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1 Editoriale Benedetta Mattiacci Presidente Collegio IPASVI L editoriale IPASVI itorniamo al nostro appuntamento “cartaceo”, ovvero al for- mat tradizionale de “La Parola a Noi”, dopo una pausa forzata. Ci mancava. Vi mancava come avete voluto testimoniarci. Naturalmente, ci proponiamo di offrirvi uno spaccato di informa- zione e di comunicazione, a cominciare dalla ventilata proposta di soppressione dell’articolo n.49 del Nuovo Codice Deontologico, che afferma: “L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compen- sa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”. Non sappiamo da chi sia partita questa proposta, quindi non conosciamo le motivazioni di base. Di certo, l’articolo n.49 “tutela” l’attività professionale e “limi- ta” gli interventi de-professionalizzanti ai soli casi che “possono eccezionalmente verificarsi”. L’articolo si rivela uno strumento di tutela della professione, quindi una conquista, difficile da strumentalizzare in quanto regola datasi dalla professione. Dipende solo ed esclusivamente da noi, così come l’osservanza. La soppressione è una ipotesi, la riduzione dei posti letto e la riconversione delle strutture ospeda- liere di Massafra e di Mottola sono, invece, realtà che possano preoccupare non poco gli Infermieri, in mancanza di una pianificazione appropriata del personale infermieristico. Non dubitiamo, tuttavia, che quanti preposti alla organizzazione e piani- ficazione abbiano a cuore l’ottimizzazione delle risorse infermieristiche, delle pre- stazioni e del benessere psico-fisico degli infermieri, ma non solo, anche dei citta- dini fruitori. Purtroppo, la nota dolente è rappresentata dalla contrazione della spesa sanitaria, contenuta nel Piano di Rientro, di cui potrete leggere in uno degli articoli del nostro giornale. Ci preoccupa perché rischia di creare difficoltà a tutti gli in- fermieri neo-laureati, per i quali c’è il rischio concreto di uno scenario tristemente noto: la migrazione per lavoro. Noi non vogliamo, perché è una sconfitta per il nostro meridione, è la perdita di risorse a beneficio di altre realtà. R

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Editoriale

Benedetta MattiacciPresidente Collegio IPASVI

L’editorialeIPASVI

itorniamo al nostro appuntamento “cartaceo”, ovvero al for-mat tradizionale de “La Parola a Noi”, dopo una pausa forzata. Ci mancava. Vi mancava come avete voluto testimoniarci.

Naturalmente, ci proponiamo di offrirvi uno spaccato di informa-zione e di comunicazione, a cominciare dalla ventilata proposta di soppressione dell’articolo n.49 del Nuovo Codice Deontologico, che afferma: “L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compen-sa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verifi carsi nella struttura in cui opera. Rifi uta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”. Non sappiamo da chi sia partita questa proposta, quindi non conosciamo le motivazioni di base. Di certo, l’articolo n.49 “tutela” l’attività professionale e “limi-ta” gli interventi de-professionalizzanti ai soli casi che “possono eccezionalmente verifi carsi”. L’articolo si rivela uno strumento di tutela della professione, quindi una conquista, diffi cile da strumentalizzare in quanto regola datasi dalla professione. Dipende solo ed esclusivamente da noi, così come l’osservanza. La soppressione è una ipotesi, la riduzione dei posti letto e la riconversione delle strutture ospeda-liere di Massafra e di Mottola sono, invece, realtà che possano preoccupare non poco gli Infermieri, in mancanza di una pianifi cazione appropriata del personale infermieristico. Non dubitiamo, tuttavia, che quanti preposti alla organizzazione e piani-fi cazione abbiano a cuore l’ottimizzazione delle risorse infermieristiche, delle pre-stazioni e del benessere psico-fi sico degli infermieri, ma non solo, anche dei citta-dini fruitori. Purtroppo, la nota dolente è rappresentata dalla contrazione della spesa sanitaria, contenuta nel Piano di Rientro, di cui potrete leggere in uno degli articoli del nostro giornale. Ci preoccupa perché rischia di creare diffi coltà a tutti gli in-fermieri neo-laureati, per i quali c’è il rischio concreto di uno scenario tristemente noto: la migrazione per lavoro. Noi non vogliamo, perché è una sconfi tta per il nostro meridione, è la perdita di risorse a benefi cio di altre realtà.

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L’Assessore alle Politiche della Salute, sulla base dell’istruttoria espletata dal Dirigente dell’Uffi cio Rap-porti Istituzionali e confermata dal Dirigente del Servizio Programmazione Assistenza Ospedaliera e Specialistica, riferisce quanto segue:

Il D.Lgs. 502/1992 s.m.i., all’art. 2, co. 1, attribuisce alle Regioni l’esercizio delle funzioni legislative ed am-ministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera, nel rispetto dei principi stabiliti dalle leggi na-zionali.La Regione Puglia, con Legge Regionale 19 settembre 2008, n. 23, ha approvato il Piano Regionale di Salute 2008-2010 che, con riferimento all’assistenza ospedaliera, determinava uno standard di posti letto pari a 4,5 p.l. per mille abitanti e prevedeva una riorganizzazione della rete ospedaliera per ambiti territoriali (compren-sorio; provincia; macro-area) e tipologie assistenziali (ospedali di primo livello o di base; ospedali di livello in-termedio; ospedali di riferimento provinciale e/o regionale), disponendo altresì una riconversione in strutture sanitarie territoriali degli stabilimenti ospedalieri con una dotazione inferiore a 70 posti letto.L’Intesa Stato-Regioni 3 dicembre 2009 (Patto per la Salute 2010-2012) recepita dalla L. 191/2009 (Finan-ziaria 2010) è intervenuta in materia di razionalizzazione della rete ospedaliera ed incremento dell’appropria-tezza dei ricoveri, al fi ne di promuovere il passaggio dal ricovero ordinario al ricovero diurno e dal ricovero diurno all’assistenza in regime ambulatoriale nonché di favorire l’assistenza residenziale e domiciliare. A tal fi ne, l’art. 6, co. 1 della predetta Intesa ha disposto, con decorrenza 31/12/2010 per le Regioni sottoposte a piano di rientro e 30/6/2011 per tutte le altre Regioni, la riduzione dello standard di posti letto a 4 p.l. per mille abitanti, comprensivi di 0,7 p.l. per mille abitanti per la riabilitazione e lungodegenza post-acuzie, ed il relativo adeguamento delle dotazioni organiche dei presidi ospedalieri pubblici.

PIANO DI RIENTRO Deliberazione della Giunta Regionale 15 dicembre 2010 n. 2791

Piano di rientro e di riqualifi cazione del Sistema Sanitario Regionale 2010-2012Regolamento di riordino della rete ospedaliera della Regione Puglia per l’anno 2010. Adozione con procedura d’urgenza

di Emma Bellucci Conenna

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Successivamente la Regione Puglia ha elaborato, ai sensi dell’art. 1, co. 180 della L. 311/2004 Legge Fi-nanziaria 2005), richiamato dall’art. 2, co. 97 L. 191/2009 (Legge Finanziaria 2010), il “Piano di rientro e di riqualifi cazione del Sistema Sanitario Regionale 2010-2012” con l’allegato Programma Operativo, che è stato oggetto dell’Accordo del 29/11/2010 tra il Ministro della Salute, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il Presidente della Regione Puglia.Detto Piano di rientro, approvato con DGR n. 2624 del 30/11/2010, prevede, tra le iniziative fi nalizzate al per-seguimento dell’equilibrio economico, il riordino della rete ospedaliera regionale, da cui si attendono ricadute economiche associate alla riduzione dei ricoveri, alla riduzione dei posti letto per acuti, alla trasformazione o disattivazione di stabilimenti ospedalieri.

Il riordino della rete ospedaliera introdotto dal Piano di rientro prevede, entro il 31/12/2010, le seguenti azioni: - disattivazione di 1.411 posti letto, di cui 1.224 per acuti e 187 per post-acuti, - chiusura di 15 stabilimenti ospedalieri; - riconversione di 3 stabilimenti ospedalieri in strutture sanitarie territoriali.Entro il 31/12/2011 è prevista poi la disattivazione di 500 posti letto, di cui 130 negli Enti Ecclesiastici e 370 nelle Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Regionale.Entro il 31/12/2012, infi ne, è prevista la disattivazione di ulteriori 300 posti letto delle Case di cura private accreditate, previa revisione delle pre-intese approvate con DGR n. 813 del 13/6/2006.Le azioni programmate per gli anni 2011 e 2012 saranno, comunque, oggetto di successivi provvedimenti regolamentari.Il citato Accordo del 29/11/2010 tra il Ministro della Salute, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il Presidente della Regione Puglia, all’art. 1, co. 3, ha previsto l’impegno della Regione a presentare entro il 15 dicembre 2010 i provvedimenti relativi al riordino delle rete ospedaliera.Si propone pertanto alla Giunta Regionale, attesa la cogenza dei termini temporali suindicati, di adottare con procedura d’urgenza il Regolamento di riordino della rete ospedaliera della Regione Puglia per l’anno 2010, allegato al presente schema di provvedimento quale sua parte integrante e sostanziale, nonché di richiede-re, nei termini di cui di cui all’art. 44, co. 3, della L.R. 7/2004 – “Statuto della Regione Puglia”, il parere della Commissione Consiliare competente per materia.

Abbiamo ritenuto opportuno riportare uno stralcio del Piano di Rientro della regione Puglia, seguito all’accordo fi rmato in dicembre con il Governo, con il quale la Regione si è impegnata a modifi care le leggi regionali n.11 e n.12 del 2010, per adeguar-si ai rilievi di legittimità formulati dal Consiglio dei Ministri il 18 novembre 2010, oltre che ad attuare iniziative per un contenimento dei costi pari a 450 milioni di euro. Vediamo i punti salienti.Promuovere il passaggio dal ricovero ordinario al ricovero diurno e dal ricovero diurno all’assistenza

in regime ambulatoriale nonché favorire l’assisten-za residenziale e domiciliare.Ridurre lo standard di posti letto a 4 p.l. per mil-le abitanti, comprensivi di 0,7 p.l. per mille abitanti per la riabilitazione e lungodegenza post-acuzie, e relativo adeguamento delle dotazioni organiche dei presidi ospedalieri pubblici.“Piano di rientro e di riqualifi cazione del Sistema Sanitario Regionale 2010-2012”, ovvero:disattivazione di 1.411 posti letto, di cui 1.224 per acuti e 187 per post-acuti,

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IPASVIchiusura di 15 stabilimenti ospedalieri;riconversione di 3 stabilimenti ospedalieri in strut-ture sanitarie territoriali.Entro il 31/12/2011 è prevista poi la disattivazione di 500 posti letto, di cui 130 negli Enti Ecclesiastici e 370 nelle Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Re-gionale. Per quello che riguarda la Asl Ta, il Piano ha portato ad una riduzione dei posti letto passati da 1313 a 1044.

POSTI LETTO TOTALI ASL TA

OSP. HSP \ RIDET. NoteCastellaneta 156 112Mottola 68 0Massafra 32 0Martina Franca 146 138Taranto SS.Annunziata + Moscati 598 573 (374 SS. Ann. + 199 Mosc.)Grottaglie 153 100Manduria 160 121TOT. 1313 1044

Ha prodotto, altresì, la contestatissima (da esponenti cittadini, politici e non, e da OO.SS. per il mancato coinvolgimento nella destinazione, per cui l’atto è defi nito unilaterale) riconversione degli ospedali di Mottola e di Massafra, “il primo - afferma il dott. Colasanto, commissario della Asl Ta- ogget-to di una sperimentazione gestionale per individua-re un soggetto privato, di comprovata esperienza nel settore riabilitativo, a cui affi dare la realizzazio-ne dell’intero progetto, atteso che recepire nuove ri-sorse economico-fi nanziarie nelle attuali contingen-ze del bilancio è pressoché impossibile, per cui la proposta organica di questo management è l’unica in grado di dare un signifi cato funzionale vero alle risorse pubbliche impegnate (lo spreco è di aver avviato un progetto di costruzione senza sapere con precisione la “mission” che la struttura doveva avere, mantenendo in piedi una “parvenza” di fun-zione assistenziale); per il secondo c’è una delibera di fi ne dicembre (27 o 28) con la proposta della Asl di riconversione in Struttura di Servizi Territoriali”, essenziali dal momento che il Piano punta alla de-ospedalizzazione ed all’incremento dell’assistenza in regime ambulatoriale, residenziale e domiciliare.Quanto alla destinazione del personale infermieri-stico?“Per Mottola- aggiunge il commissario - il percorso prevede che il personale venga comandato presso il gestore - si ripropone il modello San Raffaele - o ricollocato sul territorio. Per Massafra si procederà alla pura applicazione del contratto di lavoro che

prevede criteri concordati con le OO. SS. per la ri-collocazione in strutture del distretto”.Vogliamo rammentare che il rapporto Era (Epide-miologia e ricerca applicata), presentato il 2 dicem-bre a Roma e realizzato da Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Istat, Università di Tor Vergata e dalla Nebo Ricerche, assegna alla nostra regione la maglia nera per i ricoveri inappropriati, con un tasso del +13% rispetto alla media naziona-

le (chi nasce nel sud ha il 40% di probabilità in più degli abitanti del centro nord di passare una giorna-ta in ospedale).“Indubbio che questo Piano presenti punti virtuo-si a cominciare dalla razionalizzazione dei servizi, ovvero taglio degli sprechi e delle inutilità sul piano assistenziale, contenimento della spesa per alcuni esami e implementazione per altri – commenta il dott. Patrizio Mazza, vice-presidente della Com-missione regionale Sanità – Meno soldi signifi ca ragionare di più, fare virtuosismi, il che equivale a fare cose più appropriate, meno costose che ren-dono di più sul piano assistenziale. Ricoverare un pz. per 15 giorni per un esame è assurdo, perché con un piano di ricovero si possono dimezzare i giorni; i costi si riducono se gli esami vengono fat-ti ambulatorialmente. Necessario il coinvolgimento dei medici nelle terapie antibiotiche, allo scopo di ridurre l’uso dei medicinali con riduzione dei costi. Le polemiche sulla chiusura degli ospedali deve tener conto di una platea di fattori e dell’esisten-za dei ricoveri impropri, oltre il 50%, che toglie ri-sorse all’assistenza quotidiana di soggetti deboli. Dobbiamo, allora, spostare il concetto di assistenza dall’ospedale al territorio, rimuovendo il concetto, instillato nella gente, che l’assistenza è solo quel-la ospedaliera. L’assistenza è quella quotidianità di prevenzione, è non far venire la malattia, cosa che implica scelte anche economico-sociale, è far vive-re “meglio” i cittadini”, arrivando a rimuovere “ma-lattie legate all’ambiente”.

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La dirigenza delle professioni sanitarie è stata di recente tema di un convegno organizzato dalla Asl Ta come momento di confronto dei

modelli gestionali di direzione delle professioni sanitarie della nostra regione E’ una occasione oltremodo ghiotta per la possibilità di crescita e di acquisizione di esperienze collaudate per una presa in carico globale della persona, in specie della persona con problematiche complesse.Non dimentichiamo che, ad esempio, il Servizio Infer-mieristico della nostra ASL è neonato, abbisognevole di modelli di confronto e di riferimento, nonché di in-tegrazione. Comunque, la nascita di questo servizio è un fatto positivo e, come Collegio, non possiamo che plaudire alla realizzazione dei dettati della Legge 251/2000.Allora, soddisfazione nel presente che, però, non deve essere ritenuto punto di arrivo, ma punto di par-tenza per un percorso da ottimizzare, ad esempio, con la costituzione di quella che in altre regioni è real-tà, ovvero, una area specifi ca dell’Agenzia Sanitaria Regionale che dia le linee di indirizzo per il governo clinico.Per governo clinico si intende il sistema attraverso il quale le organizzazioni del S.S.N. hanno la piena re-sponsabilità del miglioramento continuo della qualità dei servizi, degli standards assistenziali, dell’appro-priatezza delle cure e della creazione di un habitat idoneo a sviluppare l’eccellenza dell’assistenza sani-taria, che deve essere omogenea su tutto il territorio nazionale così come recitano le leggi di riforma sani-taria 502/92 e 517/93.Questo l’auspicio .Nel contempo, la proposta del nostro Consiglio Direttivo è orientata verso la creazione di una cellula sperimentale provinciale in maniera tale da poter es-sere individuata come luogo della buona prassi con-divisa culturalmente ed attivata omogeneamente sul territorio provinciale, esportabile a livello regionale.Dunque, dar vita al governo clinico che detta le linee di indirizzo per le peculiarità assistenziali e crea quel-li che si chiamano percorsi assistenziali, omogenei sull’intero territorio regionale per la ottimizzazione dell’offerta sanitaria.Ad esempio il percorso per l’emodinamica, il percorso per il cateterismo vescicale, il percorso per l’infarto

del miocardio e, perché no, un percorso per l’amian-to… E noi, infermieri della provincia ionica, sappia-mo bene che esistono moltissimi malati per l’amianto senza che possano essere curati, ci risulta, con le migliori evidenze scientifi che.Quindi alla base dei percorsi dalle EBN alle EBHC ovvero la pratica assistenziale tarata sulle evidenze scientifi che acclarate.In questa linea propositiva, quale il ruolo del Collegio IPASVI di Taranto?Abbiamo molto gradito l’invito a collaborare. E pen-siamo di aver individuato il nostro ruolo attraverso la collaborazione quale studio e ricerca delle migliori prassi di assistenza sanitaria, ospedaliera e territoria-le, nazionale ed internazionale che possano essere mutuate nella nostra realtà sino a creare uno stile che possa chiamarsi e possa essere identifi cato come sti-le di assistenza ionica.Di quanto appena espresso, sono naturalmente por-tavoce, così come naturalment la realizzazione del progetto deve essere irradiabile quanto meno a livel-lo regionale, fermo restando la nostra costante solle-citazione presso l’ARES affi nché non prescinda nei suoi interventi a lavorare per una omogeneizzazione dei protocolli di intervento.La salute dei Cittadini non può, infatti, dipendere da spurie contingenze risultanti dalle mode del momento o dal fortuito incontro con staff di “brave persone”Vale qui la pena di ricordare che i Servizi Infermieri-stici originano per migliorare la qualità dell’assistenza da erogare ai Cittadini, i quali non possono che ve-dere rispettato l’esercizio del diritto alla salute che è diritto alla vita.

“CREAZIONE DI UNA CELLULA SPERIMENTALE PROVINCIALE”

di Benedetta Mattiacci

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IPASVIACCETTARE LA NUOVA IMMAGINE DI SÉ NELLA PATOLOGIA ONCOLOGICA

Estratto della tesi di laurea in Infermieristica Università degli Studi di Bari - Polo di Taranto - Anno Accademico 2009-2010

D’altronde, il DM 734/94 concernente il profi lo professionale dell’infermiere, il Patto infermiere cittadino del 1996,

il Codice Deontologico redatto dalla Federazione Nazionale Collegi IPASVI nel 2009, gli Obiettivi della formazione infermieristica (ordinamentodidattico), indicano l’importanza di stabilire e man-tenere relazioni effi caci con la persona assistita.Per evidenziare ulteriormente l’importanza della natura relazionale dell’infermiere, ho sentito anche la necessità di mettere in risalto che, con l’evolu-zione del concetto di salute dalla visione meramen-te organicistica a quella olistica, il “prendersi cura” di una persona non può prescindere dalla compo-nente relazionale.Durante tutto il percorso assistenziale relativo al paziente oncologico, emerge costantemente la ne-cessità di una presa in carico “globale”.Tra i bisogni emergenti, ne ho individuato e scelto uno, ossia, quello che scaturisce dall’alterazione della percezione dell’immagine di sé.BISOGNO: Stima e autostima

D.I. Alterazione dell’immagine del proprio corpo e dell’autostima legate a modifi cazioni dell’a-spetto fi sico, delle proprie funzioni e dei ruoli.OB. Miglioramento dell’immagine del corpo e dell’autostima identifi cando le potenziali mi-nacce e discutere delle preoccupazioni.

Considerando “il cambiamento fi sico” come fulcro centrale di questa tesi, bisogna tener conto che l’e-sperienza di malattia incrina sempre, più o meno profondamente, il concetto di sé e le sue compo-nenti e, una patologia oncologica, può creare cam-biamentifi sici alla persona diffi cili da accettare , per cui non

di Lucia Padovano

ho potuto far a meno di soffermarmi sulla caduta dei capelli, effetto spiacevole di molti farmaci che-mioterapici, un aspetto quasi identifi cativo per il malato di cancro e evento traumatico soprattutto per le donne.Per quanto riguarda la parte sperimentale, la mia attenzione è stata catturata dalle donne tratta-te per carcinoma mammario che, in virtù del loro cambiamento fi sico, devono rielaborare la propria femminilità, la propria sessualità e i ruoli che girano intorno ad essa: moglie e madre.Non a caso, anche la ricerca medica si muove verso una chirurgia sempre più conservativa e ricostrutti-va, per migliorare i risultati funzionali e estetici.Il mio campione di indagine, è stato dunque sele-zionato tra queste donne.Questa scelta è stata tristemente spinta anche dai “numeri” relativi all’incidenza del carcinoma mam-mario che sono, purtroppo, drammaticamente grandi. Per questo la decisione dell’indagine con-dotta presso il Presidio Ospedaliero CentraleDell’ASL di Taranto ed è stata svolta utilizzando in parte il questionario “THE BODY IMAGE SCALE”, ossia una traduzione elaborata di un questionario inglese accreditato e in parte con domande relative all’assistenza.

IL CAMBIAMENTO FISICO NELLA PATOLOGIA ONCOLOGICAL’esperienza di malattia incrina sempre, più o meno profondamente, il concetto di sé e le sue compo-nenti, tuttavia può essere talvolta incompatibile con una qualità di vita ritenuta accettabile da sé e dagli altri.Molto spesso il cambiamento fi sico diventa la con-

Questa tesi è stata sviluppata partendo dall’ipotesi che l’infermiere è la fi gura profes-sionale che si presta meglio alla valutazione della risposta del paziente al cambia-mento fi sico e alla rilevazione dei bisogni assistenziali che ne derivano.Il lavoro che ho svolto vorrebbe sottolineare la dimensione relazionale della profes-sione infermieristica che, purtroppo, nel nostro sistema sanitario non riesce ad avere il giusto “spazio”, occupato quasi totalmente dalla dimensione tecnica.

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ferma alla diagnosi di tumore che rappresenta di per sé un evento traumatico.Questo obbliga il paziente a superare la fase di ne-gazione della malattia mettendolo in grossa diffi -coltà perché costretto a rielaborare la sua immagi-ne corporea, oltre che a convivere con molte paure, stati d’animo e proiezione nel futuro che diventa qualcosa di incerto.La “prescrizione”, non basta ad aiutare una perso-na a ritrovare l’equilibrio psicofi sicodi cui ha bisogno, perciò il trattamento medico del-le neoplasie viene attuato con diversemodalità: chemioterapia, ormonoterapia, immuno-terapia, uso di modifi catori della risposta biologica.Si deve pensare al trattamento medico, quale la chemioterapia che comporta al di là del malessere fi sico importanti effetti collaterali che vanno ad in-cidere sulla fi sicità della persona, come l’alopecia.In alcuni casi può succedere che si verifi chino fe-nomeni quali caduta delle sopracciglia, delle ciglia, dei peli che ricoprono il pube e tutto il resto del corpo.Altro problema che va ad incidere sull’aspetto fi si-co della persona è la via di somministrazione della terapia. I farmaci citotossici possono venire som-ministrati attraverso la via endovenosa e orale.La somministrazione endovenosa può avvenire attraverso un accesso periferico (agocannula) o tramite un catetere venoso centrale (CVC, Port-a-

cath), a seconda delle caratteristiche del paziente, del protocollo terapeutico, del farmaco.Di fatto i pazienti subiscono vari prelievi e posizio-namenti di aghi cannula che possono portare alla formazione di importanti stravasi vascolari (ema-tomi), possono subire il posizionamento di un ca-tetere venoso centrale, tutti eventi che in qualche modo deturpano la propria fi sicità.

L’IMMAGINE CORPOREA“La nostra epoca è caratterizzata fortemente dalla riscoperta del corpo.[…] Il corpo deve essere efficiente, sportivo, alla moda, sem-pre in forma,sempre pronto.” (A. Scala, 1998).Se si pensa che l’immagine corporea è infl uenzata da sensibilità (dolore, piacere, tatto), controllo mo-torio, associazione pensiero-azione emozioni, fat-tori psico-sociali, è semplice dedurre che quando si ha un’alterazione di una qualsiasi parte corpo-rea, vi è un’immediata ripercussione sull’immagine corporea, in quanto l’evento lesivo comporta delle reazioni emotive psicologiche e sociali con conse-guente alterazione al processo di adattamento.Questa alterazione dell’immagine corporea provo-ca, generalmente, sentimenti di angoscia, di dolo-re e di depressione, che devono essere elaborati con molto impegno e determinazione, per poter ricostruire una nuova immagine di sé. Questo dif-

L’équipe infermieristica e la coordinatricedel D.H. Oncologico - Ospedale Moscati.

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IPASVIfi cile percorso, può essere agevolato da un’ade-guata educazione terapeutica, trasmessa anche dall’infermiere, una delle poche fi gure responsabili dell’assistenza, che ha la possibilità di valutare la risposta del paziente alla salute e alla malattia, la risposta della famiglia, le implicazioni sociali della malattia, gli adattamenti psicologici.

LA PERSONA OLISTICA E IL DOLORE GLO-BALENel lontano anno 1170, sul portale del più antico ospedale di Parigi, l’Hotel Dieu, si leggeva, ed è ancor oggi visibile, la scritta“Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti cu-rerò”.Curare non signifi ca necessariamente guarire. E’ anche importante rispettare la dignità della per-sona e mantenere il benessere mentale e sociale, potenziando le capacità psicofi siche, nel rispetto delle condizioni ambientali e relazionali, dei nostri pazienti.Chi si prende cura della persona sofferente deve individuare insieme alla persona stessa il suo sollie-vo, agendo nel rispetto della medesima ed offrendo un intervento personalizzato che miri a considerare al centro del rapporto di cura globale la persona olistica con i suoi bisogni.Per “persona olistica” si intende la persona nella sua interezza con le componenti fi siche, psichiche, sociali e spirituali.Per attenuare questo dolore globale ed ottenere il sollievo non si possono limitare le cure al solo trat-tamento farmacologico ma è essenziale la relazio-ne d’aiuto attraverso la quale ci si rapporta all’intera persona, nella sua realtà umana e socio-culturale.

PERSONALIZZAZIONE DELL’ASSISTENZARaggiungere gli obiettivi che una assistenza infer-mieristica a 360° richiede, signifi ca aver dedicato al paziente il massimo delle risorse personali e di tut-ta l’equipe, nonché la consapevolezza di aver assi-stito la persona in tutta la sua integrità psico-fi sica.È opinione ampiamente diffusa che, fra gli obiettivi perseguiti dal servizio sanitario, debbano essere incluse l’umanizzazione e la personalizzazione dell’assi-stenza.Con tale locuzione si vuole indicare che i processi di miglioramento della qualità, nei diversi ambiti della Sanità, non possono limitarsi ad affrontare la di-mensione “oggettiva” delle prestazioni sanitarie, cioè l’insieme delle caratteristiche scientifi che e tecnologiche, per loro natura più facilmente misu-rabili, delle attività professionali.

Il giudizio di qualità di una prestazione include ne-cessariamente elementi “soggettivi”, a cominciare dalle percezioni positive sperimentate dal cliente che ac-cede ai servizi sanitari: in altre parole, il suo grado di soddisfazione.Coerentemente, i concetti “umanizzazione” e “per-sonalizzazione” sono venuti ad assumere princi-palmente, nel linguaggio sanitario, una valenza so-cio-organizzativa: ad essi si è soliti fare riferimento per indicare la necessità di superare i limiti (e le disfun-zioni) della dimensione tecnicistica di cui soffre l’o-spedale contemporaneo, come conseguenza della forte evoluzione della scienza medica nel senso del progresso tecnologico delle cure.Il concetto di “personalizzazione”, relativamen-te ai problemi della qualità nelle prestazioni sa-nitarie, non si risolve comunque nell’approccio organizzativo.Nel linguaggio dell’infermieristica, il termine “per-sonalizzazione” si è specializzato ad indicare la sostanza ed il modo dell’assistenza infermieristica: personalizzare signifi ca dunque adattare (e condi-zionare) l‟azione professionale ai costituenti sog-gettivi che lapersona esprime come portatrice di bisogni.Il problema della personalizzazione dell’assistenza infermieristica si sostanzia nel riconoscimento del bisogno di assistenza costituitosi nel singolo clien-te, in rapporto al quale le dimensioni psicologica e socio-culturale sono responsabili della traduzione in unadomanda di assistenza di tipo fondamentalmente soggettivo.Non è dunque il cliente che può o deve adattarsi all’offerta sanitaria dell’infermiere o dell’istituzione preposta alla sua cura, ma il contrario.

IL RAPPORTO FRA INFERMIERE E PAZIENTE: LA QUALITÀ DELL‟INCONTROChi lavora nell’ambito della cura in oncologia deve tenere presente lo spirito con cui il paziente fa ri-corso, abitualmente, a diverse persone nella ricer-ca di sostegno e devecomprendere che egli rivela a ciascuno spesso lati differenti di se, traducendo la complessità del-le sue emozioni, dei suoi pensieri, dei suoi giudizi sulla situazione.Sarà dunque sempre utile e vantaggioso darsi l’occasione di confrontare questi diversi punti di vista rispettando le regole della discrezione e del segreto professionale condiviso.Ciascun operatore sanitario si confronta con le esigenze talvolta contraddittorie dei suoi compiti,

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si interroga sulla pertinenza delle sue capacità.I rischi di malinteso, di confl itto tra i curanti, sono quindi importanti e possono condurre ad un ir-rigidimento degli atteggiamenti, ad una presa di distanza eccessiva e ai sintomi istituzionalmente classifi cati come sindrome di burn out, caratterizzati da negligenza nellacomunicazione (per es. nessuno informerà il pa-ziente del referto di un esame), dal non tenere nel dovuto conto la sintomatologia dolorosa portata dal paziente, da fuga e indifferenza di fronte alle manifestazioni di esaurimento emotivo del pa-ziente stesso e della sua famiglia.Il sostegno relazionale e l’intervento educativo nei confronti del paziente appartengono al ruolo pro-prio dell’infermiere.La sua funzione lo rende particolarmente vulnera-bile alle diffi coltà di cura in oncologia, a causa del confronto con la sofferenza fi sica e psicologica del paziente, con i risultati incostanti delle terapie, con l’eventualità della morte del paziente stesso, con i problemi etici connessi all’accanimento te-rapeutico ed all’eutanasia.

DIMENSIONE RELAZIONALE DELLA PROFES-SIONE INFERMIERISTICAIl ruolo dell’ Infermiere è ben specifi cato nel “Pat-to infermiere-cittadino” e nel Codice Deontologico degli Infermieri,Degli articoli ben 15 si riferiscono esplicitamente alla dimensione relazionale dellaprofessione nel rapporto con il paziente, mentre l’intero Patto infermiere-cittadino è volto a sotto-lineare obiettivi e modalità della relazione d’aiuto che si instaura tra l’operatore e il malato.Questa consonanza tra i due documenti, pur realiz-zati in due momenti diversi, non lascia dubbi circa l’ importanza che si riconosce alla dimensione rela-zionale nella professione infermieristica quale com-ponente indispensabile per poter prendersi cura della persona, del suo benessere fi sico e spirituale.

LA RELAZIONE D’AIUTOLa relazione d’ aiuto rappresenta un elemento es-senziale dell’assistenza infermieristica, essa infatti permette all’ infermiere il raggiungimento del suo scopo, cioè restituire autonomia, segno di dignità

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Masolino da PanicaleGuarigione dello zoppoFirenze, Cappella Brancacci

ed autostima alla persona.La persona che si ammala di cancro, chiede a chi la assiste, un interesse franco e autentico, calore e sincera partecipazione alla propria sofferenza fi sica e psicologica.In quest’ottica è facile comprendere quanto sia ri-levante la comunicazione non verbale, capace di veico-lare molte più informazioni, emozioni e sensazioni di quanto possa fare lacomunicazione verbale.Rogers nel 1951 ha defi nito la relazione d’aiuto come:“una relazione in cui uno dei protagonisti ha lo scopo di pro-muovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato […]; una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favo-rire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto e una maggiore possibilità di espressione”.Tra le principali caratteristiche vi troviamo empatia, calore, interessamento, accettazione e autenticità.Per interessamento s’intende “l’attenzione per l’al-tro da me”, nel campo sanitario concepito come

attenzione per il benessere di chi si cerca di aiutare e permette di considerare il dolore della persona e/o le conseguenze dolorose del suo comporta-mento, per sé o per gli altri.Autenticità signifi ca essere se stessi, senza pre-sunzioni, sapere chi e cosa si è, conoscere i propri valori guida.All’infermiere autentico è richiesto di non temere le differenze, e di conseguenza di essere capaci di tollerarle, di essere in grado di sostenere il conflitto e l’incertezza, e a volte anche di trarre piacere dal non essere sicuro di tutto in anticipo.L’empatia permette all’infermiere di comprendere il vissuto di malattia, cioè l’esperienza del paziente, e comprendere non signifi ca appropriarsene; l’em-patia consente di entrare nel mondo del malato non sostituendosi a lui.La relazione d’aiuto si caratterizza, dunque, nella capacità di ascolto attivo, attento ai bisogni di quel-la persona, nella sua storia individuale: in questo contesto, diventa molto importante “saper legge-re” attraverso i canali della comunicazione non solo verbale, ma anche non verbale e paraverbale.

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Un aspetto importante che deve essere sottolinea-to consiste nelle predisposizione ad evitare ogni pre-giudizio sulla persona, spesso basato su convinzioni personali o del gruppo sociale di appartenenza e che, di solito, si collega alla cultura, ai valori, al gra-do di scolarità alla posizione sociale.Nell’attività dell’infermiere, l’ascolto attivo può es-sere d’aiuto in due modi: innanzitutto, facilita la raccolta delle informazioni e, poi, crea ipresupposti per una buona relazione terapeutica.In particolare, una paziente portatrice di neopla-sia della mammella, richiede un sostegno psico-logico continuo, per affrontare, l’intero percorso della malattia, i cambiamenti fi sici, psichici, sociali e spirituali ad essa correlati nel miglior modo pos-sibile.L’ infermiere mediante la relazione d’aiuto, deve re-stituire speranza alla paziente, incoraggiandola se necessario nel processo di razionalizzazione della crisi.Il contatto, l’ascolto attivo, il controllo della realtà, il chiarimento dei valori diventano in tal modo parte integrante dell’assistenza infermieristicaL’infermiere e gli altri operatori sanitari svolgono un ruolo fondamentale nel processo di equilibrio che il paziente e la sua famiglia devono gestire.È molto importante quindi mantenere la massima delicatezza nelle interazioni con quei pazienti che stanno faticosamente risalendo la china della pro-pria autostimaPoiché l’esperienza di malattia è anche cambia-mento e richiesta di riadattamento, occorrono strumenti per favorire questo processo e per aiuta-re l’altro a non “distruggersi” Il counseling può essere uno di questi strumenti.

IL COUNSELINGL’OMS defi nisce il counseling come:“un processo di dialogo e di interazione duale attraverso il quale il consulente aiuta il consultante a prendere delle deci-sioni e ad agire di conseguenza, oltre a fornire una accurata e attenta informazione ed un sostegno psicologico adeguato. Il counseling è diretto ad aiutare il paziente in un momento di crisi, ad incoraggiare cambiamenti nel suo stile di vita, se necessario, proponendo azioni e comportamenti realistici, ed è volto a metterlo in grado di accettare le informazioni ansio-gene favorendo l’adattamento alle relative implicazioni” Il counseling, quindi, è intervento e prestazione di tipo relazionale.Poiché la sua fi nalità è “aiutare l’altro ed aiutarsi”, il suo setting è la dualità, la reciprocità, il vis-à-vis e il “qui e ora”Si può quindi defi nire il counseling come un parti-

colare forma di relazione d’aiuto, che ha nel collo-quio strutturato la sua caratteristica e specifi cità.L’intervento relazionale e l’intervento di counseling hanno in comune l’ ascolto attivo ed empatico, in quanto, nell’approccio relazionale se non si ascolta non si entra in rapporto, nell’approccio di counse-ling se non si ascolta non si comprende.Il counseling, come detto in precedenza, è un pro-cesso, e come tale, ha tempo e tempi, quindi fasi.Un processo di counseling si articola su tre mo-menti:

• il primo rappresentato dalla comprensione del problema,

• il secondo dall’esplorazione del problema

• il terzo dalla gestione del problema.

Alla base del processo di counseling si trova la co-municazione e, poiché la comunicazione è sempre dialogica, anche l’ascolto può avere più di una di-mensione: è l’ascolto del paziente da parte dell’o-peratore, ma anche l’ascolto dell’operatore da par-te del paziente.La comunicazione è un processo di trasmissione di “messaggi” che parte da una persona e ne rag-giunge un’altra.La comunicazione interpersonale si esprime attra-verso due modalità:

• la comunicazione verbale, cioè la parola pronunciata o scritta,

• la comunicazione non verbale, che riguarda segnali vocali e non vocali,

espressioni del viso, movimenti del corpo, gesti-immagine.Il criterio fondamentale per assumere il ruolo dell’a-scoltatore è la verifi ca della propria disponibilità a porsi in questa situazione.All’interno della relazione, possiamo riconoscere diversi benefi ci che l’ascolto effi cace può portare: si ottiene la comprensione del messaggio ricevuto, si ascolta un signifi cato che va oltre le parole, si favorisce l’empatia e, con il feed-back, si stimola l’altro a continuare l’interazione.L’ ascolto del malato, dunque, è costituito da tre elementi essenziali:

• dal prestare attenzione,

• dalla verifica della percezione,

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Prestare attenzione al malato signifi ca manifestare la massima attenzione e interesse per lui e dargli la calda sensazione che tutto ciò che egli dirà non cadrà nel vuoto ma sarà preso in attenta conside-razione.L’attenzione effi cace, inoltre, consta di quattro componenti:

1. il contatto visivo mantenuto a una distan-za confortevole per entrambi (meno di un metro),

2. la postura dell’operatore (leggermente pro-teso verso il malato),

3. l’atteggiamento calmo non distratto e non frettoloso,

4. il commento verbale che deve servire e confermare l’ascolto senza

interrompere il malato e senza cambiare l’argo-mento.La verifi ca della percezione serve all’operatore per accertare se egli ha compreso bene ciò che il mala-to ha detto, parafrasando, ricapitolando il messag-gio, oppure chiedendo chiarimenti in merito.Il feed-back verbale o non verbale serve per confer-mare al malato che il suo messaggio è stato com-preso perfettamente: questa confermaincoraggia il malato a continuare a comunicare.

IL RUOLO DELL’INFERMIEREAnche l’infermiere può utilmente utilizzare il counseling, benché il suo apprendimento è ancora lasciato all’iniziativa personale.Si tratta di una utilità e un utilizzo che affi ora dalla quotidianità e dalla continuità del rapporto col ma-lato.Il ruolo di counselor, è un ruolo che può essere svolto solo se l’infermiere accetta questo modo più nascosto e discreto, ma non meno signifi cativo e importante, che porta il soggetto a una progressiva presa di coscienza e prepara il terreno a interventi più mirati, talvolta effettuati da altri operatori.È un ruolo che richiede anche una sinergia con quello degli altri operatori, del medico in primo luo-go, sinergia ancora troppo raramente intenzional-mente ricercata e troppo spesso scambiata con la sudditanza e la passiva esecuzione delle prescri-zioni.Vi sono poi prestazioni, quali quelle di tipo preven-tivo ed educativo, per i quali il counseling è lo stru-

mento più adeguato.È strumento utile anche nel corso del processo terapeutico, a cui l›infermiere collabora, nelle si-tuazioni in cui si precisa nel soggetto in cura un interrogativo, si presenta un problema, o si rende necessario prendere una decisione.Il counseling è lo strumento per elaborare, sistema-tizzare, ristrutturare, tutto ciò; renderlo comprensi-bile e accettabile.Altrettanto dicasi per il rapporto con i parenti, per gran parte di fatto gestito dagli infermieri, spesso ancor più problematico e importante di quello con lo stesso malato. Ma anche qui ci si trova a cimen-tarsi con un territorio poco defi nito, non riconosciu-to, lasciato all›intuito, al buon senso e all›iniziativa dei singoli.Il counseling obbliga alla costatazione che tutta la formazione infermieristica, oltre che essere per gran parte teorica, è improntata al»fare».L›infermiere è ben lontano dal «pensarsi» come un operatore che usa il colloquio come strumen-to di lavoro; ma, anche se lo fosse, non è allenato alla conduzione del colloquio e alla gestione delle espressioni emotive della sofferenza, dei vissuti di ansia e di depressione che possono emergere e tende, benché non sia sempre possibile, arifuggire da tale esperienza.La «parola che cura» come forma di accompagna-mento della cura del corpo è il punto di arrivo di una ricerca che porta a superare «l›uomo dimezza-to» ma anche «l›infermiere dimezzato», incapace di instaurare con i propri malati/utenti relazioni umane signifi cative e di trarne da esse benefi cio.IL PAZIENTE ONCOLOGICO: ASSISTENZA E TRATTAMENTILA CARE DEL PAZIENTE ONCOLOGICOIl cancro è un evento traumatico che interviene bruscamente ed improvvisamente alterando l’equi-librio individuale e interpersonale ed evocando un clima di incertezza e indeterminatezza.Non riguarda soltanto l’individuo malato ma coin-volge inevitabilmente la sua famiglia che spesso diventa una “unità sofferente”.Si tratta di una prova esistenziale sconvolgente che riguarda tutti gli aspetti della vita: il rapporto con il proprio corpo, il signifi cato dato alla sofferenza, alla malattia, alla morte, così come le relazioni fa-miliari, sociali, professionali.Premesso questo, il passaggio dal “curare” una malattia al “prendersi cura” di un paziente consi-derato nella globalità della sua persona e inserito nel suo contesto familiare e sociale impone il pensare che chi sta dall’altra parte non è semplicemente il por-

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tatore di un dannocellulare più o meno complesso ma una persona che necessita in tutti i momenti dell’iter diagnosti-co-terapeutico di una presa in carico globale, at-tenta e sensibile a tutti i bisogni che direttamente o indirettamente il soggetto esprime.La comunicazione della diagnosiComunicare la diagnosi di un tumore o di una ri-presa della malattia è un momento estremamente delicato e importante del processo terapeutico.La comunicazione non passa soltanto attraverso canali di tipo verbale ma molto più sottilmente ed in modo spesso più incisivo attraverso un insieme di messaggi non verbali (il tono della voce, la ge-stualità). E’ di fondamentale importanza che non vi sia contraddizione tra questi due tipi di comunica-zione.Non deve esserci contraddizione neanche tra i membri del personale sanitario.La verità, come spesso accade in tante situazioni diverse della vita, non è solo diffi cile da ascoltare, ma è anche diffi cile da dire e, per quanto riguarda la comunicazione della diagnosi, di solito, non si esaurisce in un “atto unico” ma può avvenire gra-dualmente nel tempo, all’ interno della relazione tra medico, paziente e familiari, man mano che laconsapevolezza e i bisogni del paziente cambiano in relazione all’iter della malattia.E’ fondamentale che le informazioni fornite al pa-ziente siano sempre chiare e coerenti.Non esiste una formula adatta per tutte le situazioni (dire tutto in ogni caso oppure non dire nulla in ogni caso).Sicuramente è un diritto del paziente conoscere la malattia da cui è affetto anche per poter affrontare con maggiore motivazione le terapie spesso pe-santi che gli vengono proposte.Fornire informazioni è un atto medico con un’enor-me importanza terapeutica: oltre a ridurre l’ansia e l’incertezza, restituisce al paziente la libertà che la malattia gli ha sottratto, l’autonomia e la capacità di fare delle scelte, la consapevolezza della realtà che sta vivendo e l’adattamento alla nuova situa-zione di vita.La fase del trattamentoIl paziente oggi viene sempre più coinvolto nel pro-cesso terapeutico e nelle decisioni cliniche, spesso anche nella scelta tra diversi trattamenti.La “compliance” del paziente al trattamento è for-temente legata alla capacità del medico di motivar-lo (adeguata informazionecomunicazione).Sopratutto nei casi a buona prognosi, la paura del-la sofferenza indotta dai trattamenti può a volte prevalere sulla paura della malattia stessa. Le te-

rapie antitumorali possono essere di diverso tipo, a seconda del tumore presente, delle sue caratteri-stiche, dello stato della malattia e degli obiettivi del trattamento.Le opzioni terapeutiche più conosciute applicabili ai diversi tipi di tumore sono la chirurgia, la chemio-terapia e la radioterapia.Le neoplasie oggi si affrontano in modo integra-to, cioè associando le diverse strategie, secondo schemi ormai convalidati dalla pratica clinica.Alla chirurgia, infatti, sempre più conservativa, si affi ancano la terapia farmacologica e la terapia ra-diante.La chirurgia mantiene sempre un ruolo importante e primario nel trattamento della maggior parte dei tumori .Se per un verso l’ atto operatorio suscita numerose paure delle quali le più frequenti sono la minaccia alla propria integrità fi sica, la preoccupazione di af-fi darsi alle mani di un estraneo e di non risvegliarsi dopo l’ anestesia, d’altro lato l’atto chirurgico, pur essendo traumatico, è visto anche come tratta-mento immediato e liberatorio.In ogni caso l’ intervento chirurgico più o meno de-molitivo determina un’alterazione della propria im-magine corporea o addirittura il rifi uto del proprio corpo (mastectomia, colostomia, interventi sull’ap-parato genitale).La radioterapia è utilizzata per la cura di numerose neoplasie da sola, o, più frequentemente, associa-ta con la chirurgia o con la chemioterapia allo sco-po di aumentare la sopravvivenza dei pazienti ma anche di ridurre la necessità di interventi chirurgici demolitivi con preservazione della funzione d’orga-no e netto miglioramento della qualità di vita del paziente.Può essere fonte di paure specifi che: - timore di qualcosa che non si vede (le radiazioni); - di essere “bruciati” dalle radiazioni; - di rimanere radioattivi dopo il trattamento; - di trovarsi soli in un bunker sotto apparecchiature sofi sticate (mi può cadere addosso?).Per quanto riguarda la chemioterapia, in pas-sato era quasi esclusivamente limitata a pa-zienti con neoplasia in fase avanzata, oggi è ampiamente utilizzata come terapia preoperatoria (neoadiuvante1) o più frequentemente postopera-toria (adiuvante) e coinvolge, quindi, molti pazienti potenzialmente già guariti.Tra le paure più frequenti c’è la paura degli effetti collaterali del trattamento (può manifestarsi con vomito “anticipatorio”).

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Ma anche l’ alterazione del proprio corpo in relazio-ne alla terapia è fonte di preoccupazione e disagio.Questo perché, fondamentalmente, il paziente si vede malato di cancro (es. caduta dei capelli, posi-zionamento CVC) e anche gli altri lo vedono così.Durante le fasi del trattamento, alla luce dei nume-rosi bisogni assistenziali del paziente, è messa in risalto l’importanza di quelle fi gure professionali coinvolte nel trattamento e spesso più a lungo a contatto con il paziente quali il personale infermie-ristico ed i tecnici di radioterapia, che si trovano spesso a rassicurare il paziente anche riguardo gli effetti collaterali di tali trattamenti.Infatti, il paziente, durante il percorso terapeutico, fa abitualmente ricorso a persone diverse nella ri-cerca di sostegno, rivelando a ciascuno, spesso, lati differenti di sé.Spesso il paziente sceglie proprio l’infermiere o il tecnico per esternare le proprie emozioni, paure, ansie o per parlare di sé e della sua famiglia.La fase del follow upPiù della metà dei pazienti con diagnosi di cancro presenta un’aspettativa di vita di 20 anni o più, no-nostante ciò le conseguenze fi siche e psicologiche del cancro rimangono a lungo dopo il termine delle terapie e nonostante anche, la rassicurazione che non c’è evidenza di malattia.Purtroppo, sopravvivere al cancro spesso non si-gnifi ca tornare alla normalità di prima. Infatti, molti pazienti sperimentano uno stress psicologico lega-to proprio al termine delle terapie attive (soprattutto di quelle adiuvanti) come se si sentissero improvvi-samente privi di “protezione”.Per quanto riguarda i controlli poi, la maggior parte dei pazienti trova rassicurazione nell’incontro con il

medico che conferma che “le cose vanno bene” e ad-dirittura alcuni accettano con diffi coltà il diradarsi dei controlli nel tempo.Molti pazienti,invece, vivono con disagio i controlli per il timore di scoprire una ripresa della malattia .Può accadere che la sindrome della spada di Damocle e lo stato di preoccupazione e di ansia che ne de-rivano possono assumere le caratteristiche di una vera “seconda malattia”. Ne deriva disponibilità del personale sanitario all’ascolto e a rispondere alle domande dei pazienti per non alimentare le incer-tezze e lo stato d’ ansia.La ripresa di malattiaDi solito rappresenta un evento ancora più trauma-tizzante della diagnosi iniziale.L’ evoluzione della malattia è vissuta dal pazien-te (e anche dal medico) come un insuccesso nella consapevolezza che la possibilità di morire si fa più concreta.La comunicazione al paziente della ripresa di ma-lattia è molto più diffi cile rispetto a quella della dia-gnosi iniziale, anche in relazione alla disponibilità o meno di ulteriori armi terapeutiche.Nella comunicazione della ripresa di malattia è co-munque di fondamentale importanza che al pa-ziente non venga mai tolta la speranza, così come probabilmente è ingiusto illuderlo o ingannarlo .La fase di malattia terminaleNella fase di malattia terminale l’attenzione viene rivolta soprattutto alla qualità della vita.Per il paziente in questa fase viene prevista assi-stenza domiciliare oppure, quando non è assistibile presso il proprio domicilio viene affi dato a strutture sanitarie residenziali quali l’Hospice.In entrambi i casi, la realistica speranza di esse-re assistiti con cura, competenza e umanità fi no in fondo è un potente antidoto all’angoscia del mala-to e della sua famiglia, legata alla prospettiva di es-sere “scaricati” dall’istituzione ospedaliera, quindi abbandonati a sé stessi proprio nelle fasi fi nali.Non da meno è l’ importanza del supporto sociale (familiari, amici, volontari) per affrontare meglio le varie fasi della malattia ma soprattutto quella termi-nale. Nonché il supporto alla famiglia sia durante la fase terminale che dopo (gestione del lutto).Presa in carico del pazienteL’adattamento alla malattia ed ai trattamenti di-pende in larga misura dalla qualità dell’approccio relazionale dell’ équipe curante, che ne è artefi ce soprattutto tramite il controllo degli effetti collate-rali delle terapie, il controllo del dolore, della sinto-matologia ansiosa e depressiva.Ciò è possibile attraverso una presa in carico in-

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dividualizzata del paziente, tramite l’informazione sui vari aspetti della patologia così come tramite la valutazione dei suoi bisogni, delle sue possibilità di scelta, della sua situazione familiare e sociale.Questo presuppone da parte del personale sanita-rio anche un “ascolto attivo” della storia del pazien-te, delle sue fantasie, delle sue paure e dei mecca-nismi difensivi adottati per contenere l’ angoscia.Una modalità di “presa in carico” del paziente at-tuata attraverso la costituzione di un’ équipe multi-disciplinare di professionisti delle diverse specialità con l’elaborazione di “percorsi diagnostico-tera-peutici” per le varie patologie neoplastiche (seno-logia, neoplasie del distretto ORL, neoplasie ga-strointestinali, eccIl paziente si sente “preso per mano” proprio nel momento di maggior disagio legato dapprima al sospetto e poi alla diagnosi di cancro e condotto in poco tempo a defi nire un percorso attivo di “lotta” alla sua malattia.Sapere che la proposta terapeutica che gli viene presentata è frutto di una discussione collegiale tra diversi specialisti è per il paziente particolarmente confortante.

I TRATTAMENTI ANTITUMORALI E LA CADUTA DEI CAPELLII trattamenti antitumorali, quali la chemioterapia e la radioterapia, possono avere come effetto colla-terale la caduta dei capelli.Quest’evento è vissuto in modo molto diverso dai pazienti: per alcuni mostrare il cranio calvo non è un problema, altri, invece, preferiscono nasconder-lo facendo uso di parrucche, cappelli o foulard.La chemioterapiaIl paziente oncologico porta con se numerose pro-blematiche di gestione per quanto riguarda la tera-pia chemioterapica.In primis risulta ormai necessario l’impianto di un dispositivo port-acath per avere un accesso venoso centrale sempre disponibile e pertanto di-viene indispensabile avere personale infermieristi-co addestrato per manovrarlo (occorre minimizzare il pericolo diinfezioni e di ostruzione del port-a-cath). Prelievi ed infusioni presentano poi notevoli complicazioni do-vute alle condizioni generali scadute od alle terapie che danneggiano le vene periferiche rendendole fragili.L’infermiere diviene quindi fi gura indispensabile e di notevole ausilio in affi ancamento con l’oncologo durante questa fase.La chemioterapia consiste nell’impiego di partico-

lari farmaci anticancro, detti citotossici o antiblasti-ci, che aggrediscono le cellule tumorali inibendone, in tal modo, la crescita.Purtroppo, però, la loro azione può coinvolgere an-che le cellule sane dell’organismo, compresi i fol-licoli dei peli e dei capelli. È questa la causa della caduta dei capelli, che nel linguaggio scientifi co prende il nome di alopecia.Non tutti i farmaci chemioterapici causano la cadu-ta dei capelli, anzi talvolta il fenomeno è così lieve da essere diffi cilmente riconoscibile; in alcuni casi, invece, i capelli possono cadere parzialmente o completamente, e in altri ancora possono cadere anche le sopracciglia, le ciglia, i peli che ricoprono il pube e tutto il resto del corpo.Di solito i capelli cominciano a cadere nel giro di poche settimane dall’inizio della terapia, benché in alcuni casi, per altro molto rari, il fenomeno possa evidenziarsi nell’arco di pochi giorni.Il primo segnale sono le ciocche che cadono quan-do ci si spazzola o ci si pettina o si fa lo shampoo, e che talvolta si trovano anche sul cuscino al risve-glio.I capelli possono diradarsi o diventare secchi e fra-gili e, di conseguenza, tendono a spezzarsi facil-mente. In alcuni casi possono continuare a cadere per alcune settimane, fi no a lasciare la testa com-pletamente calva.La caduta dei capelli generalmente è reversibile e i capelli possono cominciare a ricrescere ancor pri-ma che la terapia sia conclusa ma, in casi molto rari, soprattutto dopo la somministrazione di alte dosi di chemioterapici (come per il trattamento a base di ciclofosfamide, thiotepa e carboplatino per tumori ematologici e dopo trapianto di midollo), i capelli potrebbero non ricrescere più).La radioterapiaLa radioterapia rappresenta una delle possibili cure per guarire da un tumore o per attenuare l’intensità dei sintomi che esso causa.Con la presa in carico da parte dell’ infermiere del paziente in radioterapia, gli obiettivi da raggiungere sono principalmente:- creare delle risorse educative per identifi care i fat-tori di rischio,- ricevere informazioni da pazienti e carer-giver per individuarei fattori di rischio ed i bisogni assistenziali degli utenti,- fornire informazioni laddove siano ridotte , e/o ra-dicate e/oassenti,- essere di supporto nella continuità delle cure.

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IPASVILa radioterapia utilizza radiazioni ionizzanti di ele-vata energia, che possono essere prodotte da so-stanze radioattive o da macchine.Le radiazioni distruggono le cellule tumorali e ridu-cono le dimensioni del tumore fi no alla sua scom-parsa.La caduta dei capelli durante il trattamento radio-terapico si ha solo nel caso in cui una parte o tutto il cuoio capelluto sia compreso nel campo di trat-tamento.La ricrescita in tali zone dipende dalla dose che i bulbi piliferi hanno ricevuto. Ciò vale anche per i peli in altre zone del corpo.Dopo la radioterapia i capelli dovrebbero ricrescere completamente, anche se potrebbero non essere più così folti come in passato.Altri trattamentiTalvolta anche gli altri trattamenti antitumorali, qua-li, ad esempio, le terapie ormonali o le terapie bio-logiche, possono rendere i capelli meno folti, sec-chi o fragili.

IL “BIG KILLER FEMMINILE” OVVERO IL CAR-CINOMA MAMMARIO La cura chirurgica del tumore della mammella ha conosciuto nella storia della medicina tre momenti rivoluzionari che hanno condizionato le scelte tera-peutiche in maniera determinante.Il primo risale addirittura al 1894, anno in cui una fi gura straordinaria di scienziato, W. Halsted, ebbe il merito di abbattere la barriera di rassegnazione che circondava la malattia ritenuta sino a quel mo-mento incurabile, portando alla ribalta un tipo di in-tervento, la mastectomia radicale con svuotamen-to dei linfonodi ascellari, praticato sino agli anni settanta del secolo scorso come unica opzione chirurgica per la cura del tumore della mammella.Fu l’Istituto dei Tumori di Milano, negli anni settan-ta, a presentare all’Organizzazione Mondiale della Sanità uno studio rivoluzionario, a iniziare a svilup-pare un nuovo corso della chirurgia conservativa della mammella.Tutti gli studi successivi hanno dimostrato la base razionale di questa fi losofi a nel senso che ormai è stata raggiunta la consapevolezza che la conser-vazione della mammella, oltre ad essere importan-te in termini di impatto sulla qualità della vita del-le pazienti, non condiziona il rischio di metastasi a distanza e di sopravvivenza globale rispetto alla classica mastectomia radicale.Pertanto l’intervento conservativo proposto all’at-tenzione del mondo scientifi co dal professor U. Veronesi (quadrantectomia e svuotamento dei lin-

fonodi ascellari) ha fi nito per diventare la procedura chirurgica più praticata, in alternativa alla mastec-tomia radicale, per i tumori diagnosticati in fase precoce.Grandi meriti vanno anche alle massicce campa-gne di prevenzione che permettono la diagnosi precoce.Dal 1994 la chirurgia senologica ha proseguito il suo cammino presso l’Istituto Europeo di Oncolo-gia di Milano, sviluppando ulteriormente il concet-to di “conservazione” non solo della mammella ma anche dei linfonodi ascellari.L’asportazione dei linfonodi ascellari, infatti, non è sempre necessaria essendo il rischio di metastasi ascellari strettamente correlato alle dimensioni del tumore primitivo, che oggi viene identifi cato in uno stadio sempre più precoce.Con l’asportazione sistematica dei linfonodi si cor-re il rischio di asportare inutilmente tessuto linfatico che risulta al successivo esame microscopico fre-quentemente indenne.Inoltre, la rimozione dei linfonodi ascellari, può compromettere la funzionalità dell’arto (linfedema) e aumentare il rischio di effetti collaterali, senza tener conto del fatto che non è logico asportare tessuto immunocompetente che aiuta le difese im-munitarie.Poiché non ci sono esami strumentali in grado di rivelare prima dell’intervento un eventuale interes-samento dei linfonodi, senza asportarli, recente-mente è stata messa a punto la cosiddetta tecnica del linfonodo sentinella.E’ noto che le cellule tumorali che si staccano dal tumore, seguendo le vie linfatiche, migrano all’a-scella passando da uno o più linfonodi che sono posti “a sentinella” del sistema linfatico della re-gione.Se questa stazione-sentinella risulta sana è molto probabile che anche tutti gli altri linfonodi siano in-denni ed è pertanto inutile asportarli.Per identifi care il linfonodo sentinella viene utiliz-zata una sostanza radioattiva, che viene iniettata prima dell’intervento in prossimità del tumore.Questa sostanza segue la stessa via linfatica se-guita da eventuali cellule tumorali e viene bloccata dal linfonodo sentinella.In tal modo il linfonodo può essere identifi cato, me-diante una sonda rilevatrice di radioattività.La dimostrazione intraoperatoria che il linfonodo sentinella è negativo consente di risparmiare tutti i rimanenti linfonodi del cavo ascellare con risultati cosmetici e funzionali più soddisfacenti.Il rischio relativo di recidiva nella mammella dopo

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la radioterapia viene ridotto del 75% circa rispetto alla sola chirurgia conservativa.Come per la chirurgia si è passati nel tempo ad in-terventi sempre meno demolitivi, e così in campo radioterapico si è sentita l’esigenza di sperimenta-re trattamenti più conservativi, ai quali indirizzare i casi di tumore mammario a basso rischio di recidi-va loco-regionale.L’irradiazione parziale della mammella, può essere eseguita con la radioterapia esterna, con la brachi-terapia e più di recente con la IORT, ovvero la ra-dioterapia intraoperatoria.Tuttavia, essendo la quadrantectomia fattibile solo nelle fasi precoci, la mastectomia radicale è tutt’oggi utilizzata nelle fasi avanzate.Inoltre, anche quando la rimozione è parziale l’im-magine corporea subisce modifi cazioni alle quali corrisponde un impatto psicologico non trascura-bile se la donna non è supportata da una buona struttura psichica interiore e da una rete socio- fa-miliare intorno a sé.

CAMBIAMENTO DELL’IMMAGINE CORPOREANella malattia e in particolare nel tumore al seno, il corpo assume una centralità particolare sia per la sofferenza determinata dalla malattia sia perché diviene metafora concreta di vissuti ed aspettative.Freud nel 1923 scrive che“[…] dal mondo delle percezioni emerge la percezione del proprio corpo.Anche il dolore [fisico] sembra svolgervi una certa funzione, e il modo in cui in determinate malattie dolorose si ricava una nuova conoscenza relativa ai propri organi è forse paradigma-tico per il modo in cui si perviene in generale alla rappresen-tazione del proprio corpo. L’Io è anzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie. […]Esso è prima di ogni altra cosa un Io-corpo”.In un corpo leso s’identifi cherà un Io non più inte-gro, con conseguenti cali dell’autostima, che pos-sono arrivare al punto di demandare ad altri ogni decisione, soprattutto quando il principale proble-ma è rappresentato dalla perdita del seno e dalla minaccia allapropria sopravvivenza.Il tumore al seno, come afferma Umberto Veronesi direttore scientifi co dell’Istituto Europeo di Oncolo-gia di Milano, è una delle poche malattie che rias-sume in sé tanti diversi e importanti aspetti:

• “sociali, per la sua gran diffusione; scientifi -co, per la sua complessità biologica;

• diagnostico, per la necessità di un’identifi -

cazione precoce della neoplasia;

• terapeutico, per i vari metodi multidiscipli-nari di cura;

• psicologico, per l’enorme impatto sulla po-polazione femminile;

• riabilitativo per la necessità di recupero fa-miliare e sociale delle pazienti”

L’esperienza della diagnosi di carcinoma mam-mario e dei trattamenti successivi, rappresenta un evento di crisi che sconvolge la vita di ogni donna e della sua famiglia suscitando un insieme comples-so di reazioni emotive.La risposta iniziale può essere di incredulità e ne-gazione transitorie,cui seguono paura, confusione, angoscia, rabbia, colpa, vergogna, tristezza, de-pressione, tendenza all’isolamento.Questo tipo di tumore, in particolare, toccando un organo così carico di signifi cati e intimamente legato all’identità femminile, provoca numerose e profonde ricadute psicologiche.Nell’immaginario collettivo il seno è simbolo di se-duzione e oggetto di desiderio per eccellenza, tan-to che la sua immagine viene diffusamente usata per attrarre l’attenzione e pubblicizzare gli oggetti più diversi, anche se non hanno nulla a che fare con tale immagine.Questa funzione pubblica del seno come simbolo dell’immagine femminile e della donna madre e se-duttrice, non è priva di ricadute.Per la donna il seno è un “elemento fondamentale, com-ponente della propria immagine corporea, testimone tangi-bile della propria identità, risultante di molteplici esperienze di rapporto col proprio corpo che cambia nell’adolescenza e decade in età avanzata, e con corpi altrui, oggetto di carezze e veicolo di allattamento”L’ asportazione del seno, totale o parziale, non solo genera ansia per la malattia e per i cambiamenti estetici, ma provoca anche modifi cazioni a livello psicologico conseguenti ai cambiamenti nella pro-pria realtà di donna e madre e alla perdita del sen-so d’integrità corporea e psicologica.Per alcune donne la paura di perdere tale integrità è così forte da vincere il timore della malattia e ri-fi utare le cure.Inoltre gli effetti collaterali delle terapie adiuvanti come la perdita dei capelli, la diminuzione della to-nicità epidermica, l’aumento di peso,l’interruzione del ciclo mestruale, si accaniscono ulteriormente contro i principali aspetti della femminilità e rap-presentano momenti anch’essi diffi cili da superare,

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IPASVIin quanto riducono di molto la soddisfazione per la propria immagine corporea, causando disagio e sofferenza a livello fi sico e psicologico.Parallelamente a reazioni individuali, compaiono spesso alterazioni nella vita relazionale.Nel caso in cui erano presenti già prima equilibri precari nella vita di coppia, la mastectomia può ac-centuare le diffi coltà sia nella sfera sessuale sia nel rapporto affettivo.Mentre, per una donna senza partner stabile, la mutilazione può compromettere eventuali progetti affettivi.Le reazioni variano da donna a donna, ma in ogni caso non sempre sono facili da esprimere e ancora meno è agevole, per la famiglia e gli amici, com-prenderne le implicazioni profonde.Il cancro prima di essere un’esperienza biologica, è un’ esperienza biografi ca che appartiene alla storia delle pazienti, dei loro parenti e amici

COME LE DONNE TRATTATE PER CANCRO AL SENO VIVONO I CAMBIAMENTI DEL LORO ASPETTO FISICOL’Italia, purtroppo, fi gura tra i paesi a maggior ri-schio di tumore al seno con 30.000 nuovi casi ogni anno, e dove una donna ha una probabilità su 10 di ammalarsi nel corso della vita.Fortunatamente, la prevenzione, la ricerca, le tera-pie sempre più effi caci (in particolare per le neopla-sie “ormono- sensibili”), hanno reso questo tipo di tumore uno dei più curabili:“Negli anni sono aumentate le diagnosi ma anche i successi, fi no a raggiungere in Italia una soprav-vivenza a cinque anni dell’84 per cento, un valore superiore a tutti gli altri Paesi”.Dalla lettura dei dati emerge che le donne soprav-vissute al cancro alla mammella sono in aumento. Questi numeri rendono le dimensioni del bisogno assistenziale che consegue al tumore al seno. Bi-sogno assistenziale che richiede anche il far fronte alle conseguenze provocate dall’alterazione della percezione di sé su queste donne.

SCOPO E OBIETTIVIL’indagine sulle donne trattate per carcinoma alla mammella ha lo scopo di valutare l’esistenza di bisogni legati all’alterazione della percezione di sé nelle donne con tumore alla mammella quindi il peso che assume questo aspetto sul piano assi-stenziale.Gli obiettivi convergono verso la ricerca di problemi legati al cambiamento fi sico nel setting d’indagine, cercando inoltre di capire se le conseguenze sul-

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la salute dovute a questo cambiamento ricevono la dovuta attenzione sul piano assistenziale e nell’ eventualità di una carenza in merito, cosa si po-trebbe fare.

REVISIONE DELLA LETTERATURA E STUDI A SUPPORTOUn’indagine proveniente dalla Norvegia, mostra che le donne con cancro al seno sono ancora di fronte ai soliti problemi e che più del 60% dei pa-zienti con la propria famiglia sostengono di non aver avuto relazioni d’aiuto al di fuori del proprio giro familiare o di amicizie.Eppure, uno studio che esamina le priorità di ricer-ca degli infermieri norvegesi membri della Norwe-gian Society of Nurses in Cancer Care, in linea con quelli di analoghi studi internazionali (Canada, Olanda, Stati Uniti), mette in luce che gli infermieri di oncologiatengono in gran considerazione la qualità della vita e il suo signifi cato per i pazienti oncologici.Si afferma, dunque, il divario esistente tra un inte-resse sempre crescente della ricerca circa la qua-lità della vita, e il mancato impatto che tale ricerca ha avuto nell’assistenza attuale.Una defi nizione di qualità di vita citata spesso in campo infermieristico è quella sviluppata da Carol Ferrans e MarjoriePowers, pubblicata per la prima volta nel 1985 che defi nisce la qualità della vita come «una sensazione di benessere della persona che deriva dalla soddisfazione o frustrazione nelle aree di vita che sono importanti.».Landmark e Wahl hanno intervistato dieci donne per scoprire quale fosse stata la loro esperienza nel convivere con un cancro al seno di recente diagno-si. Hanno utilizzato interviste a risposta aperta.L’analisi delle interviste ha mostrato che i problemi esistenziali rivestono un aspetto importante della convivenza con una recente diagnosi di cancro al seno.Landmark e Wahl concludono che una compren-sione di come le donne vivano la situazione della loro nuova e diversa vita è importante per l’aiuto che gli infermieri forniscono nel processo di gua-rigione.Uno “Studio dell’immagine del corpo nelle sopravvissute a lungo termine al cancro al seno” condotto dalla Uppsa-la University, insieme allo “Studio longitudinale su l’im-magine corporea e la regolazione psico-sociale dei malati di cancro al seno nel corso della malattia” condotto in Por-togallo, hanno prodotto risultati che hanno con-tribuito al progresso delle conoscenze in questo campo, fornendo dati pertinenti circa l’evoluzione

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IPASVIdell’alterazione della percezione dell’immagine del corpo, i suoi predittori e il suo ruolo predittivo sulla regolazione psicosociale tra i pazienti con cancro mammario.Questi studi hanno anche suggerito alcune impli-cazioni cliniche che possono aiutare gli operatori sanitari ad attuare strategie incentrate sull’immagi-ne del corpo in tutta la malattia.Importante hai fi ni della mia ricerca è stato anche il supporto di uno studio fatto su un altro tipo di tumore altrettanto deturpante per quanto riguarda l’aspetto fi sico: “Efficacia della riabilitazione cosmetica sull’immagine corpo dei malati di cancro orale in Taiwan”. Questo studio ha confermato che l’integrazione del programma di cosmesi in cure infermieristiche di routine per i pazienti affetti da cancro è altamente raccomandato. Per quanto riguarda l’Italia, l’atten-zione all’ immagine corporea non è un argomento sconosciuto infatti a livello nazionale,è nato il pro-getto “La forza del sorriso” anche se solo adesso sta prendendo avvio anche negli ospedali pubblici.Il programma, attivo in Italia dal dicembre del 2006 sotto il patrocinio di UNIPRO, Associazione Italiana delle Imprese Cosmetiche, si ispira all’esperienza internazionale del progetto “Look Good…Feel Bet-ter”, “Appari Bella…ti sentirai meglio”, nato negli Stati Uniti nel 1989 e diffuso oggi in 21 Paesi.L’iniziativa, che non interferisce con le cure medi-che né intende in alcun modo sostituirsi ad esse, è dedicata a tutte le donne che, sottoposte a tratta-menti oncologici, non vogliono rinunciare alla pro-pria femminilità riconquistando il proprio senso di benessere e autostima.Si sperimenta, allora, in alcuni ospedali, tra i quali l’ospedale Sacco di Milano il “trucco oncologico”, per insegnare a piacersi durante e dopo la malattia.Alberto Scanni, direttore generale dell’Ospedale Sacco, di Milano, sintetizza così la decisione della struttura di avviare l’esperimento:“Non vogliamo solo curare le malattie, ma prenderci cura del-le persone”

CAMPO E CAMPIONE D’INDAGINELo studio da me condotto è una indagine cono-scitiva realizzata negli Stabilimenti Ospedalieri “SS. Annunziata” e “S.G. Moscati” dell’ASL di Taranto, presso il reparto e gli ambulatori di oncologia, pres-so gli ambulatori di fi sioterapia, e presso la S.C. di radioterapia oncologica.Queste strutture danno assistenza ogni giorno a un gran numero dipersone affette da patologia onco-logica, in diversi distretti anatomici, nelle diverse fasi di trattamento, a diversi livelli di gravità, offren-

do assistenza e trattamenti specifi ci.Il campione preso in esame in questa popolazione è rappresentato da 64 donne trattate per carcino-ma mammario in fase II o in fase III, che hanno ac-consentito a partecipare allo studio.Si tratta di donne con età compresa tra i 35 e i 70 anni delle quali circa il 67% ha subito la quadran-tectomia e il restante 33% la mastectomia com-pleta.

N° Pazienti intervistate

Quadrantectomia 43 67%

Mastectomia completa 21 33%

Totale 64

METODI E STRUMENTI PER LA RACCOLTA DATILa consultazione degli studi a supporto della mia ipotesi di ricerca è basata su una revisione tradizio-nale della letteratura presente all’interno della ban-ca dati Medline della National Library of Medicine, consultata tramite l’interfaccia Pubmed.Per raggiungere l’obiettivo è stata eseguita una re-visione di letteratura utilizzando le seguenti strate-gie di ricerca:- Individuazione di termini “MeSH” per identifi care correlazioni perla ricerca.- Indagine con parole chiave sul motore di ricerca Medline per individuare articoli, studi e revisioni bi-bliografi che.Ulteriori approfondimenti sul tema sono stati fatti mediante articoli dedicati, di riviste internazionali e nazionali di Nursing.

QUESTIONARIOLo strumento utilizzato per la raccolta dei dati è un questionario anonimo somministrato sottoforma di intervista.Il questionario avendo un duplice scopo si com-pone di due parti.La prima contiene la “BODY IMAGE SCALE”, os-sia una traduzione elaborata di un questionario accreditato in inglese, tratto dalla rivista European Journal of Cancer .L’introduzione di questa scala nel questionario consente di mettere in evidenza la presenza di un bisogno assistenziale legato all’alterazione della percezione di sé in seguito al cambiamento fi sico indotto dalla malattia e dai relativi trattamenti.

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La seconda parte contiene invece, domande che indagano sul bisogno assistenziale derivante dal cambiamento fi sico e sull’assistenza di tipo rela-zionale al quale tale assistenza dovrebbe corri-spondere.Questo questionario è frutto di una revisione di studi attinenti a quello che mi apprestavo a fare, di indagini personali svolte attraverso la lettura di commenti su “forum” dedicati alle donne colpite da cancro al seno e quindi attraverso le testimonianze involontarie di questepazienti, dell’incontro di volontari dell’ ANDOS, persone che da anni lavorano al fi anco di donne che affrontano l’esperienza del cancro al seno. Il questionario è stato elaborato in modo da poter aver risultati tali da riuscire a stilare schede di ac-certamento infermieristico e/o programmi formativi per gli infermieri e/o programmi educativi multidi-sciplinari per i pazienti. Prima di somministrare ogni questionario è stato preventivamente spiegato alle donne intervistate la fi nalità del mio studio, che il questionario era strutturato in modo da garantire l’anonimato e quanto fosse indispensabile che le risposte fossero più vicine possibili allarealtà, evitando che la mia divisa bianca e le mie parole interferissero con la scelta delle ConclusioniDall’elaborazione dei risultati sembra che l’obietti-vo sia stato raggiunto.Tramite la Body Scale Image è stato possibile va-lutare che nel campione esaminato vi è un’insoddi-sfazione legata al cambiamento del proprio aspet-to fi sico dovuto alla malattia e ai relativi trattamenti.Dal questionario, viene data conferma di ciò.Dai dati, sorprendentemente omogenei, le donne trattate per tumore al seno non sarebbero ade-guatamente preparate e supportate ad affrontare il cambiamento fi sico, che in virtù dei risultati ottenu-ti, all’unanimità rappresenta un problema.Queste donne riescono ad esternarlo solo alle fa-miglie e, da alcune risposte, la motivazione potreb-be risiedere nella mancanza di possibilità utili per farlo all’esterno del nucleo familiare, e di fi gure pro-fessionali idonee a questo scopo.

PROPOSTA OPERATIVA: BOZZA PROGETTO EDUCATIVO-TERAPEUTICO PER DONNE MA-STECTOMIZZATEValutando i risultati dello studio di questa tesi e, sulla base di un progetto analogo già proposto, ho creato una bozza che potrebbe essere di supporto per lo sviluppo di un progetto educativo-terapeuti-co nelle U.O. competenti.

Un progetto di educazione terapeutica, erogata in tempi lunghi, potrebbe garantire una continuità assistenziale, capace di rendere queste donne più autonome nella gestione della propria malattia per riconquistare un loro “equilibrio psico-fi sico”. Tem-pi lunghi sono necessari per l’elaborazione e l’ac-cettazione di un nuovo concetto di sé.Ecco un elenco degli elementi costitutivi di un pro-getto di questo tipo e una possibile procedura edu-cativo-terapeutica.

RESPONSABILE PROGETTO, SERVIZI E PER-SONE COINVOLTELa tappa fondamentale per la realizzazione di un progetto è l’ individuazione del responsabile pro-getto, dei servizi e del persone coinvolte. Per quan-to riguarda il responsabile, in questo caso, la fi gura professionale più indicata è l’infermiere.Collaboreranno altri infermieri (tra cui uno di ricer-ca) e un dietista.Consulenti del progetto saranno uno psicologo e i medici dell’U.O. di riferimento.DESTINATARI DEL PROGETTO EDUCATIVOI destinatari sono donne tra i 25 e gli 80 anni che subiscono intervento chirurgico di mastectomia con o senza dissezione del cavo ascellare e, che danno il consenso a partecipare al progetto educativo.ANALISI DEI BISOGNI EDUCATIVI DEI DESTI-NATARII bisogni educati delle pazienti possono essere suddivisi principalmente in bisogni di informazio-ne e bisogno di apprendimento (essenzialmente tecnico-pratico).a. Bisogno di formazione riguardo:- la patologia neoplastica mammaria e al tipo di in-tervento chirurgico da effettuare;- le problematiche fi sioterapiche derivanti dalla mancanza di una mammella o dei linfonodi ascel-lari;- le nozioni legislative rispetto alla protesica e alle esenzioni sanitarie i vari servizi di supporto (ambu-latorio di: psicologia, dietologia, menopausa).b. Bisogno di apprendimento tecnico- pratico:- come prendersi “cura di sé”: come trattare ini-zialmente la ferita chirurgica e poi la cicatrice. Che attività può svolgere, com’è meglio vestirsi, etc.

OBIETTIVIGli obiettivi saranno diversi a seconda che i trat-ti dei destinatari, dei formatori o dell’azienda che promuove e attua il progetto.a. Destinatari (le donne mastectomizzate):- condivideranno con l’equipe la motivazione di un

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IPASVIintervento così demolitivo, rapportato alla gravità delle patologia;- poste a conoscenza dell’iter pre-intervento, sa-ranno in grado di affrontarlo con un diminuito gra-do di ansietà;- si prenderanno cura della parte amputata (cicatri-ce), detergendo,massaggiando e idratando la cute;- saranno in grado di guardarsi e di specchiarsi;- comprenderanno l’importanza funzionale e psi-cologica delle protesi mammarie esterne e decide-ranno di indossarle;- continueranno a vivere la propria sessualità;- sapranno ricondurre le loro necessità ai servizi di-sponibili (ambulatori di: psicologia, dietologia, me-nopausa).b. Formatori (il gruppo infermieristico):- uniformerà il più possibile il grado di preparazione e il contenuto delle informazioni da erogare;- utilizzerà un progetto educativo riproducibile;- aumenterà il grado di motivazione del gruppo.c. Azienda:- miglioramento dell’immagine aziendale;- corretto utilizzo dei servizi da parte dell’utenza.RISORSELe risorse comprendono non solo quelle economi-che, ma anche umane, di tempo e logistiche.a. Economiche:- budget, erogato da eventuali sponsor delle pro-tesi mammarie, per la realizzazione dell’opuscolo;- autorizzazione al pagamento di eventuali ore di straordinario, effettuate dal personale sanitario nel-la realizzazione e svolgimento del progetto;- varie ed eventuali.b. Umane:- gruppo infermieristico del reparto;- la coordinatrice del gruppo infermieristico;- infermiera di ricerca;- lo psicologo;- le dietiste;- medici ginecologi e oncologi. c. Di tempo:- progettazione- attivazione- valutazione- colloquio individuale- incontri di gruppo- riunioni trimestrali tra colleghid. Logistiche:- Spazi, uffi ci, ambulatori dove fare incontri riunio-ni, colloqui eesposizione di materiali e strumenti.

PIANO OPERATIVOPer l’ attuazione del progetto per prima cosa il gruppo di infermiere si occuperà della revisione di un opuscolo informativo completo da consegnare alle donne che entreranno a far parte del progetto educativo.Questo opuscolo conterrà al fondo uno spazio de-dicato alle note, dove le signore potranno segna-re ciò che vogliono come in un diario (domande, dubbi, perplessità, paure sensazioni, etc.). Il piano operativo di questo progetto educativo prevede 5 momenti :• Momento di presa in carico: al pre-ricovero in modo randomizzato si attribuirà alle pazienti un percorso di tipo A o un percorso di tipo B. Alle si-gnore appartenenti al gruppo B non verrà conse-gnato nessun opuscolo informativo al pre-ricovero e seguiranno l’iter attuale, precedentemente de-scritto. Le signore appartenenti invece al gruppo A riceveranno dalla capo sala del reparto il suddetto opuscolo, durante un colloquio che garantisca la privacy (nel suo uffi cio a porte chiuse) e durante il quale verrà acquisito il consenso della signora a far parte del progetto educativo, anticipando-le che ciò comporterà il partecipare a 3 incontri a distanza e la compilazione di un questionario. Illustrando alla signora l’opuscolo la inviteremo a compilare senza riserve lo spazio libero contenuto al fondo, dedicato alle note, come fosse un vero e proprio diario, con dubbi paure,interrogativi, da rivedere nei successivi incontri insieme al perso-nale responsabile.• Dimissione: dopo l’ intervento al momento delle dimissioni la paziente verrà condotta nella salet-ta medicheria dove l’infermiera le mostrerà il ma-teriale protesico che, in alcune strutture è fornito dalle aziende produttrici in conto visione al repar-to, e porrà risalto all’argomento protesi mammarie esterne, già trattato per iscritto nell’opuscolo, e all’opportunità di indossarle. Seguirà l’ analisi e la discussione delle eventuali note che la signora potrebbe aver apportato al suo “diario di bordo”.La signora verrà invitata ad indossare un suo reg-giseno in modo da poter riempire la parte del seno mancante con del cotone, dando così l’idea della vestibilità che avrà la protesi provvisoria.In fi ne sarà fi ssata la data del il successivo incon-tro ad un mese circa (potrebbe coincidere o meno con il collaudo della protesi defi nitiva, quella in si-licone).

• 1° Appuntamento: incontro a 1 mese dall’in-tervento; verrà chiesto alla signora di compilare un questionario (the Body Image Scale) e ci sarà

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l’eventuale collaudo della protesi defi nitiva. Ver-rà effettuata l’analisi e la discussione di eventuali problematiche esplicitate e non, dando risalto a quelle appuntate sul “diario di bordo”.L’infermiere appunterà nel frattempo sull’agenda preposta, le osservazioni riguardo gli atteggia-menti della signora (es. la signora guarda o tocca la cicatrice etc.).

• 2° Appuntamento: incontro a 3 mesi circa dall’intervento. Saranno incontri a piccoli gruppi (circa 3 o 4 signore) con la partecipazione della dietista che darà loro consigli alimentari, in vista del fatto che molte delle signore, in corso di che-mioterapia e ormonoterapia, tendono ad ave-re un aumento di peso. Sarà un incontro il più possibile dedicato al libero scambio di idee ed esperienze tra le signore, mediato, ovviamente, dall’infermiera referente che presenzierà sempre questi incontri . Se possibile vi parteciperà an-che la psicologa. Al termine dell’incontro verrà nuovamente chiesto allesignore di compilare il questionario (lo stesso compilato al primo appuntamento).Ø Ultimo incontro: a 6 mesi di distanza dall’in-tervento verrà riproposto alle signore lo stesso questionario compilato al primo incontro, ed un breve questionario di gradimento delle informa-zioni ricevute.

PIANO DI VALUTAZIONEQuesta fase permette di capire se il progetto fun-ziona e quali sono gli interventi da attuare per mi-gliorarlo. Le valutazioni saranno di processo, di risultato e d’ impatto.a. Di processo:Si andrà a valutare se si riesce a rispettare i tem-pi degli appuntamenti, dei colloqui individuali e di gruppo, e delle riunioni tra colleghi.b. Di risultato:Per valutare i risultati del progetto bisogna met-tere a confronto le risposte che le signore avran-no dato al questionario all’inizio del programma e quelle che avranno dato allo stesso questionario dopo essere state seguite per sei mesi.In più verranno confrontate con le risposte che avranno dato sempre allo stesso questionario le signore che non sono rientrate nel progetto edu-cativo. Vedendo se gli obiettivi defi niti inizialmente sono stati raggiunti indagando proprio la visione che ha la donna, in prima persona.c. Di impatto:

Uno degli obiettivi di questo progetto è anche quello di migliorare l’utilizzo dei servizi di suppor-to da parte dell’utenza.

CONCLUSIONIL’indagine ha avuto come scopo quello di indivi-duare l’esistenza di un bisogno assistenziale lega-to all’alterazione della percezione dell’immagine di sé dovuta al cambiamento fi sico.Inoltre, tramite il questionario e la revisione del-la letteratura scientifi ca è emerso il ruolo centrale che l’infermiere ha nella rilevazione dei bisogni as-sistenziali legati al cambiamento fi sico.Dall’elaborazione dei dati si può concludere che l’infermiere è la fi gura professionale che si presta meglio alla valutazione della risposta del paziente al cambiamento fi sico, alla rilevazione dei bisogni assistenziali che ne derivano e alla creazione di progetti multidisciplinari che comprendano il far fronte a tali bisogni.Riveste quindi un ruolo importante nell’approccio multidisciplinare del paziente, dal quale deriva un lavoro d’equipe e, dal questionario, emerge la ri-chiesta di un intervento di questo tipo come rispo-sta al bisogno legato all’alterazione della perce-zione dell’immagine di sé.Pur esaminando un campione poco rappresenta-tivo rispetto alla spiacevole moltitudine di neopla-sie presenti che colpiscono i vari distretti anato-mici, mi sento di poter generalizzare i risultati in quanto questa malattia compromette sempre la percezione del proprio corpo.Credo sia importante aiutare i pazienti a vivere il cambiamento del proprio aspetto fi sico nel modo migliore possibile e l’infermiere è una fi gura a mio avviso essenziale per raggiungere tale scopo.Per affrontare tale problema ho pensato ad alcune proposte:’ • la realizzazione di corsi di formazione e di counseling per aiutare il paziente a vivere me-glio tale situazione; • organizzare dei gruppi di supporto, in collaborazione con altre fi gure professionali, de-dicati ai pazienti; • si potrà adottare all’interno dell’unità operativa una scheda di accertamento infermieri-stica per la rilevazione dello stato psicologico del paziente; • si potrà realizzare all’interno dell’unità operativa un progetto educativo-terapeutico per donne mastectomizzate, per il quale ho cercato di dare uno spunto, creando una bozza apposita.

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IPASVIIL Cambiamento fisico nelle donneIL Cambiamento fisico nelle donne

colpite da tumore al senocolpite da tumore al senoContributi autobiografi ci delle vincitrici della seconda edizione del premio letterario

“Il prima e il dopo” , istituito dall’Associazione internazionale “Europa Donna”

UN MONDO PELATORacconto di Marina BeltrameCercai l’indirizzo sulle pagine gialle alla voce “Parrucche e toupets”.Trovai, a pochi chilometri da dove abitavo, una “Casa della Parrucca” che sembrava fare al caso mio: l’inserto pubblicitario parlava di “vasto assortimento”, “massima riservatezza e cortesia”,“parrucche leggere, naturali ed ecologiche” e, persino, “speciali per chemioterapia”.Telefonai e chiesi con un po’ di imbarazzo se avevano qualcosa di adatto a una donna giovane: «Qualcosa di scuro…di media lunghezza…né liscio né riccio…». Dall’altra parte mi risposero che sì, avevano senz’altro qualcosa che poteva fare al caso mio e mi fornirono una serie di informazioni sulle differenze fra le parrucche di capelli vere e quelle di capelli sintetici. Ringraziai, dissi che sarai andata da loro nel pomeriggio, e posai il ricevitore. I miei capelli, castani e leggermente mossi, erano lunghi fi no alle spalle: avrei dovuto cercare qualcosa di somigliante nella lunghezza, nel taglio, nel colore.«Vedrai» mi rassicurò mio marito «i bambini non ci faranno troppo caso». Andammo quel pomeriggio stesso. Il negozio era vuoto. Ci accolse una donna giovane e gentile che capì immediatamente la situazione.Provai e riprovai parrucche di lunghezza e colore diversi fi no a quando mi decisi per un baschetto castano scuro, con una frangia che nascondeva l’attaccatura sulla fronte e ciocche regolari che scendevano fi n sotto le orecchie. «Le sta bene» mi disse la commessa.«E’ adatta al suo viso. Consideri che ora c’è il volume dei suoi capelli a tenerla così alta, ma una volta cadu-ta quelli…». Seduta di fronte allo specchio, in un angolo del negozio nascosto alla vista di chi passava e di chi entrava, mi guardai senza piacermi, osservandomi di fronte e di profi lo. La parrucca era un po’ troppo liscia, un po’ troppo folta, un po’ troppo scura, ma non avevo tempo per cercarne un’altra: l’indomani avrei cominciato le cure. La tolsi e la posai sulla mensola che avevo di fronte. Senza alcun sostegno a sorreggerla si affl osciò, gonfi a e morbida, simile a un nido di uccelli.Orribile. Rimpiansi di non avere il coraggio di portare in giro la mia testa nuda sfi dando gli sguardi degli altri e la loro attenzione indiscreta. Se l’avessi fatto avrei gridato al mondo che ero malata: la parrucca avrebbe soffocato quel grido.Arrivai a casa con quel pacchetto sottobraccio e i miei bambini mi corsero incontro incuriositi. «Cos’è mam-ma?» «Una parrucca» risposi. «Per chi?». «Per me».Vollero vederla e mi chiesero se potevano provarla. Acconsentii ma dettai, ridendo, una condizione: «Io vi faccio provare la mia se voi mi fate provare la vostra». Eccitati all’idea di quel gioco, corsero nella loro stanza a cercare nell’armadio la parrucca azzurra da pagliaccio che tiravano fuori ogni anno a carnevale.«Tieni mamma, mettitela» . la misi e diedi loro la mia. La indossarono di sghimbescio, prima una poi l’altro, e corsero a turno a guardarsi nello specchio del bagno. Più tardi, mi chiesero perché l’avessi comprata. «Per-ché» risposi «devo prendere delle medicine che mi faranno cadere tutti i capelli.Per questo l’ho comprata». La risposta gli bastò.I capelli iniziarono a cadere pochi giorni dopo: ne trovai a centinaia sparsi sul cuscino, sui vestiti, sul pavi-mento. Alla minima trazione, intere ciocche si staccavano dalla testa. Con un rasoio affi lato misi rapidamente fi ne a quel supplizio.Le cure si susseguirono a cicli quindicinali per tre mesi e convivere con quell’affanno non fu facile. C’erano i bambini. Risolutamente, decisi che non avrei permesso alla malattia di trasformarmi, nemmeno per un gior-no, in una madre triste, sconfi tta, ripiegata su se stessa. Dovevo salvaguardarli.Loro, riparati dall’incoscienza dell’infanzia, parevano non accorgersi di nulla. Troppo piccoli per capire, intui-vano che c’era qualcosa che non andava ma non riuscivano a metterlo completamente a fuoco.

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Solo, il piccolo, che allora frequentava l’ultimo anno della scuola materna, prese a disegnare persone com-pletamente calve: accanto a case, alberi, fi ori, animali, scarabocchiava fi gure umane senza un solo pelo in capo. Non disegnò mai me senza e gli altri con i capelli ma fece un operazione esattamente contraria: la mamma era pelata, tutto il mondo era pelato, compreso se stesso. Sei mesi dopo, terminate le cure, i miei capelli cominciarono a ricrescere e, di pari passo, presero a ricrescere anche quelli della mamma nei suoi disegni: le spuntò dapprima una zazzeretta incerta e poi, via via, una capigliatura sempre più folta. In breve, riacquistarono il crine perso anche tutti gli altri.Faticai a rinunciare alla parrucca quando vidi la mia testa fi ttamente coperta da sottili capelli scuri.«Che ne dici» chiedevo a mio marito «se la porto ancora per un po’?Potrò toglierla più avanti, quando i capelli saranno un po’ più lunghi…» ma eravamo ad aprile, vicini ad una Pasqua che mai come quell’anno mi sembrò una Pasqua di Resurrezione, e l’aria si era fatta tiepida.Uscii con una testina cortissima, il viso truccato, ciglia e sopracciglia ricresciute. Mi piacqui talmente con quei capelli così corti che adottai quel taglio per un po’: era di una praticità e di una spensieratezza assoluta. Buttai la parrucca, pensando che non ne avrei più avuto bisogno, ma mi sbagliai.Tre anni dopo ebbi una ricaduta che mi costrinse a cure più potenti e debilitanti delle precedenti, cure a cui dovetti sottopormi in un grande ospedale del nord. Vegliata da mia madre, restai lontana da casa per settima-ne. Sentivo i bambini solo al telefono.Era Natale. «Fa freddo mamma lì da te?» «Abbastanza»«Quando torni?»«Presto, torno presto»«Quando presto?»«Quando lo dice il dottore»Tornai per l’Epifania, talmente indebolita da riuscire a malapena a camminare. I capelli erano nuovamente caduti. Quando fui in grado di uscire, andai a comprare un’altra parrucca nello stesso negozio dove ero stata tre anni prima. Ne presi una più corta della precedente, un po’ più chiara, sfi lata sulla fronte e ai lati del viso.Quando la tolsi fui tentata di buttare anche quella ma, all’ultimo momento, cambiai idea e la chiusi in una scatola che fi nì in fondo all’armadio.Da allora, sono passati altri tre anni e la mia vita ha preso l’andamento tranquillo che ho voluto imporle, men-tre la malattia, fi nalmente regredita, sonnecchia.«Sssh!» Dico ai miei bambini. «Facciamo silenzio. Lasciamola dormire.» E, mentre lei dorme, io veglio.

FOULARDSPoesia di Gabriella Giovannini

Foulards coloratiA righe a fi oriBandanePortavo quell’estate strette legateSulla testa spogliaSui miei pensieriAquiloniIn preda alle correntiVedo a voltePer la cittàGirareVariopinti foulardsIn preda alle correntiRisento come alloraMieiTutti quei pensieri.11/09/2010La tesi completa è corredata da un’ampia ed esaustiva bibliografi a che omettiamo di pubblicare per ragioni di spazio ma è a disposizione di chiunque voglia prenderne atto.

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Si è tenuto, anche quest’anno, presso il Centro Affari e Convegni di Arezzo, dal 23 al 26 Novembre 2010, il V Forum Risk Management in Sanità dal titolo “La salute in sicurezza”, promosso dal Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Age.na.s.(Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), Coordinamento delle Regio-ni e Fondazione per la Sicurezza in Sanità. Ospiti dell’appuntamento il Ministro della Salute Ferruccio Fazio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio On.le Gianni Letta, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Sen. Maurizio Sacconi. Rilevante anche il contributo medico–scientifi co internazionale per presentare la riforma sani-taria in USA, fortemente voluta dall’attuale presidente statunitense Barack Obama.

ha parlato del modello formativo in oncologia; sicu-rezza nei sistemi e negli archivi informatici, G. Pirino della Regione Emilia – Romagna, ha presentato le indicazioni regionali in tema di sicurezza dei siste-mi RIS – PACS (gestione informazioni ed immagini di radiologia, acquisizione di attività, aspetti cruciali del fl usso di lavoro, refertazione avanzata mediante fax ed e- mail, gestione ordini e tracking pazien-te), mentre Daniela D’Angela rappresentante dell’I-

Dott. Maria Carmela BruniLaurea Magistrale in ScienzeInfermieristiche ed OstetricheEsperto di Bioetica Clinica

“La salutein sicurezza”

Arezzo da molti anni è la sede del conve-gno europeo sull’adozione delle buone pratiche di gestione del rischio clinico ap-

plicate alla sicurezza dei percorsi di prevenzione – cura - riabilitazione e, in particolare, quest’anno, ha dato particolare risalto alla centralità di cura del-la persona, non tralasciando l’attenzione alle pro-fessioni sanitarie, alle tecnologie e agli applicativi del governo clinico digitale. All’interno del forum era presente un’area di simulazione, per consentire alle imprese di presentare i loro prodotti applicati per la sicurezza del paziente. Erano presenti tra 9.000 e 10.000 partecipanti, le sale sono state sempre gremite, molti partecipanti addirittura sono ri-masti in piedi ad ascoltare le numerose relazio-ni, presenti esperti nazionali ed internazionali. Il Forum è stato sede della I ° Assemblea annuale de-gli ospedali, per verifi care lo stato di avanzamento della applicazione delle “raccomandazioni” e del-le “check – list”, presente Charles Vincent dell’Im-perial College of London ); sicurezza e qualità nei percorsi oncologici, presente Stuart A. Rosenberg (President ad CEO of Harvard Medical Faculty, che

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SBEM (Istituto Scientifi co Biomedico Mediterraneo) della Puglia ha presentato un design e assessment di un software innovativo della gestione del rischio della terapia antiblastica; sicurezza ed appropria-tezza delle tecnologie mediche e della applicazione della robotica ai percorsi chirurgici, presente Pier Cristoforo Giulianotti, docente Chirurgia Generale e Robotica Università Illinois, si è discusso del pre-sente e del futuro nella chirurgia robotica, appropria-tezza e analisi di effi cacia ed effi cienza della stessa grazie alla HTA (Health Tecnology Assessment). Il Forum ha ospitato l’Assemblea Nazionale IPASVI, che ha affrontato il tema della formazione adegua-ta alla nuova organizzazione dell’assistenza con l’apertura della Presidente Federazione Nazionale IPASVI, Annalisa Silvestro, l’intervento di Stuart A. Rosenberg, President and CEO of Haevard Medi-cal Faculty, che ha presentato il modello america-no nella formazione infermieristica. Formazione e comunicazione sono stati affrontati nell’ottica delle nuove regole ECM, valutando lo sviluppo e la ricer-ca sulle metodologie innovative, non tralasciando l’aspetto della integrazione sociale e professiona-le tra infermieri comunitari ed extracomunitari. C’è stata attenzione alla sicurezza sia prima che dopo la cura e, quindi, è stato presentato un articolato programma sulla sicurezza alimentare, presenti rappresentanti della Commissione Europea, Mini-stero delle Politiche Agricole ed Alimentari e Fore-stali, Comandante NAS, Presidente Nazionale Col diretti. Grande attenzione è stato dato all’Handicap, valutando la sicurezza nei percorsi sociali ed as-sistenziali, innovazione ed integrazione con l’in-tenzione di abbattere barriere culturali, psichiche, sensoriali che separano i cosiddetti “normali” dai

non abili, di conosce-re le opportunità che la ricerca e la tecnolo-gia offrono per supe-rare ostacoli, per poter spiegare quelle ali per poter spiccare il volo e raggiungere obiettivi in-sperati. Si è posta l’at-tenzione per una città ideale, dove chi ha una disabilità motoria, psi-chica e/o sensoriale, ha comunque la possibilità di vivere la “quotidiani-tà” dentro e fuori casa. Una città dove, chi vuo-le, può mettersi al posto di chi convive con un

defi cit sperimentando, “Sensoriando”, un percor-so ad ostacoli con barriere sensoriali ed architet-toniche. Innovazione ed integrazione ha valutato il ruolo delle attività psicomotorie: gioco, sport, riabi-litazione portando le esperienze di Toscana, Pie-monte, Lombardia. Nel programma collaterale per l’handicap è stato presente il Team Ferrari ed il pilo-ta paraplegico Luca Donateo; Calcio e basket uni-fi cato, dimostrazione Scuola Nazionale Cani Guida per Ciechi della Regione Toscana, Mostra di pittura Simona Attori, ballerina e pittrice senza braccia che ha incontrato gli studenti della provincia di Arezzo. Per “ l’ Osservatorio buone pratiche per la sicurez-za focus on: valutazione delle BP” il dott. Ranieri Guerra , Dirigente dell’Istituto Superiore della Sani-tà, ha invitato a relazionare la dr.ssa Silvana Melli, in rappresentanza dell’ASL Taranto, che ha illustra-to i risultati fi nali del progetto di ricerca fi nalizzata “Gestione integrata del rischio sociosanitario in una prospettiva di continuità assistenzia-le: tecnologie e percorsi coordinati ospedale-territorio, “inerzia clinica”, esame degli esiti sociosanitari”, fi nanziato dal Ministero della Sa-lute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.Il suddetto progetto, fortemente voluto dalla Dire-zione strategica aziendale, è stato realizzato da un gruppo di lavoro integrato costituito da operatori dei Distretti Socio Sanitari n° 3 e 4° ed operatori della Struttura Complessa di Statistica ed Epidemiologia della ASL TA.Il V Forum Risk Management grazie alla diversifi -cazione di obiettivi, interessi, argomenti diventa un modello informativo e formativo sistematico in gra-do di favorire una completa e vasta offerta ai propri partecipanti.

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NellaNellaAsl TaAsl Tauna tra le 10una tra le 10migliorimiglioriBestBestPracticesPracticesnelnelterritorioterritorionazionale nazionale

Si è svolto l’11 novembre a Roma, presso l’auditorium del ministero della salute, alla presenza del ministro della salute Prof.

Ferruccio Fazio, il convegno di presentazione dei risultati della ricerca “Integrare la rete dei servizi distrettuali: contenuti, forme e risultati delle best practice in Italia”.

La ricerca, condotta dalla prestigiosa Uni-versità Bocconi di Milano in collaborazione con la CARD (Confederazione nazionale delle associazio-ni dei direttori e dirigenti dei distretti) nell’ambito del protocollo d’intesa CARD-Cergas Bocconi “i driver di sviluppo territoriali” ha individuato ed analizzato, attraverso una commissione costituita da esperti della Cergas Bocconi e dal Comitato scientifi co del-la Card, le 10 migliori sperimentazioni di eccellen-za (best practices), in tutta Italia, nell’ambito delle progettualità sanitarie realizzate dai distretti socio sanitari.

Una delle 10 migliori best practices a livello nazionale è stata realizzata nella ASL di Taranto, unica esponente del centro-sud ad essere presen-te. Si tratta di un progetto sviluppato dal distretto socio sanitario n.1 diretto dal Dr. Donato Di Campo e relativo all’ottimizzazione dell’offerta specialistica

ambulatoriale. Tale progetto, messo a punto dal Dr. Salvatore Scorzafave, medico specialista in orga-nizzazione dei servizi sanitari di base, in collabora-zione con la direzione distrettuale, ha riguardato la realizzazione di un impianto metodologico attraver-so cui analizzare le peculiarità dell’offerta/domanda ambulatoriale, ospedaliera e territoriale - attraverso un ampio set di indicatori innovativi, matrici decisio-nali e formule per la stima dei fabbisogni - al fi ne di consentire una programmazione dei servizi mirata ed integrata (ospedale-territorio) e garantire un si-stema di offerta effi cace, effi ciente ed appropriato.

Questo l’elenco delle 10 ASL e dei temi og-getto delle sperimentazioni selezionate dal comita-to scientifi co:

- L’infermiere di comunità (ASS Bassa Friulana)

- Il coordinatore di percorso (APSS Tren-to)

- L’ottimizzazione dell’offerta specialistica ambulatoriale (ASL di Taranto)

- Attività fi sica adattata e PDTA dello scompenso cardiaco (AUSL 11 Empoli)

- L’implementazione della procedura ope-rativa per la gestione dell’UVMD (ULSS

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3 Bassano)- Screening del colon-retto (ASL Manto-

va)- La porta medicalizzata (AUSL Imola)- Il punto unico di accesso (AUSL Mode-

na)- La qualità delle cure primarie: le equipe

territoriali (AUSL 2 Perugia)- Medicina di gruppo integrata (ULSS 4

Alto Vicentino)

Al convegno romano, assieme al Ministro della Salute, hanno partecipato alcuni tra i princi-pali esponenti della sanità Italiana nonché le dire-zioni generali delle 10 ASL Italiane selezionate, che hanno relazionato nel corso di una tavola rotonda coordinata dal Prof. Elio Borgonovi, presidente del Cergas.

Per la ASL di Taranto erano presenti la Dr.ssa Silvana Melli, direttore del distretto socio sanitario di Taranto (nonché presidente regionale della CARD) in delega alla direzione generale, il Dr. Donato Di Campo ed il Dr. Salvatore Scorzafave.

Il congresso si è aperto con gli interventi del Prof. Francesco Longo, del Prof. Enrico Vendramini e della Dr.ssa Valeria Tozzi, del CERGAS Bocco-ni, i quali hanno presentato metodologia e risulta-ti della ricerca. Gli interventi hanno evidenziato la ricchezza di progetti innovativi e effi caci nella sa-nità italiana e che meritano di essere analizzati ed esportati in altri contesti.

Sono quindi intervenuti il presidente onora-rio della CARD Dr. Rosario Mete e l’attuale presi-dente Dr. Gilberto Gentili i quali hanno ulteriormente sottolineato l’importanza della ricerca rimarcando la necessità di prevedere nei prossimi mesi un pro-gramma di divulgazione e trasferimento delle best practices selezionate.

A seguire, ha preso il via la tavola rotonda coordinata dal Prof. Borgonovi e che ha visto rela-zionare le direzioni generali delle 10 ASL presenti.

Per la ASL di Taranto è intervenuta la Dr.ssa Melli che ha parlato del contesto sanitario di rife-rimento, quindi del razionale e delle fi nalità del progetto sottolineando l’importanza di estendere la sperimentazione su tutta la ASL. In particolare, ella ha rimarcato come, attraverso la progettuali-tà sviluppata nel distretto socio sanitario n.1 della ASL di Taranto, è possibile perseguire obiettivi di governo clinico quali, ad esempio, la riduzione dei ricoveri inappropriati, dell’ ospedalizzazione evitabi-le e della mobilità passiva, nonchè il miglioramento dell’appropriatezza clinico-organizzativa in accesso ai servizi ambulatoriali e la riduzione dei tempi di

attesa. In defi nitiva, quindi, una maggior raziona-lizzazione della spesa a fronte di un miglior stato di salute atteso. A detta degli autori del progetto le fasi successive dovranno prevedere la predisposi-zione di un osservatorio aziendale per il governo clinico che adotti sistematicamente, in tutte le strut-ture della Asl, la metodologia realizzata.

Il convegno si è concluso con l’intervento del Ministro della salute Ferruccio Fazio che ha elogiato le 10 ASL selezionate e gli autori del progetto rimar-cando la necessità di sviluppare un’offerta territo-riale sempre più importante per riequilibrare l’offerta ancor’oggi troppo centrata sui servizi ospedalieri. “Il modello ospedalocentrico non può più funziona-re – ha dichiarato Fazio – non è solo un problema di sostenibilità del sistema, ma è un discorso che coinvolge anche la salute del paziente, in partico-lare quello anziano. È, infatti, dimostrato non solo che l’anziano viene meglio assistito in strutture re-sidenziali, o a domicilio, rispetto ai ricoveri ordinari, ma soprattutto che, al di fuori degli ospedali, dimi-nuiscono per lui i rischi di andare incontro ad una disabilità fi sica o psichica”. “Il nostro è un sistema di tipo universalistico – ha concluso Fazio – ‘spalmato’ su quelle che sono le varie realtà regionali. Qui le cose, a seconda dei territori, funzionano meglio o peggio. Dobbiamo raccogliere quelle che sono le varie esperienze di best practice, avviate nelle ASL ‘virtuose’, per esportarle in tutte quelle realtà con situazioni più diffi cili”.

Ad avvalorare quanto sopra è giunto l’invi-to del dott. Ranieri Guerra, Dirigente dell’Istituto Superiore della Sanità, alla dr.ssa Silvana Melli, in rappresentanza dell’ASL Taranto, ad intervenire il giorno 25 novembre ad Arezzo al V Forum Risk Ma-nagement in sanità, in qualità di relatore nella ses-sione promossa dal Ministero della Salute, dall’Isti-tuto Superiore di Sanità, dall’AIFA, dall’ Age.Na.S., dalla Confereza delle Regioni e delle Province Au-tonome, e dalla Fondazione Sicurezza in Sanità .

La dr.ssa Melli, in tale contesto, ha illustra-to i risultati fi nali del progetto di ricerca fi nalizzata “Gestione integrata del rischio sociosanitario in una prospettiva di continuità assistenziale: tecnologie e percorsi coordinati ospedale-ter-ritorio, “inerzia clinica”, esame degli esiti so-ciosanitari”, fi nanziato dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.

Il suddetto progetto, fortemente voluto dalla Direzione strategica aziendale, è stato realizzato da un gruppo di lavoro integrato costituito da opera-tori dei Distretti Socio Sanitari n° 3 e 4° ed operatori della Struttura Complessa di Statistica ed Epide-miologia della ASL TA.

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L’ospedalizzazione non è facile da parte dei pazienti in qualsiasi reparto, risulta essere ancora più insopportabile da parte

di un bambino ricoverato in un reparto oncologico, che inevitabilmente as-sume un atteggiamento ostile ver-so gli operatori sanitari. La sua degenza in ospedale è carat-terizzata da un‟intensa sof-ferenza connessa alla paura del dolore e soprattutto, nel caso di reparto d’oncologia, dove molto spesso la paura è legata alla morte. Il tiroci-nio clinico, in questi tre anni, ha rafforzato in me l’idea che, anche un semplice sorriso può aiutare i malati a vivere meglio la condizione di malattia. Il riso ha uno stretto legame con la gioia, che è lo stato naturale d’armonia dell’animo uma-no. Allenando la mente al riso e all’allegria si pos-sono superare con maggiore facilità traumi, dolori fi sici e psichici e ritrovare il collegamento con la gioia. Proprio in questi casi, soprattutto nei reparti d‟oncologia e anche d‟ematologia, dove il bambino trascorre molte settimane di degenza, il riso e l’alle-gria possono essere “insegnati” e possono facilitare

l’operato degli infermieri.

A tal proposito ho condotto uno studio conoscitivo, su questo argomento, nella Struttura Com-

plessa di oncologia dello stabilimento “San G. Moscati”e ho somministra-

to un questionario agli infermieri sulla “terapia del sorriso” e sulla possibilità che questo modo di fare possa creare un clima ef-fi cace per la relazione d’aiuto tra il bambino e l’infermiere. Concentrandomi in modo particolare sulle emozioni positive, come la gioia e la fe-

licità, ho voluto dare risalto al valore terapeutico della Clown-

terapia, in qualunque luogo, dove c’è disagio e sofferenza. Attraverso

l’ottimismo è possibile avere un’ampia visione delle cose, quindi non bisogna es-

sere pessimisti di fronte ad un evento tragico, ma dobbiamo cercare di vedere o far vedere il lato po-sitivo delle cose per andare avanti e per affrontare la malattia.

Il bambino oncologico Quando parliamo del cancro, non parliamo di unica malattia, ma di diversi tipi di malattie, che hanno

“A VOLTE BASTA UN SORRISOPER AIUTARE UN BAMBINO

IN UN REP RTO DI ONCOEMATOLOGIA”Estratto della tesi di laurea in Infermieristica

Università degli Studi di Bari - Polo di Taranto - Anno Accademico 2009-2010

di Antonia Caldaralo

In questa tesi ho trattato un aspetto trascurato del Nursing: l‟umanizzazione dell’ assi-stenza attraverso il sorriso”. Ridere e sorridere sono utili per far “rinascere” il bambino che è in noi, con la sua voglia di vivere e giocare, con la sua creatività e spontaneità. L’assistenza per una malattia grave, che può portare alla morte del bambino, non è facile per gli operatori sanitari. La nostra formazione d’ infermieri è concentrata sul salvare e prolungare la vita ed in genere la morte è vista come un fallimento. Talvolta gli operatori hanno profonde diffi coltà e angosce nell’accompagnare il bambino verso la morte e sospendere i cosiddetti atti curativi a favore d’interventi palliativi.

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cause diverse e distinte, che colpiscono organi e tessuti differenti, che richiedono quindi esami dia-gnostici e soluzioni terapeutiche particolari. Esisto-no, però alcune proprietà che accomunano tutti i tumori, cioè, ad un certo punto, una cellula dell’or-ganismo “impazzisce” perde alcune sue proprietà, ne acquisisce altre e comincia a moltiplicarsi al di fuori di ogni regola. All’interno d’ogni cellula esisto-no in realtà dei “geni controllori” destinati ad impe-dire che una cellula “sbagliata” possa sopravvivere. Perché il processo tumorale si inneschi bisogna che anche questi “controllori” siano fuori uso. A causa di questo “guasto” nel meccanismo che ne controlla la replicazione, le cellule si dividono, quando non dovrebbero e generano un numero enorme d‟altre cellule con lo stesso difetto di regolazione. Le cellu-le sane fi niscono quindi per essere soppiantate dal-le cellule neoplastiche. Sia le cellule di un tumore benigno che quelle di un tumore maligno tendono a proliferare in maniera abnorme ma, solo le cellu-le di un tumore maligno, in seguito ad ulteriori mo-difi cazioni a carico dei geni, tendono a staccarsi, a invadere i tessuti vicini, a migrare dall’organo di appartenenza per andare a colonizzare altre zone

dell’organismo. Il tumore benigno rimane dunque limitato all’organo in cui si è sviluppato, mentre il tumore maligno si estende ad altri organi, fi no a colpire e compromet-tere organi vitali quali il polmone, il fegato, il cervel-lo. Questo processo prende il nome di metastatiz-zazione e le metastasi rappresentano la fase più avanzata della progressione tumorale, costituendo la causa reale dei decessi per cancro. Sappiamo ormai con buona certezza che il cancro origina da un accumulo di mutazioni, cioè di alterazioni dei geni che regolano la proliferazione e la sopravvi-venza delle cellule, la loro adesione e la loro mobili-tà. Le mutazioni possono svilupparsi in tempi molto differenti, anche sotto l’infl uenza di stimoli esterni.

Nella stragrande maggioranza dei tumori, le altera-zioni dei geni che sono responsabili della malattia sono determinate da cause ambientali. Sono pro-vocate dall’esposizione prolungata ad agenti can-cerogeni, d’origine chimica, fi sica o virale. Tuttavia il fumo di sigaretta, l’amianto, alcune sostanze svi-luppate dalla combustione del petrolio o del carbo-ne, l’alcol, una dieta squilibrata, i raggi ultravioletti

Un angolo della Baby Room del D.H.Oncoematologicodell’Ospedale Moscati - ASL TA

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IPASVIdel sole, le sostanze chimiche a cui possono esse-re sottoposte i lavoratori in certi processi industriali o in agricoltura, possono sommarsi ad una “fragilità genetica” predeterminata ed arrivare a provocare delle mutazioni. Dal punto di vista epidemiologico e clinico, il cancro in età pediatrica si differenzia per diversi aspetti ri-spetto dell’adulto, sia per prevalenza di forme, quali leucemie e linfomi rispetto ai tumori solidi, sia per l’origine mesenchimale rispetto a quell’epiteliale, sia, in genere, per la migliore risposta alla terapia. Dal punto di vista psicologico, la malattia oncolo-gica in età evolutiva è universalmente riconosciuta come una fonte di gran disagio emozionale, per il bambino, per la sua famiglia e per l’equipe sanita-ria. Il tumore nel bambino crea gran sofferenza e an-goscia

Procedure dia-gnostiche e tera-peutiche sul bam-bino oncologicoI pazienti oncologici devono sottoporsi ad indagini diagno-stiche invasive e tanti cicli di tera-pia. Oltre a queste procedure, periodi-camente, devono fare dei controlli. Nel bambino tut-to questo è molto diffi cile, non colla-bora, è arrabbiato e agitato, questo comportamento non permette di istaurare un’ottima assistenza infermie-ristica. In questo caso, la terapia del sorriso, il gioco o la distrazione, da parte del bambino, può aiutare l‟infermiere nel suo lavoro.

L’accesso venoso I bambini oncologici hanno bisogno di frequenti far-maci per via endovenosa, trasfusioni ed esami del sangue, diventa più diffi cile incanulare una vena utilizzabile, per questo si preferisce fare un accesso venoso centrale o inserire un port. Tali presidi consistono in un catetere permanente o tubicino (CVC) che resta applicato per tutto il tem-po necessario e viene inserito in una vena di ca-libro maggiore, quasi sempre nella succlavia, con un piccolo intervento chirurgico in anestesia totale.

Per utilizzarlo, si svita il tappo in fondo al tubicino che si collega ad una siringa e ai dispositivi da se-guire. Il vantaggio di questo catetere è che utilizzar-lo è completamente indolore, dato che non occorre pungere sempre la cute, tranne il caso del port, ma svitare il tubicino. Anche la loro gestione è molto fa-cile, questi tubicini devono essere protetti, con una benda adesiva, coperti da un piccolo borsellino, che va disinfettato, almeno due volte alla settimana per prevenire le infezioni, e va eparinato. Si consi-glia ai genitori di non bagnare la parte d’ingresso dell’accesso venoso, durante il bagno. I benefi ci del catetere venoso centrale sono quelli di evitare di pungere molto spesso il paziente, migliorando la sua qualità di vita. Il port, a differenza dell’accesso venoso centrale, è impiantato sotto la cute, si trat-ta di una scatolina/serbatoio inserita sotto pelle a

livello del torace del bambino, collegata con un cateterino alla succlavia. Per usare questo pre-sidio, useremo un ago diverso dal nor-male, un ago con un angolo di 90° gradi, lo infi leremo nella membrana del serbatoio per effet-tuare in seguito pre-lievi e terapie. Il pro-cedimento richiede l‟osservanza di alcune misure di sterilità, per preve-nire infezioni; l’inse-rimento dell’ago è

veloce e indolore, se si usa una crema anestetica. L’ago può essere tenuto dentro da pochi minuti a svariati giorni, in quest’ultimo caso sarà protetto da una speciale copertura. Ogni tre o quattro settima-ne il port va eparinato. Il tipo di presidio da adotta-re dipende da tanti fattori, come l’età, la patologia, la terapia da seguire, le condizioni del paziente, il tempo. L’ansia, nei più piccoli può essere ridotta utilizzando una bambola, alla quale i bambini po-tranno fi ngere di fare il prelievo.

Indagini strumentali Le indagini strumentali che vengono eseguite, so-prattutto, in questi casi, sono: la tomografi a assiale computerizzata o TAC, risonanza nucleare magne-tica o RMN, tomografi a ad emissione di positroni o PET. Questi esami non sono dolorosi, però pos-

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sono spaventare il bambino, quindi sa-ranno agitati. Tutta-via prevedono che il paziente non si muo-va per alcuni minuti, in casi di bambini più piccoli, si preferisce sedarli. I più grandi possono avere paura dei macchinari, so-prattutto quello della risonanza. In questi si preferisce, se pos-sibile, che il bambino venga accompagna-to da uno dei genito-ri e l’infermiere può descrivere cosa fa la macchina, così sarà meno spaventato e gli operatori impie-gheranno poco tem-po per l’indagine.

Le trasfusioni di sangue Le terapie oncologiche, molto spesso, richiedono trasfusioni di sangue per aiutare il fi sico del bam-bino, deperito a causa dei farmaci antitumorali, che distruggono le cellule tumorali, distruggono anche quelle sane. Alcuni bambini possono essere pre-occupati dall’idea di ricevere del sangue, in questi casi l’infermiere può provvedere a mascherare la sacca di sangue e renderla più accettabile. Iniezioni sottocutanee A volte si rendono necessarie iniezioni da prati-carsi sottocute per la somministrazione di fattori di crescita, per la stimolazione dei globuli bianchi, per contrastare le eventuali infezioni. Anche in que-sto caso sarà utile far sfogare la rabbia e la paura del bambino, facendolo giocare con una bambola, dove il bambino potrà fare le punture. È necessario consolare il bambino senza negare o mitizzare la sofferenza, evitare frasi come: “su non piangere, e solo una iniezione”.

Terapia medica contro il tumore (chemioterapia e altre terapie) La chemioterapia consiste nella somministrazione, generalmente per via endovenosa, raramente per via orale, di sostanze chimiche, che distruggono le cellule tumorali. Per la loro somministrazione è spesso necessaria un’ottima idratazione, con solu-zione fi siologica o glucosata, tramite un’infusione

continua regolata da pompe computerizzate. Pur-troppo queste sostanze producono effetti collatera-li, perché agiscono anche sulle cellule dei tessuti sani, come il tessuto gastroenterico (di qui le sto-matiti, diarrea o stipsi), sui bulbi piliferi (alopecia), sul midollo emopoietico (depressione midollare) con una diminuzione dei globuli rossi (anemia), delle piastrine (piastrinopenia) e dei globuli bianchi (leucopenia). Alcuni di questi effetti collaterali se-guono, immediatamente, dopo la somministrazione del farmaco (nausea, vomito), altri si manifestano dopo 2 o 3 settimane dalla somministrazione (de-pressione midollare, perdita dei capelli).

Gli effetti collaterali della terapia medica La perdita dei capelli è uno egli effetti collaterali più evidenti, anche se temporaneo, la calvizie può durare alcuni mesi, cioè per tutto il tempo del trattamento, sospesa la somministrazione dei farmaci, dopo un po’ di tempo, i capelli comincia-no a ricrescere. Però la calvizie è psicologicamente diffi cile da accettare per i bambini e per i genito-ri. I capelli cominciano a cadere a ciocche, questo è molto deprimente, quindi si consiglia di rasare i capelli. I bambini sotto i 7-8 anni, generalmente soffrono questo problema meno dei loro genitori, i quali si sentono imbarazzati a mostrare in pubbli-co il fi glio calvo, mentre il fi glio ed altri bambini, in genere, non danno molto peso a questa cosa, se non all’inizio. I bambini possono, magari, tagliare i

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capelli alle bambole. La calvizie può essere più demoralizzante per le bambine, specialmente se avevano una chioma fl uente. Le bambine possono coprirsi la testa con un foulard o una bandana o cappello o una parruc-ca. Ma se la calvizie viene accetta dai genitori verrà accetta anche dai bambini, poi bisogna sempre ras-sicurare il bambino che questo è solo temporaneo. Altri effetti collaterali sono: nausea, vomito, stipsi, diarrea e perdita di peso. Questi effetti si cercano di contenere somministrando i farmaci antivomito e modifi cando la dieta del paziente. Non tutti reagi-scono così alla terapia, altri hanno solo effetti lievi, invece altri effetti gravi. Se il bambino cala di peso, perde l‟appetito e vomita, possiamo nutrirlo per via endovena. Alcuni farmaci chemioterapici possono provocare ulcerazioni o micosi al cavo orale; que-ste possono essere prevenute con risciacqui di collutori: l’infermiere può istruire il bambino di fare questi risciacqui regolarmente attraverso il gioco; se il bambino è molto piccolo, l’infermiere può pulire la bocca con una garzina imbevuta di disinfettante. La terapia chemioterapica può dare periodi di leu-

copenia, causa per alcuni pazienti di un’infezione. Compito dell’infermiere è quello di usare tutti quegli atti per prevenire un’infezione, che può peggiorare la sua condizione. In certi casi, si abbassa, in maniera rilevante, il nu-mero dei globuli bianchi, tanto da rendere necessa-rio l’isolamento del paziente in una stanza idonea. Per poter entrare nella stanza, il visitatore deve utilizzare tutte le misure di sicurezza per prevenire l’infezione, ossia deve indossare un camice sterile, una mascherina e una cuffi a, le mani devono es-sere scrupolosamente lavate. Il bambino non potrà lasciare la stanza fi no a quando il numero dei glo-buli bianchi non rientrerà nel range normale. Alla presenza di febbre, quindi una probabile infezione in corso, s’inizierà una terapia antibiotica.

L’ospedalizzazione Un bimbo malato di tumore spesso è irritabile e non sta bene, già prima della diagnosi. Deve affrontare cure ed esami invasivi, con pesanti effetti collatera-li, entrare in ospedale e subire trattamenti per mano d’estranei in un ambiente sconosciuto, lontano di

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casa, dai parenti, dagli amici, dal luogo naturale de-gli affetti. L’ospedalizzazione ha un impatto meno traumatico se il bambino ha già visitato il reparto e vi ha familiarizzato, ma questa preparazione è in genere impossibile con una diagnosi di tumore, quando i tempi sono ristretti. Normalmente è la ma-dre, con la sua speranza, ad aiutare il bambino a superare le sue paure. Il bambino più piccolo vive la malattia come una punizione, anche l’ospedaliz-zazione. Il bambino può attraversare due periodi: 1. periodo traumatico, causato dall’ allontanamento della fi gura materna, che può portare a sentimenti di ostilità nei confronti di ambiente circostante; 2. periodo deprivativo, causato dalla privazione del-le cure materne, che può indurre nel bambino un grave impoverimento della personalità.

Le reazioni del bambino possono essere: fase di protesta, durante la quale il bambino spera ancora nella presenza della madre e spesso urla, piange, scende dal letto per attirare l’attenzione; fase di disperazione, in cui il bambino, ora meno at-tivo ed aggressivo, si rende conto del bisogno pro-fondo della madre ed appare distaccato e apatico, totalmente sfi duciato; fase di negazione, in cui il bambino sembra mo-strarsi più interessato all’ambiente circostante, ma ignora la madre e si comporta come se non la co-noscesse. Vi sono in ogni modo problemi specifi ci secondo l’età del fanciullo. I bambini piccoli, in particolare sotto i 3 anni, temono più d’ogni altra cosa la sepa-razione della madre. L’ansia del bambino è minore se i genitori gli stanno vicino e lo rassicurano, ma anche così i piccoli possono reagire male al ricove-ro. Possono ignorare i genitori, rimanere in silenzio, chiudersi in se stessi, immaginare il dolore special-mente quando pensano di dover essere visitati o di dover affrontare procedure dolorose. A volte si manifestano schemi particolari di com-portamento, con una degenza prolungata: la fru-strazione può far sì che alcuni bimbi reagiscano con rabbia ribellandosi e divenendo diffi cilmente controllabili; altri viceversa divengono passivi, taci-turni, chiusi in se stessi. Questa anche è una re-azione normale: di fronte ad una malattia grave, la maggior parte delle persone desidera evitare lo stress continuo delle cure e si ritira in se stessa per raggiungere un po’ di pace. Anche i piccoli hanno bisogno di momenti di solitudine e di tranquillità per recuperare forza interiore e poter affrontare ciò che li attende. I bimbi possono divenire tristi e depres-si, in particolare quelli che soffrono di più possono,

perdere l’appetito, divenire apatici, possono pian-gere facilmente ed avere diffi coltà nel sonno. Spes-so possono sentirsi colpevoli della loro malattia, come se l’avessero meritata L’infermiere deve cercare il modo di ridurre il disa-gio che si crea durante il ricovero e deve mettere in atto dei comportamenti, che portano il bambino a sentirsi più orientato all’interno di un ambiente non del tutto familiare, più sicuro e più protetto; cercare di svolgere le attività con una certa routine (cure igieniche, la visita, i pasti); cercare di creare una certa complicità con il bambino. Il bambino ha bi-sogno di riposo, calma e gioco. I bambini usano il gioco per esprimere i loro sentimenti e pensieri. Giocare è più facile che parlare e fa emergere sen-za dolore le circostanze più minacciose. La comunicazione della diagnosi Spesso la diagnosi giunge improvvisa, scioccante e per molti è come una sentenza di morte. La nostra mente rifi uta di accettare che il tumore possa colpire un bambino e la parola stessa “tumore” è per molti ancora un tabù. Naturalmente uno degli aspetti più diffi cili e delicati in questo settore è rapportarsi al bambino durante la diagnosi. Il primo passo da fare per aiutare il bimbo ad affrontare con serenità la malattia consiste nel comunicare con lui in modo aperto e sincero; è un atteggiamento che richiede gran coraggio, ma che è sicuramente preferibile ad un silenzio ostinato, che solo apparentemente protegge il bambino. Parlare con lui signifi ca non lasciarlo solo di fronte ad un evento che lo turba e lo spaventa. La reazione emotiva del bambino mo-rente deve essere gestita e condivisa: è importante che l’infermiere lo aiuti ad esprimere i sentimenti di rabbia, paura, tristezza, solitudine e a manifesta-re ansie e angosce. L’infermiere e l’equipe curante dovranno essere pronti ad aiutare i familiari a supe-rare il lutto e i sensi di colpa con un percorso assi-stenziale. Ogni intervento terapeutico deve essere considerato all’interno degli obiettivi, delle attese del bambino e della sua famiglia e, come le scelte terapeutiche possono variare secondo il progredi-re della malattia, anche le decisioni del paziente possono essere modifi cate. Discussioni e confronti continui nell’equipe possono facilitare questi cam-biamenti.

La reazione dei genitori Nel bambino il genitore investe aspettative e spe-ranze future. È diffi cile per il genitore, al momento della diagnosi, comprendere il processo tumorale che devasterà il proprio fi gliolo dall’interno, delle te-rapie a cui andrà incontro e che modifi cheranno l’a-spetto fi sico del bambino e sarà molto diffi cile che

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IPASVIdaranno l’assenso agli interventi radicali. I genitori accolgono con incredulità e smarrimento la comuni-cazione della diagnosi, reagiscono alla notizia intra-prendendo un percorso emotivo caratterizzato da tre fasi: lo shock, la negazione e l’accettazione, a cui il genitore arriva dolorosamente e gradualmen-te. Il genitore ha bisogno di essere accompagnato nell’affrontare gli inevitabili sentimenti di dispera-zione, confusione, impotenza che scaturiscono dal ricevere tale notizia. Questo sostegno può essere dato dall’infermiere o dallo psicologo del reparto (se fa parte dell’equipe), dall’organizzazione di riunio-ni, dal rapporto dei genitori che hanno già vissuto quest’esperienza. Fondamentale che i genitori pos-sono esprimere le loro emozioni, sfogarsi, elabora-re la rabbia e la disperazione prova, per poi poter accompagnare e sostenere nel miglior modo possi-bile il proprio fi glio malato. La fase terminale della malattia oncologica di un bambino diviene la concretizzazione del senso di perdita e dell’angoscia della morte, che colpisce la famiglia e gli operatori sanitari. In questo caso, l’iter terapeutico è di tipo palliativo e i genitori insieme agli operatori devono scegliere quali metodi adot-tare per migliorare la qualità di vita del bambino, ma insieme provano, anche, senso di impotenza. La letteratura evidenzia che i genitori di bambini con tumore defi niscono la malattia del loro bam-bino come l’elemento principale della loro vita. I genitori, durante le fasi della malattia del bambino, manifestano una diffi coltà a rilassarsi, un quadro d’iper attenzione e apprensione nei confronti del fi -glio malato e di nervosismo. Vi sono, anche, molti dati in letteratura in merito al vissuto dei fratelli del bambino malato. L’impatto su questi ultimi è caratterizzato da un for-te stress. I fratelli possono vivere una condizione di perdita di qualità e quantità della vita con i genitori, inoltre possono vivere notevoli mancanze d’atten-zione, di essere considerati ed ascoltati dai genitori. Per questa ragione, essi possono manifestare dei cambiamenti comportamentali caratterizzati, da un lato, da un aumento dell’empatia con i genitori e dell’amore per il fratello malato, dall’altro, da una condizione di rivalità con odio, gelosia e invidia per un ruolo di privilegiato che riveste il fratello malato. In questi casi i genitori hanno bisogno d’informazio-ne, di supporto emotivo, supporto sociale e la parte-cipazione nel progetto di cura del bambino:,questo grazie alla relazione d’aiuto che l’infermiere deve creare con i genitori. Quindi, i due principali bisogni, presentati dal bam-bino e dalla famiglia, sono il supporto emozionale e psicologico.

Gli interventi che vengono utilizzati per la realizza-zione della relazione d’aiuto infermiere-bambino-famiglia, sono il couselling, i gruppi di supporto, l’u-tilizzo di modalità comunicative positive, la terapia del sorriso, il sorriso da parte del personale infer-mieristico.

La malattia e la terapia del sorriso L’attribuzione di un signifi cato positivo all’esperien-za malattia è diffi cile ma non impossibile. “La ma-lattia molto spessa può ripristinare l’ordine naturale delle priorità, può diventare come un’occasione per riscoprirsi e cambiare. La malattia può mettere in discussione la nostra esistenza e minacciare il no-stro modo di vivere”. (Hodgkinson, L. 2001). Dall’esperienza di Norman Cousins (giornalista e un professore di medicina umanistica per la facoltà di medicina presso la University of California, Los Angeles) il personale medico è d’accordo sul fat-to che più un paziente è fi ducioso e rilassato, più l’intervento assistenziale a cui è sottoposto avrà esito positivo. Il sorriso è un modo diverso e alter-nativo per affrontare i problemi e questa modalità ci può aiutare a vivere meglio. Il credere nelle proprie capacità e abilità, la percezione di controllo sugli eventi, l’ottimismo verso il futuro costituiscono l’uso di strategie di coping attive più idonee a risolvere e diminuire i livelli di stress. In questa nuova ottica, il Dottor Hunter Adams, meglio conosciuto come il “Dottore dal naso rosso (ideatore di una terapia olistica molto particolare: quella del sorriso, anche nota come clown terapia) ha dato avvio alla terapia del sorriso in ospedale. Durante il periodo della sua specializzazione ave-va intuito l’importanza del buon umore nel proces-so di guarigione e aveva riscontrato maggiori suc-cessi di guarigione nei soggetti che percepivano la loro malattia in modo positivo. Mettendosi un naso rosso visitava i pazienti regalando un sorriso ed un momento d’evasione dalla malattia. Da que-ste sue sperimentazioni sulla terapia del sorriso in ospedale si potranno scoprire, favorire ed utilizza-re nuove modalità di gestire lo stress provocato da eventi traumatici. Invece di utilizzare i già conosciu-ti processi di coping si vuole utilizzare la forza del pensiero positivo. Dopo Hunter Adams sempre più spesso la terapia farmacologia che va a rafforzare il sistema immunitario, viene abbinata alla terapia del sorriso.

Come dovrebbe essere un reparto della terapia della risata Secondo un’ indagine condotta nel 2001 a Sa-vona dall’istituto “M.G.Rossello” è stato stilato

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un decalogo dagli allievi che per due anni hanno focalizzato l’attenzione sui bambini ospedalizzati, dopo un percorso fatto di incontri in corsia, di in-terviste e di analisi dei disegni fatti dai bambini de-genti. Mi è sembrato interessante sottolineare alcuni pun-ti che descrivono come i bambini vorrebbero che fosse il loro ospedale ideale: al terzo punto i piccoli affermano che vorrebbero un ospedale colorato, al-legro, grande, pulito con tanti giochi e giardini, co-struito in città, così i loro amici e parenti potrebbero andare a trovarli più spesso, sarebbero contenti, anche, se il cibo dell’ospedale fosse come quello di casa. Al quinto punto i bambini esprimono il biso-gno di avere tanti posti adatti alla loro età e alla loro malattia, dove poter giocare da soli o in compagnia quando lo desiderano. Sarebbe divertente se l’o-spedale organizzasse giochi, spettacoli anche con le marionette, i clown, o altre cose divertenti per tutti i bambini e i loro genitori. Al nono punto dichia-rano il bisogno che i dottori devono essere anche amici, gentili e buoni nei loro confronti, devono es-sere preparati a capire, oltre ai loro problemi fi sici, anche cosa provano e pensano durante le giornate in ospedale. Avrebbero meno paura se le siringhe, i camici e tutti gli oggetti ospedalieri fossero colorati e nascosti alla loro vista. Per funzionar bene un re-parto del genere ha bisogno di una grande stanza accogliente dove sia possibile, anche, la visione e consultazione di materiale comico-umoristico (libri, riviste, audio e video) e un paio di volte alla setti-mana si potrebbero svolgere dei laboratori di co-mico-terapia indirizzati ai pazienti, i quali possono ri-crearsi e ricevere stimoli di rifl essione anche sulla propria condizione di ammalato. Si aggiunga il fatto che la stessa strut-tura, cioè il reparto di Terapia della risata, potrebbe servire anche per il personale medico, infermieristico e paramedico, il quale frequentereb-be dei corsi e laboratori di terapia del sorriso che servirebbero a stem-perare tante tensioni e a combattere lo stress tipico di un lavoro stretta-mente a contatto con realtà di soffe-renza quotidiana. Gli effetti positivi di una tale ini-ziativa potrebbero essere misura-ti e controllati attraverso semplici analisi sui pazienti, per verifi care il livello di funzionalità del sistema immunitario o quello di consumo di farmaci antidolorifi ci e riguardo al personale sanitario, la misurazione

degli effetti, potrà essere verifi cata sui cambiamenti nelle relazioni con i pazienti e in quella tra colleghi e personale ospedaliero in generale. Quella di un reparto di Terapia della Risata, non è pertanto un’idea così complicata da realizzare ed è pure a costi contenuti.

L’importanza del gioco per i bambini in ospe-dale La principale attività dei bambini è il gioco. Attraverso esso, i bambini entrano in relazione con gli altri e con il contesto circostante Nel gioco, le emozioni e la fantasia si riempiono di signifi cato e danno un senso allo stare insieme. I bambini hanno quindi bisogno di vivere il proprio tempo nel gioco, nella gioia, nella libertà, nella spontaneità e nell’au-tenticità. La scarsità del “tempo di gioco” può es-sere la causa di disturbi allo sviluppo, di diffi coltà di concentrazione, di stress, di paura ecc. Tipico esempio di questa realtà è il ricovero del bambino in ospedale, in particolare di quelli a lunga degenza (reparto oncologico). In questa situazione il bam-bino appare depresso, ansioso, risente dell’abban-dono del contesto familiare, soffre per la mancanza della mamma soprattutto quando è piccolo, soffre della mancanza della propria casa e di solitudine in quanto, fi no a non molto tempo fa, si curava il sintomo, la malattia, perdendo di vista la persona. ..dice Patch Adams: ”... i mali che affl iggono la mag-gior parte dei malati, come la sofferenza, la morte e la paura, non possono essere curati con una pillola. I medici devono curare le persone non le malattie.” Ecco dunque la necessità della presenza “del medi-co dell’anima”, oltre che “dell’indispensabile medico

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IPASVIdel corpo”, che riporti il “tempo del gioco”, la spen-sieratezza, così che il bambino e la sua famiglia, possano reagire con l’emozione, l’immaginazione ecc.. Nasce così la fi gura di un dottore particolare che utilizza la risata come strumento per accelerare il processo di guarigione: “Il clown dottore”.

L’infermiere e l’infermiere clown: un’espansio-ne del proprio ruolo Peplau, teorica del Nursing, defi nisce l’assistenza infermieristica “un processo interpersonale e tera-peutico signifi cativo, un rapporto umano tra indivi-duo che è malato e un infermiere specifi camente preparato per riconoscere e rispondere ai bisogni di aiuto. Le interazioni interpersonali sono spesso più effi caci nel determinare l’esito di un problema del paziente, di quanto non lo siano molti procedimenti tecnici di routine. Quando il processo infermieristi-co viene considerato uno strumento di maturazione e di educazione, gli infermieri effettuano esperien-ze che favoriscono un apprendimento continuo. Il processo infermieristico è educativo e terapeutico quando l’infermiere e il malato possono arrivare a conoscersi e rispettarsi reciprocamente come per-sone che sono simili e tuttavia diverse, come per-sone che condividono la soluzione dei problemi...”. Nella relazione d’aiuto quello che conta è la quali-tà dell’incontro con le persone e la nostra voglia di metterci in gioco. Incontrare l’altro signifi ca essere capaci di cambiare le cose e voler dare quel valo-re aggiunto che fa la differenza. L’elemento spesso però mancante di questo processo è la fantasia, che fa sognare, fa immaginare l’impossibile. L’as-sistenza infermieristica può diventare creatività se riesce ad impegnare maggiormente energia, alla ri-cerca di soluzioni alternative a seconda dei bisogni

della persona. L’incontro con l’atro è sempre una realtà dialogante, che suscita le diverse emozioni e affetti. Incontrare l’altro quando questo è un paziente vuol dire saper accogliere, essere disposti a cambiare le cose, saper ascoltare. Incontrare l’altro vuol dire anche condividere la gioia, quando avviene la gua-rigione, o un miglioramento della malattia; vuol dire però anche vedere con gli occhi del paziente, farsi carico delle sue emozioni. Per incontrare veramen-te le persone è necessario mettersi in cammino per poterle raggiungere dove loro sono; poter ascoltare il malato, permette che le sue emozioni ci raggiun-gano e al tempo stesso permette anche a noi stessi di riconoscere le nostre emozioni dinanzi al pazien-te. Ascoltare signifi ca saper andare al di là della competenza tecnica, dei protocolli, degli schemi, signifi ca disporre di uno spazio e un tempo men-tale, essere presenti alla situazione e condividerla, saperla trasformare ad esempio con un sorriso. La capacità di immedesimarsi nel paziente per trovare spesso uno spazio dialogale diverso, crea una di-mensione profonda e signifi cativa nella relazione. L’empatia è stata defi nita come la capacità di entra-re nella vita della persona per capire i suoi signifi -cati. Contraddistingue tutte le situazioni relazionali signifi cative ed importanti. Oltre ad essere presente in molte situazioni positive, l’empatia stimola nell’in-dividuo una sensibilità nei confronti del disagio e della sofferenza. Un’altra importante teorica del Nursing, Florance Nigthingale affermava che “l’assistenza infermie-ristica è un’arte, è una delle arti, anzi la più bella delle arti e come tutte le arti richiede creatività...”. La creatività, per poter essere attuata deve essere correlata a competenza, bisogna essere fl essibili,

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avere la voglia di mettersi in discussione, essere ca-paci di produrre idee ed essere originali nell’attuare l’assistenza. La creatività intesa come capacità di sapersi entusiasmare, gioire, sapersi scoprire in un modo diverso e nuovo, è presente in ogni uomo, ma a volte viene autocensurato, e questo rappre-senta uno degli ostacoli maggiori tra le potenzialità dell’individuo e la vita creativa. La voglia di mettersi in gioco diviene portavoce di un cambiamento radi-cale dell’assistenza, signifi ca anche, dove questo è possibile, autoironia, pur nell’autorevolezza del proprio intervento. Maslow distingue la “creatività derivante da specia-le talento, dalla creatività derivante dall’autorealiz-zazione”. Questa teoria lascia aperta la possibilità di permettere a tutti gli uomini di potersi autorea-lizzare nel proprio lavoro applicando la creatività, che per l’infermiere signifi ca soprattutto rappresen-tarsi in modo “autentico” nei confronti della persona attraverso il processo relazionale. Una battuta può sdrammatizzare un problema, ribaltare la posizione del paziente, rendendolo attivo rispetto al suo dise-gno. Ridere insieme signifi ca complicità, alleanza, passaggio emozionale al cambiamento. Per questa tipologia di intervento è fondamentale conoscere bene il paziente e le sue emozioni, le potenzialità che egli ha per sostenere un impatto come quel-lo dell’umorismo. Se questa capacità esiste, il riso suscita nel paziente una scintilla che può portare lontano, se invece egli non è in grado di sopportare l’ironia, una simile modalità terapeutica può essere deleteria. Una struttura sanitaria che decide di accettare e praticare la terapia della risata deve però sapersi mettere in gioco e diventare la portavoce di un cam-biamento radicale nell’assistenza. Per poter fare questo, è fondamentale credere al potere creativo che c’è in ogni persona e ciò è possibile attraverso il processo d’autorealizzazione. Sono fermamente convinta che il grande benefi cio dell’umanesimo terapeutico si possa realizzare quando l’infermiere riesce a vedere davanti a sé prima una persona e poi un malato. Non è altrimenti possibile, davanti ad un uomo che sta morendo di cancro resistere, ma se l’infermiere lo avvicina come uomo, il cancro diventa un aspetto secondario e quindi diventa più facile lavorare con lui e, perché no, anche sorride-re. Al posto di “malati terminali” chiamiamoli sempli-cemente con il loro nome, per essere squisitamente umani, non seri e distaccati, ma consapevoli che queste persone hanno bisogno di essere prese in cura. Gli studenti di medicina e delle professioni infermieristiche hanno oggi a disposizione dozzine di conferenze sul DNA e varie altre specializzazio-

ni mediche-chirurgiche ma poche occasioni della semplice relazione medico-paziente. Ci si trova ad essere immersi in una società scientifi ca che ha dato molta importanza alla professione medica per i dati tecnici e scientifi ci, ma ha perso l’approccio umano. L’assistenza infermieristica non può esaurirsi nel-la sola applicazione dei suoi contenuti scientifi ci, in quanto oltre che tecnica è anche umanità, creativi-tà, fantasia ed arte. Saper erogare un’assistenza che ponga al centro l’individuo considerandolo, dal punto di vista olistico, presuppone ad esempio an-che l’essere in grado di integrare alle terapie con-venzionali, quelle complementari che possono aiu-tare le persone a staccarsi dalla realtà di sofferenza vissuta con la malattia. Patch Adams disse: “Se ti preoccupi di combattere la malattia perdi sempre perché prima o poi tutti muoiono. Se invece ti oc-cupi della persona, allora puoi vincere perché tutti possono aprirsi alla vita”. La funzione “tecnica, re-lazionale e terapeutica”, citata nel Profi lo Professio-nale può avvenire con modalità e strumenti diversi e complementari da quelli considerati tradizionali. La qualità dell’incontro e della relazione terapeutica, costituiscono gli elementi determinanti nella profes-sione infermieristica e il clown, con la sua capacità di saper rendere ironiche e satiriche le situazioni, può intervenire come mediatore nella comunicazio-ne. Ma se solo entriamo nell’ottica che un clown può essere anche un infermiere e viceversa, allora l’assistenza potrà usufruire della capacità dell’una e dell’altra fi gura, senza per forza dover rinunciare all’utilità che una o l’altra fi gura rappresenta. Si può affermare che l’infermiere clown e l’infermiere non sono di fatto due ruoli così distanti l’uno dall’altro, ma semplicemente possono essere l’uno immede-simato nell’altro.

Il dolore nel bambino Che cos’è il dolore?

Da un punto di vista anatomo-fi siologico il sistema algico può essere defi nito come un sistema neuro-ormonale complesso, a proiezione diffusa, in cui si possono riconoscere tre sottosistemi:

1. un sistema afferenziale che conduce gli impulsi nocicettivi dalla periferia ai centri superiori;

2. un sistema di riconoscimento che “decodifi ca” e interpreta l’informazione valutandone la pericolosi-tà e predisponendo la strategia della risposta moto-ria, neurovegetativa, endocrina e psicoemotiva;

3. un sistema di “modulazione” e controllo che prov-

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IPASVIvede ad inviare impulsi inibitori al midollo spinale allo scopo di ridurre la potenza degli impulsi noci-cettivi afferenti.

I sottosistemi 1 e 2 costituiscono il sistema “nocicet-tivo”, il 3 il sistema antinocicettivo. Questa suddivi-sione funzionale trova una diretta corrispondenza nella terapia antalgica che può appunto realizzarsi in due modi fondamentali: interrompendo le vie del sistema nocicettivo ovvero rinforzando il sistema antinocicettivo. Le strutture nervose che costituiscono il sistema nocicettivo “afferente” comprendono: I recettori: terminazioni nervose libere in grado di rispondere a vari tipi di stimolazione: termica, pres-soria, variazione di pH, riduzione della tensione di O2, contatto con sostanze algogene liberate da tessuti lesi (potassio, istamina, serotonina, prosta-glandine), provenienti dal circolo sanguigno, (bradi-chinine) o dalle stesse terminazioni nervose, come la sostanza P che, possedendo varie attività biolo-giche (vasodilatazione, chemiotassi per i leucociti, degranulazione dei mastociti), trasforma i recettori in veri e propri “neuroeffettori”. Il neurone primario afferente sensoriale: ha la cellu-la d’origine posta nel ganglio spinale e due assoni di cui uno si dirige in senso centrifugo terminando con un recettore nelle strutture tessutali periferiche (cute, strutture somatiche e viscerali) e uno si dirige in senso centripeto raggiungendo il corno posterio-re del midollo spinale. Le fi bre afferenti primarie in grado di condurre lo stimolo dolorifi co sono di due tipi: fi bre mieliniche di piccolo diametro (A- D) che conducono ad una velocità di 10-30 m/sec. sensazioni dolorose di tipo puntorio, ben localizzate e con la stessa durata dello stimolo applicato (dolore “epicritico”), e fi bre amieliniche di piccolo diametro (C), con velocità di conduzione di 1-10 m/sec. Responsabili della tra-smissione di dolore poco localizzato, di tipo “uren-te”, e che ha una durata maggiore dell’applicazione dello stimolo stesso (dolore “protopatico”). Il dolore viscerale profondo e riferito ha caratteristiche simi-li a quelle del dolore “protopatico” piuttosto che di quello “epicritico”. Le corna dorsali: i neuroni delle corna posteriori che contraggono sinapsi con gli assoni provenienti dai neuroni dei gangli spinali, si organizzano in una se-rie di “lamine” sulla base della morfologia e della disposizione delle cellule stesse: in tal modo l’infor-mazione nocicettiva viene sottoposta ad una prima elaborazione grazie alla modulazione (equilibrio fra azione eccitatoria ed inibitoria) fornita dai vari neu-rotrasmettitori (sostanza P, colecistochinina, soma-

tostatina). E’ importante ricordare che sui neuroni spinali convergono input provenienti sia dalla cute sia dai visceri profondi, perciò, grazie a tale conver-genza, si realizza il cosiddetto”dolore riferito”: in tal modo l’attività indotta nei neuroni spinali, da stimoli provenienti da strutture profonde, è erroneamente riferita in un’area che è grossomodo sovrapponibile alla regione cutanea innervata dal medesimo seg-mento spinale. Il sistema spino-talamico e talamo-corticale: il si-stema spino-talamico può essere concettualmente diviso in una parte diretta, che trasmette l’informa-zione sensitiva discriminativa del dolore a livelli talamici, e una parte spino-reticolo-talamica, fi lo-geneticamente più antica, che termina più diffusa-mente nei nuclei reticolari del tronco encefalico. Il sistema spino- talamico diretto è importante per la percezione cosciente delle sensazioni nocicettive e termina ordinatamente entro il nucleo ventro-po-stero-laterale del talamo (VPL) ove afferiscono an-che le vie nervose provenienti dalle colonne dorsali che trasmettono la sensibilità tattile superfi ciale e la sensazione articolare: ciò consente di discriminare aspetti sensitivi del dolore in merito alla sua localiz-zazione, natura ed intensità. A loro volta le cellule del VPL proiettano alla corteccia somato-sensoriale primaria (1^ e 2^ area somato-sensitiva della cor-teccia parietale). Il sistema spino-reticolo-talamico lungo il suo decorso ascendente invia collaterali ai nuclei della sostanza reticolare bulbo-mesencefali-ca formando parte di un sistema polisinaptico che termina nei nuclei talamici mediali: questo siste-ma polisinaptico può mediare alcuni aspetti delle reazioni autonomiche e affettive del dolore (p. es. reazione di allerta e di orientamento agli stimoli dolorosi), mentre non sembra importante per la di-scriminazione e la localizzazione sensoriale. Ricordiamo, infi ne, che dal sistema limbico afferi-scono al talamo neuroni provenienti dall’amigdala e dall’ippocampo: queste connessioni e le loro impli-cazioni funzionali sono importanti per il tono cogni-tivo e psicoemotivo che viene impresso all’evento dolore. Il sistema di modulazione “antinocicettivo” comprende impulsi discendenti provenienti dalla corteccia frontale e dall’ipotalamo che vanno ad at-tivare neuroni mesencefalici e del bulbo. Numerose prove testimoniano che questo sistema di modula-zione contribuisce all’effetto analgesico dei farmaci oppioidi, in quanto sono presenti recettori per gli oppioidi stessi; inoltre, i nuclei che compongono il sistema di modulazione del dolore contengono peptidi endogeni, come le endorfi ne. Le condizioni in grado di attivare questo sistema di modulazio-ne in modo più costante sono il dolore e/o la paura

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che persiste per un periodo prolungato ed, infatti, è stato dimostrato che sostanze endogene e analge-siche vengono rilasciate a seguito di interventi chi-rurgici. La modulazione del dolore è a doppio senso e quindi si può avere sia produzione d’analgesia, sia intensifi cazione della sensazione dolorosa; in-fatti, è esperienza comune come stati psicologici particolari (stress e depressione) siano in grado di automantenere le sensazioni dolorose croniche. Lo stress è un fattore d’importante variazione della percezione del dolore secondo un processo”bifasico” che registra un innalzamento della soglia (Analge-sia da Stress - Stress Induced Analgesia, SIA), se-guito, con perdurare nel tempo della stimolazione, da un abbassamento a livello patologico, ovvero di gran lunga minore del livello primitivo o di controllo. In questa seconda fase possono essere coinvolti diversi peptidi come l’1-24 ACTH e la colecistochi-nina (CCK) che assume il ruolo di “naloxone en-dogeno” . Per quanto riguarda la depressione, è tuttora controverso il signifi cato della sua concomi-tanza con il dolore, per cui, se in alcuni pazienti i disturbi depressivi sembrano essere solo secondari all’insorgenza del dolore, in altri il dolore rappresen-ta una dei sintomi di depressione endogena. Molti aspetti neurochimici sembrano comunque accomu-nare dolore e depressione: il sistema monoaminer-gico, nella sua componente serotoninergica, gioca un ruolo rilevante nella modulazione endogena del dolore in quanto una sua diminuzione (a vantag-gio della componente noradrenergica), è in grado di aumentare la sensibilità e la reattività allo stimo-lo nocicettivo, di diminuire la risposta analgesica

agli oppiacei esogeni e di evocare sintomi di tipo depressivo. Dal 1987 ad ora sono sta-ti condotti molti studi in questo campo e le nuo-ve conoscenze scienti-fi che hanno portato ad una continua evoluzione ed enormi miglioramenti nel trattamento del dolo-re del bambino. Il dolore non è più considerato come semplice sintomo ma come una sindrome da prevenire o curare in modo adeguato. In tale ottica il controllo del do-lore va affrontato con un approccio multimediale, con linee guida oppor-

tune, abbandonando con-cetti errati quali: i bambini non percepiscono dolore o in ogni caso lo tollerano molto bene; i bambini non ricordano il dolore; è meglio non utilizzare gli oppiacei perché vi è il rischio di dipendenza.

L’OMS ha dettato le regole da seguire per la te-rapia del dolore in pediatria:

1) valutare l’intensità del dolore con regolarità;

2) seguire la progressione dei farmaci secondo la scala terapeutica del dolore;

3) utilizzare terapie comportamentali cognitive, fi si-che e di supporto a quelle farmacologiche;

4) somministrare dosi di antalgici suffi cienti a ga-rantire il riposo notturno;

5) anticipare e trattare aggressivamente gli effetti collaterali.

E’ nostro dovere trattare il dolore, sia per motivi umanitari ed etici, che per motivi clinici. Il dolore, in-fatti, si associa a tutta una serie di reazioni endocri-ne e psicologiche, che infl uenzano negativamente la prognosi della malattia di base e possono com-portare alterazioni psicologiche e/o psicofi siche, nella prima epoca della vita. La terapia del sorriso come cura palliativa pediatrica

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L’OMS defi nisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente, dello spirito del bambino e che comprende il supporto attivo alla famiglia. (Cancer Pain Relief and Palliative Care in Children. WHO-IASP.1998). IL minore con patologia cronica severa senza pos-sibilità di guarigione e/o con disabilità rilevante e/o terminale è un paziente elettivo per le cure palliati-ve. Se analizziamo la defi nizione di cure palliative, la comicoterapia rientra senza compromessi tra que-sti tipi di “cure” in quanto “tecnica” che usa la comi-cità per rendere migliore la degenza dei pazienti, intrattenere, distrarre, proclamare l’affermazione della vita attraverso la positività, attraverso il riso e quant’altro ad essa associato. È un sistema di supporto per famiglie e pazienti, migliora gli aspetti psicologici e sociali dei degenti, dona dignità e se-renità anche ad alcuni momenti diffi cili di cui l’ospe-dalizzazione è piena, e tante altre cose che molte ricerche ad oggi tentano di continuo di dimostrare.. Il sorriso migliora la relazione d’aiuto?

Gelotologia e psiconeuroimmunologia Nella metà degli anni 80, lUniversità del Califor-nia conferì la Laurea Honoris Causa al giornalista scientifi co Norman Cousins (guarito da una tre-menda malattia articolare, la spondilite anchilosan-te, a suon di risate e con l‟impiego di dosi mas-sicce di vitamina C). Si sancì di fatto la nascita della“gelotologia” (dal greco Ghelos= riso, Logos= scienza, scienza della risata), una nuova area di ri-cerca, una disciplina dedicata allo studio sistemati-co del ridere, del buonumore e del pensiero positivo in funzione terapeutica, come rimedio psicofi sico. La gelotologia getta le sue basi sugli studi di psico-neuro-endocrino-immunologia (P.N.E.I.) che hanno

sostanziato la diretta infl uenza degli stati mentali, delle emozioni sul sistema immunitario e viceversa, in una circolarità d’interazioni che fanno tramonta-re, di fatto, sia le ipotesi organicistiche (in pratica la prevalenza dei fattori organici nello scatenamento di una malattia) sia l’ipotesi psicosomatica (che pri-vilegia la prevalenza psicologica). Le emozioni “par-lano” direttamente al sistema immunitario attraver-so canali neuroendocrini ed il sistema immunitario (unico garante della nostra salute), rifl ette il suo stato direttamente sulle emozioni. Questa verità sperimentata clinicamente fi no ad oggi era assunta solo nelle accezioni negative: lo stress, la tristez-za, la rabbia, etc…, possono alla lunga portare alla malattia. Sarà anche vero il percorso inverso e in altre parole che le emozioni positive (amore, gioia, risata, spe-ranza, etc…) possono portare alla guarigione. La P.N.E.I. sostanzia scientifi camente quella che è la visione olistica dell’uomo, vale dire che la psiche, corpo e anima rappresentano un’ inscindibile unità. Questa rivoluzione in corso d‟opera nelle scienze bio-mediche è il prodotto di altrettante rivoluzioni all‟interno di discipline tradizionalmente separate: la neurofi siologia, l‟immunologia e l‟endocrinologia. Effetti delle emozioni sull’organismo Tra tutte le emozioni positive, il ridere/sorridere è quella più facilmente reperibile. Nel momento sus-seguente ad una risata, nel nostro organismo av-vengono una serie di modifi cazioni fi siologiche be-nefi che, che sono state evidenziate negli ultimi anni da ricerche e studi scientifi ci. Dice David Felten nell’epilogo di uno dei più impor-tanti libri sulla P.N.E.I. da lui curato: “Noi abbiamo documentato come fattori stressanti possono es-sere associati a conseguenze negative sulla sa-

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lute e all’indebolimento sulla risposta immunitaria, sfortunatamente però, poca attenzione è stata data all’esame scientifi co della controparte”. Da questo comprendiamo come le emozioni positive possano contribuire a produrre effetti benefi ci per la salute e per il potenziamento della risposta immunitaria.

Fisiologia della risata Osservando una persona in preda ad uno “scoppio di riso” possiamo notare che la sua faccia appare deformata: bocca aperta a mostrare i denti, narici dilatate, occhi stretti e luminosi. La testa e il corpo si muovono alternativamente avanti e indietro. Le spalle si sollevano e si abbassano. La tensione del torace può essere persino dolorosa. La respirazio-ne è convulsa, fatta soprattutto d’emissioni d’aria a scatto con sonore vocalizzazioni, seguite da lun-ghe ispirazioni e conseguente rilassamento. E’ il diaframma che, sussultando violentemente, guida questo tipo di respirazione. Le mani spesso corro-no al ventre quasi a sorreggerlo e comprimerlo. Le funzioni digestive sono prepotentemente attivate i muscoli dell’addome tendono, nella fase seguente, a rilassarsi cosi come la vescica. Potendo misurare il polso in questo momento all’individuo in questio-ne, potremmo contare fi no a 120 battiti, mentre se facessimo un prelievo di sangue potremmo indivi-duare delle betaendorfi ne. Inoltre il cervello è mol-to irrorato dal sangue, anche grazie all’azione dei muscoli facciali che si contraggono e si rilassano. Lo “scoppio di riso” può quindi essere paragonato ad un vero e proprio caos positivo sull’intero orga-nismo. Attraverso i due principali sensi, vista e udi-to, il cervello rileva uno stimolo risorio che colpisce quella zona del cervello deputata a riconoscere si-tuazioni come questa e scatenare come risposta, il riso. Quando la risata cessa, assieme al necessa-rio respiro profondo che viene compiuto, inizia un piacevole benefi co stato di rilassamento, nel quale cambia anche la composizione del sangue, cioè dell’energia biochimica concentrata che ci pervade.

I reali benefi ci prodotti dalla risata Ridere, specialmente nelle situazioni critiche e di-sperate, libera tutta una serie di mediatori e neu-rotrasmettitori endorfi nici che possono capovolgere emozionalmente la più drammatica delle situazioni, basta solo avere la costanza di continuare a ridere a “crepapelle” per almeno dieci minuti e il gioco è fatto. Tutto il resto della vostra persona entrerà in risonanza con la risata iniziale, scacciando il de-mone della disperazione dalle vostre menti atter-rite e sconvolte. Il vero jogging per l’anima, quindi, non è forse la risata? Ridere è più facile di quanto

potete supporre, basta semplicemente cercare d’i-mitare qualcun altro che già sta ridendo e il gioco è fatto. Tra tutti gli esseri viventi solo l’uomo ha il dono del sorriso. Ridere, infatti, è un’attività tipica-mente umana, legata a fattori organici. E’ l’uomo e non l’animale, ad essere dotato del muscolo risorio del Santorini situato lateralmente alle labbra, che, quando si contrae, fa ritrarre la bocca. Il risorio e il grande zigomatico provocano, fi sicamente, la ri-sata. Pensate che ridere è un‟espressione innata”. Tutti hanno la facoltà di ridere, indifferentemente a quale cultura apparteniamo o in quale parte del mondo viviamo.

Perché è utile, importante far sorridereL’umorismo in medicina andrebbe utilizzato di più: si vede in corsia, chi fa più battute e scherza con i malati è molto più umano. Tutti gli studi nel campo della salute ci assicurano che dovremmo comincia-re col ridere di più, perché RIDERE FA BENE. Da sempre si sa, le persone allegre e ottimiste vivono più a lungo e meglio. Gli effetti psicologici e biologici del riso sono tutti positivi. Ridere, infatti, è un esercizio muscolare e respiratorio, che permette un fenomeno di purifi ca-zione e liberazione delle vie respiratorie superiori. Ridere può, in effetti, far cessare una crisi d’asma, provocando un rilassamento muscolare delle fi bre lisce dei bronchi, per inibizione del sistema para-simpatico. Si può affermare, quindi, che il riso ha un ruolo di prevenzione dell’arteriosclerosi. Ridere combatte la stitichezza perché provoca una tale ginnastica addominale che stimola in profondità l’apparato digestivo. Passa anche l‟insonnia, per-ché ridere diminuisce le tensioni interne. Il dolore pertanto può essere combattuto ricorrendo alla te-rapia del sorriso che può, in qualche modo, sostitu-irsi ai trattamenti farmacologici per ripristinare una buona qualità di vita nei piccoli pazienti.

La terapia del sorriso Una defi nizione dice: “La terapia dell’umorismo è un intervento usato dai professionisti sanitari per produrre, su questi ultimi, benefi ci effetti”. I nostri pazienti sono molto complessi, sono gene-ralmente immunodepressi. Per questo motivo si deve limitare al minimo il contatto con altre persone a parte, ovviamente, la famiglia e gli operatori. Il primo punto che voglio affrontare è se la comicità è considerata come una scarsa professionalità da parte dell’infermiere. Se, come professionisti siamo in grado di valutare i bisogni e le criticità del malato, non si capisce perché non si possa, in egual manie-ra, valutare quando e come poter scherzare con lo

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stesso paziente. Il bambino nasce con la voglia di scoprire giocare, sorridere e sognare. Nel nostro caso dobbiamo en-trare nel suo mondo, usare la sua logica, condivi-dere la sue emozioni e, cosi facendo, guadagnare la sua fi ducia. Attraverso il gioco, il bambino espri-me stati d’animo, paure, emozioni. Il gioco, infatti, è uno strumento indispensabile per la crescita intel-lettiva del bambino, attraverso di esso il piccolo im-para ad affrontare e vivere le situazioni della vita. E’ quindi indispensabile offrire, durante il soggiorno in ospedale, ai nostri pazienti l’assistenza d’operatori professionalmente preparati sia dal punto di vista tecnico che psicologico, ma anche la presenza co-stante di volontari che possono aiutare il bambino a continuare a giocare nonostante la situazione di malattia.

La terapia del sorriso come nuova modalità di coping Il modo in cui una persona fronteggia le situazioni di stress è determinato in parte dalle risorse persona-li, dal grado di salute, dalle energie che possiede, dalle credenze e dai valori, dagli impegni. Le moda-lità con cui l‟individuo tenta di adattarsi, di gestire la situazione, di fronteggiare un problema produco-no effetti determinanti nel processo di guarigione. Secondo Rustoen T. 1995): “L’individuo capace di conservare la speranza può adattarsi meglio alla sua condizione di malato e percepire una più eleva-ta qualità della vita”. Gli studi di Cunningham A.J. (1991) hanno messo in evidenza come anche nei pazienti oncologici ci siano correlazioni positive tra percezione ed effi ca-cia personale elevata, umore positivo e livelli più alti di qualità della vita nelle strategie di coping. Secondo Antonovsky A. (1980/1987) una dimen-sione fondamentale per il benessere psicologico dell’individuo che affronta un evento stressante come per esempio il cancro è relativa alla capacità

di percepire un senso di coerenza nella propria vita. L’individuo che è capace di pensare all’ esistenza come a qualche cosa di comprensibile, di struttura-to è in grado di affrontare gli eventi traumatici senza perdere la fi ducia nel mondo e in sé stesso. Gli stu-di di Taylor S.E., Armor D.A. (1996) sull’adattamen-to agli eventi negativi della vita hanno permesso di delineare come le illusioni positive risulterebbero effi caci nel favorire un adattamento positivo a even-ti dannosi e stressanti come la malattia. Secondo questi autori le illusioni positive consentono all’in-dividuo di ritrovare i livelli di funzionamento prece-denti all’evento traumatico. La malattia è fonte di stress e di ansia ed è un’esperienza universalmen-te condivisa e in certi momenti può essere addirit-tura penalizzante. Noi tendiamo di conseguenza a ripararci da essa mettendo in atto le strategie di co-ping, precedentemente analizzate, per ristabilire il nostro benessere psicologico ottenendo un sollievo dall’ansia e dallo stress. Grazie a queste strategie riusciamo ad allontanare da noi le sensazioni nega-tive causate dalla malattia. L’uso di queste strategie di coping sono numerose e agiscono combinandosi tra loro per ristabilire il nostro benessere psicologi-co. Queste sono necessarie ad ognuno di noi per mantenere una buona stabilità emotiva. Accanto alle strategie di coping di controllo, del ri-tiro, del sostegno, del rifi uto possiamo inserire la strategia del sorriso e del buon umore. Chi utilizza la strategia di coping del sorriso, infatti, ha maggiori possibilità di sconfi ggere la malattia e risponde me-glio alle cure somministrate dai medici.

Terapia del sorriso, strumento per l’infermiere in oncologia Durante l’elaborazione di questa tesi, ho potuto documentarmi sulla Terapia del Sorriso, attraverso molteplici ricerche che ho effettuato su Pub med, banca dati scientifi ca che contiene studi anche a livello infermieristico, ho rintracciato uno studio che dimostra come la terapia del sorriso nel setting ospedaliero sia molto presente. Lo studio è “Hu-mor and laughter in palliative care: an ethnographic investigation”, condotta in Canada nel 2004 presso l‟Università di Manitoba. Lo studio ha visto gli infermieri di cure palliative, che lavorano in un contesto di serietà e affrontano situazioni molto delicate, sperimentare l’umorismo e la risata verifi cando come questi aiutino a creare un clima sereno alleviando la tensione dei pazienti, delle loro famiglie e non per ultimi degli infermie-ri. Lo studio etnografi co è stato condotto su trenta degenti nell’unità di cure palliative. I risultati hanno dimostrato che l’umorismo e la risata hanno imple-

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mentato diverse funzioni: costruire relazioni tera-peutiche effi caci, proteggere la dignità e il valore della vita, affrontar e situazioni stressanti. Il signifi -cato dei risultati s’inserisce nel concetto di “umaniz-zare” la dimensione di cure palliative e contribuisce ad aumentare il numero di ricerche basate su prove d’effi cacia. Nel 2005 il primo studio scientifi co internazionale è stato realizzato all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, dove si è dimostrato che la risata riduce dolore e stress nei bambini sottoposti ad intervento chirurgico. Un gruppo di ricercatori dell‟Ospedale Pediatrico Anna Meyer di Firenze ha documentato che è possibile ridurre l‟ansia dei bambini sottoposti ad intervento chirurgico grazie all’aiuto dei clown-dottori. Questo lavoro è stato ora pubblicato sulla prestigiosa rivista statunitense “Pediatrics” e pub-blicato sul sito di pub-med come studio randomiz-zato. È risaputo che l’anestesia e l’intervento pos-sono essere vissuti come paurosi e stressanti dai bambini, si stima che il 60% di questi soffra d’ansia preoperatoria, considerata anche fattore predittivo di disturbi post-operatori. Nella ricerca condotta dal servizio Terapia del Dolore dell’Ospedale Pedia-trico Meyer, sono stati studiati 40 bambini, da 5 a 12 anni, che dovevano sottoporsi ad intervento di chirurgia minore in day-surgery, di cui la metà (se-lezionata casualmente) era accompagnata in sala preoperatoria da 2 clown-dottori e da un genitore, mentre l‟altra metà era portata soltanto da un ge-nitore (come di routine). Nel “gruppo sperimenta-le” due clown conoscevano il bambino in reparto, trascorrendo insieme circa 15-20 minuti, per poi accompagnarlo fi n dentro la sala operatoria, dove il bambino veniva addormentato dagli anestesisti, mentre era distratto da giochi e magie dei clown. Tramite specifi ci test psicologici sono state misura-te l‟ansia del bambino e del genitore e sono state fatte interviste a genitori, clown, nonché a medici e infermieri della sala operatoria. I risultati indica-no che l‟ansia dei bambini accompagnati dai clown diminuisce quasi del 50% rispetto a, quando sono senza la presenza dei clown. Inoltre i bambini con i clown non presentano un innalzamento della paura all’avvicinarsi dell’anestesia, come invece succede a quelli senza il supporto dei clown. Anche i genitori hanno espresso nelle interviste un parere positivo per l’iniziativa, poiché anche loro sono distratti e rilassati dall’ allegro intervento dei clown. Tuttavia emerge un limite in questo studio, espresso pro-prio dal personale sanitario della sala operatoria che, pur trovando un grande aiuto dai dottori clown, vede in maniera un po‟ critica l‟invasione delle sale operatorie da parte di personale che normalmente

non ne fa parte. Questa ricerca, tra le prime al mon-do in quest’ambito, ha quindi evidenziato l’impor-tanza del gioco e del ridere per i bambini in ospe-dale, dimostrando scientifi camente che ridere aiuta i piccoli pazienti ad affrontare il dolore e lo stress, agendo direttamente su ansia e paura. Tutte queste ricerche dimostrano che in reparti mol-to “diffi cili”, come l‟ematologia e l’oncologia, dove ho fatto la mia indagine su questa terapia, viene utilizzata come strumento per migliorare i rapporti relazionali/comunicativi con il paziente e i genitori, ma anche per poter ridurre il rischio di “ burn-out”. Infatti, gli infermieri che lavorano in questi reparti, sono soggetti all’effetto del burn-out, ma molte ri-cerche hanno dimostrato che attraverso il sorriso l’infermiere può evitare questo rischio e non rima-nere impassibili o freddi davanti ai malati. La Tera-pia del Sorriso è anche, un espediente per ridurre la freddezza delle strutture ospedaliere e a contribuire a colmare il distacco tra il bambino e l’equipe del reparto. Si possono sdrammatizzare i trattamenti medici, così anche le paure e ansie associate alla malattia e alla degenza. Associare il sorriso e la gioia ad una realtà dolorosa come può essere in un reparto d’oncologia o ematologia, può sembrare sconveniente, imbarazzante o “non professionale” agli occhi di un infermiere. Dopo aver approfondi-to le conoscenze sulla relazione d’aiuto al bambino e gli effetti delle emozioni positive sull’organismo del bambino, ho voluto osservare se gli infermieri sono documentati sulla Terapia del Sorriso e vede-re come sono i rapporti tra l’infermiere e il bambino, attraverso la somministrazione di un questionario agli infermieri. L’ipotesi che voglio formulare è che, anche negli altri reparti, il personale infermieristico intravede nella Terapia del Sorriso la possibilità di ritrovare una modalità valida per creare un‟effi cace clima comunicativo/relazionale” e un’ottima relazio-ne d’aiuto con il paziente.

La metodologia La ricerca è stata effettuata attraverso la sommini-strazione, al personale infermieristico, nella Struttu-ra Complessa di oncologia dello Stabilimento “San Giuseppe Moscati”, di un questionario, elaborato appositamente per tale ricerca. Il questionario è composto da 18 domande a risposta multipla. La prima parte del questionario riguarda la struttura del reparto; la seconda parte riguarda il rapporto tra infermiere e il bambino e la terza parte sulla terapia del sorriso.Ho consegnato 40 questionari, ma solo 25 sono stati compilati. Il questionario è stato compilato in forma strettamente anonimo nel reparto e ambula-

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IPASVItorio d’Oncologia dello Stabilimento “San Giuseppe Moscati” di Taranto.

Elaborazione dei dati

Domanda n°1:”Quanti posti letto comprende il tuo reparto?”

Il reparto è composto da 20 posti e l’ambulatorio da 15 posti.

Domanda n°2: ” In reparto, ci sono stanze ri-creative o stanze per il gioco, dove i bambini ricoverati possono giocare?”

Nell’ambulatorio di oncologia esiste una ludoteca, dove i bambini possono giocare, in attesa delle pro-cedure diagnostiche.

Domanda n°3: ” Qual è la fascia d’età dei bambi-ni presenti in reparto o in ambulatorio?”

Domanda n°4:”Le reazioni del bambino durante il ricovero è di tipo”:

Le reazioni dei bambini durante il ricovero dipendo-no molto dallo stato dei loro genitori, dalla struttura ospedaliera e come vengono accolti dagli operatori sanitari.

Domanda n°5: ”Esiste un supporto psicologico per il bambino ricoverato o per la famiglia?”

Nel reparto non è presente, nell’equipe, una fi gu-ra di supporto psicologico, però, durante la com-pilazione dei questionari il 25% degli infermieri ha risposto “SI”, perché il supporto psicologico in que-stione sono gli infermieri, che attraverso il sorriso e l’esperienza accolgono il bambino e la famiglia.

Domanda n°6: ”Quali sono i sentimenti dei ge-nitori?”

Molto spesso i genitori vengono lasciati soli o non sono ben informati su tutto ciò che riguarda la ma-lattia oncologica e su quello che il bambino deve affrontare, per questo la maggior parte di loro pro-vano confusione e senso di impotenza.

Domanda n°7: ”Che tipo di rapporto esiste tra i genitori e il bambino?”

Domanda n°8: ”Esistono delle diffi coltà comuni-cative/relazionali tra l‟infermiere e il bambino?”

La risposta a questa domanda dipende molto dall’e-tà del bambino, dall’esperienza dell’infermiere e se

l’infermiere utilizza il sorriso e la gioia per instaurare la relazione d’aiuto con il bambino.

Domanda n°9: ”Se sono nate delle diffi coltà, in quale fascia d’età?”

Queste diffi coltà sono dovute al fatto che i bambi-ni molto piccoli comunicano attraverso il pianto, e molto spesso l’infermiere non riesce a capirne la causa.

Domanda n°10: ”Come sono le tue conoscenze sulla sfera comunicativa/relazionale in campo pediatrico?”

Domanda n°11: ”Ci sono corsi informativi, per gli infermieri, sulla relazione d’aiuto tra l’infer-miere e il bambino oncologico?

Solo il 40% partecipa volontariamente a questi corsi, però molti si lamentano per la scarsità de-gli stessi nel territorio tarantino. Domanda n°12: ”Conosci la “Comicoterapia” o “La Terapia del Sorriso”o la “Clownterapia”?

Risultati della ricerca

I dati hanno rilevato che nel reparto, anche se non è presente la “Terapia del sorriso”, alcuni infermieri utilizzano il sorriso per relazionarsi con il paziente. Quindi, valutando complessivamente i dati, emerge che la maggior parte degli infermieri è incline ad utilizzare la “terapia” ed a partecipare a corsi for-mativi.

Proposte infermieristiche

Di fatto ho notato che nella realtà tarantina manca-no dei corsi appositi e la mia proposta infermieristi-ca è quella di promuoverne per due motivi:

1) Per creare un’ottima relazione d’aiuto con il paziente;

2) Molte ricerche hanno dimostrato che la Te-rapia del sorriso riduce il rischio di “burn-out”.

Infi ne, è importante evidenziare la proposta di leg-ge n.440 “Disposizioni sulle terapie complementari: Terapia del Sorriso e Pet Therapy” , avanzata nel 2007 dalla regione Piemonte.

La tesi completa è corredata da un’ampia ed esaustiva bibliografi a che omettiamo di pubbli-care per ragioni di spazio ma è a disposizione di chiunque voglia prenderne atto.

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IPASVICOLLEGIO

Q U O T E D I PA R T E C I PA Z I O N E(Le quote di partecipazione riferite ai Soci saranno applicate anche agli studenti di Laurea Specialistica e Master)

PACCHETTO CONGRESSUALE (QUOTE PER PERSONA NON SCORPORABILI)Per persona in camera doppia Soci o studenti € 160, non Soci € 200 (entro il 10 Feb).Soci o studenti € 190, non Soci € 230 (dopo il 10 Feb.)Per persona in camera singola Soci o studenti € 195, non Soci € 235 (entro il 10 Feb).Soci o studenti € 225, non Soci € 265 (dopo il 10 Feb).Accompagnatore non iscritto al convegno: € 100 (entro il 10 Feb) € 130 (dopo il 10 Feb).Supplemento per sistemazione in Hotel 4 stelle: € 20. Notte supplementare in camera doppia: € 45 in

hotel 3 stelle, € 55 in hotel a 4 stelle.Notte supplementare in camera singola: € 75 in hotel 3 stelle e € 85 in hotel a 4 stelle.Le quote del pacchetto congressuale comprendono:• n. 1 pernottamento (25 Feb) in: Hotel 3 stelle - B&B - Agriturismo - con prima colazione• open coffee del 25 febbraio presso il Centro Congressi• pranzo del 25 febbraio in ristorante con servizio al tavolo (bevande e caffè compresi)• materiale informativo e kit congressuale• attestato di partecipazione e Crediti ECM

SOLO CORSO - CONVEGNO (QUOTE PER PERSONA NON SCORPORABILI)Iscrizione Soci o studenti: € 110 entro il 10 Feb.€ 140 dopo il 10 Feb.Non Soci o studenti: € 150 entro il 10 Feb. € 180 dopo il 10 Feb.Le quote comprendono:• open coffee del 25 febbraio presso il Centro Congressi• pranzo del 25 febbraio in ristorante con servizio al tavolo (bevande e caffè compresi)• materiale informativo e kit congressuale• attestato di partecipazione e Crediti ECM

S E R V I Z I FA C O L TAT I V I25 Febbraio - Serata Di GalaRistorante “La Dolce Vita” sul Lago di Corbara con musica dal vivoMax 180 partecipanti. Costo € 50 (suppl. servizio navetta € 5)

I N F O R M A Z I O N I G E N E R A L IPresso la segreteria sarà possibile iscriversi al Comitato Infermieri Dirigenti anche per l’anno 2011.La consegna degli attestati ECM verrà effettuata dopo la valutazione dei questionari fi nali e, comunque, non prima delle ore 12,30 del 26 febbraio 2011.

Il Collegio IPASVI di Taranto metterà un pullman a disposizione degli iscritti, a titolo gratuito, previa dimostrazione dell’avvenuta iscrizione.

Per chiarimenti ed approfondimenti, visitare il sito del Collegio.

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IPASVI PROGRAMMA SCIENTIFICO

Corso di aggiornamento di 1º Livello“Metodologia della ricerca EBN attraverso la lente

dell’inglese scientifi co e della tecnologiainformatica computerizzata”

Il corso si snoderà in 10 giornate, per un totale di 36 ore di insegnamentoGiorni: 17-24-31 marzo • 7-14- 28 aprile • 5-12-19-26 maggioOrario: 14,00 - 18,30Destinatari: infermieri.Numero partecipanti: 40Costo: € 40Numero di accreditamento: 11005691Sede del corso: Collegio Ipasvi- via Salinella, 16 - TarantoPer informazioni approfondite visitare il sito a partire dal 10 marzo

Corso di aggiornamento“Il benessere organizzativo degli Infermieri”

Ore di formazione: 11Giorni: 16- 23- 30 marzo Orario: 14-18,30Destinatari: infermieriNumero partecipanti: 80Costo: € 25Numero di accreditamento: 11047052Sede del corso: Collegio Ipasvi- via Salinella, 16 - TarantoPer informazioni approfondite visitare il sito a partire dal 1 marzo

Programma Scientifico

Importante! MODALITÀ DI ISCRIZIONE AI CORSIL’iscrizione va fatta presso la sede del Collegio nei giorni e negli orari di apertura.Non saranno accettate richieste di partecipazione al di fuori dei giorni e degli orari indicati.Non si accettano iscrizioni via fax ed e-mail