitivi fedele all’assunto che qualcosa come una mente in fin dei conti si dia,

ma convinto altresì di poter provare che in null’altro consista se non in un insieme di

stati funzionali del corpo stesso. La popolarità che ha potuto godere in una cultura

interessata a entrambi gli obbiettivi che sembrava in grado di raggiungere e fortemente

tentata da forme di “buonismo ontologico” e di naturalismo epistemologico compatibili

con l’ipotesi di un orizzonte non unicamente materiale delle forme di esistenza materiali

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con cui veniamo a coincidere.

Ma il modello proposto da Fodor e da quanti hanno proceduto in tale direzione era e

resta segnato da una debolezza di fondo che non ha favorito il progressivo abbandono

(sul terreno scientifico). A indebolirlo e a impedire spiegazioni all’altezza della loro

fenomenologica complessità è stata ed è l’innegabile disumanizzazione dei contesti

esperenziali in cui li colloca, una disumanizzazione condotta fino al punto di metterli in

fuorigioco (non farebbe differenza parlare di un uomo o di un computer). Può essere

testimonianza di tale disumanizzazione l’analogia altrimenti improponibile, proponibile

solo quando da contesti propriamente umani si scelga di prescindere, tra mente e

computer, tra l’insieme degli stati funzionali con cui una mente umana viene identificata

e quale regime disciplinare di processi corporei saremmo tenuti a concepire, e il

programma che serve ad attivare il linguaggio di base di un PC.

Ma una testimonianza ben più provante della rinuncia a collocare i processi cognitivi in

un contesto esperienziale che propriamente umano possa ritenersi ci viene dalle

difficoltà che ogni spiegazione in chiave materialistico-funzionalistica dei nostri processi

cognitivi incontra nell’affrontare alcune sfide di ordine non unicamente filosofico ma

scientifico. Barale ne ricorda essenzialmente tre:

1) la sfida posta da quelle ricerche neurobiologiche (cfr. A.R. Damasio, L’errore di

Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995) che hanno riconosciuto il

ruolo decisivo assolto nei nostri processi cognitivi da emozioni che nessuna

rappresentazione e computazione non riferibile a un contesto in cui la loro

possibilità sia in origine contemplata potrebbe da sola spiegare. Le emozioni che

in quei pazienti venivano a mancare era imputabile a una decontestualizzazione

esperienziale (non a mancanti funzionalità).

2) La seconda sfida che non solo il paradigma naturalistico ma che ogni

naturalizzazione del mentale si trova ad affrontare (anche quella connessionista)

quando le si chiede di dar conto della dimensione soggettiva della coscienza.

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3) La sfida infine che una concezione del mondo quale semplice oggetto delle

rappresentazioni che lo riguardano è costretta a sopportare ogniqualvolta emerga

la complessità strutturale che ad esso ci connettono e si debba ammettere che

quanto stiamo rappresentandoci è anzitutto una realtà di cui siamo partecipi.

Proprio da qui ha preso le mosse la teoria connessionista.

12/12/11 – Paul M. Churchland (Realism Scientific and the Plasticity of the

Mind, 1979): il nostro linguaggio del senso comune e le modalità tramite cui lo impariamo

costituiscono quella cornice concettuale entro la quale risultano inscritte tutte le nostre

percezione, le quali, consistendo in nient’altro che in uno sfruttamento sistematico di tali

convenzioni linguistiche (di cui si auspica il superamento a vantaggio delle più potenti teorie

fisico-chimiche moderne, in grado di avvalersi di forme di legalità immanenti non solo al

dato sensibile, ma anche alla costituzione del soggetto percipiente), fanno sì che i fondamenti

ontologici della nostra capacità percettiva assumano la fragilità e l’inconsistenza di un

“sentito dire”. Tale teoreticità immanente ai nostri giudizi percettivi, costruiti sulla base dei

comuni predicati osservativi, è pertanto da intendersi in senso negativo, come sintomo della

loro astrattezza e del deficit di radicamento ontologico, proprio di teorie costruite con mezzi

e materiali estranei alla natura di quanto teorizzano. Le nostre percezioni costituirebbero

quindi un’“ontologia familiare /parrocchiale del senso comune” la cui sola ragion d’essere

sarebbe stata quella di favorire forme abbreviate e superficiali di comunicazione, ma il cui

risultato ben più rovinoso sarebbe stato quello di dare adito all’ipotesi di una realtà distinta

da quello che pretendono di rappresentare e la cui essenza andrebbe riconosciuta nella

capacità di rappresentarle, ossia all’ipotesi di una mente come una realtà immateriale e

fittizia. Critica all’ISA (Ideal Sentential Automatism).

Il saggio di Churchland è stato scritto in un momento (nel 1979) in cui lo scenario della

filosofia della mente e della scienza cognitiva registrava il trionfo di una forma di

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materialismo almeno nelle intenzioni né riduzionista né eliminativista, che ha preso il

nome di funzionalismo; e a forme siffatte di materialismo apparentemente moderate

apertamente si oppone. Barale sta riferendosi a uno scenario sulla cui duplice valenza

filosofica e scientifica ritiene doveroso insistere per due ordini di ragioni che riguardano

il modo in cui è arrivato a delinearsi e le convinzioni con cui si è rivelato congruente e si

è pertanto prestato ad ospitare.

Al modo in cui è arrivato a delinearsi Barale ha accennato la volta scorsa quando si è

ricordato quanto decisivo nell’aprirlo e alimentarlo sia stato l’apporto critico di filosofie

analitiche, al cui approccio logico-linguistico va riconosciuto il merito di aver

smascherato i paralogismi di cui sono intessuti i linguaggi mentalistici della nostra

tradizione filosofica, gli abusi e gli equivoci implicati in ogni maniera tradizionale di

riferirsi a entità metafisiche (volontà, intelletto, coscienza, autocoscienza…), al cui

segreto operare in quel teatro invisibile che chiamiamo mente, sarebbero da imputare le

caratteristiche qualitative delle nostre condotte, disposizioni e abilità di cui troviamo

testimonianza nei nostri comportamenti. Senza l’apporto critico di filosofie in grado di

sgretolare i presupposti metafisici impliciti in linguaggi mentalistici come quelli della

nostra tradizione filosofica e di forme di psicologia, che non hanno esitato a condividerli,

uno scenario come quello in cui oggi ci muoviamo non si sarebbe aperto.

Ma nel nuovo scenario, in uno scenario che ci obbliga a chiederci in che cosa consista e

donde derivino disposizioni e abilità non più imputabili all’operare invisibile di agenti

immateriali annidati nel teatro della nostra mente, quelle filosofie di indirizzo analitico

senza il cui contributo uno scenario come questo non si sarebbe aperto, hanno

rinnovato il muoversi in prima persona. Avendo identificato il proprio compito con

quello di un’analisi logica idonea unicamente a istituirlo, si sono dovute riconoscere

incompetenti ad affrontare in maniera diretta nei termini in cui esse stesse sono arrivate

a riformulare le questioni di ordine ontologico che ci propongono come le soli possibili.

Nella loro ottica e dunque in uno scenario che alla loro ottica corrisponda, questioni

come queste sembrano riducibili a questioni di fatto, in nessun modo ancora di ordine

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filosofico, ma unicamente di ordine scientifico. Più precisamente le risposte che

attendono non sembrano più in alcun modo dipendere da quella capacità di

legittimazione che potrebbe essere propria di una riflessione filosofica, ma unicamente

dal potere di spiegazione di una teoria scientifica.

Barale fa notare, a questo punto, che un sistema scientifico non si origina mai per

partenogenesi, bensì in concomitanza a un quadro di riflessione teorica, concentrandosi

sulle convinzioni e premesse che di ordine filosofico più che scientifico è lecito

considerare, le cui opzioni metodologiche sono inseparabili da pregiudiziali di tipo

naturalistico e empiristico7. In questa circostanza ci si limita a ricordare come tipica della

tradizione filosofica che ha contribuito a delinearne lo scenario, una premessa che la

scienza cognitiva dei nostri giorni tende ad assumere come una forma di verità acquisita

e a far valere quale unità di misura nella valutazione dei modelli teorici con cui tentano di

corroborarla. È una premessa da cui anche Churchland sceglie di partire e che richiama

già nella prime righe del capitolo in cui comincia a porre le basi della sua teoria e che non

è il primo (il quale è una sorta di introduzione) ma il secondo, dedicato alla natura delle

nostre percezioni:

«la convinzione che guida questo capitolo è che una percezione consiste in uno

sfruttamento concettuale delle informazioni contenute nei nostri stati sensoriali». Alcune

considerazioni:

A) In termini filosofici coincide con una forma di empirismo talmente radicale da

sottrarsi alle obiezioni tradizionali (che facevano tutte leva sull’introduzione di

elementi di spiegazione non riducibili).

B) La parola percezione è usata per indicare l’unica forma in cui una nostra relazione

con un qualcosa che è, può pretendersi conoscenza di ciò che esso stesso è.

C) Il modo in cui se ne parla contempla che null’altro una percezione possa

pretendersi se non quel modo di sfruttare le informazioni dei sensi che consiste

7 Un’analisi di questo tipo Barale l’ha condotta alle pagine 79-85 del saggio Sfondi e confini ontologici della

contemporanea filosofia della mente pubblicato nel primo numero del fascicolo XXIV (2006) della rivista “Nuova civiltà delle macchine”.

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nell’inscriverla in una qualche cornice concettuale e che altro parametro di merito

non potrebbe pertanto invocare se non la capacità, della cornice concettuale che

fa intervenire, di ospitare tutte e soltanto le informazioni che i sensi stanno

fornendoci.

In altre parole il solo parametro a cui possiamo legittimamente ricorrere per stabilire il

valore di quelle sole forme di conoscenza per noi possibili che chiamiamo percezioni, è

quello dell’efficacia epistemica della cornice concettuale (“conceptual framework”) in cui

diventano possibili. Appunto questo Churchland si chiede: «quanto siamo efficienti nello

sfruttare le informazioni contenute nei nostri stati sensoriali?». La risposta è che non

siamo molto efficienti in tale impresa, o piuttosto, non abbastanza quanto potremmo

esserlo. È veramente molto ampia la massa di informazioni sfruttabili contenuta nelle

nostre sensazioni a causa del nostro modo concettualmente oscurante di riferirci a noi

stessi. Si tratta continua Churchland di una “miopia rimediabile” che spiega così: «i nostri

modi correnti di sfruttamento concettuale sono radicati in misura sostanziale non nella

natura del nostro circostante ambiente percettivo, e neppure nella configurazione non

meno naturale di una nostra struttura psichica, ma piuttosto nella struttura e nei

contenuti del nostro linguaggio comune e nei processi tramite i quali ogni bambino

acquisisce tale linguaggio. […]In larga misura impariamo dagli altri a percepire il mondo

come ciascun altro lo percepisce». Se ammettiamo questo, che la nostra percezione

ordinaria delle cose dipenda in larga misura e certamente nei tratti che da ogni altra in

linea di principio la distingue, da una cornice concettuale estranea al modo in cui le cose

effettivamente si danno perché imputabile unicamente alle convenzioni di un linguaggio

che stiamo imparando a condividere, ci troviamo ad aver ammesso che i suoi fondamenti

ontologici abbiano la fragilità per non dire l’inconsistenza di un “sentito dire”, e non

possiamo sottrarci all’obbligo di chiederci se non si dia la possibilità di cornici

concettuali diverse e ontologicamente più solide di quella che stiamo facendo valere.

In questa direzione, sposando questa ipotesi, si muove Churchland: «ma se le cose

stanno così allora avremmo potuto imparare a concepire-percepire il mondo in maniera

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diversa. Dopo tutto la cornice vigente non è che l’ultimo stadio di un processo storico-

culturale. È dunque auspicabile una cornice più efficacemente concepente-percepente».

Il modo di Churchland prevede due tempi distinti: nel primo cerca di mostrare che

cornici concettuali diverse sono ipotizzabili anche ammettendo che il nostro modo di

percepire, di sfruttare i dati sensibili a nostra disposizione debba continuare ad essere

quello ordinario, cioè dipendere da cornici concettuali convenzionalmente stabilite su

basi linguistiche. In un secondo tempo distingue dalle cornici di cui ha denunciato

l’inconsistenza (convenzionalmente e linguisticamente concepita), un modo di percepire,

di sfruttare i dati sensibili a cui andrebbe riconosciuto il merito di non dover

presupporre cornici concettuali estranee alla loro natura, alla natura dei dati sensibili;

perché la sola cornice di cui si avvale è data da forme di legalità immanenti in essa, in

una natura che dovremmo riconoscere comune a ogni realtà sensibile e pertanto a quella

da cui le informazioni necessarie al prodursi di determinati stati sensoriali e percettivi

provengano, non meno che a quelle che le stanno ricevendo. Una conclusione come

questa è prevista sin dal terzo capoverso del secondo capitolo, in cui si dice che quando

l’obbiettivo sia un sistema di riferimento non vincolato alla convenzionalità di un

linguaggio verbale e non condannato pertanto a risultare in linea di principio estraneo

alla natura dei dati a cui si riferisce, la candidatura a cui diviene più naturale pensare è

quella proposta dalle moderne teorie fisiche: «l’ovvio candidato è qui la cornice

concettuale delle moderne teorie fisico-chimiche e delle loro scienze satellite».

Dando per scontato che la cornice concettuale di queste scienze sia immensamente più

potente di ogni altra nello sfruttare le informazioni contenute nei nostri dati sensoriali e

che ineguagliabili siano le loro credenziali quando ad essere in questione sia la capacità di

offrire una rappresentazione sistematica della realtà, resta da mostrare che una cornice

concettuale come quella che ci offrono, una cornice fatta di numeri funzioni ed

equazioni, possa soddisfare l’istanza di percezioni delle realtà in gioco, che non debbano

ritenersi derivate in seconda battuta da rappresentazioni in essa possibili, simulando stati

di cose come quelli che la cornice in questione ci consente di teorizzare, ma che con

un’esperienza diretta di ciò che in quei termini viene pensato e dunque con verità alla

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natura stessa delle cose direttamente riferibili possa pretendere di coincidere.

Barale ci diceva come l’argomentazione di Churchland si sviluppi in due tempi e come

egli ritenga importante insistere in prima battuta sulla fragilità della cornice concettuale

entro la quale le nostre percezioni si mantengono. Una fragilità che si manifesta con una

incapacità strutturale di riferirle a un fondamento ultimo. Nel secondo capitolo è presa di

mira quella che potremmo definire l’importanza epistemica di quei termini che nei nostri

linguaggi verbali fungono da predicati osservativi (caldo, freddo, nero, rosso…), la loro

incapacità di garantire riferimenti univoci a quelle proprietà delle cose che di una loro

univoca natura dovrebbero darci testimonianza. Muovendo da queste constatazioni (non

nuove) si arriva più facilmente a sostenere il carattere essenzialmente “teoretico” dei

nostri giudizi percettivi , dove l’uso dell’aggettivo “teoretico” ha una connotazione

essenzialmente negativa poiché denuncia l’astrattezza, il deficit di radicamento

ontologico di teorie costruite con mezzi e materiali estranei alla natura di quanto

teorizzano.

Queste conclusioni del cap. II sono le premesse per sostenere nel terzo, dove si discute il

ruolo delle percezioni nell’evoluzione dell’umana capacità di intendere, che le nostre

percezioni altro status non meritano di vedersi riconosciuto se non quello di

“un’ontologia familiare del senso comune”. Non mancano neppure passi dove

l’aggettivo “familiare” è sostituito da “parrocchiale”. Nel capitoletto IV si sostiene che

proprio il fatto di aver assunto quali portatrici di verità epistemiche, radicate nella natura

delle cose, percezioni la cui sola ragion d’essere andrebbe cercata nella loro capacità di

favorire forme abbreviate e superficiali di comunicazione, ha dato spazio all’ipotesi di

una realtà distinta da quello che pretendono di rappresentare e la cui essenza andrebbe

riconosciuta nella capacità di rappresentarle. Una realtà siffatta ha preso il nome di

“mente” e nel capitolo in questione si mostra come i problemi sollevati dall’ammissione

di questa realtà realmente fittizia e di modalità per loro natura immateriali di riferirsi a

ogni realtà, ivi compresa quella che noi stessi siamo, abbiano finito per rendere il nostro

rapporto con ciò che è e siamo, molto più oscuro di quanto in realtà non sia.

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Il tema è ripreso nel cap. V dove ad essere preso di mira è quell’approccio ai processi

cognitivi che Churchland assume sotto l’acronimo ISA (“Ideal Sentential Automatism”),

automa ideal proposizionale, è la definizione che più si attaglia al modello di procedere

cognitivo teorizzato dai rappresentazional-computazionalisti (Fodor, Chomsky) e in

generale al modello di procedere cognitivo teorizzato da quanti pensano la mente umana

come un programma implementato nella struttura meccanica di un computer. A costoro

si oppone con buoni argomenti che una tale equiparazione è insostenibile. La tesi è

quella che i nostri processi cognitivi, quanto al modo in cui effettivamente si producano

e non dell’uno o dell’altro modo in cui ci è consentito fruire dei loro risultati, ci si ponga

il problema, si rivelano qualcosa di diverso da un procedere su basi proposizionali,

ovvero nello spazio logico di un linguaggio quale che sia. Essi hanno certamente una

loro logica ma la logica a cui rispondono non potrebbe essere quella di un linguaggio da

essi in qualunque modo distinguibile, perché è in ogni momento quella di un sistema di

relazioni organiche tra variabili della medesima natura. Vedremo quali siano i meriti di

una tale ipotesi e come il nostro modo “kantiano” di concepire tali linguaggi possa

aiutarci a superare alcuni limiti di questo modello.

14/12/11 – L’incapacità dell’approccio rappresental-computazionale nel dar conto, per

mezzo di soli dispositivi dotati di capacità simboliche (e, solo in quanto tali, virtualmente

rappresentative), delle funzioni di adattamento e di integrazione di un organismo umano,

in termini di sapere e saper-fare e reagire in tempo reale, viene superata col passaggio da un

modello di spiegazione esclusivamente meccanico ad uno di tipo biomeccanico, portavoce di

un potere esplicativo agente ad un livello sub-simbolico (i processi elettrochimici del nostro

sistema nervoso) e disposto a riconoscere nell’organismo in questione immanenti capacità

autopoietiche. E tuttavia non può passare inosservata la fenomenologica inadeguatezza

dello stesso modello biomeccanico nel dar conto della complessità prestazionale di una mente

umana, l’incapacità cioè di pensare l’orizzonte di senso all’interno del quale

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necessariamente essa si troverebbe ad operare, che quale mero ambiente adibito alla

transazione organica di informazioni percettive, precludendo di fatto la possibilità di

pensarlo alla stregua di un orizzonte comunicativo, all’interno del quale un soggetto possa

costituirsi come tale rispetto ad altri. Tale reciproca costituzione non potrebbe darsi se non

proprio per mezzo di quel linguaggio proposizionale che Churchland aveva bollato come

portavoce di un’“ontologia familiare del senso comune”, incapace di pensarlo che quale mero

strumento di una comunicazione approssimativa e superficiale. Su questo punto cruciale

deve installarsi il prezioso lascito kantiano, ossia il riconoscimento della funzionalità

propriamente trascendentale continuamente espletata dal nostro linguaggio, il quale, anche

se epistemicamente impotente e incapace di garantire uno stabile radicamento ontologico delle

conoscenze che si trova costantemente a veicolare, risulterebbe ugualmente indispensabile, se

non nel rilevamento diretto di conoscenze ontologicamente fondate, almeno nell’istituzione di

contesti ontologici (sistemi di riferimento, orizzonti comuni e/o comunitari…) funzionali

alla loro acquisizione. I connettivisti dovrebbero pertanto evitare di far coincidere la fisica

del cervello con una sua logica materiale ad ogni altra impermeabile; dovrebbero aprirsi alla

possibilità che di logiche diverse (anche di una logica dell’esperienza in generale e in quanto

tale), compatibili con la propria configurazione materiale ed in essa implementabili, la fisica

di un cervello possa farsi carico. Dovrebbero infine mutare la prospettiva entro cui una

mente e non un semplice cervello si troverebbe ad operare, non più quella di un “perceptual

environment”, bensì l’orizzonte irriducibilmente intersoggettivo di un mondo in cui l’altro

esige di essere pensato come un qualcuno a cui non possiamo riferirci se non ammettendo che

anche noi lo siamo.

[…] Dell’approccio e del modello rappresental-computazionale Barale ha ricordato la sua

disumanizzazione dei contesti entro cui le nostre condotte si manifestano, una

disumanizzazione a cui è lecito imputare le grosse difficoltà incontrate da questo

modello nello spiegare il “saper fare” o la capacità di reagire in tempo reale. Le difficoltà

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nascono dal fatto che il sapere tacito, implicito in condotte di questo tipo, diventa

qualcosa di inspiegabile laddove si suppone che nessuna forma di sapere sia possibile se

non a partire da dispositivi provvisti di capacità simbolica (in grado di valere quale

rappresentazione di altro) e dunque di parametri rispetto ai quali sia necessario orientarsi

e da regole che consentono di applicarli.

Analoghe difficoltà nel dar conto di forme di sapere non riconducibili alla capacità di

manipolare simboli non le incontra invece un approccio disposto ad ammettere che ogni

nostro sapere nasce a livelli definibili come sub simbolici perché ad essere in gioco è

soltanto la capacità del nostro cervello di assumere configurazioni che valgono quali

risposte agli imput ambientali. Anche l’approccio al simbolico del cognitivismo classico

obbligava a partire di lì, ad ammettere che in configurazioni del nostro cervello

suscettibili di valere quali risposte ad imput ambientali, vada ricercata la matrice

originaria di ogni nostro sapere e saper-fare. Ma il modo in cui ci obbligava a concepirle

impediva di pensare che una risposta nei termini in cui è richiesta dalle necessità di

adattamento e di integrazione di un organismo umano e dunque in termini di sapere e

saper-fare, già per se stesse quelle configurazioni siano. Concepirle quali rappresentazioni

virtuali obbligava a pensare che risposte come quelle di cui abbiamo bisogno possano

diventarlo solo attraverso un processo di elaborazione suscettibile di espletare valenze

simboliche in esse ancora implicite e dunque a un livello che non sarebbe più quello del

loro prodursi ma quello di linguaggi in grado di tradurre e tradurli.

La tesi dei connessionisti è invece che già nella forma in cui si rendono originariamente

possibili i processi elettrochimici in ragione dei quali il nostro cervello assume l’una o

l’altra configurazione, godano dello status di condotte che non hanno bisogno di essere

tradotte in forme diverse per poter assumere il valore di una risposta funzionale alle

esigenze di adattamento e integrazione di un organismo umano e dunque di una risposta

che tale è in termini di sapere e saper-fare. A un tale approccio ci ha invitato Paul

Churchland. La mossa strategicamente più importante che ci invita a compiere è

consistita nel sostituire un modello meccanico (cervello = supporto fisso, hardware, di

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un PC) con un modello biomeccanico che gli riconosce immanenti capacità

autopoietiche: la capacità di svilupparsi da sé, di assumere l’una o l’altra forma in ragione

di proprie esigenze e necessità.

Questo modello certamente più aderente alla maniera di funzionare di un organo dotato

di una propria vita, consente di pensare le reazioni del nostro cervello agli imput che

riceve come risposte che hanno bisogno di essere ulteriormente elaborate per

manifestarsi nelle forme di un’attività ad esso riferibile. In queste forme già sempre si

danno in ragione del loro stesso modo di prodursi, della costituzione dinamica degli

agenti chiamati a elaborarle e di un loro modo di operare a cui si deve riconoscere lo

status di un agire selettivo possibile solo promuovendo condotte ad esso conformi e

ogni altra dividendola[… ]

[Dai loro agenti e veicoli (i cosiddetti neuroni) abbiamo imparato che con ogni altra

struttura cellulare condividono il fatto di essere tenuti in uno stato di continua tensione

dalla differenza di potenziale tra l'interno e l'esterno della membrana che li avvolge, ma

anche da tutte le altre strutture cellulari che si differenziano per la peculiare capacità di

comunicare. La devono, come sappiamo, alla loro forma, al protendersi della loro

membrana di due tipi di filamenti, gli uni (i cosiddetti dendriti) capaci di raccogliere

segnali in entrata, gli altri (i cosiddetti assoni) capaci di inviare segnali in uscita. Quanto al

loro modo di riceverli e di trasmetterli, decisiva risulta la scoperta che non è mai casuale,

né mai potrebbe pretendersi puntuale e lineare, poiché risponde alla logica di un sistema

nei limiti del quale operano e la cui architettura è quella di una pluralità di circuiti

reticolari, collegati l'uno con l'altro, i cui nodi sono centri di attività mai isolati e isolabili,

costantemente collegati tra loro e con l'ambiente esterno. Il fatto che siano in ogni

momento di un certo grado di attivazione, destinato ad aumentare o diminuire in ragione

dei segnali che ricevono, consente loro di fungere da dispositivi di calcolo: di un calcolo

che consiste nell'attribuire a ogni segnale un peso e con esso un valore nel promuovere o

inibire le condotte a cui abilitano i percorsi neuronali che sta attivando. Questi percorsi si

realizzano distribuendo i segnali lungo l'una o l'altra di direzioni alternative che

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coincidono con le diverse linee di connessioni disponibili nel sistema e consentono di

chiamare in causa ogni volta popolazioni neuronali in grado di assicurare risposte

conformi al peso dei vari segnali, al potere di promozione e inibizione da essi assunto

nella logica di un sistema delle cui meccaniche reazioni va ancora detto che, come forse

risulta anche da questa sommaria presentazione del modo in cui arrivano a prodursi, non

sono in nessun momento cieche, perché in ogni momento mirate a promuovere processi

di adattamento e integrazione all'ambiente che le sollecita.]

Se lo confrontiamo con quel modello unicamente meccanico di processualità cerebrale a

cui ancora si richiamavano i cognitivisti classici, cioè quanti accettavano l’assimilazione di

un cervello umano alla macchina di Turing, e le sue configurazioni non riuscivano

pertanto in altro modo a concepire se non come rappresentazioni virtuali, dobbiamo

riconoscere la superiorità del modello biomeccanico: la sua maggiore idoneità a produrre

processi cerebrali in cui ciascuno risulta identificato per mezzo di una funzione che

assolve e un senso che può effettivamente avere nell’economia vitale di organismi come i

nostri. Questo riconoscimento non deve tuttavia impedirci di denunciarne i limiti (deficit

di attendibilità), tutti secondo Barale, imputabili alla ristrettezza dell’orizzonte di senso a

cui fa riferimento.

Il fatto che dall’individuazione di un orizzonte di senso il modello connessionista non

prescinda (al contrario del modello rappresental-computazionale) è il suo titolo di

merito. Il fatto che sappia concepirlo solo come “unwelt”, “environment”, ambiente

circostante impedisce di attribuirgli anche il merito di una descrizione

fenomenologicamente completa delle prestazioni che dal proprio cervello un uomo ha il

diritto di attendersi. È un fatto difficilmente contestabile che le nostre conoscenze non si

basano soltanto su quelle informazioni che direttamente ci provengono dai sensi, da

quanto materialmente si dà in quel “perceptual environment”, che possiamo definire il

nostro ambiente vitale. Altrettanto importanti devono essere ritenute informazioni che

non da altro, ma da altri riceviamo a proposito di ciò che non nel nostro, ma nei loro

ambienti, in situazioni del loro vissuto o anche soltanto immaginate è accaduto o accade

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o anche soltanto avrebbe potuto accadere. Molte delle informazioni le riceviamo da libri

e giornali, dalla televisione e da internet, o anche semplicemente conversando, e nessun

teorico del primato delle reti neuronali ha il diritto di negarne l’importanza, così come,

una volta ammessa la loro importanza, nessuno di quanti come noi stanno riflettendo sui

possibili limiti della spiegazione dei processi cognitivi che su dati di natura

neurofisiologica, decontestualizzandoli, li appiattisca, ha il diritto di supporre che

l’elaborazione di informazioni che possiamo attingere solo indirettamente e che non

riguardano il nostro perceptual environment, possa avvenire in circuiti diversi da quelli

neuronali o che diversa da quella dei sensi possa essere la via d’accesso a tali circuiti. Le

parole di un libro (o le immagini di un film) sono pur sempre messaggi che solo i sensi

potrebbero trasmettergli e che dai messaggi che contestualmente gli trasmettiamo,

differiscono solo in ragione di una loro diversa provenienza e di una forma diversa in cui

si rendono disponibili. Provengono infatti da domini percettivi diversi dal mio, quando

non addirittura da realtà immaginate o simulate e ciò che più conta, la forma in cui si

rendono disponibili è quella di un linguaggio che me li comunica.

Scopriamo come i rischi che stiamo paventando e i deficit che stiamo denunciando

rimandino l’uno all’altro. I rischi di una spiegazione dei processi cognitivi che non si

limiti riconoscerli possibili solo quando si diano le condizioni di una elaborazione

cerebrale delle informazioni su cui si basano, ma che su dati di natura neurofisiologica,

decontestualizzandoli li appiattisca, sono i rischi di quella decontestualizzazione che i dati

in questione inevitabilmente subiscono quando si ammette che altro orizzonte di

riferimento non possano avere se non quello di un sistema di relazioni tra organismi

materialmente presenti in un medesimo spazio e che a null’altro starebbero mirando se

non a una disciplina dei loro rapporti in grado di favorire processi di reciproco

adattamento e di progressiva integrazione. D’altra parte il deficit di attendibilità e di

fenomenologica adeguatezza a cui il modello connessionistico di spiegazione dei nostri

processi cognitivi va incontro in quelle sue versioni oggi dominanti che a una tale

restrizione dell’orizzonte di senso entro il quale si producono e del senso che pertanto

possa valere non sanno sottrarsi, è una conseguenza inevitabile della rinuncia a

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riconoscere il valore non unicamente strumentale di quei linguaggi verbali nei quali e

grazie ai quali comunichiamo. Conoscere significa sfruttare informazioni che solo in

parte i nostri sensi ricevono da rapporti di organica transazione con l’ambiente

circostante perché non meno numerose sono quelle che ricevono indirettamente da un

rapporto di comunicazione con altri soggetti e dunque da un rapporto che presuppone il

nostro e loro costituirsi al modo di altrettanti soggetti, nelle forme di uno di quei

linguaggi che un tale rapporto consentono di istituire e le cui caratteristica è

precisamente quella struttura proposizionale che Churchland ha denunciato come

dominante nelle cosiddette “ontologie familiari (o parrocchiali) del senso comune”; così

ci ha insegnato a chiamarle, in un’accezione negativa che a questo punto non possiamo

più condividere avendo a suo dispetto scoperto trattarsi dell’unica forma di ontologia

che comune, nel senso di condivisibile può pretendersi.

Kant ci ha insegnato a pensare che linguaggi di questo tipo stiano in ogni momento

assolvendo una funzione non meramente epistemica ma trascendentale. Era certamente

convinto come tutti i seguaci di teorie non materialistiche della conoscenza che quei

linguaggi a struttura proposizionale fossero anche il mezzo più idoneo per tentare di

carpire alla realtà i segreti, le leggi della sua formazione. Ponte migliore non riusciva a

immaginare tra le presunte leggi di un pensiero, vincolato a una sua immutabile essenza e

le leggi non meno immutabili della realtà che è tenuto a pensare. Ma queste sue

convinzioni restano sullo sfondo, sullo sfondo di quella logica dell’esperienza che ha

cercato di rendere riconoscibile e su cui più gli premeva richiamare l’attenzione. Alle

acquisizioni di quella sua logica dell’esperienza, estrapolandola dai contesti di una logica

generale e di un’epistemologia con cui ha dovuto convivere abbiamo cercato di riferirci,

facendola coincidere con la prospettiva di una logica trascendentale in senso proprio,

trascendentale perché chiamata a mostrarci come e perché si producano condizioni che

si prestano ad essere pensate proprie di un’esperienza überhaupt. La nostra convinzione

è che solo a quel livello, solo quando tenta di chiarire come e perché arrivino a costituirsi

condizioni al di fuori delle quali nessuna esperienza potrebbe vantare quelle

caratteristiche che ognuna ha per noi; solo a quel livello Kant arriva a importanti e forse

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definitive scoperte.

Una delle quali, di ordine trascendentale, che più ha attirato la nostra attenzione,

riguardava proprio la funzione che i nostri linguaggi proposizionali assolvono quali modi

non surrogabili di istituire orizzonti di senso al di fuori dei quali le nostre esperienze e

con esse le nostre condotte conoscitive non potrebbero godere delle prerogative di cui

godono. È una funzione questa che linguaggi di quel tipo sono impegnati ad assolvere e

continuerebbero ad assolvere anche quando fossimo arrivati a riconoscerli

epistemicamente impotenti, cioè incapaci di garantire un radicamento ontologico stabile

alle informazioni che ci consentono di acquisire. A questa loro funzione inalienabile che

consisterebbe nel rendere disponibili non conoscenze ontologicamente fondate, ma

contesti ontologici funzionali alla loro acquisizione, Barale vorrebbe alla fine rimandare i

nostri amici materialisti; a una funzione di questi linguaggi, a una funzione che nessuno

di loro si è mai sognato di riconoscere ai linguaggi proposizionali con cui ordinariamente

comunichiamo, il cui riconoscimento potrebbe indicare loro una via d’uscita dall’impasse

in cui si sono cacciati e che consiste nell’apparente impossibilità di allargare

quell’orizzonte di senso dei nostri processi cognitivi che hanno ritenuto di poter

costruire e ritagliare sulla misura non di un uomo ma del suo cervello, senza dover

ammettere la presenza in noi di sistemi operativi diversi da quello che con le potenzialità

materiali del nostro cervello coincide.

Barale si limiterà a ricordare le due condizioni che dovrebbero darsi affinché una

collaborazione tra gli eredi di una filosofia trascendentale e i connettivisti più radicali

diventi pensabile. Filosofi con le nostre formazioni dovrebbero rinunciare a pensare che

i linguaggi a cui sono più affezionati siano maniere di far funzionare il cervello in grado

di coincidere con suoi stati funzionali permanenti (modello rappresental-

computazionale) del tipo di quelli ancora previsti laddove a un programma operativo nel

cervello inscritto e che mente veniva chiamato, ci si riteneva autorizzati a pensare. Di

maniere di far funzionare il cervello nel nostro caso si tratterebbe che non

pretenderebbero di coincidere con un programma di lavoro naturalmente dato, ma solo

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con le logiche di linguaggi convenzionalmente stabiliti allo scopo di rendere disponibili

forme di comunicazione, orizzonti di senso nei quali le prestazioni che al nostro cervello

chiediamo, possano trovarne uno proprio e con esso prospettive con cui possano

risultare funzionali.

Quanto ai sostenitori di un materialismo cognitivo dovrebbero riuscire ad ammettere che

il cervello non procede secondo una qualsivoglia logica materiale ad ogni altra

impermeabile, dovrebbero non confondere con una logica in esso inscritta, le leggi di

natura fisica che è tenuto a rispettare per poter entrare nell’uno o nell’altro degli stati

operativi che gli è concesso assumere. Evitare una tale confusione e ammettere che la

fisica di un cervello non è identificabile con una logica, significherebbe aprirsi alle

possibilità che di logiche diverse con essa compatibili e pertanto in essa implementabili

ma da essa non derivabili, la fisica di un cervello si presti a farsi carico. Rendersi

disponibili a una tale ipotesi significherebbe in fondo prendere atto di un’evidenza,

avvalersi di determinati linguaggi verbali significa compiere operazioni che non

potremmo compiere se il nostro cervello non fosse in grado di implementarle e che

null’altro modificano se non la prospettiva in cui è chiamato a operare. A offrirgliela non

è più il “perceptual environment” che le circostanze gli hanno costruito attorno ma

l’orizzonte irriducibilmente intersoggettivo di un mondo in cui l’altro cessa di essere un

corpo tra i molti di cui il nostro deve tener conto, ed esige di essere pensato come un

qualcuno a cui non possiamo riferirci se non assumendo che anche noi lo siamo.