IL TESTO E L’AUTORE - GE il Capitello

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IL TESTO E L’AUTORE Non desideravo tanto essere uno scrittore (sebbene, in fondo, lo sognassi) quanto consacrarmi a imparare la scrittura. Robert Louis Stevenson © EDIZIONI il capitello

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IL TESTO E L’AUTORE

Non desideravo tanto essere uno scrittore (sebbene, in fondo, lo sognassi) quanto consacrarmi a imparare la scrittura.

Robert Louis Stevenson

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1. il Padre: un sacerdote che conosce e frequenta la famiglia.2. professioni: il sacerdote cura le anime per prepararle alla vita dopo la morte; il medico

invece cura gli uomini per mantenerli il più possibile in vita.3. angustie: difficoltà economiche, ristrettezze.4. residencia: «residenza», in spagnolo; qui indica una casa di una certa importanza.5. leghe: territori; la lega è propriamente un’unità di misura itinerante, indica quindi la va­

stità dei territori.6. buona causa: il protagonista militava nell’esercito legittimista, ovvero a fianco dei re du­

rante le guerre napoleoniche.

Robert Louis Stevenson

OLALLA

– Adesso – disse il medico, – la mia parte è fatta e, posso dire, conuna certa vanità, fatta bene. Non vi rimane che andarvene da questa città fredda e velenosa e concedervi due mesi d’aria pura e di coscienza tranquilla. Quest’ultima, è affar vostro. Per la prima, credo di potervi aiutare. È un caso piuttosto strano; proprio l’altro giorno il Padre1 è tornato dalla campagna; e poiché siamo vecchi amici, sebbene le no­stre professioni2 siano l’una il contrario dell’altra, si è rivolto a me per certi suoi parrocchiani che si trovano in angustie3. Si tratta di una famiglia… ma voi non conoscete la Spagna, e conoscete appena i nomi dei nostri nobili; e allora, basti ch’io vi dica che una volta erano gente d’importanza, e ora sono sull’orlo della miseria. Non possiedono più che una residencia4, e certe leghe5 di montagne deserte, nella maggior parte delle quali neppure una capra potrebbe trovar di che vivere. Ma la casa è bella e antica, ed è molto in alto sulle montagne, in luogo assai salubre; e non appena sentii le parole del mio amico, mi ricor­dai di voi. Gli dissi che avevo un ufficiale ferito, ferito per la buona causa6, che adesso era in grado di muoversi; e gli proposi che i suoi amici vi prendessero come pensionante. Subito il viso del Padre si fece scuro, come io avevo maliziosamente previsto. «Non c’era neppur da pensarci», disse. «Allora, che muoiano di fame», dissi io, «perché non ho nessuna simpatia per l’orgoglio degli straccioni». E così ci lasciam­mo, non molto contenti l’uno dell’altro; ma ieri, con mia meraviglia, il

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7. altolocati: in alto nella scala sociale.8. tenterà: attirerà.

Padre ritornò e riconobbe una cosa; s’era informato, disse, e la difficol-tà era minore di quanto avesse temuto; o, in altre parole, quella gente orgogliosa aveva messo da parte il suo orgoglio. Gli tornai a fare la mia offerta; e, a condizione che approviate, ho preso un appartamento per voi alla residencia. L’aria di quei monti rinnoverà il vostro sangue; e la quiete nella quale vivrete vale tutte le medicine del mondo.

– Dottore, – dissi, – siete stato in tutto e per tutto il mio buon ange-lo, e il vostro consiglio è un ordine. Ma ditemi, vi prego, qualche cosa della famiglia con la quale debbo abitare.

– Ci stavo venendo, – disse il mio amico; – e, a dire il vero, c’è unadifficoltà. Quei miserabili, come ho detto, son di famiglia molto nobile e sono gonfi della più assurda vanità; hanno vissuto per generazioni sempre più isolati, allontanandosi tanto dai ricchi, ch’eran diventati troppo altolocati7 per loro, che dai poveri, che consideravano ancora troppo in basso; e anche oggi, che la povertà li costringe ad aprire la loro porta a un ospite, non lo posson fare senza un patto assai sgrade-vole. Dovete rimanere, dicono, un estraneo; avranno cura di voi, ma rifiutano fin dal principio l’idea della più piccola intimità.

Non negherò che rimasi un po’ offeso, e forse questo sentimento accrebbe il mio desiderio di andare, perché ero sicuro che avrei potuto rompere quella barriera, se avessi voluto. – Non c’è niente d’offensivo in un simile patto, – dissi; – e anzi simpatizzo col sentimento che l’ha ispirato.

– È vero è che non vi hanno mai veduto, – rispose il dottore corte-semente; – e se sapessero che siete l’uomo più bello e più gradevole che sia mai venuto dall’Inghilterra (dove, mi dicono, i begli uomini sono comuni, ma non altrettanto gli uomini gradevoli), indubbiamente vi accoglierebbero con miglior grazia. Ma, poiché prendete così bene la cosa, non importa. A me, a dir vero, pare una scortesia. Ma vedrete che avrete da guadagnarci. La famiglia non vi tenterà8 troppo. La ma-dre, un figlio e una figlia; una vecchia, che dicono sia mezzo scema, un villano d’un campagnolo, e una ragazza di campagna, che il suo confessore stima molto, e quindi, molto probabilmente, – sogghignò il medico, – è bruttina; in tutto questo, non c’è molto che possa attrarre un brillante ufficiale.

– Eppure dite che sono molto nobili – obiettai.

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9. bastardi: nati da due persone non sposate tra loro; il termine veniva usato in senso di­spregiativo.

10. congeniale: adatta.11. Sierra: «zona montuosa», in spagnolo; in Spagna, Sierra Nevada, nel Sud del paese.12. convoglio: carro, in questo caso di tipo militare.

– Sì; ma in quanto a questo, dovrei distinguere, – rispose il dot tore.– La madre lo è; ma non i figli. La madre era l’ultima rappresentante diuna famiglia principesca, degenerata tanto nell’intelletto che nella for­tuna. Suo padre non era soltanto povero, ma anche paz zo; e la giovanerimase senza controllo nella residencia fino a quando egli morì. Allo­ra, poiché gran parte del patrimonio era finita, e poiché la famiglia eraestinta, la ragazza ebbe meno cure che mai, fin che si sposò, il Cielo sacome, con un mulattiere, dicono alcuni; altri dicono con un contrab­bandiere; mentre vi sono alcuni che sostengono che il matrimonio nonc’è stato per nulla, e che Felipe e Olalla sono bastardi9. L’unione, qua­lunque fosse, fu interrotta tragicamente qualche anno fa; ma vivonocosì ritirati, e il paese, a quel tempo, era in tale disordine, che come siamorto quell’uomo lo sa soltanto il prete: seppure lo sa anche lui.

– Comincio a credere che avrò delle strane esperienze, – dissi.– Non lavorerei di fantasia, se fossi in voi, – rispose il dottore; – ho

paura che troverete una realtà molto vile e comune. Felipe, per esem­pio, l’ho veduto. E che cosa debbo dire? È molto rozzo, molto astuto, molto contadino, e, direi, un innocente; gli altri, probabilmente, son bene assortiti. No, no, Señor comandante, dovete cercare una compa­gnia congeniale10 tra i grandi panorami dei nostri monti; e da questi, se amate appena un poco le opere della natura, vi prometto che non sarete deluso.

Il giorno dopo, Felipe venne a prendermi con un rozzo carro cam­pagnuolo, tirato da una mula; e poco prima che sonasse mezzogior­no avevo detto addio al dottore, al padrone dell’albergo, e a qualche anima buona che m’era stata amica durante la mia malattia, e uscim­mo dalla città dalla porta Orientale, e comin ciammo a salire nella Sierra11. Ero stato così a lungo prigioniero, da quando ero stato ab­bandonato come mo ribondo dopo la perdita del convoglio12, che il solo odore della terra mi fece sorridere. La campagna che stavamo attraversando era selvaggia e rocciosa, in parte coperta di fitte bo­scaglie, ora di sugheri, e ora del grande castagno spagnolo, e spesso interrotta dal letto di tor renti montani. Il sole brillava, il vento stor­miva allegro; e avevamo percorso qualche miglio, e la città non era

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13. carnagione scura… peloso: al protagonista scozzese, di pelle chiara, la carnagione scura e i peli appaiono come qualcosa di poco elegante, ma anche di inquietante nella loro diversità; nel romanzo Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde quest’ultimo si caratterizza proprio per un’eccessiva pelosità, che lo avvicina alle bestie.

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più che una collinetta da nulla nella pianura dietro di noi quando la mia attenzione cominciò a interessar si del mio compagno di viaggio. A guardarlo, non pare va che un ragazzo di campagna, piccolo, rozzo, ben fat to, come il dottore lo aveva descritto, assai pronto e vivace, ma privo d’ogni cultura; e questa prima im pressione era durevole, per la maggior parte di quelli che lo osservavano. Quello che mi colpì prima di tutto fu il suo chiacchierio familiare; così stranamente in disac­cordo con i patti secondo i quali dovevo essere ac colto; e, in parte per la sua pronuncia imperfetta, in parte per la vivace incoerenza degli argomenti, così difficili da seguire, senza uno sforzo della mente. È vero che avevo parlato anche prima con persone di una simile costitu­zione mentale; persone che pareva vivessero (come lui) coi sensi, presi e posseduti dall’oggetto veduto in quel momento e incapaci di libera­re la mente da quell’impressione. La sua mi pareva (mentre sedevo, prestandogli orecchio in modo distante) una specie di conversazione adatta ai carrettieri, che passano molto del loro tempo con l’intelletto in grande riposo in mezzo ai panorami d’un paese che è loro familia­re. Ma questo non era il caso di Felipe; da quanto diceva egli stesso, se ne stava sempre in casa. – Vorrei esserci, adesso, – disse; e poi, visto un albero a lato della strada, si mise a raccontarmi che una volta aveva veduto un corvo tra i suoi rami.

– Un corvo? – ripetei, colpito dall’assurdità della sua osservazione, e credendo di non aver capito bene.

Ma era già preso da una nuova idea; ascoltava con interesse rapito, con la testa da una parte e la faccia contorta da una smorfia; e mi diede una gran spinta, per farmi tacere. Poi sorrise e scosse il capo.

– Che cosa avete sentito? – gli domandai.– Oh, non è niente, – disse; e cominciò a incitare la mia mula con

grida che riecheggiarono in modo inu mano tra le pareti dei monti.Lo guardai con maggiore attenzione. Era superlativamente ben fat­

to, leggero, e snello e forte; aveva un bel viso; gli occhi gialli erano molto grandi, per quanto, forse, non molto espressivi; nell’insieme, era un ragazzo di bell’aspetto, e non trovavo difetti in lui, se non nella sua carnagione scura e nel suo essere un po’ peloso13; due caratteristiche che mi spiacevano. Era il suo intelletto che mi metteva in imbarazzo,

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14. Kelpie dei fiumi: demone che, secondo leggende celtiche, sotto la forma di un cavallonero infesta i fiumi e i laghi della Scozia.

15. in falsetto: con un tono di voce più alto del normale.

eppure mi attraeva. L’espressione del dottore, «un innocente», mi ri­tornò; e mi domandavo se quella fosse, dopo tut to, la vera descrizio­ne, quando la strada cominciò a scendere nello stretto e ignudo abisso d’un torrente. Le acque tuonavano tumultuose nel fondo; e il burrone era pieno del suono, degli spruzzi sottili e del fragore ventoso che ac­compagnavano la loro discesa. La scena era certo impressionante; ma la strada era molto sicu ramente chiusa in quel punto; la mula proce­deva regolarmente; e fui stupito nel vedere la pallidezza del terrore sul volto del mio compagno. La voce di quel torrente selvaggio era inco­stante, ora si faceva più sommessa, come per stanchezza, ora raddop­piava il suo rauco suono; improvvise correnti parevano gonfiarne il corso, precipitandosi giù per la gola, rumoreggiando infuriate contro le pareti che facevan barriera; e osservai che a ognuno di questi nuovi fragori il mio compagno impallidiva e trasaliva di più. Mi vennero in mente certe superstizioni scozzesi e il Kelpie dei fiumi14; mi domandai se simili idee avessero corso in quella parte della Spagna; e, volgendo­mi a Felipe, cercai di farlo parlare.

– Che cosa c’è? – gli domandai.– Oh, ho paura – rispose.– Di che cosa avete paura? – soggiunsi. – Questo pare uno dei punti

più sicuri di questa strada molto pericolosa.– Fa rumore – disse, con un timore tanto semplice che mi tolse ogni

dubbio.L’intelletto del ragazzo era quello d’un bambino; la sua mente era

come il suo corpo, attiva e svelta, ma intristita nello sviluppo; e co­minciai, da allora, a considerarlo con una certa pietà, e ad ascoltare dapprima con indulgenza, e poi anche con piacere, il suo sconnesso chiacchierio.

Verso le quattro del pomeriggio avevamo superato la vetta del grup­po di monti, avevamo detto addio al chiaro sole d’occidente e comin­ciavamo a scendere dall’altra parte, rasentando l’orlo di molti burroni e muovendo attraverso l’ombra di scuri boschi. Da tutte le parti si le­vava la voce delle acque, non condensate e formidabili come nella gola del fiume, ma sparse, e che risonavano allegre e melodiose dall’una all’altra delle anguste valli montane. E qui l’animo della mia guida si rinfrancò, ed egli cominciò a cantare in falsetto15, e con una singolare

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16. ottusità: mancanza di sensibilità e capacità.17. vezzo: abitudine graziosa.18. moresco: arabo; alcune porte arabe hanno un portone di legno in cui, come decorazione,

sono infissi grossi chiodi di ferro (uscio chiodato).19. lustro: lucido.

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ottusità16 per la musica, non mai fedele né alla melodia né al tono, ma mutandoli a capriccio, eppure, chissà come, ottenendo un effetto naturale e gradevole, come quello del canto degli uccelli. Con lo scen­dere dell’oscurità, caddi sempre più sotto l’incanto di quegli ingenui gorgheggi, e ascoltavo, sempre aspettando una melodia più distinta, e sempre deluso; e quando, alla fine, gli domandai che cosa cantas­se: – Oh, – esclamò, – canto, semplicemente! – Sopra ogni cosa, mi conquistava un suo vezzo17 di ripetere senza stancarsi la stessa nota a piccoli intervalli; non era monotona come potreste immaginare, o, almeno, non era sgradevole; e pareva spirare una meravigliosa letizia per il creato, come ci piace immaginarla nell’immobilità degli alberi, o nella pace d’uno stagno.

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La notte era già scura quando giungemmo a una spianata, e poco dopo ci fermammo, davanti a una certa mole ancor più tenebrosa che immaginai fosse la residencia. Qui la mia guida, scesa dal carro, gridò e fischiò a lungo inutilmente; e alla fine venne verso di noi un vecchio contadino, uscendo dal buio circostante, con una candela in mano. A questa luce potei distinguere una gran porta ad arco di stile moresco18: era chiusa da un uscio chiodato, nel quale Felipe aperse una porticina. Il contadino condusse il carro a un locale adiacente; ma la mia guida e io passammo per la porticina, che si chiuse dietro di noi; e, al chiarore della candela, attraversammo un cortile, salimmo una scala di pietra, passammo per una galleria aperta, e poi salimmo altri gradini, e giun­gemmo alla fine alla porta di una grande stanza, piuttosto vuota. Que­sta stanza, che capii doveva essere la mia, aveva tre finestre, incorni­ciate con un legno lustro19, e aveva per tappeto le pelli di molti animali selvatici. Nel caminetto ardeva un bel fuoco, che spandeva all’intorno una luce tremolante e mute vole; vicino alla fiammata c’era una tavola, preparata per la cena; e in fondo alla stanza era pronto il letto. Questi preparativi mi fecero piacere, e lo dissi a Felipe; ed egli, con la stessa

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20. grossolana: volgare, elementare.21. intangibile: impalpabile, quasi inconsistente.

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semplicità d’animo che avevo già notata in lui, fece eco con calore alle mie lodi. – Una bella stanza, – disse; – una stanza molto bella. E anche il fuoco; il fuoco fa bene; scioglie il piacere nelle ossa. E il letto, – con­tinuò, portando da quella parte la candela, – guardate che lenzuola fini, come son morbide, come son lisce, lisce; – e passò più e più volte la mano sul tessuto, e poi vi posò il capo e vi stropicciò le guance con una soddisfazione grossolana20 che mi irritò. Presi dalle sue mani la candela (perché temevo che desse fuoco al letto), e tornai alla tavola; e, vedendo che c’era un boccale di vino, ne versai un bicchiere e gli dissi di venire a berlo. Balzò subito in piedi, e corse da me con una espres­sione di grande speranza; ma quando vide il vino, tremò visibilmente.

– Oh, no, – disse, – non questo; questo è per voi. Io non lo posso soffrire.

– Benissimo, Señor, – dissi; – allora berrò alla vostra salute e alla prosperità della vostra casa e della vo stra famiglia. A proposito, – sog­giunsi dopo aver bevuto, – non avrò il piacere di porre il mio ossequio ai piedi della Señora, vostra madre?

Ma a queste parole ogni espressione puerile scomparve dal suo viso, e fu sostituita da un aspetto incredibilmente astuto e misterioso. Allo stesso tempo, si allontanò da me, come se fossi un animale pronto a bal zare, o un uomo pericoloso e armato; e, quando fu vicino alla por­ta, mi guardò cupo e torvo, con le pupille contratte. – No, – disse in­fine, e un momento dopo se n’era uscito dalla stanza senza rumore; e sentii i suoi passi svanire a piè della scala, leggeri come la pioggia, e il silenzio si chiuse sulla casa.

Dopo aver cenato, portai la tavola più vicino al letto e cominciai a prepararmi per andare a riposare; ma, alla nuova posizione della luce, fui colpito da un qua dro appeso al muro. Rappresentava una donna ancor giovane. A giudicare dal suo costume e dalla dolce unità che re­gnava sulla tela, doveva esser morta da molto tempo; a giudicare dalla vivacità dell’atteggiamento, dagli occhi e dal volto, avrei potuto pensa­re di star contemplando in uno specchio l’immagine della vita. La sua persona era molto sottile e forte, e ben proporzionata; gli occhi, d’un bruno assai dorato, tenevano i miei col loro sguardo; e il viso, che era di forma perfetta, pareva sfigurato da un’espressione crudele, cupa e sensuale. Qualche cosa, sia nel volto che nella persona, qualche cosa di squisitamente intangibile21, come l’eco d’un’eco, ricordava le fattezze

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22. guida: Felipe.23. ceppo: origine; il ceppo è la parte di un albero che rimane infissa nel terreno, da cui

partono le radici e si alza il tronco.24. lignaggio: discendenza.25. puerili: da bambino, infantili.

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e il portamento della mia guida22; e rimasi fermo per un po’ di tempo, sgradevolmente attratto, e meravigliato della strana rassomiglianza. Il ceppo23 comune, carnale, di quella stirpe, che in origine era sorto per dame di gran lignaggio24 come quella che ora mi guardava dalla tela, era caduto a vita più bassa, portava vesti campagnuole, sedeva al ti­mone d’un carro e reggeva le redini d’una mula, per portare a casa un pensionante. Forse un anello di congiunzione sussisteva; forse, qual­che cosa di quelle carni delicate che un tempo eran rivestite col raso e il broccato della morta dama, ora rabbrividiva al rozzo contatto dei panni grossolani di Felipe.

La prima luce del mattino illuminò in pieno il ritrat to, e, mentre me ne stavo a letto, desto, i miei occhi continuavano a soffermarsi su di esso con crescente compiacimento; la sua bellezza s’insinuava segreta­mente nel mio cuore, facendo tacere a uno a uno i miei scrupoli; e, pur mentre sapevo che amare quella donna voleva dire firmare e suggella­re la mia sentenza di de generazione, sapevo anche che se fosse vissuta l’avrei amata. Col trascorrere dei giorni, la doppia certezza della sua malvagità e della mia debolezza si fece più chiara. Essa divenne l’eroi­na di molti sogni a occhi aperti, nei quali i suoi occhi m’inducevano al delitto, e mi davan premio bastante. Gettava un’ombra scura sulla mia immaginazione; e quando ero fuori, all’aper ta aria dei cieli, movendo­mi vigorosamente e rinnovan do in modo salubre la corrente del mio sangue, spesso era per me un lieto pensiero quello che la mia incanta­trice giacesse sicura nella tomba, rotta la bacchetta magica della sua bellezza, le labbra chiuse dal silenzio, il filtro versato. Eppure indugia­va ancora un poco in me il terrore che, dopo tutto, potesse non essere morta, ma rinata nel corso vitale d’una sua discendente.

Felipe mi serviva i pasti nella mia stanza; e la sua rassomiglianza col ritratto mi ossessionava. A volte non era nulla; a volte, quando mu­tava atteggiamento o a un lampeggiare dell’espressione, balzava su di me come uno spettro. Era sopra tutto in certo suo cattivo umore che la rassomiglianza trionfava. Senza dubbio Felipe mi voleva bene; era fiero che mi interessassi di lui, e cercava di attrarmi con molti semplici e puerili25 stratagemmi; gli piaceva sedere accanto al mio caminetto,

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26. risoluzioni: scelte determinate, decise; intenzioni.

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discorrendo alla sua maniera sconnessa o cantando le sue strane can­zoni senza fine, senza parole, e a volte mettendomi una mano sulle vesti, accarezzandole in modo affettuoso che sempre mi cagionava un imbarazzo del quale mi vergognavo. Ma, malgrado tutto questo, era capace di lampi di collera senza ragione e d’accessi di risoluta cupez­za. A una parola di rimprovero, l’ho veduto rovesciare un piatto dal quale stavo per mangiare, e questo non di nascosto, ma con aria di sfida; e così a un mio cenno di domanda. Io non ero esageratamente curioso, trovandomi in luogo straniero e circondato da strana gente; ma all’ombra d’una domanda, si ritraeva, fosco e pericoloso. Era allora che, per una frazione di secondo, quel ragazzo avrebbe potuto essere fratello della dama incorniciata. Ma questi umori passavano veloci; e la rassomiglianza scompariva con essi.

In quei primi giorni non vidi se non Felipe, a meno che non si deb­ba contare il ritratto; e poiché il ragazzo era evidentemente di debole intelletto e aveva momen ti di furore, ci si potrà meravigliare che sop­portassi la sua pericolosa vicinanza con moderazione. In verità, la cosa fu per qualche tempo sgradevole; ma prima che passasse gran tempo ottenni una tale padronanza su di lui che la mia inquietudine cessò.

Le cose andarono così. Egli era di natura pigra, e gli piaceva vaga­bondare, eppure se ne stava vicino a casa, e non soltanto provvedeva ai miei bisogni, ma lavorava tutti i giorni in giardino, o nella piccola fattoria a sud della residencia. Lo aiutava il contadino che avevo ve­duto la sera del mio arrivo, e che abitava in fondo al giardino, circa mezzo miglio lontano, in una rozza capanna; ma era chiaro che, dei due, quello che faceva di più era Felipe; e sebbene a volte lo vedessi buttar via la vanga e mettersi a dormire in mezzo alle piante che aveva scavate, la sua costanza e la sua energia era no in sé ammirevoli, e tanto più, perché ero ben certo che erano estranee al suo carattere, e frutto di uno sfor zo ingrato. Come lo sosteneva? mi domandavo; e fino a che punto prevaleva sul suo istinto? Forse il suo ispi ratore era il prete; ma il prete venne un giorno alla residencia. Lo vidi venire e andarsene nell’intervallo di circa un’ora, e per tutto il tempo Felipe continuò a la vorare indisturbato in giardino.

Finalmente, con un’idea piena di perfidia, decisi di sviare il ragaz­zo dalle sue buone risoluzioni26, e, dopo averlo atteso al cancello, mi fu facile persuaderlo a ve nire con me in un’escursione. Era una bella

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27. cordiale: liquore che dà forza.

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giornata, e i boschi nei quali lo condussi erano verdi e ridenti e pro­fumati e vivi del ronzio degli insetti. Qui si mostrò diverso, e giunse a forme d’allegria che mi confusero, e mostrò un’energia e una grazia nel muoversi da dar di letto agli occhi. Saltava, correva intorno a me pieno di gioia; si fermava e guardava e ascoltava, e pareva be vesse il mondo come un cordiale27; e poi all’improvviso saliva d’un balzo su d’un albero, e si dondolava e sgam bettava come se quello fosse il vero luogo nel quale avrebbe dovuto vivere. Per quanto non mi parlasse molto, e non dicesse se non cose di poco conto, di rado ho goduto una compagnia più eccitante; vedere il suo divertimento era una continua festa; la velocità e la precisione delle sue movenze mi facevano bene al cuore; e avrei potuto diventare tanto spensieratamente scortese da prendere l’abitudine di queste passeggiate, se il caso non avesse pre­parato una fine assai rude al mio piacere. Con la sua rapidità, o con destrezza, il ra gazzo prese uno scoiattolo in cima a un albero. In quel momento era un po’ avanti, ma lo vidi cadere a terra e accoccolarsi, gridando forte dal piacere, come un bambino. Quel suono mi piacque, tanto era fresco e innocente; ma, mentre affrettavo il passo per avvici­narmi, il grido dello scoiattolo mi percosse il cuore. Ho sentito molto parlare, e molto ho veduto della crudeltà dei ragazzi; ma quello che vidi mi eccitò a una collera furiosa. Buttai da parte Felipe, gli tolsi di mano la po vera bestia, e con rapida misericordia l’uccisi. Poi mi volsi al suo carnefice, gli parlai a lungo, nel calore della mia indignazione, e gli dissi cose che parvero avvilirlo; e finalmente, additandogli la resi-dencia, gli comandai d’andarsene, perché mi piaceva passeggiare con uomini, e non con bruti. Cadde in ginocchio; le parole gli vennero più chiare che di consueto, e mi lasciò con un diluvio di espressioni sup­plichevoli e commoventi, pregandomi di perdonargli, per pietà, di di­menticare quello che aveva fatto, di pensare al futuro. – Oh, fac cio tut­to quanto posso, – disse. – O comandante, per dona a Felipe, per questa volta; e non sarà mai più un bruto! – Allora, molto più commosso che non volessi mostrarmi, mi lasciai persuadere, e alla fine ci stringemmo la mano e ridiventammo amici. Ma, per penitenza, gli feci seppelli­re lo scoiattolo; gli parlai della bellezza della povera bestiola, gli dissi quanto male doveva aver sofferto, e quanto vil cosa fosse abusare della propria forza. – Vedete, Felipe, – gli dissi, – voi siete davvero forte; ma nelle mie mani siete debole come quel povero animale che viveva sugli

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28. primigenia: primordiale.29. bastioni: fortificazioni poste ai lati delle fortezze.30. grami: esili, stentati.

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alberi. Datemi la vostra mano. Non la potete più muovere. E adesso, supponete ch’io sia crudele quanto voi, e ch’io mi goda del male altrui; basta ch’io stringa, e vedrete come sof frirete. Si mise a urlare, col viso fatto color della cenere e punteggiato di gocce di sudore; e, quando lo li berai, cadde a terra e si carezzò la mano e la compianse, come avrebbe fatto un bambino. Ma prese in buona parte la lezione; e fosse per quella, o per quello che gli avevo detto, o per la migliore opinione che aveva ades so della mia forza, il suo affetto divenne fedeltà canina, adorazione.

Intanto, mi rimettevo rapidamente. La residencia era in cima a un altipiano petroso; era cinta da ogni parte da monti; solo dal tetto, dov’era una torretta, si poteva vedere, tra due picchi, un pezzetto di pianura, azzurro per la grande distanza. L’aria, a quell’altezza, si mo­veva liberamente, e molto; grandi nubi vi si radu navano, ed erano rotte dal vento che le abbandonava, tutte stracciate, sulle cime dei monti; un rauco eppur debole rombo di torrenti saliva d’ogni intorno; e là si potevano studiare tutti i più rudi e antichi caratteri della natura con qualche cosa della loro forza primi genia28. Fin dal primo momento, godetti il vigoroso panorama e il tempo mutevole; e non meno l’antica e de vastata dimora nella quale abitavo. Questa era un grande rettango­lo, fiancheggiato ai due angoli opposti da sporgenze simili a bastioni29, una delle quali era sopra la porta; e tutte e due eran munite di feritoie per la di fesa. Per di più, il primo piano era senza finestre, così che l’edificio, con una buona guarnigione, non avrebbe potuto esser preso senza artiglieria. Racchiudeva un cortile aperto, dov’eran piantati dei melograni. Da que sto, un’ampia scalinata di marmo saliva a una galle­ria scoperta, che correva tutt’intorno e che era sorretta, verso il cortile, da gracili colonne. Da essa, parecchi gradini coperti conducevano ai piani superiori della casa, che in tal modo erano interrotti da più divi­sioni. Le finestre, tanto dal di dentro che dal di fuori, erano accurata­mente chiuse con le imposte; parte del lavoro di muratura più alto era caduto; il tetto, in un punto, era stato devastato da uno dei turbini di vento che erano comuni tra quei monti; e tutta la casa, nella gran luce del sole che vi batteva sopra, e che spiccava in un boschetto di grami30 sugheri, pareva il palazzo addormentato della leggenda. Il cortile, in

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31. andito: locale buio e un po’ nascosto.32. fiori dei melograni: il melograno ha fiori rosso acceso.33. eluso: messo in difficoltà.

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particolare, somigliava alla casa stessa del sonno. Un rauco tubar di co lombe scendeva dalle grondaie; i venti ne erano esclusi; ma, quando soffiavano fuori, la polvere delle montagne vi cadeva fitta come piog­gia, e velava il rosso splendore dei melograni; le finestre con le imposte chiuse e le porte chiuse di numerose cantine, e gli archi vuoti della gal­leria lo chiudevano; e per tutta la giornata il sole segnava rotti profili dai quattro lati, e stagliava l’ombra delle colonne sul pavimento della galleria. A piano terra, però, c’era un andito31 sostenuto da colonne, che portava i segni d’un’abitazione umana. Sebbene davanti s’aprisse sul cortile, era provvisto d’un camino, dove un fuoco di legna scop­piettava sempre allegramente; e il pavimento di mattonelle era coperto di pelli d’animale.

Fu in questo luogo che vidi per la prima volta la mia ospite. Aveva tirato fuori una delle pelli, ed era seduta al sole, appoggiata a una co­lonna. La prima cosa che mi colpì fu il suo vestito, perché era ricco e di colori vivaci, e spiccava in quel cortile polveroso con un’evidenza simile a quella dei fiori dei melograni32. A una seconda occhiata, fu la bellezza della sua persona ad attrarmi. Era lì seduta – e mi osserva­va, pensai, sebbene con occhi invisibili, – con un’espressione di buon umore e di contentezza quasi imbecille; e mostrava una perfezione di lineamenti e una tranquilla nobiltà d’atteggiamento superiori a quelle d’una statua. Mi tolsi il cappello, nel passare, e il suo volto si coprì d’una smorfia di sospetto con la velocità e la leggerezza d’uno sta gno che s’increspa a un vento leggero; ma non mostrò d’accorgersi della mia cortesia. Uscii per la mia pas seggiata abituale un po’ sbigottito, la sua impassibilità da dea mi tormentava; e quando ritornai, sebbene fos se pressappoco nello stesso atteggiamento, fui un po’ sorpreso nel vedere che s’era mossa fino alla colonna seguente, movendosi col sole. Ma questa volta mi si rivolse con un piccolo saluto, abbastanza cortese, e pronunciato con la stessa voce profonda, eppure col tono indistin­to e balbettante che già aveva eluso33 il mio fine udito quando ascol­tavo suo figlio. Le risposi piuttosto a caso; perché non soltanto non compresi esattamente quello che voleva dire, ma l’improvviso aprirsi dei suoi occhi mi turbò. Erano stranamente grandi, l’iride era dorata come quella de gli occhi di Felipe, ma la pupilla era in quel momento

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34. parlante… immanente: non evidente ma insita in essa, connaturata.35. copiose: abbondanti.

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così larga che parevano quasi neri; e quello che mi colpi non fu tanto la loro grandezza, quanto (e forse non ne era che la conseguenza) la sin­golare mancanza di significato dello sguardo. Non ho mai veduto uno sguardo più vacuo e sciocco. Abbassai gli occhi, nel parlare, e salii in camera mia, al tempo stesso deluso e imbarazzato. Eppure, quando fui nella mia stanza e vidi il volto del ritratto, mi ricordai ancora una volta il miracolo della discendenza familiare. In verità, la mia ospite era più vecchia, e di forme più piene; i suoi occhi avevan diverso colore; per di più, il suo viso non era soltanto privo di quel maligno significato che mi turbava e m’attraeva nel ritratto; era privo tanto di bene che di male: un vuoto morale che non esprimeva letteralmente nulla. Eppu­re c’era una rassomiglianza, non tanto parlante quanto immanente34, non tanto in un particolare lineamento, quanto nell’insieme. Pareva, pensai, che quando il maestro aveva messa la sua firma su quella grave tela, non avesse soltanto colto l’immagine di una donna ridente e dagli occhi falsi, ma anche segnato la qualità essenziale di una stirpe.

Da quel giorno, andassi o venissi, ero certo di trovare la Señora se­duta al sole, appoggiata a una colonna, o stesa su di un tappeto, davan­ti al fuoco; solo a volte mutava posizione, e saliva sull’ultimo gradino della scala di pietra, dove si stendeva, con la stessa noncuranza, attra­verso la mia strada. In tutti quei giorni, non la vidi mai dar prova della minima scintilla d’energia oltre a quella che consumava nello spazzo­lare e nel tor nare a spazzolare le sue copiose35 chiome color rame, o nel balbettare, con la rudezza della sua voce ricca e rotta, i suoi vani saluti, ormai abituali. Questi, credo, erano i due suoi più grandi piaceri, oltre a quello del riposo puro e semplice. Pareva sempre fiera delle sue os­servazioni, come se fossero state arguzie; e, in verità, sebbene fossero vacue abbastanza, come la conversa zione di tanta gente rispettabile, e il loro argomento fosse molto limitato, non erano mai senza senso, o in coerenti; anzi, avevano una certa bellezza tutta loro, poiché spirava­no la sua assoluta contentezza. Ora par lava del caldo, del quale (come suo figlio) molto si compiaceva; ora dei fiori dei melograni, e ora delle bianche colombe e delle rondini dalle lunghe ali che muovevan l’aria del cortile. Gli uccelli la eccitavano. Quando sfio ravano le grondaie col loro rapido volo, o la toccavano appena nel passare davanti a lei con un balenar d’aria, a volte si muoveva, e si metteva un poco a sedere, e

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36. sopore: sonnolenza, apatia.37. trascendentale: superiore.38. ancestrali: più antiche.

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pareva svegliarsi dal suo soddisfatto sopore36. Ma nel resto delle sue giornate rimaneva beatamente chiusa in sé e sprofondata nell’ozio e nella pace. Dapprima, la sua invincibile contentezza mi infastidì, ma a poco a poco trovai riposo in quello spettacolo, e alla fine presi l’a­bitudine di mettermi a sedere accanto a lei quattro volte al giorno, nell’andare e nel tornare, e di parlare pigramente con lei, sapendo ap­pena quel che mi dicessi. La sua ottusa vicinanza, quasi animale, co­minciava a piacermi; la sua bellezza e la sua stupidità mi davan calma e mi divertivano. Cominciai a trovare una specie di trascendentale37 buon senso nelle sue osservazioni, e il suo insondabile buon umore mi muoveva all’ammi razione e all’invidia. La simpatia era reciproca; essa go deva della mia presenza, accorgendosene appena, come un uomo che è immerso in profonda meditazione può godere il mormorio d’un ruscello. Posso appena dire che s’illuminasse alla mia venuta, perché la soddisfa zione era eternamente scritta sul suo viso, come su quello d’una sciocca statua; ma mi accorgevo del suo piacere da sintomi più sottili di quelli che può rivelare la vista. E un giorno, mentre ero seduto vicino a lei sullo scalino di marmo, a un tratto allungò una mano, e carezzò una delle mie. La cosa era fatta, ed era ritor nata al consueto atteggiamento, prima che mi fossi ben potuto accorgere della carez­za; e quando mi volsi per guardarla in viso non vi potei scorgere un sentimento conforme al gesto. Era chiaro che non dava importanza a quell’atto, e mi biasimai per la mia maggiore consapevolezza, che mi faceva stare a disagio.

La vista e (se così posso chiamarla) la conoscenza della madre mi confermarono nel mio modo di consi derare il figlio. Il sangue di quel­la famiglia s’era impoverito, forse per i molti matrimoni tra consan­guinei, che sapevo essere comune errore tra gli orgogliosi e i nobili. Invero, non si poteva scoprire nessuna traccia di declino nel corpo, che era stato trasmesso inalterato per grazia e forza; e i volti d’oggi porta­vano tanto evidente il segno della stirpe quanto quello di due secoli prima, che mi aveva sorriso dal ritratto. Ma l’intelligenza (quella più preziosa eredità) aveva degenerato; il tesoro delle memorie ancestrali38 era consumato; ed era stato necessario il potente incrocio plebeo col mulattiere o col contrabbandiere delle montagne per ridestare quello

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39. latente: nascosta.

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che nella madre s’avvicinava all’abitudine e produrre l’attiva stranezza del figlio. Eppure, tra i due, era la madre quella che preferivo. A Felipe, ven dicativo e facile a render mansueto, pieno di sbalzi e di ombrosità, incostante come una lepre, potevo anche pensare come a una creatura che sarebbe potuta diventare nociva. Per la madre non avevo se non pensieri di dolcezza. E invero, come gli spettatori sogliono prender parte, nella loro ignoranza, cominciai a diventar partigiano nell’ini­micizia che sentivo covare tra loro. È vero che pareva esistere soprat­tutto da parte della madre. A volte essa tratteneva il respiro quand’egli si avvicinava, e le pupille dei suoi occhi vuoti si contraevano, come per orrore o paura. Le sue emozioni, per quello che erano, stavano in gran parte alla superficie, ed eran facili da condividere; e questa latente39 repulsione occupava la mia mente e faceva ch’io mi do mandassi quale base potesse avere e se la colpa fosse certamente del figlio.

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Ero da circa dieci giorni nella residencia quando si levò un gran vento e aspro, portando nuvole di polvere. Veniva dai bassopiani ma­larici, e passava su parecchie sierre nevose. I nervi di coloro sui quali soffiava diventavan tesi e discordi; la polvere dava bruciore agli oc­chi; le gambe dolevano sotto il peso del corpo; e il toc co d’una mano sull’altra diventava insoffribile. Per di più, il vento scendeva dalle gole dei monti e infuriava intorno alla casa con grande, cavo sibilo, con un fischiare che stancava l’orecchio e deprimeva di cupezza la mente. Non soffiava tanto a raffiche, quanto con la regolare rapidità d’una cascata, sì che non v’era riposo al disagio, fin che durava. Ma più in alto sul monte era probabilmente di più variabile forza, con accessi di furia; poiché a volte scendeva un lontano lamento, infinitamente angoscioso ad ascoltare; e a volte, su uno degli alti ripiani, o terrazze, si levava, e poi si disperdeva, una torre di polvere, simile al fumo di un’esplosione.

Non appena mi destai, a letto, m’accorsi della tensione nervosa e della depressione del tempo, e l’effetto si fece più forte col passare della giornata. Invano cercai di resistere; invano uscii per la mia passeggiata mattutina; l’irrazionale, immutabile furia della tempesta ben presto

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40. avvezzo: abituato.41. febbrile: agitato, in fermento.

abbatté le mie forze e distrusse la mia calma; e ritornai alla residen-cia, bruciante d’un calor sec co, e sudicio e carico di polvere. Il cortile aveva un aspetto abbandonato; di tanto in tanto, un fioco sole vi si mostrava; di tanto in tanto il vento si scagliava sui melograni, e faceva cadere i fiori, e sbatteva contro il muro le imposte delle finestre. Nel suo angolo, la Señora camminava su e giù col volto in fiamme e gli occhi lustri; mi parve, anche, che parlasse tra sé, come fosse irata. Ma quando le rivolsi l’abituale saluto, rispose soltanto con un gesto impe­tuoso, e continuò a camminare. Il tempo aveva tolto la calma perfino a quella creatura impassibile; e, nel salire, ebbi meno vergogna del mio turbamento.

Il vento durò per tutto il giorno; e me ne rimasi seduto in camera mia, cercando di leggere, o camminando su e giù, e ascoltavo il tumul­to che era sopra di me.

Cadde la notte, e non avevo nemmeno una candela. Cominciai a desiderare un po’ di compagnia, e scesi in cortile. Adesso, era immerso nell’azzurro della prima tenebra; ma l’angolo era color della fiamma, per il fuoco. La legna era stata ammonticchiata alta, ed era coronata da un ciuffo di fiamme che la corrente d’aria del camino brandiva qua e là. In quella luce forte e mossa, la Señora continuava a camminare da una pare te all’altra con gesti sconnessi, stringendosi le mani, tendendo le braccia, buttando il capo all’indietro, co me se s’appellasse al cielo. In quei movimenti disordi nati la bellezza e la grazia di quella donna si vedevano più chiaramente; ma una luce che era nei suoi occhi mi colpì sgradevolmente; e quando ebbi guardato per un poco in silenzio, e, apparentemente, inosservato, mi voltai come me n’ero venuto, e cercai a tentoni la mia stanza.

Quando Felipe mi portò la cena e la lampada, avevo perduto del tut­to il dominio di me stesso; e, se il ra gazzo fosse stato com’ero avvezzo40 vederlo, l’avrei trat tenuto (anche con la forza, se fosse stato necessario), per rendere meno tetra la mia sgradita solitudine. Ma anche su Felipe il vento aveva esercitato il suo influsso. Era stato febbrile41, tutto il giorno; ora, che era venuta la notte, era d’un umore triste e tremulo che reagiva sul mio. La vista del suo volto impaurito, i suoi sobbalzi e i pallori e le improvvise attenzioni, mi svigori vano; e, quando lasciò cadere un piatto e lo ruppe, quasi balzai dalla seggiola.

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– Mi pare che siamo tutti pazzi, oggi, – dissi, fin gendo di ridere.– È il vento nero, – rispose lamentoso. – Pare di dover fare qualche

cosa, e non si sa che cosa sia.Notai la giustezza della sua descrizione; ma, invero, Felipe aveva a

volte una strana abilità nel rendere in parole le sensazioni del corpo. – E anche vostra mdre, – gli dissi, – pare senta molto questo tempo. Non te mete che stia poco bene?

Mi guardò un momento, e poi disse: – No, – quasi con aria di sfida; e subito dopo, portandosi la mano alla fronte, esclamò lamentosamen­te che il vento e il frastuono gli facevan girare la testa come la ruota d’un mulino. – Chi può star bene? – gridò; e, in verità, non potei che far eco alla sua domanda, perché anch’io ero assai turbato.

Me ne andai a letto di buon’ora, stanco dell’inquie tudine ch’era du­rata tutto il giorno; ma la velenosa na tura del vento, e il suo muggito infernale e che non ces sava mai, non mi permisero di dormire. Con­tinuai a rivoltarmi, coi nervi e i sensi tesi. A volte, m’addormentavo, facevo sogni orribili, e mi tornavo a svegliare; e quei momenti d’o­blio mi tolsero la sensazione delle ore. Ma dev’essere stata notte tarda quando trasalii all’improvviso allo scoppiare di grida compassione­voli e orrende. Saltai dal letto, credendo d’aver sognato; ma le grida continuavano a riempire la casa, grida di dolore, pensai, ma anche di rabbia, e così selvagge e discordanti che colpivano il cuore. Non era un’illusione; una creatura viva, un pazzo o un animale selvatico, erano sottoposti a un’orrenda tortura. Mi balenò in mente il pensiero di Feli­pe e dello scoiattolo, e corsi alla porta, ma era stata chiusa dal di fuori; e per quanto la scuotessi, ero ben imprigionato. E le grida continua­vano. Ora scemavano, facendosi lamento che pareva artico lato, e in quei momenti pensavo che certo dovevano essere umane; e di nuovo irrompevano e colmavano la casa di una frenesia degna dell’inferno. Rimasi sulla porta, ed ascoltai, e, finalmente, cessarono. M’indugiai ancora a lungo, e continuai a sentirle, con l’immaginazione, mescolate al tempestare del vento; e, quando mi rifugiai nel mio letto, fu con una debolezza mortale e con un cupo orrore nell’animo.

C’era poco da meravigliarsi che non dormissi più. Perché m’avevan chiuso dentro? Che cos’era accadu to? Chi era l’autore di quelle grida indescrivibili e terrificanti? Un essere umano? Era inconcepibile. Un animale? Le grida non erano affatto bestiali; e quale animale, che non fosse un leone o una tigre, poteva scuo tere a quel modo le solide mura della residencia? E mentre consideravo a questo modo gli elementi del mistero, ricordai che non avevo ancor posato gli occhi sulla figlia della

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42. disegno: proposito.43. tarantole: ragni dal morso velenoso.44. gravi: in modo pesante.

Señora. Che cosa c’era di più probabile del fatto che la figlia della Seño-ra, e sorella di Felipe, fosse pazza? O che cosa c’era di più verosimile del fatto che quella gente, ignorante e di scarso intelletto, cercasse di trattare una parente malata con la violenza? Questa era una soluzione; eppure, se richiamavo alla mente quelle grida (e non lo facevo mai senza un geli do tremito), pareva assolutamente insufficiente: nep pure la crudeltà poteva strappare simili grida alla fol lia. Ma d’una cosa ero certo: non potevo abitare in una casa nella quale si potesse appena concepire una cosa come quella senza esaminare a fondo i fatti e, se era necessario, intervenire.

Venne il giorno seguente, il vento era cessato, e non c’era più nulla a ricordarmi i fatti della notte. Felipe venne accanto al mio letto con evi-dente allegria; quan do attraversai il cortile, la Señora si scaldava al sole con l’abituale immobilità; e, quando uscii dal cancello, tro vai l’intero volto della natura che sorrideva austero, il cielo d’un freddo azzurro e seminato di grandi isole di nubi, e i fianchi delle montagne segnati di luce e d’ombre. Una breve passeggiata mi fece ritornare in me, e rinno-vò in me la decisione di sondare il mistero; e quando, dall’osservatorio del monte, ebbi veduto Fe lipe passare, andandosene al suo lavoro in giardino, tornai subito alla residencia per mettere in atto il mio di-segno42. La Señora pareva immersa nel sonno; mi fermai un poco a guardarla, ma non si mosse; anche se il mio disegno era indiscreto, avevo poco da temere da una simile guardiana; e, voltandomi, salii nella galleria e incominciai a esplorare la casa.

Per tutta la mattina andai da una porta all’altra, ed entrai in stanze spaziose e sbiadite, alcune chiuse da rozze imposte, altre che riceveva-no in pieno la luce del giorno, tutte vuote e poco accoglienti. Era una casa ricca, sulla quale il Tempo aveva soffiato le sue macchie e la sua polvere, aveva portato via ogni illusione. I ragni pendevano dai soffit-ti; le gonfie tarantole43 fuggivano sulle cornici, le formiche avevano le loro strade affollate sul pavimento delle sale d’udienza; le grosse e soz-ze mosche, che vivono di carogne e sono spesso messaggere di morte, avevan fatto il nido nei legni imputriditi, e ronzavano gravi44 per le stanze. Qua e là uno sga bello o due, un divano, un letto, o una gran sedia scol pita erano rimasti, come piccole isole sui pavimenti ignudi,

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45. fattezze: lineamenti.46. ascetico: austero.

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a testimonianza dell’antica dimora degli uomini; e dovunque le pareti erano coperte coi ritratti dei morti. Da quelle effigi in rovina, potevo giudicare nella casa di qual grande e bella stirpe stessi vagando. Molti degli uomini sfoggiavano sul petto le insegne di ordini cavallereschi, e avevano il portamento di nobili uffici; le donne erano tutte ricca-mente vestite; la maggior parte delle tele eran d’autori famosi. Ma non furono tanto queste prove di grandezza a colpire la mia mente, pure in contrasto, com’erano, con la grande casa deserta e in rovina. Fu piut-tosto la parabola della vita familiare che lessi in quella successione di bei volti e di figure aggraziate. Mai, prima d’allora, m’ero reso conto a quel modo del miracolo della continuazione della stirpe, del creare e del ricreare, del tessere e mu tare e trasmettere gli elementi carnali. Che un figlio nasca dalla madre, che cresca e si rivesta (non sappiamo come) d’umanità, e assuma un aspetto ereditario, e volga il capo al modo d’un suo ascendente, e offra la mano col gesto di un altro, sono meraviglie che sentiamo debolmente, per il loro ripetersi continuo. Ma nella singolare unità di aspetto, nelle fattezze45 comuni e nel comune portamento di tutte quelle generazioni dipinte appese alle pareti della residencia, il miracolo veniva verso di me e mi guardava in viso. E, tro-vato opportunamente sulla mia strada un antico specchio, mi fermai e vi lessi a lungo le mie fattezze, rintracciando da ogni parte i filamenti di discendenza e i legami che mi univano alla mia famiglia.

Alla fine, nel corso di queste investigazioni, apersi la porta di una stanza che portava i segni d’un luogo abitato. Era molto ampia, ed esposta a settentrione, dove i monti avevano l’aspetto più selvaggio. Le ceneri d’un fuoco erano ancor calde e fumanti nel caminetto, al quale era stata avvicinata una sedia. Eppure l’aspetto della stanza era asceti-co46 fino a diventare severo; la sedia era senza cuscino; il pavimento e le pareti erano ignudi; e, oltre i libri che eran buttati qua e là, in modo piuttosto confuso, non v’era nessuno strumento, né per il lavoro, né per il piacere. La vista di libri nella casa d’una famiglia come quella mi stupì grandemente; e cominciai, in gran fretta, e col timore d’essere interrotto all’improvviso, ad andare dall’uno all’altro per esaminar-li rapidamente. Erano d’ogni sorta, di devozione, storici, e scientifici, ma, per lo più, molto antichi e scritti in latino. Vidi che alcuni porta-vano i segni d’uno studio costante; altri erano stati stracciati e buttati

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47. doglia: dolore.

da parte, come per intolleranza o per disapprovazione. Alla fine, nel mio girare per quella stanza vuota, scorsi alcune carte scritte a matita su d’un tavolo, vicino alla finestra. Una stordita curiosità mi indusse a prenderne una in mano. C’era una copia di versi, assai rozzamente rimati nell’originale spagnuolo, e che posso rendere, all’incirca, così:

Il piacere giunse con doglia47 e vergogna, Il dolore venne coronato di gigli, Il piacere mostrò la bellezza del sole;Gesù caro, come splendeva dolcemente!Il dolore, con la sua mano consunta, additòTe, Gesù mio caro!

Subito mi presero vergogna e confusione; e, posato il foglio, battei immediatamente la ritirata dalla stanza. Né Felipe né sua madre avreb­bero potuto leggere quei libri, o scrivere quei versi rozzi ma pieni di sen­timento. Era chiaro che, con piedi sacrileghi, ero entrato nella stanza della figlia. Dio sa che il cuore mi punì acerbamente per la mia indiscre­zione. Il pensiero di essermi così segretamente spinto nella confidenza di una giovane in tanto strana situazione, e il timore che in un modo o nell’altro lo potesse sapere, m’opprimevano come una colpa. Per di più, mi rimproveravo i sospetti che avevo avuti la notte precedente; mi me­ravigliavo di aver potuto attribuire quelle terribili grida a una che adesso mi pareva una santa, dal volto spettrale, consunta dai digiuni, legata alle pratiche d’una meccanica devozione, e che viveva in grande isolamento dello spirito tra i suoi strani parenti; e mentre, appoggiato alla balaustra della galleria, guardavo giù, il cortile splendente di melograni e la donna dalle gaie vesti e sonnolenta, che proprio allora si stava stirando e delica­tamente si leccava le labbra, come presa dalla sensualità dell’ozio, la mia mente paragonava veloce quella scena con la fredda stanza che guardava le montagne a settentrione, nella quale abitava la figlia.

In quello stesso pomeriggio, mentre me ne stavo seduto sull’altura, vidi il Padre entrare nella residencia. La rivelazione del carattere della figlia aveva colpito la mia immaginazione, e quasi cancellato gli orrori della notte precedente; ma, alla vista del degno uomo, i ricordi rinac­quero. Allora, scesi dall’altura, e, facendo un giro per i boschi, m’appo­stai sulla strada, per aspettare il suo passaggio. Non appena comparve,

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48. eretico: il protagonista, scozzese, è di religione protestante, considerata eretica rispettoal cattolicesimo.

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mi feci avanti e mi presentai come l’ospite della residencia. Aveva una faccia assai vigorosa, onesta, sulla quale era facile leggere le varie emo­zioni con le quali guardava me, straniero, eretico48, e che pure ero stato ferito per la buona causa. Della famiglia della residen cia parlava con riserva, eppure con rispetto. Gli dissi che non avevo ancor veduta la figlia; ed egli osservò che così doveva essere, e mi guardò un poco di traverso. Finalmente, riuscii a trovare il coraggio di alludere alle grida che m’avevan turbato nella notte. Mi ascoltò in silenzio, e poi si voltò, come per significare, senza ombra di dubbio, che mi congedava.

– Prendete tabacco? – disse, offrendomi la sua ta bacchiera; e poi,quand’ebbi rifiutato, – sono vecchio, – soggiunse, – e mi è lecito ricor­darvi che siete ospite.

– Allora mi date l’appoggio della vostra autorità, – risposi, piuttostofermamente, sebbene il sottinteso rimprovero mi facesse arrossire; – posso lasciare che le cose seguano il loro corso, senza intervenire?

Disse «sì», con un saluto un po’ imbarazzato, si voltò, e mi lasciò dov’ero. Ma aveva fatto due cose: m’a veva messa in pace la coscienza, e aveva ridestato i miei scrupoli. Feci un grande sforzo, ancora una volta abbandonai i ricordi della notte, e ancora una volta mi misi a meditare alla mia santa poetessa. Allo stesso tempo, non mi riusciva di dimenticare che ero stato chiuso nella mia camera; e quella sera, quando Felipe mi portò la cena, lo attaccai, guardingo, sui due punti che mi interessavano.

– Non vedo mai vostra sorella, – dissi, come per caso.– Oh, no, – disse; – è una buona, buona ragazza, – e subito la sua

mente passò ad altro.– Vostra sorella è religiosa, immagino? – domandai nella pausa che

seguì.– Oh! – esclamò, giungendo le mani con fervore estremo, – una

santa; è lei che mi sostiene.– Siete molto fortunato, – gli dissi, – perché la maggior parte di noi,

temo, è fatta piuttosto per cadere.– Señor, – disse Felipe con fervore, – non direi questo. Non dovreste

tentare il vostro angelo. Se uno cade, dove si fermerà?– Ma Felipe, – gli dissi, – non m’immaginavo che foste un predicato­

re, e posso anche dire un buon pre dicatore; ma suppongo che dobbiate anche questo a vostra sorella.

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Annuì col capo, guardandomi con gli occhi spalancati.– Ebbene, allora, – continuai, – senza dubbio vi ha rimproverato il

peccato di crudeltà.– Dodici volte! – esclamò; perché questa era la frase con la quale la

strana creatura esprimeva una cosa frequente. – E le ho detto che m’a­vevate rimproverato anche voi; me ne sono ricordato, – aggiunse con orgoglio, – e ne è stata contenta.

– Allora, Felipe, – dissi, – che cos’erano quelle gri da che ho uditola scorsa notte? Perché certamente erano le grida d’una creatura che soffriva.

– Il vento, – rispose Felipe, guardando il fuoco.Presi la sua mano nelle mie; ed egli, credendo a una carezza, sorri­

se con piacere tanto luminoso che quasi disarmò la mia decisione. Ma vinsi la mia debolezza. – Il vento, – ripetei; – eppure credo sia stata questa mano a chiudermi nella mia stanza, prima. Il ragazzo tremava, visibilmente, ma non rispose una parola. – Ebbene, – dissi, – sono uno straniero e un ospite. Non tocca a me né immischiarmi né giudicare le vostre faccende; per questo, seguirete il consiglio di vostra sorella, che senza dubbio è eccellente. Ma per quanto riguarda me, non voglio esse­re prigioniero di nessuno, e domando quella chiave –. Mezz’ora dopo, la mia porta si aprì all’improvviso, e la chiave cadde tintinnando sul pavimento.

Un giorno o due dopo questo colloquio, ritornai da una passeggiata poco prima di mezzogiorno. La Señora era stesa, affondata nel sonno, sulla soglia del suo angolo; i piccioni dormivano sotto le gronde, can­didi come mucchi di neve; la casa era sotto un profondo incante simo di pace meridiana; e soltanto un errabondo e dolce vento che veniva dalle montagne s’infiltrava nelle gallerie, frusciava tra i melograni, e muoveva gradevolmente le ombre. Qualche cosa, in quella pace, mi invitò a imitarla, e passai molto leggero nell’attraversare il cortile e nel salire la scala di marmo. Avevo i piedi sull’ultimo gradino, quando una porta s’apri, e mi trovai faccia a faccia con Olalla. La sorpresa mi fermò; la sua bellezza mi colpì il cuore; essa brillava, nella profonda ombra della galleria, gemma splendente; i suoi occhi s’impadronirono dei miei e vi s’attaccarono e ci unirono come la stretta delle mani; e i momenti nei quali rimanemmo così a faccia a faccia, assorbendo la nostra sostanza, furono sacramentali49, le vere nozze dell’anima. Non

49. furono sacramentali: ebbero la medesima forza di un sacramento.

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so quanto tempo passò prima che mi ridestassi da un incanto profon­do, e, inchinandomi in fretta, muovessi verso l’altra scala. Essa non si mosse, ma mi seguì coi suoi grandi occhi assetati; e mentre scompari­vo alla sua vista mi parve che impallidisse e si sentisse mancare.

Quando fui nella mia stanza, aprii la finestra e guardai fuori, e non potei capire qual mutamento fosse avvenuto in quell’austero panora­ma montano, perché cantasse e brillasse così, sotto gli alti cieli. L’avevo veduta: Olalla! E le rocce pietrigne rispondevano, Olalla! e il muto, insondabile azzurro rispondeva, Olalla! La pallida santa dei miei sogni era svanita per sempre; e al suo posto vedevo quella vergine sulla quale Dio aveva prodigato i più ricchi colori e le più esuberanti energie della vita, che aveva fatta vivace come un daino, sottile come una canna, e nei cui grandi occhi aveva accesa la luce dell’anima. La forza della sua giovane vita, vigorosa come quella d’un animale selvatico, era entrata in me; la potenza dell’anima che m’aveva guardato dai suoi occhi e aveva conquistato la mia, era avviluppata intorno al mio cuore, e mi saliva alle labbra in un cantico. Passava attraverso le mie vene; era una, con me.

Non dirò che questo entusiasmo declinasse; piuttosto, la mia anima si difendeva nella sua estasi come in un forte castello, e v’era assedia­ta da fredde e dolenti considerazioni. Non potevo dubitare di averla amata non appena veduta, e già con un ardore e un tremito che era­no per me una nuova esperienza. Che cosa sa rebbe accaduto? Era la figlia d’una casa afflitta, la figlia della Señora, la sorella di Felipe; ne portava i segni an che nella bellezza. Aveva la leggerezza e la prestan­za dell’uno, veloce come una freccia, leggera come la ru giada; come l’altra, splendeva sul pallido sfondo della terra col brillare stesso dei fiori. Non avrei potuto chia mare col nome di fratello quel ragazzo mezzo scemo, né col nome di madre quell’immobile e bella cosa di carne, i cui occhi intontiti, il cui perpetuo sorriso ritornavano adesso alla mia mente come cosa da odiare. E se non potevo sposarmi, che sarebbe stato? Essa era senza protezione, assolutamente; i suoi occhi, in quell’unico e lungo sguardo che era stato tutto il nostro colloquio, avevano confessato una debolezza pari alla mia; ma in cuor mio sa­pevo che era quella che studiava nell’ignuda stanza, quella che aveva scritto quei versi dolorosi; e questo sarebbe bastato a disarmare un bruto. Di fuggire non mi sentivo il coraggio; ma giurai di vivere in sempre desta prudenza.

Nel ritirarmi dalla finestra, posai gli occhi sul ritratto. Era smor­to, come una candela dopo il levar del sole; mi seguiva con occhi da

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pittura. Sapevo che era somigliante, e mi stupivo della tenacia dei tipi in quella stirpe in declino; ma la somiglianza era inghiottita dalla di­versità. Ricordai come mi fosse sembrato cosa in trovabile nella vita, creatura piuttosto dell’arte del pittore che della modestia della natura, e stupii a questo pensiero, ed esultai all’immagine di Olalla. Avevo spesso veduto la bellezza, e non ne ero stato affascinato; e spesso ero stato attratto da donne che non erano belle se non per me; ma in Olal­la si univa tutto quello che avevo desiderato e non avevo osato imma­ginare.

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Non la vidi il giorno dopo, il cuore mi doleva e i miei occhi la bra­mavano, come gli uomini bramano il mattino. Ma il giorno seguen­te, quando ritornai nella galleria all’ora abituale, essa c’era, e i nostri sguardi di nuovo s’incontrarono e s’abbracciarono. Avrei parlato, mi sarei avvicinato a lei; ma, per quanto forte fosse al mio cuore il suo ri­chiamo che mi attirava come una calamita, qualche cosa di ancor più imperioso mi trattenne; e potei soltanto inchinarmi e passare; ed essa, senza rispondere al mio saluto, non fece che seguirmi col suo nobile sguardo.

Ora avevo in mente la sua immagine, e mentre ne studiavo i tratti con la memoria mi pareva di leggerle nel cuore. Era vestita con qualche cosa della civetteria della madre, e con amore dei colori appariscenti. La sua veste, che sapevo doveva aver fatta con le sue mani, la ricopriva con grazia sapiente. Secondo la moda del paese, per di più, il corpetto era aperto, nel mezzo, da un lungo taglio, e là, malgrado la povertà della casa, una moneta d’oro, che pendeva da un nastro, posava sul suo petto bruno. Queste eran prove, se ce ne fosse stato bisogno, del suo innato amore per la vita e per la sua bellezza. D’altra parte, nei suoi occhi che guardavano i miei, potevo leggere una grande profondità di ardore e di tristezza, luci di poesia e di speranza, tenebra di dispera­zione, e pensieri più che terreni. Era un bel corpo, il suo; ma l’anima che l’abitava era più che degna di esso. Dovevo lasciare che quel fiore incomparabile appassisse non veduto in quelle rudi montagne? Dove­vo disprezzare il gran dono che m’era offerto nell’eloquente silenzio dei suoi occhi? La sua era un’anima murata; non dovevo aprirle la sua prigione? Tutte le altre considerazioni fuggirono lontane da me; fosse

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50. Erode: Erode il Grande (73­4 a.C.), re della Giudea sotto il protettorato romano, secondo la tradizione cristiana avrebbe ordinato la strage degli innocenti; Stevenson aveva pro­babilmente letto il racconto Erodiade di Gustave Flaubert, di cui da ragazzo aveva scritto una parodia.

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stata la figlia di Erode50, giurai che l’avrei fatta mia; e quella stessa sera mi disposi, con un senso ad un tempo di tradimento e di vergogna, a conqui stare suo fratello. Forse leggevo in lui con occhi più favorevoli; forse, il pensiero della sorella ricordava le migliori qualità di quell’ani­mo imperfetto; ma non mi era mai sembrato tanto attraente, e la sua stessa rassomiglianza con Olalla, mentre tormentava, mi rad dolciva.

Un terzo giorno passò invano: vuoto deserto di ore. Non volevo per­dere una possibilità, e indugiai tutto il pomeriggio in cortile, dove (per darmi un contegno) parlai più del solito con la Señora. Dio sa che, adesso, la studiavo con il più tenero e sincero interesse; e come già per Felipe, m’accorgevo ora d’avere per la ma dre un crescente calore di tolleranza. Eppure ero ancor pieno di meraviglia. Mentre le parlavo, cadeva in un sonnellino, e poco dopo si ridestava, senza imbarazzo; e quella tranquillità mi faceva esitare. E ancora, men tre l’osservavo, mentre per movimenti infinitesimi cambiava di atteggiamento, assa­porando e indugiando nel piacere sensuale delle movenze, ero indotto a meravigliarmi a una tanto profonda, passiva sensualità. Vi veva del suo corpo; e la sua coscienza v’era tutta affondata ed era disseminata nelle sue membra, dove dimo rava beata. Infine, non mi riusciva di abi­tuarmi ai suoi occhi. Ogni volta che volgeva verso di me quei grandi occhi, belli e senza espressione, spalancati alla luce, ma chiusi a ogni domanda umana; ogni volta che avevo occasione di osservare i grazio­si mutamenti delle sue pupille, che s’allargavano e si contraevano nel tempo di un respiro: non so che cosa mi prendesse, non so trovare un nome per il senso misto di delusione, di turbamento e di avversione che mi percorreva i nervi con un fremito. Cercai di parlare con lei di una quantità d’argomenti, e sempre invano; e alla fine portai il discor­so su sua figlia. Ma anche qui si mostrò indifferente; disse che era gra­ziosa, e questo (come per i bam bini) era il più gran termine di lode per lei; ma era evidentemente incapace di ogni pensiero più alto; e quando osservai che Olalla pareva silenziosa, non fece che sbadigliarmi in fac­cia e rispondere che la parola non serviva gran che, quando non c’era niente da dire. – La gente parla molto, moltissimo, – soggiunse, guar­dandomi con le pupille che s’allargavano; e poi sbadigliò di nuovo, e di nuovo mi mostrò la sua bocca, delicata come un balocco. Questa

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51. El Dorado: mitico paese in cui abbondano oro e ricchezze; per i conquistatori spagno­li coincideva con le terre dell’America centrale; è l’abbreviazione spagnola di «El indio Dorado».

52. scevro: privo.

volta approfittai dell’insinuazione; e, lasciandola al suo riposo, salii in camera mia e mi misi a sedere davanti alla finestra aperta, guardando i monti, e non vedendoli, sprofondato in brillanti sogni lontani, e ascol­tando con la fantasia il suono d’una voce che non avevo mai udita.

La quinta mattina, mi destai con una speranza così viva che pareva sfidasse il destino. Ero sicuro di me, avevo il cuore e i piedi leggeri, e decisi di metter su bito il mio amore alla prova. Non sarebbe rimasto più a lungo vincolato dal silenzio, muto, vivo soltanto attraverso gli occhi, come l’amore delle bestie; ma, ora, avrebbe vissuto dello spirito e sarebbe entrato nelle gioie della completa intimità umana. Ci pensa­vo con folli speranze, come un viaggiatore a El Dorado51; non tremavo più nell’avventurarmi in quell’ignoto e bel paese che era la sua anima. Eppure, quando l’incontrai per davvero, lo stesso forte ardore scese su di me, e subito sommerse la mia mente; la parola parve cadere da me, come un’abitudine puerile; e non feci che avvicinarmi a lei, come chi ha le vertigini s’avvicina all’orlo di un abisso. Essa si allontanò un po’ da me, al mio venire; ma i suoi occhi non tremavano, immersi nei miei, e questi mi attraevano ad avvicinarmi. Poi, quando avrei po­tuto toccarla, mi fermai. Le parole m’erano negate; se avanzavo, non avrei potuto che stringerme la al cuore in silenzio; e tutto quanto era scevro52 di follia in me, tutto quello che ancor non era conquistato, si rivoltava al pensiero di un simile accostamento. Così rimanemmo per un secondo, con tutta la nostra vita negli occhi, scambiandoci un saluto che era attrattiva, eppure resistendo tutti e due; e allora, con un grande sforzo di volontà, e allo stesso tempo conscio di un’improvvisa amarezza di delusione, mi voltai e me ne andai, sempre in silenzio.

Qual potere era sopra di me, che mi rendeva impos sibile parlare? E lei, perché rimaneva anche lei silen ziosa? Perché si ritraeva da me, muta, con gli occhi affascinati? Era amore, questo? O era soltanto una attrazione bruta, senza intelletto e inevitabile, come quella della cala­mita per l’acciaio? Non c’eravamo mai parlati, eravamo del tutto estra­nei; eppure un influsso, forte come la stretta di un gigante, ci univa silenziosamente. In quanto a me, mi colmava d’impazienza; eppure sapevo che era una creatura degna; avevo veduto i suoi libri, avevo letto i suoi versi, e così, in certo modo, avevo indovinato l’animo della

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53. agognai: desiderai fortemente.

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donna che amavo. Ma per quello che era di lei, mi sentivo quasi gelare. Di me, non sapeva nulla, se non la bellezza corporea; era attratta a me come le pietre che cadono a terra; le leggi che regolano la terra la conducevano, senza il suo consenso, tra le mie braccia; e io mi ritrae­vo al pensiero di simili nozze, e cominciavo a sentir gelosia. Non così desideravo d’essere amato. E, allora, cominciai a provare una grande pietà per la giovane. Pensai quale doveva essere la sua mortificazione; di lei, la studiosa, la reclusa, la santa ammonitrice di Felipe, per aver così confessato una debolezza tanto sicura di sé a un uomo col quale non aveva mai scambiato una parola. E, al nascere della pietà, tutti gli altri pensieri scomparvero; e agognai53 soltanto di trovarla e consolar­la e rassicurarla; di dirle quanto pienamente contraccambiassi il suo amore, e come la sua scelta, se pur fatta ciecamente, non fosse indegna.

Il giorno dopo era un tempo splendido; un profon dissimo azzurro era sopra i monti; il sole splendeva dovunque; e il vento negli alberi e i molti torrenti che scendevano dalle montagne riempivano l’aria d’una musica delicata e continua. Eppure io ero oppresso dalla tristezza. Il mio cuore lagrimava dal desiderio di vedere Olalla, come un bambino lagrima per la madre. Sedetti su un masso, all’orlo delle rocce basse che limitano l’altopiano a settentrione. Di là, guardavo, sotto di me, la valle boscosa d’un fiume, dove non s’udiva un passo. Nella mia di­sposizione d’animo, era perfino commovente vedere il luogo deserto; gli mancava Olalla; e io pensavo alla felicità e alla bellezza d’una vita passata tutta con lei in quell’aria forte, e in quel paese aspro e bello, dapprima con un sentimento lagrimoso, e poi con tanta fiera gioia che mi pareva di diventare, per forza e statura, un Sansone.

E allora, all’improvviso, m’accorsi che Olalla si avvicinava. La vidi uscire da un boschetto di sugheri, e venire dritta verso di me; e mi alzai e aspettai. Nel camminare, pareva una creatura di tanta vita e fuoco e leggerezza da stupirmi; eppure veniva tranquilla e lentamente. La sua energia stava nella lentezza; ma, per inimitabile forza, sentii che, se avesse corso, sarebbe volata da me. Pure, nell’avvicinarsi, te­neva gli occhi bassi, verso la terra; e quando fu giunta vicina, fu senza uno sguardo che mi si rivolse. Al primo suono della sua voce, trasalii. Era questo che avevo aspettato; questa era l’ultima prova del mio amo­re. Ed ecco, la sua pronuncia era precisa e chiara, non balbettante e incompleta come quella della sua famiglia; e la voce, sebbene più fonda

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54. di contralto: nella musica lirica tipo di voce femminile estesa e profonda.55. anelavo: aspiravo.

di quanto non sia nelle donne, era pure giovanile e femminile. Parlava con ricchi accordi; musiche dorate di contralto54 si mescolavano con toni rauchi, come i capelli rossi si mescolavano coi bruni nelle sue trec­ce. Non era soltanto una voce che parlasse direttamente al mio cuore; ma mi parlava di lei. Eppure le sue parole mi fecero subito ricadere nella disperazione.

– Ve ne andrete, – disse, – oggi.Il suo esempio ruppe il legame che era venuto alle mie parole; mi

sentii come alleggerito d’un peso, o co me se un incanto fosse stato rotto. Non so con che parole rispondessi; ma, davanti a lei, sulle rocce, versai tutto l’ardore del mio affetto, dicendole che vivevo del pensiero di lei, dormivo soltanto per sognare la sua bellezza, e che avrei vo­lentieri abbandonato la mia patria, la lingua, gli amici, per vivere per sempre al suo fianco. E allora, facendomi quanta forza potei, mutai tono; la rassicurai, la confortai; le dissi che l’avevo in dovinata, nel suo spirito pio ed eroico, che ero degno di apprezzare, e che anelavo55 di condividere e alleggerire. – La Natura, – le dissi, – era la voce di Dio, alla quale gli uomini disobbediscono con loro pericolo; e, se noi era­vamo così attratti senza parole l’uno verso l’altro, sì, proprio come per miracolo d’amore, questo significava una divina affinità tra le nostre anime; dovevamo esser fatti, – dissi, – l’uno per l’altro. Saremmo stati pazzi e ribelli, – esclamai, – pazzi e ribelli contro Dio, se non avessimo ubbidito al nostro istinto.

Scosse il capo. – Ve ne andrete oggi, – ripeté, e poi con un gesto, e in tono acuto e improvviso: – No, non oggi, – esclamò, – domani!

Ma a questo segno del suo cedere, la forza venne su di me, come una marea. Tesi le braccia verso di lei, e la chiamai per nome; ed essa balzò verso di me e si strinse a me. I monti ondeggiavano davanti a noi, la terra tremava: un fremito, simile a un colpo, passò nel mio corpo, e mi lasciò cieco e preso dalla vertigine. E un momento dopo m’aveva respinto, s’era strappata via dalle mie braccia ed era fuggita con la ra­pidità d’un daino tra i sugheri.

Rimasi, e gridai verso le montagne; mi voltai, e mi avviai alla resi-dencia, come camminassi sull’aria. Essa mi mandava via, eppure ba­stava ch’io la chiamassi per nome, e veniva a me. Queste non erano che debolezze di giovane, dalle quali anche lei, la più strana del suo sesso, non era esente. Andarmene? No, Olalla; oh no, no, Olalla, mia

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56. travaglio: dolore.57. insondabile: incomprensibile, inafferrabile.

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Olalla! Un uccello cantò, vicino; e, in quella stagione, gli uccelli erano rari. Mi diceva di stare allegro. E, ancora una volta, tutto l’aspetto della natura, dai gravi e immobili monti alla foglia più leggera e alla mosca più piccola che volava nell’ombra dei boschetti, cominciò a muoversi davanti a me e ad assumere i lineamenti della vita e a mostrare un aspetto di terribile gioia. Il sole batteva sulle montagne, forte, come un martello sull’incudine, e le montagne ne tremavano; dalla terra, al vigore di quei raggi, salivano profumi inebrianti; i boschi fumavano in quello splendore. Sentii il brivido del travaglio56 e della gioia correre attraverso la terra. Qualche cosa di elementare, qualche cosa di rude, violento, selvaggio nell’amore che mi cantava in petto era come una chiave dei segreti della natura; e le stesse pietre che risonavano sotto i miei piedi erano vive ed amiche. Olalla! Il contatto di lei m’aveva fatto più vivo, m’aveva rinnovato, e m’aveva riportato all’antica condizione di parentela con la ru vida terra, con un espandersi dell’anima che gli uomini imparano a dimenticare nelle loro radunanze cortesi. L’amore bruciava in me come il furore; la tenerezza si faceva focosa; la odiavo, l’adoravo, la compassionavo, la riverivo, in estasi. Pareva l’anello che mi univa da una parte con le cose morte, e dall’altra col nostro Id dio puro e pietoso: cosa brutale e divina; parente, ad un tempo, dell’inno­cenza e delle forze irruenti della terra.

Con la testa così presa dalla vertigine, giunsi al cortile della residen-cia, e la vista della madre mi colpì co me una rivelazione. Era lì, seduta, tutta pigrizia e contentezza, con gli occhi socchiusi sotto la forza del sole, segnata da un godimento passivo, creatura a sé, davanti alla quale il mio ardore cadde come una cosa vergo gnosa. Mi fermai un momen­to; e, col tono rotto che riuscii ad impormi, dissi una parola o due. Mi guardò con la sua insondabile57 gentilezza; la sua voce, nella risposta, sonò vaga, nell’uscire dal reame di pace nel quale la donna dormiva; e cadde sulla mia mente, per la prima volta, un senso di rispetto per chi era tanto uniformemente innocente e felice, e me ne andai, meraviglia­to di me, di essere tanto turbato.

Sulla mia tavola c’era un pezzo della stessa carta gialla che avevo veduta nella stanza a settentrione; era scritta a matita, con la stessa scrittura, la scrittura di Olalla, e la presi in mano con un’improvvi­sa debolezza timorosa, e lessi: «Se sentite della cortesia per Olalla, se

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58. spicciò: uscì impetuosamente.59. gemeva e gocciava: stillava, gocciolava.

avete un po’ di cavalleria per una creatura colpita dal dolore, andateve­ne oggi di qui; per pietà, per onore, per amore di Colui che è morto, vi supplico di andarvene». Guardai per un poco queste parole, istupidito, e poi cominciai a ridestarmi alla stanchezza e all’orrore della vita; il sole s’oscurò, fuori, sulle nude montagne, e cominciai a tremare, come un uomo preso dal terrore. Il vuoto che s’apriva così, improvviso, nel la mia vita, mi rendeva debole come un vuoto fisico. Non si trattava del mio cuore, non della mia felicità, ma della vita stessa. Non potevo per­dere Olalla. Così mi dissi, e rimasi fermo, a ripetermelo. E poi, come in sogno, andai verso la finestra, avanzai la mano per aprire l’invetriata, e la spinsi con forza attraverso il vetro. Il sangue spicciò58 dal mio pol­so; e, con improvvisa calma e presenza di spirito, strinsi col pollice la piccola fonte viva, e riflettei al da farsi. In quella stanza vuota non c’era nulla che mi potesse servire; e, per di più, sentii che avevo bisogno di assistenza. Mi balenò nella mente la speranza che Olalla stessa mi po­tesse aiutare, e mi volsi e scesi le scale, sempre stringendo col pollice la ferita.

Non v’era traccia né di Olalla né di Felipe, e mi avviai verso l’an­golo, dove la Señora s’era adesso ritirata, proprio nel fondo, e sedeva dormendo vicino al fuoco, perché non c’era calore che paresse bastante per lei.

– Scusatemi, – dissi, – se vi disturbo, ma vi debbo chiedere aiuto.Alzò gli occhi, assonnata, e mi domandò che cosa fosse; e, con le

stesse parole, mi parve traesse il respiro con un allargarsi delle narici e parve ad un tratto farsi viva del tutto.

– Mi sono tagliato, – dissi, – e mi son fatto piuttosto male. Guardate! – E tesi le mani, dalle quali il san gue gemeva e gocciava59.

I suoi grandi occhi si spalancarono, le pupille si strinsero fino a di­ventare due punti; parve un velo le cadesse dal viso, e lo lasciasse acuta­mente espressivo, eppure imperscrutabile. E mentre rimanevo fermo, un po’ meravigliato del suo turbamento, venne rapida verso di me, e si chinò e mi prese per mano; e un mo mento dopo la mia mano era vicina alla sua bocca, e m’aveva morso fino all’osso. Lo spasimo del morso, l’improvviso sgorgare del sangue, e il mostruoso orrore dell’atto, bale­narono in me insieme, e la respinsi; ed essa balzò su di me ancora e an­cora, con grida bestiali, grida che riconobbi, grida come quelle che mi

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60. sgomentasse: spaventasse.

avevano svegliato la notte del gran vento. La sua forza era come quella della pazzia; la mia declinava rapidamente per la perdita di sangue; per di più, la mia mente turbinava per l’odiosa stranezza dell’aggressione, ed ero già co stretto contro il muro, quando Olalla corse tra noi, e Feli­pe, che la seguì d’un balzo, inchiodò la madre sul pavimento.

Una debolezza simile a quella d’uno svenimento mi prese; vedevo, udivo, e sentivo, ma ero incapace di muovermi. Udii i due che lotta­vano rotolare su e giù sul pavimento, gli urli dell’infuriata levarsi al cielo mentre faceva di tutto per raggiungermi. Sentii Olalla stringermi tra le sue braccia, i suoi capelli cadermi sul viso; e, con la forza d’un uomo, mi sollevò, e un po’ mi trascinò e un po’ mi portò di sopra, nella mia stanza, dove mi gettò sul letto. Poi la vidi affrettarsi verso la porta e chiuderla a chiave e fermarsi un momento ad ascoltare le grida selvagge che facevano tremare la residencia. E poi, rapida e lieve come il pensiero, fu di nuovo accanto a me, mi fasciò la mano e se la posò sul petto, lamentandosi e piangendo il mio male con voce di colomba. Non erano parole quelle che diceva, erano suoni più belli d’un discor­so, infinitamente commoventi, infinitamente teneri; eppure, mentre stavo là di steso, un pensiero mi punse il cuore, un pensiero mi ferì come una spada, un pensiero, come un bruco in un fiore, profanò la santità del mio amore. Sì, erano bei suoni, e ispirati da umana tenerez­za; ma la loro bellezza era umana?

Rimasi là disteso tutto il giorno. A lungo le grida di quell’oscura donna, che lottava col suo cucciolo mezzo scemo, risuonarono per tutta la casa, e mi colpirono di disperato dolore e di disgusto. Erano il grido di morte del mio amore; il mio amore era assassinato; non era soltanto morto, ma era un’offesa per me; eppure, qua lunque cosa pensassi, e con quello che dovevo sentire, si gonfiava in me come una bufera di dolcezza, e il mio cuore s’inteneriva allo sguardo e al contatto di lei. Que st’orrore ch’era nato in me, questo dubbio su Olalla, questa cosa selvaggia e bestiale che non soltanto era in tutto il contegno della sua famiglia, ma trovava luogo anche nelle stesse basi e nella storia del nostro amore, sebbene mi sgomentasse60, sebbene mi colpisse e mi disgustasse, non era ancora abbastanza forte per rompere il nodo della mia esaltazione.

Quando le grida furono cessate, sentii grattare la porta, e da questo capii che c’era, lì fuori, Felipe; e Olalla andò a parlargli; a dirgli non so

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che cosa. Con quest’eccezione, rimase sempre vicina al mio fianco, ora inginocchiata accanto al mio letto e pregando fervidamente, ora sedu­ta, con gli occhi nei miei. Così per quelle sei ore bevvi la sua bellezza, e silenziosamente lessi la sua storia nel suo viso. Vidi la moneta d’oro tre mare al suo respiro; vidi i suoi occhi oscurarsi e illuminarsi, e sem­pre e soltanto parlare il linguaggio d’un’indicibile dolcezza; vidi il vol­to perfetto e, attraverso la veste, le forme del suo corpo perfetto. Alla fine, venne la notte, e nella crescente oscurità della stanza la visione di lei scomparì lentamente; ma anche allora il tocco della sua mano liscia indugiava nella mia e parlava con me. Rimanere così disteso in una debolezza mortale e inebriarsi dei lineamenti dell’amata, è ridestare l’amore da qualsiasi delusione. Ragionavo con me stesso; e chiudevo gli occhi alle cose spaventose, e di nuovo ero molto ardito nell’accet­tare il peggio. Che cosa importava tutto quanto, se quel sentimento imperioso sopravviveva; se i suoi occhi mi accennavano ancora e mi legavano; se adesso, come prima, ogni fibra del mio corpo illanguidi­to61 si struggeva per lei e a lei si volgeva? Più tardi, nella notte, ripresi un po’ di forza, e parlai:

– Olalla, – dissi, – nulla importa; non domando nulla; son contento;vi amo.

S’inginocchiò per un poco, e pregò, e io, devotamente, rispettai le sue devozioni. La luna aveva cominciato a risplendere, a un lato di ognuna delle tre finestre, e dava alla stanza un chiarore nebbioso, al quale vedevo Olalla indistintamente. Quando si alzò si fece il segno della croce.

– Tocca a me parlare, – disse, – e a voi ascoltare. Io so; voi non poteteche indovinare. Ho pregato, come ho pregato, perché lasciaste questo luogo! Ve l’ho domandato, e so che mi avreste concesso perfino que­sto; o, se non è, lasciate ch’io pensi che è così!

– Vi amo, – dissi.– Eppure siete vissuto nel mondo, – disse dopo una pausa, – siete

uomo e saggio; e io non sono che una bambina. Perdonatemi, se pare ch’io voglia insegnarvi, io, che sono ignorante come gli alberi della montagna; ma quelli che imparano molto non fanno che sfiorare il volto della conoscenza; s’impadroniscono delle leggi, concepiscono la dignità dei disegni: l’orrore dei fatti viventi svanisce dalla loro memo­ria. Siamo noi che restiamo in casa, vicini al male, che ricordiamo, mi

61. illanguidito: indebolito, privo di forze.

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pare, e siamo avvertiti e abbiamo pietà. Andate, piuttosto, andatevene ora, e ricordatevi di me. Così avrò vita tra i vostri ricordi più cari: una vita tanto mia quanto quella che ha questo mio corpo.

– Vi amo, – dissi ancora una volta; e, allungando la mia debolemano, presi la sua e me la portai alle lab bra, e la baciai. Essa non fece resistenza, ma si ritrasse un poco; e vidi che il suo sguardo era su di me con un cruccio non duro, ma soltanto triste e deluso. E poi parve essa facesse appello a tutta la sua forza; prese la mia mano, mentre si chinava verso di me, e la posò sul suo cuore che batteva. – Ecco, – esclamò, – sentite il passo medesimo della mia vita. Si muove solo per voi; è vostro. Ma è veramente mio? In verità è mio, ve lo posso offrire, come potrei togliermi questa moneta dal collo, come potrei rompe­re il vivo ramo d’un albero, per darveli. Eppure, non è mio! Io sono, o credo di essere (se in realtà esisto), in un luogo lontano, impo tenteprigioniera, e son portata intorno e assordata da una folla che non vo­glio riconoscere. Questo cuore, che è come quello che palpita nel pettodegli animali, vi conosce ad un rintocco per il suo padrone; sì, vi ama!Ma la mia anima, vi ama, la mia anima? Non credo; non so, poi chetemo di domandare. Eppure, quando mi avete parlato, le vostre parolevenivano dalla vostra anima; è con l’anima che domandate: è soltantodall’anima mia che mi vorreste avere.

– Olalla, – dissi, – l’anima e il corpo sono una cosa sola, e sopra tut­to è così nell’amore. Quello che il cor po sceglie, l’anima l’ama; dove il corpo si stringe, l’anima s’attacca; corpo per corpo, anima per anima, ven gono insieme, al cenno di Dio; e la parte più bassa (se possiamo chiamarla così) è soltanto il piedistallo e la base della più alta.

– Avete veduto, – disse, – i ritratti nella casa dei miei padri? Aveteguardato mia madre o Felipe? I vo stri occhi non si sono mai fermati su quel ritratto che è appeso accanto al vostro letto? Colei che posò per esso, è morta tanti anni fa; e ha fatto del male, nella vita. Ma guardate ancora: quella è la mia mano, in tutti i particolari, quelli sono i miei occhi e i miei capelli. Che cosa è mio, allora, e che cosa sono io? Se non c’è una curva in questo mio povero corpo (che voi amate, e per amor del quale sognate appassionatamente d’a marmi), non un gesto ch’io possa fare, non un tono della mia voce, non uno sguardo dei miei occhi, no, neppure ora che parlo a quello che amo, che non ab­bia appartenuto ad altri? Altre, morte da secoli, hanno fatto all’amore con altri uomini coi miei occhi; altri uomini hanno udito la preghiera della stessa voce che risuona ora ai vostri orecchi. Le mani dei morti sono sul mio petto; mi muovono, mi sospingono, mi guidano; sono un

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62. transitorio: passeggero.63. l’individuo succede al l’individuo: Stevenson conosceva la teoria di Darwin ed era un

ammiratore del filosofo dell’evoluzione Herbert Spencer (1820­1903).64. simulacro di arbitrio: apparenza di libera volontà.65. La vostra mano… di noi: in una concezione romantica dell’amore, le persone sono at­

tratte l’una verso l’altra così come gli elementi della natura, sulla base di affinità naturali.

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fantoccio al loro comando; e non faccio che dar nuova forma e fattezze a particolari che da lun go tempo si sono allontanati dal male, nella pace della tomba. È me che amate, amico mio? O la stirpe che m’ha fatta? La giovane che non sa e non può rispon dere della più piccola parte di sé? O la corrente della quale è un turbine transitorio62, l’albe­ro del quale è il frutto passeggero? La stirpe esiste; è antica, è sempre giovane, porta nel suo seno il suo eterno destino; su di essa, come onde sul mare, l’individuo succede all’individuo63, beffato con un simula­cro di arbitrio64, ma non sono nulla. Parliamo dell’anima, ma l’anima è nella stirpe.

– Vi agitate contro la legge comune, – dissi. – Vi ri bellate alla vocedi Dio, ch’egli ha fatta tanto attraente per convincere, tanto imperiosa per comandare. Ascol tate, ora, come parla tra noi! La vostra mano si stringe alla mia, il vostro cuore balza al mio contatto, gli ignoti ele­menti che ci compongono si destano e scorrono insieme a uno sguar­do; l’argilla terrena ricorda la sua vita indipendente e agogna d’unirsi a noi; siamo attratti l’uno verso l’altro come le stelle girano negli spa zi, o come le maree hanno flusso e riflusso, da cose più antiche e più grandi di noi65.

– Ahimé! – disse, – che vi posso dire? I miei ante nati, ottocentoanni or sono, governavano tutta questa provincia: erano saggi, grandi, astuti, e crudeli; erano di stirpe eletta tra gli spagnuoli; le loro bandiere capeggiavan le guerre; il re li chiamava cugini; il popolo, quando era­no alzate le forche o quando ritornava e trovava i suoi covili fumanti, bestemmiava il loro nome. Poco dopo, s’iniziò un mutamento. L’uo­mo s’è in nalzato; se è disceso dai bruti, può di nuovo scendere al loro livello. Il fiato della stanchezza soffiò sulla loro umanità, e i nervi si rilassarono; cominciarono a scen dere; le loro menti caddero in sonno, le loro passioni si ridestarono in bufere, impetuose e insensate come il vento nelle strette dei monti; la bellezza si trasmet teva ancora, ma non più lo spirito che è guida, né il cuore umano; il seme si diffondeva, si rivestiva di car ne, la carne copriva le ossa; ma erano la carne e le ossa di bruti, e il loro intelletto era come quello delle mo sche. Vi parlo come

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oso; ma voi avete veduto per conto vostro come la ruota s’è messa a girare all’indietro per la mia stirpe condannata. Io sono, per così dire, su una piccola altura di questa discesa disperata, e vedo tanto davanti a me che dietro di me, tutto quello che abbiamo perduto e quanto siamo condannati a scendere an cora. E dovrò io, io, che vivo appartata nella casa dei morti, col mio corpo, che ha orrore della nostra natura, dovrò io rinnovare l’incanto? Dovrò incatenare un altro spirito, riluttante come il mio, in questo luogo stregato e rotto dalla tempesta nel quale soffro? Dovrò trasmettere questa maledetta forma umana, arricchirla di nuova vita, come d’un nuovo veleno, e scagliarla, come un fuoco, ai posteri? Ma il mio voto è già fatto; questa stirpe sparirà dalla terra. A quest’ora mio fratello si sta preparando; ben presto i suoi piedi saran­no sulla scala; e voi andrete con lui, e scomparirete dai miei occhi per sempre. Pensate a me qualche volta co me a una alla quale la lezione della vita è stata dura, ma che l’ascoltò coraggiosa; come a una che v’amò davvero, ma che odiava se stessa così profondamente da odiare il suo stesso amore; come a una che vi mandò via e che pure avrebbe anelato di tenervi sempre vicino; che non aveva più cara speranza di quella di potervi dimenticare, e nessuna maggior paura che quella di essere dimenticata.

Nel parlare, s’era avvicinata alla porta, e la sua voce profonda si ad­dolciva e s’allontanava; e all’ultima parola era uscita, e io rimasi solo nella stanza illuminata dalla luna. Quello che avrei potuto fare se non fossi stato schiavo della mia debolezza, non so; ma so che cadde su di me una grande e vuota disperazione. Poco dopo la porta s’illuminò della luce fioca e rossiccia d’una lanterna, e Felipe venne avanti, mi prese sulle spalle senza dire una parola, e mi portò giù, al grande can­cello, dove il carro ci aspettava. Nel lume della luna si stagliavano le montagne, come se fossero di cartone; nella poca luce dell’altipiano, e tra gli alberi bassi che si muovevano insieme e brillavano nel vento, il gran cubo nero della residencia si mostrava, massiccio, e la sua mole era rotta soltanto da tre finestre fiocamente illuminate sulla facciata settentrionale, sopra il cancel lo. Erano le finestre di Olalla; e, mentre il carro procedeva sobbalzando, tenni gli occhi fissi su di esse, fin che la strada infilò una valle, e furono perdute per sempre ai miei occhi. Felipe camminava in silenzio presso le stanghe, ma di tanto in tanto fermava la mula e pareva si voltasse a guardarmi; e, alla fine, si fece ben vicino e mi posò la mano sul capo. C’era una dolcezza tale nel suo tocco, e una tale semplicità, simile a quella dei bruti, che le lagrime mi uscirono dagli occhi, come mi scoppiasse una vena.

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– Felipe, – dissi, – portatemi dove non faranno domande.Non disse una parola, ma fece voltare la mula, rifece parte del cam­

mino che avevamo percorso, e, preso un altro sentiero, mi condusse in un villaggio montano che, come diciamo in Iscozia, era la residen­za parroc chiale di quel distretto poco popolato. Nella mia memoria rimangono interrotti ricordi di quel far del gior no sulla pianura, del fermarsi del carro, di braccia che m’aiutarono a discenderne, di un’i­gnuda stanza nella quale fui portato, e di uno svenimento che scese su di me come un sonno.

Il giorno dopo e i giorni che seguirono, il vecchio prete fu spesso al mio fianco, con la sua tabacchiera e il suo libro di preghiere; e dopo qualche tempo, quando cominciai a riprender forza, mi disse che ero in via di guarigione, e che dovevo affrettare quant’era possibile la par­tenza; e poi, senza dir nessuna ragione, prese tabacco, e mi guardò di traverso. Non finsi di non capire; sapevo che doveva aver veduto Olalla. – Signore, – gli dissi, – sapete che non domando per capriccio. Come sta quella famiglia?

Disse che erano assai sventurati; che parevano una stirpe in declino, e che erano molto poveri ed erano stati molto trascurati.

– Ma non lei, – dissi. – Senza dubbio in grazia vostra, è istruita esavia più che non lo siano di solito le donne.

– Sì, – disse; – la Señorita66 è ben istruita. Ma la famiglia è statatrascurata.

– La madre? – chiesi.– Sì, anche la madre, – disse il Padre, prendendo tabacco. – Ma Fe­

lipe è un ragazzo di buone intenzioni.– La madre è strana? – domandai.– Molto strana, – rispose il prete.– Mi pare, signore, che stiamo battendo la campagna67, – dissi. – Voi

dovete sapere dei fatti miei più che non vogliate far credere. Dovete sapere che la mia curiosità è giustificata da molte ragioni. Non vorrete esser franco con me?

– Figlio mio, – disse il vecchio, – sarò molto franco con voi nellecose che sono di mia competenza; in quanto a quelle delle quali non so nulla, non ci vuole molta discrezione a rimaner silenziosi. Non mi schermirò, con voi68: capisco perfettamente quello che intendete; e

66. Señorita: «signorina» in spagnolo.67. battendo la campagna: girando a vuoto attorno all’argomento.68. non mi schermirò, con voi: non mi sottrarrò alle vostre domande.

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69. non siete cristiano: il protagonista è cristiano ma non cattolico.

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quello che posso dire è che siamo tutti nelle mani di Dio, e che le sue vie non sono le nostre. Mi sono anche consultato con i miei superiori ecclesiastici, ma anch’essi sono rimasti muti. È un grande mistero.

– È pazza? – domandai.– Vi risponderò secondo quello che credo. Non lo è, – replicò il

Padre, – o non lo era. Quand’era giovane (Dio m’aiuti, temo d’aver trascurato quell’agnellina selvaggia) era certo sana di mente; eppure, benché non arrivasse a tali altezze, la stessa disposizione si poteva già notare in lei; e così, prima, era stato suo padre, sì, e così anche prima di lui; e questo, forse, mi dispose a prender la cosa troppo alla leggera. Ma queste cose continuano a crescere, non soltanto nell’individuo, ma nella stirpe.

– Quand’era giovane, – cominciai, e la voce mi man cò per un mo­mento; e fu solo con un grande sforzo che potei aggiungere, – era come Olalla?

– Dio non lo voglia! – esclamò il Padre. – Dio non voglia che nessu­no possa pensare di far torto così alla mia penitente favorita. No, no; la Señorita (non fosse per la sua bellezza, che con la maggiore onestà vorrei fosse minore di quella che è) non somiglia per nulla a quello che era sua madre alla stessa età. Non potrei sopportare che pensaste così; sebbene, lo sa il Cielo, sarebbe forse meglio.

A queste parole mi alzai dal letto, e apersi il cuore al vecchio; gli dissi il nostro amore e la decisione di lei, confessai i miei orrori, le mie fantasie passeggere, ma gli dissi che queste eran finite; e, con qualche cosa di più di una sottomissione puramente formale, feci appello al suo giudizio.

Mi ascoltò con molta pazienza e senza sorpresa; e quand’ebbi finito rimase per qualche tempo in silen zio. Poi cominciò: – La chiesa, – e subito s’interruppe per scusarsi. – Avevo dimenticato, figlio mio, che non siete cristiano69, – disse. – E in verità, su di un punto così fuor del comune, non si può nemmeno dire che la chiesa abbia deciso. Ma volete la mia opinione? La Señorita, in una cosa di questo genere, è la miglior giudice; io accetterei il suo giudizio.

Dopo queste parole se ne andò, e, da allora, non fu più tanto assiduo nel farmi visita; invero, anche quando cominciai di nuovo a muover­mi, mostrava di temere e di evitare la mia compagnia, non perché gli fossi antipatico, ma proprio come un uomo si sentirebbe di fuggire la

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70. sfinge degli enigmi: personaggio mitologico che sottoponeva agli uomini difficili indo­vinelli (enigmi), dalla cui risposta dipendeva la loro vita.

71. smunto: pallido e magro.

sfinge degli enigmi70. Anche gli abitanti del villaggio mi evitavano; non desideravano essermi di guida sulle montagne. Mi pareva che mi guardassero di traverso, e certo i più superstiziosi si facevano il se­gno della croce quando m’avvicinavo. Dapprima attribuii queste cose alle mie opinioni eretiche; ma alla fine cominciai a capire che ero così temuto perché ero stato ospite della residencia. Tutti disprezzano le selvagge fantasie di quei contadini; eppure m’accorgevo di una gelida ombra che pareva cadere e fermarsi sul mio amo re. Non vinse il mio ardore, ma non posso negare che gli servì di freno.

Qualche miglio a occidente del villaggio c’era uno stretto passaggio nella sierra, dal quale l’occhio giun geva direttamente alla residencia; e presi l’abitudine di andarvi ogni giorno. Un bosco coronava la vetta; e proprio dove il sentiero usciva da esso, gli sovrastava una grande roccia, che, a sua volta, era sormontata da un crocifisso in grandezza naturale e d’aspetto più triste del consueto. Questo era il luogo nel quale andavo; di là, un giorno dopo l’altro, guardavo l’altipiano, sotto di me, e la gran­de casa antica, e vedevo Felipe, non più grande d’una mosca, andar su e giù per il giardino. A volte la nebbia impediva di vedere, e poi era rotta dai venti montani; a volte la pianura dormiva sotto di me, nell’ininter­rotta luce del sole; a volte era tutta cancellata dalla pioggia. Quell’osser­vatorio lontano, quella vista interrotta del luogo nel quale la mia vita era stata tanto stranamente mutata, s’addicevano all’indecisione del mio umore. Vi passavo giorni interi, esaminando i vari elementi della no­stra situazione; ora incline ai suggerimenti dell’amore, ora prestando l’o recchio alla prudenza, e alla fine fermandomi irresolu to tra i due.

Un giorno, mentre aspettavo sulla mia roccia, venne da quella par­te un contadino piuttosto smunto71, avvolto in un mantello. Era uno straniero, ed era evidente che non mi conosceva nemmeno di fama; perché, invece di starsene dall’altra parte, si avvicinò e mi sedette accanto, e ben presto ci mettemmo a discorrere. Tra l’altro, mi disse che era stato mulattiere, e che in passato aveva molto frequentato quei monti; più tardi, aveva seguito l’esercito coi suoi muli, aveva messo da parte del danaro, e ora viveva ritirato con la sua famiglia.

– Conoscete quella casa? – gli domandai infine additando la resi-dencia; perché mi stancavo presto d’ogni discorso che tenesse il mio pensiero lontano da Olalla.

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72. basilischi: rettili tropicali con creste sul capo e sul dorso; nella mitologia greco­romana mostri dai poteri terribili.

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S’oscurò, mi guardò, e si fece il segno della croce.– Troppo bene, – disse, – è stato là che uno dei miei compagni s’è

venduto a Satana; la Vergine ci difenda dalle tentazioni! Ha pagato il suo prezzo; e ora sta bruciando nella parte più infuocata dell’inferno!

La paura mi prese; non potei risponder nulla; e poco dopo l’uomo riprese, come parlasse tra sé: – Sì, – disse, – oh, sì, la conosco. Ho pas­sato la sua soglia. C’era la neve sul passo, e il vento la portava via; certo c’era la morte, quella notte, sulle montagne, ma c’era di peggio pres­so il focolare. Lo presi per il braccio, Señor, e lo portai al cancello; lo scongiurai, per tutto quello che amava e temeva, di venire con me; mi gettai in ginocchio davanti a lui, sulla neve; e vidi che si commoveva alle mie preghiere. E proprio in quel momento essa usci nella galleria e lo chiamò per nome; ed egli si voltò, ed essa era là, con una lampada in mano, e gli sorrideva perché ritornasse. Gridai, pregando Dio, e lo strinsi tra le mie braccia, ma egli mi respinse, e mi lasciò solo. Aveva fatto la sua scelta, che Dio ci aiuti. Pregherei per lui, ma a quale scopo? ci son peccati che nemmeno il Papa può assolvere.

– E il vostro amico? – domandai, – che cos’è accaduto di lui?– Lo sa Iddio, – disse il mulattiere. – Se tutto quel lo che sentiamo

dire è vero, la sua fine è stata, come il suo peccato, una cosa da far rizzare i capelli.

– Volete dire che è stato ucciso? – domandai.– Certamente fu ucciso, – rispose l’uomo. – Ma co me? Sì, come? Ma

queste son cose delle quali è peccato parlare.– La gente di quella casa… – cominciai.Ma mi interruppe con foga selvaggia. – La gente? – gridò. – Qua­

le gente? Non ci sono né uomini né don ne in quella casa di Satana! Come? siete vissuto tanto a lungo laggiù, e non ne avete mai sentito parlare? – E qui avvicinò la bocca al mio orecchio, e sussurrò, come se anche gli uccelli dei monti avessero potuto sen tirlo, ed essere colpiti d’orrore.

Quello che mi disse non era vero, e non era nemmeno originale; in verità, non era che una nuova edizione, rimessa a nuovo dall’ignoran­za e dalla superstizione del villaggio, di storie antiche quasi quanto la stirpe degli uomini. Fu piuttosto l’applicazione che mi sgomentò. In antico, disse, la Chiesa avrebbe bruciato quel nido di basilischi72; ma ora, il braccio della Chiesa era indebolito; il suo amico Miguel non era

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stato punito dalla mano degli uomini, ed era stato abbandonato alla più terribile punizione di Dio che aveva offeso. Questo non era giusto; ma non sarebbe più stato così. Il Padre era infiacchito dall’età; era, per di più, egli stesso sotto l’influsso d’un incanto; ma gli occhi del suo gregge, ora, erano aperti al pericolo; e un giorno – sì, prima che molto tempo passasse – il fumo di quella casa sarebbe salito al cielo.

Mi lasciò pieno d’orrore e di paura. Non sapevo da che parte ri­volgermi prima; se avvertire prima il Pa dre, o se portare le mie catti­ve notizie agli abitanti della residencia, così minacciati. Il fato doveva deci dere per me; perché, mentre ancora esitavo, vidi la figura d’una donna velata avvicinarsi a me per il sen tiero. Nessun velo poteva elu­dere la mia penetrazione; da ogni linea e da ogni movimento riconob­bi Olalla; e, rimanendo nascosto dietro un angolo della roccia, lasciai che giungesse alla vetta. Allora mi feci avanti. Essa mi riconobbe e si fermò, ma non parlò; anch’io rimasi silenzioso; e continuammo per qualche tempo a guardarci, con tristezza appassionata.

– Credevo che ve ne foste andato, – disse alla fine. – È tutto quello che potete fare per me: andarvene. È l’unica cosa ch’io v’abbia mai domandata. E ancora restate. Ma lo sapete, che ogni giorno accumula il pericolo di morte, non soltanto sul vostro capo, ma sul nostro? Se ne è parlato, sui monti; si crede che mi amiate, e la gente non lo tol­lererà.

Vidi che era già informata del suo pericolo, e me ne rallegrai. – Olal­la, – dissi, – sono pronto ad andarmene oggi, subito, ma non solo.

Essa s’allontanò un poco, e s’inginocchiò davanti al crocifisso per pregare, e io rimasi vicino a lei, e guardai, ora l’oggetto della sua adora­zione, ora la figura viva della penitente, e ora il volto spettrale grosso­lanamente colorito, le ferite dipinte e le costole rilevate dell’immagine. Il silenzio non era rotto che dal lamento di alcuni grandi uccelli che volavano in cerchio all’intorno, come se sorpresi o allarmati, sulle vet­te dei monti. Poco dopo Olalla si alzò, si volse a me, sollevò il velo, e, ancora appoggiata con una mano all’asta del crocifisso, mi guardò col volto pallido e dolente.

– Ho posato la mano sulla croce, – disse. – Il Padre dice che non siete cristiano; ma guardate un momento coi miei occhi, contemplate il volto dell’Uomo del Dolore. Siamo tutti com’Egli è stato: eredi del peccato; dobbiamo tutti sopportare ed espiare un passato che non è il nostro; in noi tutti, sì, anche in me, v’è una scintilla divina. Come Lui, dobbiamo sopportare per un poco, fin che torni il mattino, portandoci la pace. Lasciate ch’io faccia da sola la mia strada; è così che mi sentirò

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73. immagini: le religioni protestanti proibiscono le immagini sacre, che considerano unerrato oggetto di venerazione.

74. emblema: simbolo.75. magnanimi: animi grandi.

meno abbandonata, avendo per amico Colui che è l’amico di tutti gli sventurati; è così che sarò più felice, dopo aver detto addio alla felicità terrena, e aver accettato volentieri come mio destino il dolore.

Guardai il volto del crocifisso; e, sebbene non fossi amico delle im­magini73, e disprezzassi l’arte imitativa e contorta della quale era un rozzo esempio, il senso di quello che significava giunse al mio intel­letto. Il volto mi guardava dall’alto con una contrazione dolorosa e mortale; ma i raggi della gloria lo circondavano, e mi ricordavano che il sacrificio era stato volontario. Era lì, in cima alla roccia, come è an­cora su tante strade maestre, e predica invano ai passanti, emblema74 di tristi e nobili verità: che il piacere non è uno scopo, ma un caso; che il dolore è la scelta dei magnanimi75; che è meglio soffrire tutto e fare il bene. Mi voltai, e scesi in silenzio la montagna; e quando mi guardai indietro per l’ultima volta prima che il bosco nascondesse il mio sen­tiero, vidi Olalla, ancora appoggiata al crocifisso.

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STEVENSON: IL NARRATORE DI STORIE

Sarò sempre un girovago: la biografia

Dalla Scozia al MediterraneoRobert Louis Stevenson nacque nel 1850 a Edimburgo, in Scozia, paese che ritorna più volte nei suoi racconti, magari solo in una citazione, come una me-moria, un sottofondo che rimane anche quando lo scrittore è definitivamente lontano dalle nebbie della città scozzese: «La vecchia patria è sempre il vero amore, mentre le altre non sono che scappatelle» scriverà a proposito degli scozzesi all’estero.Il padre era un ingegnere: costruiva ponti e fari, una vocazione di famiglia, visto che gli Stevenson progettavano fari sulle coste scozzesi dalla metà del Settecento.Il mare non fu però per Robert Stevenson luogo di lavoro: costituì per lui un mezzo di evasione, fantastica e reale, e nello stesso tempo rappresentò un luogo di mistero e di pericolo, un abisso da attraversare, ma senza soffermar-visi; non a caso nel romanzo L’isola del tesoro del mare si sente il rumore in lontananza e tutta la vicenda si svolge di fatto sulla terraferma.

La malattia polmonare, che lo afflisse fin da piccolo, lo costrinse però ad al-lontanarsi spesso dal clima insalubre di Edimburgo.Molte furono le estati trascorse nella casa del nonno in campagna, dove ebbe modo di accostarsi alle leggende e alle tradizioni scozzesi.A dodici anni viaggiò per circa due anni in Europa con la madre, di origine francese, il fratello, una cugina e la governante, Cummy (Alison Cunningham), che non solo lo accudiva durante gli attacchi della malattia, ma gli raccontava in modo avvincente episodi della Bibbia. Da Mentone, sulla Costa Azzurra, dove vivevano in una casa in affitto, visitarono diverse località italiane e in quei viaggi con la madre, una donna vicina alla sensibilità del figlio, si anda-rono sviluppando la fantasia e il desiderio di viaggiare del giovane Robert, che in una lettera alla madre del 1874 scrisse:

Devi renderti conto che sarò un nomade fino alla fine dei miei giorni. Non sai quanto l’abbia desiderato ai vecchi tempi, quan­do correvo a vedere i treni in partenza e agognavo andarmene con loro. Ora sai che devi considerare come parte integrante di me questa propensione alla vita errabonda. Sarò sempre un gi­rovago.

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In quegli anni accompagnò spesso il padre nei suoi viaggi lungo le coste dove venivano installati i fari. L’ammirazione per il lavoro paterno non bastò tuttavia a fargli seguire le sue orme e ben presto Robert abbandonò gli studi di Inge-gneria per passare a quelli di Legge, in cui si laureò nel 1875; ma i suoi veri interessi erano letterari, la sua ambizione quella di diventare uno scrittore e di dedicarsi esclusivamente alla letteratura; fu una scelta che portò a una progres-siva rottura dei rapporti con il padre.

Dal 1874 passò lunghi periodi di tempo in Francia, dove si fermava diversi mesi all’anno, alla ricerca di un clima più adatto alla sua malattia. I suoi primi libri sono testimonianze di viaggi, itinerari a piedi per le montagne francesi come quelli descritti in Viaggio nell’entroterra: in canoa tra Belgio e Francia (1878) e Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino (1879).

A Fontainebleau, dove frequentava artisti e pittori, lontano dal clima di stretta osservan-za religiosa in cui era cresciuto, conobbe nel 1876 Fanny Osbourne, un’americana, spo-sata, con due figli; nonostante la differenza di età – Fanny aveva dieci anni di più – lo scrittore strinse con lei una relazione sempre più profonda. Fanny era una donna forte, una buona compagna di sogni e di avventure, e quando lei dovette ritornare negli Stati Uniti il loro legame non si allentò.

Un ritratto di Fanny Osbourne nel periodo del suo incontro con Robert Louis Stevenson.

John Singer Sargent, Robert Louis Stevenson, 1887.

Oltre gli oceaniNel 1879 Stevenson affrontò la traversata oceanica su un piroscafo per emigranti e andò negli Stati Uniti. Fanny gli ave-va scritto che era malata e lui aveva deciso di raggiunger-la. Una volta sbarcato a New York, intraprese quello che un secolo dopo sarebbe diventato

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un viaggio di molti giovani, la traversata «coast to coast», dalla costa atlantica a quella del Pacifico, che per lui fu solo un viaggio faticoso e spossante. Rag-giunse Fanny a San Francisco e nel 1880, dopo il divorzio di lei, si sposarono.La loro luna di miele fu quanto meno originale. Trascorsero l’estate in un vil-laggio minerario abbandonato a nord di San Francisco; la scelta, dovuta anche a motivi economici, consentì allo scrittore di vivere a contatto con una natura incontaminata, facendolo sentire totalmente libero. Nel libro Gli accampati di Silverado, in cui anni dopo racconta e rielabora quell’esperienza, così Steven-son ricorda le sue giornate:

I giorni, privi di ogni interruzione, fluivano con assoluta lentezza; le ore si dissolvevano in altre ore; […] e, tornando col ricordo a quei tempi, è come se avessimo trascorso gran parte della nostra esistenza a Silverado appoggiati sui gomiti o seduti su un tavolac­cio ad ascoltare il silenzio che indugiava sui monti.

Sulle montagne vicino al lago Sara-nac, dove il clima era più favorevo-le alla sua salute, Stevenson scrisse Il Signore di Ballantrae.

La casa di Stevenson a Saranac Lake, NY. Trasformata in museo, la casa conserva nelle stanze

i mobili usati da Stevenson e famiglia, più una collezione di oggetti personali

dello scrittore.

Gli anni tra il 1880 e il 1886 furono particolarmente proficui sul piano della scrittura: Stevenson scrisse romanzi che gli diedero la notorietà come L’isola del tesoro (1883) e Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde (1886). Furono anni trascorsi tra gli Stati Uniti, i sanatori svizzeri e la Scozia, dove non gli mancò mai l’aiuto economico del padre. Alla morte di quest’ultimo lo scrit-tore andò per un anno a New York, accompagnato dalla madre, dalla moglie e dai due figli di lei, con i quali aveva instaurato un ottimo rapporto.

L’ultima isolaNel 1988 tutta la famiglia intraprese un viaggio in nave nel Pacifico meri-dionale. Visitarono le isole Marchesi, Tahiti, Honololu e finirono per stabilirsi nell’arcipelago di Samoa. Arrivarono ad Apia nell’isola di Upolu nel dicembre del 1889. Comprarono un terreno, ai piedi del monte Vaea, e vi costruirono una casa, «Villa Vailima», dal nome indigeno, «cinque acque», che lo stesso scrittore diede alla sua proprietà, attraversata da numerosi ruscelli. Dal porto

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Il clima dell’isola e la vita feli-ce che vi conduceva sembra-vano giovare alla salute del-lo scrittore. Scrisse racconti e romanzi, come Il diavolo nella bottiglia e Nei mari del Sud, e partecipava attiva-mente alla vita locale. In una lettera allo scrittore Henry James, con cui ebbe una fit-ta corrispondenza, confessò: «Mi sono più divertito nei pochi mesi che sono stato qui, che non tutta la vita».

di Apia partivano i manoscritti che lo scrittore inviava al suo editore a Londra.Fu in quei luoghi così lontani e diversi dalla Scozia che Stevenson visse gli ul-timi anni della sua esistenza. La vita delle isole lo metteva a contatto con una natura rigogliosa ma anche con un mondo diverso, rispetto al quale sentiva il peso di una responsabilità. Egli era consapevole del pericolo che poteva venire a quelle popolazioni dal colonialismo europeo e quindi della necessità di ba-sare la loro forza su un adeguato sfruttamento della terra e delle sue ricchezze. «Se non sarete voi a farlo» dice ai capi Samoa in un discorso del 1894 «ci pen-seranno altri».

Qui giace nel luogo desiderato,Tornato è il marinaio, tornato dal mare,

E tornato dal colle il cacciatore.

Morì improvvisamente, di emorragia cerebrale, il 3 dicembre 1894. Per soddi-sfare il suo desiderio di essere sepolto sul monte Vaea, quasi duecento abitanti dell’isola aprirono una strada per portare sulla cima il feretro dello scrittore. Lì venne collocata la sua tomba, un parallelepipedo di pietra sul quale venne incisa l’epigrafe che egli stesso aveva scritto:

Stevenson con la famiglia e alcuni amici a Upolu, Samoa.

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In quattordici anni non ho avuto un solo giorno di vera salute; mi sono svegliato che stavo male e sono andato a letto esausto; ho lavorato con determinazione; ho scritto a letto e fuori del letto […]; ho scritto quando la testa sembrava galleggiare per la spos­satezza, e in così lungo tempo ho l’impressione di aver vinto la mia sfida.

L’avventura e il doppio: le opere e i temiGli interessi di Stevenson come scrittore spaziarono dalla poesia al racconto, dal romanzo al saggio. Ricchissima è la sua produzione letteraria; la scrittura fu per lui anche la chiave per contrastare uno stato di salute che avrebbe potuto condizionare definitivamente la sua vita. In una lettera del 1893 scrive:

L’avventuraLa narrativa di Stevenson è stata sempre strettamente legata da critici e lettori al romanzo d’avventura.I suoi primi scritti – Viaggio nell’entroterra: in canoa tra Belgio e Francia (1878) e Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino (1879) – appartengono alla narrativa di viaggio e mostrano un gusto per l’osservazione e il dettaglio, che tornerà anche nei suoi romanzi.Ammiratore di Alexandre Dumas e di Walter Scott, autori dei Tre moschettieri e di Ivanhoe, Stevenson è andato oltre la creazione di una trama fatta di colpi di scena, di personaggi alle prese con pericoli e malvagità umane e ha fatto dell’avventura il terreno su cui non si scontrano semplicemente buoni e cattivi, ma emergono sentimenti profondi, connaturati all’animo umano. L’avventura è lo spazio in cui più evidente è lo scontro tra Bene e Male, uno dei temi più forti dell’opera di Stevenson.In una bella introduzione al romanzo L’isola del tesoro (1883), lo scrittore Giorgio Manganelli rileva come nell’incontro con Silver, l’ambiguo e affasci-nante pirata che lo accompagna nella sua avventura, Jim impari che il Male è parte dell’esistenza, che può avere anche dei risvolti attraenti, ma che va comunque riconosciuto e affrontato.

Il doppioLa compresenza di Bene e Male nella vita dell’uomo confluisce nel tema del doppio, che ricorre nella narrativa di fine Ottocento e primo Novecento. Se nella narrativa settecentesca la scissione dell’io, associata per esempio alla per-dita della propria ombra o dell’immagine riflessa nello specchio, era vissuta so-prattutto come perdita di una parte di sé, come rottura insopportabile di un’in-tegrità individuale, già dalla metà dell’Ottocento il tema del doppio assume un

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diverso significato: diventa esplorazione della coscienza, indagine sulla propria identità. L’attenzione di molti scrittori si concentra sulla parte oscura dell’animo umano. I romanzi presentano quindi personaggi la cui avventura è diventata la conoscenza di sé.

Proprio per questi motivi Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde, del 1886, ottenne subito un grande successo e non ha mai smesso di affasci-nare i lettori. Il protagonista deve fare i conti con la parte oscura di sé, scono-sciuta ma presente, che a un certo punto prende il sopravvento, si afferma su ogni principio, su ogni educazione. Lo stesso Stevenson, educato a un rigido moralismo, visse in prima persona la scissione tra il desiderio di seguire i pro-pri impulsi e i freni imposti dalla religione e dalla morale. Non a caso egli si interessò di psicologia e fu fortemente influenzato dai romanzi dello scrittore russo Fëdor Michajlovic Dostoevskij (1821-1881), nei quali l’animo umano è messo a nudo e scandagliato nelle sue più nascoste passioni. Lo sdoppiamento di personalità, che nel romanzo di Stevenson si concretizza nella possibilità di essere sia Jekyll sia Hyde, ha il significato di portare alla luce ciò che di nasco-sto (in inglese to hide significa «nascondere») vi è nella coscienza. Trasferire su un altro uomo, come fa Jekyll, le proprie inconfessate passioni significa da un lato rifiutare una parte di sé, ma dall’altro anche non potervi rinunciare.

Nel romanzo del 1888 Il Signore di Ballantrae (tradotto anche Il Master di Bal-lantrae) il contrasto tra Bene e Male prende forma nel conflitto tra due fratelli: James, bello e affascinante, quanto spietato e privo di freni morali, ammirato e temuto, amato e odiato, ed Henry, bruttino, goffo, amante della pesca e dei cavalli. In questo caso le due figure sono realmente sdoppiate, ma l’attrazione per il male nella quale sarà coinvolto Henry finirà per farli assomigliare l’uno all’altro. La lotta tra i due fratelli, ambientata nella seconda metà del Settecen-to, ha come sfondo i luoghi classici dell’avventura: paesaggi aspri della Scozia, mari percorsi dalle navi dei pirati, desolate praterie americane.

OlallaOlalla è un racconto scritto nel 1885 e pubblicato due anni dopo. Nacque come winter’s tale: uno di quei racconti che venivano pubblicati per Natale sui numeri speciali delle riviste. L’argomento era piuttosto inusuale per Ste-venson, e risente in modo scoperto delle sue ultime letture. Nel romanzo ci sono echi, reminiscenze evidenti del romanzo gotico e fantastico, come l’ambientazione nella Sierra, che rimanda sia al romanzo Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, sia al racconto Inès de las Sierras (1837) di Charles Nodier (1780-1844), nel quale tre ufficiali dell’esercito napoleonico, costretti a trascorrere la notte in un castello abbandonato, si imbattono nel misterioso personaggio di una fanciulla. Lo stesso nome della protagonista sembra essere ricalcato su Carmilla, protagonista del racconto omonimo di Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873), uno dei maggiori scrittori di romanzi fantastici.

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Nel racconto emergono però anche interessi specifici di Stevenson, come quello per le nuove teorie darwiniane: il seme della discendenza è la spiega-zione razionale della degenerazione della famiglia che dà la stessa Olalla, la cui rinuncia all’amore deriva proprio da questa consapevolezza. A sua volta il protagonista non solo scruta nelle fattezze degli antenati, ritratti nei quadri della residencia, i segni di quella che oggi si definirebbe un’«eredità genetica», ma riconosce anche nel proprio doppio, riflesso in uno specchio, le tracce della propria stirpe. I tratti e i comportamenti inquietanti della Señora, che in un racconto fantastico sarebbero indizi di un caso di vampirismo, vengono così «derubricati» a un caso di degenerazione genetica, di follia, e ricondotti sul piano della realtà.

La scrittura di Olalla precede di poco quella dello Strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde, tanto che alcuni vi hanno visto una sorta di preparazione al romanzo. Il tema del doppio, cruciale nel romanzo, si fonde nel racconto con quello del ritratto, tipico della narrativa ottocentesca. Il ritratto diventa il reale doppio di qualcuno – come nel romanzo Il castello di Otranto del 1764 di Horace Walpole (1717-1797), considerato il primo romanzo gotico, in cui il ritratto di un antenato «scende dalla tela» e si anima – oppure costituisce una presenza malefica, come nel racconto Il ritratto di Gogol (1809-1852). Nel brevissimo racconto Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe (1809-1849), che presenta molte analogie con Olalla, esso «ruba la vita» alla giovane donna che ne è il soggetto.L’inquietante immagine dell’antenata di Olalla è una prefigurazione del futuro. L’immagine di Olalla, pur nella sua diversità, non può separarsi dagli altri suoi doppi, la donna del ritratto e la madre, delle quali lei è l’erede.Nella donna del ritratto, Stevenson fonde la concezione della donna vampiro con quella della donna fatale, entrambe pericolose per l’uomo. La religione, l’austerità morale sembrano essere l’unica difesa, qualità che sono attribuite ancora a una donna. L’immagine con cui si chiude il racconto è infatti quella di Olalla vicino al crocifisso, che nelle leggende sui vampiri costituisce l’oggetto con cui tenerli lontani. Il protagonista sembra invece essere incapace di sottrar-si sia alla malìa della donna del quadro sia alla sottile dolcezza della Señora, e solo la forza di Olalla lo salva dal suo destino.

Una peculiarità del racconto è proprio la presenza di ben tre personaggi fem-minili, del tutto originale nella narrativa di Stevenson, i cui protagonisti sono prevalentemente maschili. Si tratta comunque di donne quantomeno singolari, che rimandano a una concezione della donna come demone o come angelo, senza trovare una conciliazione.La rigorosa educazione religiosa era stato un ostacolo alla narrazione di storie e di scene d’amore, in quanto, come riconosce lo scrittore in una lettera, non gli consentiva di rappresentare l’amore e le figure femminili come avrebbe voluto. Solo anni più tardi sarebbe stato in grado di affrontare con efficacia il

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La produzione di Stevenson è molto vasta e non si limita alla narrativa; egli scrisse infatti anche saggi, poesie e opere teatrali. Di seguito sono indicati le sue più im-portanti opere di narrativa, di cui le ultime due pubblicate postume.

1878 Viaggio nell’entroterra: in canoa tra Belgio e Francia1879 Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino1882 Le Nuove Mille e una notte1883 L’isola del tesoro1886 Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde1886 Il fanciullo rapito1887 Gli allegri compari e altri racconti1888 La freccia nera1889 Il Master di Ballantrae1892 Gli accampati di Silverado1893 Gli intrattenimenti delle notti sull’isola1896 Weir di Hermiston1900 Nei mari del Sud

Una serie di copertine del più celebre romanzo di Stevenson, L’isola del tesoro, tradotto e pubblicato in molte lingue.

tema amoroso, come nelle novelle Spiaggia di Falesa del 1892 e, soprattutto, nel romanzo incompiuto Weir di Hermiston, che secondo molti critici sarebbe stato, se condotto a termine, la sua opera migliore.

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Una rude congèrie di funi e di pulegge: il lavoro di scrittoreTusitala venne definito Stevenson dagli indigeni di Samoa: «narratore di storie»; tusi significa infatti «racconto, favola» e tala «raccontatore». La sua capacità di raccontare, di incantare gli ascoltatori catturandone l’attenzione nacque in-nanzitutto dal suo amore per le storie, di cui era stato egli stesso appassionato ascoltatore e grande lettore. Ancora bambino amava ascoltare sia le leggende scozzesi, fatte di storie avventurose e di atmosfere cupe, che gli raccontava il nonno, sia gli episodi della Bibbia, che la governante gli leggeva con l’intento di dargli un’educazione religiosa, ma che scatenavano piuttosto le sue paure e la sua fantasia.Stevenson fu un accanito lettore, leggeva testi di ogni genere e di ogni epoca: dalla poesia, ai racconti, ai romanzi, ai saggi. In un breve saggio annota i libri che hanno avuto un’influenza su di lui: vanno dal Vangelo secondo Matteo alle poesie di Walt Whitman.Dalle sue riflessioni egli appare ben presto consapevole che la bellezza delle storie non dipende soltanto dalla trama, ma anche dalla capacità di racconta-re, di far diventare la sequenza dei fatti un intreccio avvincente. Una capacità che riconosce e ammira nei libri che legge. Alle prese con le difficoltà dei suoi primi racconti, Stevenson scrive:

Ogni volta che mi imbattevo in un libro o in un brano che mi pia­ceva e in cui venivano resi con proprietà un dato tema o un certo effetto, in uno stile e con una forza inconfondibili, mi mettevo subito ad imitare quell’autore. Sapevo che non ci sarei riuscito, eppure provavo e riprovavo finché, dopo una serie di tentativi, cominciavo ad avere una nozione del ritmo, dell’armonia, della costruzione e dell’interdipendenza delle parti.

Quattro francobolli celebrativi, emessi a Samoa nel 1969,

a 75 anni dalla morte di Stevenson. Raffigurano alcuni personaggi

dei romanzi L’Isola del tesoro, Il ragazzo rapito,

Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde,

Weir di Herminston.

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il vero compito dell’artista letterario è di intrecciare o tessere il proprio significato avvolgendolo su se stesso, cosicché ogni perio­do, per mezzo di frasi consecutive, appaia in un primo momento come una specie di nodo, e poi, dopo un attimo di sospensione del senso, si sciolga e si chiarifichi. […] Qualunque siano le oscurità e per quanto intricata sia la narrazione, la nitidezza della rappre­sentazione non deve soffrirne.

La sua formazione avvenne anche attraverso un’analisi dei testi di altri scrittori, che confluì in una riflessione attenta sullo stile e sui meccanismi narrativi. Nel saggio Alcuni elementi tecnici dello stile nella letteratura (1884), analizza e consiglia tecniche per costruire il ritmo della frase, per scegliere le parole. Egli è perfettamente consapevole che

Stevenson conosce la fatica dello scrivere e soprattutto della ricerca di una pa-rola che appare al lettore nitida, semplice, naturale, ma dietro la quale c’è un lavoro faticoso: «una rude congèrie di funi e di pulegge», la definisce, ovvero un meccanismo complesso e intricato, fatto di funi e ruote dentate, in cui ogni elemento contribuisce al suo funzionamento. «Non desti quindi meraviglia se i periodi perfetti sono rari e ancor più rare le pagine perfette».

Il romanzesco e il realismoStevenson è stato considerato per molto tempo soltanto uno scrittore per ragazzi e il suo stile giudicato a volte riduttivo, troppo semplice. Proprio i suoi saggi sul lavoro di scrittore testimoniano invece quale lavoro ci sia dietro quell’apparente semplicità.Nella narrativa di Stevenson interagiscono realtà e immaginazione. Che si tratti di un romanzo d’avventura o di una storia ai confini della realtà, come quella del dottor Jekyll, l’intreccio è sempre avvincente e tiene desta l’attenzione del letto-re, che va verso la conclusione per il piacere di sapere come va a finire la storia.Secondo Stevenson i romanzi devono proporre storie non ispirate alla realtà, ma storie che colpiscano i lettori, i quali dovrebbero uscire dalla lettura di un libro, con la mente ricolma di una «fantasmagorica, sfrenata danza di immagi-ni, incapaci di prender sonno o di pensare ad altro».Le osservazioni di Stevenson appartengono ad anni – la fine dell’Ottocento – in cui in Inghilterra era viva la polemica tra i sostenitori del realismo e quelli del romance. I primi guardavano agli scrittori del naturalismo francese, come Zola, che indicavano nella realtà la loro fonte d’ispirazione e in uno stile asciutto il modo migliore di riproporla all’attenzione dei lettori. I sostenitori del romance volevano invece storie in cui prevalessero elementi fantastici, non diversi da quelli che avevano caratterizzato il romanzo gotico di primo Ottocento.

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La passione di Stevenson per la lettura si riflette nel suo lavoro di scrittore. In tutti i suoi saggi egli non perde mai di vista il lettore, che non ritiene un sog-getto passivo, un semplice ricevente del prodotto letterario, ma un interlocuto-re attivo, senza il quale il lavoro dello scrittore viene vanificato. Il romanzesco si può dire riuscito «allorché il lettore, spontaneamente, gioca a fare l’eroe», quando una certa situazione che egli ha accarezzato nella sua immaginazione «giunge a realizzarsi nel racconto tra dettagli appropriati e vincenti».

Perseguite pure l’ideale o l’astratto, non sarete per questo meno veritieri; correrete invece il rischio di tediare ed essere inefficaci se sarete fiacchi; può, infine, capitarvi di realizzare un capolavoro a patto che siate energici e sinceri.

Alla nuda realtà Stevenson oppone il romanzesco, che fa riferimento a una «re-altà» che appartiene solo al mondo scritto dell’immaginazione. Uno scrittore deve quindi «tralasciare ciò che è noioso o irrilevante ed eliminare ciò che è noioso anche se non necessario».Proprio questa ricerca di asciuttezza lo porta a una scrittura continuamente sorvegliata, in cui ogni frase ha una sua concretezza, in cui anche le parole evocative esprimono con precisione ogni significato. Lo scrittore, secondo le sue stesse parole, deve stare attento che il suo racconto, magari appassionato, non anneghi «in un profondo mare di eloquenza descrittiva e frasario trascu-rato». Stevenson quindi se da una parte rifiuta le indicazioni del realismo euro-peo, dall’altro ne accoglie la forza narrativa, il «metodo tecnico».Nel saggio Una nota sul realismo, del 1883, afferma con vigore che la buona riuscita di un racconto sta soprattutto nel modo in cui esso è scritto.

Girolamo Pieri Nerli, Robert Louis Stevenson, 1892.

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