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Università degli Studi di Pavia Dipartimento di Scienze economiche e aziendali Quirino Camerlengo I I I N N N T T T R R R O O O D D D U U U Z Z Z I I I O O O N N N E E E A A A L L L L L L O O O S S S T T T U U U D D D I I I O O O D D D E E E L L L L L L A A A C C C O O O S S S T T T I I I T T T U U U Z Z Z I I I O O O N N N E E E E E E C C C O O O N N N O O O M M M I I I C C C A A A a.a. 2014-2015

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U n i v e r s i t à d e g l i S t u d i d i P a v i a Dipartimento di Scienze economiche e aziendali

Quirino Camerlengo

IIIIIIIIIIIINNNNNNNNNNNNTTTTTTTTTTTTRRRRRRRRRRRROOOOOOOOOOOODDDDDDDDDDDDUUUUUUUUUUUUZZZZZZZZZZZZIIIIIIIIIIIIOOOOOOOOOOOONNNNNNNNNNNNEEEEEEEEEEEE AAAAAAAAAAAALLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLOOOOOOOOOOOO SSSSSSSSSSSSTTTTTTTTTTTTUUUUUUUUUUUUDDDDDDDDDDDDIIIIIIIIIIIIOOOOOOOOOOOO DDDDDDDDDDDDEEEEEEEEEEEELLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLLAAAAAAAAAAAA

CCCCCCCCCCCCOOOOOOOOOOOOSSSSSSSSSSSSTTTTTTTTTTTTIIIIIIIIIIIITTTTTTTTTTTTUUUUUUUUUUUUZZZZZZZZZZZZIIIIIIIIIIIIOOOOOOOOOOOONNNNNNNNNNNNEEEEEEEEEEEE EEEEEEEEEEEECCCCCCCCCCCCOOOOOOOOOOOONNNNNNNNNNNNOOOOOOOOOOOOMMMMMMMMMMMMIIIIIIIIIIIICCCCCCCCCCCCAAAAAAAAAAAA

a.a. 2014-2015

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Presentazione della dispensaPresentazione della dispensaPresentazione della dispensaPresentazione della dispensa Il corso di “Costituzione economica” (6 CFU), affine-integrativo collocato al secondo anno della laurea triennale in Management, aspira a fornire gli strumenti necessari per interpretare il senso e la portata delle disposizioni della Cara fondamentale in tema di rapporti economici. Questi strumenti si rivelano necessari per affrontare il corso di “Diritto dell’economia” (6 CFU), caratterizzante collocato al terzo anno del medesimo corso di laurea triennale in Management. L’indice di questa dispensa chiarisce bene il percorso seguito. Da una introduzione di carattere generale sul senso della “costituzione economica”, passando attraverso l’analisi del sistema delle fonti del diritto, si approderà ad uno studio degli elementi qualificanti tale disciplina: i protagonisti della costituzione economica (pubblici e privati), i mezzi utilizzati nello svolgimento delle attività economiche, i poteri attribuiti dall’ordinamento a tali soggetti. L’epilogo sarà la descrizione di quella vocazione sociale del sistema costituzionale con la quale dovrà fare i conti la disciplina della libertà di iniziativa economica privata. L’eterogeneità dei contenuti ha imposto una trattazione spesso trasversale, tale cioè da attraversare molte branche dell’ordinamento giuridico: quindi, non solo il diritto costituzionale, ma anche il diritto privato, il diritto commerciale, il diritto amministrativo, il diritto del lavoro e il diritto sindacale. Non deve, perciò, destare sorpresa imbattersi in istituti e in categorie concettuali proprie di settori scientifico-disciplinari diversi dal diritto costituzionale. In fondo, è la stessa complessa nozione di “costituzione economica” ad imporre un simile approccio. Che senso avrebbe studiare la libertà di iniziativa economica privata senza i necessari rudimenti di diritto privato e, soprattutto, di diritto commerciale ? Che senso avrebbe occuparsi dei limiti e delle condizioni che influenzano l’esercizio concreto di tale libertà senza attingere alle categorie del diritto amministrativo ? Quanto al metodo seguito, la dispensa è articolata in ricostruzioni e analisi condotte direttamente dall’autore, spesso (ma non sempre) integrate da saggi, attinti da alcune fonti bibliografiche espressamente identificate, di cui sono autori importanti studiosi. Tramite questi scritti è possibile acquisire i necessari approfondimenti, lasciando al lettore la libertà di decidere sino a che punto addentrarsi nei meandri di tematiche spesso complesse e intricate, persino per gli operatori del diritto. Nel confezionare questa dispensa il mio pensiero va a tutti gli studenti e a tutte le studentesse di Economia a Pavia che in questi anni hanno contribuito, con la loro vivace, intelligente e, soprattutto, tenace partecipazione ai corsi di Diritto pubblico e dell’economia e di Diritto dell’economia, a stimolare l’interesse verso una materia complessa e multiforme come quella della costituzione economica. Naturalmente, questa dispensa è un contenitore di idee sempre aperto. Dunque, sono ben accette osservazioni, critiche, suggerimenti, anche semplici correzioni formali, per rendere questo scritto sempre più congeniale alle esigenze formative di questo corso ([email protected]). Pavia, 31 ottobre 2014

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IIIINDICENDICENDICENDICE Capitolo I DIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIA In questo capitolo è introdotto il tema dei rapporti tra diritto ed economia, spesso conflittuali. La comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regole (pag. 8) Le frequenti tensioni tra diritto ed economia Le frequenti tensioni tra diritto ed economia Le frequenti tensioni tra diritto ed economia Le frequenti tensioni tra diritto ed economia (pag. 10) Capitolo II IL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICA Il secondo capitolo mira a descrivere il concetto di “diritto oggettivo” e la nozione di “norma giuridica”, mettendo in luce le differenze rispetto ad altre forme di regolamentazione sociale. Il diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridiche (pag. 12) Capitolo III LE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTO Questo capitolo illustra il concetto di “fonte del diritto” e tratta del problema dei contrasti tra fonti, esaminando i diversi criteri di risoluzione. Introduzione Introduzione Introduzione Introduzione (pag. 15) Il diritto oggettivo come sistema normativo e il problema delle antinomie tra fonti del dirittoIl diritto oggettivo come sistema normativo e il problema delle antinomie tra fonti del dirittoIl diritto oggettivo come sistema normativo e il problema delle antinomie tra fonti del dirittoIl diritto oggettivo come sistema normativo e il problema delle antinomie tra fonti del diritto (pag. 16) I criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomie (pag. 18) Alcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioni (pag. 22) Capitolo IV VERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA Partendo dalla nozione generale di “costituzione” e passando attraverso lo studio dei caratteri propri della Costituzione italiana, questo capitolo focalizza l’attenzione sulla controversa nozione di “costituzione economica” Sezione I LA COSTITUZIONE IN GENERALE La nozione di costituzione nella teoria generale La nozione di costituzione nella teoria generale La nozione di costituzione nella teoria generale La nozione di costituzione nella teoria generale (pag. 37)

S. BARTOLE, voce Costituzione (dottrine generali e diritto costituzionale), in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. IV, Utet, Torino, 1989, pp. 288 ss.

Sezione II LA COSTITUZIONE ITALIANA Storia, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana Storia, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana Storia, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana Storia, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana (pag. 50)

V. ONIDA, voce Costituzione italiana, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. IV, Utet, Torino, 1989, pp. 321 ss.

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Sezione III LA COSTITUZIONE ECONOMICA Il fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella Costituzione (pag. 66)

M. LUCIANI, voce Economia nel diritto costituzionale, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. V, Utet, Torino, 1990, pp. 373 ss.

L’evoluzione della costituzione economica italianaL’evoluzione della costituzione economica italianaL’evoluzione della costituzione economica italianaL’evoluzione della costituzione economica italiana (pag. 76) Capitolo V I SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA Il capitolo quinto è dedicato ai protagonisti, sia sul versante pubblico sia su quello privato, della costituzione economica. In particolare, nella parte dedicata agli organi di garanzia è trattato il tema, centrale nella costituzione economica, delle autorità amministrative indipendenti. Quanto ai soggetti privati, partendo dalla distinzione tra persone fisiche e persone giuridiche, una breve disamina è dedicata alle società. Sezione I I SOGGETTI PUBBLICI Lo StatoLo StatoLo StatoLo Stato (pag. 80)

L. ORNAGHI, voce Stato, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. XV, Utet, Torino, 1999, pp. 25 ss.

Considerazioni sul concetto tradizionale di StatoConsiderazioni sul concetto tradizionale di StatoConsiderazioni sul concetto tradizionale di StatoConsiderazioni sul concetto tradizionale di Stato (pag. 91) Il ParlamentoIl ParlamentoIl ParlamentoIl Parlamento (pag. 92) Il GovernoIl GovernoIl GovernoIl Governo (pag. 94) La pubblica amministrazioneLa pubblica amministrazioneLa pubblica amministrazioneLa pubblica amministrazione (pag. 95) L’ordine giudiziarioL’ordine giudiziarioL’ordine giudiziarioL’ordine giudiziario (pag. 96) Gli organi di garanziaGli organi di garanziaGli organi di garanziaGli organi di garanzia (pag. 97)

M. POTO, voce Autorità amministrative indipendenti, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., Agg., vol. III, Utet, Torino, 2008, pp. 54 ss.

Le autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionali (pag. 103) Le istituzioni dell’Unione europeaLe istituzioni dell’Unione europeaLe istituzioni dell’Unione europeaLe istituzioni dell’Unione europea (pag. 104) Sezione II I SOGGETTI PRIVATI Persone fisiche e persone giuridichePersone fisiche e persone giuridichePersone fisiche e persone giuridichePersone fisiche e persone giuridiche (pag. 105)

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Q. CAMERLENGO, Lobbies e processi di decisione politica, in F. Rigano (a cura di), La Costituzione in officina. Il primo intervento urgente, Pavia University Press, Pavia, 2013, pp. 37 ss.

Capitolo VI GLI OGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI OGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI OGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI OGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA Il capitolo sesto è dedicato ai beni (pubblici, privati, comuni) quali strumenti per l’attività svolta dia diversi protagonisti della costituzione economica. Sezione I I BENI PRIVATI (pag. 115)

F. MACARIO, Commento all’art. 42, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 864 ss.

Sezione II I BENI PUBBLICI (pag. 122)

Sezione III I BENI COMUNI (pag. 123)

L. RAMPA, Q. CAMERLENGO, I beni comuni tra diritto ed economia: davvero un tertium genus ?, in Politica del diritto, 2014, pp. 253 ss.

Capitolo VII GLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA Sezione I I POTERI DEI SOGGETTI PUBBLICI Nella parte dedicata alla funzione legislativa saranno esaminate diverse forme di trasformazione della “legge” (leggi-provvedimento, leggi incentivo, leggi di interpretazione autentica). C’è poi la parte dedicata alla manovra di bilancio e alla legge di stabilità. Una specifica attenzione è poi riservata alla legge regionale, anche in ambito finanziario. Quanto alla funzione amministrativa, una specifica attenzione verrà dedicata al concetto di discrezionalità amministrativa. La funzione legislativaLa funzione legislativaLa funzione legislativaLa funzione legislativa (pag. 139)

L. ANTONINI, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica e prospettive, in RivistaAIC, 2014.

La funzione amministrativaLa funzione amministrativaLa funzione amministrativaLa funzione amministrativa (pag. 163) I servizi pubbliciI servizi pubbliciI servizi pubbliciI servizi pubblici (pag. 171)

A. LUCARELLI, Commento all’art. 43, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 883 ss.

La funzione giuLa funzione giuLa funzione giuLa funzione giurisdizionalerisdizionalerisdizionalerisdizionale (pag. 186) Sezione II I POTERI DEI SOGGETTI PRIVATI

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Questa sezione è dedicata al concetto di diritto soggettivo e alle sue classificazioni. Si passerà quindi all’analisi del negozio giuridico (con classificazione dei contratti) e della responsabilità. Una specifica attenzione verrà naturalmente dedicata all’analisi dell’art. 41 Cost. e allo studio delle più importanti previsioni relative al diritto al lavoro. Le posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettive (pag. 187) Diritto soggettivo e interesse legittDiritto soggettivo e interesse legittDiritto soggettivo e interesse legittDiritto soggettivo e interesse legittimoimoimoimo (pag. 192) La libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privata (pag. 195)

R. NIRO, Commento all’art. 41, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 846 ss.

Il diritto al lavoroIl diritto al lavoroIl diritto al lavoroIl diritto al lavoro (pag. 206)

A. CARIOLA, Commento all’art. 4, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 114 ss.

I sindacati e la contrattazione collettivaI sindacati e la contrattazione collettivaI sindacati e la contrattazione collettivaI sindacati e la contrattazione collettiva (pag. 219)

A. D’ALOIA, Commento all’art. 39, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 796 ss.

C. COLAPIETRO, Commento all’art. 36, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 739 ss.

O. ROSELLI, Commento all’art. 40, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 825 ss.

Capitolo VIII LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA In quest’ultimo capitolo la costituzione economica dovrà confrontarsi con l’anima sociale del sistema costituzionale, con particolare riferimento all’impatto prodotto su di essa dal principio di eguaglianza sostanziale. Al termine, verrà esposta la tesi della promozione sociale quale valore costituzionale volto a stimolare la mobilità sociale. IntroduzioneIntroduzioneIntroduzioneIntroduzione (pag. 257) I princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza sociale (pag. 257)

A. GIORGIS, Commento all’art. 3, secondo comma, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 88 ss.

I diritti socialiI diritti socialiI diritti socialiI diritti sociali (pag. 272) Dall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione sociale (pag. 280)

Q. CAMERLENGO, Costituzione e promozione sociale, Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 337 ss.

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Capitolo I DIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIADIRITTO ED ECONOMIA

La comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regoleLa comunità e le sue regole

Ogni comunità organizzata non può fare a meno di regoleregoleregoleregole per garantire la propria sopravvivenza. La vita della comunità, infatti, si manifesta attraverso relazioni tra i propri componenti, i cosiddetti “consociati”. Tali relazioni riflettono interessiinteressiinteressiinteressi, di diversa natura, di cui i singoli consociati sono titolari. A loro volta, questi interessi possono entrare in conflittoconflittoconflittoconflitto, risultando tra di loro incompatibili. Il contrasto tra interessi, se non risolto, può turbare la pacifica convivenza e, se esteso su vasta scala, può condurre all’anarchia ed al caos. Sono, dunque, necessarie regole per decidere quale, tra gli interessi in conflitto, merita di prevalere (→ dirimere una controversia; comporre una lite).

Un esempio può aiutare a comprendere questa dinamica. Il proprietario (Tizio) di un terreno ha diritto di

godere pienamente di tale bene: in particolare, egli ha diritto, com’è intuibile, di impedire agli altri l’accesso al suo terreno. Un altro soggetto (Caio), proprietario del terreno confinante, vanta gli stessi diritti. Diversamente dal primo, però, per la particolare posizione del fondo di sua proprietà, non ha accesso diretto alla strada pubblica. In pratica, tra il terreno e la strada pubblica c’è di mezzo proprio il fondo di Tizio. È altrettanto intuibile che Caio abbia, come qualsiasi consociato, diritto di utilizzare la strada pubblica e, quindi, di raggiungere il proprio fondo. Caio inizia ad attraversare il terreno di Tizio con l’automobile. Tizio per un po’ di tempo tollera, ma ad un certo punto non sopporta più i continui passaggi di Caio e fa recintare il terreno, munendolo di un cancello di accesso provvisto di serratura. Nasce un conflitto tra Tizio e Caio: il primo ha interesse a che il suo terreno non sia rovinato dai continui attraversamenti di altre persone; il secondo ha interesse a raggiungere il proprio fondo dalla strada pubblica. Il conflitto rischia di degenerare in atti di violenza (in verità, già la repentina realizzazione del recinto chiuso potrebbe considerarsi quale atto di “violenza”). Come prevenire il conflitto ? Come risolvere un conflitto eventualmente nato tra i due contendenti ?

I conflitti, all’interno di una determinata comunità sociale, possono essere prevenuti e, se del caso, risolti attraverso la fissazione di regole. Una regola è uno schema astratto di qualificazione entro il quale ricondurre un concreto fatto della vita che pone in contrasto i titolari di interessi confliggenti (→ sussunzione del caso concreto). La regola, cioè, stabilisce che, in presenza di determinate situazioni, si hanno altrettanto determinate conseguenze. In estrema sintesi, la regola descrive un rapporto di causa/effetto (→ rapporto di causalità; nesso eziologico).

Facciamo qualche esempio di regole volte a dirimere contrasti all’interno della comunità. Chiunque cagiona

la morte di un uomo, è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Così recita l’art. 575 del codice penale. Questa regola pone in relazione un comportamento (l’uccisione di un uomo) con una reazione (la reclusione dell’omicida): in altri termini, se uccidi un uomo (causa), finirai in prigione (effetto). Altro esempio, meno cruento. Il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare (ad esempio, perché minore d’età). Questa è la previsione dell’art. 1425 del codice civile. Ciò significa che un contratto stipulato da una persona incapace secondo la legge (causa) può essere annullato (effetto). O, ancora: secondo l’art. 68 della Costituzione, i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Pertanto, un deputato che, nel corso di una seduta alla Camera, esprime dichiarazioni offensive in merito all’operato di un magistrato (causa), non può essere processato e, quindi, condannato da alcun giudice (effetto).

Già da questi pochi esempi affiora chiaramente l’importanza delle regole. In una comunità che

ha raggiunto un sufficiente livello di civiltà, ogni contrasto deve essere risolto da un soggetto terzo rispetto ai contendenti (un giudice, un arbitro, una giuria, una commissione di esperti, ecc.). è fondamentale, però, che la persona investita del compito di dirimere una lite possa decidere secondo regole predeterminate, in modo tale da garantire un giudizio equo e neutrale. La condizione ideale

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sarebbe, comunque, che ogni consociato conoscesse in anticipo le regole e le rispettasse, in modo tale da evitare conflitti.

Il giudice, quindi, una volta conosciuti i fatti reali, in base alle “prove” allegate dalle parti in conflitto, ricostruisce in maniera puntuale l’effettiva dinamica degli eventi controversi e procede al raffronto tra il concreto comportamento contestato ed il comportamento previsto in astratto dalla regola.

Alla luce di tale raffronto, il giudice darà ragione ad una delle parti e dichiarerà soccombente l’altra.

Torniamo all’esempio dei due proprietari di terreni confinanti. Il problema da risolvere è il seguente: può Tizio impedire a Caio il passaggio sul proprio terreno ? Il giudice, al quale i due litiganti si rivolgono (→ adire il giudice), una volta ricostruita la realtà, cerca la regola da applicare al caso concreto. E la trova nel codice civile. Gli articoli 1027 e seguenti stabiliscono, a carico del fondo che si frappone tra una strada pubblica ed un altro fondo (→ fondo intercluso), un “peso”, consistente nell’obbligo, per il proprietario, di consentire l’attraversamento a favore del fondo intercluso (→ servitù di passaggio). In particolare, la regola che il giudice applicherà è la seguente: “il proprietario, il cui fondo è circondato da fondi altrui, e che non ha uscita sulla via pubblica né può procurarsela senza eccessivo dispendio o disagio, ha diritto di ottenere il passaggio sul fondo vicino per la coltivazione e il conveniente uso del proprio fondo” (art. 1051 del codice civile). Ponendo la recinzione e non consegnando al vicino le chiavi del cancello, Tizio impedisce a Caio di esercitare il diritto previsto dalla citata regola (causa). Il giudice condannerà, quindi, Tizio a consentire il passaggio a Caio, ai sensi dell’art. 1079 del codice civile (effetto).

In verità, spesso senza rendercene conto, siamo circondati da regole. Viviamo applicando e rispettando, talvolta subendo, regole.

Quando giochiamo a briscola con gli amici, rispettiamo regole (l’asso vale più del tre). Il matematico che calcola l’area di un triangolo applica una regola (base per altezza diviso due). Il chimico che armeggia nel suo laboratorio tra elementi e composti sa che unendo il sodio al cloro (causa) otterrà il sale (effetto). Il chirurgo, prima di affondare il bisturi nella carne del paziente, deve rispettare severissime regole d’igiene: la carente pulizia delle mani (causa) può provocare infezioni a danno del malcapitato paziente (effetto). E così via. Provate a lasciare un’autovettura in sosta vietata, e vi accorgerete della ... funzionalità delle regole !

L’esperienza dimostra, dunque, la complessità delle regole che ogni giorno definiscono rapporti di causalità tra situazioni e conseguenze. Tuttavia, non tutte le regole hanno la stessa natura.

Pensiamo agli esempi dapprima riferiti. Se, nel corso di una partita a briscola, il mio avversario butta l’asso di briscola e io rispondo con un asso di bastoni, mi ritroverò con undici punti in meno, ma la mia vita continuerà ad essere felice. Se un matematico non applica o applica male una regola di trigonometria farà una brutta figura con i suoi colleghi nel tentativo di dimostrare la fondatezza di una determinata congettura. Il discorso cambia se, guidando imprudentemente, investiamo sulle strisce un pedone o se non paghiamo le tasse o se non restituiamo il libro che il nostro amico ci ha gentilmente prestato.

Dalle esemplificazioni appena riportate emerge una prima, importante sensazione.

Le regole si differenziano tra di loro per il tipo di reazionereazionereazionereazione provocata dalla loro inosservanza. In effetti, di fronte ad una regola, il singolo consociato sa che per ottenere un determinato

risultato o per evitare una determinata conseguenza negativa (effetto) dovrà oppure non dovrà assumere un certo comportamento (causa).

Così, se non voglio procurarmi una ustione dovrò evitare di infilare la mano nel forno acceso. Se voglio evitare che il concessionario si riprenda la splendida decappottabile che ho appena acquistato, dovrò pagare regolarmente tutte le rate del prezzo. Se voglio scongiurare l’esplosione del laboratorio in cui lavoro come chimico, dovrò usare una certa cautela nel mischiare determinate sostanze. Se voglio evitare di passare il resto della mia vita nel penitenziario di Opera, dovrò fare a meno di provocare la morte dei miei nemici.

Si tratta, dunque, di identificare le caratteristiche che permettono di classificare i diversi tipi di regole applicate e rispettate all’interno di una data comunità.

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Le frequenti tensioni tra diritto edLe frequenti tensioni tra diritto edLe frequenti tensioni tra diritto edLe frequenti tensioni tra diritto ed economiaeconomiaeconomiaeconomia Di recente, uno dei maggiori studiosi di diritto costituzionale ha così osservato: «economia e diritto parrebbero dislocarsi su due fronti contrapposti: la prima richiama la competitività, il secondo evoca le garanzie» (Michele Ainis, in federalismi.it). La tensione tra diritto ed economia è particolarmente forte quando sono coinvolti i diritti fondamentali. Sovente, l’economia contesta al diritto di approntare troppe garanzie alle posizioni individuali vantate dai consociati: si contesta alle persone di evocare diritti insaziabili. Senonché, pare aver ragione Stefano Rodotà quando, in un articolo apparso su Repubblica del 20 ottobre 2014, ammonisce che «non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa». E questa compatibilità è valutata non alla stregua di princìpi giuridici condivisi o di valori morali comuni, ma alla luce di criteri economici quali quelli associati all’analisi costi-benefici. Così, si finisce coll’affermare che, di fronte ad una crisi economica, i diritti diventano un lusso che una società non può permettersi, al pari dell’eguaglianza. L’Ilva di Taranto è la più grande acciaieria d’Europa, e vanta una storia pluridecennale. Nel 2012 la procura della Repubblica di Taranto sottopone ad indagine i vertici della società che gestisce l’Ilva con accuse pesanti: disastro doloso e colposo, avvelenamento di alimenti, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento di beni pubblici, sversamento di sostanze inquinanti. A supporto di tale accusa le perizie di parte mettono in luce la diffusione di patologie, anche mortali, a livelli decisamente superiori rispetto alla media nazionale. Nel corso delle indagini, al fine di evitare la reiterazione dei reati contestati e in attesa del giudizio finale, la stessa procura dispone il sequestro cautelare degli impianti con conseguente sospensione delle attività lavorative in esse svolte. Interviene, quindi, il Governo, che con un apposito decreto legge revoca le misure adottate dai magistrati requirenti. La Corte costituzionale, adìta dai giudici tarantini, rigetta la questione di incostituzionalità sollevata contro il decreto legge. Secondo la Corte, l’intervento legislativo del Governo rappresenta un adeguato bilanciamento tra gli interessi in gioco (→ sentenza n. 85 del 2013). Questo episodio mette in evidenza la tensione tra diritto ed economia. Da un lato, il diritto oggettivo impone alle imprese l’assunzione di misure volte a prevenire l’inquinamento: dunque, misure dirette a salvaguardare il bene salute. D’altro canto, l’imprenditore, che intende massimizzare il profitto rendendo più ampio possibile il divario tra ricavi e costi, tende a contenere le uscite. Le misure antinquinamento costano, e anche tanto e, dunque, fino a quando può l’imprenditore, in quanto attore economico, è indotto a limitare le proprie spese da questo punto di vista. In breve, il diritto impone alle imprese costi che queste farebbero volentieri a meno di sostenere. Nel caso dell’Ilva di Taranto, il quadro si complica perché oltre al bene “salute” e al bene “iniziativa economica” entra in gioco anche il bene “lavoro” (peraltro, come vedremo, tutti beni riconosciuti e protetti dalla nostra Costituzione): una impresa che inquina, superando le soglie accettabili e non adottando i necessari accorgimenti, è una impresa che deve chiudere, perché lo impone il diritto. Ma un’impresa che chiude è anche un’impresa che licenzia, perché l’imprenditore non ha più bisogno di manodopera. Si pone, quindi, in questo come in tantissimi altri casi analoghi, un problema di bilanciamentobilanciamentobilanciamentobilanciamento tra beni ed interessi che, talvolta, confliggono. Diritto ed economia entrano in tensione in quanto il punto di equilibrio cercato da entrambi può anche non coincidere. Il diritto opera secondo criteri politici. L’economia opera secondo criteri di efficienza. Il diritto riflette l’indirizzo politico di chi governa, di chi ha il potere, di chi dunque decide attraverso le leggi. L’economia segue altri percorsi, segnati dalla ponderazione dei ricavi, dei costi, delle esternalità, delle efficienti allocazioni delle risorse disponibili, dell’incontro tra domanda e offerta, delle utilità.

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Un altro esempio è particolarmente significativo. Nell’ottobre 2014 il Governo Renzi mette in pericolo il rapporto fiduciario con la sua maggioranza parlamentare perseguendo l’obiettivo di modificare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. L’art. 18 della legge n. 300 del 1970 mira a garantire la stabilità del posto di lavoro. Nelle aziende con più di quindici dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo è previsto il reintegro nel posto di lavoro. Il Governo Renzi intende circoscrivere l’obbligo di reintegro solo a casi eccezionali (ad es., in caso di licenziamento discriminatorio). I sindacati e persino una parte del partito di maggioranza insorgono, denunciando il venir meno di una importante, vitale garanzia per i lavoratori subordinati, i quali, quand’anche venisse riconosciuta dal giudice l’illegittimità del licenziamento, dovrebbero accontentarsi di un indennizzo per la perdita del lavoro. Il diritto oggettivo, tramite l’art. 18, ha inteso condizionare le scelte dell’imprenditore quanto al dimensionamento della propria azienda sul versante della manodopera. Il datore di lavoro, dal canto suo, comportandosi da attore economico, vorrebbe poter contare su ampi margini di manovra, ponendo fine ai rapporti di lavoro quando una situazione di crisi o una esigenza di riconversione o di ammodernamento della struttura produttiva dovessero richiederlo. Eliminando l’obbligo di reintegro nel caso dei licenziamenti cd. “economici” (cioè, per ragioni di ristrutturazione dell’azienda), il punto di equilibrio tra beni in conflitto tende a spostarsi sul versante dell’impresa, nel convincimento che una maggiore libertà nella gestione dei rapporti di lavoro possa favorire la ripresa del sistema produttivo italiano. Ancora. Tutte le volte che la legge prevede una autorizzazione, una concessione, una licenza, un permesso, e via discorrendo, per intraprendere un’attività economica, il diritto oggettivo finisce col porre dei costi alle imprese. Quanto più pesante è la burocrazia, tanto più complicato sarà svolgere un’attività economica. E si pensi, poi, ai requisiti logistici, alle incombenze burocratiche per la gestione del personale, ai certificati da presentare, ai controlli cui sottoporsi periodicamente. Invece, una volta imboccata la strada delle liberalizzazioni, gli oneri burocratici a carico delle imprese tenderanno a diminuire significativamente, spostando il punto di equilibrio verso le ragioni delle imprese. Pertanto, alla luce di questi esempi, e di tanti altri che l’immaginazione e la conoscenza reale dei fatti aiuterebbero a intercettare, appare importante descrivere e analizzare il rapporto, spesso controverso, tra diritto ed economia.

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Capitolo II IL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICAIL DIRITTO OGGETTIVO E LA NORMA GIURIDICA

Il diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridicheIl diritto oggettivo come insieme di norme giuridiche Il diritto oggettivo diritto oggettivo diritto oggettivo diritto oggettivo è l’insieme delle norme giuridiche norme giuridiche norme giuridiche norme giuridiche vigenti in un dato ordinamento. L’ordinamento giuridicoordinamento giuridicoordinamento giuridicoordinamento giuridico è a sua volta l’insieme delle istituzioni e delle norme che operano all’interno di uno Stato. Lo Stato Stato Stato Stato è l’organizzazione giuridica complessa in cui sono presenti tre elementi costitutivi: il territorio, il popolo, il governo.

Il diritto positivo diritto positivo diritto positivo diritto positivo è l’insieme delle norme giuridiche che, all’interno di uno Stato, sono prodotte dalle istituzioni titolari del potere normativo (dal latino positum, ossia “posto”, prodotto). È una nozione che, sostanzialmente coincide con quella di diritto oggettivo, anche se viene in essa rimarcata l’origine delle norme dalle istituzioni che l’ordinamento statale autorizza a produrre norme giuridiche. Il diritto positivo diverge dal diritto diritto diritto diritto naturalenaturalenaturalenaturale. Questo è l’insieme di regole che aspirano a disciplinare i rapporti umani in quanto espressione di razionalità (dimensione laica) oppure in quanto espressione della volontà di una divinità superiore agli uomini (dimensione spirituale). Negli attuali ordinamenti occidentali, i giudici applicano il diritto positivo, e non il diritto naturale, in quanto solo il primo è espressione della volontà manifestata da istituzioni sulle quali il popolo può esercitare poteri di delega e di controllo. Margini significativi di azione del diritto naturale si hanno nell’ordinamento internazionale, che regge i rapporti tra gli Stati. In altri ordinamenti vi è una tale compenetrazione tra norme giuridiche e precetti religiosi da non poter distinguere il diritto positivo dal diritto di matrice religiosa (si pensi alla sharī’ah nei paesi di area islamica).

A sua volta, la norma giuridica norma giuridica norma giuridica norma giuridica è lo schema di qualificazione che associa una determinata conseguenza ad una determinata causa. La norma giuridica definisce un rapporto di causalità tra comportamento ed effetto giuridico, secondo lo schema, se A, allora B. Tutte le regole sociali definiscono questo rapporto, allo scopo di garantire l’ordinato e pacifico svolgimento delle relazioni tra i membri di una data comunità. Tuttavia, la norma giuridica presenta alcune caratteristiche proprie, diverse da quelle delle altre norme sociali:

a) esterioritàesterioritàesterioritàesteriorità: la norma giuridica è prodotta sempre da un soggetto diverso da quello che è chiamato a rispettarla;

b) generalità e astrattezzageneralità e astrattezzageneralità e astrattezzageneralità e astrattezza: la norma giuridica non si riferisce a situazioni specificamente e puntualmente identificate, ma descrive una determinata condotta attraverso l’individuazioni di alcuni elementi essenziali. Così, solo se ricorrono nel caso concreto tutti quegli elementi, allora si farà applicazione di quella norma.

Si pensi, ad esempio, al reato di furto. La norma giuridica non dice: «se Mario Bianchi, nato a Milano il 28 febbraio 1975, sottrae il motorino a Giulio Rossi, nato a Pavia il 25 dicembre 1980, è punito con la reclusione fino a tre anni». La norma giuridica, invece, stabilisce: «chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516» (art. 624 del codice penale). Il furto semplice è descritto in termini generali e astratti: perché possa trovare applicazione la norma giuridica è necessario verificare che, in concreto: a) qualcuno abbia compiuto un atto di impossessamento; b) che oggetto di tale atto sia un bene mobile; c) che tale bene mobile sia di altri; d) che vi sia stata sottrazione del bene a danno di chi lo detiene; e) che chi ha agito lo abbia fatto per trarne, per sé o per altri, un profitto. È sufficiente che difetti anche uno solo di questi elementi, che il giudice non condannerà il presunto ladro.

c) coattivitàcoattivitàcoattivitàcoattività: la norma giuridica è assistita da una sanzionesanzionesanzionesanzione, vale a dire da una conseguenza negativa che affligge colui che ha violato la norma stessa. Chi subisce una sanzione è giuridicamentegiuridicamentegiuridicamentegiuridicamente respresprespresponsabile onsabile onsabile onsabile in quanto ha posto in essere un comportamento divergente da quanto stabilito dalla

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norma giuridica. Anche le norme sociali hanno una sanzione (così, ad esempio, chi non ricambia il saluto può subire una reazione di biasimo da parte degli altri). Tuttavia, la sanzione della norma giuridica ha una caratteristica particolare: può essere imposta anche contro la volontàcontro la volontàcontro la volontàcontro la volontà del trasgressore mediante l’uso della forzaforzaforzaforza (in ciò sta la coattività).

Così, chi commette il reato di furto subirà un processo e, una volta condannato in via definitiva, subirà la sanzione prevista dalla norma, anche contro la sua opposizione: le forze di polizia potranno costringerlo legittimamente ad andare in carcere o a corrispondere la somma di denaro a titolo di multa. Chi non restituisce una somma avuta a prestito da un istituto di credito, sarà condannato dal giudice a corrispondere la somma dovuta, con gli interessi e le spese processuali. In caso di rifiuto, i suoi beni potranno essere pignorati e, cioè, venduti all’asta, così che il ricavato sarà destinato a estinguere il debito verso la banca.

Relativamente a due dei tre caratteri essenziali della norma giuridica appena descritti bisogna, però, fare alcune precisazioni. 1) Quanto alla generalità e astrattezza, questo requisito è il riflesso del principio di eguaglianza. In effetti, per evitare discriminazioni tra soggetti che versano in condizioni sociali, economiche, culturali, diverse, la norma giuridica si applica in maniera uniforme, indirizzandosi alla moltitudine indistinta dei membri che compongono una data comunità. Tuttavia, come si avrà modo di notare più avanti a proposito delle trasformazioni della legge, non mancano norme giuridiche che, pur essendo tali, si rivolgono direttamente a soggetti o situazioni specificamente identificati. 2) Quanto alla coattività, non tutte le norme giuridiche sono assistite da una sanzione. «La capacità giuridica si acquista al momento della nascita»: così recita l’art. 1 del codice civile. In questo caso la sanzione non c’è. La norma giuridica, che tale è in quanto prodotta da un atto idoneo a creare diritto oggettivo, stabilisce che l’attitudine degli individui a diventare soggetti di diritti soggettivi e di doveri si acquista pienamente con la venuta al mondo. In altri casi, poi, la norma giuridica è sì presidiata da una sanzione, ma questa è diversa dalla concezione tradizionale di sanzione. Così, un contratto stipulato da un minorenne è annullabile in quanto senza capacità di agire (che si acquista al compimento del diciottesimo anno di età) non si possono concludere validamente negozi giuridici. Pertanto, pur senza sanzione, una regola ben può essere considerata quale norma giuridica se stabilisce un rapporto di causalità tra un determinato fatto e un effetto giuridico, ossia una conseguenza rilevante per il diritto oggettivo.

La coattività delle norme giuridiche segna il passaggio da una condizione di anarchia, in cui ogni individuo esercita le proprie libertà anche avvalendosi della forza contro gli altri, ad una comunità organizzata in cui la forza viene assegnata e gestita da apposite autorità o istituzioni o strutture. Più precisamente, nelle comunità sociali più avanzate, lo StatoStatoStatoStato è l’ente dotato del monopolio dell’uso della forza. Solo lo Stato, attraverso i propri apparati (giudici, forza di polizia, esercito ecc.), può legittimamente ricorrere alla forza per ottenere il rispetto (per l’appunto coattivo) delle norme giuridiche. Solo in casi assolutamente eccezionali, il singolo consociato può ricorrere alla forza per preservare i propri diritti.

La legittima difesa e lo stato di necessità, ad esempio, sono situazioni in cui il singolo consociato ricorre alla forza in caso di necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta oppure se è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile). In questo modo, egli non sarà responsabile per i danni così provocati (→ Cause di giustificazione o esimenti o scriminanti). Ovviamente, il ricorso alla forza da parte dell’individuo non dovrà oltrepassare la soglia dell’uso arbitrario o sproporzionato dei propri mezzi di difesa. In effetti, il codice penale punisce il cd. esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392) o sulle persone (art. 393). È tale, ad esempio, il caso di chi, imbattendosi in una autovettura parcheggiata in un passo carraio posto davanti alla propria abitazione, usa la forza fisica per rimuoverla: occorre, invece, chiedere l’intervento della polizia municipale.

In altri casi, anch’essi tassativamente ed eccezionalmente previsti, è la stessa norma giuridica che attribuisce al singolo consociato il potere di ricorrere alla forza per ripristinare l’ordine violato. Così, l’art. 383 del codice di procedura penale stabilisce che, nei casi in cui sia obbligatorio l’arresto in flagranza di reato (art. 380), ogni persona

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è autorizzata a procedere all’arresto. L’arresto è una limitazione coattiva della libertà personale e, dunque, rappresenta una delle modalità più incisive di ricorso alla forza per ottenere il rispetto delle norme giuridiche.

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Capitolo III LE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTOLE FONTI DEL DIRITTO

IntroduzioneIntroduzioneIntroduzioneIntroduzione La nozione di “fonte del dirittofonte del dirittofonte del dirittofonte del diritto” è associata alla produzione e alla conoscenza delle norme giuridiche. In effetti:

a) per fonte di produzione del diritto fonte di produzione del diritto fonte di produzione del diritto fonte di produzione del diritto s’intende qualsiasi atto o fatto al quale l’ordinamento attribuisce l’idoneità a produrre norme giuridiche;

b) per fonte sulla produzione defonte sulla produzione defonte sulla produzione defonte sulla produzione del diritto l diritto l diritto l diritto s’intende l’atto che individua i soggetti e le modalità di produzione del diritto;

c) per fonte di cognizione fonte di cognizione fonte di cognizione fonte di cognizione s’intende l’atto che consente, in via ufficiale, la conoscenza delle norme giuridiche.

Più nel dettaglio... a) Si definiscono fonti di produzione del diritto oggettivo gli atti o i fatti abilitati

dall’ordinamento a porre norme giuridiche. Questa definizione riflette una prima distinzione: - le fontifontifontifonti----attoattoattoatto sono manifestazioni di volontà, tradotte in documenti, poste in essere da organi o

autorità legittimate a produrre norme giuridiche.

È questa la figura tipica di fonte di produzione del diritto oggettivo. Si pensi, ad esempio, ad una legge approvata dal Parlamento. Il Parlamento, assemblea composta dai rappresentanti dell’elettorato, organo supremo dello Stato, è legittimato dall’ordinamento italiano ad esercitare la funzione legislativa. Quest’ultima si realizza attraverso l’approvazione di leggi che, a loro volta, sono manifestazioni di volontà idonee a produrre norme giuridiche (norme legislative, come si suol dire). O, anche, un decreto-legge è una fonte-atto di produzione di norme giuridiche che il Governo, espressione della sola maggioranza parlamentare, organo supremo dello Stato, titolare del potere esecutivo, può adottare in casi straordinari di necessità ed urgenza. E gli esempi potrebbero continuare: decreti legislativi, statuti e leggi regionali, regolamenti del Governo, statuti e regolamenti di Province e Comuni, decreti ministeriali. La stessa Costituzione è qualificabile come fonte-atto. Tutte manifestazioni di volontà, imputabili ad organi qualificati, che confluiscono in atti redatti, per l’appunto, per iscritto. Si badi bene: la scrittura è elemento costitutivo di tali fonti, e non assolve semplicemente una funzione conoscitiva.

- le fontifontifontifonti----fattofattofattofatto sono comportamenti che, in presenza di determinati presupposti, sono abilitati a produrre norme giuridiche. La fonte-fatto per eccellenza è la consuetudine. La consuetudine consiste in un comportamento, reiterato in modo uniforme dalla generalità dei consociati per un certo lasso di tempo, e sorretto dalla convinzione di osservare una norma giuridica. Come si deduce da questa definizione, affinché si abbia una consuetudine, come fonte-fatto di produzione del diritto oggettivo, è necessario il concorso di due presupposti:

- elemento materiale: ripetizione di una condotta uniforme da parte della grande maggioranza dei consociati. Non è stabilito quanto lungo debba essere il lasso di tempo ai fini della formazione di una regola consuetudinaria, né quanto diffuso, presso i consociati, debba essere il comportamento obbligatorio. Spetterà ai giudici verificare, caso per caso, la nascita della consuetudine, tenuto conto del contesto, dell’incisività della regola, del tipo di rapporti regolati, e via dicendo;

- elemento psicologico: la ripetizione della condotta uniforme da sola non basta. È indispensabile che i consociati tengano quel dato comportamento convinti di rispettare una norma giuridica, cioè una regola che impone loro quel comportamento pena l’applicazione di una sanzione. Anche in questo caso il ruolo dei giudici sarà decisivo nel verificare l’avvenuta creazione di una consuetudine.

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La stragrande maggioranza degli italiani inizia la giornata con la colazione, più o meno ricca. Si può, dunque, affermare che la colazione costituisce un comportamento ripetuto nel tempo, in modo uniforme, dalla generalità dei consociati. Ma è una consuetudine ? Siamo, cioè, in presenza di una fonte-fatto del diritto ? In questo caso, manca senz’altro l’elemento psicologico. I consociati fanno colazione per iniziare bene la giornata, per acquisire le risorse energetiche indispensabili per non svenire in ufficio, ma non certo per osservare una regola giuridica. Astenersi da fare colazione non comporta l’applicazione di alcuna sanzione giuridica, ma solo il biasimo di familiari o del medico. Diversamente dai sistemi normativi più antichi, negli ordinamenti moderni, a parte rarissime seppur importanti eccezioni, la consuetudine è divenuta la fonte “meno importante” (più avanti preciseremo questa qualificazione). Infatti, l’esigenza fondamentale di certezza del diritto, in forza della quale i consociati possono prevedere le conseguenze giuridiche delle loro azioni, appare meglio soddisfatta da norme scritte, agevolmente accessibili, piuttosto che da fatti di problematica identificazione. L’affermazione della fonte-atto, come modello privilegiato di strumento normativo, è contestuale alla consacrazione del Parlamento come organo legislativo: una assemblea che rappresenta il popolo. Al contrario, la consuetudine valorizza eccessivamente il ruolo dei giudici, che invece sono preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale. Allo stato attuale, dunque, nel nostro ordinamento le consuetudini sono rinvenibili soltanto in relazione ad alcuni settori commerciali o agricoli. Talora, è lo stesso codice civile che fa esplicito rinvio agli “usi locali”, ma sempre in caso di mancanza di regolamentazione da parte di altre fonti (ad esempio, l’art. 892 del codice civile in materia di distanze degli alberi dai confini dei terreni). b) Quanto alle fonti sulla produzione, ci si limita ad osservare che ad esse spetta il compito di

identificare l’organo al quale è attribuito il potere di produrre norme giuridiche e di disciplinare la procedura di produzione delle norme stesse. Così, ad esempio, la Costituzione è una fonte sulla produzione in tutte le previsioni che regolano, dal punto di vista soggettivo e dal punto di vista procedurale, la produzione di norme giuridiche.

c) Quanto alle fonti di cognizione, nel nostro ordinamento sono tali la Gazzetta ufficiale della

Repubblica italiana e, in ogni Regione, il Bollettino ufficiale. Le fonti di produzione del diritto iniziano a produrre i loro effetti (e, dunque, devono essere rispettate) solo con la pubblicazione in questi documenti. La conoscenza del diritto oggettivo è la condizione indispensabile affinché operi l’obbligo di rispettare le norme giuridiche. La conoscenza si acquisisce dal momento della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale o, nel caso delle fonti regionali di produzione del diritto, nel rispettivo Bollettino ufficiale. Tutto ciò è connesso al valore fondamentale della certezza del dirittocertezza del dirittocertezza del dirittocertezza del diritto: ogni individuo deve poter conoscere in anticipo le conseguenze giuridiche delle proprie azioni. Ciò che si richiede agli individui è di adoperarsi per conoscere il diritto, in quanto ignorantia legis non excusat.

Con una sentenza del 1988 la Corte costituzionale ha precisato che, fermo restando che la mancata

conoscenza di una norma giuridica non può giustificare chi l’ha violata, nondimeno se un individuo, comportandosi diligentemente, ha fatto tutto il possibile per conoscere il diritto applicabile alle proprie azioni (ad esempio, rivolgendosi ad uno specialista di quel settore), allora il suo errore è scusabile e, dunque, non subirà alcuna sanzione.

Il diritto oggettivo come sistema normativoIl diritto oggettivo come sistema normativoIl diritto oggettivo come sistema normativoIl diritto oggettivo come sistema normativo

e il problema delle antinomie tra fonti del dirittoe il problema delle antinomie tra fonti del dirittoe il problema delle antinomie tra fonti del dirittoe il problema delle antinomie tra fonti del diritto In un ordinamento complesso come il nostro sono molteplici le fonti di produzione del diritto. Senza ambizione di completezza, si pensi alle seguenti fonti: costituzione, leggi di revisione costituzionale, leggi costituzionali, statuti regionali speciali, leggi statutarie delle regioni a statuto speciale, leggi ordinarie del Parlamento, decreti legge, decreti legislativi, regolamenti di Camera e di Senato, statuti regionali ordinari, leggi regionali (e delle province autonome di Trento e di Bolzano), regolamenti governativi, regolamenti regionali, regolamenti provinciali, regolamenti comunali, regolamenti delle autorità amministrative indipendenti, decreti ministeriali, consuetudini. E questo è un elenco incompleto, sol che si pensi che nel nostro ordinamento producono effetti anche fonti del

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diritto poste in essere al di fuori del nostro paese: così, ad esempio, i regolamenti e le direttive comunitarie. Si suole affermare che il nostro sistema delle fonti è policentricopolicentricopolicentricopolicentrico in quanto il potere di produrre norme giuridiche non è concentrato in capo ad una sola istituzione, ma è distribuito tra più autorità: il Parlamento, il Governo, i Consigli e le Giunte regionali, gli organi di governo degli enti locali, le amministrazioni indipendenti. Il pluralismo pluralismo pluralismo pluralismo delle fonti del diritto è congeniale ad una migliore cura degli interessi generali, in quanto si tiene conto delle specificità di alcune materie e delle peculiarità dei processi decisionali presso determinate istituzioni. Tuttavia, c’è anche il rovescio della medaglia. La proliferazione di fonti del diritto spesso conduce ad una situazione conflittuale, nel senso che il medesimo caso della vitamedesimo caso della vitamedesimo caso della vitamedesimo caso della vita risulta regolato in modo difforme da due o più fonti di produzione del dirittodue o più fonti di produzione del dirittodue o più fonti di produzione del dirittodue o più fonti di produzione del diritto. Ebbene, quando lo stesso fatto, posto all’attenzione di un giudice o di un pubblico funzionario, si rivela regolato da (almeno) due diverse norme giuridiche, allora si è in presenza di una antinomia tra fonti del dirittoantinomia tra fonti del dirittoantinomia tra fonti del dirittoantinomia tra fonti del diritto. Prima di procedere oltre soccorrono due importanti precisazioni:

a) un fatto è regolato in modo diverso da due distinte norme giuridiche (prodotte da due

diverse fonti del diritto) quando le due norme prevedono lo stesso fatto, ma ad esso attribuiscono conseguenze diverse.

Ecco un esempio. Lo stesso fatto è: apertura di un esercizio commerciale. La norma A, prodotta da una

legge regionale, stabilisce che: «chi intende intraprendere una attività commerciale deve chiedere l’autorizzazione al sindaco competente». La norma B, prodotta da un regolamento comunale, stabilisce che: «chi intende intraprendere una attività commerciale deve darne comunicazione al sindaco competente». Sussiste una antinomia, ossia un contrasto, tra le norme A e B in quanto esse associano al medesimo fatto due conseguenze diverse; b) si hanno diverse fonti del diritto, che producono differenti norme giuridiche, non solo

quando le fonti appartengono a tipologie diverse (antinomia eterogenea), ma anche quando si tratta di fonti dello stesso tipo, ma poste in essere in momenti temporali distinti (antinomia omogenea).

Si ha, quindi, antinomia sia nel caso di contrasto, come nell’esempio prima descritto, tra una legge regionale

e un regolamento comunale (antinomia eterogenea), sia nel caso di contrasto, ad esempio, tra una legge del Parlamento del 2001 e una legge del Parlamento del 2009. Ebbene, le antinomie impediscono al diritto oggettivo di funzionare come fattore di ordine

nelle relazioni sociali in quanto producono incertezza e caos. Quale norma giuridica dovrà applicare il giudice chiamato a risolvere una controversia che riguarda un fatto disciplinato in maniera diversa da due o più norme giuridiche ? Quale norma giuridica dovrà applicare il pubblico funzionario al quale si rivolge una persona che intende svolgere un’attività economica ? Quale norma giuridica dovrà rispettare il singolo individuo intenzionato a porre in essere una determinata azione ?

Affinché il diritto oggettivo possa davvero funzionare come fattore di ordine nelle relazioni

sociali, nel pieno rispetto della certezza del diritto, è indispensabile che esso sia strutturato come un sistemasistemasistemasistema. Tale è, infatti, un insieme organico di elementi eterogenei i quali, seppur differenti, sono coerenti tra di loro, ossia non si contraddicono.

Pertanto, la condizione ultima di equilibrio e di funzionalità del diritto oggettivo come sistema normativo è la seguente:

ogni fatto, giuridicamente rilevante, deve essere disciplinato da una, e una solae una solae una solae una sola, norma giuridica.

Il diritto oggettivo è un sistema normativo non quando non vi sono antinomie. Le antinomie ci

saranno sempre, vista la pluralità multiforme di fonti del diritto. Il diritto oggettivo è sistema sistema sistema sistema

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normativo normativo normativo normativo quando al suo interno sono presenti regole per risolvere le antinomie: regole, quindi, che consentono al giudice, al pubblico funzionario, al singolo individuo di identificare la norma da norma da norma da norma da applicare al caso concretoapplicare al caso concretoapplicare al caso concretoapplicare al caso concreto, con esclusione dell’altra.

Queste regole sono definite criteri di risoluzione delle antinomiecriteri di risoluzione delle antinomiecriteri di risoluzione delle antinomiecriteri di risoluzione delle antinomie.

I criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomieI criteri di risoluzione delle antinomie Benché, come si è detto, il nostro ordinamento sia caratterizzato da una moltitudine variegata di fonti del diritto, nondimeno esiste un ordineordineordineordine tale da consentire la loro unificazione nella medesima strutturastrutturastrutturastruttura.

Il modello teorico più diffuso per descrivere questa struttura è ancora oggi quello costruito da uno dei più grandi studiosi del diritto del XX Secolo: HANS KELSEN (Praga, 1881 – Berkeley, 1973). Il sistema normativo è stato rappresentato con una struttura piramidale o costruzione a gradistruttura piramidale o costruzione a gradistruttura piramidale o costruzione a gradistruttura piramidale o costruzione a gradi. Questa struttura si sviluppa in verticale e si compone di diversi livellilivellilivellilivelli. Dal vertice si scende, di gradino in gradino, sino a raggiungere la base. Le fonti del diritto sono collocate nei diversi livelli. Più ci si avvicina al vertice, maggiore è la “importanza” della singola fonte (più avanti, cercheremo di capire quali ragioni giustificano la collocazione delle diversi fonti di cui si compone un ordinamento giuridico).

Pertanto... 1) ci sono fonti collocate su piani diversi; 2) ci sono fonti collocate sullo stesso piano.

Questo significa che l’antinomia può esserci...

1) tra fonti collocate su piani diversi (antinomia verticale); 2) tra fonti collocate sullo stesso piano (antinomia orizzontale).

Se ne deduce che il sistema normativo contempla...

1) un criterio per risolvere le antinomie tra fonti collocate su piani diversi; 2) un criterio per risolvere le antinomie tra fonti collocate sullo stesso piano.

In verità, come vedremo in seguito, i criteri non sono soltanto due…

1) ANTINOMIE TRA FONTI COLLOCATE SU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSI

La scelta della struttura piramidale, a “gradi”, non riflette ragioni estetiche. L’idea di una costruzione che si sviluppa verticalmente su più livelli allude e, nel contempo, presuppone differenti gradi di “importanza” degli elementi collocati sui diversi piani. Si può, dunque, affermare (e penso che lo abbiate già intuito) che tra le fonti collocate su piani diversi vi è un vero e proprio rapporto gerarchico, tale per cui la fonte (collocata sul livello) superiore prevale (in questo senso, è più “importante”) sulla fonte (collocata sul livello) inferiore. Ecco, dunque, il criterio gerarchicocriterio gerarchicocriterio gerarchicocriterio gerarchico, applicabile per risolvere le antinomie tra fonti collocate su piani diversi:

IN CASO DI CONTRASTO TRA NORME GIURIDICHE PRODOTTE DA FONTI DEL

DIRITTO COLLOCATE SU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSISU PIANI DIVERSI, PREVALE QUELLA

GERARCHICAMENTE SOVRAORDINATA (O SUPERIORE)

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Il funzionamento del criterio gerarchico è particolarmente semplice. Occorre individuare la posizione delle fonti della struttura piramidale. Se una è posta ad un livello più alto rispetto a quello occupato dall’altra, allora la prima prevale e, dunque, si applica al caso concreto. Criterio gerarchico significa, anche, che la fonte inferiore non può violare la fonte superiore. La fonte inferiore non può contraddire la fonte superiore. Dato un certo fatto, giuridicamente rilevante, la fonte inferiore non può prevedere una conseguenza giuridica diversa da quella prevista dalla fonte superiore. In questi casi, il contrasto determina l’applicazione di una sorta di “sanzione” a danno della fonte inferiore.

2) ANTINOMIE TRA FONTI COLLOCATE SULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANO L’individuazione della posizione occupata, nella struttura piramidale, dalle due fonti in conflitto potrebbe, però, condurre anche ad un esito diverso da quello appena riferito. In effetti, sullo stesso piano possiamo trovare più fonti, anche di diversa natura e fisionomia. Pertanto, l’antinomia può sorgere tra fonti collocate sul medesimo piano. Che fare ? Qual è la fonte più “importante”, destinata, dunque, a prevalere sull’altra ? Qui la risposta non è così immediata, in quanto si tratta pur sempre di fonti che hanno lo stesso rango gerarchico (se due capitani impartiscono ordini diversi, quale prevale ?). È facile constatare come i rapporti sociali siano mutevoli, nel senso che essi, sollecitati da una serie di fattori di diversa natura, tendono a cambiare nel tempo. Mutano le convinzioni diffuse presso la comunità, varia il contesto politico di riferimento, si registra un graduale progresso delle conoscenze scientifiche e delle relative applicazioni tecnologiche: il lento, regolare, ineluttabile fluire del tempo segna l’evoluzione della società. Se, in un dato frangente, per la gestione dei certi rapporti sociali furono concepite determinate norme giuridiche, non appare difficile intuire che, una volta mutati quei rapporti, le norme giuridiche originarie si rivelano inappropriate e, dunque, si rende necessaria una loro sostituzione con nuove norme giuridiche. Pertanto, se il contrasto è tra due norme giuridiche “nate” in momenti diversi, prevale la norma “più giovane”: tra la norma precedente e quella successiva prevale quest’ultima. Questo tipo di antinomia è, dunque, risolto con il criterio cronologicocriterio cronologicocriterio cronologicocriterio cronologico:

IN CASO DI CONTRASTO TRA NORME GIURIDICHE PRODOTTE DA FONTI DEL

DIRITTO COLLOCATE SULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANO, PREVALE QUELLA SUCCESSIVA

NEL TEMPO

Il criterio cronologico è, in effetti, anche definito come criterio della successione delle norme nel tempo. Nella “successione” tra norme – una più vecchia, l’altra più recente – prevale quella più vicina dal punto di vista cronologico. È importante sottolineare che (oltre all’eccezione che descriveremo nel successivo punto 3)), il criterio cronologico NON si applica nei rapporti tra fonti collocate su piani diversi: in questo caso, l’unico criterio applicabile (tale da escludere gli altri) è quello gerarchico.

Le ragioni sottese a questa eccezione sono molteplici. Per semplificare, si può osservare come man mano che ci si avvicina al vertice della piramide delle fonti del diritto, aumenta il bisogno di stabilità, anche nel tempo, delle norme giuridiche. Una fonte del diritto, superiore rispetto ad un’altra, aspira a conseguire un tasso di stabilità maggiore. Si pensi, ad esempio, alla Costituzione, fonte del diritto posta al vertice della scala gerarchica, e ai suoi rapporti con le “comuni” (ordinarie) leggi del Parlamento: la prima aspira a garantire stabilità all’assetto

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fondamentale del nostro Stato, specie in ordine ai rapporti che intercorrono tra le istituzioni e le libertà. Non necessariamente i cambiamenti sociali sono destinati ad intaccare le norme costituzionali, l’evoluzione delle quali è soggetta a tempi più lunghi. Le leggi ordinarie del Parlamento, invece, sono destinate a seguire le trasformazioni sociali (talvolta provocandole, altre volte semplicemente assecondandole).

La “sostituzione” della vecchia norma con la nuova è definita abrogazioneabrogazioneabrogazioneabrogazione. La norma giuridica più recente abroga la norma più vecchia. Più nel dettaglio, sono conosciute tre forme di abrogazione: a) abrogazione espressa: si ha quando la nuova norma giuridica individua, in maniera esplicita e puntuale, la norma giuridica abrogata;

Es. L’art. 36 del d.lgs. 112/1998, in materia di miniere, stabilisce l’abrogazione degli artt. 44 e 53 del d.P.R. 396/1991. La norma più recente (del 1998) che abroga norme precedenti (del 1991), provvedendo ad identificarle in maniera precisa.

b) abrogazione tacita: si ha quando la nuova norma giuridica risulta incompatibile con la norma giuridica più vecchia. Incompatibile significa che la nuova norma tratta in maniera diversa fatti e situazioni regolati da una norme precedente.

Es. L’art. 20 della legge 142/1990 attribuisce al consiglio comunale il potere di disciplinare “l’istituzione e l’ordinamento dei tributi”. Il successivo d.lgs. 504/1992 attribuisce alla giunta comunale il potere di determinare l’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili (I.C.I.). Relativamente a questo particolare tributo, la norma nuova (il d.lgs. del 1992) ha tacitamente abrogato la norma vecchia (la l. del 1990), in quanto giunta e consiglio comunale sono organi diversi: la nuova norma è incompatibile con la vecchia, ma prevale in virtù del criterio cronologico (legge e decreto legislativo sono fonti dello stesso livello).

c) abrogazione implicita: si ha quando interviene una nuova disciplina giuridica di un’intera materia. Diversamente da quella tacita, nel caso dell’abrogazione implicita l’incompatibilità è tra interi gruppi di norme giuridiche.

Es. Quanto alla disciplina del condominio (materia), le norme giuridiche poste dal codice civile del 1942 hanno sostituito le norme giuridiche poste dal codice civile del 1865.

Riassumendo. L’abrogazione è il risultato dell’applicazione del criterio cronologico, che fa prevalere, tra due fonti collocate sullo stesso piano, quella successiva nel tempo (ossia, più vicina a noi). Diversamente dall’abrogazione espressa, le altre due forme di abrogazione richiedono un notevole sforzo ai fini della loro individuazione, in quanto si tratta di verificare, caso per caso, l’effettiva incompatibilità tra norme (a. tacita) o discipline (a. implicita). È necessaria, comunque, una precisazione. La norma abrogata non scompare dall’ordinamento. Semplicemente essa, di regola (ossia, normalmente: v. l’eccezione più avanti), si applica ai fatti o ai rapporti che si sono materialmente realizzati sino all’entrata in vigore della nuova norma.

Es. L’art. X della legge N del 1990 è stato abrogato dall’art. Y della legge M del 2006. La nuova norma (Y) è entrata in vigore il 30 giugno 2006. Nel momento in cui leggiamo questo esempio, l’art. X è stato abrogato e, dunque, non può più essere applicato. Ma per un fatto accaduto il 20 maggio 2006, quale norma applicherebbe oggi il giudice ? La risposta è l’art. X, in quanto la norma abrogante (art. Y), come visto, si applica per i fatti accaduti a partire dalla sua entrata in vigore (30 giugno 2006).

3) ancora ANTINOMIE TRA FONTI COLLOCATE SULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANO

MAMAMAMA………… Il criterio gerarchico si applica per risolvere antinomie tra fonti collocate su piani diversi (prevale la fonte superiore).

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Il criterio cronologico si applica per risolvere antinomie tra fonti collocate sullo stesso piano (prevale la fonte successiva nel tempo). Tuttavia, l’ordinamento giuridico talvolta riserva a particolari fonti del diritto la disciplina di determinate materie o complessi organici di fatti e rapporti. Questa riserva è giustificata dalla maggiore attitudine che una determinata fonte ha, rispetto alle altre, di regolare certi fatti o comportamenti.

L’esempio classico è quello dei rapporti tra leggi statali e leggi regionali. In effetti, nel nostro ordinamento la funzione legislativa è esercitata non solo dallo Stato, ma anche dalle Regioni: ossia da enti pubblici territoriali che, in condizioni di autonomia, tutelano gli interessi delle rispettive comunità anche approvando leggi.

Quando furono pensate le Regioni, e quando si immaginò di conferire loro la stessa funzione legislativa assegnata allo Stato, si rese necessario rispondere ad un quesito molto semplice: quando interviene la legge statale ? e quando interviene la legge regionale ? Il criterio prescelto dalla Costituzione è quello fondato proprio sul concetto di materiamateriamateriamateria. Allo stato attuale (quindi, a seguito della riforma costituzionale del 2001), la Costituzione (→ art. 117) individua: - una serie di materie (es. difesa, ordinamento penale, ordine pubblico e sicurezza, immigrazione, ecc.) riservate alla legge statale (→ potestà legislativa statale esclusiva); - una serie di materie in cui intervengono leggi statali (per fissare i princìpi fondamentali) e leggi regionali (per attuare quei princìpi) (es. commercio con l’estero, istruzione, tutela della salute, ecc.) (→ potestà legislativa concorrente); - mentre tutte le altre materie, non indicate espressamente, sono riservate alla legge regionale (→ potestà legislativa regionale residuale).

Pertanto, ad es., in una materia come l’agricoltura, non inclusa nei due elenchi previsti dalla Costituzione, c’è spazio solo per leggi regionali. La Costituzione “ritaglia”, nell’ambito di tutte le materie disciplinate dall’ordinamento italiano, alcuni settori da riservare alle Regioni. Perché ? La risposta è intuibile: si ritiene (per esperienza e per altre ragioni) che in determinati settori della vita sociale, economica, culturale ecc., le Regioni, meglio dello Stato, possono soddisfare i bisogni della comunità innanzitutto facendo leggi. Al contrario, vi sono materie in cui le esigenze da tutelare sono riferibili a tutto il popolo italiano e, dunque, è preferibile che se ne occupi la legge statale. Quando vi è il dubbio circa la prevalenza degli interessi nazionali o degli interessi regionali, allora opera il modello, già richiamato, della potestà legislativa concorrente.

Un altro esempio importante. La Costituzione (→ art. 64) stabilisce che ogni ramo del Parlamento (Camera e Senato) abbia un proprio regolamento. Una fonte del diritto, questa, destinata a disciplinare l’organizzazione ed il funzionamento di tali organi (appunto, la “materia parlamentare”), ad esclusione di tutte le altre fonti di pari o più basso livello.

Domanda: se l’ordinamento riserva ad una specifica fonte del diritto la disciplina di una determinata materia, si applicano ancora i due criteri (gerarchico e cronologico) in caso di antinomia ? Risposta:

1) continua a trovare applicazione il criterio gerarchico, sebbene la fonte “inferiore” sia competente a regolare una determinata materia. Si è già detto che nei rapporti tra fonti collocate su piani diversi si applica sempre e solo il criterio gerarchico. La competenza, vantata da una fonte del diritto in un data materia, non può essere invocata per contraddire l’ordine gerarchico delle fonti. Peraltro, avete notato qualcosa dai due esempi appena illustrati ? Quale fonte stabilisce che una materia spetti alla legge statale o alla legge regionale ? Quale fonte stabilisce che la “materia parlamentare” sia regolata dai regolamenti di Camera e Senato ? In entrambi i casi, la Costituzione, vale a dire una fonte superiore rispetto alla legge statale, alla legge regionale, ai regolamenti parlamentari.

Ciò significa che la distribuzione per materie della potestà normativa può essere fatta solo da una fonte superiore rispetto a quelle che partecipano alla distribuzione. Così, ad esempio, una legge regionale non potrebbe mai autoqualificarsi unica ed esclusiva fonte di disciplina di una data materia (e lo stesso vale per la legge statale);

2) NON si applica il criterio cronologico. Se una fonte è competente in via esclusiva, e l’altra no, non importa quale sia la più recente: in caso di antinomia prevale sempre la fonte competente. In questo caso si applica il criterio della separazione delle competenzecriterio della separazione delle competenzecriterio della separazione delle competenzecriterio della separazione delle competenze:

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IN CASO DI CONTRASTO TRA NORME GIURIDICHE PRODOTTE DA FONTI DEL

DIRITTO COLLOCATE SULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANOSULLO STESSO PIANO, MA DI CUI UNA COMPETENTE IN

VIA ESCLUSIVA PER MATERIA, PREVALE PROPRIO QUEST’ULTIMA, ANCHE SE

PIÙ “VECCHIA”

Quindi, in caso di antinomia tra fonti collocate sullo stesso piano, occorre prima verificare se una delle due sia competente per materia (ad es., nei rapporti tra legge statale e legge regionale – che sono fonti del diritto di pari grado – occorre verificare se c’è una fonte superiore che riservi ad una delle due una determinata materia: e, infatti, c’è la Costituzione): in caso affermativo, si applica il criterio della separazione delle competenze. Altrimenti, si ricorre al criterio cronologico.

RIASSUMENDO...

1) se vi è una antinomia tra fonti collocate su piani diversi, si applica sempre e solo il criterio criterio criterio criterio gerarchicogerarchicogerarchicogerarchico: prevale la fonte superiore

2) se vi è una antinomia tra fonti collocate sullo stesso piano, si applica il criterio cronologicocriterio cronologicocriterio cronologicocriterio cronologico: prevale la fonte successiva nel tempo, a meno che …

3) se vi è una antinomia tra fonti collocate sullo stesso piano, MA una è competente in via esclusiva a regolare un determinato fatto o rapporto, si applica il criterio della separazione criterio della separazione criterio della separazione criterio della separazione delle competenzedelle competenzedelle competenzedelle competenze: prevale la fonte competente per materia

Alcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioniAlcune riflessioni e precisazioni

A) Sul criterio gerarchico

Si è detto più volte che il sistema delle fonti del diritto può essere raffigurato come una piramide o anche come una scala: comunque, come una struttura a più livelli. Le diverse fonti sono poste su questi livelli con tutte le conseguenze derivanti dall’applicazione dei descritti criteri di risoluzione delle antinomie. La collocazione delle diverse fonti non è casuale, in quanto riflette una logica precisa. Ed è proprio individuando tale logica che è possibile ricostruire la piramide delle fonti, dal momento che manca, nel nostro ordinamento, una “fonte sulle fonti” che, una volta per tutte, stabilisca una simile gerarchia (la Costituzione aiuta molto, ma non contempla tutte le fonti del diritto italiano). A quale logica risponde, dunque, la sistemazione gerarchica delle fonti di produzione del diritto oggettivo ? Non è un quesito semplicemente teorico. Se, davanti ad un giudice chiamato a dirimere una controversia, un consociato fonda la propria pretesa su di una fonte, e la controparte (per difendersi) invoca l’applicazione di un’altra fonte (che gli darebbe ragione), non è indifferente il modo in cui l’antinomia si risolve. Colui che fonda la propria pretesa su di una fonte gerarchicamente superiore vincerà sull’avversario, che ha invece invocato una fonte di rango (forza o valore) inferiore. Perché, dunque, una fonte è “più importante” (in termini gerarchici) di un’altra ? Per cogliere la logica sottesa all’ordine gerarchico prescelto dal nostro ordinamento, proviamo a percorrere la strada più semplice, attivando un procedimento induttivo (ossia, dal particolare al generale). Dapprima, quindi, ricostruiremo, quanto meno nei suoi elementi fondamentali, il vigente assetto gerarchico e, poi, cercheremo una spiegazione plausibile. Pertanto:

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a) al vertice della piramide troviamo la Costituzione. Per questa ragione, essa viene comunemente definita la fonte superprimariafonte superprimariafonte superprimariafonte superprimaria del diritto. La Costituzione (semplificando al massimo) aspira a garantire la stabilità nel tempo dei princìpi fondamentali che reggono, da un lato, i rapporti tra autorità e libertà (diritti e doveri, limiti ai poteri restrittivi delle istituzioni) e, dall’altro, i rapporti tra gli organi istituzionali di vertice (forma di governo; rapporti con le autonomie territoriali). È necessario preservare la stabilità di questi princìpi in modo da garantire la permanenza nel tempo dell’identità del nostro Stato nonostante il cambiamento continuo di maggioranze e di orientamenti politici. La Costituzione, salvo il suo “nocciolo duro” o “nucleo forte”, non è immodificabile. Le sue norme possono sì essere modificate o persino abrogate, per adattarle alle trasformazioni più rilevanti della società, ma solo seguendo una procedura parlamentare particolarmente complessa, se raffrontata col comune procedimento di formazione delle leggi ordinarie (→ revisione costituzionale; art. 138 della Costituzione; procedura aggravata; costituzione rigida). Alla Costituzione sono equiparate le leggi costituzionali, in quanto pur sempre deliberate con la procedura aggravata: e, tra queste, spiccano gli statuti delle Regioni speciali, che sono appunto adottati con legge costituzionale;

b) sul gradino immediatamente inferiore troviamo le leggi ordinarie del Parlamento e gli atti

aventi forza di legge. Questi atti vengo usualmente definiti come fonti primariefonti primariefonti primariefonti primarie del diritto. Il Palamento, con una procedura meno complicata rispetto a quella prevista per modificare la Costituzione, approva le leggi ordinarie. Il Governo, sulla base di una legge-delega del Parlamento (che stabilisce princìpi e criteri direttivi, oggetto, termine: ossia limiti vincolanti il Governo), approva i decreti legislativi. In casi straordinari di necessità ed urgenza, il Governo può adottare i decreti-legge, che, tuttavia, per poter consolidare nel tempo la loro efficacia normativa, debbono essere convertiti in legge dal Parlamento entro sessanta giorni: in mancanza di conversione, essi perdono efficacia sin dall’inizio. Le Regioni ordinarie, tramite i loro Consigli (organi legislativi), producono statuti (con una procedura aggravata) e leggi (con la procedura ordinaria);

c) al di sotto delle leggi e degli atti aventi forza di legge sono collocate le fonti secondariefonti secondariefonti secondariefonti secondarie del

diritto. L’esempio più rilevante è costituito dai regolamenti che il Governo può adottare per dare attuazione o integrazione o esecuzione alle fonti primarie o anche, sia pure in presenza di determinate condizioni, per sostituire leggi in determinate materie (→ delegificazione). Anche a livello regionale, le Giunte (organi esecutivi) possono adottare regolamenti. Gli enti locali, poi, (principalmente i Comuni e le Province), pur privi della funzione legislativa, possono approvare statuti e regolamenti;

d) ci sono, poi, altri livelli, ancora inferiori, in cui troviamo, ad esempio, i decreti ministeriali,

che sono pur sempre assimilabili ai regolamenti, ma sono gerarchicamente inferiori a questi in quanto approvati da un solo ministro e non da tutto il Governo;

e) l’ultimo livello è, infine, occupato dalla consuetudine.

Quella descritta è, approssimativamente, la struttura piramidale del sistema delle fonti del

diritto italiano. A questo punto, però, occorre identificare le ragioni poste a fondamento di tale gerarchia. Potremmo, a tal fine, utilizzare tre indicatori o parametri per “misurare” l’ “importanza” di ogni

singola fonte, in vista della collocazione di ognuna nella predetta struttura: a) tasso di rappresentatività: questo indicatore misura la capacità, di ogni fonte, di rappresentare

la comunità. Più precisamente. Si è detto che le norme giuridiche non vengono prodotte a caso, bensì per realizzare determinati obiettivi. Queste finalità sono strettamente connesse agli interessi espressi dalla comunità. Non tutti gli interessi, però, sono disciplinati dal diritto: si procede, in effetti, ad una selezione alla luce di vari fattori (politici, economici, culturali, ecc.). È intuibile come questa scelta

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non sia indolore, in quanto i portatori degli interessi non ritenuti meritevoli di protezione giuridica resteranno privi di una tutela molto forte nell’ambito delle relazioni sociali.

Questa selezione è rimessa ai soggetti legittimati dall’ordinamento a produrre il diritto oggettivo (vi ricordate le fonti sulla produzione ?). A loro volta, questi soggetti producono le norme giuridiche attraverso appositi procedimenti (un procedimento è una serie di atti ed operazioni coordinati in vista del conseguimento di un determinato obiettivo).

Questi procedimenti hanno una configurazione spiccatamente politica, nel senso che il principale fattore che guida la selezione degli interessi è costituito proprio dall’indirizzo politico seguito dagli organi titolari della funzione normativa. L’indirizzo politico riflette la concezione ideale della società prescelta dai soggetti che producono diritto.

Il liberalismo, da un lato, e la socialdemocrazia, dall’altro, hanno concezioni ideali molto diverse quanto, ad esempio, agli spazi di manovra da concedere agli imprenditori che producono ricchezza: per il primo indirizzo occorre lasciare loro molto spazio; per il secondo indirizzo è necessario che le istituzioni pubbliche controllino le iniziative economiche e, talora, che le stesse siano direttamente coinvolte in attività produttive e commerciali. Il liberalismo persegue obiettivi di affermazione individuale; la socialdemocrazia si preoccupa della giustizia e dell’equità sociale.

Soprattutto con la Rivoluzione francese si afferma l’idea che la produzione del diritto sia attribuita ad un organo collegiale composto dai rappresentanti del popolo (→ democrazia rappresentativa). Il Parlamento (o assemblea o congresso o altra denominazione di significato equipollente) è la sede in cui si confrontano (oggi sicuramente) tutte le componenti della comunità: infatti, il Parlamento è composto da cittadini eletti dal popolo. Il Parlamento (salvo nei regimi dittatoriali) non è omogeneo e compatto: in esso sono rappresentate più formazioni politiche (→ partiti politici), che hanno concezioni ideali anche profondamente diverse.

Come in ogni organo collegiale, però, le decisioni sono assunte dalla maggioranza. Nei sistemi politici “semplici”, caratterizzati cioè dalla contrapposizione tra due grandi partiti (democratici contro repubblicani negli Stati Uniti, laburisti contro conservatori in Gran Bretagna), uno solo decide. Nei sistemi politici “complessi”, invece, ci sono tanti partiti e questi, per governare, sono costretti a coalizzarsi (→ coalizioni di governo): è il caso dell’Italia, della Germania, della Francia, ad esempio. In questi sistemi, vi è una contrapposizione tra una coalizione di maggioranza e l’opposizione (o minoranza). Anche in questo caso, è la maggioranza a decidere.

Ebbene, nei procedimenti che si svolgono in Parlamento, se è vero che alla fine decide la maggioranza, è altrettanto vero che comunque la minoranza può partecipare: come ? Presentando richieste di modifica del testo da approvare (→ emendamenti), chiedendo la parola e adottando strategie legittime per ritardare la conclusione de procedimento (→ ostruzionismo), sollecitando l’attenzione dell’opinione pubblica e, infine, semplicemente votando contro. In questo modo, si può affermare che all’interno dell’assemblea eletta dal popolo il procedimento di produzione del diritto è congegnato in modo tale da permettere a tutte le componenti della comunità di far valere le rispettive ragioni. In questi casi, perciò, si ha un alto tasso di rappresentatività.

In epoca più recente, però, anche per ragioni di efficienza e di rapida soluzione di problemi sociali ed economici, gli ordinamenti hanno iniziato a “decentrare” la funzione normativa coinvolgendovi l’organo esecutivo, ossia il Governo. Pensiamo ai regolamenti. In alcuni Stati, come il nostro, è stato persino deciso di riconoscere al Governo la capacità di fare atti aventi la stessa forza e lo stesso valore della legge del Parlamento: in Italia, i decreti legislativi e i decreti-legge.

Questa distribuzione della funzione legislativa, però, è stata accompagnata da una serie di limiti: il decreto legislativo deve essere preceduto da una delega legislativa del Parlamento. Il decreto-legge deve essere convertito in legge dal Parlamento, entro un determinato termine, altrimenti decade. Perché questi limiti ? Per una ragione molto semplice: il Governo rappresenta la sola maggioranza. L’organo esecutivo è espressione del solo partito o coalizione di maggioranza. Quando il Governo decide, selezionando gli interessi, interpreta la volontà dei soli partiti che hanno vinto le elezioni. L’opposizione non partecipa al procedimento. Con gli “accorgimenti” della legge delega e della

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conversione in legge, però, il Parlamento (e, dunque, l’opposizione) intervengono nel procedimento legislativo del Governo: o prima (nel caso del decreto legislativo) o dopo (nel caso del decreto-legge).

Lo stesso, invece, non può dirsi per i regolamenti. Questi sono approvati soltanto dal Governo (e, dunque, dalla sola maggioranza).

Si può, pertanto, affermare che gli atti legislativi del Governo (considerato l’intervento parlamentare) hanno un tasso di rappresentatività diverso e superiore rispetto a quello dei regolamenti.

Nel nostro Stato, poi, anche le Regioni possono produrre diritto, attraverso statuti, leggi e regolamenti. Anche le Regioni hanno un organo legislativo (il Consiglio regionale) che rappresenta l’intero elettorato, ed un organo esecutivo (la Giunta regionale, guidata da un Presidente) che esprime la sola maggioranza politica.

Dunque, le riflessioni dapprima sviluppate sono applicabili anche alle Regioni, tenuto conto, però, che:

- nelle Regioni NON sono previsti atti aventi forza di legge della Giunta; - in alcune Regioni, alcuni tipi di regolamenti sono affidati al Consiglio e non all’organo

esecutivo. Gli enti locali (Comuni, Province, città metropolitane, ecc.) possono produrre diritto oggettivo,

ma senza l’ausilio dello strumento legislativo: quindi, non esistono leggi comunali o provinciali (il discorso è diverso per le Province autonome di Trento e di Bolzano che, in realtà, sono equiparabili alle Regioni). Gli unici strumenti normativi sono gli statuti ed i regolamenti.

In definitiva, l’intensità del tasso di rappresentatività di una fonte del diritto è maggiore nei procedimenti in cui anche le minoranze possono partecipare.

Provate a riflettere sull’importanza di questa affermazione. Le norme giuridiche sovente limitano taluni diritti per favorirne altri. Ad esempio, rafforzare i poteri del datore di lavoro significa indebolire la posizione del lavoratore dipendente. E una maggioranza politica, per gli ideali cui si ispira, potrebbe volere proprio questo obiettivo: sostenere i produttori di ricchezza, anche sacrificando i diritti delle categorie più deboli. Pertanto, non è indifferente che anche l’opposizione possa partecipare al procedimento normativo, usando tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento. Facendo “opposizione”, alcuni partiti potrebbero riuscire a convincere gli elettori a non votare più per le formazioni che hanno vinto le precedenti elezioni. L’emarginazione dell’opposizione o persino il suo annullamento sono i chiari sintomi dell’avvento di una dittatura.

b) tasso di complessità del procedimento: questo parametro misura il “peso” di ogni procedimento culminante nella adozione di una determinata fonte del diritto, in termini di fasi e obblighi procedurali, organi coinvolti, tempi, controlli. Di regola, i procedimenti che si svolgono dinanzi alle assemblee elette dal popolo sono particolarmente complessi, in quanto occorre garantire all’opposizione la possibilità di parteciparvi in maniera non simbolica. Diversamente, nei procedimenti che si svolgono dinanzi all’organo esecutivo, la compattezza (almeno in astratto) delle forze politiche di maggioranza e il numero relativamente esiguo dei soggetti coinvolti rendono senza dubbio più celere il procedimento: è il caso dei regolamenti governativi. Quando, poi, la fonte del diritto è rimessa ad un solo organo monocratico (cioè, costituito da una sola persona), il procedimento è particolarmente veloce: si pensi ai decreti ministeriali. Si è già ricordato che la nostra Costituzione può essere modificata (salvo il suo nucleo forte) con un procedimento più complicato e lungo rispetto a quello previsto per le ordinarie leggi del Parlamento. Inoltre, se è vero che il decreto legislativo ed il decreto-legge sono adottati dal Governo, con procedimenti poco complessi, è altrettanto vero, però, che sia la legge delega che la legge di conversione richiedono l’attivazione dell’ordinario procedimento legislativo davanti al Parlamento (accelerato, semmai, nel caso dei decreti-legge da convertire in legge). c) tasso di stabilità: quest’ultimo indicatore misura l’aspirazione, di ogni fonte, a conservare nel tempo l’efficacia delle norme giuridiche da essa prodotte.

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La Costituzione, come fonte che definisce i pilastri dell’ordinamento giuridico, manifesta una spiccata inclinazione a mantenersi inalterata nel tempo, così da resistere ai continui tentativi di revisione anche solo progettati dalle contingenti maggioranze politiche. Le leggi e gli atti aventi forza di legge sono, invece, più sensibili alle trasformazioni in atto nella società, soprattutto sul piano dei rapporti economici. I regolamenti, poi, sono strumenti normativi particolarmente snelli che vengono solitamente adottati per fronteggiare, con rapidità, anche piccole variazioni dei fatti o comportamenti disciplinati dal diritto. È chiaro che il tasso di stabilità, pur all’interno dello stesso livello gerarchico, non è uniforme: vi sono leggi che resistono nel tempo, e leggi che, invece, sono sottoposte a continui ritocchi o aggiustamenti. Tuttavia, per la nostra ricostruzione occorre affidarsi a piccole approssimazioni e, dunque, occorre accontentarsi di dati tendenziali. Ebbene, una volta fissati i descritti indicatori, si può procedere ad una analisi delle diverse e principali fonti del diritto italiano. I dati così acquisiti possono essere raccolti nella seguente tabella.

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TABELLA

FONTI TIPOLOGIA E ORGANI TASSO DI

RAPPRESENTATRAPPRESENTATRAPPRESENTATRAPPRESENTATIVITÀIVITÀIVITÀIVITÀ TASSO DI

COMPLESSITÀ DEL COMPLESSITÀ DEL COMPLESSITÀ DEL COMPLESSITÀ DEL

PROCEDIMENTOPROCEDIMENTOPROCEDIMENTOPROCEDIMENTO

TASSO DI stabilità

Superprimari

e

Costituzione (AC) Leggi di revisione costituzionale (P*) Leggi costituzionali, in particolare statuti regionali speciali (P*)

ALTISSIMO

ALTISSIMO

ALTISSIMO

Primarie

Leggi ordinarie (P) Decreti legislativi (P + G) Decreti-legge (G + P) Statuti regionali ordinari (CR*) Leggi regionali (CR)

ALTO

ALTO

MEDIO-ALTO

Secondarie

Regolamenti governativi (G) Regolamenti regionali (CR o GR) Statuti locali (CP, CC) Regolamenti locali (CP o GP, CC o GC)

BASSO

BASSO

MEDIO-BASSO

Altre Decreti ministeriali (M)

MOLTO BASSO MOLTO BASSO BASSO

Fonti-fatto Consuetudini MASSIMO MASSIMO MASSIMO * Eventuale consultazione referendaria (partecipazione degli elettori) Legenda: AC = Assemblea costituente (organo legislativo); P = Parlamento (organo legislativo); G = Governo (organo esecutivo); M = Ministro (esecutivo); CR = Consiglio regionale (organo legislativo); GR = Giunta regionale (organo esecutivo); CP = Consiglio provinciale; GP = Giunta provinciale (esecutivo); CC = Consiglio comunale; GC = Giunta comunale (esecutivo).

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Come si nota dalla tabella, maggiori sono i tassi utilizzati come indicatori, più alta è la collocazione della fonte nella struttura piramidale. Così, tra le fonti primarie troviamo solo atti che prevedono, non necessariamente in via esclusiva, l’intervento delle assemblee legislative (anche a livello regionale). È anche vero, tuttavia, che talvolta assume un ruolo decisivo l’elemento formale, nel senso che in alcuni casi è lo stesso ordinamento giuridico ad adottare specifiche denominazioni per collocare una determinata fonte ad un certo livello piuttosto che ad un altro. È il caso dei regolamenti regionali approvati dal Consiglio regionale: sono atti deliberati dall’assemblea legislativa, ma vengono distinti dalle leggi, che lo stesso organo può approvare, in relazione all’efficacia che s’intende riconoscere loro.

Un cenno meritano i regolamenti che ciascuna Camera deve adottare per disciplinare la propria organizzazione ed il proprio funzionamento. In questo caso, la denominazione non è decisiva. La Corte costituzionale (che, come vedremo tra poco, è un “giudice” un po’ particolare) ha stabilito che tali regolamenti attuano direttamente la Costituzione nella materia “parlamentare”. Sicché, essi sono inclusi tra le fonti primarie. Inoltre, ai regolamenti parlamentari la stessa Costituzione riserva in via esclusiva una determinata materia e, dunque, in caso di contrasto con fonti di pari grado, ma successive nel tempo, essi prevalgono sempre.

A.1) Ancora sul criterio gerarchico...

Il criterio gerarchico assume diverse denominazioni e contenuti a seconda del livello al quale esso si applica. Così:

1) nei rapporti tra fonti superprimarie e fonti primarie, il criterio gerarchico è definito principio principio principio principio di costituzionalitàdi costituzionalitàdi costituzionalitàdi costituzionalità. Le fonti primarie non possono essere in contrasto con le fonti superprimarie, a cominciare dalla Costituzione, altrimenti sono illegittime. Così, ad esempio, una legge ordinaria in contrasto con la Costituzione è una legge costituzionalmente illegittima.

La illegittimità costituzionale di una fonte primaria, nel nostro ordinamento, è dichiarata da un apposito organo, creato apposta per esercitare tale funzione di difesa o custodia della Costituzione: la Corte costituzionaleCorte costituzionaleCorte costituzionaleCorte costituzionale. Quando si ha il sospetto che una fonte primaria abbia prodotto una norma giuridica in contrasto con una norme prodotta dalla Costituzione, allora ci si rivolge alla Corte costituzionale. Questa, attraverso un apposito procedimento (→ giudizio di legittimità costituzionale), verifica se il sospetto è fondato (→ sentenza di accoglimento della questione di legittimità costituzionale) oppure no (→ sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale). Se davvero la fonte primaria contraddice la Costituzione, allora la norma illegittima viene “eliminata” dall’ordinamento e, dunque, non può più essere applicata.

Abbiamo visto, in precedenza, un altro caso di “eliminazione” di una norma dall’ordinamento: l’abrogazione. Che differenza c’è tra l’abrogazione e l’illegittimità costituzionale ?

1. una norma abrogata viene eliminata non perché in contrasto con la Costituzione, ma perché ritenuta non più opportuna o adeguata o coerente con un determinato indirizzo politico;

2. una norma abrogata continua a trovare applicazione per i fatti che si sono storicamente verificati prima dell’entrata in vigore della norma abrogante. La norma dichiarata incostituzionale, invece, non si applica più: quindi, non si applica neppure ai fatti che si sono storicamente verificati prima della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale è uno degli organi meno “popolari”, nel senso che i mezzi di comunicazione non le prestano sufficiente attenzione. Quanti di voi, sinceramente, hanno mai sentito parlare di questo organo prima di aver letto queste pagine ? Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, forse persino il C.S.M. (Consiglio superiore della Magistratura): ma della Corte costituzionale se ne parla effettivamente poco. Eppure, la Corte costituzionale è un organo fondamentale per la sopravvivenza del nostro Stato democratico. La Corte custodisce un tesoro prezioso, posto a presidio delle nostre libertà fondamentali: la Costituzione. La Costituzione impedisce alle forze di polizia, salvo casi assolutamente straordinari, di arrestare una persona senza

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una apposita autorizzazione motivata del giudice. La Costituzione previene perquisizioni improvvise e senza garanzie nei domicili di ognuno di noi (vi ricordate la frase ricorrente nei film polizieschi: “ce l’ha il mandato ?”). La Costituzione stabilisce che una persona, pur sospettata di aver commesso un crimine efferato, non può considerarsi colpevole sino a che la sentenza di condanna non diventi definitiva e irrevocabile (→ presunzione di non colpevolezza). La Costituzione riconosce il diritto di difesa nei processi. Insomma, la Costituzione protegge le nostre libertà fondamentali (integrità fisica e psichica, domicilio, circolazione, pensiero, ecc.) anche nei confronti del Parlamento, e delle varie maggioranze che lì si avvicendano. Le dittature nascono proprio quando le forze (o la singola forza) di maggioranza possono liberamente disporre delle libertà fondamentali, a cominciare dalla manifestazione del pensiero. La presenza di un apposito “tribunale costituzionale” o, comunque, la configurazione di un apposito sistema di giustizia costituzionalegiustizia costituzionalegiustizia costituzionalegiustizia costituzionale garantiscono la supremazia della Costituzione e, dunque, la sopravvivenza del patrimonio minimo di ogni consociato quanto a libertà e diritti.

Un esempio significativo per cogliere l’importanza fondamentale del sistema di giustizia costituzionale. La democrazia è garantita, tra l’altro, quando tutti possono esprimere liberamente le opinioni personali, magari anche criticando l’operato di chi detiene il potere. Al contrario, una dittatura non ammette che si dissenta pubblicamente dall’operato del governo. La nostra Costituzione (→ art. 21) riconosce e tutela la libertà di manifestazione del pensiero, tra l’altro, vietando la censura. Se il Parlamento, “dominato” da forze politiche che aspirano ad instaurare una dittatura, approvasse una legge di autorizzazione alle forze dell’ordine di operare la censura sulla stampa e sugli altri mezzi di comunicazione, allo scopo di far tacere l’opposizione, quella legge sarebbe senza dubbio in contrasto con la Costituzione. La Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità di questa legge, contribuirebbe a garantire l’assetto democratico del nostro Paese. E non è poco... In Germania ed in Italia, prima della Seconda Guerra mondiale, l’avvento dei regimi dittatoriali è stato agevolato proprio dalla mancanza di un sistema di giustizia costituzionale posto a presidio della Costituzione (all’epoca, in Italia, vigeva lo Statuto albertino del 1848), e , dunque, delle libertà fondamentali. Oggi, che fine farebbe una legge ordinaria che vietasse agli appartenenti da una determinata confessione religiosa di partecipare, ad esempio, ai concorsi pubblici ? Provate a leggere gli artt. 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione...

2) nei rapporti tra fonti primarie e fonti secondarie, il criterio gerarchico è definito principio di principio di principio di principio di legalitàlegalitàlegalitàlegalità. Le fonti secondarie non possono essere in contrasto con le fonti primarie. Così, ad esempio, un regolamento del governo in contrasto con un decreto legislativo è illegittimo: pertanto, il regolamento verrà annullato (dal giudice amministrativo) o disapplicato (dal giudice amministrativo o dal giudice ordinario). Il custode del principio di legalità è, dunque, qualsiasi giudice: ordinario (il giudice di pace, il tribunale, la corte d’appello ecc.) e amministrativo (il T.A.R., tribunale amministrativo regionale, ed il Consiglio di Stato). Il principio di legalità contribuisce a garantire le libertà fondamentali contro gli arbitri delle istituzioni a cominciare proprio dal legislatore. Ciò può sembrare paradossale: il principio di legalità, che sancisce la superiorità delle leggi rispetto ai regolamenti, costituisce anche un limite alla stessa legge. In realtà, il paradosso è soltanto apparente...

Consideriamo il seguente esempio. La Costituzione prevede che le libertà (personale, di domicilio, di comunicazione, ecc.) possano essere limitate “nei soli casi e modi stabiliti dalla legge”. Spetta, perciò, ad una fonte primaria individuare le condizioni affinché, ad esempio, una persona possa subire una misura restrittiva (→ custodia cautelare o arresti domiciliari). Supponiamo che il Parlamento approvi una legge che autorizza le intercettazioni telefoniche (limitazione della libertà fondamentale di comunicazione) da parte delle forze di polizia, “per ragioni di ordine pubblico”: nel contempo, tale legge rinvia ad un regolamento governativo il compito di decide i requisiti, le modalità, le garanzie, l’uso processuale dei dati così acquisiti, i tempi, ecc. Al regolamento è stato, perciò, affidato un compito molto importante: dalla sua disciplina dipende l’uso delle intercettazioni telefoniche, mentre la legge è stata decisamente laconica al riguardo. In altri termini, una persona potrà subire, presso la sua utenza telefonica, intercettazioni secondo quanto disposto da un regolamento del Governo. Domanda: chi decide, in generale e astratto, come, perché, quando, effettuare intercettazioni all’insaputa dei privati ? La sola maggioranza, attraverso regolamenti del Governo.

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Ora, in un ordinamento democratico, retto da una Costituzione che si prefigge l’obiettivo di tutelare le libertà fondamentali anche e soprattutto nei confronti delle autorità pubbliche, le misure limitative delle predette libertà debbono essere previste e disciplinate da fonti del diritto il cui procedimento di formazione preveda la partecipazione anche dell’opposizione. Le libertà non sono assolute: possono subire limitazioni per garantire agli altri la fruizione delle rispettive libertà. Le limitazioni possono essere accettate ove coloro che le subiscono siano stati messi nelle condizioni, anche per il tramite dei propri rappresentanti in Parlamento, di partecipare alla formazione delle norme giuridiche che contemplano quelle restrizioni. È la democrazia, nel suo più nobile ed effettivo significato !

Per questa ragione, la Costituzione è disseminata di riserve di leggeriserve di leggeriserve di leggeriserve di legge. Con questa espressione s’intendono i casi in cui la Costituzione riserva alla legge la disciplina di determinate materie: in questo modo, da un lato, la Costituzione obbliga la legge a regolare certi rapporti e, dall’altro, limita lo spazio di intervento di fonti, quali i regolamenti del Governo, che sono a disposizione della sola maggioranza.

Più precisamente: - per “legge” s’intende, in realtà, “fonte primaria”. È ben vero che in alcuni casi la Costituzione

riserva alla sola legge ordinaria del Parlamento la disciplina di determinati rapporti o situazioni (ad es., la legge di bilancio, la legge di amnistia e indulto, la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, la legge di conversione dei decreti-legge, ecc.). Tuttavia, di regola qualsiasi fonte primaria è in grado di soddisfare una riserva di legge.

Si pensi, ad esempio, alla materia penale. Una materia, questa, strategica in quanto incide fortemente sulle libertà fondamentali (“per colpa” del diritto penale una persona rischia di finire in galera: restrizione della libertà fondamentale). Ebbene, il codice penale fu adottato, nel 1930, con un decreto legislativo. E la stessa fonte è stata utilizzata, verso la fine degli anni Ottanta, per il nuovo codice di procedura penale, che decide, ad esempio, quando una persona può subire una perquisizione domiciliare.

- la Costituzione, in verità, prevede due tipologie di riserva di legge: assoluta e relativa. La Costituzione, però, non dice espressamente se una determinata riserva sia assoluta o relativa. Un dato è, però, certo: la riserva assoluta è posta a presidio delle libertà fondamentali. Come distinguere le due tipologie di riserva di legge ?

All’esame di diritto costituzionale o di diritto pubblico, lo studente medio risponde nel seguente modo: in caso di riserva assoluta, tutta la materia è disciplinata dalla legge. Nel caso della riserva relativa, c’è spazio anche per i regolamenti del Governo.

Ebbene, questa risposta si avvicina molto alla risposta corretta, ma non coglie esattamente i termini della questione.

Consideriamo il seguente esempio. Un testo unico del 1990, adottato con decreto legislativo, si occupa della repressione dei reati connessi alle sostanze stupefacenti. Materia penale: riserva assoluta di legge, dunque. Ed in effetti, questa fonte primaria prevede reati e commina sanzioni, compresa la reclusione (che è la sanzione più severa, in quanto limita la libertà personale). Nel contempo, la stessa fonte primaria assegna al Ministro della salute il compito di stabilire e di aggiornare periodicamente, con proprio decreto (fonte subordinata alla legge), l’elenco delle sostanze da considerarsi, a tali effetti, droga. Come si spiega questo ? Siamo in una materia soggetta a riserva assoluta di legge, eppure c’è spazio anche per una fonte di grado inferiore: con un compito, peraltro, decisivo, in quanto se una sostanza non figura nell’elenco, il suo consumo o il suo commercio non possono essere sanzionati.

In verità, anche alla luce dell’esempio appena riportato, la riserva di legge, sia essa assoluta o

relativa, non impedisce l’intervento di fonti subordinate alla legge. La differenza risiede, piuttosto, nell’ampiezza dello spazio di intervento di tali fonti. E questo

spazio può misurarsi in relazione al tipo di norme giuridiche che possono essere prodotte dalle fonti secondarie.

Consideriamo, infatti, il seguente schema:

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NORME DI PRINCIPIO

⇓ NORME DI SVOLGIMENTO

⇓ NORME DI SPECIFICAZIONE

Nello schema sono riportate tre distinte tipologie di norme giuridiche. Infatti: a) norme di principio: sono le norme che definiscono le linee generali di una disciplina giuridica. Esse dettano le direttive per il raggiungimento di determinati obiettivi. Per ricorrere ad una metafora, le norme di principio definiscono l’intelaiatura di un edificio e le sue fondamenta. Sono i pilastri di una costruzione giuridica. Sono gli elementi basilari che conferiscono una certa identità ad un complesso di norme giuridiche. Si è detto che le norme giuridiche sono schemi di qualificazione entro i quali ricondurre fatti giuridicamente rilevanti, secondo lo schema causa/effetto. Ebbene, le norme di principio non operano in questo modo. Esse sono talmente generiche da precludere una simile operazione. In altri termini, le norme di principio sono così generiche da non identificare in maniera puntuale rapporti, fatti, situazioni, comportamenti. Esse, al contrario, tracciano i binari che altre fonti dovranno seguire per disciplinare determinati fatti in armonia con certo obiettivi da realizzare.

Un esempio può aiutare. Una norma di principio stabilisce, in materia sanitaria, quanto segue: “Il sistema sanitario deve essere organizzato e disciplinato in modo da garantire la concorrenza tra strutture pubbliche e strutture private”. È un chiaro esempio di norma di principio. Essa è una norma giuridica, perché vincola giuridicamente al conseguimento di un dato obiettivo. È, poi, di principio, per la sue latitudine o genericità. Essa, infatti, non impone di garantire la concorrenza tra pubblico e privato, ma non dice in che modo.

Una delle caratteristiche salienti della norma di principio è di concedere a future norme giuridiche più o meni ampi margini di scelta circa le modalità per realizzare l’obiettivo racchiuso nel principio.

Torniamo al nostro esempio. La concorrenza tra pubblico e privato può essere realizzata percorrendo diverse strade. Erogando sovvenzioni ai privati o negando contributi economici a tutte le strutture, in modo che anche quelle pubbliche siano costrette a reperire i propri mezzi di finanziamento oppure, ancora, assegnando ai pazienti dei buoni (equivalenti a somme di denaro) da spendere presso la struttura che si preferisce, pubblica o privata che sia. Si tenga presente che, nel nostro ordinamento, la Costituzione impone alle istituzioni pubbliche di garantire “cure gratuite agli indigenti”, in modo tale da assicurare l’assistenza sanitaria anche a chi non se lo può permettere (→ art. 32).

La genericità, nel senso appena chiarito, della norma di principio ha ripercussioni sul piano processuale. In effetti, il giudice NON applica la norma di principio per risolvere la controversia. Egli ha sempre bisogno della regola, sia pure generale e astratta, da applicare al caso concreto: la regola, cioè, che nel rispetto del principio, ha individuato il mezzo per raggiungere l’obiettivo.

Supponiamo che un imprenditore intenda aprire una clinica privata e che l’assessore regionale alla sanità glielo vieti. L’imprenditore, convinto di aver subito un torto, si rivolge al giudice per avere giustizia. Il giudice, per risolvere questa controversia, potrà applicare il principio secondo cui “il sistema sanitario deve essere organizzato e disciplinato in modo da garantire la concorrenza tra strutture pubbliche e strutture private” ? Oppure, ha bisogno di una norma più specifica che stabilisca in che modo realizzare l’obiettivo della concorrenza ?

Ebbene, la regola da applicare al caso concreto è data dalle …

b) norme di svolgimento: sono tali le norme giuridiche che attuano il principio stabilendo schemi di qualificazione entro i quali ricondurre il singolo caso concreto. “Svolgere” o “sviluppare”

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un principio significa proprio questo: scegliere, tra le diverse soluzioni possibili quanto all’attuazione del principio, quella che si ritiene più opportuna o conveniente o efficace. Il giudice risolverà le controversie applicando le norme di svolgimento.

Nell’esempio qui esaminato, norma di svolgimento sarà quella che così stabilisce: “L’assistenza sanitaria può essere garantita anche da strutture private, che abbiano ottenuto la necessaria autorizzazione da parte dell’ufficio regionale competente. L’autorizzazione può essere concessa soltanto alle strutture che presentino i seguenti requisiti: a)...; b) ...; c) ...”. Il giudice, perciò, verificherà se il diniego opposto dall’assessore regionale sia fondato o meno sulla mancanza di uno dei requisiti stabiliti dalla norma di svolgimento.

Tuttavia, i rapporti giuridici sono spesso molto complessi e, dunque, è necessaria una disciplina particolarmente dettagliata e capillare. Per disciplinare questi aspetti così minuti intervengono, quindi, le … c) norme di specificazione: sono tali le norme giuridiche che, per l’appunto, regolano nell’estremo dettaglio i fatti considerati dalle norme di svolgimento.

È di specificazione, nel nostro esempio, la norma che, in relazione all’autorizzazione all’apertura di una clinica privata, stabilisce i moduli da compilare, i documenti da consegnare, ecc.

Nel loro complesso, le tre tipologie di norme concorrono a definire un assetto normativo compiuto: più semplicemente, la disciplina giuridica di una data materia. Ognuna di esse, però, assolve a diversi ruoli.

Ritornando all’immagine metaforica del palazzo. I princìpi sono le fondamenta, i pilastri, le mura maestre, insomma tutti gli elementi architettonici necessari affinché un edifico stia in piedi secondo una particolare configurazione. Le norme di svolgimento sono gli infissi, le porte, gli impianti elettrici e idraulici, insomma tutti gli elementi necessari a garantire l’abitabilità dell’edificio. Le norme di specificazione sono i decori esterni, le piastrelle, i singoli mobili, insomma tutto ciò che completa nel dettaglio l’edificio.

In questo assetto normativo, le norme di principio hanno un ruolo fondamentale. Esse rappresentano l’origine dell’intera disciplina. Esse orientano la successiva produzione delle norme giuridiche che poi i giudici applicheranno per risolvere le controversie. Esse indicano gli obiettivi verso i quali tende la regolamentazione di una data materia. Senza i princìpi non potrebbero intervenire norme di svolgimento coerenti tra di loro e funzionali rispetto al fine da raggiungere. Quindi, la maggiore “importanza” delle norme di principio, rispetto alle altre due categorie di norme giuridiche, può essere dimostrata proprio in questi termini. E ad analoghe conclusioni si può pervenire in ordine al rapporto tra le norme di svolgimento e le norme di specificazione. Siamo sulla buona strada per distinguere tra riserva assoluta e riserva relativa di legge. L’interrogativo è il seguente: quale, tra la fonte primaria e la fonte secondaria, deve produrre le tre tipologie di norme in una determinata materia ? Una prima risposta è facilmente intuibile: data la loro “importanza”, nel senso dapprima chiarito, le norme di principio debbono essere prodotte da fonti primarie, e solo da queste. Basta osservare che gli obiettivi di una data disciplina debbono essere decisi con un procedimento che garantisca anche alle minoranze di partecipare, per le ragioni illustrate in precedenza. Pertanto, la differenza tra riserva assoluta e riserva relativa riguarda le norme di svolgimento e le norme di specificazione. E qui soccorre la logica:

- se una riserva è “assoluta”, ciò significa che la fonte primaria è decisamente da preferire rispetto alla fonte secondaria;

- se una riserva è “relativa”, il divario tra fonte primaria e fonte secondaria tende a diminuire;

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- la riserva di legge non preclude, come dimostrato dall’esempio delle sostanze stupefacenti, l’intervento di fonti secondarie: pertanto, alle fonti secondarie bisogna pur sempre “concedere” qualcosa. Ma cosa ? Solo l enorme di specificazione o anche quelle di svolgimento ?

Considerando questi tre elementi di riflessione, si può logicamente affermare che: a) nella riserva assoluta, anche le norme di svolgimento sono riservate alla fonte primaria,

mentre le fonti secondarie possono produrre solo norme di specificazione; b) nella riserva relativa, le fonti secondarie possono essere “autorizzate” dalla fonte primaria a

produrre sia norme di svolgimento che norme di specificazione. Proviamo a sintetizzare questo ragionamento nella seguente tabella:

Tipologia di norme RISERVA ASSOLUTA RISERVA RELATIVA

Norma di PRINCIPIO

FONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIA

FONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIA

Norma di SVOLGIMENTO

FONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIAFONTE PRIMARIA

FONTE SECONDARIA

Norma di SPECIFICAZIONE

FONTE

SECONDARIA

FONTE SECONDARIA

È, però, necessaria una precisazione: la tabella indica lo spazio che la fonte primaria non può mai cedere alla fonte secondaria. Pertanto, in una materia coperta da riserva assoluta, la fonte primaria potrebbe anche produrre le norme di specificazione, così come in una materia coperta da riserva relativa, la fonte primaria potrebbe lasciare alle fonti secondarie soltanto le norme di specificazione. Alla luce di questa tabella, e, soprattutto, del complessivo ragionamento prima sviluppato, si può affermare che: 1) nelle materie coperte da riserva assoluta di leggeriserva assoluta di leggeriserva assoluta di leggeriserva assoluta di legge possono intervenire anche fonti secondarie, ma solo per porre norme di specificazione, essendo quelle di principio e quelle di svolgimento riservate alla fonte primaria; 2) nelle materie coperte da riserva relativa di leggeriserva relativa di leggeriserva relativa di leggeriserva relativa di legge possono intervenire anche fonti secondarie, per porre sia norme di svolgimento che di specificazione, ma mai norme di principio, essendo queste ultime riservate alla fonte primaria. B) Sul criterio cronologico Per evidenti ragioni di certezza del diritto, la norma giuridica dovrebbe essere applicata soltanto a fatti e comportamenti successivi alla sua entrata in vigore. Solo in questo modo, infatti, è per noi possibile pianificare le nostre azioni prevedendo le conseguenze giuridiche associate ad esse. Tuttavia, non mancano norme giuridiche, per lo più prodotte da leggi, che pretendono di trovare applicazione anche in relazione a fatti e comportamenti che si sono verificati prima della loro entrata in vigore. Quando una legge, oltre a disporre per il futuro (com’è naturale), regola anche fatti già avvenuti (com’è, invece, innaturale), allora si parla di retroattività retroattività retroattività retroattività della legge.

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Una legge retroattiva è un problema per la certezza del diritto, perché spesso impone sacrifici e oneri a carico di comportamenti che, quando furono posti in essere, erano disciplinati da regole meno gravose.

Un imprenditore decide di intraprendere una certa attività commerciale puntando sul favorevole regime fiscale a cui tale attività è sottoposta. Dopo qualche anno interviene una legge che, retroattivamente, introduce un regime fiscale più pesante. Questo significa che l’imprenditore dovrà pagare più tasse per il futuro e dovrà anche pagare la differenza tra quanto pagato in passato e quanto dovrà pagare per effetto della nuova legge (cd. conguaglio). Non è improbabile che se avesse conosciuto in anticipo il nuovo e più pesante regime fiscale, questo imprenditore avrebbe fatto altro. Altro esempio. In un dato momento coloro che svolgono una certa attività economica devono rispettare alcuni oneri burocratici: licenza del questore, rispetto di alcuni requisiti relativi all’immobile adibito a questa attività. Interviene, quindi, una nuova legge che aggiunge nuovi oneri burocratici: occorre ottenere anche una autorizzazione del comune, sono introdotti requisiti più rigorosi quanto all’immobile. Questa nuova disciplina si applica non solo alle nuove attività economiche, ma anche a quelle già operanti. I “vecchi” imprenditori dovranno, quindi, chiedere l’autorizzazione al sindaco e dovranno conformare i locali ai nuovi e più rigorosi requisiti. Tutto ciò comporta nuove ed ingenti spese che non tutti riescono a fronteggiare. Dunque, molte imprese chiudono.

Ebbene, sono legittime le leggi retroattive leggi retroattive leggi retroattive leggi retroattive ? Per rispondere a questo interrogativo occorre cercare nell’ordinamento un eventuale divieto, non prima di aver precisato che stiamo parlando di fonti primarie del diritto (ossia leggi e atti aventi forza di legge). Per semplicità, d’ora in avanti si farà riferimento alla “legge”. L’art. 11 delle cd. Preleggiart. 11 delle cd. Preleggiart. 11 delle cd. Preleggiart. 11 delle cd. Preleggi stabilisce che «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». C’è, dunque, una norma che pone un divieto generale di retroattività della legge. Occorre, però, domandarsi se questo divieto è in grado di vincolare, ossia di obbligare il legislatore a produrre norme giuridiche non retroattive. Le cd. Preleggi furono approvate contestualmente al codice civile del 1942. Tecnicamente le Preleggi (Disposizioni sulla legge in generale) sono state adottate con regio decreto, una sorta di decreto legislativo. Come tali, le Preleggi sono fonti primarie del diritto, dunque equiparate alla legge. Ora, stando ai criteri di composizione delle antinomie dapprima descritti, può una fonte primaria vincolare future fonti primarie ? Se una legge successiva al 1942 è retroattiva, allora si ha una antinomia tra questa e l’art. 11 delle Preleggi. Trattandosi di fonti collocate sul medesimo piano, siamo in presenza di una antinomia orizzontale. Le Preleggi non sono una fonte a competenza riservata, dal momento che di essa non v’è traccia nella Costituzione del 1948. Dunque, non si applica il criterio di competenza bensì quello cronologico. Ne consegue che le Preleggi nonnonnonnon possono vincolare le leggi future. Il divieto di cui all’art. 11 delle Preleggi, per quanto ispirato al fondamentale valore della certezza del diritto, non non non non è applicabile alle leggi. L’art. 25, secondo comma, della Costituzioneart. 25, secondo comma, della Costituzioneart. 25, secondo comma, della Costituzioneart. 25, secondo comma, della Costituzione stabilisce che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Questa disposizione fissa un chiaro divieto di retroattività. Una persona può essere punita solo se, quando ha materialmente commesso il fatto, questo era previsto come reato. Tale divieto, in quanto stabilito dalla Costituzione, che è fonte superprimaria, è idoneo a vincolare e obbligare le leggi e le altre fonti primarie. Tuttavia, siamo davvero in presenza di un divieto generale di retroattività, ossia di un divieto valido per tutte le leggi ? La risposta è negativa.

Infatti, questo divieto riguarda solo una specifica tipologie di leggi, vale a dire le leggi che prevedono reati. Più precisamente, siamo nel campo del diritto penalediritto penalediritto penalediritto penale, cioè in quel settore del diritto oggettivo dove alcuni comportamenti non solo sono vietati, ma sono puniti con le sanzioni più severe: la reclusione (quindi, limitazione della libertà personale) e/o la multa (sacrifico in denaro).

Pertanto, affinché un giudice possa condannare un individuo è necessario che, al momento della commissione del fatto, quel fatto fosse previsto come reato reato reato reato (→ illecito penale).

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La legge penale, che introduce nuove figure di reato, può farlo solo per il futuro e mai per il passato.

In definitiva, il divieto di retroattività, di cui allil divieto di retroattività, di cui allil divieto di retroattività, di cui allil divieto di retroattività, di cui all’’’’art. 25, secondo comma, della Costituzione, si art. 25, secondo comma, della Costituzione, si art. 25, secondo comma, della Costituzione, si art. 25, secondo comma, della Costituzione, si applica alle solo norme penalapplica alle solo norme penalapplica alle solo norme penalapplica alle solo norme penali incriminatricii incriminatricii incriminatricii incriminatrici.

L’aggettivo “incriminatrici” è importante. Infatti, il diritto penale non è composto solo da norme penale che prevedono reati. Esso include anche norme che impediscono ad un giudice di condannare una persona: così le norme penali che prevedono le già menzionate cause di giustificazione: legittima difesa, stato di necessità, adempimento del dovere, consenso dell’avente diritto. Non solo. A volte la legge penale interviene non per introdurre nuovi reati, ma per eliminare vecchi reati. Queste norme “alleggeriscono” la posizione degli individui di fronte al diritto penale, consentendo loro comportamenti leciti: o perché c’è una causa di giustificazione o perché un dato reato è stato abrogato. Queste norme vengono definite norme penali di favorenorme penali di favorenorme penali di favorenorme penali di favore e sono sempre sono sempre sono sempre sono sempre retroattiveretroattiveretroattiveretroattive. Nel diritto penale, infatti, tutto ciò che è negativo per le persone vale solo per il futuro, e tutto ciò che è positivo per le persone vale anche per il passato. Ciò in quanto è in gioco il bene fondamentale della libertà personale.

Riassumendo: - la Costituzione non prevede un divieto generale di retroattività; - il divieto generale di retroattività stabilito dalle Preleggi non è vincolante per le fonti primarie del diritto (lo è invece per le fonti secondarie, quali i regolamenti, in forza del criterio gerarchico); - la Costituzione: - vieta la retroattività delle norme penali incriminatrici (che producono un effetto sfavorevole a danno degli individui); - impone la retroattività delle norme penali di favore (che producono un effetto favorevole a vantaggio degli individui). Ebbene, ciò significa che le leggi italiane possono essere sempre e comunque retroattive ? Sì, le leggi possono essere retroattive, anche quelle più “antipatiche” come le leggi tributarie. Tuttavia, la Corte costituzionale ha fissato alcune condizioni e alcuni limiti affinché le leggi retroattive siano legittime.

1) CondizioniCondizioniCondizioniCondizioni. Le leggi retroattive compromettono il legittimo affidamentolegittimo affidamentolegittimo affidamentolegittimo affidamento di ogni persona quanto alla stabilità del diritto oggettivo. Ogni individuo è consapevole che le leggi possono cambiare, anche in peggio. Tuttavia, egli deve poter prevedere in anticipo le conseguenze giuridiche delle proprie azioni e quando una legge interviene retroattivamente questa pianificazione viene impedita. Pertanto, la Corte costituzionale, nella ricerca di un difficile bilanciamento tra le ragioni del legislatore (che deve sentirsi libero di cambiare le leggi) e le ragioni delle persone (che devono poter confidare su una certa stabilità delle leggi), sottopone le leggi retroattive ad un rigoroso giudizio di ragionevolezzarigoroso giudizio di ragionevolezzarigoroso giudizio di ragionevolezzarigoroso giudizio di ragionevolezza. La ragionevolezza è un limite generale delle leggi. La Corte costituzionale ne fa un uso frequente. La ragionevolezza è uno strumento di controllo delle leggi molto invasivo perché permette alla Corte non certo di entrare nel merito delle scelte politiche del legislatore, ma di effettuare controlli che vanno oltre il semplice confronto tra la legge e la Costituzione. Così, una legge non è irragionevole, ad esempio: - quando è strettamente necessaria in relazione agli interessi in gioco; - quando le misure in essa previste sono proporzionate rispetto al fine da raggiungere; - quando un eventuale divieto è la extrema ratio, ossia l’unica soluzione possibile per fronteggiare un determinato problema; - quando riflette correttamente la realtà su cui è destinata ad incidere con mezzi appropriati.

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Ebbene, ove si tratti di legge retroattiva, la Corte diviene molto più severa nel verificare la sua ragionevolezza. Spesso, per garantire il rispetto della ragionevolezza, la Corte esige che il passaggio retroattivo da un regime favorevole ad un regime meno favorevole sia graduato attraverso l’introduzione di norme transitorienorme transitorienorme transitorienorme transitorie. Per alcuni rapporti, cioè, pur verificatisi in passato, rimane la vecchia disciplina oppure ad essi si applica una disciplina intermedia tra il vecchio e il nuovo regime. Tutto ciò serve a rendere più graduale la transizione tra due discipline. 2) LimitiLimitiLimitiLimiti. Le leggi retroattive non possono mai modificare i rapporti giuridrapporti giuridrapporti giuridrapporti giuridici esauritiici esauritiici esauritiici esauriti. Sono tali i rapporti che, in presenza di determinati atti o fatti, si consolidano a tal punto che neanche la legge può più modificarli. In effetti, ancora una volta in ragione della certezza del diritto, arriva un momento in cui un rapporto giuridico controverso raggiunge una forma definitiva, non più scalfibile, così che i soggetti interessati conoscano con certezza le implicazioni giuridiche di quella situazione. Ebbene, quando un rapporto giuridico può considerarsi “esaurito” ? a) Una sesesesentenza civile passata in giudicatontenza civile passata in giudicatontenza civile passata in giudicatontenza civile passata in giudicato esaurisce un rapporto giuridico. Una volta esauriti tutti i rimedi processuali, una data controversia può considerarsi conclusa quando il giudice emette una decisione definitiva, vale a dire una sentenza che non può più essere messa in discussione. Attenzione ! Il discorso è diverso per le sentenze penali passate in giudicato. Se una persona viene condannata in via definitiva per un reato, e questo, in seguito, viene abrogato, egli verrà immediatamente liberato. Si suol dire che l’abrogazione di un reato travolge anche il giudicato. Perché questa differenza rispetto alle sentenze civili passate in giudicato ? Per le stesse ragioni in precedenza esposte, relativamente al diritto penale (ripeto: nel diritto penale tutto ciò che è negativo per le persone vale solo per il futuro, e tutto ciò che è positivo per le persone vale anche per il passato). b) La prescrizione prescrizione prescrizione prescrizione esaurisce un rapporto giuridico. Se un individuo non esercita un potere a lui attribuito dal diritto oggettivo entro un determinato termine, questo potere viene meno: e viene meno in maniera definitiva, in quanto il soggetto non può cambiare idea e “ricordarsi” in ritardo di avvalersi di quel potere. Lo stesso vale per l’istituto affine della decadenzadecadenzadecadenzadecadenza. c) I diritdiritdiritdiritti quesititi quesititi quesititi quesiti esauriscono un rapporto giuridico. Partiamo da un esempio. Tizio, dopo aver maturato il diritto alla pensione, inizia a ricevere dall’istituto previdenziale una certa somma di denaro ogni mese, calcolata secondo le regole applicabili quando egli lavorava. Ebbene, il diritto al conseguimento di quella pensione è un diritto quesito, nel senso che è stato acquisito definitivamente nel patrimonio giuridico del pensionato. È un diritto inattaccabile, che dunque la legge non potrà eliminare retroattivamente. La consistenza della pensione potrà essere intaccata, ad esempio, dall’aumento delle tasse o dalla diminuzione delle detrazioni. Tuttavia, Tizio avrà sempre diritto a quella pensione.

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Capitolo IV VERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAVERSO LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA

Sezione I LA COSTITUZIONE IN GENERALE

La nozione di Costituzione nella teoria generaleLa nozione di Costituzione nella teoria generaleLa nozione di Costituzione nella teoria generaleLa nozione di Costituzione nella teoria generale

Di seguito è riportato un estratto della voce Costituzione, scritta da S. Bartole per il Digesto, IV ed., Discipline pubblicistiche. La nozione di costituzionecostituzionecostituzionecostituzione è relativamente recente. Le prime carte costituzionali furono redatte alla fine del Settecento negli Stati Uniti, per suggellare il patto che ha unito le ex colonie britanniche che avevano dato vita ad un nuovo Stato, e in alcuni Stati europei, a cominciare dalla Francia rivoluzionaria. È proprio l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dellart. 16 della Dichiarazione dei diritti dellart. 16 della Dichiarazione dei diritti dellart. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’’’’uomo e del cittadinouomo e del cittadinouomo e del cittadinouomo e del cittadino del 1789 a definire l’essenza e la funzione della Costituzione: «ogni società, che non tutela i diritti e che non prevede la separazione dei poteri, non ha una costituzione». Da questo enunciato si desume che il compito fondamentale della costituzione è tutelare i diritti dei consociati. In verità, i diritti soggettivi sono sempre stati tutelati, in misura più o meno intensa, sin dalle più risalenti esperienze giuridiche (diritto greco e diritto romano). Questi diritti, però, erano tutelati nei rapporti tra individui: si pensi solo alle molteplici forme di protezione che hanno presidiato nel tempo la proprietà privata, ossia l’archetipo dei diritti soggettivi. Con la rivoluzione francese si assiste ad un vero e proprio salto di qualità. I diritti sono protetti anche, e innanzitutto, nei confronti del potere, dell’autorità. Sino a quel momento, il sovrano, tramite i propri funzionari, poteva disporre arbitrariamente delle libertà dei sudditi, a cominciare dalla libertà personale. Solo in Inghilterra, questo bene giuridico aveva ricevuto una qualche protezione già parecchi secoli prima. Nel resto d’Europa non era così. L’autorità, incarnata nel monarca assoluto titolare della sovranità e detentore di tutti i poteri, poteva liberamente disporre arresti, perquisizioni, espropri, limitazioni o divieti alla circolazione delle persone, e via dicendo. Con l’avvento del costituzionalismocostituzionalismocostituzionalismocostituzionalismo, alla costituzione è affidato il compito di proteggere i diritti proteggere i diritti proteggere i diritti proteggere i diritti fondamentali delle persone nei confronti delle istituzioni pubblichefondamentali delle persone nei confronti delle istituzioni pubblichefondamentali delle persone nei confronti delle istituzioni pubblichefondamentali delle persone nei confronti delle istituzioni pubbliche: diritti che, per l’appunto, furono definiti fondamentali in quanto libertà prediate dalla costituzione verso gli abusi del potere.

Così, una costituzione stabilisce se e come si possano limitare i diritti inviolabili: libertà personale, domicilio, corrispondenza, circolazione, manifestazione del pensiero, riunione, associazione, libertà di culto. Ciò significa che, per ragioni di ordine pubblico, tali diritti ben possono essere “violati” dalle autorità statali (ossia limitati: si pensi all’arresto, alle perquisizioni, alle intercettazioni, ai divieti), ma solo nel rispetto delle condizioni e dei limiti stabiliti dalla costituzione.

Si noti che il pericolo per i diritti fondamentali non si annida solo dietro le attività delle forze di polizia (che procedono agli arresti, alle perquisizioni, alle intercettazioni, ai sequestri, ecc.) (→ potere esecutivo) e degli organi giudiziari (che indagano sui reati, che condannano gli imputati) (→ potere giudiziario). Infatti, anche la legge può diventare un’arma da brandire contro i diritti fondamentali (→ potere legislativo).

La legge è il prodotto di un processo decisionale che si svolge in un parlamento, vale a dire in una assemblea composta dai rappresentanti del popolo scelti tramite una competizione elettorale. Alla fine della discussione, decide comunque la maggioranza. Quest’ultima ha un obiettivo da raggiungere: conservare il potere il più a lungo possibile, dunque, vincendo anche le nuove elezioni e quelle successive ancora. A contrastare questo fine ci pensa l’opposizione, che si avvarrà di tutti i

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mezzi leciti per criticare l’operato della maggioranza e, quindi, per spingere l’opinione pubblica a votare contro. Stando così le cose, è tangibile la tentazione della maggioranza di approvare leggi con il solo scopo di indebolire l’opposizione, e la strada più congeniale da seguire potrebbe essere proprio quella della limitazione forte dei diritti fondamentali. Si pensi, così, a leggi che limitano la libertà diparola, o il diritto di riunirsi o di associarsi, e così via.

Ecco perché anche il potere legislativo può diventare un’arma impropria nelle mani della maggioranza per conservare il potere nel tempo a danno della minoranza.

La costituzione, quindi, per evitare abusi da parte delle autorità, limitano tutti e tre i poteri dello

Stato: legislativo, esecutivo, giudiziario. Questo spiega l’altro elemento costitutivo della nozione di costituzione di cui al citato art. 16, ossia la separazione dei poteriseparazione dei poteriseparazione dei poteriseparazione dei poteri. I tre poteri dello Stato sono attribuiti a organi diversi. La diversità tra organi non sta solo nel nome (parlamento, governo, magistratura), ma nella differente modalità di scelta di coloro che sono chiamati a ricoprire quegli incarichi istituzionali. Il parlamento è eletto dal popolo, il governo ha una investitura variabile ma comunque diversa da quella dell’assemblea legislativa, i magistrati sono reclutati tramite concorso. La separazione dei poteri è un ingrediente indispensabile nella ricetta che la costituzione ha elaborato per proteggere i diritti fondamentali. Infatti, i diversi organi si controllano a vicenda, pur operando entro sfere distinte. Da sempre la concentrazione del potere in capo ad un solo organo è stata la minaccia più seria ai diritti fondamentali, dal momento che questo organo (il più delle volte un monarca assoluto) poteva agire indisturbato, essendo sottratto a qualsiasi forma di controllo. Prima si è fatto riferimento al costituzionalismo: questa è la corrente di pensiero che ha esaltato il ruolo della costituzione quale baluardo difensivo dei diritti fondamentali. In realtà, a partire dal 1803 si registra una divaricazione tra il costituzionalismo nordamericano e il costituzionalismo dell’Europa continentale. Nel 1803 la Corte suprema degli Stati Uniti (organo di vertice del’apparato giudiziario federale) ha per la prima volta dichiarato una legge del Congresso (l’equivalente del nostro Parlamento) in contrasto con la Costituzione. L’antinomia è stata risolta, quindi, a favore della fonte del diritto ritenuta di più alto livello. I giudici della Corte suprema, infatti, hanno ammesso che solo non applicando leggi contrarie alla Costituzione questa avrebbe davvero potuto operare quale atto normativo fondamentale degli Stati Uniti (→ caso Marbury versus Madison). Contemporaneamente, nella Francia rivoluzionaria si afferma l’idea che la legge votata dal Parlamento sia la fonte de diritto più importante. Il Parlamento è composto dai rappresentanti del popolo sovrano. La legge è, quindi, espressione della volontà della nazione. Pertanto, la costituzione fu considerata a lungo come una fonte equiparata alla legge, come tale modificabile dalle maggioranze a seconda della evoluzione degli indirizzi politici e dei rapporti sociali. Tutti gli altri stati europei finirono con l’aderire a questa concezione della costituzione. Il divario tra queste due forme di costituzionalismo scompare con la fine della seconda guerra mondiale. Le nefaste esperienze del nazismo e del fascismo dimostrarono la debolezza di costituzioni (la Costituzione di Weimar in Germania, lo Statuto albertino in Italia) considerate alla stessa stregua delle comuni leggi. L’epilogo di tali regimi segnò finalmente l’affermazione della costituzione quale fonte suprema dell’ordinamento, come tale idonea a vincolare e a limitare le leggi volute dalla maggioranza. Si afferma, così, lo Stato costituzionale di dirittoStato costituzionale di dirittoStato costituzionale di dirittoStato costituzionale di diritto: i tre poteri dello Stato sono egualmente sottomessi alla costituzione. S. BARTOLE, voce Costituzione (dottrine generali e diritto costituzionale), in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. IV, Utet, Torino, 1989, pp. 288 ss.

1. Molteplicità di significati del termine costituzione. La Costituzione come carta costituzionale: ragioni e conseguenze del ricorso alla redazione scritta della costituzione.

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È frequente la constatazione che la parola costituzione viene usata in una molteplicità di significati,

anche quando non viene ulteriormente qualificata con il ricorso ad uno degli aggettivi cui abitualmente si accompagna (formale, materiale, rigida, flessibile, politica, vivente, ecc.)(1). Questo dato non può essere formalmente trascurato, assumendo a priori questo o quel punto di vista, giacché frequentemente al termine costituzione vengono assegnati significati diversi pur all’interno di una stessa disciplina: all’esperienza ormai scontata della scienza giuridica costituzionalistica, cui ha in particolare riguardo, ovviamente, questa voce, si è aggiunta di recente la constatazione in sede politologica che «there is no doubt considerable frustation in being confronted with so wide a term» (2). Ambiguità e confusione travalicano i confini linguistici, come quelli fra le discipline scientifiche, tanto più che pare di scarsa utilità la comune ascendenza latina delle parallele parole italiana (costituzione), francese (constitution) e inglese (constitution)(3). E però, d’altra parte, non è nemmeno sufficiente limitarsi ad una mera elencazione dei diversi significati possibili(4), eventualmente accompagnata da una trattazione separata e distinta degli stessi. Il fatto è che quei significati rimandano a differenti e differentemente argomentate teorie cui corrispondono concezioni diverse della costituzione. Proprio perché tutte sono volte a comprendere e spiegare lo stesso ordine di problemi, tali teorie non possono costituire oggetto di trattazioni separate e distinte, e vanno invece esaminate all’interno di un unico discorso, non solo per arrivare da diversi punti di vista ad una comprensione complessiva e sintetica dei fenomeni esaminati. Si tratta anche di verificare se fra le varie teorie e, quindi, fra le varie concezioni della costituzione corrano fili più o meno appariscenti che tutte le colleghino nella trama dello sviluppo della ricerca scientifica. Il che, fra l’altro, potrebbe essere al tempo stesso sintomo e conseguenza del fatto della perenne attualità del problema della costituzione: «tout groupement politique comporte une constitution qui exprime sa manière d’être» (5).

Questa ipotesi è stata, però, revocata in dubbio autorevolmente da chi sostiene che nel xviii secolo il termine costituzione «era da lungo termine vacante», disponibile, quindi, per un uso che, ripartendo per così dire da zero, gli assegnasse un significato tutto proprio e originale, teleologicamente collegato agli obiettivi del filone di pensiero che ha preso il nome di costituzionalismo(6). Gli intendimenti sottostanti a tale presa di posizione sono molteplici. Vi è anzitutto il proposito di riproprorre il legame fra l’avvento delle costituzioni moderne nell’America del Nord e nell’Europa del ‘700 e le dottrine politiche che quell’avvento hanno favorito.

È certo che quel legame era andato via annebbiandosi ed era destinato a restare dimenticato nella misura in cui è venuto prendendo piede, specialmente fra i giuristi, un significato «cosmico e formale» di costituzione: «‘costituzione’ è qualsiasi forma che uno Stato si dà» (7). Con la diffusione delle costituzioni scritte, con la loro sempre più frequente utilizzazione da parte di regimi politici che nulla hanno a che fare con le dottrine costituzionalistiche(8), e con i loro più recenti svolgimenti non ha più riscontro nella realtà la dichiarazione dell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789 per cui «toute societé dans la quelle la garantie des droits, n’est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution». Reagendo a questi svolgimenti contemporanei e sottolineando l’incongruenza con la tradizione del pensiero costituzionalistico delle posizioni di quanti, fermandosi all’apparenza formale delle costituzioni, ne trascurano i contenuti, Sartori mira a porre in evidenza le finalità garantistiche che hanno accompagnato l’introduzione delle costituzioni settecentesche(9).

Lo spunto è stimolante, e tuttavia non aiuta un pieno chiarimento del problema che ci sta di fronte. Certamente soddisfa anche all’ulteriore proposito, forse non esplicitamente formulato ma chiaramente evidente; di dare adeguata collocazione all’apporto dato in materia, accanto e prima della vicenda rivoluzionaria francese, dall’esperienza americana. È però contemporaneamente, coinvolgendo nel discorso anche il tema della costituzione inglese, ove la realizzazione degli obiettivi garantistici resta principalmente affidata a strumenti di ordine politico e sociale(10), confonde in parte i termini della questione. Non è, cioè, possibile prescindere dal fatto che sia in America che in Francia il fenomeno è strettamente legato all’adozione di costituzioni scritte, cioè alla redazione scritta di documenti giuridicamente rilevanti. Non è consentito liquidare il fatto con la considerazione che «sia come sia, una costituzione tutta codificata in un unico documento è soltanto un mezzo» (11). L’adozione delle costituzioni scritte pare essere un aspetto significante e imprescindibile del costituzionalismo settecentesco, nella misura in cui comporta la giuridicizzazione dei rapporti costituzionali nei termini di una delimitazione del potere arbitrario e della garanzia di un governo limitato. Questo processo di giuridicizzazione trova stabilità e certezza nel documento scritto, al tempo stesso recuperando in queste peculiari caratteristiche un supporto, un sostegno al ruolo che la costituzione è chiamata a svolgere in quanto legge fondamentale.

Il punto si coglie molto bene nella sequenza che segna gli sviluppi del pensiero politico nordamericano antecedente e contemporaneo all’adozione degli Articoli della Confederazione prima (1776), e della

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Costituzione poi (1787). Il punto di arrivo è l’idea di «a written superior law set above the entire government against which all other law is to be measured», con la quale — a detta di Gordon Wood — «so enthralled have Americans become... that it is difficult to appreciate a contrary conception» (12). Ma questa idea non nasce senza un travaglio ed è proprio cogliendo questo travaglio che riusciamo a meglio apprezzare il risultato raggiunto. Al momento dello scoppio della controversia con l’Inghilterra la concezione della costituzione prevalente fra i coloni era quella che essi avevano ereditato dalla tradizione del pensiero politico inglese. Con la parola costituzione non si alludeva né ad un documento scritto né ad «an unwritten but deliberately contrived design of government and a specification of rights beyond the power of ordinary legislation to alter» (13).

Se John Adams poteva scrivere che una costituzione politica è simile alla costituzione del corpo umano, egli non faceva che riprendere l’idea che la costituzione non era nulla di anteriore o superiore al sistema di governo e alla stessa legge ordinaria, giacché si identificava con quell’insieme di leggi, costumi e istituzioni che formava il sistema generale, secondo il quale i diversi poteri dello stato venivano distribuiti, e ai singoli membri della comunità erano assicurati i rispettivi diritti(14). Agli inizi, dunque, l’idea di costituzione non si discostava da quella dell’assetto attuale del potere e dei rapporti tra il potere e il popolo, che, del resto, era l’unica idea praticabile e comprensibile dal pensiero politico inglese del ‘700, in mancanza di una costituzione scritta, e in presenza della ferma convinzione che, consuetudini e leggi in vigore di un paese dovendo corrispondere a ragione, erano anche il più sicuro criterio attuale di ciò che per ragione doveva intendersi(15). Il riferimento alla ragione consentiva che si parlasse di «animating principles... stamina vitae», capaci di dare scopo e direzione al complesso delle leggi e dei costumi, ma non era in sostanza pensabile che vi fosse una qualche contraddizione fra la costituzione e quelle leggi e costumi, sì da dare alla prima una propria, autonoma e distinta identità e da differenziarla così dagli assetti attuali e vigenti(16).

Una siffatta concezione era però destinata ad entrare in crisi nel momento in cui, venendo in conflitto con il Parlamento inglese, i coloni ne giungevano a contestare le determinazioni. Gli atti del Parlamento che erano oggetto di contestazione non potevano più essere considerati «declaratory of the ancient principles of the Common law» e, perciò, espressivi di una razionalità direttamente discendente da Dio: non era così più accettabile la stessa idea che se a Dio spettava lo jus dare, al Parlamento competeva di jus dicere(17). Il potere del legislativo doveva essere assoggettato a vincoli e limitazioni, e ci si doveva garantire che quando questi risultassero violati, i suoi atti si potessero considerare viziati(18). Ma per giungere ad un esito siffatto quei vincoli e limiti dovevano essere anzitutto enunciati in forma espressa ed essere, quindi, contrassegnati da caratteristiche di certezza e stabilità. È su questi motivi che si sviluppa una svolta nell’idea di costituzione. Supremazia e continuità della costituzione sono due facce della stessa medaglia, e, proprio perché la costituzione è qualcosa di permanente, il Parlamento non può fare leggi in ispregio di essa. Fra costituzione e forma attuale di governo non vi può essere confusione: tutte le nazioni hanno un governo, ma solo poche hanno realmente una costituzione. Sulla scorta di questa posizione così drastica e chiara si poteva giungere addirittura a prendere le distanze dall’esperienza inglese, portando alle ultime conseguenze il già ricordato conflitto con quel Parlamento: se la funzione primaria della costituzione è quella di fissare «the boundaries of governmental powers», il potere del legislativo in Inghilterra non conosce limiti, perché ivi «there was no constitution» (19).

... A considerazioni diverse si presta l’esperienza costituzionale della Rivoluzione francese, e però anche

dal suo esame si traggono indicazioni che permettono di meglio precisare e sviluppare, se non parzialmente superare l’indicazione data da Sartori. Anche in Francia all’inizio ritroviamo una concezione meramente esistenziale della costituzione, subito però integrata e corretta da preoccupazioni più immediatamente operative. Il regno ha già una costituzione, che è quella consegnata al suo assetto tradizionale, ma essa è però caduta in oblìo sicché bisogna restaurarla. E per restaurarla fa d’uopo passare ad una sua stesura scritta: è questo il compito che i cahiers affidano ai delegati alla riunione degli Stati Generali del 1789(21). L’esigenza della formulazione espressa così si sovrappone al retaggio di una legge fondamentale che pure anche in Francia la tradizione consegna ai tempi moderni(22). E, però, all’atto stesso in cui il Terzo Stato si costituisce in Assemblea Costituente, i termini propri del problema si rovesciano: la stesura della costituzione non ha più da essere soltanto la ricognizione formale (eventualmente sorretta dai crismi dell’intervento regio) del tradizionale assetto del potere(23), ma deve essere qualche cosa di più. Alla costituzione, infatti, si attribuisce ormai un significato più pregante: essa esprime sì «un ordine fisso e stabilito nella maniera di governare», e però quest’ordine deve appoggiarsi «su delle regole fondamentali, create dal consenso libero e formale di una nazione o di coloro che essa ha scelto per rappresentarla», sicché all’origine vi ha da essere una scelta esplicita. «Quando la maniera di governare non deriva dalla volontà del popolo chiaramente espressa, esso non ha una

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costituzione» (24). Prende così piede una concezione normativa di costituzione, frutto di una volontà destinata a progettare e conformare di sé il futuro della comunità che l’adotta. Non si ammette più che la costituzione si faccia lentamente, nei secoli, nel sedimento della tradizione. Essa ha da essere il frutto di una decisione responsabile. Ancora una volta la rottura con l’esperienza inglese non potrebbe essere più netta (e, del resto, ciò è confermato in qualche modo dallo stesso Sartori)(25). Tuttavia, il distacco e la contrapposizione delle sue esperienze non si ferma qui.

Quanto meno nel modello interpretativo che l’abate Sieyès proponeva ai suoi contemporanei doveva esserci una netta distinzione e separazione fra potere costituente e potere legislativo. Quest’ultimo non era collocato in una posizione di supremazia all’interno del sistema, come invece avveniva in Inghilterra, giacché una tale posizione spettava al primo, cioè al potere costituente. La costituzione era opera del potere costituente, ad essa le leggi prodotte dal legislatore ordinario non potevano derogare, giacché «nessuna specie di potere delegato può introdurre dei cambiamenti nelle condizioni della sua delega» (26).

Vi è una concordanza di orientamento di fondo fra la teoria di Sieyès e le posizioni che abbiamo trovato espresse dai coloni americani. In un caso e nell’altro la costituzione è considerata come la legge fondamentale, essa stessa una legge positiva e però sovraordinata alle leggi ordinarie. Ma il costituzionalismo americano, accennando alla possibilità che la legge ordinaria contrastante con la costituzione possa definirsi viziata, poneva le premesse per il controllo di costituzionalità, ovvero per una sua ripresa (nella forma del judicial review) per chi vede un antecedente di questo nel famoso Bonham’s Case(27). Era solo uno spunto che avrebbe, tuttavia, dato di lì a poco i suoi frutti(28). D’altra parte, comune in qualche modo era la giustificazione della peculiare resistenza alle modifiche della costituzione: la specialità del potere da cui la costituzione traeva origine. E però, mentre l’abate francese idealizzava il ruolo del popolo parlando di nazione e, perciò, di popolo esistente e presupposto come unità politica(29), molto più concretamente in America, pur riconoscendo che «the constitution should be the avowed act of the poeple at large», si ammetteva con maggiore concretezza che la revisione della costituzione poteva anche non coinvolgere l’originario potere costituente, in quanto si poteva ritenere che la carta era «irrepeable and unalterable by any authority but the express consent of a majority of the citizens collected by such regular mode as may be therein provided» (30). Infine analoga divaricazione, sempre sul fronte della rivedibilità della costituzione, poteva cogliersi fra l’atteggiamento più pragmatico delle dottrine americane, per cui il tema della garanzia dei diritti naturali era anzitutto quello della ricerca di una chiara e adeguata linea divisoria fra i poteri concessi dalla costituzione all’autorità costituita e la sfera di autonomia e libertà che doveva comunque restare radicata in capo ai consociati, e una certa quale astrattezza del disegno di conservazione dei diritti sotteso alla concezione francese della costituzione e, in particolare, delle relative dichiarazioni(31).

... 2. (Segue). Contenuto e posizione fra le fonti delle costituzioni scritte.

Le conclusioni che abbiamo raggiunto consentono di affrontare il problema della definizione della

costituzione su un terreno più squisitamente giuridico, senza per questo perdere di vista i fattori di ordine storico ed ideologico che hanno accompagnato l’avvento delle prime costituzioni scritte e hanno in effetti caratterizzato il nostro problema con riguardo ad esse.

L’adozione delle prime carte scritte s’impone all’attenzione non tanto per il solo fatto tecnico della loro redazione in documenti ufficiali promananti da determinate autorità formalmente legittimate in base ai canoni più diversi, quanto per la circostanza che esse rappresentano il frutto di una scelta consapevole, diretta a dare norma in via previa e continuativa all’assetto delle istituzioni governanti di uno stato e dei rapporti di queste con i membri della collettività che in quello stato si riconosce. Si tratta, quindi, di atti giuridici aventi un contenuto tipizzato, che rispondono ad esigenze di tecnica giuridica motivata da una teoria dei rapporti costituzionali diversa da quella che identifica la costituzione con l’assetto presente delle istituzioni di un certo stato, e ne affida l’avvento e lo sviluppo ad un processo di lenta sedimentazione di usi, prassi e convenzioni, cioè ad un insieme di fatti inconsapevoli della loro connessione, anche se risultanti, ciascuno individualmente, da scelte volontarie e consapevoli(32).

Se ne ricava che almeno due sono gli ordini di problemi che alla dottrina giuridica le costituzioni scritte pongono al momento del loro avvento. Da un lato, c’è la questione dei contenuti della costituzione, che è strettamente correlata a quella della funzione della costituzione stessa, e c’è, dall’altro lato, il tema della posizione di quest’ultima fra gli atti fonte, anch’essa a sua volta collegata al profilo funzionale, restando così dimostrata la connessione che lega questi, che non sono che i molteplici aspetti dell’unico e complesso argomento che andiamo sviluppando.

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Di per sé considerata, la questione della funzione non dà luogo a particolari interrogativi, una volta che si accetti la riconduzione delle costituzioni all’ampia categoria degli atti giuridici, e ovviamente di quelli normativi in particolare (e nulla nell’esperienza storica considerata smentisce questa ipotesi). L’elemento di novità sta tutto nella già rilevata, consapevole assunzione della disciplina di una materia per l’innanzi rilasciata a un sistema di fonti più o meno casuale. Si attua, così, un tentativo di dare assetto unitario alle istituzioni e ai rapporti fra le istituzioni e i cittadini, sicché essenziale è proprio cogliere — per usare una terminologia certo poco e per nulla conosciuta dagli autori delle prime costituzioni — le materie e le submaterie per le quali l’esigenza di una disciplina unitaria si fa sentire. Ed è fin d’ora palese che l’individuazione dell’ambito operativo delle carte costituzionali non potrà non rivelarsi rilevante ai fini della definizione dell’altro ordine di problemi testé accennato.

Fin dall’inizio vi è, ad esempio, in America sufficientemente radicata l’idea che, in quanto atto normativo, la costituzione non si distingua dagli atti similari, se non per la particolare natura e la superiore importanza della materia trattata: dovendo costituire termine e misura dell’attività di governo, essa riguarda tale attività nel suo complesso, anche se con speciale attenzione al potere legislativo, e contiene quindi l’insieme delle regole fondamentali sulle quali è destinato a reggersi il supremo potere di uno stato(33). Analogo richiamo alla fondamentalità delle regole costituzionali ritroviamo in Francia, ove si parla di una forma determinata e costante di governo, ovvero — con una visione che realisticamente si allarga a quelli che oggi definiremmo i problemi della forma di governo — si allude alla costituzione come espressione dei diritti e degli obblighi dei diversi poteri che lo compongono(34). Per i suoi stessi contenuti, una costituzione è dunque destinata ad imporsi agli atti di autorità, giacché in essa debbono travare enunciazione tutti i limiti che si appongono ai poteri delegati(35). «Giammai le leggi non saranno eseguite», dice Monnier all’Assemblea Nazionale, «finché non si avrà distrutto il potere arbitrario mercé una precisa forma di governo... quando una volta la libertà sarà fissata... e il potere legislativo sarà determinato, le buone leggi si presenteranno naturalmente» (36). È dunque il contenuto stesso della costituzione ad assegnare a quest’ultima la posizione che è destinata ad occupare fra le fonti del diritto. Se da essa debbono discendere le regole costanti dell’attività di governo e, pertanto, dell’esercizio del potere, è inimmaginabile che da questo promanino — in quanto potere costituito — atti che si sostituiscono o si sovrappongono alla costituzione medesima. L’argomento è di ordine logico, ma ha anche una sua valenza giuridica, nella misura in cui parte dal presupposto che una regola di diritto s’impone all’osservanza dei suoi destinatari almeno in tanto e fin quando sia in vigore. È pertanto consentito di discostarsi dalle regole costituzionali solo in quanto si sia prima provveduto alla loro revisione. Si tratta di un principio di comune accettazione, che trova nella destinazione alla permanenza e continuità della costituzione un ulteriore motivo di conferma e giustificazione.

Ma il problema della collocazione della costituzione fra le fonti trova ulteriori elementi di precisazione e arricchimento su ambedue le coste dell’Atlantico, nella misura in cui, da un lato, si accenna alle giuridiche conseguenze del conflitto fra costituzione e legge ordinaria e, dall’altro lato, si collega il discorso della costituzione a quello sul potere costituente e sul ruolo che questo è chiamato a svolgere. L’idea che la legge del Parlamento contrastante con la costituzione sia viziata costituisce un elemento di garanzia dell’osservanza della costituzione e, quindi, della sua continuità e stabilità. In qualche modo questo risultato è anche raggiunto quando il potere di revisione della costituzione non viene separato dal potere costituente e, quindi, la sua attivazione può aversi solo alle condizioni eccezionali e speciali che hanno contrassegnato l’adozione della costituzione, ovvero quando si addivenga alla convocazione dello stesso organo cui si deve la deliberazione della costituzione. Esperienza americana e teorizzazione francese tendono di massima a convergere nei risultati, ma è una convergenza di breve periodo, giacché, mentre oltre oceano la teoria del judicial review completa il tema garantistico connesso alla prevalenza della costituzione come legge fondamentale, in Europa altre e diverse dottrine spingono sullo sfondo la teoria del potere costituente, riducendo la portata della garanzia costituzionale. Resta quello che potremmo chiamare il valore o peso specifico che alla costituzione deriva dai contenuti che le sono propri e, quindi, dal carattere per così dire preliminare della decisione che in essa trova manifestazione, ma la sua forza giuridica è tutta e soltanto legata al rispetto del principio per cui una regola non può essere disapplicata sinché non venga abrogata o modificata. Gioverà aspettare le meditazioni di Bryce perché al di qua dell’Oceano vi sia una ripresa di consapevolezza del tema della garanzia della costituzione(37), anche se già con le leggi della Terza Repubblica — e quindi dieci anni prima che Bryce richiamasse l’attenzione sulla distinzione fra costituzioni flessibili e costituzioni rigide — si era ripreso il principio che alla revisione della costituzione, rectius delle leggi costituzionali si poteva addivenire soltanto attraverso una procedura speciale e aggravata, diversa da quella seguita per l’adozione delle leggi ordinarie(38).

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È, però, importante osservare che se l’idea di una gerarchia formale che consentisse di porre la costituzione al vertice delle fonti del diritto conosce fortune diverse, ed è più dura a giungere a maturazione in Europa, andamento diverso ha l’opinione che, almeno in sede interpretativa, colloca comunque la costituzione in posizione di primazia fra le fonti e le assegna una posizione di vertice nel contesto di una gerarchia sostanziale o dei valori che, badando tuttavia, più che agli atti, alle norme che da essi si ricavano, gradua queste ultime in ragione dei loro contenuti e dei dati assiologici che in esse trovano manifestazione(39).

Così impostato, il problema si amplia e finisce per investire anche i rapporti tra le carte costituzionali e i loro preamboli o le dichiarazioni che in varia guisa le precedono. Tra gli uni e le altre vi è tendenzialmente somiglianza, anzi la ricerca storica ha dimostrato a sufficienza che è il preambolo della costituzione americana l’ascendente al quale già si era rivolta l’attenzione degli autori dei cahiers de doléances, in cui dapprima comparve la richiesta di una dichiarazione dei diritti(40). Ma proprio per il carattere proemiale che a quest’ultima si intendeva dare, la si voleva sin dall’inizio strettamente collegata al testo della carta, ad evitare il rischio «che delle idee contrarie e filosofiche, se non fossero accompagnate dalle conseguenze, permetterebbero di supporne altre da quelle che saranno ammesse dall’Assemblea» (41). La preoccupazione vale più per quello che lascia intendere nel bene e nel male che per quello che espressamente dice. Alla dichiarazione si pensa come ad una guida per l’implementazione del disegno di garanzia, alla cui persecuzione l’intera operazione costituente è rivolta. Si sente, quindi, l’esigenza di orientare e dirigere e il lavoro degli autori della futura costituzione e l’attività dei suoi futuri interpreti. Non ci si vuole tuttavia affidare alle clausole aperte dagli enunciati della dichiarazione, ma ci si propone di valorizzarne il valore direttivo fermandone il significato, bloccandone le potenzialità semantiche, ancorando quegli enunciati alle più concrete e circostanziate disposizioni della costituzione. Ci si può chiedere quale utilità possa avere un disegno normativo siffatto, destinato quasi ad invertire l’ordine abituale dell’argomentazione giuridica che vuole le dichiarazioni di principio destinate ad arricchire e definire il senso delle norme di specie, e non viceversa(42). E però va detto che non siamo probabilmente in presenza di una vera e propria inversione del genere di quella ipotizzata.

L’utilità ermeneutica della dichiarazione è fuori discussione, ma è anche fuori discussione che essa non può essere dilatata al di là dei significati attuali dei principi ad essa sottesi, quali si inverano nelle disposizioni costituzionali: tanto è che si propose di rinviare la definitiva adozione della dichiarazione stessa ad esame avvenuto di tutti gli articoli della costituzione(43).

L’impostazione la dice lunga sulla diffidenza dei costituenti francesi nei confronti degli interpreti. La discrezionalità di questi va, per così dire, controllata con una manovra a tenaglia, attribuendo, cioè, alla dichiarazione — come osservava Barnave — due utilità pratiche: «la prima è di fissare lo spirito della legislazione, affinché non la si cambi in avvenire; la seconda è di guidare lo spirito sul completamento di questa legislazione, che non può prevedere tutti i casi...» (44). Per quanto avulsi dal testo della costituzione, i principi della dichiarazione sono destinati a collocarsi in una posizione (forse di primazia sostanziale, ma in ogni caso) di parità materiale nei confronti delle norme costituzionali. Il che, ovviamente dà per scontata e fuori discussione la loro prevalenza nei riguardi della legislazione ordinaria, prevalenza che è dunque costruibile indipendentemente da qualsiasi riferimento ai profili formali delle fonti di diritto in esame.

Il discorso che si è fatto può ripetersi pari pari, ed anzi con maggiore agevolezza per gli enunciati stessi delle costituzioni e, quindi, per le norme che da essi si ricavano. Ancora una volta incidono nella direzione indicata e il contenuto delle prescrizioni in oggetto e la struttura stessa di queste. Sia per la loro formulazione largamente onnicomprensiva, sia per la loro afferenza a profili costitutivi e fondamentali esse si prestano ad essere utilizzate come strutture portanti di un discorso argomentativo volto a conformare ad esse la legislazione ordinaria e l’attività esecutiva, anziché viceversa. È certamente innegabile che a conferire speciale autorità e rilevanza, anche in sede ermeneutica, alle norme della costituzione abbia pesato non poco il fatto che erano considerate, specialmente nella seconda metà del secolo xviii, un’emanazione o proiezione del diritto naturale(45). E però è anche vero che questa autorità si è progressivamente — per così dire — laicizzata. Ciò ha dato luogo a quel fenomeno di dissociazione fra teoria politica e teoria costituzionale, da cui è partito il ragionamento di Sartori, sul quale ci siamo soffermati in apertura di questa voce. Ma, essendo questa una vicenda di non breve periodo, nel frattempo l’autorità della costituzione si è mantenuta e conservata anche in ragione (se non principalmente a motivo) dei fattori cui si è fatto dianzi riferimento. Se è indubbio che — come insegnava una non recente dottrina, peraltro molto attenta alle indicazioni desumibili dalla storia — «a cagione dell’elemento politico, il diritto costituzionale muta... rapidamente» (46), è anche patrimonio dell’insegnamento storico del diritto costituzionale che in questo campo si deve accordare speciale considerazione «allo spirito delle leggi medesime, ai fini che il legislatore si propose» (47). E l’intento dei padri costituenti era un tempo, più ancora che oggi(48), quello di dare stabilità, ordine e continuità al sistema costituzionale: è quanto intendeva dire John Marshall, allorché, forte dell’esperienza derivantegli dal contributo

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dato alla formazione della costituzione americana, espresse il nucleo forte della sua dottrina affermando: «it is a constitution we are expounding» (49). E, del resto, come già abbiamo avuto occasione di ricordare, ben faceva parte della tradizione del pensiero giuridico anglosassone l’idea che la legge fondamentale, anche se insuscettibile di essere utilizzata per dedurne l’incostituzionalità delle leggi con essa contrastanti, doveva comunque essere utilizzata per trarre da queste ultime una interpretazione ad essa conforme, e secondo i suoi principi orientata. È noto, infatti, che, a stare con una interpretazione autorevolmente sostenuta del Dr. Bonham’s Case, in esso Coke si sarebbe limitato a sostenere che i giudici debbano interpretare le leggi «in such a way as not to conflict with those same accepted principles of reason and justice which... were presumed to underlie all law» (50).

3. (Segue). L’ordinamento complessivo della materia costituzionale. Le costituzioni flessibili.

Le pagine che precedono possono dare l’impressione di enfatizzare fuori misura l’importanza della distinzione tradizionale fra carte costituzionali scritte e costituzioni non scritte, esaltando quindi la svolta storica rappresentata dal costituzionalismo del ‘700, e attardandosi su una linea ricostruttiva apparentemente destinata all’obsolescenza, a causa del maggiore rilievo oggi attribuito alla prospettiva ermeneutica che muove dalla distinzione fra costituzioni flessibili e costituzioni rigide.

In effetti, a chi scrive pare di scarsa utilità il tentativo che talvolta viene fatto di recuperare antecedenti delle costituzioni scritte settecentesche, ora giuocando su assonanze linguistiche che consentirebbero di guardare all’indietro sino ai tempi di Roma antica(51), se non alla Grecia(52), ora insistendo molto sull’importanza delle carte medioevali e sulle loro idoneità a configurarsi come modelli delle carte americane o francesi(53). A parte l’Instrument of Government del 1653, giustamente definito «un esempio ante litteram di carta costituzionale nel senso moderno» (54), non si può certo dire che, ad esempio, le constitutiones imperiali romane si propongano (anche a non volerle considerare come il frutto dell’esercizio arbitrario della nuda volontà dell’imperatore (55) di dare stabile e continuativo assetto all’ordinamento complessivo del potere nell’Impero(56); ovvero che la Magna Charta e altre ad essa similari rappresentino qualche cosa di più di un patto giurato fra re e vassalli (e sudditi (57) destinato più ad avere rilevanza nei loro rapporti intersubiettivi che ad assumere una funzione ordinamentale conformativa della comunità politica nel suo complesso(58). Resta, pertanto, utile discriminare fra avvento delle costituzioni scritte e precedenti esperienze storiche, ravvisando nelle prime i modelli di costituzioni nel senso moderno a noi noto. Solo allora prende piede e si concreta l’idea di ridurre in un unico documento formalmente adottato l’ordinamento dei pubblici poteri: «tel est la vrai sens du mot constitution», disse l’abate Sieyès all’Assemblea Nazionale, «il est relatif à l’ensemble et à la séparation del pouvoirs publics» (59).

E però non ha senso annettere a questo evento un significato esclusivamente politico, quasi che il rilievo giuridico delle costituzioni scritte si risolva tutto nell’appartenenza di queste alla categoria delle costituzioni rigide, e la riflessione giuridica su di esse si riduca alla presa di coscienza della distinzione delle costituzioni rigide, appunto, e delle costituzioni flessibili. Ciò può valere per chi, come Bryce(60), tende seppure insensibilmente ad identificare le costituzioni flessibili con le «so called ‘unwritten’» costituzioni. In fin dei conti considerare quella distinzione come il punto di partenza della riflessione sulle costituzioni scritte significa mettere in dubbio la rilevanza giuridica delle costituzioni flessibili e, in particolare, di quelle fra le costituzioni scritte apparse nella piena maturità dell’esperienza costituzionalistica che rientrano in tale categoria(61).

Quando si è scritto che «l’assimilazione assoluta della legge costituzionale alla legge ordinaria condusse a rinnegare quasi nello Stato l’elemento politico, esagerando l’elemento giuridico» (62), si è indubbiamente colto un aspetto importante, ma si è trascurato il fatto che quella assimilazione conduceva a sottovalutare anche profili giuridici esclusivamente propri delle costituzioni scritte, indipendentemente dalla loro appartenenza alla categoria delle costituzioni flessibili o di quelle rigide. È certamente vero che la peculiare posizione di supremazia che caratterizza le carte connotate da rigidità ha consentito gli sviluppi caratteristici del judicial review, da un lato, ed è strettamente connessa alle teorizzazioni in tema di potere costituente, dall’altro lato. Tuttavia non si può negare che quella supremazia è in rapporto di diretta dipendenza con l’essere le costituzioni scritte appunto dedicate ad un’ordinamento complessivo degli elementi basilari dell’assetto del potere e dei rapporti di questo con la collettività.

Agli albori del ricorso alla stesura scritta delle costituzioni troviamo anche — come si è detto — la consapevolezza della utilità, anzi della necessità di includere in un unico atto quella che veniva individuata come la normazione fondamentale dello Stato. Il che quasi automaticamente consentiva di annettere alle costituzioni scritte una importanza prioritaria, collocandole al vertice di una gerarchia sostanziale delle fonti e facendole, quindi, suscettibili di una utilizzazione tutta particolare in sede ermeneutica e di argomentazione

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giuridica. Sembra, cioè, che — contrariamente a quanto è stato rilevato da Luigi Rossi (63) — il dato della materia costituzionale, l’elemento del contenuto delle costituzioni abbia assunto una importanza particolare già a monte del radicarsi della distinzione fra costituzioni flessibili e costituzioni rigide, distinzione che appunto Rossi vede giustificata non solo da elementi meramente formali, ma anche dal carattere intrinseco e materiale della categoria delle leggi costituzionali «dotata di speciali caratteristiche... anche sostanziali, diverse dalle comuni».

Solo in un secondo momento questa visione confidente nella prevalenza materiale della costituzione viene meno, e con essa viene meno la tranquilla certezza che una fonte siffatta (indipendentemente dagli strumenti della rigidità e dalle connesse teorizzazioni sul judicial review e sul potere costituente) potesse di per sé assicurare ordine, stabilità e continuità ai rapporti costituzionali. È questa una vicenda che con riguardo alla dottrina italiana è stata di recente partitamente analizzata (64) con l’occhio anzitutto rivolto al recupero che essa avrebbe consentito delle dottrine della costituzione in senso materiale o sostanziale e dei suoi precedenti istituzionistici. È questo un discorso che troverà sede più avanti nello svolgimento di questa voce.

Per intanto giova qui rilevare che la svolta rappresenta la eclissi dell’idea che la riconduzione dell’intera materia costituzionale in un unico atto fonte, formalmente caratterizzato solo in funzione dell’unicità che gli deriva dalla speciale sua intitolazione, sia di per sé sufficiente ad assicurare «tenuta» all’ordinamento del potere. Ciò spiega come, ad esempio, proprio nella dottrina italiana quell’eclissi conduca ad una divaricazione di posizioni. Da una parte, Racioppi e Brunelli arrivano ad insistere per un irrigidimento della costituzione sulla base della considerazione che «una costituzione o è rigida, o non è» (65). Dall’altra parte Orlando segue un ragionamento più articolato; contesta addirittura la suscettibilità della materia costituzionale a trovare piena e completa sistemazione in una carta costituzionale che perciò mancherà, di necessità, di giuridica precisione, né potrà offrire criteri obiettivi di giudizio; ammette quindi la possibilità di un concorso di fonti nella materia medesima e non ne trova ragione di scandalo; si affida, infatti, in qualche modo, ancora, all’idea che anche la legge ordinaria sia idonea a conformarsi alla natura delle cose e, comunque, confida che il giuoco dei pesi e contrappesi politici sia atto a garantire il sistema dall’adozione di leggi inique o ingiuste(66).

Da quanto precede si ricava agevolmente la considerazione che fecalizzata sull’esperienza assorbente dello Statuto albertino la dottrina costituzionalistica italiana a cavallo fra l’800 e il ‘900 ha finito per attestarsi su una nozione per così dire laica della costituzione scritta, non mitizzandone ruolo e posizione, se si eccettua una isolata opinione orientata a considerarla irretrattabile da parte del sovrano, anche se emendabile con legge ordinaria(67). D’altra parte, salvo questa sola eccezione, non può neanche dirsi che abbiano avuto una qualche rilevanza nel nostro ambiente le ricostruzioni contrattualistiche della costituzione. L’idea che aveva preso largo piede, anche per evidenti ascendenze culturali, nel dibattito che condusse alla costituzione americana(68), «a perdu tout crédit depuis la Révolution» francese(69), trovando la sua esplicita reiezione sul piano concettuale e teorico nella critica di Carré de Malberg, volta — da un lato — a dimostrare l’inutilizzabilità della figura del contratto là dove «volontés parallèles ont un contenu identique(70), e — dall’altro lato — a contestare la possibilità di far «intervenir le facteur juridique contrat à un moment, où la société est à fonder et où par conséquent il ne saurait encore exister ni droit social, ni davantage contrat ayant une valeur juridique quelconque» (71).

La costituzione — diceva Compagnoni — è il «primo atto della volontà generale» (72). Con linguaggio meno ideologicamente impegnativo possiamo dire che è un atto fonte, frutto della volontaria e consapevole decisione di dare disciplina conformativa unitaria ai rapporti costituzionali. Ha quindi un contenuto tipico, e comporta il ripudio di affidare l’instaurazione e lo sviluppo dell’ordinamento costituzionale ad una congerie di fonti-atto, ovvero di consuetudini e convenzioni.

Il discorso sui contenuti rinvia al concetto di materia costituzionale. Quello che oggi è anzitutto un problema di diritto positivo, da analizzare — come vedremo — in rapporto ai singoli ordinamenti vigenti, è stato nei tempi passati l’altra faccia del discorso sulla funzione della Costituzione. In seguito si potrà affermare che «nessuna caratteristica obiettiva giustifica giuridicamente l’esistenza di un’ipotetica categoria di leggi costituzionali» (73). Ma ai primordi era necessario e importante discriminare ciò che apparteneva alla maniera di governare e, quindi, alla forma di governo, cui si voleva dare un ordine fisso e stabilito, assicurandone determinatezza e costanza(74). Era un’operazione irrinunciabile, se si voleva che quella che era destinata ad essere «the first and fundamental law of the State» potesse efficacemente prescrivere «the limits of all delegated powers» (75). Questo aspetto del nostro problema è stato di recente avvertito da alcuni dei partecipanti al dibattito cui ha dato vita il già ricordato contributo di Sartori. Non si è potuto fare a meno di rilevare che gli strumenti usati per porre limiti agli arbitri del potere differiscono da paese a paese, come differiscono le idee che di questi limiti si hanno(76). E si è, però, anche aggiunto che non vi è soltanto questione di limiti, ma anche di assetto del governo: «the telos of a constitution is to get government business done, or to see that

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affairs of state are handled in an orderly manner» (77). Il che rinviava di necessità — in un contesto anglosassone — al tema dell’articolarsi del rapporto fra gubernaculum e jurisdictio, così come sviluppato da Mc Ilwain(78). Si potrà dire che si tratta di rilievi di buon senso, scontati quasi nella loro ovvietà. Vi è, tuttavia, anche qualche cosa di più, nella misura in cui la preoccupazione per una ordinata e fattiva attività di governo veniva a coinvolgere il tema dei limiti, sottolineando la esigenza di procedure decisionali in cui giorno per giorno restassero inverati i valori cui le carte costituzionali erano improntate. Il governo doveva funzionare, ma il suo funzionamento doveva rispettare i canoni di costituzionalismo. In fin dei conti, la garanzia non era solo affidata alla jurisdictio, ma anche ai pesi e contrappesi in cui si articolava il gubernaculum(79).

4. Costituzioni flessibili e costituzioni rigide: loro succedersi nel tempo.

«Quando le prime carte furono emanate, era opinione comune che la solennità delle forme di cui si rivestivano e la consacrazione in un documento scritto dei principi che contenevano dovessero servire ad accrescere la loro stabilità»: così Santi Romano, nel discorso inaugurale sulle prime carte costituzionali(80), chiaramente enunciava il nucleo centrale della dottrina delle costituzioni scritte. Di recente è stato addirittura fatto notare che in Marbury v. Madison Chief Justice Marshall avrebbe dato particolare peso all’esistenza di una costituzione scritta, alla «writteness of the constitution» ai fini della teorizzazione del judicial review, là dove viene indicato come un possibile tradimento dei principi sottesi all’adozione di una costituzione scritta il rifiuto di far prevalere quest’ultima su ogni ordinario atto del Parlamento con essa contrastante(81).

Ma la costituzione americana appartiene al novero delle costituzioni rigide, ha quindi una sua particolare stabilità, di cui il judicial review può essere visto come una conseguenza, e però anche — forse più correttamente — come una garanzia(82). La sottolineatura di questa peculiare caratteristica e la sua teorizzazione è fatta abitualmente risalire a Bryce(83): contrapponendo costituzioni flessibili a costituzioni rigide, egli muoveva dalla constatazione che queste ultime traggono origine «from a source different from that whence spring the other laws», si collocano in una posizione di supremazia o sovraordinazione e possono essere assoggettate a revisione non già ad opera dell’organo di legislazione ordinaria ma da quella stessa «higher or specially empowered person or body» da cui promanano(84). La ricostruzione è a ben vedere solo in parte condivisibile e sembra, in particolare, risentire della dottrina del potere costituente. Vi è molta enfasi sulla necessità di una coincidenza fra l’autorità che ha adottato la costituzione e quella a cui è dato il potere di modificarla o rivederla. Più elastica è la definizione fornita al riguardo da Dicey, formulata — com’è — in termini negativi e tali, comunque, da superare quella coincidenza. «A ‘rigid’ constitution is one under which certain laws generally known as constitutional or fundamental laws cannot be changed in the some manner as ordinary laws» (85): non vi è palesemente preoccupazione sulla perpetuazione nel tempo del potere costituente, la rigidità della carta costituzionale discendendo non già dalla sua assoggettabilità al potere di revisione dell’autorità costituente ma dalla inapplicabilità delle procedure di legislazione ordinaria alle modifiche o revisioni della carta medesima. Il potere di revisione può anche spettare all’organo che ha la potestà di legislazione ordinaria, questa circostanza non esclude che si possa parlare di rigidità della costituzione, purchè per la revisione siano seguite procedure diverse e normalmente aggravate rispetto a quelle richieste per la adozione delle leggi ordinarie. La differenza fra le due definizioni è notevole. Se ci teniamo a quella fornita da Bryce, ad esempio, la vigente costituzione italiana non rientra necessariamente nella categoria delle costituzioni rigide, mentre vi appartiene senza ombra di dubbio se muoviamo dall’opinione di Dicey. Questa pare, dunque, meno storicamente datata e perciò più attenta agli sviluppi del costituzionalismo a noi più vicini.

Giova a questo punto rimuovere l’impressione, che talora si trae dalla lettura dei manuali, che la storia del costituzionalismo comporti una sorta di evoluzione rettilinea, per cui si passerebbe dalle meno raffinate e più elementari costituzioni flessibili alle tecnicamente più agguerrite e perciò operativamente più efficienti costituzioni rigide. Anzitutto è bene osservare che questa opinione contrasta con l’altra e consolidata credenza che l’idea di costituzione rigida è connaturata agli ordinamenti federali, poiché in questi ultimi sia gli organi legislativi della intera federazione che quelli degli Stati membri sono limitati nei loro poteri e indipendenti gli uni dagli altri(86). Il che implicherebbe che l’idea di costituzione rigida si è perpetuata, senza variazioni di fortuna, nel tempo dal momento dell’avvento dei primi stati federali, ovvero dalla prima adozione di costituzioni scritte ad opera degli stessi(87). La circostanza non ha però molto significato se riguardata nella prospettiva della prima metà del secolo xix. L’esempio svizzero ha indubbiamente pesato sul processo di compattamento delle colonie americane, ma queste hanno avuto prima della Svizzera una costituzione scritta in comune ed, a sua volta, l’esempio americano ha pesato sulla storia svizzera soltanto con l’adozione della

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costituzione del 1848(88). E, del resto, il problema della writteness della costituzione americana si è posto — come abbiamo visto — in termini che trascendevano la definizione dei rapporti fra centro e periferia.

Non bisogna poi dimenticare che le costituzioni rigide sono state esse stesse oggetto di perplessità e diffidenza. Secondo Romano col tempo «il principio delle costituzioni rigide si è andato mano a mano, e nella teoria e nella pratica, attenuando e talvolta, come in Italia, è quasi svanito» (89). L’affermazione è forse troppo azzardata, specie ad una visione retrospettiva. È tuttavia vero che, mentre le prime costituzioni scritte «erano state tutte quante rigide», successivamente se ne ebbero numerose di flessibili. Contrapponendo le costituzioni degli stati nordamericani dopo il 1776, quella federale degli Stati Uniti del 1787 e quelle francesi del 1791, del 1793 e del 1795 alle costituzioni francesi del 1799, del 1814 e del 1830 e allo Statuto Albertino, ce lo ricorda l’indagine compararistica sempre accurata di Biscaretti di Ruffia(90), il quale tuttavia addebita la novità a «solo ragioni contingenti». Ma minimizzare uno svolgimento storico di questa portata significa, come al solito, lasciare inappagato chi vuol comprendere a fondo lo sviluppo delle istituzioni e non è disposto a lasciare al caso il merito di esso. In fin dei conti, Bryce, al contrario di Romano, aveva visto bene allorché aveva rilevato che nel mondo moderno le costituzioni flessibili stavano divenendo rare(91). Vi debbono, dunque, essere state delle ragioni serie, che hanno reso più difficile questo avvento. E vi è da chiedersi se per avventura non abbia avuto per altro verso ragione Romano quando rilevava che il principio delle costituzioni rigide, «così com’era posto a base delle prime carte, riusciva ad uno scopo diametralmente opposto a quello cui mirava» (92).

Benché attestata sulla linea delle teorizzazioni del potere costituente e favorevole alla rigidità delle costituzioni, la Rivoluzione francese non ha mai messo in discussione le prospettive di una revisione, facendo espressamente cenno nella costituzione del 1791 al «diritto di riformare gli articoli, i cui inconvenienti l’esperienza avrebbe fatto sentire» (art. 1, titolo VII)(93), ovvero espressamente riconoscendo nell’art. 28 della costituzione del 1793 che «un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future» (art. 28).

Dalla considerazione dell’esperienza francese si è però anche tratta l’impressione (da cui il giudizio di Romano testè riportato) che «the rigidity, in short, of a constitution tends to check gradual innovation; but, just because it impedes change, may, under unfavourable circumstances, occasion or provoke revolution» (94). La preoccupazione che in definitiva la sede della funzione costituente potesse risultare spostata «dallo stato organizzato nella massa inorganica, mobile e scomposta degli individui» (95), poteva dunque ingenerare diffidenza nei confronti dell’artifizio della rigidità. E poteva anche suggerire di abbandonare sostanzialmente la strada prescelta, recependo l’insegnamento inglese della piena sovranità del Parlamento, e quindi a questo consentendo di rivedere e modificare la costituzione. Tale era, ad esempio, l’opinione dominante durante la vigenza della carta francese del 1830, quando si ammetteva (come sotto la Restaurazione) che la costituzione poteva essere modificata, almeno parzialmente, con l’accordo del re e delle due camere(96). Né è da escludere che sul formarsi di un orientamento siffatto abbia anche pesato il fatto rilevato da Burdeau, che nel caso di specie la costituzione era il risultato dell’appropriazione del potere costituente da parte di un organo legislativo già costituito, la Camera dei Deputati(97).

La ricostruzione è confermata dalla teorizzazione di Constant, il quale inclinava a distinguere nel contenuto delle carte costituzionali un nucleo forte da una parte debole. Questa comprendeva tutte le materie occasionalmente prese ad oggetto dalla costituzione e non facenti, quindi, parte del suo contenuto necessario: senza preoccupazioni la revisione delle norme relative poteva essere rilasciata all’accordo del re e delle due Camere. A diversa conclusione si doveva, invece, pervenire per quella che si poteva definire la materia costituzionale in senso stretto, da Constant individuata nella somma delle attribuzioni rispettive dei poteri e nei diritti fondamentali dei cittadini: qui entrava in giuoco il principio di ragione, da cui le scelte relative si dovevano far dipendere, sicché — quando necessaria — l’opera dell’artefice costituzionale al riguardo andava protetta anche contro la coalizione di tutti i poteri dello stato, tramite il meccanismo della rigidità (98).

Vi è stato, dunque, un elemento di strumentalità nell’accantonamento della rigidità, ad essa si è ritenuto di potere rinunciare quando ragioni di convenienza e opportunità venivano a prevalere sulle esigenze di garanzia e la revisione della disciplina di materie formalmente inserite nella costituzione poteva senza danno, ed anzi con vantaggio essere rilasciata al legislatore ordinario. D’altro canto, Constant si collocava su una posizione mediana, nella misura in cui non spingeva l’accantonamento della rigidità alle sue ultime conseguenze e per una parte si manteneva fedele al principio della incompetenza del legislatore ordinario. Il quale principio trovava, invece, pieno accoglimento nel pensiero di chi, come Tocqueville, considerava non casuale l’assenza di una qualsiasi normazione sulla revisione costituzionale nella costituzione del 1830, addebitandola al carattere pattizio della stessa che ne avrebbe comportato l’immodificabilità (99).

Già con la costituzione rigida del 1848 la Francia ritorna al vecchio orientamento (cfr. l’art. 111 della stessa), cui del resto aveva ancor prima aderito il Belgio con la costituzione del 1831. Si comprende, così,

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perché successivamente la dottrina (100) indicherà come peculiare, avvicinandola all’esperienza inglese, la scelta fatta a favore della elasticità sia dalla costituzione prussiana del 1850 sia dal nostro Statuto albertino, in questo discostatosi dal modello belga che gli viene spesso attribuito(101).

L’orientamento a favore della rigidità prevalse, infine, ancora in Francia nel 1875. L’insieme delle leggi costituzionali di quell’anno offre, anzi, un peculiare esempio di connessione fra costitutizione rigida e compromesso politico: «l’oeuvre de monarchistes résignés acceptée avec tristesse par les républicains» (102) si concreta in un complesso di documenti brevi e non dogmatici, la cui fortuna ben si può spiegare con l’osservazione di Georges Burdeau: «a quoi bon réviser un texte si accomodant?». Tale impianto lascia ovviamente comprendere che nell’occasione molti problemi non furono completamente definiti, né si prefigurarono delle indicazioni per i problemi che il futuro avrebbe portato all’attenzione delle istituzioni governanti: a detta di Esmein ciò condusse ad uno sviluppo del diritto costituzionale francese a cavallo dei due secoli affidato anzitutto all’interpretazione, il che consentirebbe di assimilare quella esperienza a quella più longeva della costituzione degli Stati Uniti d’America(103).

Questa evoluzione è comunque interessante in quanto ci lascia intravvedere un modo di gestione di compromessi politici costituzionali nuovo e diverso rispetto a quello che si ebbe a riscontrare con le costituzioni ottriate(104). Sia per la costituzione francese del 1814 sia per il nostro Statuto albertino la via prescelta fu quella della carta flessibile emendabile dal legislatore ordinario nel concorso del Re e delle due camere, con esclusione, quindi, dell’ammissibilità di una revisione ad opera del solo Re ottriante(105). Si era finito, in sostanza, per aderire al dogma inglese dell’onnipotenza parlamentare, il che, però, ha comportato, alla resa dei conti, la prevalenza del Parlamento sul monarca con conseguente alterazione dell’equilibrio sottostante all’originaria concessione regia(106).

5. Le moderne costituzioni di compromesso: rigidità formale e problemi interpretativi.

Contrariamente agli esempi ottocenteschi, caratterizzati dalla brevità delle costituzioni e, quindi, dalla tendenziale limitazione della loro normativa alla disciplina degli apparati di governo e dei loro rapporti e alla proclamazione e garanzia dei diritti politici e delle essenziali libertà civili(107), le costituzioni di compromesso di questo secolo sono, oltre che rigide, lunghe(108). Se si guarda a quello che è indicato come il primo e più appariscente esempio di tale tendenza, cioè alla costituzione di Weimar, balza subito agli occhi la correlazione fra la espansione dei compiti dello Stato, la crescita della domanda sociale, l’allargamento del suffragio e la proliferazione di disposizioni costituzionali riguardanti in particolare i rapporti sociali ed economici(109). Il catalogo dei diritti viene molto ampliato, vi è una più pronunciata attenzione ai problemi del governo dell’economia, in sostanza — dunque — vi è una attenzione particolare ai problemi dell’intervento pubblico, che nelle costituzioni ottocentesche mancava per la stessa scelta ideologica di queste di rimettere al mercato e agli spontanei equilibri di esso la composizione dei conflitti sociali e la tutela degli interessi economici e sociali(110). È stato detto che tali novità hanno provocato una degradazione della formulazione tecnica delle norme costituzionali, anche se giustamente è stato fatto notare che non sempre in questi casi è corretto addossare le colpe delle difficoltà di «rendimento» delle costituzioni ai soli conditores(111). Del resto la doglianza non è nuova, in quanto già Romano osservava che lo stato ancor fluido del diritto pubblico e l’assenza di un «grado di maturità e di perfezione», quale quello riscontrabile nel campo del diritto privato, rendevano più difficile e meno soddisfacente la formulazione scritta dei testi costituzionali(112). Il che può risultare tanto più vero e credibile con riguardo alle norme delle costituzioni concernenti i rapporti economici e sociali, per i quali spesso non esiste e ancor meno esisteva agli inizi o alla metà di questo secolo una consolidata tradizione legislativa.

Ma il punto è più complesso di quanto si voglia far credere adducendo soltanto considerazioni di ordine tecnico e difficoltà di lavoro redazionale. Le moderne costituzioni lunghe di compromesso differiscono da quelle ottocentesche non solo per le loro dimensioni. Poichè in esse il compromesso non si realizza limitando al massimo gli enunciati normativi e concentrando la loro portata regolativa sui tratti essenziali dell’assetto delle istituzioni governanti, il componimento delle posizioni contrastanti viene conseguito allargando di molto il complesso delle materie considerate ed evitando di dare agli enunciati normativi precisione e puntualità di dettato. L’estensione degli oggetti disciplinati corrisponde all’esigenza di tenere conto di tutti (o quasi) gli interessi emergenti, di fare un catalogo il più completo possibile delle domande sociali, laddove l’indeterminatezza o latitudine degli enunciati soddisfa alla necessità di trovare formulazioni normative non impegnative, capaci di riscuotere un largo arco di consensi in quanto espressive della necessità della tutela di certi interessi, ma al tempo stesso inadatte a formalizzare di per sé una compiuta e definitiva soluzione del sottostante conflitto economico e sociale.

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Vi è un rapporto di mutuo condizionamento fra i modi degli enunciati delle moderne costituzioni di compromesso e la loro scelta a favore della rigidità. La costituzione viene indubbiamente rafforzata dall’«esistenza stessa di meccanismi atti a tutelare il contenuto storicamente dato» della stessa(113).

Ciò ha un particolare significato quando quel contenuto è il risultato di una mediazione fra concorrenti forze politiche, ed è quindi naturale che si opti per l’irrigidimento della carta. Ma al tempo stesso l’accettazione di questa opzione è il sintomo che la costituzione affida le sue sorti ad un più ampio consenso, ad uno schieramento di forze più esteso della sola maggioranza delle forze politiche presenti ed operanti in un dato ordinamento. Ed al conseguimento di questo più ampio consenso è certamente indirizzata la stessa formulazione dei testi costituzionali, i cui principi, «non tutti aventi valore definitivo», sono appunto il risultato dell’apporto di forze politiche diverse e contrapposte(114).

In effetti, quello che è oggi il più frequente fattore di irrigidimento, cioè l’introduzione del requisito di maggioranze qualificate è da Kelsen indicato come una significativa approssimazione dell’idea di libertà nella disciplina delle procedure di revisione costituzionale(115). Egli parte dal presupposto che «in origine sembrava che fosse il principio della maggioranza assoluta a rispondere relativamente all’idea democratica», per suggerire che il principio della maggioranza qualificata rappresenterebbe una certa tendenza all’unanimità nella formazione della volontà generale» (116). Il riferimento alla volontà generale, così, meglio qualifica il compromesso che si realizza nella deliberazione costituzionale, che è ancora vista — secondo un filone tradizionale di pensiero — come una autolimitazione che nella procedura di un’assemblea parlamentare ritrova il connotato ulteriore della razionalità (117). La mediazione è, dunque, una mediazione razionale, la costituzione può perdere il suo significato mitico ma conserva ed esalta la sua qualità di atto consapevole di conformazione degli assetti di una convivenza collettiva.

Seppure mediate da preoccupazioni politiche, quando non partitiche contingenti, e comunque espresse in forma più diretta e operativa, considerazioni di questo tipo ritornano — ad esempio — nello stesso dibattito dell’Assemblea costituente che ha dato all’Italia la costituzione repubblicana del 1948(118). Così le ritroviamo nelle posizioni dei costituenti comunisti tesi a valorizzare il ruolo che la rigidità consentiva di pretendere per il loro partito; nelle affermazioni di Basso che, la Costituzione essendo un autolimite della sovranità popolare, deve essere in ogni caso tale da impedire il permanere di posizioni di privilegio; nel discorso di Moro che sottolinea l’importanza del concorso di più partiti alla elaborazione di una formula di convivenza; nelle preoccupazioni di Bozzi e Calamandrei che avrebbero voluto meglio approfondito il discorso sulla rigidità ai fini di una più congrua definizione dei connotati giuridici delle norme in elaborazione.

Il problema del rapporto fra rigidità e formulazione degli enunciati costituzionali è stato ripreso anche in dottrina, quando si è osservato che l’irrigidimento di formule normative equivoche ed elusive «equivarrebbe a rendere difficile o addirittura impossibile quell’adattamento e quell’evoluzione (in vista del superamento del carattere compromissivo e di una definitiva stabilizzazione) che esse — per loro natura — esigerebbero ed implicherebbero» (119). Il rilievo si riconnette evidentemente alla meditazione di Schmitt sulle costituzioni di compromesso, le cui disposizioni avrebbero talora una mera apparenza compromissoria nascondendo un reale intento dilatorio, giacché le parti interessate converrebbero di aggiornare la decisione e di lasciarsi aperte le interpretazioni e le possibilità più disparate(120). In realtà, tali riflessioni non colgono appieno il significato dei fenomeni di cui andiamo discorrendo. Per quanto generiche possano sembrare le dichiarazioni costituzionali compromissorie, esse non sono mai completamente vuote di significati. Anche quando si risolvono sostanzialmente in una delegazione della decisione sul punto ad autorità ulteriori(121), esse contengono tuttavia indicazioni di principio da valere quali direttive per tali autorità e, quindi, non sono completamente prive di rilievo normativo. Enunciano e consacrano una determinata scelta di valore e sono, semmai, reticenti quanto ai modi ed ai termini della sua implementazione, sia con riguardo al valore stesso di per sè, sia per quanto ha tratto all’eventuale bilanciamento fra il valore così garantito e altri e diversi valori affermati e garantiti nello stesso testo costituzionale. Ciò lascia intendere che non è ipotizzabile — per restare all’immagine della delega — un deferimento delle decisioni ulteriori ad un’autorità non inclusiva di tutto l’arco delle forze stipulanti il compromesso. Questo ha un senso se garantisce a tutte le parti una posizione eguale nel processo decisionale di implementazione dei valori in compromesso.

La rigidità è funzionale a questo risultato, tutela i soggetti del compromesso all’atto della decisione costituzionale e negli stadi ulteriori del suo articolarsi. Contrariamente a quanto pensava Schmitt, non siamo in presenza di una non-decisione, ma di una decisione in cui profili sostanziali e profili formali sono fra loro strettamente interrelati e bilanciati.

Giustamente, del resto, Mortati rileva in proposito che, ad esempio, il nostro costituente ha chiaramente voluto escludere, con la richiesta di maggioranza qualificata e di una procedura aggravata per la revisione, la possibilità «che la revisione sia espressione di volontà contingenti, di prevalenza (di una certa forza sulle altre)

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puramente momentanea» (122). L’irrigidimento del compromesso vuole la sua perpetuazione, e certamente non sarebbe più un compromesso quello che rilasciasse all’una o all’altra parte gli strumenti per imporre la propria volontà al di fuori di qualsiasi mediazione e bilanciamento. Né bisogna dimenticare che le moderne costituzioni di compromesso sono al tempo stesso costituzioni lunghe, le quali, pertanto, consacrano un’intesa su un vasto raggio di questioni controverse, coinvolgendo valori molteplici, la cui attuazione è — come si diceva — inestricabilmente collegata.

Superate le difficoltà derivanti dall’irrigidimento del processo di revisione, restano comunque da affrontare i problemi che si pongono sul fronte della applicazione in sede giurisdizionale degli anfibologici e sfuggenti enunciati delle moderne costituzioni di compromesso. Se tali enunciati vanno considerati come una sorta di delega all’interprete o all’autorità preposta alla loro attuazione, vi è sempre il rischio che gli organi giurisdizionali se ne avvalgano per sovvertire in sostanza il significato delle disposizioni di cui andiamo discorrendo. Né vale obiettare che in realtà un risultato siffatto è dato per scontato, se non propriamente voluto dai padri costituenti. È difficile credere che, avendo scelto la via di un irrigidimento costituzionale, questi abbiano poi inteso rimettere la concretizzazione del compromesso e i suoi ulteriori sviluppi ad autorità non elettive, istituzionalmente estranee alle parti stipulanti il compromesso medesimo. Vero è che questi enunciati sono vere e proprie norme, ma è anche vero che essi vanno utilizzati come tali nei limiti del compromesso(123). L’attuazione delle disposizioni di principio delle moderne costituzioni di compromesso ad opera dei giudici non può risolversi nella completa enunciazione di una conseguente disciplina attuativa. Può, però, favorire un approccio in progress a quegli sviluppi del compromesso che, impossibili all’atto della adozione della costituzione, possono essere richiesti dall’evoluzione dei tempi e delle cose(124). Così stando le cose, si pone all’interprete una grave questione. Ci si può, cioè, chiedere come sia possibile vincolare questo processo di progressiva specificazione dei significati dei precetti costituzionali, evitando che termini e significato del compromesso originario siano traditi e surrettiziamente modificati. Ed è appunto in vista di questo risultato che si è fatto ricorso alla teoria della costituzione materiale.

Sezione II LA COSTITUZIONE ITALIANA

Storia, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italianaStoria, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italianaStoria, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italianaStoria, caratteri e princìpi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana

Prima di leggere la voce redatta da V. Onida, è opportuno introdurre l’argomento. La Costituzione italiana fu approvata dall’Assemblea costituenteAssemblea costituenteAssemblea costituenteAssemblea costituente il 22 dicembre 1947, per poi entrare in vigore il successivo 1° gennaio 1948. A sua volta, l’Assemblea costituente fu istituita a seguito delle elezioni svolte il 2 giugno 1946 contestualmente al referendum su repubblica o monarchia. In Assemblea costituente arrivarono esponenti dei partiti politici che avevano combattuto il fascismo: la democrazia cristiana, il partito comunista, il partito socialista, e altre formazioni minori solo per consistenza numerica e non per importanza, a cominciare dal partito d’azione di Piero Calamandrei. L’Assemblea fu creata al fine di redigere la nuova costituzione, che avrebbe preso il posto del debole e vulnerabile Statuto albertino. Il testo fu votato da una ampia maggioranza (453 voti a favore, 62 contrari), e ciò dimostra quanto la Costituzione sia il frutto di un compromesso equilibrato tra diverse concezioni ideologiche. Il nostro ordinamento riposa su solidi princìpi fondamentaliprincìpi fondamentaliprincìpi fondamentaliprincìpi fondamentali: alcuni espressamente enunciati dalla Costituzione, altri desumibili dal sistema attraverso la lettura combinata di più disposizioni. Principio repubblicanoPrincipio repubblicanoPrincipio repubblicanoPrincipio repubblicano. In armonia con il voto popolare del 2 giugno 1946, l’Italia è una Repubblica. È stato prescelto un assetto istituzionale che vede nella investitura popolare e nella

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temporaneità delle cariche i pilastri fondamentali. Peraltro, l’art. 139 espressamente prevede che la forma repubblicana non è soggetta a revisione costituzionale. Principio della sovranità popolarePrincipio della sovranità popolarePrincipio della sovranità popolarePrincipio della sovranità popolare. Come recita il secondo comma dell’art. 1 Cost., «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La sovranità è la matrice, la base, l’origine, la fonte dei tre poteri dello Stato. Con il passaggio dal re al popolo si consacra quest’ultimo come la fonte di legittimazione di tutti i poteri assegnati alle istituzioni. Legittimazione significa che i singoli si riconoscono nell’ordinamento e ne rispettano le norme, dal momento che esse promanano dalla sovranità popolare. Questa, però, non è illimitata e assoluta: si svolge, infatti, con le modalità e nel rispetto dei limiti e dei vincoli stabiliti dalla Costituzione. In questo modo, si impedisce un suo uso demagogico e strumentale. Principio democraticoPrincipio democraticoPrincipio democraticoPrincipio democratico. L’Italia è una repubblica democratica in quanto il potere legislativo e quello esecutivo poggiano su fondamenta popolari. Il parlamento è composto da rappresentanti del popolo scelti tramite libere elezioni, che si svolgono ad intervalli prestabiliti, con voto espresso a suffragio universale e diretto. Il governo deve godere della fiducia delle camere, mentre i suoi membri sono nominati dal Presidente della Repubblica a sua volta eletto dal Parlamento in seduta comune. I magistrati sono reclutati tramite concorso, ma sono comunque soggetti al rispetto della legge, dunque alla osservanza delle norme giuridiche poste in essere dagli organi rappresentativi del popolo (→ democrazia rappresentativa). In alcuni casi previsti tassativamente dalla Costituzione, il popolo può direttamente manifestare la volontà dello Stato: è il caso del referendum abrogativo (→ democrazia diretta). Principio di eguaglianzaPrincipio di eguaglianzaPrincipio di eguaglianzaPrincipio di eguaglianza. «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3, primo comma, Cost. → eguaglianza formale). «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3, secondo comma, Cost. → eguaglianza sostanziale). Principio della separazione dePrincipio della separazione dePrincipio della separazione dePrincipio della separazione dei poterii poterii poterii poteri. Pur non essendo espresso in maniera testuale, anche la separazione dei poteri caratterizza i rapporti tra gli organi dello Stato. La separazione non è rigida in quanto la Costituzione configura forme di controllo reciproco (→ checks and balances) e talvolta richiede o presuppone meccanismi di raccordo e di coordinamento (→ principio di leale collaborazione). Principio di legalitàPrincipio di legalitàPrincipio di legalitàPrincipio di legalità. È inteso sia come principio di legalità costituzionale, nel senso che tutti i poteri sono vincolati al rispetto della Costituzione, sia come principio di legalità ordinaria, nel senso che il potere esecutivo e il potere giudiziario sono soggetti al rispetto della legge. L’Italia si riconosce nei princìpi dello Stato di dirittoStato di dirittoStato di dirittoStato di diritto, il cui corollario fondamentale è l’indipendenza e autonomia dell’ordine giudiziario rispetto al potere politico. Principio pluralistaPrincipio pluralistaPrincipio pluralistaPrincipio pluralista. Le differenze esistenti all’interno della società sono un patrimonio da valorizzare, non un problema da risolvere. Tutte le diverse anime della società (in campo politico, economico, culturale) hanno pari dignità e devono avere le stesse opportunità di realizzazione e di rappresentazione nelle sedi istituzionali. Principio personalistaPrincipio personalistaPrincipio personalistaPrincipio personalista. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, affinché ogni soggetto possa liberamente e pienamente sviluppare

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la propria personalità. La Costituzione, quindi, presidia la libertà di autorealizzazione e di autodeterminazione delle persone. Principio lavoristaPrincipio lavoristaPrincipio lavoristaPrincipio lavorista. L’Italia è una Repubblica democratica «fondata sul lavoro» (art. 1, primo comma, Cost.). Il lavoro è un diritto e, nel contempo, un dovere (art. 4). Il lavoro è la condizione ideale dell’individuo quale soggetto che interagisce con gli altri consociati. La ricchezza si accumula attraverso il lavoro. Principio autonomistaPrincipio autonomistaPrincipio autonomistaPrincipio autonomista. «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.). Se lo Stato è sovrano (→ sovranità come potestà originaria), le Regioni e gli enti locali, che al pari del primo formano, ai sensi dell’art. 114 Cost., la Repubblica, sono autonomi (→ autonomia come potestà derivata). L’autonomia politica è la capacità delle Regioni e degli enti locali di soddisfare gli interessi delle comunità di cui essi sono enti esponenziali secondo un proprio indirizzo politico, in ipotesi anche diverso da quello dello Stato. In questo modo, si possono avere norme giuridiche differenziate, di territorio in territorio, quando lo richiedano le specifiche caratteristiche delle comunità locali. Principio di laicitàPrincipio di laicitàPrincipio di laicitàPrincipio di laicità. L’Italia è uno Stato laico, nel senso che non riconosce alcuna religione di Stato. Non è dunque uno Stato confessionale, dal momento che tutte le confessioni religiose, pur diverse, sono eguali davanti alla Costituzione. La Chiesa cattolica può solo vantare una struttura specifica di relazioni con lo Stato, basata sui Patti lateranensi (cfr. gli artt. 7 e 8 Cost.). V. ONIDA, voce Costituzione italiana, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. IV, Utet, Torino, 1989, pp. 321 ss.

1. Una Costituzione «longeva».

La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’assemblea costituente, col voto finale, nel pomeriggio del 22-12-1947: votarono a favore, su 515 presenti e votanti, 453 deputati, contrari furono 62(1). Non vi furono, prima del voto, dichiarazioni finali dei rappresentanti dei gruppi politici, né di singoli deputati, ma solo un breve intervento dell’on. Ruini, presidente della «commissione dei settantacinque», che aveva redatto il progetto, e del comitato di redazione che provvide fino all’ultimo al coordinamento del testo definitivo, sottoposto poi al voto per scrutinio segreto. Ultima ad essere discussa, prima del voto finale, fu la proposta avanzata la mattina dello stesso 22 dicembre dall’on. Giorgio La Pira, di far precedere il testo dalla formula: «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». Dopo alcuni misurati interventi degli on.li Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi, Piero Calamandrei, Francesco Saverio Nitti, nonché del Presidente Umberto Terracini (che ritenne la proposta preclusa dalla scelta già fatta dall’assemblea, di non dare alla Costituzione alcun preambolo), lo stesso on. La Pira accolse infine l’invito a ritirare la proposta, constatando che essa avrebbe provocato dissenso(2). La larghissima maggioranza con cui avvenne l’approvazione, l’assenza di dichiarazioni di voto a nome dei partiti, lo stesso tono e il contenuto dell’ultimo dibattito cui si è accennato, sottolineano emblematicamente lo spirito di convergenza e di unità nel quale ebbe luogo, per lo più, l’elaborazione della Costituzione.

Questa fondamentale unità d’intenti è probabilmente alla base della «longevità» ormai dimostrata dalla nostra Costituzione. Questa, che qualcuno alla costituente — da posizioni di minoranza — arrivò a definire (in sede di discussione del progetto) una «Costituzione interlocutoria» (3), si è in realtà rivelato un testo, se non «scolpito nel bronzo», come ironicamente si espresse un altro costituente(4), certo dotato di saldezza e stabilità, così da entrare ormai nel novero delle Costituzioni scritte che sono in vigore da maggior tempo, conservando sostanzialmente intatta la sua struttura e il suo contenuto, sottoposto a poche e abbastanza modeste revisioni(5).

Vero è che, mentre fino alla fine degli anni settanta l’idea stessa di profonde revisioni della Costituzione veniva avanzata solo nell’ambito di ristrette o ristrettissime fasce di opinione (tanto che si poteva perfino parlare di una sorta di «tabù» della Costituzione), oggi viceversa la tesi del riformismo costituzionale è assai più diffusa. Potrebbe dunque ritenersi che si stia per entrare in una fase di minore stabilità del testo costituzionale,

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coincidente storicamente con il tramonto della generazione di uomini polici e di tecnici del diritto che collaborarono più o meno direttamente all’opera costituente.

Tuttavia, paradossalmente, proprio questa caduta del «tabù» e questa diffusione dell’ipotesi riformista sembrano invece indicare un definitivo consolidamento della Costituzione. Questa non appare ormai, solo il prodotto più felice di una precisa congiuntura storica, legato ai caratteri e alle esigenze che di essa furono propri; ma, conservando nel tempo, in condizioni tanto diverse, carattere di stabilità e insieme di elasticità, essa, al pari delle altre Costituzioni storiche più longeve, manifesta la propria idoneità a sorreggere l’evoluzione dell’ordinamento, assicurando insieme la saldezza dei riferimenti fondamentali e gli spazi per i mutamenti necessari. Ciò che corrisponde al ruolo essenziale, di saldatura e integrazione fra passato e avvenire, affidato dalla collettività alle regole giuridiche che ne organizzano la convivenza.

Per questo, oggi, un discorso generale sulla Costituzione italiana non deve più necessariamente essere incentrato in prevalenza sulle sue origini e sulla dialettica attuazione-inattuazione, che ha caratterizzato i primi decenni di vita del testo (come, ad esempio, accadeva nella voce corrispondente alla presente, pubblicata nella precedente edizione del Digesto, scritta da Paolo Barile nel 1958, a soli dieci anni dalla promulgazione della Costituzione); ma può volgersi a cercare di cogliere, nell’attuale fase di sviluppo dell’ordinamento, il senso generale dei principi e delle norme contenute in quel testo.

2. La Costituzione italiana nella tradizione del costituzionalismo contemporaneo.

Ciò non significa, naturalmente, che si possa prescindere, nell’esame della Costituzione, dal profilo storico attinente alla sua origine e alle sue vicende. Ogni Costituzione è il frutto di un determinato processo costituente, e ne porta i segni, anche se le sue norme si rivelano spesso capaci di durare ben oltre l’esaurimento della fase storica in cui quel processo si inseriva.

Le Costituzioni rappresentano per lo più il frutto di un travaglio, che epoche generalmente di grande trasformazione consegnarono alla storia successiva; se durano, è perché le ragioni e i principi ispiratori di quel travaglio si solidificano e divengono patrimonio relativamente stabile di una collettività.

Questo spiega l’esistenza di una vera e propria tradizione costituzionale, caratteristica di determinate aree geopolitiche, e nelle quali si distilla, per così dire, la parte non caduca dell’evoluzione degli ordinamenti politici.

Per quanto ci riguarda, non è difficile individuare, nella storia del costituzionalismo democratico dell’Europa occidentale, le tappe fondamentali di questa tradizione, che troviamo riecheggiata nella Costituzione repubblicana del 1948: i principi delle rivoluzioni liberali della fine del ‘700; le regole istituzionali proprie delle monarchie parlamentari sorte fra la fine del ‘700 e la metà dell’800; i concetti e i principi dello Stato democratico-sociale quali si formarono tra la metà dell’800 e l’inizio di questo secolo; le forme di pluralismo sociale e istituzionale, di perfezionato garantismo, e di apertura verso il superamento dei limiti dello Stato nazionale, maturate nell’Europa tra il primo e il secondo dopoguerra.

Questa è la tradizione in cui si inserisce a pieno titolo la Costituzione italiana del 1948, nel cui testo non è difficile trovare riecheggiate talvolta in modo puntuale formulazioni di altri testi appartenenti alla medesima tradizione. In particolare, la nostra può essere definita una Costituzione appartenente alla «famiglia» della Costituzione degli Stati di tipo democratico-sociale, che a loro volta si innestano nel tronco della tradizione costituzionale liberal-democratica, rinnovandola e integrandola.

Così troviamo nella Costituzione del 1948 la riaffermazione dei principi liberali circa i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2, comma 1, Cost.), le libertà civili (artt. 13-28 Cost.), l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3, comma 1, Cost.), la supremazia della legge nel sistema delle fonti (con le numerose «riserve di legge» disposte da diverse norme della Costituzione), il principio rappresentativo con la conseguente attribuzione al Parlamento di funzioni fondamentali di indirizzo politico (artt. 56, 57, 67, 70, 76, 77, 80, 81 Cost.), il principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 97, Cost. art. 100, comma 2, Cost., art. 113 Cost.), le classiche forme liberali di divisione e di coordinamento fra poteri (artt. 87-96 Cost.), e il principio di indipendenza della magistratura (artt. 101, 104, 108 Cost.).

Troviamo, per altro verso, la consacrazione dei nuovi principi dello Stato sociale, con il riconoscimento dei relativi diritti (art. 4 Cost., artt. 29-38 Cost.) e dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.), nonché dei compiti di giustizia sociale attribuiti ai poteri pubblici (artt. 41-47 Cost., art. 53 Cost.), nonché il perfezionamento e l’estensione dei principi democratici (art. 1 Cost., artt. 48-51 Cost., art. 75 Cost.).

Troviamo infine le garanzie delle diverse forme del pluralismo sociale (artt. 2, 6, 7, 8, 39 e 40 Cost.), l’estensione e il rafforzamento delle autonomie locali (art. 5 Cost., artt.114-133 Cost.) e i nuovi istituti di garanzia della «rigidità» della Costituzione (artt. 134-138 Cost.).

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3. L’ispirazione ideale della Costituzione.

L’ispirazione della Costituzione italiana trova le sue radici nelle posizioni ideali e politiche delle forze

che contribuirono alla sua elaborazione. Il fatto che la nostra (a differenza di molte Costituzioni dell’era liberale) non sia una Costituzione

«ottriata», cioè concessa da un Sovrano, ma sia stata deliberata da un’assemblea costituente, e il tipo di processo costituente da cui essa trasse origine, nel quale il ruolo di protagonisti fu assunto dai partiti presenti nell’assemblea, fanno sì che sia particolarmente evidente il nesso fra i suoi contenuti e le idee e i programmi di tali partiti, soprattutto delle tre maggiori forze politiche — la democrazia cristiana, il partito socialista e il partito comunista — che da sole avevano oltre i tre quarti dei deputati nell’assemblea costituente(6).

Peraltro la «cultura costituzionale» dei partiti e dei loro esponenti alla costituente non era all’epoca molto sviluppata. Si trattava per lo più di organizzazioni politiche con una storia recente alle spalle: a parte le minoranze liberali e repubblicane, che si richiamavano a tradizioni risorgimentali, tutti i partiti erano di origine recente o recentissima: il partito socialista risaliva alla fine dell’800, il comunista era nato nel 1921, il democristiano si ricollegava all’esperienza del partito popolare dei primi anni venti, ma come tale era nato nel 1942-1943; nello stesso periodo erano nati il partito d’azione e la democrazia del lavoro, altre due componenti del Comitato di liberazione nazionale in cui si riunirono quasi tutti i partiti antifascisti.

Inoltre la lunga parentesi fascista aveva troncato ogni libera esperienza di tipo istituzionale, quando non ogni sviluppo delle stesse organizzazioni politiche; e i primi anni dopo la caduta del fascismo, caratterizzati dalla provvisorietà, dalle esigenze della lotta armata, dalla precarietà della situazione economica e sociale, non si prestavano certo ad una tranquilla elaborazione di temi costituzionali.

Così che i partiti nel periodo costituente riproposero le proprie fondamentali ispirazioni ideali, talvolta formularono programmi specifici anche di ordine istituzionale, ma in ogni caso le scelte concrete si formarono in base ai materiali culturali e istituzionali allora disponibili, dentro e fuori di essi: le riflessioni degli studiosi presenti nei vari partiti, le ascendenze culturali e le esperienze politiche o professionali dei loro esponenti, ma anche la cultura istituzionale propria di alcuni corpi professionali, come la magistratura o il Consiglio di Stato(7).

Spesso si è visto nella Costituzione il frutto della confluenza o del «compromesso» fra tre grandi correnti ideali e di pensiero: quella cattolico-democratica, quella di ispirazione marxista, quella liberal-democratica.

In effetti questa confluenza vi fu, attraverso strumenti e con modi diversi. Il filone cattolico-democratico trovava diretta espressione nel partito di maggioranza relativa all’assemblea, la democrazia cristiana, in cui quella tradizione ideale era culturalmente e politicamente egemone. La DC fu anche il partito che forse più di ogni altro elaborò uno specifico programma costituzionale(8), una parte del quale trovò sbocco nella Costituzione.

L’ispirazione personalista e l’attenzione per la tematica delle «comunità intermedie» (cfr., art. 2 Cost.); l’idea di una comunità sovranazionale che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni (cfr., art. 11 Cost.); l’esplicita considerazione delle confessioni religiose come organizzazioni sociali (art. 8 Cost.), e più specificamente la riconferma dei patti lateranensi (art. 7 Cost.); l’attenzione per i diritti della famiglia (artt. 29-30 Cost.) per la libertà scolastica (art. 33 Cost.) e assistenziale (art. 38 Cost.); il favore per le forme di attività economiche in cui capitale e lavoro sono nelle stesse mani (cfr., artt. 44, 46, 47 Cost.), sono tutti aspetti per i quali la Costituzione è palesemente debitrice di questa ispirazione. Parimenti, per quanto riguarda l’organizzazione dei poteri, l’impronta pluralista e garantista, la scelta per il regime parlamentare e per il primato del Parlamento, il regionalismo politico e legislativo, gli istituti di democrazia diretta, la garanzia giurisdizionale della Costituzione, sono tutti aspetti in cui il testo della Carta riflette largamente postulati e programmi del cattolicesimo democratico: rimasero invece fuori della Costituzione, fra i punti fondamentali di tali programmi, la rappresentanza professionale e il sindacato di diritto pubblico.

Meno evidenti sono le tracce dell’ispirazione propria della sinistra marxista: sia perché i due partiti che la rappresentavano — il socialista e il comunista — avevano un’elaborazione e una cultura istituzionale più limitate e meno univoche; sia perché questi partiti non intesero rivendicare una Costituzione modellata sui loro programmi, limitandosi a favorire e a reclamare un ordinamento in cui fossero garantiti i diritti di libertà e potesse trovare libera espressione la sovranità popolare mediata dai partiti di massa, convinti com’essi erano che questo fosse il contesto più favorevole per una eventuale successiva trasformazione del paese in senso socialista(9).

Tuttavia sui temi, ben presenti nella Costituzione, dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.), del diritto al lavoro e dei diritti del lavoro (artt. 4 e 35 Cost., ss.), del governo pubblico dell’economia (artt. 41,

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42, 43 Cost.), del ruolo dei partiti politici (art. 49 Cost.), non sono mancati apporti specifici riconducibili all’ispirazione di queste correnti politiche. Sul piano dell’organizzazione statale, certamente, la Costituzione è fondamentalmente ispirata più alla visione di un articolato pluralismo di poteri e di un insieme di reciproci freni e di garanzie, che non a quella — propria della visione della sinistra marxista — di una democrazia assembleare, in cui la sovranità popolare mediata dai partiti di massa si esprimesse per intero, senza troppi frazionamenti del potere e senza troppe remore e vincoli. Tuttavia il peso di queste componenti (oltre che concorrere in modo decisivo a far prevalere, nel referendum istituzionale, l’ipotesi repubblicana) influì certamente, se non altro in negativo, nell’ostacolare soluzioni di ancor più accentuata ripartizione dei poteri (così le sinistre non fecero prevalere il monocameralismo, ma ottennero un Parlamento fondato esclusivamente sulla rappresentanza politica nazionale).

La terza grande corrente ideale, quella liberal-democratica, non era rappresentata in assemblea da alcuno dei grandi partiti. Tuttavia essa fu tutt’altro che assente o recessiva: sia perché ad essa si rifacevano componenti minoritarie ma partecipi, con esponenti di primissimo piano, del processo costituente (si pensi a deputati come Einaudi, Perassi, Calamandrei); sia perché il bagaglio ideale liberal-democratico, che affondava le sue origini nelle rivoluzioni borghesi della fine del ‘700, si ritrovava in misura e forme diverse nella tradizione delle altre correnti: la cattolico-democratica, in cui soprattutto il filone cattolico-liberale aveva largamente assimilato postulati tipici di quel bagaglio ideale; e anche la tradizione delle correnti marxiste, che quei postulati in parte facevano propri, pure iscrivendoli e integrandoli in un altro contesto, e che accettavano il quadro liberal-democratico come condizione favorevole per l’affermarsi delle spinte verso una trasformazione socialista della società.

La cultura istituzionale dei costituenti aveva dunque radici profonde nel passato, non solo italiano: ma guardava al futuro.

La classe politica che volle e che approvò la Costituzione fu (a parte la parentesi fascista) la prima classe politica post-liberale nel nostro Paese. Ciò sia per ragioni anagrafiche, data l’interruzione imposta dal fascismo all’evoluzione politico-costituzionale del paese; sia per ragioni politiche, data l’affermazione come forze dominanti di partiti estranei all’esperienza liberale prefascista o eredi di correnti minoritarie nell’ambito di questa.

Certo vi erano degli uomini che facevano da ponte, per così dire, fra le due ere: basti pensare agli ex «popolari» della DC, o a liberali come Einaudi o De Nicola. Ma l’avvento di una nuova classe politica fu evidente: è significativo che alcuni dei maggiori esponenti della classe politica liberale prefascista, pur presenti in assemblea (come Orlando, Nitti, Croce), pure autorevoli e ascoltati, siano rimasti fondamentalmente estranei "alle decisioni costituenti, e spesso si ritrovassero su posizioni critiche nei confronti delle scelte dell’assemblea(10).

4. Caratteri del processo costituente: il «compromesso » costituzionale.

Proprio la tensione al superamento di un passato vicino e meno vicino e al rinnovamento delle istituzioni e della società rappresentava uno dei fattori di quell’unità di intenti che, come si è notato all’inizio, caratterizzò la nascita della nostra Costituzione.

Forze politiche e correnti ideali diverse e anche profondamente divise fra loro trovavano una ragione di convergenza anzitutto nell’intento di superare definitivamente, con la nuova Costituzione, ciò che il fascismo aveva rappresentato sul terreno istituzionale: la compressione delle libertà civili e politiche, l’abolizione del pluralismo politico, il controllo autoritario del pluralismo sociale, il totalitarismo statale, la concentrazione del potere in un unico vertice, l’autarchia e il bellicismo nei rapporti con gli altri Stati. Tutto ciò si esprimeva nella volontà di dar vita ad una Costituzione «antifascista», non semplicemente «afascista» (11), emergente non solo nelle norme speciali e derogatorie con cui si volle precludere qualsiasi reviviscenza dell’esperienza del ventennio (XII disp. trans. fin.), ma nella cura con cui si vollero circondare di garanzie le libertà che il fascismo aveva concellato, e si volle creare un ordinamento in grado di evitare ritorni di autoritarismo (fattore, questo, non estraneo all’ispirazione fortemente garantista della carta).

Ma le maggiori forze costituenti erano anche unite dall’intento, sia pure generico, di dar vita ad un ordinamento costituzionale che superasse i limiti dello Stato liberale prefascista, rispetto alla cui esperienza esse si consideravano largamente estranee e in posizione di sia pur meno radicale antagonismo.

Le linee e le direzioni di questo superamento dello Stato liberale non erano certo le stesse per le varie correnti, e non erano sempre chiaramente tracciate. Tuttavia nella Costituzione è ben visibile questa tensione verso una nuova forma di Stato — lo Stato democratico-sociale — nel quale i principi dello Stato liberale dovevano essere integrati e in parte corretti: si pensi ad esempio al tema delle «comunità intermedie», in

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contrapposizione all’individualismo liberale fondato sul rapporto individuo-Stato nazionale (art. 2 Cost.), o alla «Costituzione economica» in cui i diritti di proprietà e d’iniziativa individuale venivano bensì ribaditi ma in un quadro di limiti e vincoli intesi a perseguire più equi rapporti sociali, e di interventi dei poteri pubblici diretti a guidare lo sviluppo economico e la ripartizione delle risorse (artt. 41, 42, 43, 44, 53 Cost.).

A questa ispirazione unitaria «in negativo» — antifascismo, superamento dello Stato liberale — non corrispondeva peraltro, come si è accennato, alcun programma comune in positivo. Di qui in poi, per così dire, gli intenti e le vedute delle varie forze e correnti divergevano anzi nettamente, e la fase costituente appariva perciò una premessa sulla cui base si sarebbe dovuta giocare poi una nuova decisiva partita per la trasformazione della società, partita affidata al prevalere, nella competizione democratica, di una o dell’altra delle forze.

Ciò fece sì che l’incontro e la convergenza delle grandi forze sui capisaldi della nuova Costituzione fosse talvolta un incontro su obiettivi generici (espressi in formule come «fini sociali», «equi rapporti sociali», e simili: cfr. artt. 41, 44 Cost.), piuttosto che su programmi d’azione specifici: il che contribuì ad imprimere alla carta quel carattere «programmatico» del quale si dirà, e che da taluni è visto come negativo.

La presenza di spinte e di istanze differenti e contrapposte talvolta emerge nell’uso di formule « antagoniste» o di segno diverso: si vedano ad es. il comma 1 e il 2 dell’art. 41 Cost. (libertà di iniziativa economica e utilità sociale), il comma 1 e il 3 dell’art. 42 Cost. (proprietà privata e limiti alla stessa); o anche il comma 1 e il 6 dell’art. 21 Cost. (libertà di manifestazione del pensiero e divieto delle manifestazioni contrarie al buon costume).

Più in generale, già in assemblea costituente varie voci si levarono a indicare il carattere «compromissorio» o addirittura «tripartito» della Costituzione(12). E sia nella storiografia sia nella polemica politica successiva, specie negli anni di maggior vivacità di movimenti culturali e politici di impronta radicale, la polemica contro il «compromesso» costituzionale venne spesso ripresa.

In realtà non è raro nella storia che i processi costituenti si sostanzino di «patti» o di «compromessi» fra forze e interessi diversi (basti pensare ai patti fra «Re e popolo», cioè tra autorità regia e classe politica borghese liberale, da qui nacquero molte Costituzioni ottocentesche).

Questo carattere di «patto» corrisponde del resto al ruolo proprio della Costituzione, di offrire una cornice relativamente stabile per lo svolgersi di processi politici non predeterminati, e nei quali il confronto e anche lo scontro fra diverse ipotesi e diversi obiettivi collettivi si possa svolgere senza trasformarsi in puro confronto di forza, privo di regole e senza esclusione di colpi.

La Costituzione italiana nasce anch’essa da un patto consapevole stretto da forze diverse e anche antagoniste fra loro. Non fu all’origine, e non è mai stata, una Costituzione «di maggioranza», in cui alcune forze vincenti si riconoscessero pienamente e altre, perdenti, non potessero riconoscersi; ma piuttosto una Costituzione «di tutti», alla quale le diverse forze, pur rimanendo antagoniste, potevano e possono appellarsi ad egual titolo.

È stato tante volte osservato che il processo costituente, avviatosi in assemblea e nella «commissione dei settantacinque» quando ancora erano al Governo i tre maggiori partiti, non si interruppe e non subì radicali svolte nemmeno dopo che, nel maggio 1947, la collaborazione tripartita venne meno, e si formò il primo Governo dell’era «centrista», con la democrazia cristiana e i suoi alleati laici, mentre i due grandi partiti della sinistra marxista andarono all’opposizione.

È vero che quando ciò accade l’elaborazione del testo costituzionale nell’ambito della commissione era ormai conclusa, si era concluso il dibattito generale in assemblea ed erano stati già approvati gli articoli dei principi fondamentali e della prima parte della Costituzione(13). Tuttavia resta significativo che la fase di dura contrapposizione politica apertasi allora, e riflessa anche nei dibattiti politici in assemblea costituente, non abbia provocato meccanicamente (come pure avrebbe potuto accadere, e come non di rado accade nella prassi dei partiti) una rottura della collaborazione ai fini del varo del testo costituzionale.

È assai probabile che conseguenze della nuova situazione, nel processo costituente, non siano mancate, e si siano riflesse anche nelle modifiche che al testo del progetto vennero apportate dall’assemblea plenaria. Resta però vero che, complessivamente, continuò un processo costituente che vedeva collaborare e trovare punti di incontro forze ormai schierate su fronti opposti nell’esperienza parlamentare e di governo.

Del resto tutte le forze che diedero vita alla Costituzione erano storicamente, allora, forze di minoranza, che pensavano o temevano di essere o di poter essere tali anche nel futuro, e perciò erano portate a preoccuparsi di garantire, nel nuovo ordinamento, spazi e garanzie per le minoranze, oltre che, o prima che, la possibilità per la maggioranza di far prevalere il proprio punto di vista.

Ciò spiega perché nell’esperienza repubblicana tanto spesso alla Costituzione si siano appellate le forze di opposizione, per invocarne le garanzie, per chiederne l’attuazione, magari per accusare le forze di governo e

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di maggioranza o comunque quelle dotate di maggiori poteri decisionali di violazione o di «tradimento» della stessa Costituzione; e perché in talune fasi si sia assistito al paradosso per cui forze, che alla Costituente erano state principali assertrici e artefici di certi istituti (ad esempio, l’ordinamento regionale), abbiano svolto in seguito un ruolo di ostacolo o di freno alla loro attuazione (tanto che qualcuno parlò di «ostruzionismo della maggioranza»)(14); mentre forze che alla Costituente erano diffidenti o avverse nei confronti degli stessi istituti si siano fatte più tardi paladine della loro attuazione. Questi atteggiamenti delle forze politiche si spiegano storicamente, tenendo conto delle diverse prospettive che per esse rappresentavano l’essere o il prevedere di essere al Governo o viceversa in posizione di minoranza.

Ma fu probabilmente una circostanza felice quella per cui al momento dell’elaborazione della Costituzione tutti i partiti scontavano la possibilità di essere destinati a rimanere minoranza, e favorirono quindi la scelta di un sistema costituzionale nell’ambito del quale potessero essere salvaguardate le loro esigenze essenziali anche in tale eventualità.

5. I «programmi» della Costituzione.

Tutto ciò, peraltro, non significa che la Costituzione italiana possa configurarsi solo come un insieme di «regole del gioco» a garanzia di tutti i protagonisti, a cui rimangono estranee scelte sostanziali.

Essa è anche «tavola di valori», esprime aspirazioni e obiettivi largamente condivisi, indica traguardi da raggiungere e non solo limiti da osservare. In ciò, ancora, emerge il carattere «programmatico» della Costituzione.

All’assemblea qualcuno osservò che la Costituzione non avrebbe dovuto essere «un programma per il futuro» (15). Ma prevalse l’idea che, invece, non ci si dovesse limitare a sancire garanzie per le conquiste già raggiunte (le libertà civili) ma si dovessero indicare anche gli obiettivi da raggiungere, per distanti che potessero apparire rispetto alla realtà del momento.

Di qui dichiarazioni programmatiche come quella dell’art. 3, comma 2, Cost. sull’uguaglianza sostanziale, o come la proclamazione di diritti (al lavoro, all’istruzione) la cui piena attuazione richiedeva e richiede molto di più che la semplice consacrazione in un testo normativo, e non può passare se non in piccola parte attraverso i tipici mezzi dell’enforcement giudiziario.

Ciò riduce, certo, ma non annulla la portata giuridica di tali proclamazioni. Non l’annulla, poiché resta il valore interpretativo che esse assumono rispetto alle altre norme della Costituzione e a quelle ordinarie; e resta il vincolo nei confronti del legislatore ordinario, cui è precluso di dettare discipline le quali appaiano in positivo contrasto con quelle indicazioni programmatiche. Onde anche queste norme «programmatiche» della Costituzione, come chiarì la Corte Costituzionale fin dalla sua prima sentenza (sent. n. 1 del 1956), possono costituire e costituiscono parametro per il giudizio di legittimità di disposizioni di legge, anteriori o posteriori alla Costituzione.

Il riferimento alle norme «programmatiche» della Costituzione, nei primi anni di applicazione di questa, aveva costituito, nella giurisprudenza dei giudici comuni, la base — impropria — di una costruzione che in sostanza tendeva a relegare molti precetti costituzionali (considerati, appunto, solo «programmatici» e non precettivi) nel limbo delle proclamazioni prive di concreta rilevanza nel diritto vigente, in quanto la loro attuazione sarebbe spettata solo al legislatore ordinario(16).

Questa teoria era pericolosa soprattutto perché, di fatto, conduceva talvolta i giudici a includere fra le «programmatiche» non solo le norme costituzionali che effettivamente indicavano traguardi lontani, raggiungibili solo a mezzo di complessi interventi del legislatore, ma anche principi di garanzia assolutamente idonei a trovare applicazione già nell’ambito del diritto vigente (come ad esempio i principi dell’art. 21 Cost. in tema di libertà di manifestazione del pensiero)(17).

Comunque il chiarimento, prodotto con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale, circa la piena idoneità di tutte le norme costituzionali a fungere da parametro per il sindacato di legittimità delle leggi ordinarie, anteriori e posteriori, neutralizzò il potenziale «eversivo» della rigidità della Costituzione, implicito nella costruzione accennata.

Resta il fatto della limitata attuabilità in via giudiziaria dei veri «programmi» costituzionali, là dove — come per l’attuazione del diritto al lavoro — occorrono misure positive e risorse che il giudice non può surrogare.

Comunque anche questi «programmi», oltre al valore di limite al legislatore e di canone interpretativo, di cui si è parlato, valgono talora a consentire o a rendere più facile l’evoluzione dell’ordinamento.

Così può non essere privo di significato il fatto che in Italia non sia accaduto, almeno in larga misura, ciò che è accaduto in altri ordinamenti, e cioè che le norme della Costituzione e i poteri di controllo sulla

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costituzionalità delle leggi siano stati invocati e utilizzati per contrastare, talora con successo almeno immediato, l’attuazione di programmi legislativi di più penetrante intervento pubblico nell’economia (nazionalizzazioni, espropriazioni). Ciò può più facilmente accadere in presenza di norme di garanzia, tipiche delle Costituzioni (in tema di proprietà e di iniziativa economica privata) non accompagnate da indicazioni pure di livello costituzionale a favore di interventi pubblici incidenti sull’economia privata a scopi collettivi (i «fini sociali» o 1’«utilità sociale» di cui parla l’art. 41 della Costituzione italiana).

In Italia è verosimile che la presenza delle indicazioni programmatiche, pur generiche, della Costituzione (artt. 41, 42, 43, 44) abbia reso più facile il superamento delle obiezioni e del controllo di costituzionalità in occasione delle (non molte) riforme legislative che hanno inciso sulla proprietà e l’iniziativa economica privata (come la riforma fondiaria degli anni ‘50 e la nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1962)(18).

E anche quando taluni interventi legislativi non hanno invece, superato positivamente il vaglio di costituzionalità (come nel caso della legislazione sui vincoli urbanistici e sugli espropri delle aree fabbricabili) ciò è accaduto in ragione degli effetti sperequanti che aveva la disciplina dettata dal legislatore, e non perché siano apparsi costituzionalmente preclusi interventi anche drasticamente innovativi sul regime proprietario(19).

Naturalmente i «programmi» costituzionali sono tendenzialmente generici e «aperti», nel senso che non se ne possono far discendere indicazioni stringenti a favore di determinati concreti assetti normativi, ma solo indicazioni di obiettivi, da conseguirsi con mezzi e per strade lasciate largamente alla discrezionalità del legislatore ordinario.

Ma questo carattere di «apertura» a diversi contenuti concreti, proprio del quadro costituzionale, costituisce un carattere e diremmo un pregio tipico delle Costituzioni di lunga durata: le quali in tanto possono rimanere ferme nel tempo nonostante i cambiamenti anche profondi della realtà economica, sociale e politica, in quanto siano abbastanza «elastiche» per conciliarsi con diversi programmi politici e legislativi.

Proprio certe «ambivalenze» e apparenti contraddizioni spesso segnalate nelle norme della Costituzione, specie sul terreno economico (come l’affermazione della libertà di iniziativa economica e la contemporanea affermazione dei limiti discendenti dall’utilità sociale e dalla sicurezza, libertà e dignità umana: art. 41, comma 1 e 2), conferiscono al quadro costituzionale quel carattere «aperto» che, almeno fino a quando non giunge a rendere irrilevanti le norme costituzionali, vanificandone l’essenziale funzione di garanzia, costituisce un pregio, come si è detto, delle Costituzioni «longeve».

La funzione garantistica della Costituzione si esplica attraverso la fissazione di «limiti di tolleranza» alle variabili scelte legislative, più che imponendo scelte legislative rigidamente univoche. Certo, vi sono ambiti — come quelli delle libertà civili — in cui l’esigenza di garanzia deve prevalere e quindi non si può ammettere un’eccessiva larghezza di tali limiti di tolleranza; mentre in altri ambiti, come quello della regolazione e del governo dell’economia, deve prevalere l’elasticità. Non a caso la nostra Costituzione, conformemente all’ispirazione «interventista» dello Stato democratico-sociale, conferisce carattere più rigido alle libertà civili e politiche, che non a quelle economiche.

Oggi non manca chi indica la necessità di fissare limiti più rigidi anche all’intervento pubblico nell’economia — e così ad esempio alla crescita delle spese pubbliche — a tutela dei caratteri fondamentali di un assetto economico-sociale in cui il comparto privato mantenga un ruolo essenziale: caratteri che certamente si riflettono anche sul tasso di effettiva libertà e democraticità dell’ordinamento nel suo complesso(20).

L’esigenza non è priva di fondamento, ma è almeno dubbia la possibilità e l’opportunità di adottare, per soddisfarla, la classica tecnica garantista delle Costituzioni, sancendo per via di norme costituzionali vincoli rigidi e assicurandone l’osservanza mediante strumenti analoghi a quelli della giurisdizione costituzionale (una sorta di «Corte Costituzionale economica» da taluno prospettata). Dubbia perché la realtà economica richiede grande flessibilità di interventi, e perché la tecnica dei parametri rigidi, garantiti giurisdizionalmente — al di là dei consueti canoni di eguaglianza e di ragionevolezza, che anche in questo campo possono svolgere il proprio ruolo —, poco sembra adattarsi a governare i complessi congegni dell’economia e degli interventi pubblici nell’economia.

6. La sistematica; i principi fondamentali e il loro valore giuridico.

La carta, come si sa, è suddivisa in «principi fondamentali» (artt. 1-12 Cost.) una prima parte intitolata ai «diritti e doveri dei cittadini» (artt. 13-54 Cost.), una seconda parte intitolata all’«ordinamento della Repubblica», e infine 18 norme transitorie e finali.

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La parte I è suddivisa in quattro titoli: rapporti civili (artt. 13-28 Cost.), rapporti etico-sociali (famiglia, salute, scuola: artt. 29-34 Cost.), rapporti economici (artt. 35-47 Cost.), rapporti politici (artt. 48-54 Cost.).

La parte II a sua volta si suddivide in sei titoli, dedicati rispettivamente: il primo al Parlamento (suddiviso in due sezioni: «le Camere» e «la formazione delle leggi»); il secondo al Presidente della Repubblica; il terzo al Governo (suddiviso in tre sezioni: «il Consiglio dei Ministri», «la pubblica amministrazione», «gli organi ausiliari»); il quarto alla Magistratura (suddiviso in due sezioni: «ordinamento giurisdizionale» e «norme sulla giurisdizione»); il quinto alle Regioni, Province e Comuni; il sesto alle garanzie costituzionali (suddiviso in due sezioni, dedicate a «la Corte Costituzionale» e a «revisione della Costituzione. Leggi costituzionali»).

L’architettura del testo risale a una precisa impostazione: dopo i principi fondamentali, la prima parte muove dall’individuo, visto prima come singolo, poi nelle diverse forme di vita sociale in cui è inserito (famiglia, scuola, organizzazioni economiche e di lavoro), fino all’organizzazione politica; nella seconda parte si disciplinano prima i poteri attivi e di indirizzo (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo) poi i poteri di garanzia (Magistratura), quindi gli istituti del decentramento politico, concludendo con la Corte Costituzionale (organo di garanzia dell’intero sistema costituzionale) e con la revisione della Costituzione(21).

I principi fondamentali della Costituzione non sono espressi né per intero, né soltanto nei primi dodici articoli, pure ad essi intitolati. Essi si ricavano piuttosto dall’intero testo. La loro individuazione non ha mero valore ricognitivo, ma anche normativo, poiché essi non solo costituiscono linee guida per l’interpretazione del testo costituzionale o per l’esplicitazione di regole in esso implicite, ma da un lato sfuggono, secondo una diffusa opinione, allo stesso potere di revisione, anche al di là dell’espresso divieto, sancito nell’art. 139, di sottoporre a revisione la forma repubblicana dello Stato; dall’altro lato costituiscono il nucleo inderogabile dell’ordinamento costituzionale, così che anche nei casi in cui la Costituzione ammette la possibilità di disporre delle discipline speciali derogatorie rispetto alle norme costituzionali, quei principi non possono essere intaccati.

Così la Corte Costituzionale ha ritenuto che la «specialità» delle autonomie delle Regioni a ordinamento differenziato (art. 116 Cost.), espressa nei rispettivi statuti adottati con leggi costituzionali, non può giungere fino a intaccare principi fondamentali come l’unità della giurisdizione costituzionale (e su questa base ha ritenuto che la previsione di un’Alta Corte per la Regione siciliana, pur contenuta nello statuto speciale, sia venuta meno con l’avvento della stessa Corte Costituzionale: sentt. n. 38 del 1957 e n. 6 del 1970); che le deroghe al diritto costituzionale comune che possono essere introdotte in esecuzione dei patti lateranensi e degli accordi di revisione degli stessi non possono comunque contrastare con i «principi supremi dell’ordinamento costituzionale» (e così ad esempio con il nucleo essenziale del diritto alla tutela giudiziaria: sentt. n. 30 e 31 del 1971, n. 18 del 1982); e parimenti che le deroghe alle competenze costituzionalmente stabilite, discendenti dall’adesione dell’Italia ai trattati e all’organizzazione delle Comunità europee, in tanto valgono in quanto siano rispettati i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (onde rimane questa l’unica riserva di sindacato costituzionale interno [indiretto] nei confronti delle norme comunitarie, che hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno italiano, prevalendo sulle fonti interne di grado legislativo o perfino su norme costituzionali: sentt. n. 98 del 1965,n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 399 del 1987).

Proprio perché i principi fondamentali della Costituzione non sono espressi in specifiche disposizioni del testo, la loro individuazione è affidata all’interprete (anzitutto alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che però in tema non è certo abbondante), e può presentare un certo grado di variabilità: e infatti gli autori che hanno tentato tale individuazione giungono a risultati parzialmente diversi, anche se c’è largo consenso sulla sostanza di questi principi.

7. Il primato della persona e le formazioni sociali.

In tema di rapporti fra individui e gruppi da un lato e poteri pubblici dall’altro, o di rapporti fra società e Stato, la Costituzione si ispira anzitutto all’idea-forza della centralità e del primato della persona umana, considerata come soggetto di diritti in certo senso anteriori a qualsiasi riconoscimento da parte dello Stato, e quindi non condizionati a finalità collettive di qualsiasi genere, anche se limitati e limitabili — ma non in qualsiasi direzione e misura — in vista di esigenze degli altri individui e della comunità, e quindi in vista dell’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà» (art. 2).

La Costituzione infatti riconosce e afferma solennemente a vari propositi la dignità e l’inviolabilità della persona (artt. 2, 3, comma 1, 13, commi 1 e 4, 32, comma 2, 41, comma 2) ; sancisce i vari diritti di libertà (artt. 13-28 Cost.) e le garanzie giudiziarie dei diritti (art. 24 Cost.), con norme il cui «nucleo fondamentale» (Corte Cost., sent. n. 18 del 1982) costituisce principio inderogabile dell’ordinamento costituzionale; e pone «il pieno sviluppo della persona umana» come mèta rispetto alla quale il potere non solo deve astenersi da

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interventi ostili, ma deve operare positivamente per superare gli ostacoli di fatto che vi si frappongono (art. 3, comma 2).

Al principio «personalista» si collegano quello di eguaglianza, essendo la parità giuridica (non solo dei «cittadini», ma, per quanto riguarda il godimento dei diritti fondamentali, di tutti gli esseri umani; Corte Cost., sentt. n. 120 del 1967; n. 104 del 1969) e l’obiettivo dell’eguaglianza «sostanziale» (art. 3, comma 2), corollari del primato della persona umana in quanto tale.

Al principio «personalista» si collegano quello di eguaglianza, essendo la parità giuridica (non solo dei «cittadini», ma, per quanto riguarda il godimento dei diritti fondamentali, di tutti gli esseri umani; Corte Cost., sentt. n. 120 del 1967; n. 104 del 1969) e l’obiettivo dell’eguaglianza «sostanziale» (art. 3, comma 2), corollari del primato della persona umana in quanto tale.

Al riconoscimento dei diritti individuali si accompagna nella Costituzione il riconoscimento esplicito delle «formazioni sociali» ove si svolge la personalità del singolo (art. 2). Questo principio «pluralista» è espressione tipica dello Stato democratico-sociale, che, pur innestandosi sul principio liberale dell’abolizione dei privilegi di categoria o di gruppo, lascia alle spalle l’impostazione «individualistica» del primo liberalismo, ispirata a diffidenza per ogni forma di organizzazione sociale che si frapponesse fra l’individuo e la collettività politica organizzata a Stato.

Peraltro anche le formazioni sociali sono riconosciute in quanto strumenti per lo sviluppo della persona, e non viceversa (infatti l’art. 2 pone l’accento sui diritti «dell’uomo... nelle formazioni sociali»).

Il riconoscimento delle formazioni sociali e il favor nei confronti di esse comportano da un lato l’attribuzione alle stesse di posizioni di libertà e di protezione nell’ordinamento statale, dall’altro lato l’esigenza del rispetto da parte dei poteri statali della loro autonomia, intesa come libertà di darsi una propria organizzazione e di determinare i modi della propria attività.

Da ciò discende fra l’altro l’inammissibilità di intromissioni statali nell’ambito delle organizzazioni sociali, dirette a sottoporle a un regime pubblicistico, asservendole agli interessi statali, e trasformandole in organi «ausiliari» dello Stato (secondo una vicenda non di rado rinvenibile nella legislazione a proposito di formazioni associative). Qui sta anche il limite ad ogni intervento legislativo di «regolazione» autoritaria di formazioni sociali, sia pure effettuato in nome della rilevanza sociale nella loro attività: quello che si chiamerebbe «giurisdizionalismo» nei confronti delle confessioni religiose, ma che può assumere forme e modalità non dissimili nei confronti, ad esempio, dei sindacati o delle associazioni di categoria o dei partiti.

C’è un limite, peraltro, anche all’obbligo di non interferenza dello Stato nella vita interna delle formazioni sociali, ed è quello nascente dal dovere di assicurare tutela ai diritti fondamentali della persona, anche contro gli attentati che possono derivare dai «poteri privati» che si esercitano nell’ambito di organizzazioni sociali. Vero è che normalmente la tutela del singolo si realizza attraverso la piena libertà di aderire o di non aderire ad una formazione associativa (donde l’essenziale profilo della libertà «negativa» di associazione), e quindi di recedere dal vincolo associativo e di dar vita eventualmente ad altre formazioni. Ma ciò non toglie che in certi casi (e per esempio quando si tratti di formazioni «ad appartenenza necessaria», come la famiglia, ma non soltanto in questa ipotesi) sia necessario l’intervento pubblico a tutela dei diritti fondamentali del singolo lesi o messi in pericolo nell’ambito della formazione sociale.

Ma l’aspetto più problematico del pluralismo è forse un altro, e si ricollega all’ipotesi in cui talune formazioni sociali chiedano ed ottengano dallo Stato non tanto il rispetto della loro libertà, ma regimi di agevolazione o di favore, o discipline speciali di sostegno (si pensi, per esempio, alla legislazione di sostegno dei sindacati, o di certe associazioni di categoria, o dei partiti, o delle confessioni religiose).

I limiti invalicabili (ma forse talvolta valicati) in questo campo dovrebbero essere rappresentati dal rispetto del principio di uguaglianza e di parità di possibilità (la Chancengleichheit dei tedeschi) nel trattamento delle varie formazioni sociali operanti sullo stesso terreno o perseguenti i medesimi interessi collettivi, indipendentemente dalla loro consistenza maggioritaria o minoritaria; dal divieto per lo Stato di conferire veri e propri privilegi o di far partecipare singole formazioni sociali all’organizzazione pubblicistica o all’esercizio dei poteri pubblici, trasformandole così per altra via (sia pure di favore) in organismi ausiliari dello Stato o prestando ai poteri sociali privati il «braccio secolare» dello Stato; dal rispetto dei diritti e dell’uguaglianza fondamentale fra tutti gli individui, appartenenti e non appartenenti alle spontanee organizzazioni sociali.

Questi dovrebbero anche essere i limiti della produzione di norme statali fondate su accordi fra poteri pubblici e organizzazioni sociali, o sulla recezione di accordi fra diverse organizzazioni sociali; fenomeno caratteristico del pluralismo contemporaneo, riconosciuto e fatto proprio anche dalla nostra Costituzione (si pensi al rinvio a norme pattizie per la disciplina dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose: artt. 7 e 8; o al conferimento di efficacia generale ai contratti collettivi di lavoro: art. 39 Cost.); fenomeno esteso nella pratica legislativa sia attraverso la previsione di nuove ipotesi normative (si pensi agli accordi che disciplinano il

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rapporto di servizio dei pubblici impiegati, ai sensi della l. 29 marzo 1983, n. 93), sia attraverso la frequente «negoziazione» di contenuti normativi fra autorità pubbliche e organizzazioni, ad esempio sindacali o di categoria.

Fenomeno che però, in base al principio pluralistico, ma anche a quello di fondamentale eguaglianza fra le persone, emergenti dalla Costituzione, dovrebbe appunto trovare il suo limite invalicabile non solo nell’esigenza di non asservire il potere pubblico a interessi particolari, ma anche nel divieto di dar vita a privilegi o a «statuti personali» differenziati in relazione all’appartenenza o meno dei singoli alle formazioni sociali cui essi liberamente aderiscono.

Il principio di eguaglianza «davanti alla legge» (art. 3, comma 1) non comporta certo divieto di discipline diversificate, e anzi esige tale diversificazione, in rapporto a situazioni oggettivamente diverse, apprezzate secondo i canoni (cui fa costante riferimento la ricca giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di eguaglianza) della ragionevolezza e della non arbitrarietà.

Ma la differenza ragionevole di discipline non può diventare discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali da parte dei singoli, né privilegio o sperequazione di possibilità fra gruppi sociali aventi analoghi scopi e caratteristiche.

Fermo questo limite invalicabile, il principio di eguaglianza «sostanziale» (art. 3, comma 2) impone di tener conto delle disparità di fatto, derivanti dalle condizioni economiche e sociali, per dettare discipline tendenti ad eliminarle o a ridurle, creando condizioni di migliore «giustizia sociale», anche compensando con posizioni di vantaggio legali la condizione di svantaggio in cui si trovano le parti (individuali e sociali) più deboli nei rapporti economici e sociali.

Questo è anche il significato della proclamazione secondo cui la Repubblica è «fondata sul lavoro». Non nel senso che l’attività lavorativa sia riconosciuta come aspetto assolutamente preminente della

persona (è l’uomo o la donna in quanto tale, con la sua dignità, indipendentemente dalla sua produttività, che è al centro del sistema costituzionale), né nel senso che in funzione dell’attività lavorativa si possano introdurre discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali o nella partecipazione al governo dello Stato (come avviene in talune Costituzioni degli Stati socialisti): ma nel senso che è il lavoro, come contributo di ciascuno «al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, comma 2), e non già requisiti di nascita, di censo o di altro genere, che fonda il ruolo sociale degli individui; e che l’ordinamento riconosce il primato del lavoro nei rapporti di produzione, in quanto elemento più direttamente attinente alle persone partecipi di quei rapporti.

Da qui, infine, il fondamento costituzionale delle discipline volte a realizzare una redistribuzione della ricchezza e dei redditi (cfr., artt. 42, 44, 53 Cost.).

Al medesimo criterio dell’uguaglianza «di fatto» si ispira il principio costituzionale che impone la tutela, con apposite norme, delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.), come gruppi che, proprio per la loro consistenza minoritaria, potrebbero vedere i propri componenti ostacolati o sfavoriti nel pieno sviluppo della propria personalità (ma naturalmente, ancora una volta, dovrebbe valere il limite derivante dal divieto di «statuti personali» discriminatori in ordine al godimento dei diritti fondamentali).

8. Principio democratico e principio garantistico nell’organizzazione costituzionale: gli organi di indirizzo politico.

In tema di struttura dei poteri pubblici, i principi-base della Costituzione sono quelli — propri della tradizione liberale-democratica — secondo cui l’autorità si fonda sul consenso dei governati (principio democratico) e deve essere organizzata in modo da garantire i diritti di tutti (principio garantistico).

L’appartenenza della sovranità «al popolo», e la precisazione secondo cui essa si esercita «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, comma 2, Cost.), esprimono sinteticamente questi principi.

La scelta repubblicana effettuata col referendum istituzionale del 2-6-1946 ha eliminato l’istituto di governo — la monarchia — che non fondava la propria legittimazione sul principio rappresentativo, ma sul possesso ereditario del trono.

Tutti gli organi cui è affidato il compito di effettuare le scelte di indirizzo e le scelte concrete per la cura degli interessi pubblici, nei limiti e nelle forme della Costituzione, sono organi che ripetono la loro legittimazione dal popolo, attraverso la periodica elezione diretta (come per il Parlamento e per le assemblee degli enti territoriali), o indiretta (come per il Presidente della Repubblica o per gli organi esecutivi degli enti territoriali) o attraverso il vincolo fiduciario che impone la conformità degli indirizzi alla volontà delle maggioranze di organi elettivi (come per il Governo): quando addirittura le decisioni non siano demandate al popolo stesso, attraverso gli istituti di democrazia diretta (il referendum, nazionale o locale).

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A questa fondamentale regola per l’organizzazione dei poteri pubblici si aggiungono varie forme di concorso dei cittadini, nelle diverse sedi e in funzione delle loro diverse qualifiche e attività, alla formazione di organi pubblici o di manifestazioni di volontà aventi rilievo nell’ambito dello Stato: dalle forme di autogoverno di taluni comparti dell’apparato pubblico (tipico quello della magistratura ordinaria previsto dall’art. 104 della Costituzione, e sul quale la legge ha modellato analoghe forme di autogoverno delle altre magistrature; ma si pensi ad esempio anche agli ordini professionali o alle Università), alle forme più recenti di partecipazione degli operatori e degli utenti di determinati servizi pubblici alla gestione degli apparati creati per la loro erogazione (ad esempio le scuole).

Tutto ciò è riconducibile al principio per cui la Repubblica promuove «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2).

Tuttavia, anche nell’organizzazione e nel funzionamento dei poteri «di indirizzo», al principio democratico-maggioritario si accompagna il principio garantistico e di diffusione del potere.

Di per sé, in astratto, il principio democratico-rappresentativo potrebbe essere attuato anche mediante l’attribuzione di tutti i poteri politici di indirizzo ad un unico individuo, eletto periodicamente da tutto il popolo. La Costituzione italiana però è ben lontana da una siffatta democrazia «plebiscitaria», perché fonda invece l’organizzazione dello Stato su criteri di massima diffusione del potere, sulla tradizionale concezione dei freni e dei contrappesi fra poteri diversi, anche fra quelli aventi carattere rappresentativo.

Così, i poteri normativi fondamentali sono attribuiti alle assemblee parlamentari (artt. 70, 76, 77, 78, 80, 81 Cost.), che per la loro stessa composizione assicurano una rappresentanza meno sintetica e più articolata del corpo sociale (e ciò anche a prescindere dalla scelta di sistemi elettorali che garantiscano in modo più o meno largo la rappresentanza delle minoranze, posto che la Costituzione non fa alcuna scelta in proposito). Il massimo potere rappresentativo, il Parlamento, è articolato in due Camere poste in condizione di parità (e ciò fu voluto essenzialmente in funzione garantistica, oltre che di maggiore articolazione della rappresentanza).

L’organizzazione interna del Parlamento è ispirata al principio proporzionalistico e di tutela delle minoranze (art. 72, comma 3, Cost.; art. 82, comma 2, Cost.; art. 83, comma 2, Cost.). Sono previsti poteri di equilibrio e di coordinamento del Presidente della Repubblica, concepito come organo rappresentante dell’«unità nazionale» (art. 87 comma 1, Cost.; art. 74 Cost.).

Lo stesso Parlamento può essere sciolto anticipatamente, rimettendo così al corpo elettorale le scelte fondamentali di indirizzo (art. 88 Cost.), o la sua volontà può essere verificata o contraddetta da una pronuncia diretta del corpo elettorale (artt. 75, 138 Cost.).

Il potere pubblico, pur nell’ambito di uno Stato unitario, è articolato sul territorio in enti di autogoverno dotati di competenze costituzionalmente garantite (artt. 5, 114, 128, 134 Cost.).

Così che la concezione stessa della democrazia cui si ispira la nostra Costituzione si fonda sull’affermazione del principio maggioritario e sulla contestuale affermazione del principio di tutela delle minoranze. Tra la preoccupazione di dar vita ad apparati pubblici capaci di efficienza e di immediatezza decisionale ed operativa, e quella di garantire un corretto uso del potere e prevenire arbitrii e sopraffazioni, non vi è dubbio che la nostra Costituzione dia maggior peso a questa seconda, come rilevano criticamente coloro che reputano il sistema istituzionale italiano troppo complicato e farraginoso, e poco idoneo a produrre decisioni. Ma si dovrebbe osservare, in proposito, che il ruolo fondamentale delle Costituzioni è proprio quello di assicurare un sistema di garanzia e di tutela perché il potere — anche quello democraticamente legittimato — sia esercitato correttamente e senza sacrificare essenziali diritti e interessi di nessun individuo e di nessuna parte.

Il costituzionalismo moderno è nato e si è sviluppato proprio come insieme di regole atte a controllare e limitare il potere politico, nella convinzione che un potere limitato e controllato sia meglio di qualsiasi dispotismo anche «illuminato» o anche plebiscitariamente legittimato.

In questo quadro, la Costituzione ha fatto un’opzione per la forma di governo parlamentare, nella quale cioè ad una distinta legittimazione e ad una più netta separazione fra Parlamento ed esecutivo si preferisce il coordinamento fra i due poteri, attraverso il vincolo fiduciario che lega il secondo al primo (art. 94 Cost.).

Un sistema parlamentare — secondo gli intenti del costituente — caratterizzato da «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo», come si esprimeva l’ordine del governo presentato dall’on. Perassi e approvato dalla seconda sottocommissione della commissione per la Costituzione(22).

Che tale intento sia riuscito, o sia riuscito pienamente, è assai discusso. È noto, comunque, che nella vita concreta del sistema parlamentare italiano, e più in generale delle

istituzioni repubblicane, ha assunto un’importanza crescente e sempre più evidente il ruolo dei partiti politici. Ruolo che la Costituzione non ignora, perché anzi considera i partiti strumento fondamentale a disposizione

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dei cittadini «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.), ma che si è sviluppato in forme e in campi, e con una incidenza, sconosciuti in altre epoche storiche e probabilmente nella maggior parte degli altri ordinamenti statali simili al nostro.

Di per sé questo è un fenomeno che attiene non tanto alla struttura costituzionale dello Stato quanto al concreto atteggiarsi delle forze sociali che nelle istituzioni operano, e in qualche misura possono piegarne il funzionamento a proprie esigenze e atteggiamenti. Poiché però i partiti condizionano proprio il modo di operare delle massime istituzioni costituzionali, è evidente che non si può, nel considerare e nel valutare l’«edificio» costituzionale, trascurarne il ruolo, e trascurare il modo concreto in cui si atteggia il sistema dei partiti.

Anzi, è sempre aperto l’interrogativo se i difetti o gli inconvenienti che spesso vengono segnalati nel funzionamento del sistema costituzionale siano, e in che misura, imputabili ai congegni previsti dalla Costituzione, o se essi risalgano, e in che misura, ai comportamenti delle forze politiche e sociali, e in special modo dei partiti; se quindi le riforme da tante parti auspicate si debbano perseguire essenzialmente attraverso l’affermazione di nuove regole costituzionali, o se piuttosto non dovrebbero passare attraverso una modifica degli atteggiamenti e dei comportamenti prevalenti nel sistema politico.

Vero è, peraltro, che, le forze in campo essendo quelle che sono, nuove regole formali potrebbero apparire (non è però detto che sempre siano) strumento necessario per indurre o incentivare tali nuovi comportamenti.

9. (Segue). Gli organi di garanzia.

Se poi si ha riguardo agli organi cui la Costituzione attribuisce direttamente funzioni di garanzia — fondamentalmente il potere giudiziario (titolo IV della parte II) e la giurisdizione costituzionale (titolo VI della parte II, sez. I), domina il principio garantistico, prevalendo su quello democratico.

Se infatti anche l’esercizio della giurisdizione viene ricondotto in linea di principio al popolo (art. 101, comma 1, Cost.), il proprium di tale funzione viene però indicato espressamente nell’applicazione della legge in posizione di indipendenza rispetto agli altri poteri (art. 101, comma 2, Cost., art. 104 Cost.), e, implicitamente, in posizione di estraneità rispetto agli interessi coinvolti, così da assicurare a tutti l’essenziale tutela giudiziaria dei diritti e degli interessi (artt. 24 e 113 Cost.).

Nella formazione e nell’attività degli organi giudiziari il principio dominante è quello di una selezione su basi di competenza tecnica e con criteri di imparzialità, e di un’assenza di condizionamenti sia pure provenienti dalla collettività o da organi rappresentativi: onde il principio elettivo nella nomina dei giudici, pur non escluso, ha un’applicazione circoscritta (art. 106, comma 2, Cost.), e incontra i limiti derivanti dall’esigenza di assicurare comunque l’indipendenza e l’imparzialità del giudicante.

La stessa volontà del massimo organo rappresentativo, espressa nella legge, non è incondizionatamente efficace, potendo essere sindacata sotto il profilo della sua conformità alla Costituzione dall’apposito organo di giustizia costituzionale, nella cui composizione il principio rappresentativo, pur non ignorato, cede rispetto ai principi dell’indipendenza e dell’imparzialità.

L’istituzione della giurisdizione costituzionale, col compito, oltre che di giudicare sulla costituzionalità degli atti legislativi, di garantire il rispetto delle sfere costituzionali di competenza dei poteri e delle articolazioni centrali e periferiche della Repubblica, rappresenta senza dubbio uno degli aspetti più significativi e più incisivi del quadro costituzionale cui si è dato vita con la carta del 1948: portando in qualche modo a compimento l’attuazione dei principi di tutela dei diritti, di garanzia e di diffusione del potere, che sono alla base del costituzionalismo moderno.

L’inderogabilità della tutela giudiziaria dei diritti (art. 24 Cost.), da un lato, la garanzia giurisdizionale della Costituzione, con quello che è stato chiamato il «principio di legittimità costituzionale» (23), dall’altro lato, segnano le «clausole generali», le pietre miliari che assicurano l’effettività e la rigidità della Costituzione.

In un senso più ampio e comprensivo, il principio democratico è destinato a informare di sé tutto l’ordinamento. Così esso comporta che i poteri — tutti i poteri, anche quelli che non sono organizzati sulla base del principio rappresentativo maggioritario — operino secondo regole prestabilite, e in modo visibile, alla luce del sole. La «trasparenza» del potere, si potrebbe dire, è uno dei postulati di questo principio.

Esso comporta la possibilità di conoscere e controllare ogni manifestazione d’esercizio del potere, di sottoporla a discussione e a critica.

Non ci possono essere, da questo punto di vista, immunità assolute, né zone franche sottratte al controllo.

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Così devono essere controllate le decisioni di politica estera, in passato appannaggio prevalente dell’esecutivo e protette spesso da prassi di diplomazia segreta (art. 80 Cost.); i segreti di Stato devono essere limitati e posti sotto la responsabilità degli organi democraticamente legittimati; la pubblicità è la regola non solo per i lavori dell’assemblea rappresentativa, ma anche per i dibattimenti giudiziari; perfino nell’ambito degli apparati tradizionalmente più ispirati a criteri di gerarchia, come le forze armate, l’ordinamento deve informarsi «allo spirito democratico della Repubblica» (art. 52, comma 3, Cost.).

10. L’apertura sovranazionale.

La Costituzione italiana non manca infine di allargare lo sguardo alla collocazione della Repubblica nel sistema internazionale, ispirandosi all’idea che anche la comunità internazionale degli Stati debba essere costruita sulla base del diritto e secondo principi di pacifica cooperazione. Anche in ciò si manifesta un ideale costituzionale più maturo e più completo di quello che emergeva dalle Costituzioni degli Stati nazionali dell’Ottocento.

In particolare, da un lato è espressamente riconosciuta l’esigenza che lo Stato si adegui anche all’interno agli obblighi che discendono dalla sua appartenenza alla comunità internazionale (art. 10 Cost.). Dall’altro lato, la Costituzione apre esplicitamente le porte, sia pure a condizioni di parità con gli altri Stati, alle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni», e alle «organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (art. 11 Cost.).

È così intaccato il mito dell’assolutezza e dell’esclusività della sovranità statale; vi sono spazi (e sono in concreto, ad esempio, quelli configurati dai trattati istitutivi delle Comunità europee) in cui lo stesso ordinamento giuridico interno per così dire si ritira, per fare posto a norme e a poteri sovranazionali, capaci di vincolare direttamente i cittadini, e la cui autorità è direttamente riconosciuta e garantita dagli apparati esecutivi e giudiziari della Repubblica.

Sono in tal modo anche poste le premesse per giungere, se la politica di unificazione progredirà, a forme più strette di unione, fino ad una federazione europea, la cui nascita troverebbe già, nella carta del 1948, fondamento e legittimazione costituzionale.

11. La lenta attuazione della Costituzione.

Si è accennato all’inizio al lungo e travagliato processo dell’attuazione costituzionale. Sorta sulle rovine del vecchio Stato, la Repubblica ne ha ereditato peraltro quasi tutte le strutture; così

che per molti anni e decenni, e in parte tuttora, la Costituzione ha rappresentato l’avanguardia «presbite» — perché guardava lontano (24) — di un ordinamento largamente ancora fermo al passato.

Sostituite col referendum le istituzioni repubblicane a quelle monarchiche, varata la Costituzione del 1948, con la sua struttura essenziale di Camere, Governo e Capo dello Stato, all’inizio però molte delle istituzioni nuove da essa previste rimasero sulla carta, più o meno a lungo.

Così che i primi bilanci dell’età repubblicana — a cinque o dieci anni dall’entrata in vigore della carta, scaduti invano vari termini che la carta aveva previsto per il completamento del nuovo ordinamento (VI, VIII, IX, XVI disp. trans. fin.) - furono necessariamente in gran parte bilanci di una inattuazione costituzionale(25).

Tale situazione si è protratta molto a lungo, e in parte perdura tuttora. Si pensi che fino al 1971 lo stesso regolamento della Camera dei deputati era ancora, rimaneggiato,

quello risalente al 1920-22; che fino al 1988 le norme legislative sull’organizzazione e sull’attività del governo risalivano alla fine dello scorso secolo o al primo trentennio di questo(26); che solo nel 1981 si è realizzata, in modo peraltro incompiuto, la riforma della giustizia penale militare, mentre solo nel 1986 si è realizzata una forma di autogoverno e quindi la piena indipendenza della magistratura amministrativa; che tuttora non è stato sostituito l’ordinamento giudiziario del 1941(27), né la legge comunale e provinciale, risultante ancora, nei suoi nuclei fondamentali, dai testi unici del 1915 e del 1934(28). Ma anche la legislazione non di diretta attuazione della Costituzione, ma pur sempre bisognosa di adeguamento ai nuovi principi, è rimasta largamente e a lungo, e in molta parte è tuttora, quella delle epoche precedenti.

Così solo nel 1988 è entrato in vigore (...) il nuovo codice di procedura penale(29), mentre il codice civile, il codice di procedura civile e il codice penale (per non parlare del codice penale militare) sono ancora quelli di prima, salvo novelle parziali; la legge di pubblica sicurezza è ancora il testo unico del 1931(30), «sbrindellato» da numerose dichiarazioni di incostituzionalità.

Tuttavia, nonostante il permanere, sotto il nuovo tetto, di tante vecchie mura più o meno rabberciate, l’edificio costituzionale si è pian piano, se non compiuto, certo delineato secondo il disegno della carta. Non è

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il caso di ripercorrere qui analiticamente tutte le tappe legislative (e giurisprudenziali) di quest’opera di attuazione. Basterà ricordare le principali.

Negli anni Cinquanta prendono vita la Corte Costituzionale(31), il Consiglio superiore della Magistratura previsto dall’art. 104 Cost.(32), il Consiglio superiore di difesa (33) e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro(34), e si realizza un modesto decentramento di funzioni amministrative(35). Negli anni sessanta molta parte dell’attenzione delle forze politiche è volta alla legislazione in materia di programmazione economica(36); solo alla fine di questo periodo vengono varate le leggi di attuazione dell’ordinamento regionale(37).

L’inizio degli anni settanta vede, oltre all’avvento delle Regioni ordinarie, l’attuazione dell’istituto del referendum (38) la cui applicazione conoscerà subito fasi di grande vivacità, l’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali (39) e il varo dei nuovi regolamenti delle Camere(40).

Al 1981, come si è ricordato, risale la riforma dei tribunali militari(41). Si dovrà attendere il 1988 per vedere finalmente la legge sull’ordinamento della Presidenza del

Consiglio promessa dall’art. 95, comma 3, della Costituzione(42). Manca ancora, è incorso d’esame, una legge regolatrice dello sciopero (art. 40 Cost.).

Si può dire oggi che l’ultima area rimasta di schietta inattuazione costituzionale sia quella dell’ordinamento sindacale: i meccanismi previsti dall’art. 39 per la registrazione dei sindacati e la stipulazione di contratti collettivi con efficacia generale non solo non sono stati attivati, ma le forze sindacali ne contestano apertamente l’attuazione, mentre il legislatore batte varie strade più o meno apertamente distanti o elusive rispetto a quella previsione (così quando fonda sulla maggior rappresentatività, anziché sulla proporzionalità, il rilievo dato alle organizzazioni sindacali nell’ambito pubblicistico).

Si tratta forse dell’unica scelta costituzionale esplicitamente contestata dalla maggioranza delle forze politiche sociali.

Così che, a questo proposito, l’alternativa all’inattuazione (che tuttavia sussiste) appare, anziché l’attuazione, la modifica dello stesso disposto costituzionale (eppure nemmeno questo processo di revisione è ancora concretamente avviato). Andrebbero poi ricordate le leggi, se non di diretta attuazione costituzionale, quanto meno incidenti in settori di grande rilevanza costituzionale, come le misure di prevenzione(43), le associazioni vietate(44), le garanzie di difesa nel processo penale(45), l’ordinamento penitenziario(46), i trattamenti sanitari obbligatori(47), l’informazione(48), la revisione del concordato lateranense(49), le intese con i culti acattolici(50), la tutela delle libertà nei luoghi di lavoro(51), la condizione della donna nel rapporto di lavoro e nell’accesso ai pubblici uffici(52), la disciplina del rapporto di pubblico impiego(53), il finanziamento pubblico dei partiti(54), il riconoscimento dell’obiezione di coscienza(55); e ancora, nel campo organizzativo, la legislazione elettorale(56), il servizio sanitario nazionale(57), i servizi segreti(58), la disciplina militare(59), l’ordinamento della pubblica sicurezza(60), e altre(61).

In complesso, una produzione legislativa ormai imponente, anche se per lo più, oltre che tardiva, parziale e frammentaria, e non sostitutiva, inmolti casi, della legislazione preesistente.

12. I protagonisti dell’attuazione.

I protagonisti dell’attuazione (o volta a volta dell’inattuazione) della Costituzione sono molteplici. Anzitutto, certamente, le istituzioni investite di compiti legislativi, e, in esse le forze politiche che ne

concretano e ne orientano la volontà. Il richiamo alla Costituzione, come quadro da attuare o come limite da non varcare, è stato sempre, ed è

tuttora, molto frequente nel lavoro legislativo e nel dibattito politico, in Parlamento e nel Governo. Non altrettanto costanti si può dire siano stati l’attenzione e l’impegno dedicati dal legislatore al compito di adeguare l’ordinamento alla Costituzione.

Tra gli organi di garanzia, in senso ampio, il Presidente della Repubblica ha spesso svolto un ruolo di esplicito richiamo all’esigenza di attuazione costituzionale. Sono rimasti celebri gli inviti del Presidente Gronchi, già nel suo discorso di insediamento del 1955(62), ad accelerare il processo di attuazione. Per lo più, tuttavia, il ruolo del Capo dello Stato non è andato al di là di questa funzione di richiamo e di stimolo, secondo il modello di un Presidente «magistrato di persuasione e di influenza» (63).

Più limitati sono stati gli interventi del Presidente volti direttamente a scongiurare violazioni della Costituzione: i non numerosissimi casi di rinvii presidenziali di leggi sono stati, è vero, quasi tutti motivati da ragioni di incostituzionalità (per lo più da riscontrate violazioni del precetto costituzionale della copertura finanziaria delle nuove spese: art. 81, comma 4, Cost.), ma hanno avuto luogo in genere nei riguardi di leggi di non rilevante importanza politica. Assai più significativo è il concorso, nel processo di attuazione della

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Costituzione, degli organi giurisdizionali. Per la verità, nei primi anni dopo l’entrata in vigore della carta, la magistratura non dimostrò un grado particolarmente elevato di sensibilità costituzionale, mostrandosi spesso propensa ad appoggiare la continuità nell’applicazione delle vecchie leggi in gran parte ereditate dal passato ordinamento.

Varate nel 1953 le leggi sulla Corte Costituzionale, con il 1956 poteva entrare in funzione questo organo dal ruolo particolarmente rilevante ai fini della garanzia e dell’applicazione della Costituzione. Da allora l’attuazione di quest’ultima è passata talora più largamente attraverso le pronunce della Corte, che dichiaravano incostituzionali (spesso non senza «manipolazioni» atte a salvarne in parte la portata) disposizioni legislative precedenti o affermavano interpretazioni correttive delle stesse in nome della Costituzione, che non attraverso le deliberazioni legislative del Parlamento.

Osservando complessivamente le vicende di questi quarant’anni, si deve riconoscere che buona parte dell’adeguamento dell’ordinamento ai nuovi principi e alle nuove regole è avvenuta in virtù dell’affermazione (inizialmente non scontata) secondo cui il controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi (che pure era stato pensato in funzione di garanzia nei confronti del legislatore futuro) si esercitava egualmente anche nei confronti delle leggi anteriori alla Costituzione; nonché in forza della giurisprudenza — ora più coraggiosa, ora più cauta — della Corte Costituzionale.

Nel frattempo, certamente anche in virtù dell’opera della Corte Costituzionale, ma anche in virtù di altri fattori culturali e strutturali concernenti gli apparati giudiziari, la magistratura — o meglio le magistrature — hanno manifestato una crescente sensibilità all’esigenza di adeguamento costituzionale della legislazione.

Questo atteggiamento si è riflesso sia nell’uso molto più largo — e che talora può perfino essere giudicato eccessivo — della Costituzione ai fini di argomentare interpretazioni innovative delle leggi, interpretazioni appunto «conformi a Costituzione»; sia nella frequente rimessione alla Corte Costituzionale di questioni di costituzionalità, relative sia a leggi anteriori che a leggi posteriori alla Costituzione.

Così che il timore espresso da alcuni, che il sistema incidentale di introduzione del giudizio sulle leggi costituisse una «porta stretta» che i giudici avrebbero aperto con troppa parsimonia, è stato sostituito dalla constatazione di una sovrabbondanza di incidenti sollevati, non sempre con buon fondamento: onde la stessa Corte è stata indotta negli anni più recenti a verificare con rigore i requisiti delle questioni sollevate, ricorrendo spesso a dichiarazioni di inammissibilità o di manifesta infondatezza che hanno voluto costituire anche un implicito richiamo ai giudici perché impiegassero con più rigore e misura questo loro potere.

Va infine osservato che, nel clamoroso ritardo manifestatosi in molti campi nell’adeguamento legislativo alla Costituzione, ha probabilmente avuto un ruolo, fra i vari fattori concorrenti, anche l’opera di «supplenza» che la Corte Costituzionale ha intrapreso, attraverso tecniche di decisione che evitano quanto possibile il vuoto legislativo, «manipolando» le leggi esistenti per adeguarle alle esigenze minime della Costituzione: opera che ha tolto al Parlamento l’incomodo di dover intervenire per forza a colmare i vuoti.

Sezione III LA COSTITUZIONE ECONOMICA

Il fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella CostituzioneIl fattore economico nella Costituzione

Il diritto oggettivo si occupa di rapporti economici. Ci sono norme sulla proprietà dei fattori di produzione. Ci sono norme che disciplinano i contratti stipulati nello svolgimento di attività economiche. Ci sono norme che regolano i rapporti di lavoro. Ci sono norme che prevedono oneri burocratici a carico delle imprese. Ci sono norme che definiscono il diritto delle società e dell’impresa in generale. Ci sono norme che individuano forme di intervento dello Stato in ambito economico. Senza, infine, trascurare le norme che prevedono e disciplinano imposte, tasse, tributi. Il diritto oggettivo si occupa, dunque, del fattore economicofattore economicofattore economicofattore economico. Un conto, però, è che se ne occupi il legislatore ordinario, vale a dire l’insieme delle istituzioni abilitate dall’ordinamento a porre in essere fonti primarie del diritto (leggi, decreti legge, decreti legislativi, leggi regionali). Altro è che se ne occupi la costituzione, quale fonte superprimaria del diritto. In effetti, nel primo caso, la disciplina del fattore economico risentirà delle vicende legate alla alternanza politica. Ad ogni elezione si insedierà una maggioranza, o diversa da quella precedente o

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uguale ma con qualche sfumatura differente, che avrà una propria “idea” dell’economia, e in base a questa idea deciderà se e come regolare, con fonti primarie, le attività economiche. In altri termini, ogni maggioranza avrà un indirizzo politico, e alla luce di questo cercherà di definire l’assetto dei rapporti tra diritto ed economia. Pertanto, in caso di vittoria di una coalizione di centrodestra, ci si potrà attendere l’approvazione di leggi orientate verso il mercato, la libera concorrenza, la riduzione dell’intervento pubblico in campo economico, una disciplina dei rapporti di lavoro più sensibile alle ragioni dell’imprenditore. In caso di vittoria di una coalizione di centrosinistra, sarà lecito attendersi provvedimenti di segno diverso: più tutele per il lavoro, più Stato nei rapporti economici, più controlli sulle imprese, maggiore sicurezza sociale anche a costo di aumentare le tasse. In definitiva, ad ogni tornata elettorale si avrà un mutamento del diritto dell’economia. Se, invece, è la stessa costituzione ad occuparsi del fattore economico, anche solo sotto forma di princìpi generali, il diritto dell’economia si evolverà su fondamenta più stabili. Saremmo in presenza, cioè, di alcuni “pilastri” che nessuna maggioranza, di un colore o dell’altro, potrà ignorare o alterare. Ciò perché la costituzione è vincolante per le leggi approvate dalle maggioranze che si avvicenderanno al potere nel corso degli anni. Nello Stato liberale classico dell’Ottocento, le costituzioni ignorarono il fattore economico o, comunque, ad esso dedicarono uno spazio insignificante. Il pensiero liberale era incline a considerare lo Stato quale organizzazione preposta a garantire la sicurezza delle relazioni economiche, non a condizionarle direttamente o in via mediata. Allo Stato il liberalismo chiede forze di polizia, tribunali, esercito, difesa dei confini, gestione della moneta, regolamentazione dei contratti: non si aspetta certo interventi idonei ad alterare la “spontaneità” delle relazioni economiche. Uno Stato leggero, quindi, chiamato ad occuparsi solo delle condizioni minime di corretto, ordinato e pacifico svolgimento delle attività economiche. Stando così le cose, e tenuto conto anche della concezione di costituzione che si era affermata nell’Europa continentale, la costituzione non avrebbe dovuto occuparsi del fattore economico: una una una una costituzione minima per uno Stato altrettanto minimocostituzione minima per uno Stato altrettanto minimocostituzione minima per uno Stato altrettanto minimocostituzione minima per uno Stato altrettanto minimo. La situazione cambia quando i fallimenti del mercato dimostrano la necessità impellente di un massiccio intervento dello Stato in economia allo scopo di garantire una maggiore giustizia sociale in termini di più equa distribuzione della ricchezza. Su questo punto ci si soffermerà anche più avanti. Sta di fatto che cambia la percezione del ruolo delle istituzioni pubbliche in campo economico. Non più uno Stato leggero, passivo spettatore dei rapporti tra gli attori economici, bensì uno Stato protagonista, chiamato ad intervenire per fornire beni e servizi che, altrimenti, il mercato non offrirebbe in quanto non idonei a produrre profitto. Se muta il ruolo dello Stato, allora cambia anche la sensibilità delle costituzioni rispetto al fattore economico: una costituzione pesante per uno Stato altrettanto pesanteuna costituzione pesante per uno Stato altrettanto pesanteuna costituzione pesante per uno Stato altrettanto pesanteuna costituzione pesante per uno Stato altrettanto pesante. Le carte costituzionali approvate dopo la fine della seconda guerra mondiale sono ricche di disposizioni che riguardano direttamente o condizionano il fattore economico. In particolare, la nostra Costituzione si occupa del fattore economico: - l’art. 1 fonda sul lavorolavorolavorolavoro la democratica Repubblica italiana; - l’art. 2 esige anche l’adempimento dei doveri di solidarietà economicasolidarietà economicasolidarietà economicasolidarietà economica; - l’art. 3 impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economicoostacoli di ordine economicoostacoli di ordine economicoostacoli di ordine economico che, di fatto, impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita comunitaria; - l’art. 4 definisce il lavorolavorolavorolavoro come diritto/dovere per concorrere anche al progressoprogressoprogressoprogresso materiale della società; - il Titolo III della parte I è intitolato “Rapporti economiciRapporti economiciRapporti economiciRapporti economici”: in esso sono presenti sia norme sul lavorolavorolavorolavoro (artt. 35-40), sia norma sull’impresaimpresaimpresaimpresa (artt. 41 e 43), sulla proprietàproprietàproprietàproprietà (art. 42), e su altri profili rilevanti dal punto di vista economico (artt. 44-47); - tributi, imposte, tassetributi, imposte, tassetributi, imposte, tassetributi, imposte, tasse, sono contemplati dagli artt. 23 e 53;

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- l’art. 81 si occupa del bilancio dello Statobilancio dello Statobilancio dello Statobilancio dello Stato e delle leggi di spesa; - l’art. 99 prevede il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CnelCnelCnelCnel), composto da esperti e rappresentanti delle categorie produttive; - con la riforma costituzionale del 2001 sono stati rivisti i rapporti tra la legge statale e quella regionale (art. 117): alla prima è assegnato il compito di provvedere alla «tutela della concorrenzatutela della concorrenzatutela della concorrenzatutela della concorrenza», alla seconda sono concessi molti spazi di intervento in campo economico; - il nuovo art. 120 autorizza la sostituzione statale, in caso di inerzia delle Regioni e degli enti locali, anche quando sia in gioco la «tutela dell’unità economicaunità economicaunità economicaunità economica»; - lo stesso art. 120 vieta alle Regioni l’istituzione di dazi e l’adozione di misure volte ad impedire o ostacolare la libera circolazionelibera circolazionelibera circolazionelibera circolazione di beni e persone tra i diversi territori. La proliferazione di carte costituzionali che si occupano direttamente, e massicciamente, del fattore economico, ha indotto molti studiosi, soprattutto in Germania, a parlare di costituzione costituzione costituzione costituzione economicaeconomicaeconomicaeconomica. Ebbene: qual è il senso di questo concetto ? Al tema è dedicata la voce, redatta da M. Luciani, che potrà essere letta di qui a poco. Prima, però, appare introdurre il tema in questi termini. Per “costituzione economica” si potrebbe intendere l’insieme delle disposizioni che, per l’appunto, si occupano del fattore economico, considerato in senso ampio. Tuttavia, questa definizione avrebbe una portata meramente descrittivadescrittivadescrittivadescrittiva, utile quindi a fini didattici o per l’organizzazione del contenuto di un manuale di diritto costituzionale o di diritto pubblico dell’economia. In alternativa, si potrebbe pensare alla “costituzione economica” come una nozione prescrittivaprescrittivaprescrittivaprescrittiva, tale quindi da indurre a considerare la parte economica della costituzione come un corpo autonomo di norme, disgiunto dal resto del testo costituzionale. Un corpo autonomo di norme, questo, in grado di muoversi liberamente nell’ordinamento legittimando scelte del legislatore ordinario anche disarmoniche rispetto a tutti gli altri princìpi enunciati nella costituzione. In breve: - la “costituzione economica” in senso descrittivo rischia di essere inutile, vuota; - la “costituzione economica” in senso prescrittivo rischia di esse pericolosa, fuorviante. M. LUCIANI, voce Economia nel diritto costituzionale, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. V, Utet, Torino, 1990, pp. 373 ss.

1. La «Costituzione economica»: una formula non convincente.

La Costituzione italiana dedica ai «Rapporti economici» l’intero Titolo III della Parte I, e cioè gli artt. da 35 a 47. Questi — integrati da poche altre disposizioni (in particolare, dagli artt. 4, 53, 81 e 99 Cost.) — comporrebbero secondo un indirizzo piuttosto diffuso la cosiddetta Costituzione economica. Con questa espressione si possono intendere — e di fatto si intendono — almeno due cose. In una prima accezione, si usa «Costituzione economica» (non a caso in genere tra virgolette...) solo come formula riassuntiva per indicare sinteticamente ed allusivamente l’insieme delle norme costituzionali in materia economica. In una seconda, per la verità poco fortunata nella dottrina italiana (che in genere dà «letture» più o meno unitarie della Costituzione), si parla di Costituzione economica come di un complesso normativo in qualche misura autonomo rispetto all’insieme della Costituzione, della quale peraltro sarebbe il nocciolo essenziale, il dato realmente infungibile attorno al quale finiscono per ruotare i (viceversa) contingenti contenuti delle disposizioni relative ai rapporti politici, sociali, ecc.

Né l’uno né l’altro di questi indirizzi — del resto spesso commisti negli scritti dei singoli studiosi — può essere condiviso.

Le maggiori perplessità le suscita evidentemente il secondo, più netto e radicale dell’altro nelle sue affermazioni. Anzitutto, è stato già osservato (1) che isolare una sfera dell’«economico» rispetto agli altri contesti nei quali si esplicano le attività sociali dell’uomo è quantomeno problematico, e che

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conseguentemente lo è ancora di più postulare un’autonomia delle disposizioni «in materia economica» (2) all’interno di testi normativi come quelli costituzionali, che hanno l’ambizione di dettare le regole fondamentali di un sistema sociale nella sua intierezza. La tesi presuppone in secondo luogo — più o meno avvertitamente — una separazione, una contrapposizione fra società e politica, fra Stato e mercato, che non può essere accettata nelle Costituzioni degli odierni Stati sociali(3). È infine, per ciò che specificamente riguarda l’esperienza italiana, in contrasto con il diritto positivo. Una «Costituzione economica» che aspirasse ad essere realmente autonoma, infatti, dovrebbe ruotare attorno ad almeno un principio fondamentale effettivamente «economico». E mentre questo, ad esempio, non manca nella Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania (4) — che agli artt. 104a, 109 e 115 esige il raggiungimento e il mantenimento dell’equilibrio economico generale, del gesamtwirtschaftliches Gleichgewicht (5) — nulla di simile è riscontrabile da noi(6). Tutt’al contrario: sono proprio quelle che dovrebbero fungere da norme-cardine della «Costituzione economica» — gli artt. 41 e 42 Cost. — (7)che fanno riferimento a valori specificamente sociali (utilità sociale, fini sociali, funzione sociale) quali condizioni e limiti (interni o esterni, non importa qui precisare) delle situazioni economiche di vantaggio. Limiti che — come si vedrà in seguito — si ricollegano a quella disposizione evocativa di un progetto di generale trasformazione sociale che è l’art. 3, comma 2, Cost.

Questi argomenti non possono evidentemente essere impiegati anche per la critica del primo atteggiamento riscontrabile in dottrina(8). Questo, tuttavia, deve ritenersi egualmente pericoloso, o almeno poco concludente. Pericoloso, perché si serve di un’espressione linguistica che — pur se usata con tutti i dovuti distinguo — è comunque fortemente evocativa e può essere fraintesa. Poco concludente, perché se è vero — come è vero — che la Costituzione è un tutto unitario(9), il riferimento alla Costituzione economica non ha alcun pregio euristico.

Parlare della disciplina costituzionale dell’« economia», dunque, si può solo se non si perde di vista l’impianto unitario della nostra Costituzione; se non si postula un’autonomia di questo settore nei confronti degli altri oggetti delle norme costituzionali(10); se non si dimentica che le interconnessioni fra la disciplina del sottosistema economico e quella del sistema sociale nel suo complesso sono così profonde(11), che la prima può essere isolata solo per comodità di analisi e — comunque — non altro che in prima approssimazione.

2. La Costituzione italiana e la materia economica.

Il modello di struttura economica disegnato in Costituzione è dunque intimamente legato al sistema costituzionale dei rapporti sociali e politici. Quali ne sono, comunque, le linee fondamentali? Si scontrano, in proposito, due linee interpretative(12). La prima — maggioritaria — rileva nella Costituzione la compresenza di una molteplicità di ispirazioni ed ideologie economiche (segnatamente, la socialista, la cattolica e la liberale), ciascuna delle quali è incapace di prevalere sulle altre(13), con cui deve invece armonizzarsi in forme compromissorie(14). La seconda — che accusa l’altra di essere «oggetto di una stanca e trita ripetizione» — afferma invece che «non vi sono disposizioni normative accolte nel testo della Costituzione le quali... non possano essere con tutta naturalezza ricondotte nel quadro di un’accettazione piena del modello economico della democrazia sociale», e cioè del modello dell’«economia mista» (15), che in Assemblea costituente sarebbe stato sostanzialmente imposto alle sinistre dalla maggioranza centrista, e non sarebbe in nulla originale e diverso da quello di qualunque democrazia occidentale.

Ora, non v’è dubbio che il modo di produzione disegnato dalla Costituzione sia quello capitalistico, sicché, al contrario di quanto ha scritto qualcuno(16), l’introduzione del modo di produzione socialista non sarebbe possibile restando all’interno del quadro costituzionale(17). E non meno certo è che la Costituzione abbia allo stesso tempo circondato l’iniziativa economica privata di incisivi limiti e controlli (affiancandole anche una significativa iniziativa pubblica), sicché può a ragione parlarsi di un riconoscimento costituzionale dell’«economia mista». Questo, però, non può far dimenticare alcuni dati essenziali, che caratterizzano specificatamente il modello costituzionale italiano. Anzitutto che, se è pur vero che le aspirazioni delle sinistre furono alla Costituente in qualche modo ridimensionate — specie dopo la reiezione dell’emendamento Montagnana — (18)ricerche recenti hanno mostrato come in esse — anche e forse soprattutto in campo comunista — l’accettazione del principio dell’economia mista fosse maturata già prima del (e a prescindere dal) dibattito in Assemblea costituente (nel corso del quale, peraltro, non mancarono significative conferme)(19), e sulla base di realistiche considerazioni sulle condizioni interne del Paese e sulla sua collocazione internazionale(20). In secondo luogo, che è assai dubbio che i risultati del dibattito alla Costituente sarebbero stati proprio quelli che conosciamo, se anche la maggioranza centrista non avesse dovuto fare i conti con un contraddittore e non avesse saputo di non poter avere mano interamente libera(21). Da ultimo, che per quanto sia esatto dire che è l’economia mista la struttura su cui poggiano praticamente tutte le democrazie sociali, ciò è

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del tutto insufficiente per la loro comprensione. Il comune denominatore che così le unisce è infatti troppo tenue: il genere «economia mista», infatti, può ricomprendere tali e tante specie, e soprattutto è compatibile con assetti dei rapporti sociali così vari, che evidenziarne la presenza serve a poco(22). Come negare, ad esempio, la peculiare ricchezza del catalogo dei diritti sociali esibito dalla Costituzione italiana, che la rende imparagonabile, per menzionare una stregua importante, alla Legge Fondamentale di Bonn(23)? E come non cogliere la «forza» peculiare di quei diritti, sempre più chiaramente consolidati da una giurisprudenza costituzionale molto audace(24), anche perché non impacciata da ostacoli come quelli che sono presenti ad esempio nella Costituzione spagnola(25)? Come non notare, infine, che la normativa costituzionale sui diritti sociali è una chiave di lettura essenziale di quella in materia economica, per i legami strettissimi che come detto le uniscono, e sui quali torneremo fra poco?

In realtà, ci si può accontentare di evidenziare la natura «mista» della struttura economica propria degli Stati sociali, soltanto se, da un lato, si ritiene che il modello dell’economia mista sia più unitario di quanto in effetti non mostri di saper essere(26), e dall’altro si finisce per accogliere — anche se inavvertitamente — la tesi, già criticata in precedenza, della tendenziale autonomia delle norme in materia economica rispetto alle altre norme costituzionali. È proprio la complessità dei fenomeni economici e sociali, dunque, che suggerisce di battere altre strade.

3. Norme costituzionali in materia economica e valori sociali.

Lo stretto collegamento con gli interessi sociali che è presente in due norme centrali come gli artt. 41 e 42 Cost. è significativamente una costante nella gran parte delle norme costituzionali in materia economica. Così come l’art. 41 richiama l’«utilità sociale» (e i «fini sociali») e l’art. 42 la «funzione sociale», infatti, l’art. 43 si riferisce all’«utilità generale» e all’«interesse generale» sottesi alle nazionalizzazioni e alle collettivizzazioni(27); l’art. 44 agli «equi rapporti sociali» alla cui instaurazione deve mirare la regolamentazione della proprietà terriera; l’art. 45 alla «funzione sociale» della cooperazione; l’art. 46 alla «elevazione economica e sociale» del lavoro che dovrebbe derivare dalla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende; l’art. 99 alla materia «economica e sociale» cui si estende la competenza del CNEL.

Questa insistenza della Costituzione nel richiamare interessi sociali nell’ambito della disciplina dell’economia dà anzitutto quella preziosa indicazione in negativo che abbiamo già sottolineato, e cioè che la normativa in materia economica non si ispira ad una logica autonoma e differenziata da quella che caratterizza l’intera Costituzione nel suo complesso. In positivo, poi, essa sollecita la definizione di quale sia la realtà cui la Costituzione si riferisce predicando della qualifica di «sociali» certi interessi che fanno sentire il loro peso (anche) in materia economica.

A questo proposito, sembra anzitutto certo che la Costituzione intenda per «sociale» ciò che è proprio della società tutta intiera (28) e non di una sua parte soltanto (29) o dello Stato e dei poteri pubblici(30). Inoltre, la società i cui interessi sono posti dalla Costituzione al centro della disciplina dei rapporti economici non è la società dell’«oggi costituzionale» (e cioè dal momento in cui la Costituzione veniva materialmente redatta) e non è neppure la società del futuro, della quale manca in Costituzione il compiuto disegno, ma quella che è protagonista del processo di trasformazione indicato dall’art. 3, comma 2(31). Così, sarà socialmente «utile» nella logica dell’art. 41 solo ciò che corrisponderà alle esigenze della trasformazione (di quella trasformazione che è voluta dell’art. 3, comma 2); saranno «equi» ai sensi dell’art. 44, tra i rapporti sociali connessi all’assetto della proprietà terriera, non tanto quelli che verranno ritenuti tali secondo la coscienza sociale d’oggi(32), quanto quelli la cui instaurazione si mostrerà funzionale alle esigenze del processo ispirato dall’art. 3, comma 2, ecc. In altri termini, l’efficienza economica non è, in sé, un valore(33), e la disciplina dell’economia che la Costituzione vuole sia dettata dal legislatore ordinario, non può essere ispirata solo dall’intento di perseguire scopi immediatamente economici (aumento della produzione, equilibrio finanziario, ecc.), ma deve essere invece guidata dalla necessità di attivare e favorire il processo di trasformazione sociale le cui grandi linee sono tracciate dall’art. 3, comma 2.

Tutto questo, si badi, non vuol dire che la Costituzione sia indifferente nei confronti delle esigenze di buon funzionamento del sistema economico e consenta al legislatore ordinario di compiere qualunque scelta che produca effetti antieconomici(34). Il progresso economico, infatti, è — realisticamente — una condizione necessaria, anche se non sufficiente, della rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Non è meno evidente, però, che in molti casi concreti le necessità del mero calcolo economico (della cui oggettività si può del resto sempre dubitare) possono essere in contraddizione con il raggiungimento degli obiettivi indicati

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dal citato comma 2 dell’art. 3 Cost. In queste evenienze sarà dunque compito del legislatore ordinario assicurare la salvaguardia di quegli obiettivi, anche se con il minor pregiudizio possibile dell’efficienza e della stabilità economica: già Laski, del resto, ammoniva che «liberty needs an expanding economy as its primary condition» (35).

Nell’ineguale bilanciamento fra le ragioni del calcolo economico e quelle (connesse ma come detto talora confliggenti) dello sviluppo sociale, sta dunque quell’originalità della Costituzione italiana che taluno nega: un’originalità che è al contrario espressamente implicata dalla norma-guida dettata dal comma 2 dell’art. 3 Cost., vero e proprio token caratterizzante della nostra Carta fondamentale(36).

Questa ispirazione di fondo della Costituzione si riverbera con particolare nettezza sul regime delle situazioni economiche di vantaggio. Qui, a prima vista, la Costituzione sembra soffrire di una strisciante contraddizione. Da un lato, infatti, le situazioni economiche di vantaggio, in quanto elemento costitutivo della struttura che assicura il progresso economico che è funzionale alla trasformazione sociale, paiono così intimamente collegate a questa da non potere e dovere essere limitate allo scopo di favorirla. Dall’altro, in quanto espressione delle diseguaglianze di fatto che la Costituzione si propone di eliminare, paiono il più ovvio dei candidati a subire limiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi costituzionali. La contraddizione, però, è solo apparente. Abbiamo già detto, infatti, che le esigenze del puro progresso economico sono spesso in disarmonia con quelle di sviluppo e crescita sociale che in teoria dovrebbero esserne invece favorite. Ove ciò avvenga, s’è pure visto, sono le seconde a dover comunque prevalere, e conseguentemente a potersi affermare (sia pure nei limiti dei principi di non eccessività e proporzionalità) a spese non solo delle esigenze «oggettive» del sistema economico, ma anche di quelle soggettive dei titolari delle singole situazioni di vantaggio(37). La chiave di lettura essenziale della disciplina di queste ultime è dunque obbligata: la misura delle loro garanzie e dei loro limiti è data soltanto dalla corrispondenza o meno con le esigenze costituzionali della trasformazione, sicché — pure esclusa ogni «funzionalizzazione» delle libertà economiche — le une e gli altri in tanto si giustificano, in quanto siano preordinati al perseguimento di quelle esigenze. Questo è un punto molto importante, perché qui si chiarisce non solo che le situazioni economiche di vantaggio possono essere compresse in funzione della protezione dei valori costituzionali ricordati, ma anche che sono proprio e soltanto questi (e gli altri di volta in volta menzionati quali valori-guida del campo di attività di ciascuna situazione economica di vantaggio o con esso interferenti)(38), i fattori che giustificano l’imposizione dei limiti nei confronti di quelle situazioni(39). Sicché — non proprio paradossalmente — la soggezione di queste alle esigenze imposte da quei valori costituzionali, finisce per essere allo stesso tempo una garanzia, perché esclude che una limitazione possa essere giustificata dal perseguimento di interessi d’altro genere e di minore pregio.

4. Le situazioni economiche di vantaggio.

La disposizione che più di ogni altra segna l’ancoraggio costituzionale del modo di produzione capitalistico (nella forma dell’«economia mista») è certo l’art. 41 Cost.(40). Dall’art. 42, in effetti, una scelta di questo tipo non è chiaramente desumibile, perché esso potrebbe tranquillamente essere letto come se consentisse al legislatore ordinario di limitare la garanzia dell’appropriazione privata a quella dei soli beni d’uso personale, negandola invece per ciò che riguarda i mezzi di produzione o i beni destinati allo scambio. In assenza della qualificazione dell’iniziativa economica privata come «libera» da parte del comma 1 dell’art. 41, la disciplina della proprietà privata dettata dall’art. 42 sarebbe dunque aperta anche alla più riduttiva delle interpretazioni. E perciò molto importante definire l’ambito di operatività delle due disposizioni, identificando le situazioni soggettive che ne sono — rispettivamente — oggetto.

Chi volesse, a questo proposito, valersi delle indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale, resterebbe deluso. Sin dalle sue più vecchie decisioni, infatti, la Corte costituzionale ha lasciato indistinte la sfera degli atti di esercizio di iniziativa economica e quella degli atti di mero godimento della proprietà, sovrapponendo le indicazioni normative degli artt. 41 e 42 Cost. ed evocando di volta in volta le une piuttosto che le altre sulla base di opzioni lasciate ad un sostanziale empirismo. Di recente, in verità pare cogliersi qualche segnale di ripensamento (41) — la Corte ha meglio chiarito, infatti, il rapporto dell’art. 41 con l’art. 42 e con l’art. 44 Cost. — (42), ma è indubbio che la vivacità e la ricchezza del dibattito sviluppatosi in dottrina hanno trovato scarsa eco nella giurisprudenza costituzionale(43).

Questo sembra vero soprattutto per ciò che riguarda l’analisi del concetto di iniziativa economica privata. Come è noto, la dottrina è, su questo punto, assai divisa. Così, mentre alcuni affermano che l’iniziativa si identifica con qualunque atto che esprime l’intento di raggiungere un fine economicamente rilevante(44), altri ritengono che sia soggetto attivo di vera iniziativa economica solo chi esercita attività di impresa(45), ed altri infine — ed è posizione in certo senso intermedia — che l’iniziativa economica di cui parla l’art. 41 Cost. sia

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solo quella di colui che promuove un’attività di produzione (e non di mera erogazione) finalizzata allo scambio(46). La giurisprudenza costituzionale, per suo canto, ha mostrato di aderire sostanzialmente alla prima di queste tesi, ma come premesso l’ha fatto in modo piuttosto disattento e senza prospettarsi espressamente le diverse alternative interpretative elaborate in dottrina(47).

In realtà, isolare l’iniziativa economica della quale parla il comma 1 dell’art. 41 Cost. entro l’insieme indifferenziato degli atti economicamente rilevanti sembra tanto corretto quanto inevitabile. Corretto sul piano teorico, perché non farlo significa ottundere le diversità che intercorrono fra atti che — pur se tutti «economici» — sono incomparabili dal punto di vista dei loro contenuti, come ad esempio la decisione di investire i capitali necessari per la creazione di una nuova impresa e quella di alienare la propria forza-lavoro per assicurarsi i mezzi necessari per mantenere sé e la propria famiglia. Inevitabile sul piano del diritto positivo, perché è la stessa Costituzione a differenziare entro la (non più unitaria) sfera dell’«economico», distinguendo fra attività ricollegabili all’iniziativa economica in senso proprio, attività di prestazione di lavoro subordinato o d’opera intellettuale, attività di godimento della proprietà privata. E siccome ciascuna di queste attività gode di garanzie e soffre di limiti suoi propri, la distinzione fra l’una e l’altra assume un rilievo non solo teorico, ma anche ricco di riflessi pratici.

Non meno divisa è la dottrina costituzionalistica italiana in riferimento alla risposta da offrire al quesito sul rapporto fra commi 1 e 2 dell’art. 41 Cost. Se alcuni, infatti, ritengono che l’oggetto di entrambi sia identico, essendo impossibile distinguere fra l’«iniziativa» cui si riferisce il comma 1 ed il suo «svolgersi» che è invece disciplinato dal secondo(48), altri vanno in esattamente opposto avviso, ritenendo che una cosa sia l’oggetto della garanzia di cui al comma 1, e un’altra l’oggetto dei limiti previsti dal secondo(49). In questo caso, la giurisprudenza costituzionale si è mostrata più decisa, ed ha abbracciato con chiarezza la prima delle due opinioni appena descritte(50). Questa sembra tuttavia da respingere, dimentica com’è dei dati costituzionali testuali e del fatto che — ove altrimenti si ritenesse — il secco riconoscimento della «libertà» dell’iniziativa non avrebbe senso. È proprio la distinzione fra atto di impulso di un’attività economica volta alla produzione (51) e atti di svolgimento di quella stessa attività, che può infatti dar ragione dei diversi accenti del comma 1 e del comma 2 dell’art. 41 Cost. e della imparagonabilità dei limiti dei secondi rispetto ai limiti del primo.

Ed infatti, mentre lo svolgimento dell’attività economica privata può essere anche oggetto di limiti positivi, e cioè di veri e propri obblighi di «facere», lo stesso non può accadere per l’atto di iniziativa(52): proprio in virtù della garanzia apprestata dal comma 1 dell’art. 41 Cost., infatti, nessuno può essere tenuto ad investire capitali per intraprendere un’attività produttiva contro la propria volontà o a mantenere in vita un’attività economica se ciò non risponde più al suo vantaggio.

Più meditata e consapevole — anche se non per questo più condivisibile — è stata la giurisprudenza costituzionale in riferimento alla nozione costituzionale di proprietà. Certo, quella giurisprudenza non esprime un modello di proprietà che sia originale e identificato da contorni ben definiti(53). Essa, tuttavia, indica almeno quali sono gli strumenti sulla scorta dei quali la Corte pensa che un modello del genere possa essere costruito. Sin dalle storiche sentt. nn. 6 del 1966 e 55 e 56 del 1968(54), infatti, il giudice costituzionale ha ritenuto che la Costituzione garantisse la proprietà in quanto istituto e proteggesse allo stesso tempo il suo contenuto essenziale. In particolare la sent. n. 55 del 1968, poi, chiariva — come già anticipato — (55)che tale contenuto essenziale era da ritenersi coincidente con quello ascritto alla proprietà dalla coscienza sociale prevalente. Quest’ultima, a sua volta, non sarebbe stata costituita da un sistema di credenze socialmente dominanti, bensì determinata dal diritto positivo: il contenuto essenziale della proprietà sarebbe stato infatti offerto solo da ciò che «è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico» dallo stesso ordinamento giuridico.

In questo modo, la Corte costituzionale operava un ancoraggio del contenuto essenziale della proprietà al diritto positivo e non ad una pretesa nozione (ideo!)logica di appartenenza privata, rifuggendo così da qualunque tentazione di impronta giusnaturalistica. Alcune pronunce successive, però, proponevano una lettura assai più radicale di quei precedenti, e finivano — a ben vedere — per identificare il contenuto essenziale con ciò che inerisce «naturaliter» a quella situazione soggettiva che chiamiamo diritto di proprietà e che non sarebbe tale senza quei tratti distintivi(56). Nelle decisioni del 1966 e del 1968, infatti, la Corte aveva prestato attenzione soprattutto agli aspetti formali delle garanzie della proprietà. Si poteva invero desumere da quella giurisprudenza che al legislatore era consentito — sì — conformare il diritto di proprietà secondo le proprie scelte discrezionali, ma gli era precluso trattare in modo diseguale situazioni proprietarie omogenee, e soprattutto violare il principio della riserva di legge, lasciando all’Amministrazione il potere (discrezionale, appunto) di stabilire il regime delle singole proprietà, che avrebbe invece dovuto esercitare in prima persona(57).

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Secondo alcuni(58), il giudice costituzionale sarebbe passato invece, con la giurisprudenza successiva, da una concezione funzionale ad una concezione strutturale della proprietà, e cioè da una concezione nella quale la comprensione della disciplina costituzionale ruota attorno al concetto di funzione sociale, ad un’altra in cui ciò che conta è la «natura» del diritto di proprietà in sé e per sé. L’osservazione, pur acuta, può essere condivisa soltanto per ciò che attiene alla sua seconda parte: infatti, per quanto la giurisprudenza della fine degli anni ‘60 fosse stata poco sensibile al fascino della nozione di proprietà intesa sub specie aeternitatis, fu nondimeno anche poco attenta al rapporto tra funzione sociale e diritto dominicale, sicché il ruolo della prima restò anche allora sullo sfondo. In altre parole, quella giurisprudenza non seguì né la via della concezione funzionale, né quella della concezione strutturale, ma si limitò — tacendo sostanzialmente sull’una e sull’altra — ad elaborare una serie di garanzie formali e procedimentali del diritto di proprietà nei confronti dell’intervento dei poteri pubblici (rispetto della riserva di legge, obbligo di disciplinare i beni privati per categorie e non singulatim, ecc.). Certo, è chiaro che il ruolo svolto dal principio della funzione sociale poteva essere più libero ed incisivo all’interno della logica di quella giurisprudenza piuttosto che di quella successiva. Ciò non toglie, però, che neppure la prima seppe fare ciò che davvero andava fatto: sciogliere il nodo del concetto di funzione sociale e chiarire in che modo questa si rapportasse al diritto di proprietà. E che questo fosse il compito decisivo, è palese per chi condivida quanto già detto sul collegamento fra normativa costituzionale in materia economica e valori sociali (che la Costituzione definisce) fondamentali.

È proprio questo vizio d’origine della stessa giurisprudenza del 1966-1968, del resto, che spiega l’insoddisfazione che si prova di fronte al suo aspetto più gravido di conseguenze teoriche e pratiche: l’accoglimento della nozione di espropriazione sostanziale. Non è questa la sede per discuterne, e bastino ora da un lato il rinvio alla voce «Proprietà» nonché a quelle relative all’espropriazione(59), dall’altro la considerazione che proprio le decisioni sulle espropriazioni sostanziali e sulla misura dell’indennizzo sono state fra quelle nelle quali la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di incidere più pesantemente sugli equilibri del sistema economico.

5. Gli strumenti del governo pubblico dell’economia secondo la Costituzione.

La misura delle garanzie e la sostanza dei limiti delle situazioni economiche di vantaggio sono date, dunque, dal modo in cui esse si raccordano con il progetto costituzionale di trasformazione sociale. È quanto ci indicano tutti gli elementi esaminati in precedenza, ed è quanto conferma anche la protezione accordata dal comma 2 dell’art. 41 — oltre che alla «sicurezza» ed alla «libertà» — alla «dignità umana». Il riferimento ad essa, infatti, non può non valere da richiamo dell’analogo concetto di «dignità sociale» presente nell’art. 3, che rappresenta un po’ la cerniera fra commi 1 e 2 di quell’articolo(60), epperciò funge da raccordo fra le garanzie delle libertà individuali tradizionali e le garanzie del (realistico svolgersi del) disegno costituzionale di trasformazione.

Oltre queste indicazioni sostanziali, però, la Costituzione sembra volerne offrire altre anche in riferimento alle modalità in cui il potere pubblico può, governando i processi economici, inverare il disegno dell’art. 3, comma 2, Cost. La disposizione-chiave, in proposito, sembra l’art. 41, comma 3, a tenor del quale «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Questa disposizione mostra chiaramente che la Costituzione ritiene necessario un «governo» pubblico dell’economia: il mercato, da solo, non è ritenuto in grado di assicurare il pieno affermarsi dei valori costituzionali. E la regolamentazione pubblica, a sua volta, può e deve avere ad oggetto qualunque «attività economica pubblica e privata», senza essere limitata soltanto ad alcuni settori economici (come potrebbero essere ad esempio quelli indicati dall’art. 43 Cost.).

Gli strumenti attraverso i quali il governo pubblico dell’economia può essere esercitato sono i più vari, come dimostra l’impiego di un termine così generico ed onnicomprensivo come «controlli». Cionondimeno, la Costituzione menziona espressamente e vede con favore particolare il ricorso a quello strumento organico di governo dell’economia che sono i «programmi».

Anche su questo punto è bene qui rinviare ad altra voce [v. infatti → piano economico e pianificazione (diritto civile)], e limitarsi a qualche semplice notazione sui punti di rilievo più generale, che aiutino la ricostruzione, che qui si tenta, del rapporto complessivo fra Costituzione ed economia. Anzitutto, è da dire che l’uso del plurale «programmi» in luogo dei singolari «piano» o «programma» o «programmazione » non ha alcuno specifico significato normativo(61). È infatti la stessa reciproca stretta interdipendenza dei fenomeni economici, che reclama una loro visione unitaria e consente che essa sia oggettivata in un non meno unitario documento anziché in più documenti settoriali(62). I «programmi», poi, sono funzionalizzati al raggiungimento dei «fini sociali», e poiché quei fini — in quanto «sociali» nel senso fatto proprio dall’art. 3, comma 2, Cost. —

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convergono tutti nell’obiettivo primario e unificante di costruire una società «in progress», è logico che possano (e forse debbano) essere perseguiti con l’ausilio di strumenti non disarticolati. Anche ad arrestarsi al piano puramente letterale, comunque, l’indicazione offerta dall’uso del plurale non sarebbe univoca, perché ove davvero lo fosse dovrebbe esserlo allora anche quella fornita dall’uso del singolare «legge» per identificare l’atto destinato a contenere i programmi.

In realtà, la tesi secondo la quale la Costituzione non conferirebbe diritto di cittadinanza ad un piano economico generale e nazionale, ma solo a piani settoriali e/o territorialmente definiti, pare nascondere il timore che si verifichi — in caso contrario — uno slittamento verso forme di più o meno intenso dirigismo(63). Ma si tratta di un timore ingiustificato, perché da un lato i lavori preparatori (…), dall’altra lo stesso testo della Costituzione, dimostrano che la programmazione cui essa pensa è una programmazione anzitutto democratica e partecipata nella fase della definizione dei suoi obiettivi, ed in secondo luogo volta soprattutto a promuovere ed indirizzare l’attività dei privati (non già addirittura escludendo, ma comunque) contenendo il ricorso a poteri di tipo autoritativo(65). Valga, in proposito, il richiamo agli artt. 45, cpv., 45, comma 2, 47, ma valga soprattutto il riferimento allo stesso art. 41, che mostra in filigrana il chiaro intento di contenere sin dove è possibile gli interventi autoritativi sul mercato(66).

La natura democratica della programmazione disegnata dall’art. 41 Cost. e la fondamentalità delle scelte di programma in materia economica, danno infine solido fondamento alla tesi secondo la quale il riferimento alla «legge» ha qui ad oggetto anzitutto la legge parlamentare, prima che gli atti normativi del Governo ad essa «equiparati» (67). Con la conseguenza che — conformemente alla logica generale del sistema — (68)il Parlamento deve predeterminare almeno i principi della normazione e della azione amministrativa (volta in concreto a indirizzare e coordinare le attività economiche) del Governo(69).

6. La giurisprudenza costituzionale e il sistema economico.

L’inesistenza di una protezione, in Costituzione, dell’interesse allo sviluppo o all’equilibrio economico in sé e per sé, che si è mostrata in precedenza, emerge con minore nettezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, nella quale è avvertibile qualche incertezza e qualche ambiguità. Va notato, infatti, che a fronte di una numerosa giurisprudenza sull’art. 41 Cost. che fa esattamente rientrare nel concetto di utilità sociale soprattutto interessi correlati alla crescita della società nel suo complesso piuttosto che all’efficienza dell’economia qua talis, si collocano alcune decisioni più sensibili alla protezione di interessi puramente economici(70), le quali fanno dubitare che la Corte abbia saputo avvertire che il sistema economico disegnato in Costituzione non è autosufficiente ed autocentrato, ma ruota attorno a (ed è definito nei suoi contorni da) valori ad esso esterni(71). Nonostante queste oscillazioni, comunque, è senz’altro l’indirizzo più corretto, che si rivela prevalente. Stanno a testimoniarlo non solo, direttamente, le decisioni che assumono quali parametri gli artt. 41 e 42 Cost., ma anche e soprattutto quelle (già ricordate) (72)sui diritti sociali. Va poi sottolineata l’assenza, nella giurisprudenza costituzionale, dell’idea — essenziale come visto perché si abbia vera «Costituzione economica» — del riconoscimento in Costituzione di un saldo principio-guida di politica economica fondato appunto sulle sole ragioni dell’economia. Lo mostra con chiarezza l’interpretazione che la Corte ha offerto dell’art. 81, comma 4, Cost., in ordine alla politica della spesa pubblica, «che deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra le entrate e la spesa» (73). Ed è proprio l’incertezza di contenuto di quel «tendenziale equilibrio», esattamente notata dalla dottrina(74), che apre le porte ad una vasta pluralità di scelte di politica della spesa (ivi compresa quella del disavanzo)(75), eliminando perciò in radice qualunque «principio» autonomo di pur minimale governo dell’economia.

Questi indirizzi giurisprudenziali avrebbero dovuto portare evidentemente ad una svalutazione da parte della Corte delle esigenze strutturali del sistema economico ed alla loro subordinazione alle altre, diverse (politiche, sociali, ecc.), positivizzate in Costituzione. Con essi sembra perciò in contraddizione l’altra, non meno nota e consolidata giurisprudenza che vuole la Corte particolarmente cauta nell’adozione di decisioni che non siano «kostenlose», almeno nei momenti storici in cui la contingenza economica non è florida. Tutti sanno, a questo proposito, che la giurisprudenza è stata sempre assai sensibile nei confronti dei periodi di crisi economica, nel corso dei quali ha mostrato una notevole indulgenza nei riguardi dell’inattuazione legislativa dei compiti di elevazione dei settori meno fortunati della società dal punto di vista culturale, sociale, ecc. Un’intera stagione della giurisprudenza costituzionale, addirittura, è stata profondamente segnata dall’emergenza economica(76), che ha indotto un vistoso appannamento della tutela dei diritti sociali (77) ed in generale una perdita del peso complessivo del giudice costituzionale nel sistema. E la memoria di quella fase è tanto viva, che nonostante la nuova realtà dell’economia italiana — in via di principio puntualmente recepita dalla

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giurisprudenza costituzionale, che vive un momento di grande incisività e coraggio (78) — non mancano ancora oggi decisioni che scivolano — per giustificare l’assolvimento di scelte legislative di dubbia correttezza — nel richiamo della «crisi», dell’«emergenza», della «difficoltà» della contingenza economica.

Sembra, dunque, che vi sia una contraddizione. Ma questa, in effetti, sarebbe reale soltanto se la ragione dell’atteggiamento della Corte appena descritto fosse da rinvenire nell’attenzione per le esigenze dell’economia in sé considerate; come se il giudice costituzionale — cioè — dicesse: il costo della protezione di certi diritti costituzionalmente riconosciuti è tale, che garantirla a dispetto di tutto significherebbe distruggere già precari equilibri economici e compromettere il valore dell’efficienza e della stabilità del sistema economico nel suo complesso. Probabilmente, però, le cose sono più complicate, ed il ruolo decisivo è stato giuocato da altri due fattori. Anzitutto, dalla delicatezza della legittimazione della Corte costituzionale: questa, non potendo essere la legittimazione democratica tradizionale, va delicatamente costruita e costantemente ricostruita(79), e la disinvoltura, l’audacia del giudice costituzionale in fasi storiche nelle quali la stessa tenuta dei poteri democraticamente legittimati è messa a dura prova(80), poggerebbero su basi troppo fragili. In secondo luogo, è presumibile che si rifletta qui, sull’agire della Corte, la relativa doppiezza dell’atteggiamento della Costituzione stessa nei confronti dell’economia. Come abbiamo già visto, infatti, il buon funzionamento del modo di produzione capitalistico accolto (nella forma dell’«economia mista») dalla Costituzione, è inteso sia come condizione di fatto del progresso sociale (epperciò della realizzazione del progetto disegnato dall’art. 3, comma 2, Cost.), sia come suo potenziale ostacolo, come quello che consente la produzione di diseguaglianze di fatto che la Costituzione vorrebbe invece cancellare. La cautela della Corte nei momenti di crisi economica, la sua parallela audacia in occasione di una contingenza favorevole, potrebbero dunque essere interpretate anche come una spia del fatto che il bilanciamento (pur sempre ineguale) fra le ragioni dello sviluppo economico e quelle dello sviluppo sociale è in qualche modo variabile, e tende ad oscillare in favore delle prime, quando il loro sacrificio potrebbe essere troppo grave o addirittura senza ritorno.

7. La disciplina costituzionale dell’economia alla prova del tempo.

A quarant’anni dalla loro entrata in vigore, le norme costituzionali in materia economica mostrano ancora una discreta tenuta. Si possono formulare due ipotesi opposte, per spiegare le ragioni di questa perdurante vitalità. Si può, così, ritenere che la normativa costituzionale in materia economica non rechi segni del tempo troppo vistosi perché, a ben vedere, è stata sempre ai margini del concreto farsi dei fenomeni reali, che hanno obbedito a logiche loro proprie, ben distanti da quella che mosse in origine la Costituzione(81). Sarebbe perciò la sua stessa astrattezza e distanza dalla realtà che la renderebbe insensibile all’evolversi di questa, assicurandone una tenuta che si risolve in effetti in debolezza e carenza di incisività. E si può, tutt’al contrario, pensare che la tenuta delle norme costituzionali sia figlia della loro intrinseca duttilità, che le pone al riparo dalle trasformazioni del loro oggetto, che sono comunque in grado di «governare».

In entrambe queste possibili risposte c’è un grumo di verità. Nella prima, perché l’andamento dei fenomeni economici ha seguito chiaramente linee di sviluppo

fortemente condizionate da condizionamenti oggettivi, sempre più spesso riconducibili — fra l’altro — agli equilibri degli assetti internazionali. Nella seconda, perché almeno per ciò che attiene alla disciplina del lavoro (82) l’incidenza della normativa costituzionale si è avvertita con chiarezza, favorita anche da una giurisprudenza costituzionale ben più sicura e convincente di quella che si è maturata in riferimento alle situazioni economiche di vantaggio. Ma ciò che conta, soprattutto, è che la disciplina costituzionale dell’economia ha tenuto soddisfacentemente proprio in virtù del suo collegamento con la Costituzione nel suo complesso; collegamento imputabile specialmente al raccordo assicurato dall’art. 3, comma 2, Cost. La tenuta della disciplina dell’economia, in altri termini, è la tenuta di tutta la Costituzione, e le sorti dell’una sono largamente le sorti dell’altra.

Il problema, a questo punto, è dunque quello della vitalità della Costituzione nel suo complesso e della sorte che sarà riservata ai tentativi di delegittimarla che da qualche tempo e da più parti vengono compiuti(83). Tentativi che, se pure si muovono soprattutto sul terreno della disciplina costituzionale delle istituzioni di Governo, finiscono tuttavia per investire la Costituzione tutta intera, per il nesso-inscindibile che lega la sua parte «organizzativa» a quella «sostanziale» (84). Su questo punto, però, solo il futuro potrà darci risposte significative.

Nonostante questa complessiva vitalità, comunque, l’edificio costituzionale della disciplina dell’economia presenta per non pochi aspetti crepe vistose. Per ricordare solo alcuni fra i punti principali, va anzitutto sottolineata la mancanza di un chiaro principio costituzionale in materia di concentrazioni e di oligopoli privati. Proprio questa mancanza rende più complessa l’opera di elaborazione di un’efficace

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normativa antitrust, tuttora insoddisfacente sia in generale (85) sia come normativa speciale in settori particolarmente delicati(86). È poi evidente la arretratezza dell’art. 47, comma 1, che abbandona l’attività creditizia e finanziaria ad una quasi assoluta assenza di principi(87). Lo stesso può dirsi per l’art. 47, comma 2, che affronta in modo alquanto approssimativo un tema così importante come quello del diritto all’abitazione (ciò che tuttavia non ha impedito, di recente, alla Corte costituzionale, di elaborare un’incisiva giurisprudenza in materia)(88). Anche la normativa in materia tributaria meriterebbe, infine, qualche integrazione e puntualizzazione, soprattutto in considerazione della notevole timidezza della giurisprudenza costituzionale, che tra l’altro non sembra ancora avere offerto una definizione convincente del concetto-chiave di capacità contributiva, attorno al quale ruota un po’ tutto l’art. 53 Cost.(89).

LLLL’’’’evoluzione della costituzione economica italianaevoluzione della costituzione economica italianaevoluzione della costituzione economica italianaevoluzione della costituzione economica italiana In un libro di grande successo (La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari, 1997), Sabino Cassese ha proposto una successione cronologica per descrivere la transizione dalla “vecchia” alla “nuova” costituzione economica.

La “vecchia” costituzione economica “vecchia” costituzione economica “vecchia” costituzione economica “vecchia” costituzione economica è stata suddivisa nei seguenti periodi. 1) Lo Stato liberista Lo Stato liberista Lo Stato liberista Lo Stato liberista (dal 1861 alla fine del XIX Secolo). Questo periodo, che prende avvio

dall’unificazione del Regno d’Italia, retto dallo Statuto concesso da Carlo Alberto, re di Sardegna, nel 1848, è stato caratterizzato dai seguenti elementi.

a) Creazione di un mercato nazionalemercato nazionalemercato nazionalemercato nazionale attraverso l’unificazione legislativaunificazione legislativaunificazione legislativaunificazione legislativa. Le istituzioni del neonato Regno d’Italia adottarono un codice civile (1865) e un codice del commercio (1865, poi sostituito nel 1882). Questo obiettivo fu perseguito anche attraverso l’estensione a tutto il territorio nazionale della legislazione piemontese, che aveva visto come grande ispiratore Cavour, cui si ascrive l’idea di amministrazione che per decenni e in parte ancora oggi caratterizza l’esperienza italiana, viene estesa all’intero territorio nazionale. Al pari, in armonia con l’imperante ideologia liberale, la proprietà privata assurge a diritto fondamentale della persona e a pilastro del sistema economico.

b) Difesa del mercatoDifesa del mercatoDifesa del mercatoDifesa del mercato attraverso il protezionismo doganaleprotezionismo doganaleprotezionismo doganaleprotezionismo doganale. Può di primo acchito apparire lontano dai princìpi liberali, ma lo Stato liberista ha provveduto alla protezione del nascente mercato unico attraverso l’introduzione di tariffe doganali e altre misure equivalenti al fine di tutelare i prodotti nazionali in competizione con i beni importati.

c) PrivatizzazioniPrivatizzazioniPrivatizzazioniPrivatizzazioni. Lo Stato liberista procedette ad una ragguardevole alienazione del demanio, con conseguente trasferimento della proprietà di terreni e altri beni già pubblici ai privati, in vista di un alleggerimento dello Stato e di un più efficiente utilizzo di tali beni. Mancò, in questo periodo, una pesante macchina statale di governo dell’economia, in quanto alle istituzioni pubbliche furono assegnati i tradizionali compiti di ordine pubblico, di difesa dei confini, di somministrazione della giustizia, di governo della moneta. L’autosufficienza dell’economia, ispirata alle tesi smithiane del laissez faire e della mano invisibile, si sostanziò in un potenziamento delle istituzioni private a cominciare dalle camere di commercio, che all’epoca operavano ed erano trattate alla stregua di vere e proprie strutture corporative.

2) La prima industrializzazione prima industrializzazione prima industrializzazione prima industrializzazione (il primo ventennio del XX Secolo). Di questo periodo sono

individuabili i seguenti quattro aspetti fondamentali. a) La differenziazidifferenziazidifferenziazidifferenziazione legislativaone legislativaone legislativaone legislativa. Diversamente dallo Stato liberista, furono introdotte

discipline normative differenziate al fine di tener conto di specifiche realtà territoriali, reclamanti interventi mirati sul piano legislativo. Si pensi, in particolare, alle leggi speciali per Napoli, per la Calabria e per la Basilicata, alla luce dei molteplici problemi legati al corretto e ordinato sfruttamento del territorio, sia in termini di politiche abitative sia in relazione alle attività agricole.

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b) La politica dei lavori pubblilavori pubblilavori pubblilavori pubblicicicici. Si assiste ad un forte incremento degli interventi volti a realizzare infrastrutture necessarie per lo sviluppo economico: ferrovie, strade, ponti, dighe, e via dicendo. Ciò determinò, peraltro, copiosi trasferimenti di denaro pubblico ai privati, visto che i relativi lavori furono appaltati da imprese edili non incardinate nella pubblica amministrazione.

c) Furono istituite le prime imprese pubblicheimprese pubblicheimprese pubblicheimprese pubbliche, in relazione a servizi di pubblica utilità: ferrovie, telefoni, assicurazioni, istituti di credito. Fu il primo tentativo di assegnare l’erogazione di servizi pubblici a entità imprenditoriali, estranee al paradigma ministeriale (quindi, strutture operative più simile alle imprese private che alle organizzazioni dell’apparato centrale a forte connotazione amministrativa).

d) La previdenza socialeprevidenza socialeprevidenza socialeprevidenza sociale. Si realizzò il graduale passaggio da un sistema mutualistico, basato sull’azione prevalente di soggetti della società civile con connotazione volontaristica, ad un sistema previdenziale in cui una parte dello stipendio è devoluta ad appositi enti pubblici che provvederanno, al momento della pensione, alla erogazione del trattamento economico.

3) L’economia mista economia mista economia mista economia mista (dal 1929 al 1947). Il 1929 è l’anno del grande crollo delle borse, con

conseguente depressione economica che coinvolse tutti i paesi industrializzati. Il mercato fallì la propria azione regolatrice dell’economia, dimostrando di non essere in grado di assicurare da solo l’equilibrio tra domanda e offerta. Le tesi keynesiane inducono le istituzioni statali ad intervenire massicciamente nei rapporti economici. Nel nostro Paese si assistette a tre passaggi fondamentali.

a) Un nuovo codice civilenuovo codice civilenuovo codice civilenuovo codice civile. Nel 1942 fu adottato un unico codice civile che incluse anche le disposizioni del vecchio codice del commercio.

b) Il monopolio monopolio monopolio monopolio pubblicopubblicopubblicopubblico. L’inedito ruolo interventista dello Stato si realizzò attraverso: - la configurazione di una riserva originaria dello Stato in settori economici strategici per

lo sviluppo e la crescita (trasporto marittimo e trasporto aereo, telefonia e radiodiffusione, miniere, acque);

- estensione del sistema delle autorizzazioni, dunque, da una regime di accesso libero al mercato ad un regime di accesso controllato in settori chiave quali il commercio, le assicurazioni, il sistema creditizio, l’industria;

- ricorso massiccio al metodo della pianificazione, soprattutto nei settori del credito, dell’urbanistica, dei beni culturali.

c) Istituzione di enti pubblicienti pubblicienti pubblicienti pubblici. In vari settori (seta e cotone, tessile, riso, artigianato, carbone, zolfo, turismo, ecc.) furono costituiti enti dotati non solo dei tratti tipici delle imprese private, ma anche di poteri di regolazione del settore. Furono costituite poi società per azioni con partecipazione statale: per tutte si pensi all’Istituto per la ricostruzione industriale (I.R.I.) nel 1937, quale società di controllo di tante società impegnate in diversi ambiti produttivi e commerciali.

4) Lo Stato del benessere Stato del benessere Stato del benessere Stato del benessere (dal 1948 alla metà degli anni Settanta). La Costituzione repubblicana

del 1948 imboccò la strada tracciata dalle tesi keynesiane e rafforzò ulteriormente il ruolo dello Stato in campo economico. Accanto alle previsioni della cd. costituzione economica, sulle quali si avrà modo di indugiare più avanti, sono identificabili quattro aspetti centrali in questo periodo.

a) Completamento del sistema delle partecipazioni statalipartecipazioni statalipartecipazioni statalipartecipazioni statali. Fu istituito l’ENI nel 1953, per favorire la crescita, in regime di monopolio, del sistema degli idrocarburi. Si procedette alla nazionalizzazione dell’energia elettrica con conseguente istituzione dell’ENEL (1962), tramite l’espropriazione delle imprese private e delle aziende municipalizzate che sino a quel momento avevano operato nel settore. Venne istituito un apposito Ministero delle partecipazioni statali, con il compito di governare l’assetto organizzativo che si strutturò su tre livelli: ministero; enti di gestione; società per azioni controllate dagli enti di gestione.

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b) Lo Stato finanziatoreStato finanziatoreStato finanziatoreStato finanziatore. Lo Stato si preoccupò anche di condizionare le transazioni economiche attraverso l’erogazione di somme di denaro (sussidi, sovvenzioni) o con la predisposizione di incentivi economici (es. credito agevolato, premi, contributi a fondo perduto).

c) Dalla pianificazione si passò al metodo meno invasivo ma pur sempre dirigistico della programmazioneprogrammazioneprogrammazioneprogrammazione. In seno al Governo fu, a tal fine, istituito il CIPE, ossia il Comitato interministeriale di programmazione economica, con il compito di coordinare l’azione dei ministeri coinvolti, più o meno intensamente, negli ambiti economici.

d) Furono, infine, estese e potenziate le istituzioni distituzioni distituzioni distituzioni del benessereel benessereel benessereel benessere. Espressioni paradigmatiche del welfare state furono senza dubbio l’istruzione, la sanità (con l’istituzione del sistema sanitario nazionale nel 1978), la previdenza sociale, il lavoro.

Della “nuova” costituzione economica “nuova” costituzione economica “nuova” costituzione economica “nuova” costituzione economica Sabino Cassese ha identificato i seguenti aspetti

fondamentali. 1) Processo di integrazione europeaintegrazione europeaintegrazione europeaintegrazione europea. L’obiettivo essenziale della graduale formazione di un

mercato unico europeo, davvero competitivo rispetto agli altri mercati, è stato perseguito attraverso tre strumenti:

a) libertà di circolazionelibertà di circolazionelibertà di circolazionelibertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi, dei capitali; b) disciplina della concorrenzaconcorrenzaconcorrenzaconcorrenza, attraverso norme antitrust e contrasto agli abusi di posizione

dominante; c) limitazioni agli aiuti di Statoaiuti di Statoaiuti di Statoaiuti di Stato alle imprese. 2) Discipline nazionali del mercato mercato mercato mercato e della concorrenza. L’economia di mercato, alimentata

dalla concorrenza tra le unità di decisione economica, è divenuta la forma prescelte anche negli ordinamenti, quali il nostro, che non ne parlano mai e che, anzi, recano previsioni più vicine all’economia mista, come l’art. 41, terzo comma, Cost. Queste innovative discipline si sono concretizzate:

a) in una disciplina generaledisciplina generaledisciplina generaledisciplina generale (legge n. 287 del 1990), per colpire le intese restrittive della libertà di concorrenza, gli abusi di posizione dominante, le operazioni di concentrazione. A tal fine sono state istituite due authorities di controllo: l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom);

b) in più discipline specidiscipline specidiscipline specidiscipline specialialialiali, soprattutto nei seguenti settori: comunicazioni di massa, stampa quotidiana, pubblicità radiofonica e televisiva, partecipazione al capitale delle banche.

3) Ridefinizione dei servizi pubbliciservizi pubbliciservizi pubbliciservizi pubblici. Più avanti sarà affrontato il tema dei servizi pubblici. Qui

basta anticipare che con questa espressione si allude a prestazioni che il mercato non garantirebbe a tutti, inclusi gli indigenti, perché i costi sarebbero nettamente superiori ai ricavi. Subentra, quindi, lo Stato con le sue strutture operative. Si assiste alla transizione:

- dal regime tradizionaleregime tradizionaleregime tradizionaleregime tradizionale, basato sulla riserva originaria o esclusiva a favore dello Stato, che provvede alla gestione diretta o indiretta o in concessione (a privati o a società controllate dallo Stato);

- al regime attualeregime attualeregime attualeregime attuale, contraddistinto (nei settori, in particolare, dell’energia elettrica, del gas, dei trasporti di linea, delle telecomunicazioni, delle poste) dalle liberalizzazioni per favorire la concorrenza; dalla regolazione pubblica (per aprire i mercati, per garantirne il funzionamento, per assicurare la fruizione dei servizi essenziali); dalla dissociazione tra gestione delle reti ed erogazione dei servizi.

4) Le privatizzazioniprivatizzazioniprivatizzazioniprivatizzazioni. Si assiste ad uno smobilizzo delle partecipazioni pubbliche, con

conseguente diminuzione, su questo versante, dell’indebitamento pubblico e dimensioni più efficienti delle imprese pubbliche.

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5) Controllo della finanza pubblicafinanza pubblicafinanza pubblicafinanza pubblica. In un’altra parte di questa dispensa verrà dedicato ampio spazio al ciclo di bilancio che vede come protagonisti non solo il Parlamento ed il Governo, ma anche le istituzioni europee. Ciò al fine di garantire il contenimento della spesa pubblica nell’interesse non solo dei singoli Stati membri ma anche dell’intera Unione europea.

6) Disciplina pubblica della finanza privfinanza privfinanza privfinanza privataataataata. Nei tre seguenti settori sensibili gli interessi in gioco

sono tali da richiedere una particolare attenzione del legislatore nel regolare i comportamenti dei relativi attori economici:

- mercato bancariobancariobancariobancario: fermo il potere di disciplina devoluto alla Banca d’Italia, si assiste alla apertura del mercato con un tasso di concorrenza più alto rispetto al passato. Si consolida la conformazione funzionale della banca come impresa a tutti gli effetti, e ciò pone un problema di tutela degli utenti dei servizi bancari;

- mercato mobiliaremobiliaremobiliaremobiliare: alla Consob sono assegnati compiti di regolazione degli intermediari finanziari, nel rispetto e in attuazione dei princìpi di trasparenza e di concorrenza;

- mercato assicurativoassicurativoassicurativoassicurativo: la disciplina delle assicurazioni è devoluta all’Isvap sempre in funzione di liberalizzazione tariffarie e di concorrenza tra operatori.

È agevole notare i caratteri comuni a questi tre mercati: - liberalizzazione per la concorrenza; - accesso al mercato subordinato ad autorizzazione; - regole cogenti per operazioni e servizi resi; - severa discipline per fronteggiare situazioni di crisi; - ruolo regolativo, di controllo e sanzionatorio di autorità amministrative indipendenti.

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Capitolo V I SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAI SOGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA

La costituzione economica vive attraverso l’azione dei propri protagonisti. È quindi indispensabile soffermarsi sui soggetti soggetti soggetti soggetti della costituzione economica seguendo due distinti versanti: quello dei soggetti pubblici e quello dei soggetti privati.

Sezione I I SOGGETTI PUBBLICI

Lo StatoLo StatoLo StatoLo Stato

Tra i soggetti pubblici occorre prendere le mosse dallo StatoStatoStatoStato. Lo Stato è una organizzazione giuridica complessa qualificabile come tale per effetto della compresenza di tutti e tre i seguenti elementi costitutivi: 1) territorioterritorioterritorioterritorio: una porzione, più o meno estesa, del pianeta Terra circoscritta da confini politici, ossia delimitata da frontiere decise dall’uomo; 2) popolopopolopopolopopolo: è l’insieme dei cittadini, ossia degli individui in possesso della cittadinanza, quale condizione giuridica soggettiva che instaura un peculiare rapporto tra lo Stato e le persone; 3) governogovernogovernogoverno: non è che il complesso delle istituzioni che, esercitando i tre classici poteri, fanno funzionare lo Stato. Lo Stato è, dunque, costituito da un popolo, stanziato su di un territorio, che vive secondo le regole e le decisioni assunte da un apparato di governo. La fonte dei poteri statali è la sovranitàsovranitàsovranitàsovranità. Ogni Stato è sovrano e indipendente in quanto non deriva i propri poteri da altri Stati o organizzazioni sovranazionali. Uno Stato è tale per forza propria, quando riunisce i tre elementi costitutivi. Non è quindi necessario alcun riconoscimento formale da parte degli altri Stati, che insieme formano la comunità internazionale. Il seguente scritto di L. Ornaghi chiarirà meglio l’evoluzione e la sostanza del concetto di Stato. L. ORNAGHI, voce Stato, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. XV, Utet, Torino, 1999, pp. 25 ss. …

2. Il lemma Stato: lo svolgimento italiano del concetto attraverso repertori, dizionari, enciclopedie.

Sono le voci con cui i classici repertori giuridici hanno di volta in volta definito e concettualizzato lo Stato a mostrare quanta e quale sia l’attuale difficoltà di ricomporre in una sintesi coerente gli elementi ancora fondamentali di una teoria dell’organizzazione e del potere statale.

Nella prima edizione del Digesto troviamo la seguente definizione: «Per antonomasia in diritto pubblico la parola Stato si applica alle condizioni generali organiche di un popolo, ossia all’organismo sociale, col quale si trova ordinato [...]» (4).

Alla voce «Stato (come persona giuridica)», del Nuovo Digesto, si incontra un’affermazione altrettanto indicativa: « Chi vuol ragionare dello Stato — e non solo fornire una descrizione sommaria di un certo Stato, preso come oggetto di conoscenza astratta e naturalistica — non può legarne la definizione a una sua particolare e puntuale realizzazione storica; anzi, per intendere e valutare questa puntuale realizzazione, occorre riportarlo e tuffarlo, per così dire, nel suo processo di formazione e di sviluppo, come serie di fenomeni collegati,

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illustrati, illuminati da un principio e da un fine superiore, che in essi si svolge» (5). Sarà ancora lo stesso autore, Giacomo Perticone, al quale verrà affidata una seconda volta la voce «Stato» del Novissimo Digesto, a sottolineare la necessità di integrare la dottrina giuridica alla luce del «carattere sociologico»: «Il fatto storico-politico è insieme un atto giuridico da cui deriva lo stato come ordinamento (giuridico), pure restando, da un altro punto di vista, un fatto storico, economico, sociologico, ecc., che, per le connessioni intercorrenti, non può essere insignificante per il giurista» (6).

Non stupisce pertanto che persino nella voce «Stato» scritta per un repertorio precipuamente rivolto a operatori del diritto, com’è il caso della Enciclopedia forense, si ritrovi la medesima accortezza riguardo ai criteri definitori: «La definizione dello Stato, nei termini che abbiamo enunciato, implica quindi la distinzione tra Stato e ordinamento giuridico» (7).

Più di recente, del resto, lo stesso concetto viene ribadito da Paolo Biscaretti di Ruffia, secondo il quale sarebbe non meno erroneo ridurre lo Stato a un mero sistema di norme, «[g]iacché pare innegabile, sul piano della realtà quotidiana, la materiale concretezza, territoriale ed umana, dello Stato: è, quindi, frutto di un’eccessiva impostazione teorica limitare la sua reale essenza al mondo delle concezioni astratte, anche se dotate di effetti nella realtà positiva e concreta» (8).

Con significativa evidenza la successione di tali voci scandisce il tentativo di svincolare il concetto di Stato da quell’intrinseco carattere di «giuridicità», che è connaturato al ruolo centrale attribuitogli dalla giuspubblicistica ottocentesca sin dalla nascita e per grandissima parte degli svolgimenti successivi. Non per caso, quasi al termine di questa traiettoria, più forte diventa allora la necessità di ribadire il carattere naturalmente e irrimediabilmente giuridico del concetto di Stato. È con una specie di obbligato controcanto che, sulle pagine della Enciclopedia del diritto, Egidio Tosato avverte: « Il concetto dello stato è dunque un concetto essenzialmente giuridico, e non vi sono altri concetti dello stato fuorché quello giuridico. Varie sono le scienze (come la storia, la filosofia, la sociologia, la politica, l’economia, la statistica, ecc.) che si occupano anche dello stato; ma ciò avviene in quanto nello stato o per effetto dello stato si verificano fenomeni che formano l’oggetto specifico delle ricerche proprie di ciascuna di esse» (9).

La sensibilità del giurista non stenta a riconoscere in siffatta scansione i segni di quel lungo travaglio metodologico, che si è accompagnato alla progressiva delimitazione per settori disciplinari (e talvolta a un’effettiva disarticolazione) non solo del diritto pubblico, ma anche dei «diritti» al primo più contigui o interdipendenti. Nella sequenza temporale delle voci, entro la quale lo Stato risulta sempre meno definibile per via della — e persino a partire dalla — sua intrinseca giuridicità, viene così a delinearsi un segmento straordinario di storia della scienza giuridica, e forse ad assumere consistenza l’unico tentativo possibile perché il diritto statale non perda contatto con il proprio fatto costitutivo: lo Stato, appunto, quale reale ordinamento di convivenza politica. Certo, la parabola della figura dello Stato delineata dalla giuspubblicistica (e dalle differenti giuspubblicistiche) non può compiutamente e correttamente disegnarsi se non ricostruendo andamenti, sovrapposizioni e scostamenti reciproci, innovazione più o meno ardita e conservazione puntigliosa degli apparati categoriali e linguistici di ognuna di quelle partizioni disciplinari della scienza giuridica che maggiormente hanno alimentato il discorso sullo Stato e che da un simile discorso sono state esse stesse influenzate (sino, assai spesso, a risultarne determinate). Tuttavia, quel che dal rapido progredire della riflessione giuridica sullo Stato e nel suo crescente esporsi agli apparati linguistici e concettuali delle scienze sociali realmente fu aperto come problema cruciale (e tuttora lo resta), è il rapporto tra Stato e politica.

Con ogni probabilità, proprio dal fatto che gli aspetti più ambivalenti e meno dogmatizzabili di tale rapporto non siano mai stati esplorati sino in fondo e in modo del tutto soddisfacente per il giurista, è dipesa la crescente attenzione — anche nel campo del diritto — per la creazione e per gli svolgimenti storici dello Stato quale forma genuinamente e modernamente politica di organizzazione del potere. Già Felice Battaglia — nell’aprire, con la sezione Storia del nome, il lemma «Stato» della Enciclopedia Italiana — osservava come con «la parola stato si designa modernamente la maggiore organizzazione politica che l’umanità conosca, riferendosi tanto al complesso territoriale e demografico su cui si esercita una data signoria, quanto al rapporto di coesistenza e di connessione di leggi e di organi che su quello imperano. Tuttavia tale significato è piuttosto recente e il suo principio si può porre tra la seconda metà del sec. xiii e la prima del sec. xv, mentre era affatto ignoto all’antichità e all’alto Medioevo» (10).

In una teoria giuridica dello Stato che possa collocare alcuni suoi fondamenti nel tipo moderno di Stato e nel reale divenire storico della moderna organizzazione statale del potere, non di rado si è cercato (e ancora lo si tenta) di risolvere non solo il rapporto tra Stato e politica, ma persino quello tra diritto e Stato. Rivestita così di una funzione critica all’interno della teoria dello Stato, la storia del «moderno Stato (europeo) » ha portato ai limiti estremi la storicizzazione dell’esperienza statale: fino al punto massimo oltre cui, nemmeno troppo paradossalmente, è sembrato indispensabile e quasi obbligatorio cercare lo Stato o in quelle tradizioni

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storiografiche che maggiormente lo hanno marginalizzato, o soprattutto laddove le istituzioni, i campi d’azione e le stesse formule di legittimazione statali paiono oggi non del tutto plasmati e irrimediabilmente contrassegnati dalla (pretesa) esclusività politica dello Stato. Anche per questa ragione, uno dei punti su cui maggiormente si soffermerà la presente voce è costituito da una considerazione dello «Stato al plurale», cioè delle forme diverse di presenza dello Stato stesso all’interno di una configurazione poliarchica e reticolare di quella che — invero sempre meno classicamente, e persino convenientemente — continua a definirsi «società civile».

La storicizzazione dell’esperienza statale dell’Europa moderna si è imbattuta ormai da tempo in un altro ostacolo, per nulla agevole da superare. È infatti sempre più dubbio se la moderna organizzazione del potere, nelle sue articolazioni statali, sia correttamente spiegabile con un modello onnicomprensivo di Stato, o se invece non siano esistiti due modelli fondamentali (quello anglo-insulare, di contro a quello europeo-continentale), e se il secondo non sia più proficuamente da distinguere negli ulteriori due tipi dello Stato francese e di quello prussiano. Un simile interrogativo — com’è subito evidente — non solo spiana la via verso suddivisioni di analisi sempre più particolari a mano a mano che si sposta il punto di osservazione del sistema «centrale» e del rapporto «centro-periferia», ma facilita anche una sorta di localizzazione e identificazione nazional-territoriale delle esperienze statali, così accentuando refrattarietà o radicali opposizioni rispetto a ogni pretesa di nuove costruzioni tipologiche. In realtà, se ci si vuol sottrarre al richiamo delle tipologie, non sembra esservi altra alternativa se non quella di accettare una frammentazione storica che, mentre ha di fatto caratterizzato i processi di formazione statale, nondimeno rimane suscettibile di un qualche procedimento comparativo in cui ricomprendere la specificità dei singoli casi nazionali e — cosa forse di ancor maggior importanza — di più o meno vaste aree «regionali».

Anche quest’ultima prospettiva, tuttavia, finisce col supporre o presupporre, sia pure soltanto per esigenze euristiche, se non un determinato modello di Stato almeno l’aspetto o gli aspetti che meglio lo caratterizzano, i quali a loro volta rispecchiano il concreto profilo critico della forma storica di Stato da cui vengono dedotti. Di qui la necessità ulteriore, oggi, di analizzare le trasformazioni dello Stato, anziché indugiare nuovamente sulla sua crisi, o su quelle «contraddizioni» che, considerate una per volta piuttosto che nel loro complesso, paiono ribadire comunque la tesi antica di un suo autodissolvimento.

In effetto, ancor prima che a livello speculativo, è sul piano pratico che si impongono con ogni evidenza i nessi mediante cui le trasformazioni dello Stato (delle sue funzioni e della sua struttura, così come delle sue più tradizionali forme di legittimazione) si intrecciano e interagiscono con due opposti e complementari insiemi di fenomeni, da cui oggi sono investiti l’ordine statale particolare e il sistema politico degli Stati: l’uno, il complesso di fenomeni che potremmo definire in termini di «pluralizzazione» dei tradizionali assetti statali, e, l’altro, quello della «internazionalizzazione» di questi stessi assetti.

È soprattutto la storia del diritto a dare conto di gran parte del primo dei due processi: basti pensare specificamente ai contributi offerti dal riconsiderare il ruolo che la teoria (giuridica) dello Stato ha svolto nell’immaginare e semplificare l’effettiva storia (giuridica) dei processi di formazione statale dal cosmo del Medioevo all’età moderna, vale a dire quella «storia dei giuristi» (nel senso del ceto dei giureconsulti), che fino a un certo punto potrebbe restituirci la molteplicità degli aspetti della vicenda dello Stato dal basso, per così dire, muovendo cioè dalla concreta esperienza forense di coloro i quali hanno avuto il compito di decifrare, applicare e adattare i precetti del potere statale(11).

Più controverso (e per ora senza confini ben definiti) resta invece il campo relativo all’aspetto «esterno» dei mutamenti che interessano la forma e l’essenza dello Stato. Proprio quel campo, insomma, dove con turbolenza maggiore, con ritmo più intenso, con conseguenze a prima vista più ampie e profonde, si svolgono i processi di crescente intersezione e ibridazione tra dinamiche e fatti economici e sociali, tra politica e diritto: quella rete di processi, cioè, da cui sono sempre più caratterizzati i rapporti internazionali e il moltiplicarsi dei circuiti funzionali tra gli Stati, e da cui vengono dilatate, o direttamente prodotte, analoghe interferenze e ibridazioni dentro ciascuna delle comunità statali particolari. A questo proposito la riflessione sul diritto internazionale e sulle sue istituzioni, per quanto (o forse proprio perché) così consolidata dal punto di vista giuridico(12), continua a risultare quasi del tutto impermeabile ai risultati raggiunti dal contemporaneo ambito disciplinare della teoria delle relazioni internazionali o da linee di ricerca interdisciplinare come quelle della International Political Economy.

Non che la distinzione tra «interno» ed «esterno» possegga un contenuto in sé e per sé compiuto, o che abbia acquisito di recente una maggiore chiarezza definitoria. Sempre più consapevolmente, tuttavia, ci si avvede dell’accentuata interdipendenza tra l’uno e l’altro, e forse della necessaria, reciproca fungibilità dei due punti di vista, in modo non dissimile rispetto a ciò che è capitato ad altre, e ben più inossidabili, partizioni-

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contrapposizioni concettuali (quella tra «pubblico» e «privato», per arrestarci all’esempio principale e di maggior pertinenza).

In sostanza, anziché dismettere immediatamente gli stilemi linguistici della dogmatica giuridica, è opportuno considerare la possibilità di traslitterarli, là dove sia possibile, nel linguaggio delle scienze sociali. Senza avanzare, camuffandola con panni nuovi, nessuna antica pretesa di completezza (del resto non auspicabile, e soprattutto non conveniente al momento), un simile obiettivo comporta implicitamente un impegno di carattere metalinguistico, nel senso di un «meta-discorso» il cui referente sia costituito dai discorsi all’interno dei quali è stato effettivamente pensato (o si renda nuovamente pensabile) lo Stato(13). Per semplificare e chiarire: non è al contenuto semantico della parola Stato — cui si presterà tuttavia la doverosa attenzione più avanti — che è necessario e urgente ora guardare, bensì alle procedure discorsive di innovazione e «tesaurizzazione» per il tramite delle quali, a turno, si è pensato ora di abbandonare il concetto di Stato (in favore per esempio della nozione creduta più elastica e non storicizzabile di «sistema politico», com’è successo per mano e in settori diffusi della scienza politica), ora di tornarvi nuovamente allo scopo di ricostruire i tratti distintivi del rapporto tra Stato e società.

Nondimeno, è bene avvertire subito che il tragitto dalla definizione giuridica a quella «sociologica» dello Stato (e viceversa) presuppone proprio quella duplice considerazione del diritto, sia dal punto di vista giuridico sia extra-giuridico (sociale, economico e politico), alla quale si sono attenuti gli stessi giuristi intenti a risolvere il circolo vizioso tra giuridicizzazione e socializzazione dello Stato. È il caso, veramente esemplare per cogliere la traiettoria di un simile periplo concettuale, della rivisitazione del lemma «Stato» — cui già si è accennato in apertura della presente voce — da parte di Giacomo Perticone. Con un significativo effetto (chissà quanto voluto) di spiazzamento dei lettori mediante l’assenza della maiuscola nel termine «stato», la traiettoria veniva così disegnata: «Dallo stato di fatto della sociologia allo stato di diritto c’è passaggio; ma non si tratta di due concetti diversi, ma di due punti di vista dai quali si considera lo stesso oggetto» (14).

Non è la sola, peculiare sensibilità sociologica del giurista a poter spiegare completamente una simile affermazione. Un’impostazione metodologicamente affine viene infatti accolta anche da studiosi di altra provenienza, ugualmente impegnati non soltanto a evidenziare la manifesta indeducibilità dell’ordine politico dall’ordinamento giuridico dello Stato, ma altresì a rilevare «la irriducibilità a ordinamento giuridico dei tipi storici di Stato che hanno preceduto lo Stato rappresentativo» (15).

Insomma, proprio come una «rete» sospesa sui fatti, per ripetere la felice immagine di Carl Gustav Hempel, la teoria giuridica dello Stato è sembrata allentarsi in modo tale da apparire ormai inutilizzabile. Ovvero è parsa annodarsi su se stessa — il che ha prodotto conseguenze quasi uguali, se non del tutto identiche — al punto di risultare addirittura impenetrabile a ogni riscontro empirico. Proprio a partire da questa impasse della teoria, ha allora ripreso corpo l’indagine storiografica sulla genesi dello Stato. Quando non si tenesse conto di un tale blocco, né si capirebbe come mai il codice genetico dello Stato venga ritenuto così importante per descrivere le attuali trasformazioni dell’organizzazione statale, né ci si accorgerebbe del perché, via via che le persistenze feudali paiono maggiori o più rilevanti delle «novità» nelle istituzioni politiche e nelle formule di legittimazione del moderno ordinamento del potere(16), il concetto stesso di «Stato» appaia in procinto di perdere quella sua esclusiva determinazione storica che ne ha ultimamente e sin qui protratto — in sede euristica, almeno — il significato principale e la sorprendente vitalità.

Non per caso, gli estensori delle voci più recenti dedicate al lemma Stato hanno avvertito l’esigenza, quasi senza eccezioni, di definire l’oggetto in base ai peculiari caratteri che hanno contraddistinto il suo emergere in età moderna. Ben pochi studiosi, insomma, sono sembrati disposti a pensare lo Stato quale «grande modello» in cui ricomprendere (e mediante cui comprendere) le forme di organizzazione del potere succedutesi a partire dalla «città-stato» greca, se non addirittura dal regno babilonese di Hammurabi nella Mesopotamia del secondo millennio a. C.(17). È allora significativo che proprio uno studioso di formazione politologica come Alfio Mastropaolo, in una tra le più rilevanti voci pubblicate nei primissimi anni Ottanta(18), abbia sentito l’urgenza di sgombrare il campo dalle «incaute, anzi scorrette estensioni per le quali alla fine si parla, e non di rado, di stato-città — o di città-stato —, di stato patrimoniale o addirittura di stato feudale, con il risultato di privare il nostro concetto di gran parte di quel suo spessore storico di cui invece deve assolutamente tener conto ogni indagine rigorosa in tema di organizzazioni politiche» (19). Il campo d’indagine, in tal modo, viene delimitato attraverso il classico procedimento per genus et differentiam: « [r]ispetto al genus "sistema politico" è dunque assodato che lo "stato" rappresenta unicamente una delle molte "species" possibili» (20).

Ai fini della nostra analisi, è però da notare che una simile ricognizione del concetto di Stato, per quanto possa guadagnare in chiarezza, non sfugge al pericolo di perdere terreno proprio [rispetto] al dato storico, quantomeno sotto il profilo di quella metodologia weberiana che — come si vedrà — continua a rappresentare il banco di prova per ogni ulteriore declinazione del termine Stato: per Weber infatti, è forse il caso di

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ricordarlo, un concetto storico «non può essere definito e limitato secondo lo schema, genus proximum, differentia specifica, ma dev’essere costruito a poco a poco dalle parti storiche che lo compongono, e che vanno tolte dalla realtà storica» (21).

Un simile rilievo nulla intende togliere, beninteso, alla pregnanza della ricostruzione offerta da Mastropaolo sul piano storiografico. Evidenzia, semmai, la peculiarità della sua indagine rispetto alla vulgata del paradigma weberiano. Per quanto lo stesso Mastropaolo si richiami esplicitamente a una rappresentazione ideal-tipica dello Stato moderno, pure le pagine conclusive del suo lavoro rivelano con chiarezza l’obiettivo di delineare una teoria in grado di ricomprendere al proprio interno la molteplicità dei tipi o dei modelli dedotti dall’analisi storica (accentramento, burocratizzazione, e così via).

Torna utile in proposito il confronto con la voce «Stato moderno», stesa pochissimi anni addietro da Pierangelo Schiera già per la prima edizione del Dizionario di politica della Utet(22). Il concetto di Stato viene qui individuato non già per differenza specifica rispetto al suo genus, quanto per contrasto con ciò che lo accompagna quale componente irriducibile rispetto alla moderna «sintesi» statale. È il caso, in particolare, di quella «società per ceti» di cui lo stesso Schiera firma la corrispondente voce nel medesimo Dizionario. Non privo di significato è allora il fatto che, tra le qualificazioni o determinazioni associate alle voci sullo Stato del Dizionario di politica («moderno», e — nelle successive edizioni — «contemporaneo», «del benessere», ecc.), manchi quella connotazione «per ceti» che si ritrova nel tedesco Ständestaat. Si potrebbe concludere che, in tal modo, venga restituita alla concretezza storica uno dei tasselli fondamentali che sono serviti a costruire il concetto di Stato, dal momento che questo, al pari di qualunque altro concetto, si compone di più parti, le quali — per dirla ancora con Weber — «vanno tolte dalla realtà storica» (23).

Più recentemente, sul punto in questione è tornato Maurizio Fioravanti, con una ricca e documentata voce della Enciclopedia del diritto(24). Il «paradigma weberiano» dello Stato viene sottoposto a una rilettura a contrario, per il tramite (in particolare) della prospettiva di uno storico come Otto Brunner. L’analisi di questi due paradigmi, assunti a emblemi di una continua e persistente oscillazione tra due opposte concezioni dello Stato moderno (quella razional-istituzionale di stampo weberiano, e quella di Brunner centrata sulla coppia «unità-sovranità»), non si risolve tuttavia nel riconoscimento di una pura e semplice contrapposizione, bensì muove alla ricerca di una terza declinazione dello Stato come equilibrio, i cui tratti fondamentali vengono per la gran parte desunti dalla storiografia costituzionale inglese.

Al di là delle differenze tra il modello di Stato angloinsulare e quello europeo-continentale (per cui si dà del primo una versione continuista polemicamente opposta all’elemento di rottura tra Medioevo e moderno, che si ritiene abbia prodotto e definitivamente caratterizzato l’avvento del secondo), Fioravanti mira a sfuggire al gioco di specchi attraverso cui le due prospettive sono venute reciprocamente convalidandosi (o invalidandosi). Il suo obiettivo è di comprendere unitariamente l’intera vicenda storica dello Stato, così svincolandola da una contrapposizione storiografica che opportunamente l’autore giudica ormai del tutto sterile e inconcludente. In tal senso, si tratta non già di liquidare i tradizionali paradigmi dello Stato, bensì di integrarli alla luce di un modello di Stato come equilibrio, in grado di delineare l’articolazione pluralista sia dei meccanismi associativi, sia della loro traduzione in ordinamenti giuridici e in regole di condotta.

È d’obbligo a questo riguardo un richiamo alla voce «Stato» scritta da Norberto Bobbio (25) agli inizi degli anni Ottanta. Bobbio, soffermandosi sulle cause della contrapposizione tra concezioni moniste e pluraliste dello Stato, a lato delle seconde ha colto — anche e significativamente nel pluralismo sociale proprio della dottrina anglosassone del guild socialism — «una variante della teoria dello Stato minimo, confinante con la teoria della fine dello Stato» (26). Ci si potrebbe chiedere in qual modo la riflessione sui «limiti dello Stato» sia potuta andare ad appannaggio di un così ampio spettro dottrinale, che va dal liberalismo al pluralismo socialista. Ma la risposta è probabilmente già contenuta nel binomio, che l’autore ritiene inscindibile, tra Stato e politica: sicché il comune denominatore scaturisce in questo caso da una concezione della politica definibile soltanto in termini convenzionali e da una visione sempre circoscritta del ruolo di quest’ultima nella società.

Che sotto questo profilo la parola Stato in sé finisca con l’assumere uno spessore poco più che nominalistico, lo si intuisce dal tenore dell’argomento a favore della tesi «discontinuista» sull’origine dello Stato. Osserva infatti Bobbio: «Il problema del nome "Stato" non sarebbe così importante se l’introduzione del nuovo termine alle soglie dell’età moderna non fosse stato occasione per sostenere che esso non corrispose soltanto a un’esigenza di chiarezza lessicale ma andò incontro alla necessità di trovare un nome nuovo per una realtà nuova: la realtà dello Stato appunto moderno da considerarsi come una forma di ordinamento tanto diverso dagli ordinamenti che lo avevano preceduto da non poter essere più chiamato con gli antichi nomi» (27).

Mentre Bobbio sembra concentrare la sua attenzione sul confronto tra le tesi discontinuiste e quelle continuiste, Nicola Matteucci ha accolto esplicitamente e senza riserve la definizione dello Stato come forma

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storicamente determinata di organizzazione del potere, la quale si impone solo in epoca moderna e con caratteristiche del tutto peculiari rispetto ad altre «forme di dominio» (28). L’implicita adesione al paradigma weberiano è però funzionale a una ricostruzione storica che, in Matteucci, punta a oltrepassare la semplice contrapposizione di fatto tra monismo e pluralismo (quest’ultimo inteso nel senso dell’associazionismo di stampo liberale, anziché in termini corporativi o cetuali, che come tali appaiono all’autore in netta antitesi con il moderno pluralismo).

Di particolare rilievo, almeno per quanto riguarda le argomentazioni principali che si stanno qui cercando di svolgere, è il passaggio conclusivo della voce scritta da Matteucci, la quale — a differenza delle altre finora considerate — apre l’analisi al sistema politico internazionale. Da quest’ultimo sistema l’autore fa discendere la diminuzione, se non addirittura l’estinzione, del potere sovrano degli Stati. Di fronte al definitivo logoramento dell’antico ius publicum europaeum, che a sua volta si reggeva su di un equilibrio tra Stati sovrani, Matteucci propende verso l’ipotesi di uno Stato «post-moderno», situato nel mezzo di un fitto reticolo di interdipendenze e irriducibile all’effettuale realtà di centro che si pretenda illimitatamente sovrano.

Ovviamente, perché una simile ipotesi risulti appropriata alle principali trasformazioni in corso, non basta assumere lo Stato come variabile dipendente rispetto alla dimensione internazionale dei processi politici. Né — come talvolta si crede — è sufficiente andare «oltre lo Stato», allo scopo di riscoprire l’articolazione pluralista del processo di governo. In tal caso verrebbe infatti a mancare la benché minima considerazione circa gli effetti strutturali che lo Stato dispiega e produce, per parte sua, sui medesimi processi di cui lo si vorrebbe ormai (e, non di rado, in misura prevalente) un oggetto passivo.

Piuttosto, è da notare in qual modo il tragitto dalla definizione giuridica di Stato a quella sociologica e, poi, politologica — così come lo si è sinteticamente ripercorso attraverso alcuni dizionari, repertori ed enciclopedie della cultura italiana — ci restituisca infine l’immagine di un sistema assente: un sistema che non è (ancora) pienamente riconducibile a un vero e proprio corpus teorico, ma che, nondimeno, rimane operante sul piano della ricostruzione funzionale. In questo senso è allora assai indicativa la forza con cui torna a riaffiorare il problema del nome Stato, insieme al persistente paradosso, neppure troppo inconsueto nel lessico e nei discorsi della politica, di un nome antichissimo per una parola «nuova».

3. Un nome antico per una parola nuova (ovvero, breve excursus sulla nascita di un termine bastardo).

Uno dei modi più frequenti di risalire alle origini del concetto di «stato» (prima ancora che a quelle del suo nome) consiste nel procedere alla ricostruzione, o inversamente alla decostruzione, dei caratteri costitutivi mediante cui le dottrine giuspubblicistiche sono pervenute alla definizione dello Stato quale forma specifica di ordinamento politico. Con pari frequenza, in molte indagini continua a sembrare più proficuo anteporre alla storia del concetto giuridico la storia dei modi d’impiego del termine. Nelle analisi che si sono venute accumulando intorno alla genesi e all’uso linguistico della parola in questione, non è pertanto difficile scorgere ora il tentativo di sottrarre al logorio storico Videa di Stato, ora l’intento di comprovare la sua irreversibile crisi.

In simili prospettive di ricerca vengono così a esplicitarsi due procedimenti complementari, che trovano la loro sintesi nello svolgimento complessivo del termine-concetto di Stato. Eppure, qui più che altrove, non è affatto irrilevante notare come proprio negli slittamenti semantici tra il concetto e il termine di status, sul quale si innesta il ceppo originario della parola «stato», sia da trovare il motivo conduttore di quell’incessante operazione di cesello terminologico e concettuale cui è stata sottoposta, a più riprese e con modalità diverse, la nozione di Stato.

In effetti, mentre l’area lessicografica che inizialmente pertiene al termine status è quanto mai vasta (e perciò anche sostanzialmente indeterminata), gli sviluppi che coinvolgono la sua connotazione giuspubblicistica — così diremmo oggi — permangono sostanzialmente inalterati dall’antichità fino al secolo xiii. Non che, naturalmente, il termine status sia risultato nell’età classica del tutto privo di connotazioni «politiche»: com’è noto, infatti, per il suo tramite veniva definita non soltanto la condizione familiare (status familiae) e quella economico-sociale (status libertatis), bensì anche la situazione civile in senso proprio (status civitatis). Neppure, tuttavia, si può plausibilmente affermare l’opposto: cioè che l’impiego di status in senso giuspubblicistico, al quale ha dato luogo il passo ben noto (e variamente interpretato e tradotto) di Ulpiano nelle Institutiones, 1,1,4: «publicum ius est, quod ad statura rei Romanae spectat», abbia indicato qualcosa di più della pura e semplice «condizione» o, al limite, del «modo d’essere» della res publica. Il punto di partenza, in tale direzione, è infatti l’endiadi status rei publicae. È però da notare già da ora come, specialmente sotto il profilo della distinzione tra «pubblico» e «privato», la nozione di status abbia finito col condividere le altalenanti vicende di un’altra fondamentale categoria derivata dal diritto romano, quella del «contratto». Al pari di quest’ultima, ma per ragioni diametralmente opposte su cui si dovrà tornare, anche l’idea di status si presta

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infatti a quella duplice e irriducibile chiave di lettura — in senso ora privatistico, ora pubblicistico — che è poi al fondo dell’ambivalenza costitutiva (o, se si vuole, del carattere bastardo) presente nel patrimonio genetico di Stato.

In ogni caso, il termine status verrà a indicare la condizione («stabile» e «stabilizzante», in primo luogo) (29)dell’una come dell’altra delle due forme di organizzazione politica scaturite dalla disarticolazione di quell’universalismo da cui traeva alimento l’idea di respublica Christiana: le nascenti autonomie cittadine, da un lato, e, dall’altro, le monarchie territoriali in via di formazione sin dall’alto Medioevo. Come avvertirà, ai primi decenni del Trecento, Marsilio da Padova già nel secondo capitolo del Defensor Pads, per poter definire cosa sia la «tranquillità» di una civitas o di un regnum occorre infatti tener conto che il termine regnum (quale res publica, «Stato») ha molti significati: «In un senso indica infatti un dato numero di "città" [civitatum] o "province" che sono contenute entro un certo regime; e in questo senso lo Stato [regnum] non differisce dalla città per quanto riguarda le specie di costituzione [policie], ma piuttosto per la loro quantità. In un altro senso, uno Stato [regnum] può consistere tanto in una sola città, come accadeva appunto al tempo in cui sorsero le comunità civili, poiché allora vi era di solito un re per ogni città. Il terzo e più familiare significato di questo termine è una combinazione del primo e del secondo. E nel suo quarto senso, significa qualcosa di comune ad ogni specie di regime temperato, sia in una sola città sia in molte città». A partire da qui, la nozione di «stato» — invece di servire di rinforzo all’immagine della respublica (o della civitas, nonché del regnum) — inizierà lentamente e quasi impercettibilmente a prenderne il posto. E tuttavia, se si ripercorrono separatamente gli sviluppi del termine status in rapporto alle sue diramazioni in volgare, non si può fare a meno di notare come i piani di connotazione che investono il termine «stato» siano costretti a variare sensibilmente a seconda dell’area linguistica di riferimento. Una possibile chiave di lettura può essere fornita in proposito dai dispositivi argomentativi che di volta in volta vengono impiegati, in particolare per quanto riguarda il rapporto inverso che intercorre tra inventio e tesaurizzazione. È comunque certo che l’acquisizione del moderno concetto di Stato non procede per «compartimenti stagni» (30). Così, in determinate circostanze, quel che tarda a comparire in modo evidente e distinto è l’uso del latino status, senza altre qualificazioni o specificazioni al di fuori di quelle concernenti lo «stato», ovvero la condizione, di qualcuno o di qualcosa. Nulla di più, insomma, di quanto non verrà tesaurizzato da Egidio Forcellini nel suo Lexicon totius latinitatis.

In effetti, ancora intorno al 1570 circa, nel suo trattato sulle origini della monarchia francese intitolato Francogallia, il calvinista François Hotman ascrive senza indugio all’idioma popolare l’espressione «Affari di Stato». All’inarca nel medesimo torno di tempo, e nell’identico contesto storico, un atteggiamento di analoga diffidenza nei riguardi del neologismo «Stato» si può incontrare anche in Bodin, il quale — com’è ben noto — preferisce adoperare il classico termine di République, o respublica. Sono bensì numerosi i luoghi della sua opera maggiore nei quali ricorre il corrispondente volgare, soprattutto usato al plurale, di status (estats): esso tuttavia conserva un’irriducibile polivalenza semantica, a seconda del ruolo funzionale occupato dal vocabolo nei Six livres de la République, fin dalla loro pubblicazione nel 1576. Naturalmente, non è solo con riguardo alla «condizione» che Bodin impiega il termine estat, bensì anche con riferimento alla tripartizione aristotelica e polibiana delle forme di governo. Eppure, nonostante tutto, si tratta di un uso linguistico ancora incerto, che oscilla tra la determinazione di uno stato di fatto, ovvero di una posizione cetuale elevata a «ordine», quando non ancora di una forma di ordinamento politico(31).

Non può dunque sfuggire che, sempre per lo stretto profilo linguistico al quale per ora ci si sta attenendo, il medesimo problema relativo alla polivalenza del termine «stato» lo avesse già posto (non per la prima volta, e tuttavia in maniera divenuta esemplare) l’uso di tale vocabolo da parte di Machiavelli.

Sebbene sia ormai insostenibile la tesi secondo cui il celeberrimo passo d’apertura del Principe inauguri l’uso in senso moderno del termine Stato («Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati»), nondimeno rimane vero che il linguaggio machiavelliano ha costituito un momento determinante per gli sviluppi concettuali relativi all’idea di Stato. Questo «momento machiavelliano», per dirla con le parole dello storico del pensiero politico John Pocock, può essere interpretato in diversi modi, i quali alimentano altrettante ipotesi intorno a quel duplice e contestuale processo che molti continuano a vedere come personalizzazione dello «stato» (fino alla costruzione della sua personalità giuridica, almeno a partire dalla celebre recensione scritta nel 1837 da Wilhelm Albrecht ai Grundsätze des heutigen deutschen Staatsrechts di Romeo Maurenbrecher) e come simultanea, necessaria spersonalizzazione di coloro, principe e aiutanti, da cui fattualmente viene esercitato l’«imperio».

L’ipotesi principale, sviluppata originariamente da Hans De Vries nel suo Essai sur la terminologie constitutionnelle chez Machiavel — Il «Principe», profilata anche da Federico Chabod, infine sostenuta con vigore e condotta alle sue estreme conseguenze da Gianfranco Miglio, è che nella terminologia di Machiavelli lo «stato» equivalga al «gruppo ristretto e concreto di uomini i quali si dedicano all’esercizio del potere: gli

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aiutanti fidati che esercitano l’"imperio" con il principe, e sono autorizzati a prendere decisioni capitali; mentre il titolo che li legittima come partecipi dello "stato" è il possesso dell’autorità"» (32). In quest’idea di «stato» come «équipe dominante» starebbe allora, secondo Miglio, il carattere fortemente «realistico» delle originarie accezioni del concetto. È pertanto del tutto significativo che nell’interpretazione migliana dello svolgimento complessivo dello Stato (e in ordine alla tesi secondo cui l’esperienza statale moderna rappresenta un gigantesco tentativo di ridurre a «contratto» l’area dell’obbligazione politica), il «realismo» appaia non solo presente carsicamente, ma anche destinato ad affievolirsi progressivamente e rapidamente, almeno fino al chiudersi del ciclo storico del moderno Stato. La connotazione realistica dell’originaria idea di «stato» comincia infatti già a soccombere, quando a quest’ultima si sovrappone, e si impone, la fictio dello Stato come «complesso di istituzioni».

Lo «stato» dev’essere quindi concepito in primo luogo quale «stato del principe», conformemente del resto con l’idea di status alla quale si riferivano i giuristi del Trecento per definire l’estat du royaume in solido con lo status regis. Anche in Machiavelli, di conseguenza, persiste l’accezione patrimoniale del vocabolo «stato», che in tal senso resta a indicare appunto la «condizione del principe», e, per estensione, del suo territorio, inteso soggettivamente come il «suo stato».

Difatti, in quale modo il dominio territoriale (equivalente allo status di chi lo detiene) abbia potuto infine risolversi nello «stato» del territorio in senso oggettivo — ovvero, per dirla con la formula tuttora valida di Francesco Ercole, come si sia passati dallo «stato-soggetto» allo «stato-oggetto» (33) — è questione tutt’altro che scontata, quando ci si attenga a un circostanziato esame del linguaggio machiavelliano. Probabilmente un simile passaggio concettuale, presente in modo embrionale, non poteva che rimanere incompiuto in Machiavelli, il quale aveva sì intuito o magari chiaramente intravisto la possibilità di personificazione dello Stato, ma non poteva certo prevedere e delineare per intero quel poderoso processo di istituzionalizzazione che, soprattutto legittimandosi mediante la ratio della «impersonalità del comando», avrebbe reso l’assetto complessivo dello Stato il più possibile astratto rispetto agli individui e ai gruppi che lo costituiscono (o così, perlomeno, quando si intenda trovare il più inossidabile elemento di unitarietà nella vicenda del moderno Stato, si continua tutt’oggi e in quasi assoluta prevalenza a ritenere).

In effetti, è soltanto nel Cinquecento che incomincia a prefigurarsi con tutta evidenza lo straordinario dispositivo concettuale destinato a godere di una larghissima fortuna nei secoli successivi, anche (e forse soprattutto) come modello storiografico in grado di raffigurare lo Stato non solo quale persona (ficta), soggetto astratto e perciò svincolato dagli individui che in concreto lo impersonano, bensì e in specifico quale struttura di base a cui riportare, senza mutazioni essenziali e nemmeno variazioni così numerose o significative da divenire sospette, tanto lo Stato di diritto quanto il cosiddetto Stato sociale.

Senza dubbio, in tale vicenda, un considerevole ruolo iniziale (e subito, in senso proprio, ideologico) è stato svolto dai trattatisti della «ragion di Stato», il cui obiettivo era per l’appunto quello di capire e spiegare in quale modo l’interesse personale e immediato del sovrano e del suo entourage potesse infine elevarsi a «interesse di Stato». Nella nutrita schiera dei ragionatori di Stato, sarà Fabio Albergati a distinguersi per la sua aspra polemica nei riguardi della dottrina bodiniana e in «difesa d’Aristotile». Quel che secondo Albergati era da «riprovare» dell’opera di Bodin riguardava proprio l’assenza di una definizione dell’«oggetto» antecedente alla puissance souveraine (summa potestas) della République: la moltitudine degli «istati» delle famiglie, dei borghi e delle città di cui si compone infine lo «stato», che per Bodin varrebbe solo come nozione «accidentale», riferibile tutt’al più a un modo d’essere empiricamente determinato e quindi mutevole della respublica(34).

Ma un simile rilievo, vista anche la statura del pensatore al quale viene rivolto, induce a chiedersi non tanto perché sia invalso da un certo momento in poi l’uso del neologismo Stato (così come ha ritenuto di poterlo definire a tutti gli effetti Alessandro Passerin d’Entrèves)(35), bensì all’opposto che cosa ne ha impedito per così lungo tempo l’impiego, anche laddove giungeva a piena e completa maturazione l’idea di sovranità, come nel caso appunto della dottrina bodiniana.

È convincimento diffuso, già lo si è detto, che la ricostruzione del tentativo di calcare sul termine «stato» il significato di realtà oggettiva (la quale, conta ricordarlo, deriva il proprio modo d’essere dall’estat du prince, ma pure è a questo antecedente in quanto multitudo), debba procedere da un duplice e complementare procedimento di personalizzazione della nuova «realtà» e di astrazione rispetto al principe medesimo. In tale direzione, la chiave di volta parrebbe costituita da quella «finzione» che Ernst Kantorowicz dimostrerà operante già nella riflessione tardo-medievale intorno ai «due corpi del re», e che come tale verrà addirittura ripresa nel secolo xvi dai giuristi elisabettiani per dimostrare la dignitas imperitura del sovrano, in contrappunto con le transeunti vicende di chi materialmente l’avrebbe impersonata. E tuttavia, è proprio Kantorowicz ad avvertire che «mentre la giurisprudenza continentale poteva facilmente giungere al concetto di "Stato" in astratto o

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identificare il principe con lo Stato, non arrivò mai a concepire il principe come corporation sole — un ibrido dalla genealogia certo complessa — dalla quale il corpo politico in quanto rappresentato dal Parlamento non poteva mai andare disgiunto» (36).

Vi è già qui un primo motivo di riflessione per quanto riguarda il contesto anglosassone, che per un significativo lasso di tempo si presta infatti ad accogliere di preferenza, piuttosto del neologismo «Stato», commonwealth: dunque, proprio quel lessema (calco — essendo wealth la forma astratta di weal — del latino bonum publicum), che nel secolo xvi giunge a indicare ordinariamente il «corpo politico», dopo essere stato impiegato sino ad allora per denotare, nel contempo e indistintamente, tanto il «corpo politico» quanto il «benessere».

Tra i numerosi esempi che si possono addurre, quello di John Locke resta — nel secolo successivo — forse il più rilevante, giacché vi si riscontra una sorta di punto d’approdo nella vicenda del termine commonwealth. È l’avvertenza che l’autore dei Two Treatises of Government formula nel secondo Libro, § 133: «Tutte le volte che dico "società politica" [commonwealth] bisogna ritenere ch’io intenda non una democrazia o una qualsiasi forma di governo, ma una comunità indipendente, che i latini indicavano con il vocabolo civitas, a cui il vocabolo che meglio corrisponde nella nostra lingua è commonwealth, che esprime tale società di uomini molto più propriamente che non facciano i termini inglesi di community o city».

Sono due, allora, le questioni che qui vengono sollevate in forma di linguaggio stipulativo. La prima è la connotazione «repubblicana» del termine commonwealth (conforme del resto alla traduzione letterale di respublica, e pure affatto peculiare se risolta ad appannaggio del repubblicanesimo in senso stretto): proprio ciò induce Locke a premettere come in specie non vi sia riferimento ad alcun tipo di regime o «forma di governo». Con la seconda, invece, viene rimarcato lo scarto tra l’idea di civitas come modello di una comunità «indipendente», ora denominata commonwealth, e le vere e proprie comunità cittadine intese quali corpora civitati subordinata, dello stesso genere dei collegi o delle comunità ecclesiastiche.

D’altra parte, durante tutto il Seicento, non per caso gli esponenti del moderno giusnaturalismo ricorreranno di preferenza al concetto di respublica per designare l’ordinamento della civitas, senza che avvertano mai l’urgenza di impiegare, al posto di quest’ultima nozione, il termine «stato». Né serve a molto ricordare che Grotius, Pufendorf o ancora Wolff scrivessero in latino: una circostanza, questa, che anzi sembrerebbe dimostrare quanto vicina al suo significato originario fosse per allora la nozione di «stato», e di conseguenza quanto poco familiare risultasse la vera e propria invenzione del neologismo Stato(37).

Sembrerebbe quindi che sia, per l’appunto, la difficoltà di denominare una forma di organizzazione politica — qual è quella che viene consolidandosi a discapito del vocabolario di cui dispongono coloro i quali la osservano — a condizionare l’impiego del termine Stato. Se si guarda meglio, però, una simile posizione di stallo in cui s’imbatte l’état du jeu linguistico risulta addebitabile con facilità alla nozione circolare del termine Stato. Il quale altro non è se non la sostantivazione di un modo d’essere riferito allo status di una pluralità di soggetti, e poi per passaggi successivi a quello di un solo agente sovrano, la cui condizione in tanto viene percepita come tale in quanto la si vuole in ogni caso indeclinabile.

Così, il sistema di dominio assolutista si inscrive fin dentro il lessico politico, che, con modalità e tempi diversi a seconda dei differenti contesti territoriali, vede declinare gli «stati» (intesi ovviamente in senso cetuale, quali Stände, estates), nello Stato «sovrano». Allo stesso modo, anche se per converso, quella cetuale rimane per un tempo più o meno lungo la componente semantica cospicua e immediatamente visibile del termine «stato», che proprio per questo motivo tarderà a comparire in luogo del concetto moderno di sovranità.

Il problema è allora vedere per quali ragioni e sotto quali condizioni, al culmine di quel processo per cui lo Stato diviene esso stesso persona giuridica in grado di inglobare la figura concreta del sovrano, risulti possibile una qualche ulteriore e decisiva declinazione dell’idea di Stato, se non per lo Stato medesimo. Detto altrimenti, e più drasticamente: fino a qual punto è possibile intravedere una via d’uscita alla tautologia dello Stato (sovrano), senza incorrere in una enunciazione pleonastica qual è in effetti quella di «Stato per ceti», o Ständestaat, che è servita soprattutto per la mise en relief del secondo termine, divenuto così il vero centro d’interesse dell’enunciato in questione.

È certamente un passaggio indispensabile, quest’ultimo, per uscire dalla circolarità del concetto di konstitutionellen Staatsverfassung, di «costituzione costituzionale», e quindi per oltrepassare lo Stato costituzionale (di diritto) in prospettiva della concreta «costituzione statale» radicata nelle articolazioni del potere a livello territoriale. Ma è del resto ben noto come lo stesso Otto Brunner, che forse più di qualunque altro storico ha contribuito ad avvalorare questa prospettiva, abbia avvertito il rischio di trascurare il «momento dell’unità politica» una volta abbandonato del tutto il concetto, anzi il «superconcetto» (Oberbegriff), di Stato(38): come a dire che è ancora per il tramite delle coordinate concettuali indicate da quest’ultimo che si rendono decifrabili le trasformazioni della moderna organizzazione del potere, anche laddove esse siano il

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risultato di processi situabili al di fuori dello Stato, ossia nella (dis-)articolazione in senso pluralista della società e nella mutevole e instabile struttura delle relazioni internazionali.

Precisamente in questo senso occorre cercare di stabilire se e fin dove sia ancora possibile tematizzare la nozione di Stato, rispettivamente — ma anche congiuntamente — in termini di «pluralismo» per il versante interno, e di «internazionalizzazione» (più d’uno direbbe ormai «globalizzazione»), per quel versante esterno finora considerato del tutto distinguibile e spesso opposto al primo. …

6. Il ruolo economico dello Stato e l’economia costituzionale.

Anziché porre unilateralmente l’enfasi sul «ritrarsi» dello Stato dalla società e dall’economia, così da legare le sue sorti all’andamento congiunturale dell’apparato produttivo, sembra di gran lunga più plausibile ritenere che vi sia stato un processo di ridefinizione delle sue funzioni, il quale ha visibilmente inciso sui mezzi, la forma, e soprattutto gli obiettivi dell’intervento statale(45). Così, mentre gli strumenti di attuazione delle politiche pubbliche sono per la gran parte passati da una gestione statale diretta a una indiretta per via del ricorso ad agenti quasi-pubblici o anche del tutto privati, per converso va aumentando il peso dell’attività regolativa dello Stato in alcuni settori nevralgici del mercato, per lo meno quando si consideri quest’ultimo come un meccanismo soggetto sia ad attriti di tipo istituzionale, sia a variazioni nel processo produttivo. Se questi due aspetti non vengono assunti come dati dall’analisi economica, allora diviene cruciale interrogarsi su quale sia e possa essere il ruolo economico dello Stato.

In effetti, anche se ci si attenesse solo ed esclusivamente a un’esposizione di tipo descrittivo (senza cioè domandarsi in prima battuta se lo Stato debba avere un ruolo economico, minimo o massimo che sia), risulta nondimeno agevole cogliere il carattere cogente di un simile problema, già a partire dall’analisi dei «costi di transazione» connessi agli scambi di mercato. È forse il caso di ricordare che, sulla scorta dell’ormai classica trattazione di Oliver E. Williamson, vengono definiti di transazione quei costi legati all’assenza di mutua fiducia (distrust) delle parti contraenti, le quali sono perciò indotte a premunirsi dai rischi di inadempienza unilaterale o reciproca accordandosi su ogni possibile evenienza sfavorevole: può così darsi la possibilità, per nulla remota, che i costi connessi con una specificazione quanto più possibile esaustiva degli accordi siano talmente alti da sospingere i contraenti a confidare in pratiche contrattuali atipiche o non convenzionali(46).

In tal modo il sistema normativo, che funge da supporto alle relazioni contrattuali, anziché essere preso come dato, viene elevato a variabile interveniente nell’analisi dei costi di transazione. Di conseguenza, la scelta di un determinato quadro di garanzie legali implica anche un diverso tipo di condotta transattiva: si pensi per esempio al caso dell’economia sommersa, in cui i benefici derivanti dall’eludere il sistema contributivo vengono generalmente stimati maggiori dei costi connessi a un vincolo contrattuale garantito per legge.

In simili circostanze appare evidente che il cosiddetto governo dell’economia non possiede, né potrebbe mai possedere, una configurazione unitaria, dal momento che i livelli di governo variano a seconda dei differenti (livelli di) costi di transazione che le parti sociali sono disposte a sostenere, e che vengono diversamente stimati anche in ragione della velocità del processo di innovazione economica.

Da questo punto di vista l’analisi tradizionale dello sviluppo economico muove dalla constatazione evidente, e di per sé incontrovertibile, che il cambiamento tecnologico impedisce di predeterminare in anticipo le variazioni del processo produttivo, sicché non potrebbe darsi altra possibilità se non quella di agevolare l’iniziativa imprenditoriale. Tuttavia, una simile impostazione del problema prescinde totalmente dalla riflessione intorno ai «sistemi nazionali di innovazione», che non solo sono ammissibili in linea teorica (per quanto non ortodossa questa possa apparire), ma costituiscono in pratica un fattore di incidenza determinante per cogliere l’effettivo impatto esercitato dal processo di internazionalizzazione sui singoli paesi.

Se è vero che i sistemi di innovazione non dipendono solo dal grado di entrepreneurship di una determinata area geografica, e nemmeno in modo preponderante da eventuali incentivi statali, bensì e propriamente dalle specifiche circostanze «ambientali» presenti in un dato territorio, allora è inevitabile commisurare la competitività delle economie nazionali alla loro capacità di orientare in un modo o nell’altro i percorsi innovativi. Si pensi in proposito, per esemplificare ulteriormente, al caso degli standard tecnologici, che sono il risultato di scelte tecniche spesso sostenute e assecondate da nazioni divenute egemoni in determinati settori produttivi, proprio in virtù di una promozione mirata del patrimonio di conoscenze maturato al loro interno e quindi esportato ad altri paesi (in particolare a quelli in via di sviluppo).

Non si tratta con questo di riproporre una visione mercantilista dei rapporti tra gli Stati. Ciò comporta semmai la necessità di cogliere il differente grado di incidenza che l’azione di governance dell’economia da

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parte degli Stati ha sul processo di internazionalizzazione, sia in termini di canalizzazione dell’innovazione, sia in rapporto alla formazione di «mercati sicuri», ossia caratterizzati da ridotti costi di transazione in presenza di un’elevata fiducia reciproca tra i contraenti (o viceversa).

Una volta accertato che gli Stati svolgono comunque un ruolo economico più o meno vincolante, possiamo allora interrogarci in termini normativi su quel che dovrebbe essere l’azione statale in economia a seconda del diverso tipo di scelte compiute sul terreno di quella «politica costituzionale» alla quale si è accennato in precedenza. Evidentemente una definizione normativa dell’attività economica dello Stato non è del tutto svincolata da presupposti analitico-descrittivi, che in un certo modo la rendono operativa. E in questo senso possono entrare in gioco proposizioni prescrittive che non sono situate al di fuori del mercato (per esempio il trade off tra efficienza ed equità), ma che piuttosto sono consequenziali al «fallimento» di quest’ultimo nel fornire una soluzione ottimale ad alcuni cruciali problemi come quelli sollevati (segnatamente) dai beni pubblici, dalle esternalità e dai monopoli naturali.

È da notare come numerosi aspetti di questo dibattito siano tuttora al centro degli sviluppi di quel composito indirizzo di studi che va sotto il nome di New Political Economy, la quale può qualificarsi a un tempo in senso internazionale e costituzionale. Per quest’ultimo caso, ancor più che di una «costituzione economica» in senso stretto (sia pure in un’accezione nuova rispetto alla tradizionale disciplina dell’economia anteriore all’emergere di organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea)(47), si potrebbe parlare di una economia costituzionale in grado di svolgere una specifica, e di volta in volta rivedibile, funzione di cerniera tra le varie cerchie di appartenenza (d’interessi e di territorio), così come vengono ridisegnandosi a seguito dei processi opposti e complementari di internazionalizzazione e regionalizzazione. Non si discute, in sostanza, di quella parte delle norme fondamentali che disciplinano l’economia, bensì di quegli aspetti economici che assumono una piena rilevanza costituzionale in quanto interferiscono con la «concreta forma di un ordinamento politico». …

8. Il sistema degli Stati.

Si è già osservato come non sia necessario ricorrere alla distinzione tra descrittivo e normativo per riconoscere che risulterebbe insoddisfacente per più di una ragione la sola descrizione dello Stato improntata al cosiddetto «realismo», tanto in senso sociologico (nei termini a noi già noti del pluralismo, in una direzione opposta al formalismo giuridico), quanto in un senso strategico (con riguardo in particolare ai rapporti di forza tra gli Stati). Per quanto il realismo dei pluralisti differisca radicalmente da quello degli internazionalisti proprio in ordine all’assunzione dello Stato quale unità d’analisi (che è tanto irrilevante per i primi quanto determinante per i secondi), nondimeno ambedue le impostazioni finiscono col risultare complementari, nella misura in cui relegano la dimensione giuridica a un ruolo marginale o strumentalmente funzionale rispetto ai rapporti di forza «reali» (o presunti tali), presenti nelle singole società nazionali o nel sistema politico internazionale.

In effetti, e non per caso, ci troviamo nella singolare circostanza di poter osservare e meglio intendere la natura e le funzioni dell’ordinamento statale, a partire dallo stesso punto di vista dal quale gli studiosi del diritto internazionale sono da tempo abituati a descrivere e valutare il proprio oggetto: ossia come un complesso normativo che aderisce a una situazione di tendenziale «anarchia» (51), ma che non per questo risulta del tutto svincolato da un principio d’ordine.

Nel preciso momento in cui si riconosce la natura pluralistico-conflittuale delle relazioni di base che fanno da sfondo all’ordinamento statale, e che vengono impropriamente proiettate all’esterno di esso nei rapporti tra gli Stati, ci si avvede di come la sintesi che ne dovrebbe scaturire non abbia necessariamente le caratteristiche di un gioco a somma zero, come invece si è creduto a partire dal mercantilismo per arrivare agli odierni «realisti». D’altra parte, né l’orientamento liberale, né quello marxista (gli altri due maggiori indirizzi che, insieme all’ultimo appena richiamato, risultano predominanti tra gli specialisti di relazioni internazionali), hanno fornito argomenti decisivi a sostegno dei rispettivi assunti teorici. Di certo non convince la trattazione dello Stato quale mero riflesso dei rapporti antagonistici di mercato, o quale luogo di intersecazioni di interessi d’impresa cui soggiacciono più o meno passivamente gli apparati politico-amministrativi dei paesi che li accolgono.

Una volta accertata l’effettiva riduzione di autonomia decisionale degli Stati per effetto dell’integrazione dei mercati e dell’interdipendenza finanziaria (la quale, va aggiunto, di per sé può sempre rovesciarsi in una teoria della dipendenza o del sottosviluppo situabile già in prossimità dell’emergere di quella «economia-

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mondo europea», che uno studioso d’orientamento marxista come Immanuel Wallerstein ha ripercorso a partire dal xvi secolo), bisogna notare che, paradossalmente, «[n]ello stesso momento in cui il sistema degli stati assorbe il mondo intero, lo stato singolo può perdere parte del suo significato» (52).

È questo un rilievo che appare non meno plausibile anche quando si pensi, per converso, che l’interdipendenza dei mercati sembra condurre, più che alla polarizzazione tra nazioni con differenti traiettorie di sviluppo (nel senso cioè di quella teoria della dipendenza o del sottosviluppo di cui si è appena detto), a una convergenza di tutte le società nazionali verso la segmentazione dei rispettivi apparati produttivi, così da assoggettare tutti gli Stati indistintamente al medesimo tipo di sollecitazioni «sistemiche ».

In sostanza, all’ovvia constatazione circa il declino dello Stato quale entità sovrana, bisogna affiancare la registrazione, per certi versi sorprendente, del duplice fatto che il «sistema degli Stati» si rafforza e contestualmente agevola al proprio interno la proliferazione di nuovi soggetti statali, e che, al proliferare di questi soggetti, il fondamentale rapporto che ha storicamente legato «Stato» e «democrazia» non solo — nello stesso tempo e contraddittoriamente — si stringe in taluni punti e si allenta in altri, ma anche muta per funzioni e in qualità (53).

Così, a misura che assistiamo alla progressiva diffusione di un unico modello di «forma-Stato», non tardiamo ad accorgerci come quest’ultima si sia trasformata in una sorta di prerequisito indispensabile per l’accesso alle organizzazioni internazionali da parte di paesi pure lontanissimi dall’esperienza del «moderno Stato europeo». E non è pertanto un caso se le stesse nazioni europee, che per prime (sia pure con modalità molto diverse l’una dall’altra) sono state le artefici principali di questa esperienza, vedano rapidamente scemare nel volgere di questo secolo le peculiarità che in origine marcarono i rispettivi processi di formazione statale.

Tutto questo non significa, ovviamente, che siano venuti meno i tratti distintivi e talora unici ai quali è legata la storia dello sviluppo istituzionale dei singoli paesi(54). La diffidenza dell’attuale storiografia nei confronti della modellistica comparata sta a ricordarci, semmai, il contrario. È da notare tuttavia come non si sia forse riflettuto a sufficienza sui motivi per cui gli Stati, anziché diversificare le loro politiche in ragione delle specifiche e sempre più frammentate realtà territoriali, abbiano assunto stili politico-decisionali complessivamente simili gli uni agli altri, sia pure nel segno (negativo) di un generale indebolimento dell’azione statale, da interpretarsi (in positivo) come possibile flessibilità e conformità (più che subordinazione) alle «leggi del mercato». Se così è, allora non serve granché interrogarsi sulla odierna e sempre più esplicita attitudine dello Stato a delimitare le sue pretese di controllo e gestione della società e dell’economia, giacché in questi termini nulla vieta di pensare — anche solo per ipotesi — che il pendolo possa tornare ad oscillare nella direzione opposta di un «ritorno allo Stato», il quale ritorno risulterebbe altrettanto se non più fuorviante della prospettiva inversa.

Con ogni probabilità, stiamo assistendo a una cruciale fase di trasformazione della forma-Stato lungo due diverse direttrici che interessano allo stesso tempo i processi e le strutture statali, e che però quasi mai procedono nell’identico senso. Ne è un esempio l’emergere di processi federativi e di pratiche di negoziazione che scavalcano o aggirano la struttura istituzionale più o meno centralizzata degli Stati, soprattutto in presenza di un alto grado di disomogeneità territoriale. Non che sia sufficiente affidarsi in proposito alla spiegazione dello Stato quale struttura già per definizione «stabilizzante», come se così e semplicemente si potesse anteporre alla dinamicità dell’area del «contratto-scambio» l’apparente immutabilità e staticità dell’«obbligo politico». In tal modo si finirebbe infatti con l’identificare nuovamente lo Stato con la politica, o per meglio dire con una definizione assai riduttiva di quest’ultima.

È vero anzi che un simile approccio strutturale alla moderna organizzazione del potere rischierebbe fatalmente di racchiudere l’immagine dello Stato in una sorta di compartimento stagno del tutto impermeabile al concreto, mutevole e spesso imprevedibile «flusso storico» dal quale sono emersi originariamente i diversi processi di formazione statale(55), le cui traiettorie di sviluppo, lo ripetiamo ancora, appaiono al momento attuale di gran lunga più ravvicinate tra loro di quanto non lo fossero soltanto mezzo secolo addietro. E questa convergenza non può ritenersi accidentale. Con ogni probabilità, si tratta dell’esito ultimo e più evidente di una dinamica storica, al culmine della quale anche quei paesi maggiormente caratterizzati da una diffusa consistenza del potere a livello territoriale sono alle prese con i medesimi problemi che attanagliano gli Stati con una tradizione consolidata di centralismo amministrativo.

Considerazioni suConsiderazioni suConsiderazioni suConsiderazioni sul concetto tradizionale di Statol concetto tradizionale di Statol concetto tradizionale di Statol concetto tradizionale di Stato Questa ricca lettura dimostra la difficoltà di accedere ad una nozione appagante di Stato. È, quindi, preferibile accontentarsi di individuare alcuni fattori sintomatici dell’esistenza di uno Stato, piuttosto che tentare di inseguire un concetto inafferrabile ed evanescente.

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Si è detto che tre sono gli elementi costitutivi dello Stato. Ed è ciò che si legge spesso nei manuali, non solo di diritto costituzionale. La verità è che, oggi, questa triade non ha lo stesso significato di un tempo. Si pensi innanzitutto al territoriterritoriterritoriterritorioooo. I confini sono divenuti liquidi. La globalizzazione ha reso le relazioni sociali ed economiche decisamente più rapide e facili rispetto al passato. Le transazioni commerciali sempre più si svolgono in rete, e non con la circolazione fisica di persone e cose. Rispetto al fattore economico, dunque, i confini hanno smarrito gran parte del loro significato originario di barriere erette a presidio dei sistemi produttivi nazionali. La delocalizzazione delle imprese completa il quadro. Sul piano politico, poi, trattati internazionali relativamente recenti hanno rimosso le frontiere tra gli Stati, garantendo una piena e libera circolazione: si pensi all’accordo di Schengen. Quanto al popolopopolopopolopopolo, la cittadinanza, specie in campo economico, ha perso la risalente funzione discriminante tra cittadini e non quanto alle opportunità di produrre beni o di svolgere attività commerciali o finanziarie. Con lo sviluppo del processo di integrazione europea, poi, la cittadinanza ha assunto contorni più estesi, e le distanze tra i cittadini dei paesi membri dell’Unione europea si sono ridotte a ben poco. Oggi la cittadinanza rileva sul versante del diritto di voto limitatamente alle elezioni politiche. Il crescente ed imponente afflusso di immigrati ha, poi, reso non più rinviabile un ripensamento circa le modalità di acquisto della cittadinanza, viste soprattutto le concrete modalità di integrazione delle seconde generazioni che non possono vantare alcuna pretesa basata sullo ius soli. Infine, il governogovernogovernogoverno e, con esso, la sovranitàsovranitàsovranitàsovranità. Ancora una volta la globalizzazione ha progressivamente eroso la sovranità, come capacità delle istituzioni nazionali di autodeterminarsi. Gli Stati hanno ceduto via via ingenti fette di sovranità ad organismi sovranazionali: si pensi ancora una volta all’Unione europea. Sovente i processi decisionali in atto nei singoli Stati sono sensibilmente condizionati da elementi esogeni: le agenzie di rating, gli organismi commerciali transnazionali, la banca mondiale. Tutte entità che hanno poco o nulla in comune con l’idea tradizionale di Stato e che difettano di legittimazione e di rappresentatività democratica. Pertanto, questi elementi innovativi, sommariamente descritti, concorrono a dimostrare che in questa epoca la nozione di Stato non è più quella di qualche decennio fa, e che occorre ripensare alcuni concetti ritenuti erroneamente consolidati. I titolari dei tre poteri dello Stato sono il Parlamento, il Governo e l’ordine giudiziario.

Il ParlamentoIl ParlamentoIl ParlamentoIl Parlamento Di regola, il potere legislativo spetta al ParlamParlamParlamParlamentoentoentoento, che a sua volta si articola in due “rami”: la Camera dei Deputati Camera dei Deputati Camera dei Deputati Camera dei Deputati e il Senato della RepubblicaSenato della RepubblicaSenato della RepubblicaSenato della Repubblica. Questa scelta è la conseguenza dell’accoglimento del principio del bicameralismo perfettobicameralismo perfettobicameralismo perfettobicameralismo perfetto: una assemblea legislativa suddivisa in due organi collegiali (bicameralismo), i quali, nonostante alcune differenze marginali quanto all’elettorato attivo e passivo e al numero dei componenti, esercitano le medesime funzioni (bicameralismo perfetto). La funzione legislativa del Parlamento si esprime attraverso la llllegge ordinariaegge ordinariaegge ordinariaegge ordinaria, che nel sistema delle fonti occupa il gradino immediatamente più basso rispetto a quello della Costituzione. La legge ordinaria è l’epilogo di un procedimento procedimento procedimento procedimento (→ insieme di atti e operazioni coordinate e indirizzate vero l’adozione i un determinato atto, secondo una scansione rigidamente regolata dal diritto), i cui tratti essenziali sono i seguenti:

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- fase dell’iniziativa: la Costituzione contempla un numero chiuso di soggetti legittimati a presentare proposte di legge (ogni parlamentare, il Governo, il popolo tramite un progetto sottoscritto da almeno 50.000 elettori, ogni consiglio regionale, il C.n.e.l.); - fase costitutiva: in questa fase intervengono le cocococommissioni parlamentari permanenti e mmissioni parlamentari permanenti e mmissioni parlamentari permanenti e mmissioni parlamentari permanenti e competenti per materiacompetenti per materiacompetenti per materiacompetenti per materia, composte esclusivamente da parlamentari in modo tale da rispecchiare l’equilibrio tra le forze politiche presenti in ciascuna Camera. Più precisamente:

a) se la commissione discute e vota la proposta di legge e, successivamente, anche la Camera (o il Senato) fa lo stesso, allora si parla di commissione in sede referente referente referente referente (→ procedimento ordinario);

b) se la commissione discute e vota definitivamente la proposta di legge, senza che intervenga la Camera (o il Senato), allora si parla di commissione in sede deliberante o legislativa deliberante o legislativa deliberante o legislativa deliberante o legislativa (→ procedimento decentrato);

c) se la commissione discute la proposta di legge e poi la Camera (o il Senato) si limita a votarlo, quindi non lo discute, allora si parla di commissione in sede redigenteredigenteredigenteredigente (→ procedimento misto).

Per il voto è sufficiente la maggioranza semplice semplice semplice semplice (cinquanta per cento più uno dei presenti). Una volta che il testo è licenziato da una Camera, esso passa all’altra. Alla fine i due rami del Parlamento dovranno approvare lo stesso identico testo.

- fase integrativa dell’efficacia: la proposta di legge votata o dalla commissione o dalla Camera (o dal Senato) è perfetta, ma non ancora efficace. Per esserlo sono necessarie:

a) la promulgazione promulgazione promulgazione promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica, il quale può anche rinviare rinviare rinviare rinviare la legge alle Camere se le ritiene affette da incostituzionalità. Se però le Camere riapprovano il testo tale e quale, allora il Presidente della Repubblica deve procedere con la promulgazione (salvo che non si esponga, in tal modo, al rischio di essere in futuro incriminato per attentato alla Costituzione o alto tradimento);

b) la pubblicazione pubblicazione pubblicazione pubblicazione della legge sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana. Dal quel momento decorrono, di regola, quindici giorni (→ vacatio legis) al termine dei quali finalmente la legge produce i suoi effetti (→ entrata in vigore).

Il Parlamento esercita anche il potere legislativo di revisione costituzionalerevisione costituzionalerevisione costituzionalerevisione costituzionale, in forza del quale o

modifica la Costituzione o adotta leggi costituzionali, ossia fonti del diritto equiparate alla Costituzione. La nostra è una Costituzione rigida in quanto prevede, a tal fine, una procedura procedura procedura procedura aggravata aggravata aggravata aggravata (→ art. 138 Cost.). Gli elementi di aggravamento di tale procedura, rispetto al procedimento legislativo ordinario, sono i seguenti:

1) doppia deliberazionedoppia deliberazionedoppia deliberazionedoppia deliberazione: il testo deve essere votato due volte in ciascun ramo del Parlamento a distanza non inferiore a tre mesi;

2) maggioranzamaggioranzamaggioranzamaggioranza: in entrambi i rami del Parlamento per la seconda votazione è necessaria la maggioranza assoluta assoluta assoluta assoluta (cinquanta per cento più uno dei membri);

3) referendumreferendumreferendumreferendum: se alla Camera e al Senato non viene raggiunta la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione, allora un quinto dei membri di ciascuna Camera, cinque consigli regionali o 500.000 elettori possono, entro tre mesi dalla pubblicazione notiziale del testo, chiedere un referendum con il quale si chiede agli elettori di votare a favore o contro la riforma votata dal Parlamento. Non è previsto un quorum costitutivo, per cui non è necessario che alla consultazione referendaria partecipi la maggioranza degli aventi diritto.

Le leggi ordinarie (e le altre fonti primarie statali del diritto) possono essere sottoposte a

referendum referendum referendum referendum abrogativoabrogativoabrogativoabrogativo, così che saranno gli elettori a decidere se mantenere in vita una data disciplina legislativa oppure abrogarla (→ art. 75 Cost.).

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Il GovernoIl GovernoIl GovernoIl Governo Il potere esecutivo è assegnato dalla Costituzione al GovernoGovernoGovernoGoverno. Il Governo (organo complesso) è composto da un Presidente del Consiglio dei ministri Presidente del Consiglio dei ministri Presidente del Consiglio dei ministri Presidente del Consiglio dei ministri (organo monocratico) e da un certo numero di ministri ministri ministri ministri (anch’essi organi monocratici), che insieme formano il Consiglio dei ministri Consiglio dei ministri Consiglio dei ministri Consiglio dei ministri (organo collegiale). I ministri con portafoglio ministri con portafoglio ministri con portafoglio ministri con portafoglio sono preposti ad una apposita struttura burocratica complessa (il ministeroministeroministeroministero), mentre i ministri sministri sministri sministri senza portafoglioenza portafoglioenza portafoglioenza portafoglio sono destinatari di una delega da parte del Presidente del Consiglio in relazione a determinate tematiche. Nella nostra forma di governo parlamentareforma di governo parlamentareforma di governo parlamentareforma di governo parlamentare il Governo deve godere della fiducia fiducia fiducia fiducia di entrambe le Camere. Più precisamente:

- il Presidente della Repubblica, una volta effettuate le consultazioni, nomina nomina nomina nomina il Presidente del Consiglio che, a seguito delle più recenti riforme del sistema elettorale, è il leader della coalizione che ha vinto le elezioni;

- il Presidente della Repubblica nomina, poi, i singoli ministriministriministriministri, su proposta del Presidente del Consiglio;

- il Presidente del Consiglio e i ministri prestano giuramento giuramento giuramento giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. Da questo momento, il nuovo Governo può occuparsi degli affari correnti (ossia quelle attività che non impegnano l’indirizzo politico e il rapporto fiduciario con le Camere), nonché dei casi straordinari di necessità e di urgenza;

- entro dieci giorni dal giuramento, il Presidente del Consiglio si presenta alle Camere per illustrare il progrprogrprogrprogramma amma amma amma di governo;

- ciascuna camera è, quindi, chiamata a votare la mozione di fiduciamozione di fiduciamozione di fiduciamozione di fiducia, a maggioranza semplice e a voto palese per appello nominale. Da questo momento il Governo acquista la pienezza delle proprie attribuzioni.

Il rapporto di fiducia viene meno e, dunque, il Governo è costretto a dimettersi: a) quando una Camera vota la mozione di sfiduciamozione di sfiduciamozione di sfiduciamozione di sfiducia, a maggioranza semplice e a voto palese

per appello nominale; b) quando il Governo ha posto la questione di fiducia questione di fiducia questione di fiducia questione di fiducia su di un determinato atto, e una delle

due Camere ha votato contro; c) quando il Presidente del Consiglio si dimettedimettedimettedimette.

Il Governo non svolge solo attività qualificabili come espressione del potere esecutivo, ma, nei

casi tassativamente previsti dalla Costituzione, può anche adottare atti legislativi aventi forza di legge. Le fonti primarie del diritto poste in essere dal Governo sono il decreto legislativo e il decreto legge.

1) Decreto legislativo Decreto legislativo Decreto legislativo Decreto legislativo (→ art. 76 Cost.): il Governo emana un decreto legislativo sulla base di una previa legge delega legge delega legge delega legge delega approvata dal Parlamento, il quale delega al Governo l’esercizio della funzione legislativa. La legge delega deve contenere: i princìpi e i criteri direttivi, l’oggetto da regolare, il termine entro il quale adottare uno o più decreti legislativi.

2) Decreto legge Decreto legge Decreto legge Decreto legge (→ art. 77 Cost.): di questo fonte primaria del diritto occorre ricordare quanto segue:

- il Governo puà emanare un decreto legge in casi straordinari di necessità e di urgenzacasi straordinari di necessità e di urgenzacasi straordinari di necessità e di urgenzacasi straordinari di necessità e di urgenza; - il decreto legge, una volta emanato dal Presidente della Repubblica, è pubblicato nella

Gazzetta ufficiale ed entra in vigore immediatamente; - entro sessanta giorni dalla pubblicazione deve essere convertito in legge convertito in legge convertito in legge convertito in legge dal Parlamento.

Sicché, il Presidente del Consiglio presenta alle Camere un disegno di legge di conversionedisegno di legge di conversionedisegno di legge di conversionedisegno di legge di conversione del decreto legge, che deve essere approvato in modo tale da rispettare il suddetto termine;

- se manca la conversione in legge (perché le Camere hanno lasciato trascorrere il suddetto termine senza decidere, o perché una di esse ha votato contro la conversione), allora il decreto legge perde efficacia sin dallperde efficacia sin dallperde efficacia sin dallperde efficacia sin dall’’’’inizioinizioinizioinizio. In altri termini, in difetto di conversione il

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decreto legge è come se non fosse mai entrato in vigore: i suoi effetti vengono meno retroattivamente;

- il Parlamento può con legge regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

Quanto ai possibili abusi abusi abusi abusi cui si presta il decreto legge, si ricorda quanto segue: - il Governo non può adottare un decreto legge nei casi in cui la Costituzione espressamente

attribuisce alla legge ordinaria o ad un’altra fonte primaria una determinata materia o un certo compito (così, ad es., il Governo non può usare il decreto legge per delegare l’esercizio della funzione legislativa, o per convertire in legge un altro decreto legge, o per approvare il bilancio, o per autorizzare la ratifica dei trattati internazionali, o per concedere l’amnistia o l’indulto, o per dichiarare lo stato di guerra, o per disciplinare l’organizzazione di Camera e Senato, ecc.);

- se il Parlamento non converte in legge il decreto legge, il Governo non può, se non ricorrono nuovi casi straordinari di necessità e d’urgenza, adottare nuovamente la stessa disciplina con un altro decreto legge, e continuare così ogni volta che il Parlamento non avrà convertito in legge. La reiterazione reiterazione reiterazione reiterazione dei decreti legge è stata dalla Corte costituzionale dichiarata illegittima perché vanifica la perentorietà del termine di sessanta giorni per la conversione (→ sentenza n. 360 del 1996);

- in caso di palese difetto dei presupposti palese difetto dei presupposti palese difetto dei presupposti palese difetto dei presupposti (i casi straordinari di necessità e d’urgenza), la Corte costituzionale può dichiarare l’incostituzionalità del decreto legge anche se è intervenuta la conversione in legge (→ sentenza n. 171 del 2007);

- se in sede di conversione il Parlamento introduce nel decreto legge emendamenti del tutto emendamenti del tutto emendamenti del tutto emendamenti del tutto estranei allestranei allestranei allestranei all’’’’oggetto originariooggetto originariooggetto originariooggetto originario del decreto stesso, la Corte costituzionale è legittimata a dichiarare l’incostituzionalità di tali disposizioni “eccentriche” (→ sentenza n. 22 del 2012).

Il Governo non produce diritto oggettivo soltanto attraverso i decreti legislativi e i decreti legge,

ma anche tramite i regolamentiregolamentiregolamentiregolamenti, che sono fonti secondarie del diritto subordinate alla legge e agli atti aventi forza di legge. Su di essi si rinvia alla precedente analisi della riserva di legge.

LLLLa pubblica amministraza pubblica amministraza pubblica amministraza pubblica amministrazioneioneioneione Il Governo esercita le funzioni ascrivibili al potere esecutivo anche tramite la pubblica pubblica pubblica pubblica amministrazioneamministrazioneamministrazioneamministrazione. Più precisamente, le pubbliche amministrazioni pubbliche amministrazioni pubbliche amministrazioni pubbliche amministrazioni sono organizzazioni giuridiche, istituite dal diritto, per provvedere alla cura concreta di interessi generali. Come si vedrà più avanti, le pubbliche amministrazioni esercitano poteri amministrativipoteri amministrativipoteri amministrativipoteri amministrativi. Dal punto di vista organizzativo occorre osservare che:

- si tratta di organizzazioni create dal diritto (e non da negozi giuridici, come ne caso delle società, che sono istituite tramite un contratto);

- esistono solo le pubbliche amministrazioni costituite dalla legge; - i rapporti al loro interno sono retti dal modello della sovraordinazione/subordinazione (in

rari casi, da un modello gerarchico): dunque, l’organo sovraordinato svolge funzioni di direzione e di coordinamento nei confronti degli organi subordinati;

- il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni è stato privatizzato e, dunque, equiparato all’impiego privato. Di pubblico impiego oggi si può parlare solo in relazione ad alcune specifiche amministrazioni (es. forze armate, forze di polizia, università ecc.).

Quanto alle amministrazioni preposte alla erogazione di servizi pubblicierogazione di servizi pubblicierogazione di servizi pubblicierogazione di servizi pubblici (acqua, elettricità, telefono, gas, trasporti, servizi postali ecc.), si registra la seguente evoluzione:

a) un tempo tali servizi erano erogato dalle amministrazioni autonomieamministrazioni autonomieamministrazioni autonomieamministrazioni autonomie, che, in realtà, erano ramificazioni dirette dei ministeri (es. amministrazione poste e telegrafi). Ciò significa che il loro bilancio era incluso in quello del ministero di riferimento, i vertici erano scelti dal

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ministero, la struttura operativa ricalcava quella ministeriale, che però era stata pensata per l’esercizio di funzioni pubbliche, non per l’erogazione di servizi;

b) per rimediare alle inefficienze di tali enti, si è passati alla forma di ente pubblico ente pubblico ente pubblico ente pubblico economicoeconomicoeconomicoeconomico, che ha acquisito una sostanziale autonomia dal ministero di riferimento, pur dipendendo dal punto di vista finanziario da esso (es. Ente Poste italiane);

c) posto che anche l’ente pubblico economico non poteva considerarsi la formula organizzativa più congeniale per l’assolvimento di tali compiti, si è passati finalmente alla società per azionisocietà per azionisocietà per azionisocietà per azioni (es. Poste italiane S.p.A.).

LLLL’’’’ordine giudiziarioordine giudiziarioordine giudiziarioordine giudiziario

La funzione giurisdizionale funzione giurisdizionale funzione giurisdizionale funzione giurisdizionale è attribuita alle istituzioni che, nel loro complesso, formano l’ordine ordine ordine ordine giudiziariogiudiziariogiudiziariogiudiziario. Più precisamente:

a) giustizia civilegiustizia civilegiustizia civilegiustizia civile: giudice di pace e tribunale (in primo grado), corte d’appello; b) giustizia penalegiustizia penalegiustizia penalegiustizia penale: giudice di pace, tribunale, corte d’assise (in primo grado), corte d’appello e

corte d’assise d’appello; c) giustizia amministrativagiustizia amministrativagiustizia amministrativagiustizia amministrativa: tribunali amministrativi regionali (in primo grado), Consiglio di

Stato (appello); d) giustizia tributariagiustizia tributariagiustizia tributariagiustizia tributaria: commissioni tributarie provinciali, regionali, centrale; e) giustizia contabilegiustizia contabilegiustizia contabilegiustizia contabile: Corte dei conti. A ciò vanno aggiunte altre giurisdizionali speciali o sezioni specializzate della giustizia civile (es.

tribunali delle acque pubbliche, tribunali dei minorenni, giurisdizione militare), e, soprattutto, va aggiunta la Corte di cassazioneCorte di cassazioneCorte di cassazioneCorte di cassazione. Essa svolge una funzioni di uniformità nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto (→ nomofilachia). Come tale essa opera quale giudice di legittimitàdi legittimitàdi legittimitàdi legittimità, avverso le sentenze pronunciate dai giudici di meritodi meritodi meritodi merito (ossia quelli prima indicati). Normalmente, il processo si conclude con una pronuncia della Cassazione e, dunque, si afferma che in questo modo la sentenza passa in giudicatopassa in giudicatopassa in giudicatopassa in giudicato.

La Costituzione enuncia una serie di princìpi fondamentali in materia giudiziaria (artt. 101 e seguenti), tra i quali:

- la giustizia è amministrata in nome del popoloin nome del popoloin nome del popoloin nome del popolo; - i giudici sono soggetti soltanto alla leggesoggetti soltanto alla leggesoggetti soltanto alla leggesoggetti soltanto alla legge; - la funzione giurisdizionale è esercitata dagli organi giudiziari ordinariorgani giudiziari ordinariorgani giudiziari ordinariorgani giudiziari ordinari; - non si possono istituire giudici speciali o straordinarispeciali o straordinarispeciali o straordinarispeciali o straordinari: infatti, nessuno può essere distolto dal

giudice naturale precostituito per leggegiudice naturale precostituito per leggegiudice naturale precostituito per leggegiudice naturale precostituito per legge; - la magistratura costituisce un ordine autoordine autoordine autoordine autonomo e indipendentenomo e indipendentenomo e indipendentenomo e indipendente dagli altri organi. A tal fine

opera il Consiglio superiore della magistratura quanto ai magistrati ordinari; - i magistrati sono assunti tramite concorso pubblicoconcorso pubblicoconcorso pubblicoconcorso pubblico; - i magistrati sono inamovibiliinamovibiliinamovibiliinamovibili e possono essere trasferiti solo con il loro consenso o a seguito

di un procedimento che assicuri tutte le garanzie di difesa; - i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzionidiversità di funzionidiversità di funzionidiversità di funzioni; - l’ufficio del pubblico ministeropubblico ministeropubblico ministeropubblico ministero è assistito dalle medesime garanzie di autonomia e

indipendenza previste per i magistrati ordinari. A sua volta, l’attività processuale attività processuale attività processuale attività processuale è retta, in particolare, dai seguenti princìpi costituzionali: - ogni persona ha diritto di agire in giudizioagire in giudizioagire in giudizioagire in giudizio; - ogni individuo ha diritto alla difesa difesa difesa difesa in giudizio; - in materia penale, vige la prepreprepresunzione di non colpevolezzasunzione di non colpevolezzasunzione di non colpevolezzasunzione di non colpevolezza, che viene meno solo con la

sentenza definitiva di condanna; - ogni persona ha diritto ad un giusto processogiusto processogiusto processogiusto processo, che si svolga in un lasso di tempo tempo tempo tempo

ragionevoleragionevoleragionevoleragionevole, in contraddittorio contraddittorio contraddittorio contraddittorio tra le parti, dinanzi ad un giudice terzo e imparziagiudice terzo e imparziagiudice terzo e imparziagiudice terzo e imparzialelelele.

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Gli organi di garanziaGli organi di garanziaGli organi di garanziaGli organi di garanzia Gli organi di garanzia si proiettano al di fuori dell’orizzonte illuminato dai tre classi poteri. Ad essi, infatti, spetta il compito di garantire la tenuta dello Stato costituzionale di diritto, attraverso lo svolgimento di attività preordinate a garantire il rispetto dei princìpi e de valori costituzionali. Il Presidente della Repubblica Presidente della Repubblica Presidente della Repubblica Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune e resta in carica sette anni. Non è titolare di alcuno dei tre poteri dello Stato e, nondimeno, interagisce con ognuno di essi attraverso poteri di impulso e di controllo:

a) quanto al potere legislativopotere legislativopotere legislativopotere legislativo, il Presidente, prima di promulgare le leggi, può – come si è visto- rinviarle alle Camere per un riesame in punto di costituzionalità. Il Presidente invia messaggi motivati alle Camere. Il Presidente può sciogliere una o entrambe le Camere;

b) quanto al potere esecutivopotere esecutivopotere esecutivopotere esecutivo, il Presidente nomina i membri del Governo, emana gli atti normativi dello stesso, autorizza la presentazione in Parlamento dei disegni di legge di iniziativa governativa, ratifica i trattati internazionali;

c) quanto al potere giudiziariopotere giudiziariopotere giudiziariopotere giudiziario, il Presidente della Repubblica è anche Presidente del Consiglio superiore della magistratura.

Più in generale, il Presidente della Repubblica è capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. In questa veste svolge attività di persuasione, di stimolo, di dialogo con le istituzioni, al fine di favorirne il corretto funzionamento e di orientarne i rapporti nel rispetto del principio di leale collaborazione. Il Presidente è super partes in quanto estraneo alla lotta politica: egli interviene nella dialettica politica per sedare gli animi, per alleggerire le tensioni, per invocare il supremo bene dello Stato, per rafforzare la coesione sociale. Egli può essere criticato, ma non può essere chiamato a rispondere politicamente delle proprie azioni. La responsabilità politica del Presidente si trasferisce sul Governo per effetto della controfirma controfirma controfirma controfirma apposta dai membri dal Presidente del Consiglio e/o dal ministro competente/proponente. Sul piano giudiziario, nell’esercizio delle sue funzioni il Presidente risponde dei soli reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento, per i quali può essere messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune (→ impeachment) e giudicato dalla Corte costituzionale.

La Corte costituzionaleCorte costituzionaleCorte costituzionaleCorte costituzionale è composta da quindici giudici (un terzo eletti dal Parlamento in seduta

comune, un terzo eletti dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, un terzo nominati dal Presidente della Repubblica), i quali durano in carica nove anni.

In posizione di autonomia e indipendenza dagli altri organi dello Stato, la Corte: a) giudica della legittimità costituzionalelegittimità costituzionalelegittimità costituzionalelegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e

delle Regioni; b) dirime i conflitti di attribuzioneconflitti di attribuzioneconflitti di attribuzioneconflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e i conflitti di attribuzione tra Stato e

Regioni e tra Regioni; c) giudica dell’ammissibilità del referendumammissibilità del referendumammissibilità del referendumammissibilità del referendum abrogativo; d) giudica, in composizione allargata, il Presidente della Repubblica per i reati reati reati reati presidenzialipresidenzialipresidenzialipresidenziali. Quanto, in particolare, al giudizio di legittimità costituzionalegiudizio di legittimità costituzionalegiudizio di legittimità costituzionalegiudizio di legittimità costituzionale: - non è previsto un accesso diretto alla Corte costituzionale, in quanto le questioni di legittimità

costituzionale possono essere sollevata dinanzi alla Corte: • o nel corso di un giudizio davanti ad un giudice (→ giudizio di legittimità

costituzionale in via incidentale: eccezione d’incostituzionalità) • o dallo Stato contro una legge regionale o da una o più Regioni contro una legge

statale o di altre Regioni (→ giudizio di legittimità costituzionale in via principale: azione d’incostituzionalità);

- possono essere impugnate solo le fonti primarie del diritto per asserita violazione di norme costituzionali;

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- la decisione di merito può essere: • di rigetto: la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale e,

dunque, la norma legislativa impugnata sopravvive (pur essendo nuovamente censurabile in futuro);

• di accoglimento: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della norma legislativa, che così viene meno anche retroattivamente.

Quanto alle autorità amministrative indipendentiautorità amministrative indipendentiautorità amministrative indipendentiautorità amministrative indipendenti, su di esse si sofferma la voce enciclopedica

redatta da M. Poto, che si potrà leggere di qui a poco. In via preliminare, occorre osservare che quando si parla di autorità amministrative indipendenti (o, nel linguaggio comune, le authoritiesauthoritiesauthoritiesauthorities), si fa riferimento al fenomeno della neutralizzazione della politicaneutralizzazione della politicaneutralizzazione della politicaneutralizzazione della politica. In effetti, questi organismi sono vere e proprie autorità amministrative, ossia organizzazioni preposte allo svolgimento di attività di cura concreta degli interessi generali. Idealmente, sarebbero riconducibili al potere esecutivo. Nel modello classico, informato al principio di legalità e alla tradizione ottocentesca, le istituzioni del potere esecutivo rispondono sempre, dal punto di vista politico, all’assemblea legislativa. Così, il Governo (che è il vertice dell’apparato preposto al potere esecutivo) risponde politicamente del proprio operato di fronte alle Camere. La ragione è semplice. Il Governo rappresenta la sola maggioranza, mentre l’assemblea legislativa include anche i membri dell’opposizione. In un assetto democratico, l’operato del potere esecutivo non può sottrarsi al controllo popolare, e dunque la sua azione è sottoposta al confronto con l’organo politicamente rappresentativo del popolo, ossia il Parlamento. Nel caso delle autorità amministrative indipendenti, invece, si hanno bensì autorità amministrative, ma sottratte al controllo e alla ingerenza del potere politico. In effetti, le authorities sono composte da soggetti in posizione indipendente e autonoma rispetto al potere politico incarnato tanto dal Parlamento quanto dal Governo. In questo modo, la politica viene neutralizzata (ossia, resa neutrale) rispetto alle importanti e delicate attribuzioni assegnate a tali autorità. Perché sono istituite le autorità amministrative indipendenti ? La risposta è semplice. Esistono settori della società e, soprattutto, dell’economia in cui sono in gioco beni costituzionalmente garantiti: basti pensare alla libertà di parola. Le autorità amministrative indipendenti hanno il compito di garantire un adeguato equilibrio tra l’effettivo godimento di tali beni e lo svolgimento di attività che potrebbero, in qualche misura, danneggiarli. In alcuni settore sensibili, questo problema è particolarmente avvertito. Si pensi, ad esempio, al settore della stampa e delle telecomunicazioni. Gli interessi economici in gioco potrebbero alterare o pregiudicare l’effettivo esercizio del diritto di espressione e di interazione con gli altri. Se le relative attività amministrative venissero affidate direttamente ad organismi dipendenti dal Governo si correrebbe il rischio di favorire iniziative strumentali della maggioranza, tali da pregiudicare il libero scambio di opinioni e la corretta e completa diffusione di informazioni, ossia ingredienti irrinunciabili di un sistema democratico. Così, nelle moderne democrazie si è pensato di attribuire questi poteri amministrativi ad organismi non più soggetti al controllo della maggioranza, ma posti in posizione di autonomia e indipendenza dal potere politico. In questo senso, le authorities possono a buon titolo essere annoverate tra gli organi di garanzia, essendo estranei ai tre classici poteri. Anzi, per alcune funzioni esse assomigliano parecchio alle istituzioni giudiziarie (si pensi alla composizione di controversie ad esse devolute in via esclusiva). Le stesse autorità amministrative, oltre ad adottare atti amministrativi, svolgono anche attività normativa (regolamenti), consultiva, sanzionatoria. M. POTO, voce Autorità amministrative indipendenti, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., Agg., vol. III, Utet, Torino, 2008, pp. 54 ss.

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1. I modelli.

L’istituzione delle autorità amministrative indipendenti si riconduce alla necessità di approntare un modello di amministrazione alternativo a quello tradizionale esercitato dai pubblici poteri, al fine di offrire una tutela nei cosiddetti settori sensibili dell’ordinamento, mediante un’attività di vigilanza e controllo, ancorata a parametri tecnici. Il calco da cui le autorità indipendenti prendono forma viene tradizionalmente ricondotto all’influenza di due modelli: da un lato, il modello costitutivo tedesco, la cui genesi risale al discorso tenuto da Carl Schmitt alla Camera di commercio di Berlino, nel 1930, sulla necessità di riconoscere ad organismi tecnici, tra i quali la Banca centrale, lo status di organi di governo neutri rispetto al potere esecutivo; dall’altro, il modello delle agencies angloamericane, cui, a far data dalla fine dell’Ottocento, furono attribuite funzioni di regolazione pubblica dell’economia.

La metamorfosi del concetto di sovranità che, da espressione del potere statale esercitato su un territorio, si fraziona nella nascita ed evoluzione di regimi regolatori che agiscono al di là dei confini geografici e nell’ambito del mercato, è indubbiamente connessa con la nascita ed evoluzione del diritto comunitario e dal suo irradiarsi, secondo i meccanismi del diritto amministrativo globale.

Attraverso l’opera mediatrice del diritto comunitario, modelli di agenzie istituite per la tutela di settori sensibili iniziarono a circolare e la necessità di offrire una risposta alla frammentazione di poteri si fece sentire anche nel nostro sistema.

La progressiva privatizzazione dell’attività pubblica costituì una ulteriore forza propulsiva nella ricerca di modelli di amministrazione alternativi a quello tradizionale, con una sempre maggiore tendenza dell’azione pubblica ad offrire risposte tecniche alle esigenze della collettività. Di qui, la istituzione, attraverso lo strumento legislativo, delle principali autorità amministrative indipendenti, a cui, in mancanza di una previsione costituzionale che le riconosca e le disciplini, si ritiene applicabile il corpus di principi che regolano l’attività della pubblica amministrazione (ed, in particolare, gli artt. 97 e 98 in primis, ma anche 24, 28, 103 e 113).

Tutte le autorità che operano nel nostro sistema sono quindi caratterizzate dalla soggezione ai principi che regolano l’azione amministrativa, con la conseguente applicazione alle medesime anche delle norme sul procedimento amministrativo (l. 7-8-1990, n. 241, come modificata dalla l. 11-2-2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla l. 7-8-1990, concernenti norme generali sull’azione amministrativa»). Alle autorità indipendenti sono inoltre applicabili le disposizioni del diritto civile in quanto compatibili, secondo la previsione dell’art. 1, co. 1 bis, legge n. 241/1990, quando pongono in essere atti autoritativi. La previsione si salda con la considerazione della loro natura bifronte, ponendosi ambiguamente sulla linea di confine tra il diritto pubblico ed il diritto privato. Oltre all’esercizio di funzioni autoritative, le autorità indipendenti pongono in essere un’attività che spesso è qualificabile come sostanzialmente privatistica. Soffermandosi sulle funzioni da esse esercitate, la dottrina ha, al riguardo, rilevato che, esaminato nel suo complesso, il diritto prodotto dalle autorità indipendenti è per molti versi diritto privato: «imperativo, ma a volte anche suppletivo, condizionale e non finalistico, negoziato e non imposto. Non può quindi applicarsi ad esso la logica tradizionale del conflitto autorità-libertà attraverso cui si inquadrava il rapporto tra amministrazione e cittadino». La collocazione delle autorità in limine tra diritto pubblico e diritto privato produce importanti conseguenze a livello applicativo: a quale giudice rivolgersi nel caso in cui si voglia instaurare una controversia; quali norme applicare nel caso di non corretto adempimento delle funzioni di regolazione e quindi di responsabilità delle stesse.

In sintesi, pare utile ricondurre a tre grandi aree tematiche i maggiori punti di attrito che, intorno al modello delle authorities, sono venuti a crearsi nel corso degli anni: 1) anzitutto, la necessità di una definizione dei loro caratteri distintivi e di individuare le funzioni da esse esercitabili; 2) di poi, la difficoltà nell’individuazione del giudice competente a conoscerne le controversie; 3) infine, la delimitazione dei confini della loro responsabilità, in uno con la prospettazione delle eventuali azioni a tutela dei soggetti danneggiati dalla loro attività.

2. I caratteri.

L’esercizio dell’attività amministrativa, nel rispetto dei principi, costituzionali e legislativi, che la regolano, si combina con l’elemento unificante dell’indipendenza, in ordine al quale la dottrina ha individuato distinte categorie di autorità, che tendono a caratterizzarla con differenti coloriture.

Le autorità amministrative indipendenti sono state distinte in autorità con poteri di garanzia di interessi afferenti all’ordinamento in generale e di immediata attuazione dei precetti costituzionali, in quanto titolari di competenze esclusive; autorità il cui scopo precipuo è quello di regolamentare il settore economico, essendo la

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loro attività coordinata con l’operato del Governo e infine autorità dotate di competenze tecnico amministrative.

Alla prima categoria appartengono la Consob, la Banca d’Italia, nell’ambito di alcune delle funzioni ad esse attribuite, e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il Governo, nei confronti di tali autorità, è sprovvisto di poteri di indirizzo, anche se non sempre è totalmente estraneo dalla nomina dei componenti di vertice.

La seconda categoria comprende l’Isvap, e le Autorità sui servizi di pubblica utilità, elettricità, gas e telecomunicazioni, nei cui confronti il Governo esercita funzioni di indirizzo di politica generale e di settore, oltre a rivestire un ruolo effettivo nella nomina degli organi di vertice.

Nell’ambito della terza categoria si annoverano l’Autorità per l’informatica della pubblica amministrazione (A.i.p.a., oggi Centro per l’informatica della pubblica amministrazione) e l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (A.p.a.t.), con funzioni di coordinamento e di controllo tecnico in certi settori di intervento. Su di esse il Governo esercita funzioni di indirizzo e vigilanza.

3. Il controllo giurisdizionale. Le previsioni testuali.

Tra i nodi problematici che attengono all’istituzione delle authorities emerge, quale carattere peculiare del nostro sistema, il profilo attinente alla giurisdizione, riscontrandosi una evidente difficoltà di sottoporre a controllo l’operato delle autorità, stante la loro doppia natura.

Tale tensione tra i due poli si riflette non solo nella valutazione sull’opportunità di un controllo giurisdizionale pieno del loro operato, ma anche nella determinazione dell’organo giurisdizionale competente a conoscere delle relative controversie.

Il panorama dottrinale e giurisprudenziale entro cui si snodano tali tematiche non è di agevole fruizione, in parte per la mancanza di una disciplina organica, in parte per il carattere per sua natura magmatico e frammentario, oltre che soggetto a rapida obsolescenza, della casistica in materia di violazione degli obblighi di vigilanza e controllo al cui rispetto le autorità sono tenute.

Dall’analisi dei profili strutturali dei principali organi di vigilanza, è possibile rinvenire, pur nella eterogeneità di fondo delle fattispecie, alcuni punti di contatto — tra i quali spicca il carattere dell’indipendenza — ma anche alcune divergenze in ordine alla qualificazione giuridica ed ai compiti ad esse affidati.

Sul piano della tutela giurisdizionale, la dottrina e la giurisprudenza pressoché costanti affermano la necessità di un controllo da parte dell’Autorità giudiziaria sugli atti posti in essere dalle Autorità indipendenti.

Le conseguenze cui si giungerebbe nel caso di totale esclusione di un sindacato giurisdizionale condurrebbero, infatti, alla violazione degli artt. 24, 103 e 113 Cost., che rimettono all’autorità giudiziaria l’ultima parola sugli atti destinati ad incidere negativamente sulle posizioni giuridiche soggettive.

In secondo luogo, ove si configurassero poteri giurisdizionali in capo alle autorità indipendenti, si ricadrebbe nell’aporia di dover affidare funzioni di tipo giurisdizionale a soggetti posti al di fuori del potere giudiziario, operazione che presenterebbe indubbi profili di incostituzionalità.

Quanto al problema relativo al riparto di giurisdizione, occorre preliminarmente ricordare che, prima dell’entrata in vigore del d.lg. 31-3-1998, n. 80, poi successivamente modificato dalla legge 21-7-2000, n. 205, non esistevano criteri univoci in ordine alla individuazione del giudice, amministrativo o ordinario, competente a sindacare gli atti della autorità indipendenti.

In molti casi, infatti, il legislatore optò per la soluzione che demandava alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative all’attività delle Autorità.

Si pensi alla legge 10-10-1990, n. 287, che, all’art. 33, devolve al giudice amministrativo la giurisdizione sugli atti del Garante della concorrenza, salvo poi attribuire al giudice ordinario il contenzioso in tema di risarcimento del danno per le nullità degli accordi anticoncorrenziali nonché in tema di poteri di urgenza.

Circa le sanzioni irrogate dall’Autorità, l’art. 31 della legge dispone che per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alla violazione della disciplina antitrust «si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689».

Analogamente, la legge 14-11-1995, n. 481, che ha istituito le Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (per l’energia elettrica ed il gas, e per le telecomunicazioni) ha fissato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per quanto riguarda l’autorità dell’energia elettrica e del gas.

Così la legge sull’autorità delle telecomunicazioni (l. 31-7-1997, n. 249), all’art. 1, 26° co., fissa la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In controtendenza rispetto alla scelta di devolvere la maggior parte del contenzioso relativo all’attività delle autorità indipendenti al giudice amministrativo si pone la legge 31-12-1996, n. 675, di recente sostituita

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dal t.u. approvato con d.lg. 30-6-2003, n. 196, (art. 29, 6° co.), che, per quanto riguarda il Garante dei dati personali, ha fissato la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le controversie che derivano dall’applicazione della legge. ...

5. La responsabilità.

Il tema della responsabilità delle autorità di vigilanza si snoda sulla falsariga dell’evoluzione della responsabilità della pubblica amministrazione.

Paradigmatica in tale senso è l’evoluzione della giurisprudenza con riferimento alla responsabilità della Consob. La prima sentenza che ha riconosciuto la responsabilità della Consob, dopo la pronuncia sulla risarcibilità degli interessi legittimi, è la n. 3132/2001 della Corte di Cassazione, nei confronti di un gruppo di investitori, per omesso controllo sulla completezza e veridicità delle informazioni fornite dai promotori di un’operazione di collocamento di titoli atipici relativi ad un’operazione immobiliare. La Suprema Corte aveva infatti ritenuto colposamente negligente il comportamento della Consob per il mancato esercizio dei suoi poteri di vigilanza. In particolare, secondo il giudice di legittimità, la discrezionalità amministrativa attribuita all’organo di vigilanza non poteva concretarsi in una assoluta omissione di controllo, in quanto ad esso era connesso il diritto soggettivo dei risparmiatori all’integrità del patrimonio. In particolare, si legge in motivazione: «La Consob, fermo restando il potere (...) di innovare le proprie metodologie informative dell’offerta (...) aveva poi il ben più penetrante e diffuso potere di controllo della completezza — veridicità delle notizie (...) lungo tutto l’arco procedimentale, (...), un potere espressico della scelta legislativa di assegnare alla Consob la massima funzione di garante dell’agire della società e tradotto in plurime potestà di intervento (...), significativamente richiamate per la fase di controllo dell’operazione di sollecitazione al pubblico risparmio (...), tra le quali, e per quel che rileva, la potestà di disporre esibizioni ed integrazioni documentali, ispezioni ed inchieste, al fine di accertare l’esattezza dei dati e delle notizie comunicati o pubblicati». L’affidamento incolpevole dei privati infatti si fondava sulla attività pubblica di vigilanza, posta in essere con grave negligenza. La Suprema Corte ravvisò i presupposti per la configurabilità di una responsabilità civile dell’autorità medesima, ammettendo in modo implicito che tale amministrazione è chiamata a risarcire i danni derivanti dal negligente esercizio dell’attività di vigilanza, atteso che «costituisce comportamento dovuto l’osservanza delle norme che disciplinano la funzione di vigilanza della Consob, sicché l’omissione dello stesso configura illecito aquiliano, che comporta la risarcibilità dei danni riconducibili a lesioni di situazioni protette dei privati».

La dottrina ha sollevato sul punto una serie di dubbi, con riferimento al rischio che la paventata esasperazione del principio di responsabilità scarichi sul controllore i costi derivanti dalle inefficienze del mercato finanziario. Di tali problemi, si è fatto carico il legislatore, dapprima abbozzando il quadro sulla responsabilità nella legge di tutela del Risparmio, di poi definendone più puntualmente i confini con il d.lg. 8-10-2007, n. 179: «Istituzione di procedure di conciliazione e di arbitrato, sistema di indennizzo e fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori in attuazione dell’ articolo 27, commi 1 e 2, della legge 28-12-2005, n. 262».

Il proliferare delle pronunce giurisprudenziali in materia di responsabilità, insieme all’ennesima crisi che minacciava di far crollare l’intero sistema, hanno spinto verso la Legge di tutela del Risparmio.

Se nella definizione dei poteri delle autorità un tempestivo adeguamento del nostro sistema al quadro delle garanzie comunitarie non era più rinviabile, esso appariva pertanto imprescindibile in tema di responsabilità.

L’intervento, pur salvifico, della giurisprudenza non riusciva a contenere un problema che rischiava di estendersi a macchia d’olio, e di condurre al collasso l’intero sistema.

Imbrigliare l’attività delle Autorità nelle maglie dell’ art. 2043 c.c. non era operazione facile, e in ogni caso troppo aleatoria.

L’eco della dottrina ha forse risuonato minacciosa nelle orecchie del legislatore: «Nei rapporti tra autorità indipendenti e potere giudiziario si è aperto di recente, in seguito ad una svolta giurisprudenziale, un nuovo fronte: la responsabilità civile delle prime per danni cagionati a terzi in relazione all’esercizio difettoso dell’attività di vigilanza. (...) La svolta può avere un effetto positivo, sul piano del modello, poiché consente di chiamare le autorità indipendenti a rendere conto del loro operato e dunque contribuisce ad attenuare il deficit di legittimazione democratica di cui esse soffrono. L’arma della responsabilità civile deve essere però maneggiata dai giudici con cautela. Oltre un certo limite, infatti, vi è il rischio che le autorità indipendenti

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manifestino eccessiva prudenza giustificata dal timore della responsabilità, ma contraria a un esercizio vigoroso dei poteri».

Di qui, l’obbligo di istituzione di un fondo nel caso di perdite derivanti da omessa vigilanza, a modello di altri Stati membri, primo fra tutti del sistema tedesco, in cui è disposta la corresponsione di un indennizzo nel caso di perdite da omessa vigilanza, alla cui diffusione ha contribuito l’opera amplificatrice della giurisprudenza comunitaria.

Si legge nell’art. 27 legge n. 262/2005 che: «Il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per l’istituzione, in materia di servizi di investimento, di procedure di conciliazione e di arbitrato e di un sistema di indennizzo in favore degli investitori e dei risparmiatori, senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica». A tale previsione, segue l’elencazione dei principi e criteri direttivi che il Governo dovrà seguire; tra questi, figura, alla lett. c), dell’art. 27, 1° co., la «salvaguardia dell’esercizio del diritto di azione dinanzi agli organi della giurisdizione ordinaria, anche per il risarcimento del danno in misura maggiore rispetto all’indennizzo (...)».

La bontà dell’iniziativa finalizzata all’istituzione del menzionato fondo tradì la propria inconsistenza, non risultando da un lato ben chiara la fonte di provenienza del medesimo, — e l’inciso «senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica» contenuto nell’ art. 27 legge n. 262/2005 non forniva alcuna precisa indicazione al riguardo — e, dall’altro, generando una certa qual preoccupazione la contrazione di tutela che si avrebbe, qualora la via preferenziale divenisse unicamente quella della corresponsione di un indennizzo in luogo della condanna al risarcimento del danno.

Tali perplessità erano emerse anche alla vigilia dell’approvazione della legge di tutela del risparmio in Francia: «Si le budget de l’Autorité provient des ressources du marché lui-même, la responsabilité de l’autorité prend de ce fait une forme mutualisée (...). Cela relativise le lien entre responsabilité pécuniarie et souci de bien faire».

A chiosa di tale constatazione, la dottrina arrischiava l’analisi per cui «il incomberait au marché, et donc à la collectivité de ses acteurs, de supporter le poids de le réparation de la faute commise par l’autorité de régulation dans l’exercice de sa mission. Mais, n’y a-t-il pas dans cette proposition le risque d’une déresponsabilisation de l’autorité de régulation?». Il fatto che tale domanda non avesse ricevuto ancora risposta, in quanto non era ancora definitiva l’approvazione del decreto di applicazione della nuova legge, induceva la dottrina ad essere ottimisti circa una possibile risposta positiva riguardo ad un ripensamento del legislatore: «Mais, il faut être optimiste!».

Il legislatore delegato, nell’autunno del 2007, ha rischiarato la via, sia pur con un intervento che, a non volerlo qualificare del tutto «rimediale», certamente non dà al quadro complessivo quell’impressione di sistematicità di cui certamente abbisogna.

Il Capo II del d.lg. n. 179/2007, nel prevedere l’istituzione di un fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori, dispone all’art. 8 la destinazione di tale fondo «all’indennizzo, nei limiti delle disponibilità del fondo medesimo, dei danni patrimoniali causati dalla violazione, accertata con sentenza passata in giudicato, o con dolo arbitrale non più impugnabile, delle norme che disciplinano le attività di cui alla parte II del d.lg. 24-2-1998, n. 58. 2. La gestione del Fondo è attribuita alla Consob. 3. Possono accedere al Fondo gli investitori come definiti dall’articolo 1 del presente decreto. Il Fondo è surrogato nei diritti del soggetto danneggiato, limitatamente all’ammontare dell’indennizzo erogato, e può rivalersi nei confronti della banca o dell’intermediario responsabile. 4. La Consob è legittimata ad agire in giudizio, in rappresentanza del Fondo, per la tutela dei diritti e l’esercizio dell’azione di rivalsa di cui al comma precedente (...); 5. Il Fondo è finanziato esclusivamente con il versamento della metà degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazione delle norme di cui al comma 1». Infine, il 6° co. dello stesso art. 8 attribuisce alla Consob il potere regolamentare di definire i criteri di determinazione dell’indennizzo, fissandone anche la misura massima; di disciplinare le modalità e le condizioni di accesso al Fondo. Tali regolamenti, precisa l’art. 9 devono essere emanati «entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo. 2. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

La disciplina della responsabilità extracontrattuale della Consob costituisce tuttavia solo un esempio, sebbene forse il più avanzato, di regolamentazione delle controversie risarcitorie per attività delle autorità indipendenti che potrebbe avere un’espansione ultrasettoriale. La necessità di sindacare l’attività illecita delle autorità indipendenti alla luce dei parametri che informano la responsabilità civile della pubblica amministrazione appare una soluzione pienamente rispondente alla sistematica complessiva di tali organi.

La previsione — generalizzata per le diverse tipologie di autorità — di ulteriori meccanismi garantistici, accessori ed eventuali rispetto agli ordinari rimedi risarcitori, quale è quello dell’indennizzo, è una soluzione

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che potrebbe essere adottata al fine di offrire il più ampio spettro di tutela per i soggetti destinatari dell’attività delle autorità indipendenti.

Le autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionaliLe autonomie territoriali e funzionali Lo Stato ha ceduto parte della propria sovranità anche alle autonomie territorialiautonomie territorialiautonomie territorialiautonomie territoriali. Le RegioniRegioniRegioniRegioni, innanzitutto, sono enti pubblici territoriali dotati di autonomia politica. Nel dettaglio, le Regioni sono:

- entientientienti, ossia organizzazioni giuridiche; - pubblicipubblicipubblicipubblici, ossia organizzazioni create dal diritto per la realizzazione di interessi generali; - territorialiterritorialiterritorialiterritoriali, in quanto esplicano le loro funzioni all’interno di un certo ambito geografico

delimitato da confini; - dotati di autonomia politicaautonomia politicaautonomia politicaautonomia politica: questa può essere definita come la capacità della Regione di

soddisfare gli interessi della comunità di cui essa è ente esponenziale secondo un proprio indirizzo politico, in ipotesi anche diverso da quello dello Stato e delle altre Regioni.

Occorre soffermarsi sulla nozione di autonomia politica, scomponendola: - capacitàcapacitàcapacitàcapacità, intesa come insieme di poteri e funzioni; - interessi della comunitàinteressi della comunitàinteressi della comunitàinteressi della comunità: la Regione, in quanto ente pubblico territoriale, si occupa dei

bisogni e delle richieste provenienti dalla collettività stanziata in un determinato ambito geografico;

- ente esponenzialeente esponenzialeente esponenzialeente esponenziale: è tale la Regione in quanto ente politicamente rappresentativo della comunità. In effetti, gli organi di vertice della Regione (il Consiglio, Regionale, il Presidente della Regione, la Giunta regionale) sono scelti tramite meccanismi di selezione democratica da parte dell’elettorato regionale: il Consiglio e il Presidente sono eletti a suffragio universale e diretto, i membri della Giunta (→ assessori) sono nominati dal Presidente;

- indirizzo politicoindirizzo politicoindirizzo politicoindirizzo politico: è l’insieme degli obiettivi e degli orientamenti di carattere politico che la maggioranza, che ha vinto le elezioni, intende perseguire e assecondare per rendere coerente l’azione complessiva di governo in ambito regionale. Così, se a livello statale c’è una maggioranza di centrodestra, con un indirizzo politico coerente con questo posizionamento politico, nulla impedisca ad una coalizione di centrosinistra di governare una data Regione, con un proprio indirizzo politico. Al contrario, gli uffici periferici dello Stato (ad es., le prefetture, le sovrintendenze, le agenzie delle entrate ecc.) non sono enti autonomi, ma articolazioni dipendenti dallo Stato centrale: sicché, in questi casi non di autonomia si parla bensì di decentramentodecentramentodecentramentodecentramento.

Anche i ComuniComuniComuniComuni, le Città metropolitaneCittà metropolitaneCittà metropolitaneCittà metropolitane e le ProvinceProvinceProvinceProvince sono enti pubblici territoriali dotati di

autonomia politica. Diversamente dalle Regioni, però, non hanno la funzione legislativa, e non è poco visto che questa è la funzione di prima attuazione del dettato costituzionale, che si realizza attraverso la produzione di norme giuridiche dotate di un certo valore.

Si noti che le Province autonome di Trento e di Bolzano sono in tutto e per tutto equiparate alle Regioni e,

dunque, nel loro territorio si hanno anche leggi provinciali. Le autonomie territoriali sono state istituite per diversificarediversificarediversificarediversificare l’azione dei pubblici poteri in tutto

il territorio, nella consapevolezza che le peculiarità degli specifici contesti locali esigono interventi e misure legislative e amministrative mirate e congeniali. Per i rapporti nei quali vi è uniformità a livello nazionale, il principio di eguaglianza impone una omogeneità di trattamento (es. ordine pubblico, difesa dei confini, affari internazionali, giustizia, diritto privato e diritto penale, rapporti con le confessioni religiose ecc.). In relazione ai rapporti che più di altri risentono delle caratteristiche singolari e peculiari dei diversi territori, il principio di eguaglianza viene attenuato, lasciando spazio a discipline differenziate: così, ad esempio, il turismo non è lo stesso in tutte le Regioni e, dunque, sono

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preferibili regolamentazioni diversificate. E così altri settori economici: agricoltura, commercio, industria, artigianato, pesca, caccia. In ogni caso: - l’Italia rimane una Repubblica «una e indivisibile» (→ principio unitario vs. principio autonomista); - Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato costituiscono, nel loro insieme, la Repubblica (→ Principio di pari dignità istituzionale: art. 114 Cost.). Sono amministrazioni autonome, ma non territoriali, le autonomieautonomieautonomieautonomie funzionalifunzionalifunzionalifunzionali: si pensi alle università degli studi, agli istituti scolastici, alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Si tratta di enti che operano in regime di autonomia, tanto dallo Stato quanto dagli enti territoriali, ma il territorio non è il loro elemento identificativo. Anche quando, come nel caso delle camere di commercio (che operano in ambito provinciale), esplicano attività in alcuni ambiti territoriali, nondimeno ciò che rileva è l’attribuzione agli stessi di funzioni amministrative di cura concreta di interessi generali.

Le istituzioni dellLe istituzioni dellLe istituzioni dellLe istituzioni dell’’’’Unione europeaUnione europeaUnione europeaUnione europea Un breve cenno meritano le istituzioni dell’UnionUnionUnionUnione europeae europeae europeae europea, visto l’impatto prodotto dalle decisioni assunte in quell’ambito anche sul versante economico. 1) Consiglio europeoConsiglio europeoConsiglio europeoConsiglio europeo. È composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. Il Consiglio è l’organo di indirizzo politico dell’U.e. 2) ConsiglioConsiglioConsiglioConsiglio. È composto da un rappresentante per ogni Stato a livello di ministro. Ha composizione variabile, in quanto essa dipende dai temi posti all’ordine del giorno. Di particolare importanza è il ConsiConsiConsiConsiglio Ecofinglio Ecofinglio Ecofinglio Ecofin, costituito dai ministri economici e finanziari. In seno a quest’ultimo opera l’EurogruppoEurogruppoEurogruppoEurogruppo, che riunisce a titolo informale i ministri degli Stati che hanno adottato l’euro. Il Consiglio esercita, insieme al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Inoltre, definisce e coordina le politiche dell’Unione; garantisce il coordinamento e la sorveglianza delle politiche economiche; assume le decisioni relative alla politica estera e alla difesa comune. 3) Parlamento euroParlamento euroParlamento euroParlamento europeopeopeopeo. È composto da 751 membri, eletti nei singoli Stati con differenze dal punto di vista numerico a seconda della popolazione degli stessi (non meno di 6 e non più di 96 membri per ogni Stato). Non esiste ancora un sistema elettorale comune a tutti gli Stati. La legislatura dura cinque anni. Il Parlamento esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa. Si occupa di bilancio. Esercita funzioni di controllo politico e funzioni consultive. Elegge il Presidente della Commissione. 4) CommissionCommissionCommissionCommissioneeee. È composta da un membro per Stato, incluso il Presidente e l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Dura in carica cinque anni. Ha l’iniziativa degli atti legislativi. Presente il progetto annuale di bilancio e ne cura l’esecuzione. Vigila sull’applicazione del diritto dell’U.e. potendo avviare la procedura di infrazione contro gli Stati ritenuti inadempienti. 5) Corte di giustiziaCorte di giustiziaCorte di giustiziaCorte di giustizia. I giudici sono nominati dai governi per sei anni. Giudica delle controversie fra Stati membri; fra l’Unione e uno Stato membro; fra le istituzioni dell’U.e.; fra persone (giuridiche e fisiche) e l’U.e., sia pure in limitati casi: ricorsi per inadempimento e ricorsi di annullamento. Alla Corte si affianca il TribunaleTribunaleTribunaleTribunale, competenze per le azioni intraprese da persone fisiche o giuridiche. 6) Banca centrale europeaBanca centrale europeaBanca centrale europeaBanca centrale europea. È dotata di personalità giuridica propria e versa in una condizione di indipendenza. Il Presidente è nominato per otto anni da Consiglio europeo. La Bce ha un ruolo decisivo in materia di politica monetaria. Esercita anche poteri normativi. 7) Corte dei contiCorte dei contiCorte dei contiCorte dei conti. Composta da un rappresentante di ogni Stato membro, controlla appunto i conti dell’U.e. attraverso l’analisi delle entrate e delle spese. Occorre, infine, ricordare anche il ComitComitComitComitato economico e socialeato economico e socialeato economico e socialeato economico e sociale e il Comitato delle regioniComitato delle regioniComitato delle regioniComitato delle regioni.

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Ad integrazione della parte sul sistema normativo, si ricorda in questa sede che le fonti del fonti del fonti del fonti del

diritto delldiritto delldiritto delldiritto dell’’’’Unione europea Unione europea Unione europea Unione europea sono di due tipologie: originarieoriginarieoriginarieoriginarie e derivatederivatederivatederivate. I trattatitrattatitrattatitrattati sono le fonti originarie del diritto dell’U.e., in quanto stipulati dagli Stati membri «per

una durata illimitata» al fine di definire l’intelaiatura fondamentale delle istituzioni e di enunciare i princìpi basilari. I due trattati sono: il Trattato sullTrattato sullTrattato sullTrattato sull’’’’Unione europea Unione europea Unione europea Unione europea (Tue), che consta di 55 articoli, e il Trattato sul funzionamento dellTrattato sul funzionamento dellTrattato sul funzionamento dellTrattato sul funzionamento dell’’’’Unione europea Unione europea Unione europea Unione europea (Tfue), costituito da ben 358 articoli.

Le fonti derivate del diritto dell’U.e. sono: - il regolamentoregolamentoregolamentoregolamento: atto di portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi, direttamente

applicabile in ciascuno degli Stati membri; - la direttivadirettivadirettivadirettiva: atto che vincola gli Stati membri in relazione ai risultati da raggiungere, mentre

spetta agli stessi Stati l’individuazione dei mezzi ritenuti più opportuni; - la decisionedecisionedecisionedecisione: atto obbligatorio in tutti i suoi elementi, ma indirizzato a specifici destinatari. Da ricordare, poi, anche le raccomandazioniraccomandazioniraccomandazioniraccomandazioni e i pareripareripareripareri, che non sono giuridicamente vincolanti

in quando non fanno sorgere diritti ed obblighi. In caso di contrasto tra una fonte italiana primaria e un regolamento, prevale quest’ultimo in

applicazione del criterio di competenza: dunque, il giudice applica il regolamento e non applica la legge italiana con esso in contrasto. Lo stesso vale per le cd. direttive self-executing, che, nonostante il nome, sono equiparabili ai regolamenti.

Quanto alle direttive, il Parlamento italiano approva ogni anno la legge comunitarialegge comunitarialegge comunitarialegge comunitaria, al fine di darne attuazione nel rispetto dei termini da esse stabiliti.

Sezione II I SOGGETTI PRIVATI

Persone fisiche e persPersone fisiche e persPersone fisiche e persPersone fisiche e persone giuridicheone giuridicheone giuridicheone giuridiche

Le persone fisichepersone fisichepersone fisichepersone fisiche sono gli individui, laddove le persone giuridiche persone giuridiche persone giuridiche persone giuridiche sono le strutture organizzative, più o meno complesse e più o meno stabili, costituite dalle persone fisiche per lo svolgimento di attività che richiedono la compartecipazione di più soggetti. Quanto alle persone fisiche, ci si soffermerà più avanti sulle condizioni soggettive (capacità giuridica e capacità di agire) e sugli strumenti giuridici a loro disposizione per lo svolgimento delle rispettive attività (diritti soggettivi, interessi legittimi, poteri, facoltà, obblighi, oneri). Per ciò che rileva di più in questa sede, si ricorda che: - ai sensi dell’art. 2082 del codice civile «è imprenditoreimprenditoreimprenditoreimprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi»; - ai sensi dell’art. 2083 del codice civile «sono piccoli imprenditoripiccoli imprenditoripiccoli imprenditoripiccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia». Quanto alle persone giuridiche, l’ordinamento riconosce alcune distinzioni rilevanti anche sul versante economico. In generale, per aversi una “persona giuridica” è necessario che essa abbia un proprio patrimoniopatrimoniopatrimoniopatrimonio, inteso come insieme di rapporti giuridici attivi e passivi:

- che sia distinto da quello di qualsiasi persona fisica; - che sia assoggettato a vicende autonome collegate alla realizzazione di un determinato

scopo.

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Sicché, si ha autonomia patrimoniale perfetta autonomia patrimoniale perfetta autonomia patrimoniale perfetta autonomia patrimoniale perfetta quando dei debiti della persona giuridica risponde soltanto essa con il suo patrimonio. Si ha, invece, autonomia patrimoniale imperfettaautonomia patrimoniale imperfettaautonomia patrimoniale imperfettaautonomia patrimoniale imperfetta quando, pur essendovi una separazione patrimoniale tra la persona giuridica e i suoi membri, i creditori a certe condizioni possono aggredire anche il patrimonio dei membri stessi. Nel contempo, il patrimonio resta immune dalle pretese vantate dai creditori nei confronti dei singoli partecipanti. In sintesi:

a) autonomia patrimoniale perfetta = insensibilità del patrimonio del singolo partecipante ai debiti dell’ente e insensibilità del patrimonio dell’ente ai debiti personali del partecipanti;

b) autonomia patrimoniale imperfetta = responsabilità dei partecipanti (o, almeno, di alcuni fra essi) per i debiti dell’ente + esistenza di qualche schermo che protegga il patrimonio dell’ente nei confronti dei creditori personali dei singoli partecipanti + destinazione preferenziale del patrimonio dell’ente ai creditori dell’ente stesso.

Le persone giuridiche private si distinguono in: 1) istituzioniistituzioniistituzioniistituzioni: esse sono vincolate ad uno scopo che è predeterminato dall’atto costitutivo ed è,

di regola, immodificabile. Possono perseguire tanto interessi generali, quanto interessi di una particolare categoria di persone;

2) corporazionicorporazionicorporazionicorporazioni: esso sono gruppi di persone che gestiscono sovranamente la propria organizzazione e dispongono liberamente del patrimonio comune. Anche in questo caso possono essere perseguiti interessi personali oppure di specifici gruppi di persone.

Tra le istituzioni hanno una importanza notevole le fondazionifondazionifondazionifondazioni, ossia enti istituiti da uno o più fondatori che conferiscono il patrimonio iniziale e determinano, nell’atto costitutivo, lo scopo dell’ente stesso e le norme sulla gestione. I comitaticomitaticomitaticomitati, invece, sono gruppi di persone che raccolgono presso terzi fondi da destinare ad uno scopo annunciato.

Tra le corporazioni: - se esse non hanno uno scopo di lucro o mutualistico, allora si hanno associazioniassociazioniassociazioniassociazioni. Dal

riconoscimento dipende l’autonomia patrimoniale perfetta; - se, invece, è perseguito uno scopo di lucro, allora siamo in presenza di societàsocietàsocietàsocietà; - dal canto loro i consorzi consorzi consorzi consorzi sono corporazioni nelle quali più soggetti perseguono un interesse

economico in comune, attraverso un’opera o un servizio o il coordinamento delle attività economiche poste in essere dagli stessi partecipanti.

Posto che con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per

l’esercizio in comune di un’attività produttiva, le societàsocietàsocietàsocietà si distinguono in: a) Società di Società di Società di Società di personepersonepersonepersone. Sono caratterizzate da una maggiore rilevanza delle persone dei singoli

soci e da una correlativa minore unificazione del gruppo. In esse, almeno una parte dei soci risponde personalmente dei debiti sociali:

- società semplicesocietà semplicesocietà semplicesocietà semplice: è quella che ha l’autonomia patrimoniale meno forte. Non essendo previste idonee garanzie per i creditori sociali, il codice civile non consente che attività commerciali possano essere svolte in forma di società semplice. Ciascun socio risponde personalmente, in solido con gli altri, delle obbligazioni sociali sorte durante la partecipazione alla società o anteriormente. La società semplice non è soggetta a registrazione;

- società in nome collettivosocietà in nome collettivosocietà in nome collettivosocietà in nome collettivo: è prevista la registrazione. È rafforzata l’autonomia patrimoniale da momento che il creditore particolare del singolo socio non può chiedere la liquidazione della quota del suo debitore finché la società dura. Se, però, il socio è un imprenditore commerciale, e versa in stato di insolvenza, allora il suo creditore particolare potrà farne dichiarare il fallimento: in tal caso, la quota dovrà venire liquidata in favore della massa dei creditori. In sintesi, nella società in nome collettive sussiste una responsabilità solidale e illimitata di tutti i soci per i debiti sociali;

- socsocsocsocietà in accomandita sempliceietà in accomandita sempliceietà in accomandita sempliceietà in accomandita semplice: è prevista la registrazione. È caratterizzata dalla presenza di due tipologie di soci: gli accomandatari, che rispondono in solido e illimitatamente per i debiti sociali,

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e gli accomandanti, i quali rischiano solo la quota conferita. L’amministrazione della società spetta soltanto ai primi.

b) Società di capitaliSocietà di capitaliSocietà di capitaliSocietà di capitali. In esse l’elemento del capitale ha una prevalenza concettuale e normativa rispetto all’elemento soggettivo rappresentato dai soci, con una più spiccata separazione tra i patrimoni della società e dei soci:

- società per azionisocietà per azionisocietà per azionisocietà per azioni: dei debiti sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. I soci rischiano soltanto il loro conferimento. Le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni. L’azionista non ha poteri di amministrazione;

- società a responsabilità limitatasocietà a responsabilità limitatasocietà a responsabilità limitatasocietà a responsabilità limitata: per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. Le quote dei soci non sono rappresentate da azioni. Pertanto, possono circolare solo nel rispetto delle norme sulla cessione dei crediti. L’art. 2463 bis, introdotto di recente, ha previsto la società a responsabilità limitata semplificata (S.r.l.s.): come per la S.r.l., anche con la S.r.l.s. è possibile iniziare anche da soli (la “S.r.l.s. unipersonale”) e la responsabilità per eventuali debiti della società è limitata al capitale investito. I soci o l’unico socio non rischiano direttamente con i propri beni personali;

- società in accomandita per azionisocietà in accomandita per azionisocietà in accomandita per azionisocietà in accomandita per azioni: vi sono le stesse due tipologie di soci descritte in relazione alla accomandita semplice. Le quote di partecipazione sono rappresentate da azioni.

c) Società cooperative e di mutua assicurazioneSocietà cooperative e di mutua assicurazioneSocietà cooperative e di mutua assicurazioneSocietà cooperative e di mutua assicurazione: sono caratterizzate dallo scopo mutualistico, ossia fornire beni o servizi o occasioni di lavoro direttamente ai soci a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle del mercato. Possono essere e responsabilità limitata oppure illimitata. Quando si pensa ai privati e al loro ruolo in ambito economico, non si possono trascurare i gruppi di pressionegruppi di pressionegruppi di pressionegruppi di pressione, meglio noti come lobbieslobbieslobbieslobbies. Ad essi è dedicata la seguente trattazione. Q. CAMERLENGO, Lobbies e processi di decisione politica, in F. Rigano (a cura di), La Costituzione in officina. Il primo intervento urgente, Pavia University Press, Pavia, 2013, pp. 37 ss.

1. Un rinnovato interesse per un antico tema

«Chi sa qualcosa farebbe bene a denunciare questi comportamenti gravissimi», ha commentato il presidente del Senato Pietro Grasso promettendo di adoperarsi per «fornire agli inquirenti nel più breve tempo tutte le informazioni che riterranno utili alle indagini».

Una nota trasmissione televisiva, dedita ad inchieste di pubblico interesse, ha denunciato, attraverso un’intervista ad un anonimo assistente parlamentare, una prassi diffusa presso deputati e senatori: alcune multinazionali verserebbero periodicamente somme di denaro al fine di condizionare le espressioni di voto dei parlamentari. Secondo questo racconto, vi sarebbe addirittura un tariffario, peraltro sensibile al diverso livello di prestigio dei parlamentari destinatari di tali esborsi di denaro.

Il clamore suscitato da questa narrazione ha prodotto un significativo impatto mediatico, in un frangente in cui gli strali dell’antipolitica rappresentano un motivo ricorrente, scandito con inedita regolarità.

È però vero che il tema dei gruppi di pressione, certamente non nuovo in quanto attecchito da tempo nel terreno istituzionale, aveva qualche settimana prima polarizzato l’attenzione dei saggi nominati dal Capo dello Stato.

Più precisamente, nella relazione finale del Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica, licenziata il 12 aprile dello stesso anno, il paragrafo 17 è dedicato alle lobbies: «i gruppi di interesse particolare svolgono una legittima ma non sempre trasparente attività di pressione sulle decisioni politiche. Spesso si tratta di un’opera utile per portare a conoscenza dei decisori politici realtà frequentemente ignorate. Ma, come ha suggerito l’OCSE, è un’opera che ha bisogno di trasparenza per non diventare un mezzo per alterare la concorrenza o per condizionare indebitamente le decisioni. Il Gruppo di lavoro propone una disciplina che riprenda i modelli del Parlamento Europeo e quello degli Stati Uniti, fondata su tre caratteri fondamentali: a) si istituisce presso la Camera, il Senato e presso le Assemblee regionali l’albo dei portatori di in-teressi; b) costoro hanno diritto a essere ascoltati nella istruttoria legislativa relativa a provvedimenti che incidono su interessi da loro rappresentati; c) il decisore deve rendere

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esplicite nella relazione al provvedimento le ragioni della propria scelta e deve evitare ogni possibile situazione di potenziale o attuale conflitto di interessi».

Nel corso dell’audizione del 22 maggio 2013 dinanzi alle Commissioni riunite affari costituzionali, il Ministro per le riforme costituzionali Quagliariello ha segnalato «la necessità di una regolamentazione dell’attività di lobbying, in grado di evitare ingiuste demonizzazioni ma anche di scongiurare che l’attività dei gruppi di pressione possa indebitamente inquinare la vita democratica e alterare la concorrenza».

Nella riunione del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2013, il Presidente Letta ha presentato le linee sulle quali si articolerà un prossimo disegno di legge in tema di attività delle lobbies e di rappresentanza degli interessi economici.

2. Gruppi di pressione, democrazia, partecipazione

La partecipazione ai processi decisionali instaurati in Parlamento (ma lo stesso ragionamento potrebbe essere generalizzato includendovi tutte le assemblee elettive degli enti politici) può considerarsi una modalità privilegiata di contemperamento tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta.

La democrazia rappresentativa esclude gli elettori dai circuiti decisionali, essendo rimessa agli eletti la manifestazione di volontà sottesa alle conseguenti determinazioni. La democrazia diretta, dal canto suo, rende gli elettori protagonisti immediati delle decisioni, in quanto soggetti attivi (seppur non individualmente) delle necessarie espressioni volitive.

Attraverso la partecipazione, nulla muta quanto agli organi investiti del potere decisionale. Nondimeno, i rappresentati sono dall’ordinamento abilitati a esporre le loro istanze e le loro sollecitazioni ai rappresentanti. In questo modo, l’organo decisionale è reso edotto delle complessità proprio dei rapporti sui quali la determinazione in fieri è destinata ad incidere.

Ora, quanto al procedimento legislativo il momento dedicato all’ingresso di tali elementi di conoscenza e di giudizio è l’istruttoria (Galeotti 1957, p. 109; Predieri 1974, p. 2526; Cocozza 1988, pp. 9 ss.; Recchia e Dickmann 2002). Questa è la fase in cui il legislatore acquisisce gli elementi di fatto e di diritto sui quali fondare la propria decisione normativa. La «garanzia di una buona “istruttoria”» (Elia 1961, p. 70) è requisito indefettibile affinché l’epilogo del procedimento sia espressione di un corretto esercizio della funzione legislativa. Una esauriente istruttoria rende il Parlamento un organo cosciente e consapevole, in grado di incidere con efficacia e cognizione di causa nei rapporti sociali (Manzella 2003, p. 321).

Anche alla luce della raccomandazione dell’Ocse del 9 marzo 1995 sul miglio-ramento della qualità della produzione normativa, le circolari dei Presidenti di Camera e Senato del 10 gennaio 1997 hanno stabilito i caratteri dell’istruttoria legislativa, quale attività preordinata a verificare la necessità dell’intervento legislativo, la sua coerenza innanzitutto con il dettato costituzionale, la fattibilità e l’economicità della disciplina e l’inequivocità sostanziale delle disposizioni da approvare. Le circolari individuano i soggetti destinatari delle richieste di informazione: Governo e pubblica amministrazione, enti territoriali, associazioni di categoria, organizzazioni sindacali, gruppi sociali ed esperti nei diversi settori interessati dall’intervento legislativo. L’art. 79, quarto comma, del Regolamento della Camera ha imposto alle commissioni parlamentari di considerare la necessità dell’intervento legislativo, il rispetto degli altri ambiti di competenza, il rapporto costi-benefici, la corretta stesura del testo (Dickmann 2000, pp. 217 ss.; Gianniti e Lupo 2008, p. 193).

È dubbio, però, che i gruppi di pressione agiscano alla luce del sole intervenendo nella fase istruttoria secondo le modalità formalizzate dalle ricordate circolari e previsioni regolamentari.

Intanto, con l’espressione “gruppi di pressione” (lobbies) s’intende «tutta una se-rie di gruppi sociali di diverso genere e portatori di interessi disparati […] che influi-scono (o cercano comunque di influire) in vari modi sulle scelte dei pubblici poteri cui sono in maggior misura interessati» (De Marco 1998, p. 429. V. anche Pasquino 1988; Trupia 1989; Petrillo 2012, pp. 179 ss.). Che le lobbies preferiscano agire senza scoprire le carte è un dato di fatto difficilmente contestabile. Senza dubbio i percorsi tracciati dai regolamenti parlamentari costituiscono una preziosa risorsa per esternare le rispettive istanze. Nondimeno, l’esperienza insegna come sia più congeniale un’opera di costante condizionamento svolta nell’ombra, con contatti informali al di fuori delle ritualità istituzionali. È preferibile per gli stessi soggetti influenzati non esporsi troppo, mantenendo così un basso profilo che potrebbe rivelarsi utile in occasione della successiva competizione elettorale.

Ad ogni modo, le principali caratteristiche del lobbismo italiano sono state così individuate: innanzitutto, è una tipologia di rappresentanza priva di disciplina positiva; in secondo luogo, è una forma di pressione che risente alquanto della cultura politica nazionale; inoltre, è un modello di relazione istituzionale più orientato all’esercizio dell’influenza come relazione sociale che alla comunicazione come processo; infine, è un sistema

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basato sui rapporti diretti e immediati tra lobbista e decisore piuttosto che su forme indirette di pressione (Antonucci 2012, p. 110).

3. Due fattori che favoriscono l’attività di lobbying: la trasformazione della legge; il finanziamento ai partiti

Innanzitutto, l’azione dei gruppi di pressione ha assunto nel tempo contorni sempre più nitidi alla luce dell’evoluzione del concetto stesso di legge.

Con l’illuminismo la legge assurge a «expression de la volonté générale», come sancito dall’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (Carrè de Malberg 1931). Secondo Rousseau, la legge rispecchia la volontà palesata dalla comunità indivisa, non frammentata in fazioni o partiti. Essa, dunque, sottintende la capacità del legislatore di trascendere dai propri interessi egoistici per assecondare i bisogni della collettività: «la volontà generale diviene così non un dato numerico, ma una qualità del contenuto della legge, una qualità che presuppone legislatori capaci di quella astrazione da se stessi» (Zagrebelsky 1994, p. 155). È questa la massima esaltazione dello spirito democratico che ha pervaso il costituzionalismo rivoluzionario francese.

Nel tempo, grazie anche all’avvento dirompente delle istanze pluralistiche, questa concezione svanisce per lasciare il posto ad una diversa immagine della legge. Questa, «che esprime un processo politico generale, nel senso che in esso partecipa la generalità dei soggetti politici, non è altro che il modo in cui si coordina il maggior numero di interessi particolari» (Zagrebelsky 1994, p. 155). Nella società si materializzano molteplici conflitti, alimentati dalla interazione tra interessi contrapposti. Attraverso i partiti siffatti interessi entrano nel circuito decisionale culminante nella legge. I partiti operano per realizzare interessi particolari. È proprio di un sistema democratico la rappresentazione degli interessi di parte, così come è compatibile con un tale regime il loro soddisfacimento per il tramite delle entità politiche che hanno vinto la competizione elettorale. In uno Stato costituzionale di diritto, per evitare l’arbitrio nell’esercizio della potestà legislativa, il giudizio di legittimità mira a presidiare la vocazione propria della legge quale strumento privilegiato di primo inveramento della carta fondamentale.

In questo quadro scosso da profondi mutamenti, la “generalità”, tratto essenziale della legge, sopravvive solo in relazione al procedimento (dal momento che in Parlamento sono rappresentate le diverse “fazioni” della comunità), e non al contenuto delle leggi, il quale esprime interessi particolari non necessariamente conformi ad un ipotetico interesse generale. E la stessa legge si arricchisce di inedite modalità espressive, sol che si pensi all’impatto che su di essa ha avuto l’affermazione degli istituti propri dello stato sociale: leggi provvedimento, leggi incentivo, leggi programma, e via discorrendo.

Questa trasformazione della legge ha dissodato il terreno più fecondo per l’attecchimento di radicate pratiche di lobbying. Quanto più la legge diviene sensibile alle sollecitazioni provenienti dal tessuto sociale, tanto maggiore sarà la capacità dei gruppi di pressione di influenzare i processi decisionali. Se la legge diviene lo strumento per realizzare interessi di parte, nel senso dapprima chiarito, e se le lobbies sono per definizione portatrici di esigenze altrettanto di parte, allora vi sono tutte le condizioni perché la legge e l’attività di lobbying si muovano in perfetta sintonia come due ruote del medesimo ingranaggio.

Il tema delle lobbies, poi, s’intreccia con quello, senza dubbio munito di maggiore visibilità, del finanziamento pubblico ai partiti.

In entrambi i casi le formazioni politiche sono destinatarie di utilità misurabili in termini economici. La loro sopravvivenza, quali soggetti attraverso i quali i cittadini concorrono con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale, dipende dall’acquisizione delle necessarie risorse strumentali.

Nella misura in cui si contrae l’erogazione di finanziamenti ad opera dello Stato, siano essi diretti o mediante il rimborso delle spese elettorali, aumenta la “sensibilità” dei partiti alle forme di pressione poste in essere dalle lobbies. Alla ricerca di nuovi canali di finanziamento, i partiti cercheranno sponsor disposti a supportarne le attività.

La Presidenza del Consiglio dei ministri ha annunciato l’imminente presentazione in Parlamento di un disegno di legge che dovrebbe condurre ad una progressiva eliminazione del finanziamento pubblico. Ciò verosimilmente spingerà le lobbies ad incrementare le iniziative di condizionamento dei processi decisionali, avendo come interlocutori tanto soggettivi collettivi (i partiti) quanto singoli individui (i parlamentari) divenuti ancor più recettivi e disponibili. È evidente, quindi, la necessità di approntare una adeguata regolamentazione affinché l’attività di lobbying non degeneri in una mercantilistica modalità di approvvigionamento di risorse per restare sulla scena istituzionale.

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Non va trascurato, poi, che entrambe le fenomenologie qui considerate condivi-dono la medesima necessità di assicurare livelli elevati di trasparenza (Biondi 2012, pp. 189 ss.). L’accessibilità, da parte di tutti gli interessati, ai dati relativi alle somme percepite ed alla loro utilizzazione è un ulteriore elemento che contribuisce a rinsaldare il non facile rapporto tra rappresentati e rappresentanti, messo da tempo a dura prova da eclatanti fenomeni di malcostume e corruzione.

Del resto, in Gran Bretagna ed in Canada sono state da tempo adottate discipline atte a rendere conoscibili gli interessi dei parlamentari e, nel contempo, quelli dei gruppi di pressione anche attraverso specifiche regole in tema di finanziamento privato ai partiti politici (Petrillo 2011, p. 183).

4. La necessità urgente di una regolamentazione delle lobbies

La presenza dei gruppi di pressione nei circuiti decisionali è un dato conclamato. Esso è altresì un dato fisiologico, non essendo incompatibile con un’accezione matura di democrazia l’azione dispiegata da soggetti collettivi che aspirano ad influenzare le determinazioni assunte dalle istituzioni, a cominciare dalle leggi. È questo uno dei tanti riflessi del pluralismo, quale elemento essenziale di qualsiasi ordinamento democratico: invero, «una democrazia pluralista non solo ammette in linea di principio i conflitti che fondano e alimentano una società aperta, ma dispone di una varietà di istituzioni e circuiti decisionali utili a canalizzarli, a contemperarli reciprocamente, a trasformarne la natura o ad assorbirli nel tempo, senza scaricarne l’impatto su un solo punto del sistema» (Pinelli 2006, p. 309).

Del resto, la radicata e rodata esperienza dei pressure groups nel Congresso degli Stati Uniti, tanto per fare un importante esempio, conferma la compatibilità del lobbying con una matura democrazia (Galloway 1955; Blaisdell 1957; Oleszek 1989).

Le lobbies sono, dunque, una «componente indefettibile del sistema politico, espressione di un dinamismo sociale ed economico da valorizzare» (Petrillo 2011, p. 186). Al fine di evitare pratiche degenerative è, però, altrettanto indispensabile regolare il fenomeno con regole chiare, certe, trasparenti. L’esperienza nordamericana lo dimostra: l’azione dispiegata dai gruppi di pressione è stata razionalizzata da importanti atti normativi quali il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946, e il Lobbying Disclosure Act del 1995.

In un frangente storico caratterizzato dalla crisi delle ideologie, i partiti e movimenti politici tendono sempre più ad intercettare gli interessi particolari e a tradurli in decisioni congeniali all’appagamento degli stessi, secondo dinamiche non troppo distanti dalle regole di funzionamento del mercato. È chiaro che in questo contesto l’azione delle lobbies trova il terreno ideale per espandersi. Le determinazioni politiche, a cominciare dalla legge, sono sempre più il frutto di interazioni e confronti con le diverse componenti sociali, secondo una forma di contrattazione che si affranca dal tradizionale archetipo della decisione come atto unilaterale imposto dai pubblici poteri. Questa “negoziazione legislativa” (De Marco 1984) immette nei processi democratici elementi di tensione, che solo un’attenta e rigorosa disciplina può contenere e orientare.

È, quindi, indispensabile che i rappresentati siano resi edotti delle reali ragioni sottese alle scelte politiche invalse innanzitutto in Parlamento. E non perché, in difetto, la legge sarebbe viziata d’incostituzionalità. Piuttosto, ciò è necessario perché la democrazia funzioni, seguendo il percorso tracciato dai princìpi costituzionali. Detto in termini più immediati: che vi sia pure una certa impronta sulle leggi confezionate in Parlamento o nei consigli regionali, purché tale impronta sia chiara, accessibile, nota all’opinione pubblica. Solo in questo modo gli elettori saranno messi nelle condizioni di esprimere un voto consapevole in occasione delle future tornate elettorali, visto che il potere politico sostanziale è assai più complesso di quello – formale – che è definito dalla Costituzione stessa e dalle leggi che ne sono attuazione.

5. Due modelli ai quali ispirarsi

Per l’edificazione di un’adeguata e solida struttura normativa entro la quale collocare l’attività di lobbying alcuni spunti preziosi possono essere ricavati dalla lettura di due atti istituzionali concepiti al di fuori del territorio nazionale.

5.1. La normativa dell’Unione europea

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Con l’accordo del 23 giugno 2011, tra il Parlamento europeo e la Commissione europea, è stato istituito il «registro per la trasparenza per le organizzazioni, le persone giuridiche e i lavoratori autonomi impegnati nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione» (Sassi 2012).

Come si evince dalla lettura del preambolo, questo accordo è stato stipulato nella considerazione che «i responsabili politici europei non agiscono in maniera avulsa dalla società civile, bensì mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile».

L’istituzione e il funzionamento del registro rispettano i principi generali del diritto dell’Unione europea, compresi i principi di proporzionalità e di non discriminazione, nel rispetto del diritto dei parlamentari europei di esercitare il loro mandato senza restrizioni. Le parti, quindi, sono tenute a garantire a tutti gli operatori parità di trattamento.

Il registro include alcuni orientamenti sull’ambito di applicazione del registro, le attività ammissibili alla registrazione e le esenzioni; sulle categorie cui è aperta la registrazione; sulle informazioni richieste a coloro che intendono registrarsi, compresi gli obblighi di informazione finanziaria. Il registro include altresì un codice di condotta, nonché un meccanismo di reclamo.

Ebbene, rientrano nell’ambito di applicazione del registro tutte le attività «svolte allo scopo di influenzare, direttamente o indirettamente, l’elaborazione o l’attuazione delle politiche e i processi decisionali delle istituzioni dell’Unione, a prescindere dai canali o mezzi di comunicazione impiegati, quali l’esternalizzazione, i media, i contratti con intermediari specializzati, i centri di studi, le “piattaforme”, i forum, le campagne e le iniziative adottate a livello locale». Queste attività comprendono, tra l’altro, i contatti con membri, funzionari o altro personale delle istituzioni dell’Unione, la preparazione, la divulgazione e la trasmissione di lettere, materiale informativo o documenti di dibattito e di sintesi, e l’organizzazione di eventi, riunioni, attività promozionali e iniziative sociali o conferenze, cui siano stati invitati membri, funzionari o altro personale delle istituzioni dell’Unione. Sono parimenti inclusi i contributi volontari e la partecipazione a consultazioni formali su futuri atti legislativi o altri atti giuridici dell’Unione ovvero ad altre consultazioni aperte.

L’attività di lobbying in senso proprio è descritta anche alla luce di ciò che, se-condo il presente accordo, non è incluso nell’ambito di applicazione del registro, e cioè: le attività legate alla prestazione di consulenza legale o altre attività professionali; le attività delle parti sociali in quanto attori del dialogo sociale (sindacati, associazioni di datori di lavoro, ecc.); le attività rispondenti a richieste dirette e individuali di un’istituzione dell’Unione o di un deputato al Parlamento europeo, come le richieste specifiche o periodiche di informazioni fattuali, dati o consulenze e gli inviti individuali a presenziare ad audizioni pubbliche o a partecipare a comitati consultivi o forum analoghi.

Il registro, poi, non concerne le confessioni religiose, i partiti politici, gli enti territoriali. Mediante la registrazione, le organizzazioni interessate: consentono a che le informazioni fornite ai fini

della registrazione siano rese pubbliche; s’impegnano ad agire in conformità del codice di condotta; garantiscono la correttezza delle informazioni fornite; consentono a che ogni reclamo nei loro confronti sia trattato in base alle disposizioni del codice di condotta; consentono ad essere assoggettate ai provvedimenti applicabili in caso di violazione del suddetto codice; prendono atto che le parti potrebbero dover divulgare la corrispondenza e altri documenti relativi alle attività dei soggetti registrati.

Alcuni spunti interessanti possono essere dedotti dal più volte evocato codice di condotta, quale parte dell’accordo in oggetto.

I soggetti registrati si identificano sempre con il proprio nome e facendo riferimento all’organismo o agli organismi per cui lavorano o che rappresentano; dichiarano gli interessi, gli obiettivi e le finalità promosse e, se del caso, specificano i clienti o i membri che essi rappresentano; evitano di ottenere o cercare di ottenere informazioni o decisioni in maniera disonesta, esercitando pressioni indebite o comportandosi in modo inadeguato; non rivendicano alcuna relazione ufficiale con l’Unione o con una delle sue istituzioni nei loro rapporti con terzi, e non distorcono gli effetti della registrazione in maniera da ingannare i terzi o i funzionari o altro personale dell’Unione; garantiscono che, per quanto a loro conoscenza, le informazioni fornite ai fini della registrazione e successivamente nell’esercizio delle loro attività rientranti nell’ambito di applicazione del registro sono complete, aggiornate e non fuorvianti; si astengono dal vendere a terzi copia dei documenti ricevuti da un’istituzione dell’Unione; non inducono i membri delle istituzioni dell’Unione a contravvenire alle disposizioni e alle norme di comportamento a essi applicabili.

5.2. Il contributo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)

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Una solida impalcatura per la trasparenza delle attività di lobbismo è fondamentale per salvaguardare l’interesse pubblico e per promuovere un’effettiva parità di condi-zioni tra imprese. Per questa ragione l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha pubblicato, nel 2012, il decalogo recante i Principles for Transparence and Integrity in Lobbying per supportare l’opera di regolamentazione posta in essere dalle istituzioni nazionali. Tali princìpi sono parte integrante della strategia dell’OCSE «for a stronger, fairer and cleaner economy».

I pilastri di una forte regolamentazione in questo ambito, come suggerito dall’esperienza, sono i seguenti: - definizioni «clear and unambiguous» delle attività di lobbying; - obblighi di comunicazione volti a fornire informazioni pertinenti su aspetti chiave del lobbying in ordine agli obiettivi perseguiti, ai beneficiari, alle fonti di finanziamento; - standard di comportamento per evitare l’uso improprio di informazioni riservate, conflitti di interessi, nonché per prevenire «revolving door practices»; - collocazione delle diverse procedure entro una cornice coerente di strategie e meccanismi, inclusi il monitoraggio e l’adozione di misure coercitive; - promozione, da parte delle istituzioni, di una cultura di integrità e trasparenza nella pratica quotidiana di lobbismo.

I princìpi enunciati dall’OCSE sono, dunque, i seguenti. I. Costruzione di un quadro efficace ed equo per l’accesso alle pratiche di lob-bying.

1. Parità di accesso nel “mercato” delle lobbies. Le pubbliche istituzioni devono garantire il libero flusso delle informazioni e la loro fruibilità. Consentendo a tutti i soggetti interessati un «fair and equitable access» per partecipare allo sviluppo delle politiche pubbliche, gli Stati debbono nondimeno proteggere l’integrità delle decisioni e tutelare l’interesse generale. Allo scopo di infondere nei cittadini la fiducia nel processo decisionale pubblico, le istituzioni devono promuovere la rappresentanza equa di interessi economici e sociali. 2. Norme e linee guida sulle pratiche di lobbying adeguate agli specifici contesti socio-politici e amministrativi. In questo modo gli Stati sono chiamati a scegliere le soluzioni più adeguate, prendendo in considerazione in particolare i principi costituzionali e le pratiche democratiche consolidate, quali le audizioni pubbliche o altri meccanismi istituzionalizzati di consultazione. Gli Stati non dovrebbero replicare direttamente le regole e le linee guida da un livello di governo ad un altro, avendo quindi cura di valutare le potenzialità e i limiti delle diverse opzioni politiche e di regolamentazione. Nei contesti in cui domanda e offerta di lobbying sono limitate, dovrebbero essere contemplate opzioni alternative alla regolamentazione obbligatoria per migliorare la trasparenza, la responsabilità e l’integrità nella vita pubblica. Ove si acceda ad una disciplina cogente, le istituzioni di governo dovrebbero ponderare l’onere amministrativo di conformità alle regole per garantire che esso non diventi un ostacolo per un accesso giusto ed equo. 3. Norme e linee guida sulle pratiche di lobbying coerenti con il generale sistema normativo di riferimento. La regolamentazione deve essere parte integrante del quadro normativo preordinato ad una «good public governante». Per supportare una cultura di trasparenza e integrità delle attività di lobbismo è necessario il coinvolgimento degli stakeholder attraverso la consultazione pubblica e la partecipazione, il diritto di petizione, la libertà di informazione, norme in materia di partiti politici e finanziamento delle campagne elettorali, codici di condotta per i funzionari pubblici e lobbisti, meccanismi per la distribuzione efficace delle rispettive responsabilità in caso di illecita influenza. 4. I paesi dovrebbero definire chiaramente i termini ‘lobbying’ e ‘lobbista’. Le definizioni devono essere «robust, comprehensive and sufficiently explicit», al fine di scongiurare errori di interpretazione e per evitare scappatoie. Nel definire l’ambito di attività di lobbying, è necessario bilanciare la diversità dei soggetti, le loro capacità e risorse, attraverso l’adozione di misure per migliorare la trasparenza. Regole e linee guida dovrebbero indirizzarsi in particolare a coloro che ricevono compensi per lo svolgimento di attività di lobbying. Ad ogni modo, la definizione delle attività di lobbying dovrebbe essere considerata in modo più ampio e globalmente per garantire par condicio tra i gruppi di pressione. Lo sforzo definitorio deve tenere conto del fatto che vi sono modalità di interazione con i pubblici poteri che non possono considerarsi strumenti di pressione trattandosi di rapporti formalizzati quali commissioni legislative, audizioni pubbliche e altri mec-canismi istituzionali di consultazione. II. Miglioramento degli standard di trasparenza 5. Gli Stati devono assicurare un adeguato livello di trasparenza, per garantire che i funzionari pubblici, i cittadini e le imprese possano ottenere informazioni sufficienti sulle attività di lobbying. Ciò non esclude la possibilità di deroghe legittime dettate, in particolare, dalla necessità di preservare le informazioni riservate di interesse pubblico o per proteggere le informazioni di mercato sensibili in caso di necessità. Le informazioni di

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base riguardano i lobbisti, gli obiettivi dell’attività di lobbying, i beneficiari. La comunicazione sulle attività di lobbying e sui gruppi di pressione deve essere assicurata tramite un registro accessibile al pubblico, aggiornato in modo tempestivo, al fine di fornire informazioni accurate tali da consentire un’analisi efficace da parte dei funzionari pubblici, dei cittadini e delle imprese. 6. Gli Stati debbono consentire alle parti interessate – comprese le formazioni sociali, le imprese, i media e il pubblico in generale – di esaminare le attività di lobbying. Il pubblico ha il diritto di sapere come le istituzioni pubbliche hanno assunto le decisioni, anche attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzate di informazione e di comunicazione, come Internet, per rendere le informazioni accessibili al pubblico in un modo economicamente efficace. Una «vibrant civic society» che include gli osservatori, «watchdogs», gruppi di cittadini rappresentativi e dei media indipendenti è fondamentale per garantire un adeguato controllo delle attività di lobbying. Per identificare coloro che hanno influenzato i processi decisionali è indispensabile fornire una «legislative footprint» che indichi i lobbisti consultati. Garantire l’accesso tempestivo a tali informazioni consente l’inserimento di diversi punti di vista della società e delle imprese per lo sviluppo equilibrato e per l’attuazione delle decisioni pubbliche. III. Promozione di una cultura di integrità. 7. Gli Stati sono sollecitati a promuovere una «culture of integrity» nelle organizzazioni pubbliche attraverso l’enunciazione di princìpi, regole, norme e procedure atte a fornire ai funzionari pubblici indicazioni chiare su come essi sono autorizzati ad impegnarsi con i lobbisti. I funzionari pubblici devono interagire con i gruppi di pressione in linea con le regole, gli standard e le linee guida in modo tale da garantire un pieno controllo pubblico. In particolare, essi devono assicurare l’imparzialità nel perseguimento del pubblico interesse, condividendo le informazioni autorizzate, non abusando delle «confidential informations», ed evitando altresì conflitti di interesse. I decisori dovrebbero dare l’esempio «by their personal conduct» nel rapporto con i lobbisti. A questi fini, gli Stati dovrebbero fissare alcune prescrizioni a carico dei pubblici funzionari per evitare conflitti di interesse quando si cerca una nuova posizione e per inibire l’uso improprio di informazioni riservate. Potrebbe essere necessario imporre un «cooling-off period» per evitare che gli ex funzionari pubblici trovino una nuova collocazione professionale presso i gruppi di pressione con i quali hanno interagito. 8. I lobbisti devono rispettare standard di professionalità e trasparenza, condividendo essi stessi la responsabilità di promuovere una cultura della trasparenza e dell’integrità. Se è vero che i governi ed i legislatori hanno la responsabilità primaria per la definizione di norme di comportamento chiare per i funzionari pubblici, nondimeno i lobbisti e i loro clienti, come il committente, debbono esimersi dall’esercitare un’influenza illecita, rispettando gli standard professionali nei loro rapporti con i pubblici funzionari, con altri gruppi di pressione e con il pubblico. Per mantenere la fiducia nel processo decisionale pubblico, occorre promuovere i princìpi di buon governo. In particolare, i lobbisti devono intrattenere le loro relazioni con i funzionari pubblici «with integrity and honesty», fornendo informazioni affidabili e precise, nonché evitando conflitti di interesse. IV. Configurazione di meccanismi per l’effettiva attuazione, il rispetto ed il con-trollo. 9. Gli Stati devono coinvolgere gli attori chiave nell’attuazione di una gamma coerente di strategie e pratiche per ottenere la conformità. La conformità è una sfida particolare quando i paesi affrontano problemi emergenti come la trasparenza delle attività di lobbismo. Per garantire la conformità, e per prevenire e rilevare le violazioni, gli Stati devono progettare e applicare una gamma coerente di strategie e meccanismi, incluso il monitoraggio e l’applicazione di risorse adeguate. Tutto ciò contribuisce a creare una comprensione comune degli standard attesi. Le strategie ed i meccanismi dovrebbero rafforzarsi reciprocamente giacché questo coordinamento potrebbe contribuire a raggiungere gli obiettivi generali di migliorare la trasparenza e l’integrità nelle attività di lobbying. Le strategie di implementazione dovrebbero bilanciare attentamente i rischi con incentivi per i funzionari pubblici e lobbisti allo scopo di creare una cultura del rispetto. Sanzioni visibili e proporzionate dovrebbero combinare approcci innovativi, come la divulgazione pubblica delle violazioni accertate, con sanzioni tradizionali, come ad esempio l’interdizione e il giudizio penale a seconda dei casi. 10. I paesi dovrebbero rivedere il funzionamento delle loro regole e delle linee guida su base periodica e di effettuare le regolazioni necessarie in base all’esperienza. Ciò con la partecipazione di rappresentanti di gruppi di pressione e della società civile. L’affinamento progressivo delle regole dovrebbe essere perseguito aggiornando le strategie di attuazione ed i relativi meccanismi operativi. L’integrazione di questi processi aiuterà a soddisfare le mutevoli aspettative del pubblico per la trasparenza e l’integrità nelle attività di lobbying.

6. Una proposta

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Alla luce di quanto osservato in precedenza, si suggerisce innanzitutto di includere nel testo costituzionale una previsione di principio sui gruppi di pressione.

La collocazione ideale appare l’art. 67, sul divieto di mandato imperativo, a cui si potrebbe aggiungere un secondo comma così sobriamente formulato: «Con legge ordinaria sono stabilite le norme sull’attività dei gruppi di pressione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, non discriminazione, correttezza ed integrità».

La legge ordinaria di attuazione dell’art 67, secondo comma, dovrebbe quindi disciplinare nel dettaglio l’attività di lobbying, prevedendo, in particolare: la definizione di lobbista e di lobbying; la creazione di un registro dei gruppi di pressione accreditati; la definizione di adeguate regole di condotta; la previsione di obblighi stringenti di trasparenza; la predisposizione di un appropriato e proporzionato sistema sanzionatorio.

Gli stessi regolamenti parlamentari, resi omogenei sul punto, dovrebbero essere integrati da previsioni relative ai gruppi di pressione, e gli stessi presidenti dovrebbero adottare, tramite circolare, misure volte a disciplinare l’accesso alle sedi istituzionali da parte dei rappresentanti delle lobbies.

Anche a livello regionale gli statuti e le leggi regionali dovrebbero dettare una apposita disciplina in materia.

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Capitolo VI

GLI OGGETTI DELLA COSTITGLI OGGETTI DELLA COSTITGLI OGGETTI DELLA COSTITGLI OGGETTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAUZIONE ECONOMICAUZIONE ECONOMICAUZIONE ECONOMICA I soggetti della costituzione economica, nello svolgimento delle rispettive attività, utilizzano oggetti materiali e immateriali che nel linguaggio giuridico sono definiti benibenibenibeni. In questa sede sarà illustrata la distinzione tra: - beni privati; - beni pubblici; - beni comuni. In generale, i beni materialibeni materialibeni materialibeni materiali sono le cose e le energie suscettibili di appropriazione: si distingue così tra beni immobilibeni immobilibeni immobilibeni immobili (che sono materialmente incorporati al suolo) e beni mobilibeni mobilibeni mobilibeni mobili (tutti gli altri beni); tra beni fungibilibeni fungibilibeni fungibilibeni fungibili (che possono indifferentemente sostituirsi gli uni agli altri in quanto eguali quantità di cose dello stesso genere sono del tutto equivalenti ai fini della loro utilizzazione) e beni infungibilibeni infungibilibeni infungibilibeni infungibili (ossia, le cose prodotte in esemplari unici, nonché tutte le cose usate); tra beni consumabilibeni consumabilibeni consumabilibeni consumabili (ossia insuscettibili di un uso continuativo o ripetuto) e beni inconsumabilibeni inconsumabilibeni inconsumabilibeni inconsumabili (tutti gli altri, anche se soggetti a deterioramento). Sono, poi, pertinenzepertinenzepertinenzepertinenze le cose destinate in modo durevole ad ornamento o a servizio di un’altra cosa senza esserne parte costitutiva (così il garage). Sono universalità di mobiliuniversalità di mobiliuniversalità di mobiliuniversalità di mobili le pluralità di cose appartenenti alla medesima persona ed aventi una destinazione unitaria (es. una collezione di francobolli). Sono frutti naturalifrutti naturalifrutti naturalifrutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, indipendentemente dall’intervento dell’uomo, mentre sono civilicivilicivilicivili i frutti che si ricavano da un bene come corrispettivo del godimento assegnato ad altri. Sono beni immateriali beni immateriali beni immateriali beni immateriali le creazioni intellettuali come le opere dell’ingegno.

Sezione I

I BENI PRIVATI Quando si parla di beni privati si allude al diritto di proprietàdiritto di proprietàdiritto di proprietàdiritto di proprietà. La proprietà proprietà proprietà proprietà è il diritto soggettivo per antonomasia. Anzi, si può persino affermare che, nella millenaria evoluzione delle istituzioni giuridiche, sia venuta prima la proprietà del concetto stesso di diritto soggettivo. Quest’ultimo, infatti, è stato artificiosamente costruito dai giuristi proprio partendo dalla proprietà. La proprietà, in quanto diritto soggettivo, è un fascio di poteri, pretese, facoltà che l’ordinamento riconosce ad un soggetto (persona fisica o giuridica) in relazione ad un determinato bene, mobile o immobile, affinché ne possa goderne pienamente. L’art. 832 del codice civile, infatti, attribuisce al proprietario il «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico». La proprietà è un diritto assolutodiritto assolutodiritto assolutodiritto assoluto, in quanto opponibile a tutti (→ erga omnes), diversamente dai diritti di credito che, in quanto relativi, valgono solo nei confronti di determinati soggetti, i debitori. La proprietà è un diritto realediritto realediritto realediritto reale, in quanto è il diritto di trarre da un bene le sue utilità economiche legalmente garantite o alcune di esse. La proprietà si distingue dagli altri diritti reali che, avendo un contenuto più limitato, vengono detti diritti reali minori: - i diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, superficie, servitù prediale, enfiteusi); - i diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca). La proprietà si distingue anche da altri istituti che, spesso, nel linguaggio comune sono utilizzati come sinonimi: possessopossessopossessopossesso e detenzionedetenzionedetenzionedetenzione. Nel diritto, proprietà, possesso e detenzione sono istituti

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diversi. La proprietà è un diritto soggettivo, mentre possesso e detenzione sono poteri di fatto su una cosa. Inoltre, il possesso è un potere di fatto che riflette un diritto reale (ad es., il proprietario che ha nella propria disponibilità un bene, o l’usufruttuario), mentre la detenzione è un potere di fatto che riflette un diritto di credito (ad es. chi ha preso in affitto un negozio di proprietà di un altro soggetto), con la conseguenza non marginale che solo chi ha il possesso può usucapire un bene, ossia divenirne proprietario dopo un uso ininterrotto per un lasso temporale stabilito, a seconda del bene, dal codice civile. La proprietà si acquista nei modi e secondo le forme previste e disciplinate dal codice civile. Codice che garantisce e tutela la proprietà con diverse modalità. Per ulteriori approfondimenti si rinvia, oltre che alla lettura diretta de codice civile, ad un buon manuale di istituzioni di diritto privato. Ebbene, la Costituzione si occupa di proprietà all’art. 42art. 42art. 42art. 42, di cui si riporta il testo:

1. La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. 2. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. 3. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. 4. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Il commento di F. Macario, successivamente riportato, illustra la dimensione costituzionale del diritto di proprietà. Prima, però, si osservi quanto segue. 1) La Costituzione riconosce la proprietà pubblica accanto a quella privata. Ciò è rilevante anche sul piano delle attività economiche di produzione di beni o di servizi, visto che nei sistemi di socialismo reale i fattori di produzione sono di proprietà rigorosamente pubblica. Ed in effetti il nostro art. 42 individua non solo nei privati, ma anche nello Stato il possibile e legittimo proprietario dei beni economici. 2) La dimensione sociale del nostro sistema costituzionale affiora anche in questa disposizione. La proprietà può essere senz’altro privata, ma il legislatore può regolarla anche per assicurarne la «funzione sociale». Cos’è la funzione sociale della proprietà ? Come si vedrà in seguito, anche l’iniziativa economica privata può essere limitata o vincolata per ragioni di «utilità sociale». 3) La proiezione sociale della proprietà privata affiora anche dall’obbligo posto in capo al legislatore ordinario di intervenire per rendere la proprietà stessa accessibile a tutti. Altrimenti, non avrebbe senso il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma. 4) L’espropriazione della proprietà privata è un fenomeno noto e risalente alla notte dei tempi. Solo che, una volta, non vi erano garanzie per i proprietari che vedevano coattivamente sottrarre dal proprio patrimonio un bene anche di rilevante valore. La Costituzione ribadisce la vigenza di tale potere amministrativo, pur assegnano alla legge il compito di prevederlo e disciplinarlo (→ principio di legalità). Si ribadisce che – anche se appare superfluo – che tale potere può essere esercitato, al pari di tutti i poteri amministrativi, solo per soddisfare interessi generali. Il problema è, dunque, l’indennizzo: una cifra simbolica, per un compassionevole ristoro della perdita subita, o una somma il più possibile vicina al valore di mercato del bene espropriato ?

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F. MACARIO, Commento all’art. 42, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 864 ss.

1. Precedenti, origine e linee evolutive

1.1 Le origini della disposizione e il dibattito alla Costituente

Rappresentazione emblematica, non soltanto nell’ottica del diritto civile, dello stesso concetto di diritto soggettivo, la proprietà privata ha sempre occupato un ruolo centrale nel nostro ordinamento (così come in altri). Si pensi anche soltanto alle norme in tema di proprietà presenti nel c.c. del 1865, che disciplinava dettagliatamente l’istituto, sul quale tutto il codice era del resto impostato, al punto che il II libro era dedicato al regime «dei beni, della proprietà e delle sue modificazioni» e il III si occupava «dei modi di acquistare e trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose». Le Carte costituzionali, per parte loro, completavano il quadro garantistico, sancendo il carattere sacro e inviolabile della proprietà privata.

Costituisce pertanto la conferma dell’importanza del tema il controverso dibattito svoltosi in sede di Assemblea Costituente. L’analisi storica e politica conferma la radicale contrapposizione, emersa in seno alle diverse forze politiche, relativamente alla funzione economica e sociale della proprietà. Una corrente di pensiero, di ispirazione cattolica, era favorevole ad assegnare alla proprietà privata, quale espressione del «diritto soggettivo della persona umana», un ruolo fondamentale nel contesto del sistema economico e della tutela dei diritti soggettivi. Altra e contrapposta tendenza, di ispirazione marxista, si muoveva nella prospettiva di sancire il riconoscimento costituzionale soltanto alla proprietà pubblica, appartenente allo Stato, oppure ad organismi collettivi o cooperative queste ultime diffuse nelle Regioni governate da forze politiche di sinistra.

Le discordanti visioni politiche ed economiche finivano per attribuire alla proprietà funzioni diverse. I sostenitori del sistema capitalistico e del libero mercato identificavano nella proprietà tutto lo spazio che l’ordinamento concede «alla signoria dell’individuo» nella sfera economica, sia sotto il profilo statico dell’utilizzazione del bene, sia sotto il profilo dinamico della libertà di agire economicamente, di acquisire i beni, di alienarli, di vincolarsi verso i terzi mediante i rapporti obbligatori. La contrapposta corrente di pensiero affermava, invece, la prevalenza delle «forze del lavoro» ed esaltava i valori sociali sui quali avrebbe dovuto fondarsi la Repubblica, riconoscendo la funzione insostituibile della proprietà personale, ancorata all’istituzione di una «Repubblica di agricoltori indipendenti».

Il dibattito, che vide confrontarsi le diverse ideologie, si sviluppò su tre piani distinti. Il primo era relativo all’esame dell’intero progetto della Costituzione repubblicana (elaborata dalla Commissione dei 75). Il secondo, invece, concerneva l’impostazione teorica e politica relativa alla funzione della proprietà consacrata nella Carta costituzionale (ed elaborata essenzialmente da Togliatti) e, in particolare, l’esame del Titolo III della Parte I della Costituzione (relativa all’esame dei problemi dell’economia con specifico riferimento all’analisi dei modelli economici e sociali diffusi in quel periodo storico). Infine, il terzo piano cui si accennava atteneva alla formulazione della disposizione in esame.

La disciplina elaborata in sede costituente rappresentava il risultato del lavoro della I e della III Sottocommissione, entrambe impegnate sulla disciplina della proprietà, benché in una diversa prospettiva: la I, volta a individuare il nesso fra la proprietà e i diritti fondamentali della persona; la III, incaricata di definire la regola con riferimento ai rapporti economici e sociali. Così, proprio nell’intento di sancire il diritto di proprietà come garanzia costituzionale riconducibile ai diritti fondamentali, Dossetti proponeva di distinguere nettamente il regime della proprietà personale, frutto del lavoro e del risparmio, volto a garantire la libertà e l’affermazione della persona e della sua famiglia, dal regime della proprietà dei beni strumentali, finalizzata ad assicurare il coordinamento della vita economica, tutela del diritto alla vita, al lavoro e al benessere per tutti. Non tardò ad emergere così la difficoltà tecnica di armonizzare i tre obiettivi: riconoscere la natura costituzionale al diritto di proprietà, connettere il diritto di proprietà costituzionalmente tutelata al lavoro e al risparmio, elaborare un modello di proprietà alternativo a quello civilistico, finalizzato alla realizzazione di un progetto di gestione economica delle risorse pubbliche e private.

La difficoltà di contemperare le diverse esigenze costituiva anche un indice della rilevanza, ed anzi del valore centrale che i costituenti attribuivano alla proprietà, da taluno ancora intesa alla stregua dei diritti fondamentali ovvero quale strumento essenziale per garantire la libertà e l’indipendenza della persona. Un punto di convergenza poteva rinvenirsi nell’idea di una garanzia individuale di una sfera di azione autonoma identificabile con la proprietà e con i limiti che tale tutela costituzionale avrebbe dovuto avere. L’idea era, tuttavia, ancora generica, sicché non si riuscì a raggiungere un accordo chiaro e puntuale, dal momento che non si riteneva possibile porre limiti all’esercizio del diritto, senza aver prima risolto l’annoso problema relativo

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alla necessità o anche soltanto opportunità che la Carta fondamentale distinguesse tra forme di proprietà riconosciute e proprietà non garantite a livello costituzionale.

Il processo di formulazione della disposizione proseguì così in sede di Assemblea, con la presentazione di emendamenti, risentendo della preliminare esigenza di definire l’assetto del governo dell’economia al fine di determinare il contesto in cui il problema della proprietà privata avrebbe dovuto collocarsi. Né mancavano, da parte di costituenti di matrice comunista, emendamenti ove si proponeva un modello economico di tipo sovietico caratterizzato dall’intervento dello «Stato per coordinare ed orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale»: una proposta inaccettabile per la maggioranza dell’Assemblea, la quale manifestava forte diffidenza verso i pretesi vantaggi di tale modello (che non sembrava offrire soluzioni concretamente costruttive). Rigettati tutti gli emendamenti proposti, l’art. 38 del progetto divenne così l’art. 42 senza subire modifiche.

Il rapido excursus storico-politico vale a porre in luce l’esigenza, avvertita in sede di Assemblea Costituente, di disciplinare la proprietà in relazione a precisi obiettivi di natura economico-sociale. Il risultato dell’appassionato dibattito è in una nozione di proprietà, riconosciuta e garantita dalla Costituzione, che non soltanto si riallaccia alla tradizione civilistica, ma sembra veicolare quel «sentimento del diritto soggettivo», in cui sono richiamate le idee forza del liberalismo europeo, come «diritto di partecipazione alla organizzazione e sviluppo della vita economica». In questo ruolo partecipativo, il proprietario è tutelato, sicché, «la ratio della tutela costituzionale non è tanto la sua personalità quanto la funzionalità del sistema socio-economico».

La tutela proprietaria si atteggia così a presupposto essenziale di un ordinamento che accetta l’economia di mercato. Il contenuto del diritto può essere inciso solo nel conflitto con altri valori costituzionali ritenuti prevalenti e il legislatore in tale giudizio è soggetto al controllo sulle modalità con cui tale bilanciamento è avvenuto. Quello che, con formula più suggestiva che descrittiva, è stato definito «terribile diritto», non è «pura forma né puro concetto ma un nodo di sentimenti, certezze speculative, interessi grezzi», di cui il legislatore non può non farsi carico alla luce, in primo luogo, dell’intero disegno costituzionale.

1.2 La disciplina costituzionale della proprietà nel sistema del diritto civile

Le difficoltà che la riflessione giuridica sul diritto di proprietà è inesorabilmente destinata a incontrare sul piano della teoria generale, muovendo innanzitutto dai dati normativi offerti dal sistema del c.c., non sembrano diminuire ove si adotti la prospettiva costituzionale della disciplina della proprietà privata. Del resto, appare già sufficientemente complesso il tentativo di riordino legislativo, tentando di stabilire quante volte e in che modo una copiosissima legislazione speciale, nelle materie più varie, abbia dato attuazione alle regole di fondo (o se si preferisce, ai principi) della Carta fondamentale.

È dunque soltanto apparente la maggiore facilità di ricostruzione della coerenza del sistema (in materia di diritto di proprietà, ma in particolare della proprietà privata) che offrirebbe il dato costituzionale, rispetto al passato, che imponeva un’elaborazione (di tipo dogmatico) fondata sull’architettura del c.c. e sulle teorie con cui la dottrina aveva preparato l’edificazione dell’impianto normativo espresso dalla codificazione.

Premesso che il diritto di proprietà costituisce per i giuristi innanzitutto una figura astratta del pensiero, della quale la cultura giuridica si serve per poter organizzare discorsi di tipo sistematico e generale, è evidente che mai come in tema di proprietà la ricostruzione giuridica dell’istituto non possa che procedere in concomitanza con un’analisi di tipo storico del concetto stesso.

Il discorso vale evidentemente tanto per il sistema del diritto di proprietà delineato dal c.c. - che, non a caso, si ritiene comunemente tramontato o comunque soppiantato dalla legislazione di settore - quanto per l’assetto normativo della proprietà privata nella chiave costituzionale. Qualsiasi tipo di impostazione sistematica dello studio del diritto di proprietà non può dunque che ricondursi alla storia e, più in particolare, alla cultura e ai valori vigenti in un determinato periodo.

Ancor più che in altri settori disciplinari è perciò ardua una ricostruzione sistematica dell’intero istituto, in cui si riesca a comporre in modo armonico le regole costituzionali, quelle del c.c. e la multiforme legislazione speciale che, nei più vari ambiti, ha enormemente arricchito il quadro della disciplina della proprietà privata. Infatti, al prevalente momento politico, individuabile nel dettato costituzionale (cui s’è fatto appena cenno), fa riscontro il momento essenzialmente tecnico, anch’esso peraltro inscindibile dalle connotazioni ideologiche, del dettato codicistico. A tale quadro si aggiunge l’occasionalità della legislazione speciale (non sempre in linea con il disposto costituzionale e perciò puntualmente sottoposta al vaglio della Corte, come si avrà modo di vedere nel prosieguo), che contribuisce al carattere asistematico della disciplina. Le diverse impostazioni metodologiche si rivelano pertanto decisive in qualsiasi studio in materia, fermo

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restando che la disciplina costituzionale non può eludere il suo ruolo di riferimento fondamentale per il controllo di logicità e ragionevolezza di ogni operazioni ermeneutica. ...

1.4 Segue: ideologia e sistematica della proprietà «funzionalizzata»

Il tentativo di comprendere il senso del riferimento costituzionale alla funzione sociale non può trascurare il retroterra, sia pur sommariamente delineato, di natura ideologica e sistematica. Certamente non è difficile rinvenire gli echi della tradizione cattolica, che riporta la funzione sociale all’«ordine naturale dell’economia», la quale sancisce «non soltanto il diritto di appropriazione privata, ma il diritto di tutti all’uso comune dei beni».

Questo tipo di interpretazione della nozione di funzione sociale determina, inevitabilmente, conseguenze pratiche ovvero, secondo un’autorevole opinione, «la funzione sociale appare operante, in maniera prevalente se non esclusiva là dove attorno ai beni economici in proprietà si instauri un rapporto che sollecita l’altrui collaborazione nell’utilizzazione della cosa», nel senso «di un particolare modo di essere dell’individuo in confronto degli altri» e della necessità di valutare secondo tale criterio «gli atti del dominus compiuti nell’ambito dei rapporti connessi all’utilizzazione del bene o dei beni che sono oggetto del diritto di proprietà».

Sempre fra ideologia ed esigenze della sistematica, si rinviene la ratio della funzione sociale anche nell’esigenza di garantire la libertà e l’affermazione della persona. Riconosciuta, pertanto, l’importanza e la rilevanza della funzione sociale come principio ordinatore della disciplina della proprietà, si ritiene che alla stregua di tale criterio si possa e si debba operare ove sorga un «problema di controllo dell’esercizio di poteri proprietari in forme tali da poter determinare situazioni di conflitto con l’interesse della collettività».

Che l’art. 42 Cost. non sia formulato secondo i canoni delle enunciazioni civilistiche, in quanto in tale prospettiva la norma risulterebbe assai poco significativa, è un dato pressoché indiscutibile. Si è detto allora correttamente che «il problema non è quello della formulazione degli enunciati costituzionali, ma quello degli orizzonti dell’apparato ermeneutico che l’interprete è disposto a porre all’opera». Neanche è mancato chi ha fatto osservare come, a bene vedere, nel testo costituzionale, la parola proprietà sia mutevole, quanto al suo significato, almeno se ci si pone nella prospettiva civilistica pura.

Considerando come la stessa Corte costituzionale, in realtà, abbia esteso la garanzia prevista per la proprietà privata ad altre situazioni di appartenenza (non coincidenti con il diritto di proprietà), una corretta concezione è incline a ritenere che il termine proprietà privata sia nella Costituzione, non soltanto di significato più ampio rispetto a quello che può avere nel codice civile, ma anche riferibile a problemi e tematiche assolutamente estranee a quelle considerate dai conditores del codice».

Con riferimento al dettato costituzionale, possono distinguersi senza particolari difficoltà i due profili relativi, rispettivamente, alla interpretazione costituzionalmente adeguata del concetto di proprietà privata e alla garanzia costituzionale della stessa. Chi ha attentamente ricostruito gli itinerari della dottrina, alla ricerca di un’interpretazione costituzionalmente adeguata del sistema stesso del diritto di proprietà, ha fatto notare, come la funzione sociale abbia svolto un duplice ruolo. Essa ha costituito il centro focale delle varie forme e discipline dei beni ricadenti nella proprietà privata e, d’altro lato, ha contribuito a ridurre (o forse a neutralizzare) la barriera costituita dalla eccezionalità dei limiti alla proprietà privata, che aveva impedito di tenere conto nelle ricostruzioni del diritto di proprietà in chiave di teoria generale - in sostanza, nella prospettazione dogmatica dell’istituto - delle diverse discipline di conformazione della proprietà espresse dalle leggi speciali sempre più numerose, mentre sul piano ermeneutico, le norme costituenti un limite alla proprietà dogmaticamente intesa avrebbero incontrato le preclusioni e comunque le strettoie che la disciplina generale dell’interpretazione della legge riserva appunto alle norme di natura eccezionale.

Si deve a pionieristici studi (esemplari quelli di Rodotà, seguiti, in diverso modo evidentemente dalle riflessioni di Rescigno e di Sacco) il dischiudersi di nuove prospettive, che avrebbero consentito l’applicazione anche analogica delle disposizioni che, in apparente contraddizione logico-sistematica all’enunciazione generale della massima libertà di godere e disporre del proprietario (di cui all’art. 832 c.c.), stabilivano una serie di «limiti», da considerarsi, nelle più moderne prospettazioni, elementi strutturali e fisiologici di un determinato modo di essere del tipo di proprietà privata disciplinata dal legislatore, in termini di disciplina o regime giuridico del bene.

Fondamentale risultava così l’impostazione delle riflessioni di Pugliatti, il quale attribuiva al concetto di funzione sociale della proprietà privata il compito di sintetizzare, costituendone il comune denominatore, le

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discipline degli altrettanti tipi di proprietà privata, diversi al punto da suggerire e legittimare l’uso del concetto al plurale. La funzione operava così dall’esterno, quale direttiva indirizzata al legislatore per la conformazione della proprietà nelle diverse normative di settore. Altri ha tentato di concretizzare l’idea della funzione sociale espressa dalla Costituzione alla luce dei principi (ovvero dei valori) del welfare, prendendo in considerazione il costo sociale relativo alla utilizzazione e distribuzione delle risorse. Appare, del resto, abbastanza evidente che l’affermazione del requisito della funzione sociale non implichi un’opzione ideologica precisa nel senso del produttivismo e del benessere economico quali punti di riferimento di una determinata filosofia politico-sociale.

1.5 Segue: funzione sociale e limiti ai diritti del proprietario

Nella difficoltà di offrire una concretizzazione alla formula funzione sociale mediante il riferimento ai costi e ai benefici dello stato sociale (ovvero, s’è detto, del welfare), l’espressione costituzionale veniva così collegata ai compiti che la Carta fondamentale assegna alla Repubblica, con particolare riferimento al raggiungimento dell’eguaglianza cosiddetta «sostanziale» (di cui all’art. 3, 2° co., Cost.). Se poi si identifica la funzione sociale con riferimento, non tanto all’istituto proprietario, ma al «sistema di limiti», la funzionalizzazione non atterrebbe più alle facoltà dominicali, ma appunto alle sue limitazioni, che costituirebbero, in ultima analisi, la negazione delle facoltà dominicali intese nel senso più tradizionale.

Tale lettura è stata tuttavia ritenuta da taluno troppo «estremistica», al punto da collocarsi fuori dello spirito compromissorio che aveva dato vita al testo costituzionale, in quanto «rifiuta di scorgere i valori che si fondano sulle condotte economiche individuali con i quali gli altri valori vanno contemperati». Alla luce del panorama attuale, e discorrendo in termini socio-economici, anche la scelta di attribuire senz’altro prevalenza ai valori costituzionalmente rilevanti, che rappresentano interessi di ordine collettivo rispetto a quelli più direttamente imputabili all’individuo e, quindi, alla concezione soggettivistica della proprietà privata, non soltanto pone un problema di rapporto con lo spirito della Costituzione (oltre che con il suo dettato, in particolare dell’art. 42), ma rischia di apparire anche incongrua rispetto alla cosiddetta economia sociale di mercato, che fa capo a modelli, i quali «prevedono tutti un sistema economico concorrenziale e non può darsi concorrenza se non si riserva e si garantisce istituzionalmente che la gestione economica dei beni sia affidata per una porzione piuttosto larga a scelte individuali di tipo proprietario».

Taluno, in dottrina, ha segnalato addirittura il rischio di incorrere in un vero e proprio errore logico, celato nella confusione fra la funzione sociale del limite e la funzione sociale invece della proprietà tout court. Pertanto, è assolutamente ragionevole che il costituente, nella consapevolezza della necessaria indeterminabilità del valore affidato all’espressione funzione sociale, abbia deciso di demandare al legislatore ordinario la realizzazione di tutto ciò che poteva essere compreso, a seconda delle condizioni socio-economiche e delle scelte di politica del diritto, in detto valore, istituendo, in un certo senso, una sorta di filtro giuridico fra l’enunciazione costituzionale e la sua concreta attuazione (diversamente da quanto accade per altri valori costituzionali dotati di forza normativa tale da essere direttamente operanti nei rapporti e che possono costituire, quindi, oggetto immediato dell’attività dell’interprete).

In tal senso, se da un lato non dovrebbero trovare cittadinanza nel nostro ordinamento normative di settore che non realizzino, nello specifico e in modo concreto, la funzione sociale prevista dal costituente, dall’altro si deve convenire con chi ha affermato che l’assegnazione al legislatore ordinario del compito di promuovere la funzione sociale vincola l’interprete a dedurre significato e operatività della «funzionalizzazione» da un’interpretazione sistematica estesa all’intera normativa in materia di proprietà, che dovrà pertanto risultare coerente.

La funzione sociale della proprietà privata finisce dunque per identificarsi nella stessa disciplina del singolo tipo di bene, che evidentemente non può che contraddire alla logica - si direbbe meglio, la mistica - della proprietà privata apparentemente desumibile dalla lettura delle disposizioni generali del c.c. in questa materia. Il criterio fondamentale adottato dalla Costituzione, in altri termini, si rifletterebbe sullla disciplina dei beni anziché su quella del diritto di proprietà, frammentato quest’ultimo, ormai inesorabilmente, nella vastissima legislazione di settore, che incide direttamente sull’uso e sulla circolazione dei beni di proprietà privata.

Sul versante poi dei limiti della garanzia costituzionale del diritto di proprietà, un ostacolo può essere costituito dalla concezione, piuttosto diffusa, secondo la quale gli interventi conformativi attuati dal legislatore ordinario, proprio in quanto mirati sulla disciplina dei singoli beni e diretti a realizzare la funzione sociale prevista nella Carta fondamentale, sarebbero sempre legittimi. A parte lo svuotamento di significato della formula costituzionale che verrebbe a determinarsi ove si ritenesse che qualsiasi intervento del legislatore

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ordinario realizzi di per sé la funzione sociale, è comunque necessario rammentare la distinzione fra interesse pubblico e interesse «sociale». È evidente, infatti, che la disciplina della proprietà privata contenuta nella legislazione di settore risponde sempre a un interesse particolare (di un gruppo o di una categoria) di soggetti che non identificano o esprimono, nel loro insieme, un interesse generale. Da un altro punto di vista, deve segnalarsi l’atteggiamento di cautela della Corte costituzionale, che soltanto eccezionalmente avrebbe avuto modo di valutare il carattere «funzionale-sociale» delle scelte operate dal legislatore ordinario.

2. Commento

2.1 La funzione sociale della proprietà privata in tema di: (a) locazioni

L’art. 42, 2° co., Cost. ha costituito il fondamento del regime vincolistico delle locazioni di immobili

adibiti all’esercizio di attività commerciale o artigianale (ai sensi della l. 1115/1971) e nello stesso senso ha ragionato, successivamente, la Corte con riferimento al regime di blocco dei canoni delle locazione degli immobili urbani adibiti ad uso abitativo (ai sensi della l. 1444/1963 e delle successive disposizioni di proroga). Dopo l’introduzione della l. 392/1978 sull’equo canone, la Corte è intervenuta più volte, sempre ritenendo legittime le disposizioni censurate: ad esempio, quelle che consentono al proprietario/locatore di riottenere la disponibilità dell’immobile, purché sia proprietario da almeno due anni e dimostri la necessità propria di adibire l’immobile ad uso abitativo o commerciale; così come la norma che non prevede il diritto del locatore di immobile adibito ad uso diverso da quello abitativo di recedere anticipatamente dal contratto in regime transitorio, nel caso di mancata occupazione continuativa dell’immobile da parte del conduttore (art. 73, l. 392/1978). Nel 1988 la disciplina dell’equo canone (l. 392/1978) viene considerata dalla Corte nel suo complesso legittima, in quanto la compressione del diritto di proprietà del locatore sarebbe stata giustificata «dall’esigenza ancora attuale, di assicurare ai conduttori una adeguata stabilità sul godimento di un bene primario», sicché la normativa è intesa dalla Corte come «graduale passaggio dalla legislazione vincolistica alla nuova legge sulle locazioni urbane, che realizza un’equilibrata tutela dei contrapposti interessi dei conduttori e dei locatori». Sono, invece, le ulteriori proroghe che suscitano gli strali della Corte, che ritiene irrazionale la protrazione della normativa (eccezionale e temporanea) per lo sconfinamento rispetto al fondamentale criterio della funzione sociale.

(b) rapporti agrari

Più di una volta è stata sottoposta al vaglio della Corte la disciplina dei rapporti agrari (con riferimento, in primo luogo, alla l. 11/1971, recante la nuova disciplina dell’affitto di fondi rustici), ritenuta costituzionalmente illegittima nelle disposizioni che non prevedevano forme di rivalutazione periodica del canone, così come nella parte in cui venivano fissati i coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale, ai fini della determinazione del canone, in quanto la compressione del diritto dominicale ne avrebbe comportato quasi l’annullamento, riducendo il reddito in misura irrisoria. La normativa impugnata violava, specie in ragione dell’insufficienza dei coefficienti di rivalutazione [a volte onerosi per la proprietà della terra, a volte determinandone il reddito in misura irrisoria], gli artt. 42, 2° co., e 44, 1° co., Cost., «perché incide fortemente, sino ad annullarlo, su un diritto riconosciuto e garantito, talvolta addirittura da una specifica tutela». Legittime, invece, sono state ritenute dalla Corte quelle forme di limitazione del diritto del proprietario/concedente, il quale, non partecipando alle spese di coltivazione del fondo, vedeva compressi i suoi diritti alla ripartizione del prodotto.

(c) distanze nelle costruzioni

La funzione sociale della proprietà ha inoltre consentito di ritenere comprese nella disposizione dell’art. 42, 2° co., le norme sulle distanze nelle costruzioni, giustificabili appunto alla luce del criterio generale indicato dalla Costituzione.

(d) cave e vincoli urbanistici e/o paesistici

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Diversa la logica seguita dalla Consulta in relazione ai giacimenti di cava, così come ai vincoli urbanistici e paesistici. Per i primi, la tutela dell’interesse pubblico giustifica, costituendone secondo la Corte il fondamento, il regime autorizzatorio; per i secondi, il discorso è certamente più articolato, ma la giurisprudenza costituzionale si rivela costante e omogenea.

Vi è, evidentemente, un legame piuttosto stretto con la giurisprudenza in tema di espropriazione [...], ma in prima battuta si può rilevare che la Corte ha sempre, sin dall’inizio, ritenuto connaturali al diritto di proprietà la disciplina dello jus aedificandi e, quindi, i vincoli derivanti dalla normativa, di varia natura, in materia urbanistica ed edilizia. Sono rimaste storiche - a mo’ di pietre miliari, per così dire - le decisioni 55/1968 e 56/1968 [...], ove è stata sancita la legittimità dei limiti aventi per scopo una disciplina dell’edilizia urbana relativa alla immodificabilità di quelle aree che i piani destinano al trasferimento, in vista di trasformazioni programmate per diverse utilizzazioni del suolo, in considerazione della particolare natura e funzione dei piani.

Fra le cosiddette «limitazioni» all’esercizio della proprietà ovvero tra le disposizioni di natura conformativa del diritto un ruolo di primo piano è svolto dalle regole in materia di concessione edilizia che, senza scorporare il diritto dominicale dallo jus aedificandi, impone al proprietario di corrispondere un contributo a favore del Comune concedente, ritenuto in linea di principio ragionevole e in sintonia con l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale (oltre che politica). Il limite, perché non si sconfini nella illegittimità delle disposizioni in materia di concessione, è dato da quella sorta di bussola generale nelle mani della giurisprudenza costituzionale, costituita dal criterio della ragionevolezza.

Sempre l’interesse pubblico ha poi consentito di ritenere legittima la disposizione dell’art. 11, ult. co., l. 729/1961 (di proroga del termine per le occupazioni temporanee), per l’esigenza sopravvenuta di apportare modifiche ai progetti di costruzione di opere pubbliche già approvati.

La tutela del paesaggio, secondo l’art. 9 Cost., è stata poi posta in relazione ai vincoli relativi ai diritti sulle terre incluse nei parchi o riserve, con la conseguenza che, nella normativa in materia di terre di uso civico incluse in parchi e riserve, non incidendo sull’assetto proprietario, ma disciplinando il godimento «funzionalizzato» rispetto ad interessi generali, detti vincoli non sono stati ritenuti assoggettabili alle procedure di sdemanializzazione.

(e) servitù prediali

Di recente, infine, la Corte è intervenuta, utilizzando (anche) il disposto della norma costituzionale in esame, con una sentenza di tipo additivo in materia di servitù di passaggio coattivo a favore di un fondo non intercluso in considerazione delle esigenze dei portatori di handicap di accedere ad edifici destinati ad abitazione. La Corte ha ritenuto che l’impossibilità di accedere alla pubblica via, attraverso un passaggio coattivo sul fondo altrui si traduce nella lesione del diritto del portatore di handicap ad una normale vita di relazione (un diritto che trova peraltro espressione e tutela in una molteplicità di precetti costituzionali). Quanto alla espropriazioneespropriazioneespropriazioneespropriazione, il nocciolo della questione è la misura dell’indennizzoindennizzoindennizzoindennizzo dovuto al soggetto che si vede sottrarre coattivamente (in tutto o in parte) un bene immobile di sua proprietà. Con la sentenza . 348 del 2007, la Corte costituzionale ha stabilito che l’indennizzo cui lo Stato è tenuto in caso di espropriazione non può ritenersi legittimo se non consiste in una somma che si ponga in rapporto ragionevole con il valore del bene. In precedenza, la norma dichiarata incostituzionale prevedeva una indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 e il 30 per cento del valore di mercato del bene ed ulteriormente ridotta dall’imposizione fiscale.

Sezione II

I BENI PUBBLICI Appartengono necessariamente allo Stato e sono inalienabili (dunque, non possono essere acquistati dai privati neppure per usucapione) i beni del demanio pubblicodemanio pubblicodemanio pubblicodemanio pubblico: tali sono il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.

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Fanno parte del demanio pubblico e sono sottoposti al medesimo regime, solo se appartengono allo Stato o ad enti pubblici territoriali: le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico; i cimiteri, i mercati comunali. Ciò significa che tali beni possono anche essere di proprietà privata. Altri bene fanno parte del patrimonio indisponibilepatrimonio indisponibilepatrimonio indisponibilepatrimonio indisponibile dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Più precisamente: le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio. Infine, i beni che, pur appartenendo allo Stato e agli enti pubblici territoriali, sono destinati a dare un reddito costituiscono il patrimonio disponibilepatrimonio disponibilepatrimonio disponibilepatrimonio disponibile. Come tali, essi possono essere alienati essendo assoggettati alle regole del diritto privato.

Sezione III

I BENI COMUNI La dicotomia tradizionale beni privati/beni pubblici è stata messa in discussione, di recente, dalle teorie dei beni comunibeni comunibeni comunibeni comuni. Si tratterebbe di beni che non appartengono né a soggetti privati, né allo Stato inteso come persona giuridica pubblica. Anzi, per i beni comuni non si pone un problema di titolarità del diritto di proprietà vantato dagli stessi, quanto un problema di godimento di fatto dei medesimi da parte della comunità, in vista del pieno esercizio dei diritti fondamentali. La sintesi del dibattito e l’interazione tra diritti ed economia sono illustrate nel seguente saggio. L. RAMPA, Q. CAMERLENGO, I beni comuni tra diritto ed economia: davvero un tertium genus ?, in Politica del diritto, 2014, pp. 253 ss.

1. Dalla «tragedia dei comuni» all’attuale dibattito: una breve introduzione Negli anni Settanta un importante saggio di Paolo Grossi gettò un’inedita luce su di un tema, quale quello dei beni comuni, sul quale era da tempo calato il silenzio. Nel libro si dimostra come le variegate forme di possesso comune o collettivo delle risorse naturali fossero state da noi in gran parte abbandonate nel corso dell’Ottocento a causa di una legislazione incline a generalizzare la proprietà privata. Nel corso della seconda metà del Novecento si registra un seppur timido riavvicinamento al tema dei beni comuni, intesi come meccanismi di gestione economico-sociale idonei ad abbinare economia ed ambiente, ragioni della produzione e istanze di tutela dell’ecosistema. Nel precedente decennio, però, già Hardin aveva evocato la suggestiva immagine della «tragedia dei comuni» per descrivere il progressivo depauperamento delle risorse naturali imputabile ad un eccesso di consumo individuale di beni universalmente accessibili. Trent’anni dopo, fu contrapposta una «tragedia degli anticomuni», volta in questo caso a dimostrare il sottoconsumo ascrivibile all’azione di una pluralità di poteri di ingerenza su questi beni. Il tema dei beni comuni si muove nell’alveo tracciato dal costante confronto tra proprietà privata e proprietà pubblica. Per un verso, se si pensa alla scuola di Chicago, si esaltano i vantaggi in termini di efficienza dell’assegnazione di diritti ai privati, a scapito della tendenza dei pubblici poteri ad accumulare beni attraverso, in particolare, lo strumento delle espropriazioni. Altrove, invece, si enfatizzano i fallimenti del mercato cui porre rimedio con interventi regolativi e limitativi dell’esercizio di tali diritti, se non con vere e proprie forme di proprietà pubblica, come nel caso dei monopoli naturali.

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Tale dibattito ha tratto argomenti dai risultati delle ricerche del Premio Nobel Elinor Ostrom che, oltre a chiarire concettualmente il significato economico dei comuni (inescludibilità dell’accesso ma rivalità nel consumo), da lei ridefiniti common pool resources, ha anche messo in evidenza come la loro gestione efficiente potesse avvenire sotto varie combinazioni di assegnazioni dei diritti di proprietà, e non necessariamente solo mediante proprietà pubblica, né tantomeno mediante esclusivi diritti privati. Pertanto non pare esservi alcuna ragione tecnica o economica per confondere beni comuni a libero accesso con proprietà collettive che ne facciano uso comune ed esclusivo. Il suo contributo da economista, come più in generale quello dell’institutional economics e dell’analisi economica del diritto, possono gettare qualche luce sul dibattito chiarendo i limiti non solo di definizioni troppo estese e generiche del genus beni comuni, ma anche di affrettate conclusioni circa i regimi proprietari socialmente più appropriati degli stessi e circa i diritti fondamentali che sono chiamati a soddisfare.

In questa diatriba si inserisce l’analisi economica del diritto che, da un lato, dimostra la portata relativa e contingente dei rimedi ai fallimenti del mercato (sicché, sostenere la natura necessariamente pubblica o comune di determinati beni può avere senso solo in un determinato contesto sociale e giuridico), e, dall’altro, revoca in dubbio la capacità delle pubbliche istituzioni di porre rimedio sempre e comunque ai predetti fallimenti (si pensi alla leva fiscale, a possibili usi strumentali dei beni pubblici in nome di interessi particolari, o anche ai fenomeni di rent seeking): «in questa più articolata impostazione, dunque, l’analisi economica del diritto invita a comparare i benefici e i costi della proprietà pubblica e di quella privata: nella prima, la negoziazione avviene nell’ambito del processo democratico interno alle istituzioni; nella seconda, la negoziazione ha ad oggetto lo scambio di risorse sul mercato».

2. L’attenzione verso i beni comuni negli anni delle privatizzazioni

Il tema dei beni comuni è esploso contestualmente allo sviluppo crescente dei processi di privatizzazione e di liberalizzazione che hanno investito principalmente (anche se non solo) le public utilities gestite da imprese pubbliche nazionali o municipali e aventi, in molti casi, la natura di monopolio naturale. Non a caso, nel nostro paese i referendum promossi in nome di essi riguardavano l’abrogazione della norma che prevedeva l’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica, consentendo la gestione in house solo ove ricorrano situazioni del tutto eccezionali; nonché di quella che stabiliva la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, nella parte in cui prevede che tale importo includa anche la remunerazione del capitale investito dal gestore.

Le norme in oggetto, in effetti, avrebbero potuto determinare un esteso trasferimento della proprietà e della gestione di beni, già oggetto di proprietà pubblica, in capo ad attori economici privati. Il caso paradigmatico dell’acqua riassume in sé queste problematiche. Questo bene, infatti, viene distribuito mediante reti che hanno la caratteristica di monopolio naturale e che ne hanno determinato l’assimilazione alle altre public utilities sia nella letteratura economica che nei programmi governativi di liberalizzazione.

La possibile privatizzazione, allontanata dall’esito della consultazione referendaria sfociata nell’abrogazione delle relative disposizioni legislative, ha investito infatti un bene ascrivibile, in quanto risorsa naturale riproducibile e in natura accessibile a tutti, nel novero dei commons e, per di più, spesso affidato alla gestione pubblica in quanto bene di consumo destinato al soddisfacimento dei bisogni essenziali delle persone.

Lucarelli, uno dei sostenitori più convinti della teoria dei beni comuni, immagina come alternativa «politiche pubbliche locali in grado di interpretare, a tutela dei soggetti più deboli e indifesi, la trasformazione dello Stato sociale, in un quadro di depauperamento e deterioramento delle risorse comuni, nel quale il pubblico non gestisce più i beni di sua proprietà e i beni comuni sono sistematicamente messi sul mercato, a vantaggio di pochi». In sostanza il rifiuto della politiche di liberalizzazione e privatizzazione viene motivato sia in termini di finalizzazione alla tutela dei soggetti più deboli congiuntamente a quella della tutela, à la Ostrom, del bene inteso come risorsa deteriorabile. Il Manifesto di Mattei descrive chiaramente il nesso che, a suo giudizio, avvince il tema dei beni comuni al processo di privatizzazione. Secondo questa teoria, le privatizzazioni comportano una lesione, pro quota, del diritto vantato dai singoli individui sui beni comuni oggetto del trasferimento di proprietà dal pubblico al privato. Analogo è il processo inverso, quando lo Stato espropria un bene privato per devolverne la proprietà ad un ente pubblico. Vi è, tuttavia, una grande differenza. Solo nel secondo caso la Costituzione, all’art. 42, terzo comma, configura una serie di limiti e condizioni. Dunque, la proprietà privata è presidiata dalla riserva di legge, dalla previsione di un indennizzo, dalla vocazione finalistica dell’espropriazione quale misura preordinata al soddisfacimento di interessi generali. Nulla di tutto ciò, invece, assiste i beni comuni di fronte a decisioni di privatizzazione.

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Nell’impianto teorico edificato da Mattei, lo Stato (al pari degli altri enti pubblici) non vanta alcun diritto di proprietà sui beni comuni. In effetti, egli sostiene che «in un processo di privatizzazione il governo non vende quanto è suo, ma quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità». Qui appare chiara l’assunzione di una sorta di titolarità collettiva, non limitata una particolare collettività ma estesa a tutta la comunità dei cittadini, e anteriore alla proprietà statale giuridicamente stabilita. Ed aggiunge che «ogni processo di privatizzazione deciso dall’autorità politica attraverso il governo pro tempore espropria ciascun cittadino (…) della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell’espropriazione di un bene privato». Soccorre al riguardo la metafora del maggiordomo. Il governo, nelle privatizzazioni, si comporta come quel maggiordomo che vende l’argenteria del suo datore di lavoro per colmare debiti personali. Anziché servire lealmente il proprio dominus, il maggiordomo persegue interessi propri, correlati a pregressi comportamenti erronei o azzardati, che lo hanno esposto al rischio di un impoverimento personale. Lo stesso vale per un governo, che nella gestione dei beni comuni dovrebbe essere servitore del popolo sovrano: il governo è chiamato a “servire bene” il popolo, alla stregua di un accorto amministratore fiduciario «e certo non proprietario, libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente». Invero – prosegue Mattei – i beni comuni, una volta alienati, «non esistono più, e non sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che dovesse rendersi conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura, cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo». La tradizione liberale classica garantisce, dunque, solo la proprietà privata in caso di espropriazione, ma non i beni comuni in caso di privatizzazione. Secondo questo approccio, il processo di privatizzazione dei beni comuni non è che il modo attraverso il quale i governi, incapaci di gestire in maniera appropriata e accorta le risorse acquisite principalmente tramite la leva fiscale, tentano di estinguere il copioso debito accumulato negli anni.

In estrema sintesi, la tesi sostenuta nel Manifesto di Mattei è la seguente: la categoria dei beni comuni è chiamata a svolgere una inedita funzione costituzionale, quale quella di «tutela del pubblico tanto nei confronti tanto dello Stato quanto del potere privato». La categoria dei beni comuni assurge dunque a concetto che rispecchia l’ideale di una appartenenza collettiva dei beni indispensabili alla vita associata e, a ben vedere, alternativa sia alla proprietà privata che a quella pubblica in senso classico.

Sicché, al di fuori di tale nozione non ci sarebbe spazio per dare ingresso e tutela alle istanze sociali e collettive intrinsecamente legate ai beni di cui la collettività ha bisogno per poter concepire la stessa vita associata.

L’esame del dibattito recente mette in evidenza come, tuttavia, le accezioni del termine beni comuni possano essere molteplici rispetto allo scopo di redigerne un elenco significativo sia sotto il profilo giuspubblicistico che sotto quello della politica economica e del diritto, il che richiede un’analisi più accurata al fine di fondare una teoria utilizzabile sotto entrambi i profili.

3. I beni comuni e il diritto positivo Il diritto positivo non contempla tali beni. Nella giurisprudenza costituzionale, poi, sono ricavabili solo alcuni cenni, evidentemente non sufficienti. La categoria dei beni comuni non è affatto una novità. Di essa vi è già traccia nel diritto romano, a cominciare dalle res communes omnium tratteggiate da Marciano nel terzo secolo d.C. Al riguardo, la mente corre immediatamente alle res nullius, che però, a differenza dei beni comuni, sono suscettibili di appropriazione individuale. La dottrina internazionalista tende a considerare il mare libero o internazionale non come una res nullius (in quanto bene non occupabile), bensì alla stregua di una res communis omnium, dal momento che nessun soggetto può vantare uno ius excludendi alios. In relazione a tale risorsa comune vige il principio della libertà dei mari in forza del quale tutti gli Stati hanno un eguale diritto a trarre da esso tutte le utilità che questo può offrire. Nel contempo, però, gli Stati non possono utilizzare il mare internazionale sino al punto di eliminare le chances di utilizzo da parte degli altri.

In epoca meno risalente si sono comunque affermate esperienze di condivisione di beni in qualche misura associabili a quelli qui considerati. Al di fuori dei confini nazionali si pensi alle marche tedesche e ai commons inglesi su cui il diritto consuetudinario riconosceva diritti di uso benché essi ricadessero formalmente nella titolarità dal Sovrano. Nei contesti di common law la tutela giuridica delle res communes derivanti dal diritto consuetudinario è stata ricondotta alla cosiddetta Public trust doctrine. Negli Stati Uniti essa ha ispirato le sentenze di diverse Corti federali contro le pretese di privatizzazione di importanti risorse

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pubbliche. In molti altri paesi, leggi e sentenze ne hanno adottato lo spirito a fondamento di norme di difesa ambientale, estendendone l’applicazione se non, addirittura, riconducendola al diritto naturale, come nel caso di sentenze delle corti supreme indiana e filippina. E già in questi casi il divario rispetto ai beni pubblici tende ad affermarsi con sufficiente chiarezza. Così, in Inghilterra per common land non s’intende designare un bene immobile di proprietà statale o pubblica, essendo in realtà di proprietà di privati o enti denominati partition units. Quanto all’Italia, si pensi alle partecipanze emiliane. Trattasi di un’antica forma di proprietà collettiva di terreni interessati a bonifiche. Senza trascurare il maso chiuso quale istituto, diffuso nell’area alpina germanofona ed in Trentino-Alto Adige, diretto a garantire l’indivisibilità della proprietà agricola. Vicino alla morfologia del bene comune è pure l’uso civico, quale diritto di godimento su beni immobili, esercitabile in varie forme e spettante ai membri di una collettività, su terreni di proprietà comunale o anche di terzi, non derivante da un negozio giuridico in quanto radicato nella prassi collettiva.

Sul piano legislativo, si è pervenuti nel nostro Paese ad un tentativo di codificazione attraverso l’istituzione di una apposita commissione. Più precisamente, la Commissione Rodotà, istituita con d.m. 21 giugno 2007 per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, presentò nel febbraio 2008 una proposta di articolato, poi caduta nel nulla a causa della prematura interruzione della legislatura. In questo testo, la categoria dei beni comuni include «le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». In sostanza si potrebbe dire che il rapporto tra beni comuni e diritti fondamentali ha la stessa natura di quello tra mezzi e fini. A questa definizione generale si accompagnò una ricognizione dei beni comuni, sia pure non esaustiva: invero, secondo tale proposta «sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate».

4. Beni comuni, beni pubblici, beni collettivi nel dibattito giuspubblicistico Si registra una diffusa inclinazione a considerare i beni comuni un tertium genus rispetto ai beni privati e a quelli pubblici. E se il divario rispetto ai beni privati è persino autoevidente, in quanto allude ad una netta distinzione tra ciò che è proprio di un individuo (dimensione individualistica) e ciò che è proprio di una comunità (dimensione comunitaristica), la comparazione con i beni pubblici si rivela alquanto problematica. Un tempo la distinzione in oggetto poteva non avere senso. È stato osservato che «fin tanto che lo Stato ha gestito i beni di sua proprietà, limitando il ricorso all’istituto della concessione per i beni demaniali (gestione) e impedendo facili processi di sdemanializzazione (circolazione) non risultava di immediata necessità distinguere i beni comuni dai beni pubblici». Oggi non è così. Già a livello di prima approssimazione, si intuisce che i beni pubblici e quelli comuni condividono la medesima aspirazione a soddisfare interessi che si proiettano oltre la mera sfera individuale per abbracciare l’intera comunità di riferimento. Detto in breve, i beni comuni e quelli pubblici, diversamente dai beni privati, afferiscono alla sfera del sociale, piuttosto che al campo dominato dai bisogni individuali. È stato autorevolmente scritto che i beni pubblici sono funzionalmente diretti «alla immediata soddisfazione di bisogni considerati d’importanza sociale». Il contributo classificatorio di Massimo Severo Giannini rappresenta un irrinunciabile punto di partenza. I beni pubblici possono essere distinti in beni pubblici in senso soggettivo, ove si sottolinei l’appartenenza ad un pubblico potere, e beni pubblici in senso oggettivo, se rileva la loro differenza di regime rispetto ai beni privati. Quasi scontato, a questo punto, appare il riferimento al demanio e ai beni patrimoniali indisponibili e disponibili, di cui al codice civile.

Quanto, in particolare, ai beni pubblici in senso soggettivo, Giannini opera una ulteriore distinzione tra beni a fruizione collettiva (il bene, pur appartenendo allo Stato è goduto da altri) e beni a fruizione imprenditoriale (quando sono le imprese a goderne, e non la collettività). I beni collettivi coincidono con i cd. demani o domini collettivi e, dunque, rientrano nella categoria generale dei beni di uso civico. Essi sono utilizzati dai soli appartenenti ad una data comunità. Infine, i beni comuni «costituiscono una forma moderna di proprietà collettiva, poiché di essi la collettività ha l’effettivo godimento, mentre l’appartenenza al potere pubblico è in funzione di costituzione, conservazione, disposizione delle utilità collettive, delle utilità collaterali e della gestione del bene». Beni comuni sono, così, l’etere, l’acqua e l’aria, vale a dire «beni talmente importanti che, almeno sinora, non si è mai posto un problema di appartenenza».

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Giannini a questo punto individua le sostanziali differenze tra queste tre tipologie di beni non ascrivibili alla proprietà privata. I beni pubblici consentono la fruizione del bene stesso a chiunque secondo il bisogno. I beni collettivi sono destinati ad una platea circoscritta di consociati. Infine, per i beni comuni si prescinde dal problema della titolarità, essendo decisivo l’ordine di fruizione del bene. Rispetto a questo problema, lo Stato svolge un ruolo di ordine.

Napolitano osserva come la ricostruzione teorica di Giannini abbia individuato in nuce il nucleo del ragionamento economico sui fallimenti del mercato: «il suo discorso sui beni che rendono servizi indivisibili per natura o per scelta del legislatore o che, ancora, per la loro abbondanza naturale, consentono utilizzazioni libere a chiunque, presenta un’interessante consonanza con la teoria dei “beni pubblici puri” perché non escludibili e non rivali nel consumo». Sino a quel momento la scienza giuridica aveva omesso di considerare le ragioni economiche sottese al regime pubblicistico di determinati beni. Anzi, il più delle volte i cultori del diritto avevano abbracciato l’idea di «un’area di beni naturalmente e immancabilmente riservata alla mano pubblica». L’influenza esercitata dagli studi economici ha, così, contribuito a fornire inedite basi alla qualificazione dei beni pubblici in termini il più possibile oggettivi.

Nel Manifesto di Mattei si propugna l’elaborazione di una categoria giuridica dei beni comuni distinta rispetto alla tradizionale dicotomia proprietà pubblica/proprietà privata. Detti beni sono destinati ad operare «come strumenti politici e costituzionali di soddisfazione diretta dei bisogni e dei diritti fondamentali della collettività». Prima degli interessi individuali vengono gli interessi di tutti, «concepiti come un ecosistema di relazioni di reciproca dipendenza». Dunque, i beni comuni stanno in un rapporto di mezzi rispetto ai fini di tali diritti, intesi però più come diritti di un’intera collettività che dei singoli. È chiaro il divario rispetto allo spirito che anima la proposta della Commissione Rodotà. Invero, nella relazione di accompagnamento si legge che i beni comuni «esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità». Sicché, la natura dei beni comuni come mezzo viene vista in rapporto a diritti fondamentali della persona, certamente sociale ma non indistintamente compresa in una collettività generale, oltre che in funzione della garanzia di tali diritti alle persone future. Ora, è stato perspicuamente osservato che «prendere in considerazione i beni pubblici dal punto di vista delle loro utilizzazioni comporta l’apertura di un orizzonte difficilmente riconducibile a un ordine sistematico. Non soltanto perché i singoli tipi di beni sono assai diversi, ma anche perché sono compositi gli interessi incarnati nelle regole che presiedono alle loro utilizzazioni e soprattutto perché la dimensione dell’uso implica un confronto con la realtà che non risulta mai convenientemente traducibile in astratte categorie». Dunque, se è vero che la tassonomia concepita da Giannini in qualche misura risente di condizionamenti provenienti dagli studi condotti in ambito extragiuridico, e se è altrettanto indiscutibile che la teoria dei beni comuni, enfatizzando la dimensione fattuale rispetto a quella formale, tende ad affrancarsi dall’area di influenza delle categorie giuridiche, a questo punto appare logico indugiare sull’analisi economica dei beni qui considerati.

5. Beni pubblici e beni comuni nel dibattito economico

Com’è noto la distinzione tra beni pubblici, comuni e privati è fondata in economia sulle caratteristiche intrinseche o oggettive dei beni stessi e non sui titoli di proprietà. Essa è molto semplice e chiara in quanto si basa sulle proprietà di escludibilità/inescludibilità e di rivalità/non rivalità dei beni. Secondo questa distinzione un bene pubblico inescludibile e non rivale, un bene comune è invece inescludibile e rivale, mentre un bene privato è escludibile e rivale.

Per chiarire le implicazioni di queste distinzioni, consideriamo anzitutto il caso in cui queste proprietà non derivino da norme dell’ordinamento giuridico.

L’inescludibilità può essere dovuta a ragioni di ordine tecnico (ad esempio la fruizione del bene o servizio della difesa, come quello dell’aria atmosferica, non può essere impedito a nessuno) o di ordine economico (escludere qualcuno dal loro uso sarebbe troppo costoso in rapporto ai benefici che se ne traggono) Se un bene possiede questa caratteristica non può dunque essere oggetto di diritti di proprietà e di uso esclusivi, e pertanto di alienazione attraverso scambi sul mercato o contratti.

Un bene è poi rivale se, quando è goduto da qualcuno, è sottratto al consumo altrui. Tuttavia una definizione più generale comporta che l’aggiunta di un nuovo fruitore, provoca una diminuzione marginale del godimento altrui, ad esempio in termini di congestione. Per molti beni, come l’aria e il mare, ma anche le strade pubbliche non congestionate e le reti informatiche, tale perdita marginale risulta trascurabile se non nulla, sicché essi sarebbero da considerare non rivali, quindi pubblici piuttosto che comuni. Nel caso, invece,

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di congestione temporanea la perdita marginale non è trascurabile e la nitidezza della distinzione in termini di rivalità viene meno.

Ciò può valere anche in altri casi come quello della conoscenza. Se, infatti, la conoscenza in generale può definirsi non rivale, una nuova e specifica conoscenza può essere divulgata e conosciuta senza rivalità, ma il suo utilizzo a scopi produttivi o industriali può dar luogo a diritti esclusivi. Per queste ragioni (cogestione o esclusione a scopi specifici) gli economisti hanno adottato un’ulteriore distinzione tra beni pubblici puri e non puri.

Quanto all’assegnazione dei diritti di proprietà sui vari tipi di beni, essa viene valutata in funzione dell’efficienza, secondo il principio che essi devono essere attribuiti ai soggetti che sono in grado di maggiormente contribuire al benessere sociale. Ad esempio laddove si tratti di beni privati, trasferibili mediante scambi volontari, contratti o negozi, si ritiene che l’ordinamento giuridico debba favorire l’assegnazione a chi li valuta di più. Questo principio ha conseguenze piuttosto indeterminate nel caso che il diritto di proprietà è concepito come fascio di diritti separabili (ad esempio accesso, uso, trasferimento, gestione) piuttosto che come titolo unitario. Ma è essenziale, ai fini delle valutazione di efficienza sociale, che la loro assegnazione sia ben definita.

La dottrina e la giurisprudenza (almeno in Italia) non si sono quasi mai valsi dei criteri economici, preferendo distinzioni basate sui titoli di proprietà, ma li hanno riscoperti a proposito dei beni comuni grazie anche ai contributi del premio Nobel Elinor Ostrom. Gli esempi classici (anche se spesso molto discussi) di commons o di common pool resources, come foreste, spiagge, parchi, bacini idrici e fluviali, sono in sé inescludibili per motivi tecnici o per il costo eccessivo dell’esclusione, ma rivali. Limitandoci, al momento, a considerare solo le caratteristiche economiche o pre-giuridiche di tali beni, li definiremo natural commons. La proprietà di inescludibilità risulta rilevante poiché essa comporta libero accesso, particolari tutele del bene, particolari diritti e, in ogni caso, la fuoriuscita dalla sfera dei beni privati in senso stretto.

Meno chiaro è, nel dibattito in corso, il fondamento delle ragioni sottostanti alle particolari tutele e ai particolari diritti.

Per un economista non vi sarebbero dubbi che un bene pubblico puro, quando si tratti di un bene prodotto anziché di una res communis omnium, costituisca il fallimento del mercato più arduo da superare e che, per questo motivo, si raccomandi la sua fornitura da parte di istituzioni pubbliche e (nella maggior parte dei casi) un titolo di proprietà pubblica in capo ad esse. E da questa stessa ragione discende la sua inalienabilità, la sua indisponibilità e la sua natura di bene senza mercato o di res extra commercium.

La ragione fondamentale sta nella circostanza che la non rivalità comporta un’esternalità positiva anche a favore di chi non coopera nel fornirlo (il free rider o l’opportunista), determinando così un forte incentivo a non contribuirvi, sicché non vi sarebbe alcuna possibilità di garantirne la produzione e il consumo a livello socialmente efficiente sulla base della mera razionalità auto-interessata. Non a caso un modo molto frequente in letteratura (e nelle aule universitarie) di spiegarlo è costituito dal celebre Dilemma del prigioniero.

Che dire ora di un bene comune? Il modo più semplice di chiarirne la differenza rispetto a un bene pubblico puro sta nel cogliere la conseguenza della rivalità. Essa infatti riduce (se non elimina) l’esternalità positiva a favore del free rider, diminuendone l’incentivo a non contribuire. Non che questo risolva del tutto il problema dell’opportunismo, né la difficoltà della sua fornitura a livello socialmente efficiente; ma, certamente, si può dire che in questo caso la rende meno ardua.

Il contributo di Elinor Ostrom consiste nel mostrare, sia con argomenti teorici che attraverso una estesa analisi empirica, che, in questo caso, sono possibili molte soluzioni istituzionali, e combinazioni di diritti, che consentono di utilizzare ad un livello socialmente efficiente il bene. Ciò contro il punto di vista dominante secondo cui solamente i diritti di proprietà privata ne assicurerebbero un utilizzo più efficiente; e contro l’idea prevalente che i residui casi di proprietà comune ancora oggi esistenti sarebbero destinati a scomparire, al pari dei diritti comunitari inglesi anteriori alle enclosures, a causa della Tragedia dei comuni resa celebre da Hardin.

Una common pool resource ha di norma la caratteristica di riproducibilità delle unità di risorsa che se ne possono trarre per il consumo, ma sotto condizioni che ne evitino il sovra-utilizzo e il deterioramento (come nel caso della fauna ittica o forestale) e quindi la conservazione per il futuro. Essa può essere di proprietà pubblica, nazionale o locale, di gruppi o anche di collettività informali. Al riguardo Ostrom documenta sia casi di successo che di insuccesso per ciascun tipo di regime proprietario, concludendo che non vi è sempre una automatica associazione tra common pool resources e particolari tipi di esso.

Un aspetto fondamentale delle sue ricerche consiste nella specificazione della assegnazione del fascio di diritti che caratterizza ogni singolo caso (accesso, ritiro di unità di risorsa, gestione, esclusione, alienazione), e porta alla conclusione che le soluzioni, sia de facto che socialmente più efficienti, possono essere supportate da

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combinazioni assai più complesse di quelle previste dalla semplice distinzione tra proprietà pubblica, privata o collettiva (di gruppi) intese come diritti unitari. In particolare Ostrom ritiene che non vi siano ragioni teoriche né empiriche a favore della superiorità della proprietà privata. Il suo messaggio sembra invece essere che agli ordinamenti giuridici spetti il compito di disegnare regole di uso e di gestione della risorsa basate su combinazioni ben definite di diritti capaci di garantirne nel tempo il libero accesso e la fruizione, evitandone il degrado o l’esaurimento.

Tali combinazioni, tuttavia, potrebbero rivelarsi inefficienti laddove l’eccessivo frazionamento dei diritti provochi conflitti di interesse o interferenze nell’esercizio degli stessi, generando per questa via un sotto-utilizzo delle risorse rispetto al livello socialmente ottimo, ovvero una tragedia degli anti-commons per certi versi opposta a quella dei commons.

Consideriamo ora il caso in cui le proprietà di escludibilià/non escludibilità e rivalità/non rivalità siano definite dall’ordinamento giuridico. Ad esempio l’ordinamento può stabilire che un bene pubblico, ad esempio una nuova conoscenza, perda almeno transitoriamente tali proprietà, ammettendo temporanei diritti privati di uso a scopo economico al fine di favorirne lo sviluppo futuro. Poiché tali diritti creano un monopolio temporaneo, con conseguente perdite nette di surplus, ma incentivano anche innovazioni e opere di ingegno che generano un beneficio sociale, la loro efficienza dipende dal confronto tra questo beneficio supposto permanente e la temporanea perdita da monopolio. Nel valutarne l’efficienza sociale è anche necessario considerare particolari costi sociali che la rivalità tra innovatori può determinare, quali il sovra o sotto-investimento in ricerca e sviluppo, nonché la dissipazione determinata da possibili fenomeni di rent seeking.

Se l’ordinamento giuridico li valuta socialmente efficienti e li istituisce, la conoscenza, o meglio quel particolare tipo di conoscenza (ad esempio informatica o biotecnologica), da bene pubblico diventa un common spesso definito, in questi casi, creative o knowledge common.

A sua volta l’inescludibilità dei beni, e la loro conseguente inalienabilità, viene talora prevista dagli ordinamenti giuridici perché ritenuta socialmente meritevole di essere presa in considerazione, pur in assenza di ragioni tecniche o di eccessivo costo economico dell’esclusione. Nell’economia pubblica molti di questi casi sono stati ricondotti alla categoria dei beni di merito per i quali (si riteneva) lo Stato dovesse provvedere alla fornitura onde evitarne la sotto-produzione o il sotto-consumo determinati dell’insufficiente disponibilità dei privati a pagarli ai prezzi di mercato. Tipici esempi sono costituiti dall’istruzione, dalla sanità pubblica o dalla previdenza cui, non a caso, sono associati non solo diritti ma anche obblighi di fruizione e di contribuzione. Il giuspubblicista può riconoscervi facilmente l’oggetto dei diritti sociali.

Si noti che in questi casi non si tratta solo di beni o servizi singoli, ma spesso di una complessa attività volta a fornire molteplici beni e servizi, sicché questi ultimi andrebbero distinti dall’attività stessa. Inoltre il servizio pubblico universale garantito dall’ordinamento non implica necessariamente la fornitura di specifici beni in natura, ad esempio tutti o particolari tipi di farmaco, bensì la garanzia della loro accessibilità attraverso varie combinazioni di misure distributive, fiscali e tariffarie.

Giuristi e cultori dell’analisi economica del diritto hanno talora giustificato questi casi con ragioni distinte dai classici casi di fallimento del mercato, riconducendoli invece a ragioni di ordine morale o di ordine paternalistico. Tra le prime, ad esempio, Calabresi e Melamed, in un loro celebre saggio, indicano ragioni connesse all’integrità della persona umana che renderebbero inalienabili le parti del corpo. Tuttavia la discussione successiva ha messo in evidenza come, in ultima analisi, queste ragioni avessero a che fare esse stesse con le cause dei fallimenti del mercato come le esternalità positive (nel caso dell’istruzione obbligatoria o della sanità pubblica) o le asimmetrie informative (come nel caso della previdenza), o varie combinazioni di esse.

Questa conclusione non risolve tuttavia in termini di soli fallimenti tutte quelle ragioni che hanno a che fare con la natura di cittadino dei titolari dei diritti come, ad esempio, quelle distributive connesse alla loro sopravvivenza, dignità ed eguaglianza. Un ordinamento giuridico, a partire dalla sua Costituzione, può dopotutto essere pensato esso stesso come un bene pubblico di ordine superiore da cui nessun cittadino può essere escluso. Da quali diritti e beni egli non possa essere escluso varia da ordinamento a ordinamento, ma in ognuno di essi si può dire che esiste un insieme di diritti fondamentali che sono riconosciuti alla sua natura. Inevitabilmente i caratteri giuridici di escludibilità/non escludibilità e di alienabilità/non alienabilità discendono non solamente dalla natura intrinseca dei beni ma anche da questi diritti fondamentali, specialmente se costituzionalizzati. Ciò non impedisce, naturalmente, che possano determinarsi contraddizioni tra criteri economici e criteri giuridici di non esclusione, ma, laddove queste non si verifichino sembra, potersi creare un proficuo confronto tra approccio economico e giuridico.

Riassumendo, l’analisi economica del diritto, non si pone il problema dei fini che lascia agli ordinamenti giuridici definire mediante l’assegnazione dei diritti e della loro alienabilità o inalienabilità. Alla sfera dei fini

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appartengono i diritti fondamentali di cui tutti sono titolari in quanto persone e su cui l’analisi economica del diritto si è esercitata ma finora con molta indeterminatezza di conclusioni. Non pronunciandosi sui fini, l’analisi economica del diritto riconosce pertanto che possano esistere ragioni non solo tecniche, o di eccessivo costo dell’esclusione, a fondamento dell’inescludibilità e, in particolare, ragioni aventi a che fare con lo status di cittadino in uno stato democratico.

Essa si pone invece il problema dei mezzi e della loro efficienza. Sotto questo profilo riconosce che siano socialmente efficienti non solo varie forme di limitazione dei diritti di proprietà privati, ma anche varie forme di proprietà collettiva, oltre che pubblica (inevitabile nel caso dei beni pubblici puri), anche se non mancano punti di vista estremi che lo negano.

Quanto ai beni comuni sembra indubbio che vi siano argomenti economici largamente condivisi circa l’esistenza del tertium genus e sulla fondatezza della loro sottrazione dalla sfera dei beni privati. Ciò tuttavia non toglie che il dibattito recente abbia talora portato a conclusioni ideologiche e a cataloghi di beni comuni basati su criteri di distinzione poco chiari, sia sotto il profilo delle caratteristiche economiche dei beni che del fondamento dei diritti. Ma, una volta riconosciuto che poteri di fruizione e diritti fondamentali delle persone cui essi sono assegnati sono interconnessi, sembra possibile ricostruire un quadro analitico più chiaro utile sia agli economisti che ai giuristi.

6. Beni comuni e diritti fondamentali Le sollecitazioni provenienti dall’analisi economica inducono a polarizzare l’attenzione sul tema centrale dei beni qui considerati: i beni comuni quali strumenti per consentire l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali. L’approccio economico tentato in questa sede concorda con l’intima connessione funzionale tra alcuni beni e l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali. Non è detto, però, che tali beni siano soltanto i beni comuni, a meno di una indebita estensione di questo concetto. Più precisamente, non è scontato che l’effettivo esercizio dei suddetti diritti sia garantito dal tertium genus rappresentato dai soli beni comuni. Il dubbio, peraltro, sorge anche leggendo una recente e importante pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Secondo la Suprema Corte, dalla Costituzione si ricava il principio della tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento, nell’ambito dello Stato sociale, non solo in relazione ai beni pubblici, «ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che – per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale – devono ritenersi “comuni” prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l’aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività». La Suprema Corte, dunque, allude a beni che, pur essendo qualificabili come beni comuni, sono preordinati alla realizzazione degli interessi generali. Esattamente come i beni pubblici in senso economico. Riguardo ai beni cd. comuni, il giudice di legittimità osserva che questa qualificazione come bene comune «comporta per l’ente titolare anche la sussistenza di oneri di governance finalizzati a rendere effettive le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene». Detto in altri termini: nel genus dei beni pubblici, come individuati dal diritto positivo, vi è una species di beni (i beni comuni) che richiedono formule organizzative e meccanismi operativi per molti versi inediti rispetto ai modelli tradizionali, in vista di una piena ed effettiva fruizione da parte della comunità degli utenti. Procedendo con ordine, il nesso che avvince sul piano funzionale i beni in parola ai diritti fondamentali (sul piano del loro concreto godimento), è ben espresso da Stefano Rodotà.

L’idea di persona «costituzionalizzata» irrompe in un ambito in cui la «ragionevole follia dei beni comuni» aveva sollecitato l’abbandono del tradizionale dualismo pubblico/privato e l’emancipazione della logica proprietaria a favore di inediti assetti. La consacrazione della proiezione costituzionale della persona comporta «l’integrale recupero di quei diritti fondamentali che, a loro volta, individuano i beni funzionalmente legati a quei diritti e alla loro soddisfazione, senza che sia necessario passare attraverso il modello proprietario privatistico. Dunque, in primo luogo, i beni comuni».

La nozione di bene comune utilizzata nel dibattito intercetta questo mutamento e lo traduce in una nuova concezione che illumina la concretezza dei bisogni, collegando i diritti fondamentali ai beni indispensabili per la loro soddisfazione mediante l’accesso (la non esclusione). Sicché «diritti fondamentali, accesso, beni comuni disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni». L’accesso, da modalità meramente strumentale «si è progressivamente reso autonomo, individuando una modalità dell’agire da riconoscere come un diritto necessario per definire la posizione della persona nel

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contesto in cui vive. L’accesso, inteso come diritto fondamentale della persona, si configura come tramite necessario tra diritti e beni, sottratto all’ipoteca proprietaria». Coniugando questa innovativa concezione dell’accesso e l’idea di una costituzionalizzazione della persona, Rodotà perviene ad identificare i beni comuni come «quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza)». In questa visione, dunque, diventano comuni i beni il cui accesso è garantito secondo i fini, finendo per includere beni che sono tali per ragioni oggettive (i beni pubblici in senso economico) o per ragioni funzionali rispetto ai fini stessi. Trattasi, in sostanza, di beni funzionali al soddisfacimento di diritti fondamentali. Così, in questa visione, è proprio il riconoscimento di un diritto fondamentale a produrre un common. Si è, dunque, di fronte non già ad una «semplice associazione tra diritti fondamentali e beni comuni, bensì alla produzione di beni comuni attraverso i diritti fondamentali». Sicché, «l’intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali produce un concreto arricchimento della sfera dei poteri personali, che a loro volta realizzano precondizioni necessarie per l’effettiva partecipazione al processo democratico».

In sintesi, secondo Rodotà i beni comuni sono a titolarità diffusa, ossia appartengono a tutti e a nessuno e dunque nessuno può vantare pretese esclusive, trattandosi di beni accessibili a tutti; devono essere gestiti partendo dal principio di solidarietà; incorporando la dimensione dell’avvenire, devono essere gestiti anche nell’interesse delle generazioni future. Nel costituzionalismo liberale, ciò che rileva è il riconoscimento, in misura eguale per tutti (eguaglianza formale), della astratta titolarità dei diritti fondamentali. Nello stato liberale di diritto le pubbliche istituzioni s’impegnano a garantire tale condizione, senza ingerirsi nelle relazioni sociali ed economiche: difesa dei confini nazionali, ordine pubblico, giustizia, moneta.

Con l’avvento del pensiero di matrice socialdemocratica si persegue l’obiettivo, a fonte delle gravi disparità di fatto che attraversano la società, di promuovere l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali, non essendo più sufficiente, in una società che aspira ad essere più giusta ed equa, la mera titolarità degli stessi. Lo stato sociale sollecita l’intervento positivo delle pubbliche istituzioni nei rapporti sociali ed economici. Il principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., è unanimemente interpretato come strumento per garantire l’effettivo godimento dei diritti fondamentali.

I mezzi per attuare tale progetto di riforma della società sono i diritti sociali, quali pretese giuridiche soggettive a che lo Stato intervenga per assicurare ai consociati beni e prestazioni rispetto ai quali si è registrato il fallimento del mercato.

Se, dunque, può considerarsi pacifico che la nostra legge fondamentale esige la creazione delle condizioni per rendere effettivo l’esercizio dei diritti fondamentali, non altrettanto può dirsi circa l’individuazione dei diritti qualificabili come fondamentali.

Se si considera la Costituzione come l’atto volto a presidiare i diritti soggettivi nei confronti dei pubblici poteri, secondo l’intuizione liberale, allora sono fondamentali proprio le posizioni giuridiche soggettive protette non solo nei rapporti tra privati, ma anche – e ancor prima – nelle relazioni con l’autorità. In questo modo, si accede anche ad un’altra concezione, quale quella dei diritti inviolabili, che ulteriormente rafforza il potenziale garantista di tali situazioni soggettive. Senonché, l’avvento dello Stato sociale e con esso di nuove posizioni giuridiche individuali ad esso congeniali (i diritti sociali), ha indotto non pochi a rivedere l’attributo stesso della inviolabilità, al fine di estenderlo oltre il suo originario ambito di applicazione.

Se il tema che qui rileva riguarda i beni comuni, e la loro presunta qualificazione come tertium genus, allora i Principia Iuris di Ferrajoli potrebbero fornire utili elementi di riflessione, atteso che in questo edificio teorico si coglie una evidente correlazione tra diritti fondamentali e beni (e non soltanto quelli comuni). I diritti fondamentali sono diritti soggettivi di cui tutti sono titolari in quanto persone naturali o in quanto cittadini o ancora, se si tratta di diritti potestativi, in quanto capaci di agire o cittadini capaci di agire. L’universalità è il tratto caratteristico dei diritti in parola, in condizioni di eguaglianza formale: eguaglianza che può essere assoluta (se si fa riferimento alle persone naturali) o relativa (se si fa riferimento ai cittadini e/o ai capaci di agire). Il carattere universale dei diritti fondamentali comporta il carattere inalienabile e indisponibile degli interessi ad essi sottesi. Nell’esperienza storica del costituzionalismo, tali interessi coincidono «con le libertà e con gli altri bisogni fondamentali dalla cui garanzia dipendono la vita, la sopravvivenza, l’uguaglianza e la dignità degli esseri umani». Si noti che per l’A. l’eventuale rango costituzionale dei diritti fondamentali è irrilevante ai fini di una simile qualificazione, essendo la previsione nella legge fondamentale solo una tecnica di protezione. Come a dire: i diritti fondamentali sono tali anche se non previsti dalla Costituzione. Se lo sono, la loro garanzia diviene più forte. Invero, con la costituzionalizzazione, i relativi interessi e bisogni diventano limiti e vincoli alle libertà altrui e ai poteri pubblici.

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Diversamente dai diritti fondamentali, i diritti patrimoniali, avendo per oggetto beni o prestazioni concretamente determinati, sono singolari e disponibili. Diversamente dai primi, i diritti patrimoniali determinano una diseguaglianza giuridica. I diritti fondamentali non sono mai diritti patrimoniali. Questi ultimi non sono mai fondamentali. I diritti fondamentali sono inclusivi, i diritti patrimoniali sono esclusivi. I diritti patrimoniali, in quanto disponibili, sono alienabili, negoziabili, transigibili. Diversamente, i diritti fondamentali sono sottratti alle logiche di mercato (in particolare, non sono espropriabili). Ancora, i diritti fondamentali riposano su norme giuridiche, laddove i diritti patrimoniali si basano su atti giuridici (ad es. contratti). Infine, i diritti fondamentali dànno vita a rapporti pubblicistici (dimensione verticale), mentre quelli patrimoniali generano rapporti privatistici (dimensione orizzontale). Quanto, poi, ai beni, sono fondamentali i beni oggetto dei diritti fondamentali, mentre sono patrimoniali i beni oggetto dei diritti patrimoniali. Atteso che, secondo Ferrajoli, i diritti fondamentali primari sono “libertà da”; “libertà di”; diritti sociali, allora: le “libertà da” hanno ad oggetto i beni personalissimi; i diritti sociali hanno ad oggetto i beni sociali; le “libertà di” hanno ad oggetto i beni comuni, questi ultimi in quanto oggetto di «libertà-facoltà consistenti nel diritto di tutti di accedere al loro uso e godimento».

I beni personalissimi e i beni comuni sono oggetto di diritti individuali negativi consistenti in aspettative negative cui corrispondono i divieti erga omnes di lesione. I beni sociali sono oggetto di diritti positivi, vale a dire di aspettative positive cui corrispondono obblighi erga omnes di prestazione. Pertanto, i beni sociali in tanto sono oggetto di diritti sociali in quanto non appartengono e non sono accessibili naturalmente a quanti ne fanno uso. Essi diventano beni fondamentali grazie alle norme che contemplano i diritti sociali come diritti fondamentali primari. Si noti qui come i beni sociali costituiscano una categoria molto prossima a quella dei beni meritori, non a caso elaborata dall’economia e dalla finanza pubblica in epoche in cui gli ordinamenti giuridici avevano già recepito il loro riconoscimento.

Dal canto loro, i beni personalissimi e i beni comuni sono beni naturali, la cui garanzia risiede nella loro indisponibilità. Quest’ultima è però diversa nei due casi: nel caso dei primi, il corpo umano è tutt’uno con la persona; invece, i beni comuni sono patrimonio comune dell’umanità, ossia oggetto di una «situazione collettiva composta dai diritti di uso e di godimento ascritti a tutti gli esseri umani in quanto componenti del genere umano». Come a dire: i beni personalissimi appartengono ai loro titolari e a nessun altro; i beni comuni appartengono a tutti, nessuno escluso. Inoltre, secondo Ferrajoli i beni personalissimi e quelli comuni consistono in cose, ossia in entità materiali per loro natura accessibili e utilizzabili. Per questo motivo, la loro protezione, in quanto necessaria alla tutela dei diritti fondamentali di cui sono oggetto, può aver luogo soltanto attraverso il divieto della loro disposizione. Ad ogni modo, l’A. nota che «la qualificazione di un bene come fondamentale è un fatto storico e culturale, prima che giuridico, e non ha nulla di ontologico». Così, lo sviluppo delle tecnologie ha determinato l’alterazione dell’ecosistema rendendo fondamentali per la sopravvivenza del genere umano beni che in precedenza erano considerate mere cose: l’acqua, l’aria, gli equilibri ambientali, ossia beni che oggi richiedono di essere garantiti a tutti come beni comuni tramite limiti alle attività private e vincoli alla sfera pubblica. Quanto, in particolare, ai beni comuni, essi conseguono alla natura di diritti universali – quali diritti umani – dei diritti di accesso e di uso di cui sono oggetto. Si tratta, invero, «di una sorta di proprietà comune spettante a tutti e a ciascuno, ben diversa dai diritti patrimoniali ed esclusivi di proprietà privata o pubblica, anche se non sempre accompagnata da un’analoga consapevolezza dei loro titolari».

7. Qualche opportuna restrizione al genus

Mentre il dibattito sui beni comuni ha fatto emergere un’ampia (anche se non generale) condivisione su di essi come tertium genus, non altrettanto estesa sembra essere la condivisione circa i beni che apparterrebbero al genus stesso. La già evidenziata tendenza ad identificare sotto questa specie cataloghi troppo ampi, se non generici, rischia di depotenziare il concetto, rendendolo inutilizzabile dal punto di vista giuridico e delle politiche volte al soddisfacimento dei diritti e dei bisogni.

Se, da un lato, si conviene che si tratti di beni caratterizzati dalla proprietà oggettiva di inescludibilità, accompagnata dalla caratteristica funzionale del soddisfacimento dei diritti fondamentali, dall’altro sembra opportuno circoscriverne l’estensione in termini di queste caratteristiche non soggettive.

Se si guarda all’aspetto oggettivo, taluni beni citati come comuni quali aria o mare, se non ambiente o eco-sistema, soprattutto se considerati come res unitarie e generiche, sembrano più simili ai beni pubblici puri (in quanto in sé non rivali) ed è discutibile assimilarli ai comuni per il solo fatto di soddisfare diritti

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fondamentali e bisogni primari. Dotata di caratteristiche di non escludibilità e non rivalità sembra essere la conoscenza in generale. La rete internet, fino a quando non è satura e quindi non emergono situazioni di rivalità, è essa stessa un bene pubblico puro. Naturalmente un ordinamento giuridico potrebbe anche permettersi di assimilarli, ma allora perché non includere anche strade pubbliche, fari o infrastrutture per la difesa e la giustizia? Il livello di garanzia dell’accesso, in questi casi, non viene alterato dall’appartenenza all’una o all’altra categoria.

Se si guarda invece alla caratteristica funzionale sembra opportuno distinguere i beni comuni da quei beni e servizi cui corrispondono pretese di prestazioni in nome di diritti sociali. Mentre i primi sono oggetto di diritti consistenti in aspettative negative cui corrispondono i divieti erga omnes di lesione, i secondi sono oggetto di diritti positivi, vale a dire di aspettative positive cui corrispondono obblighi erga omnes di prestazione. La prestazione, poi, può consistere in combinazioni di beni e servizi forniti in natura (si pensi alla sanità pubblica o all’istruzione obbligatoria), ma anche in trasferimenti o sussidi che ne garantiscono l’accesso. Se alcuni di questi sono forniti in kind, come i beni meritori degli economisti (e, volendo, i beni sociali à la Ferrajoli), lo sono perché la loro fornitura diretta risulta più efficiente del ricorso ad altri strumenti redistributivi come i sussidi per il loro acquisto sul mercato. Inoltre essi non sono nemmeno inescludibili in senso tecnico. In questo caso, l’assimilazione ai beni comuni rischia di confondere il servizio in sé con i beni di cui esso è costituito, come i libri e le medicine, la cui acquisizione è lasciata alla libera scelta, seppure sotto il controllo pubblico e a prezzi sussidiati. D’altro canto non si vede come la loro riconduzione alla specie dei beni comuni possa renderne più efficiente l’accesso e la garanzia del relativo diritto.

La più importante restrizione del genus sembra essere quella che lo riconduce, come ha ben chiarito Ostrom, a risorse comuni soggette, per la loro potenziale rivalità, al rischio di sovra-utilizzo e depauperamento rispetto al godimento delle future generazioni. Vi rientrano ovviamente molte risorse naturali (il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi, le foreste), ma anche beni comuni non naturali, culturali e artistici o cultural commons (ad esempio musei, archivi, biblioteche, siti archeologici.), che con esse condividono quelle caratteristiche, e che l’ordinamento italiano classifica come beni demaniali o come patrimonio indisponibile dello Stato. Se la conoscenza in generale è bene pubblico, conoscenze specifiche possono essere classificate come intellectual commons laddove presentino caratteristiche di rivalità che ne possano limitare lo sfruttamento a livello socialmente ottimale.

Al riguardo soccorre una precisazione. In effetti, lo slittamento dai beni corporali naturali (lidi, foreste) a beni non naturali (musei ecc.) è potenzialmente pericoloso, dal punto di vista teorico e poi pratico. Ciò significa che un museo privato è un bene comune? Oppure che un’opera d’arte di un pittore sconosciuto, poi divenuto celebre, diviene bene comune ? Senza trascurare i problemi associati alla distinzione tra i beni corporali e il corrispondente servizio (si pensi al personale del museo). Ebbene, è possibile superare questa obiezione riconoscendo che le opere d’arte rientrano nel tertium genus se già appartenenti a un ente pubblico. In effetti l’art. 822 c.c. li inserisce nel demanio, ma poi l’art. 839 ammette che «cose di proprietà privata, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, sono sottoposte alle disposizioni delle leggi speciali». Su queste non c’è diritto di proprietà in capo allo Stato ma la solo sottoposizione a vincoli di tutela e valorizzazione.

In secondo luogo sembra opportuno evitare l’ambiguità derivante dalla confusione tra il diritto di accesso al bene e il regime proprietario e di gestione. Sotto questo profilo, se è condivisibile che si debba abbandonare la tradizionale distinzione “soggettiva” tra beni pubblici e privati, non appare fondata la conclusione che il tertium genus debba essere definito tale associandolo (solamente) ad un sorta di regime proprietario o di gestione alternativo, né pubblico né privato ma collettivo. Anche qui Ostrom docet quando mostra come vi siano molteplici soluzioni efficienti basate su varie combinazioni di diritti di proprietà intesi come fascio piuttosto che come diritto unitario. Naturalmente evitando di creare tragedie di anti-commons attraverso assegnazioni di diritti eccessivamente frazionate e potenzialmente conflittuali.

Riferendoci ora al caso emblematico dell’acqua intesa come res indistinta, il suo inserimento nel genus è problematico (al pari dell’aria) e privo di conseguenze operative, potendo essa essere intesa come risorsa naturale, come infrastruttura per la sua raccolta e distribuzione, come bene finale di consumo, o anche come un insieme di tutte queste cose. Non vi è dubbio, tuttavia, che l’inserimento dell’acqua intesa come risorsa naturale nel senso di laghi, fiumi e bacini idrici sia coerente con le caratteristiche economiche e funzionali dello stesso. La natura di common della risorsa, intesa in tal senso, non è dunque in discussione, mentre le infrastrutture per la raccolta e la distribuzione sono monopoli naturali. Separarli concettualmente e operativamente è opportuno, a condizione tuttavia di evitare l’anti-common, tanto più che al pubblico compete anche il controllo ambientale e di qualità. In tal senso si è pronunciata la Corte costituzionale nella sentenza n. 259 del 1996 quando, soffermando l’attenzione «sull’acqua (bene primario della vita dell’uomo), configurata

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quale “risorsa” da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell’ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale» ha affermato «che la “pubblicità delle acque” ha riguardo al regime dell’uso di un bene divenuto limitato, come risorsa comune, mentre il regime (pubblico o privato) della proprietà del suolo in cui esso è contenuto diviene indifferente in questa sede di controllo di costituzionalità».

Anche con riferimento all’acqua destinata al consumo finale, res ancora diversa, bisogna distinguere il servizio di fornitura del bene dalle reti di distribuzione. In particolare va evitato con attenzione il fraintendimento che porta a confondere la proprietà di tali reti con il diritto di gestione del servizio che rende fruibile il bene. Mentre per evitare l’anti-common pare opportuno ritenere le reti sotto la proprietà pubblica, non si vede l’utilità di particolari obblighi o divieti circa la natura societaria (privata, pubblica, cooperativa o mista) delle imprese chiamate a competere per le concessioni. Sotto questo profilo, posto che esse sappiano garantire tariffe più basse congiuntamente alla migliore conservazione e sviluppo della rete stessa, appaiono immotivate sia la norma abrogata, che ammetteva solo società private o miste, sia l’assunzione implicitamente adottata dai promotori del referendum circa la superiorità della natura pubblica del gestore.

Per le stesse ragioni dell’acqua, una res indistinta come la conoscenza può consentire di individuare casi specifici di conoscenze, come taluni intellectual commons, che meritano diritti di proprietà non privata. Quello del genoma umano è particolarmente interessante, in quanto una sequenza potrebbe congiuntamente possedere caratteristiche di inescludibilità al fine della ricerca e rivalità qualora brevettabile per scopi di produzione farmaceutica, poiché in tal caso potrebbe essere mantenuta segreta per essere sfruttata a scopi commerciali. Al riguardo la Dichiarazione Universale sul Genoma Umano ed i Diritti dell’uomo, all’art. 4, stabilisce che «il genoma umano al suo stato naturale non può dar luogo a profitto», e preclude soltanto le condotte di sfruttamento economico di parti del genoma allo stato naturale, vale a dire parti prelevate da un organismo vivente e opportunamente isolate, ma non impedisce che le stesse condotte vengano realizzate su copie artificialmente prodotte del genoma o di parti di esso.

L’inalienabilità dei diritti sul genoma umano, in quanto parte del corpo, potrebbe essere giustificata nei termini dei beni personalissimi à la Ferrajoli, o anche dell’inalienabilty à la Calabresi-Melamed. Tuttavia essa ha anche a che fare, più in generale, con gli intellectual commons.

Due Premi Nobel, Stiglitz (per l’economia) e Sulston (per la medicina), hanno sostenuto, come molti accademici, i danni sociali della brevettabilità delle sequenze genetiche. Inoltre è stata sottolineata l’analogia del caso del genoma con quello di innovazioni nel campo del software, il cui contenuto di “conoscenza” può essere raccolto in banche dati o memorie elettroniche riservate oppure pubbliche. Elinor Ostrom, che si è molto spesa per sostenere il riconoscimento dei microbiological commons, applicherebbe anche in questo caso la sua proposta di combinazioni efficienti di diritti volti comunque a garantire l’accesso a tutti. Riconosciuta la non brevettabilità delle sequenze naturali, diritti meno esclusivi in capo a comunità scientifiche istituzionalmente ben definite, se non di copyleft, potrebbero ridurre o eliminare le conseguenze monopolistiche delle esclusive stesse e garantire l’accesso alle sequenze artificiali ai fini di una più estesa e rapida diffusione della conoscenza.

8. Alcune opportune precisazioni su beni comuni, proprietà privata, proprietà collettiva

La teoria dei beni comuni, da Mattei a Rodotà, accede ad una accezione di proprietà collettiva che mira a definire una netta linea di demarcazione rispetto alla proprietà pubblica. L’intento è chiaro: solo dimostrando che i beni comuni non sono oggetto di proprietà pubblica è possibile sottrarli al potere dispositivo dello Stato, esercitato in occasione delle privatizzazioni. Il concetto di proprietà allude alla “appartenenza” di un determinato bene. La prospettiva giuridica insegna che se un bene appartiene ad un soggetto, questi è proprietario del bene. Così ragionando, la proprietà collettiva immaginata dai teorici dei beni comuni più volte citati rischia di imbattersi in una obiezione non trascurabile. Un soggetto giuridico è tale in quanto titolare di diritti soggettivi ed obblighi corrispondenti. Il diritto positivo italiano contempla due tipologie di soggetti giuridici: le persone fisiche e le persone giuridiche. La capacità giuridica e la capacità di agire sono previste e regolate in funzione della loro attribuzione a tali tipologie di persone. Dal canto suo, la “collettività” è un insieme indistinto di persone fisiche e giuridiche accomunate dal fatto di dimorare, in un dato momento, all’interno di un certo territorio (più o meno esteso) e ivi di svolgere i rispettivi affari. La “collettività”, dunque, ha un assetto variabile, perché essa può includere anche persone fisiche e giuridiche che siano stanziate ed operanti in quel territorio soltanto per un lasso di tempo limitato. La collettività quale insieme indistinto e variabile di persone fisiche e giuridiche è essa stessa una persona giuridica ?

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La distinzione tra Stato-apparato e Stato-comunità potrebbe rivelarsi pertinente ai fini qui considerati. Lo Stato-apparato, «in quanto titolare di situazioni attive e passive nei confronti dei cittadini e degli altri soggetti, pubblici e privati, è persona giuridica». Al contrario, lo Stato-comunità, quale insieme dei governati, difetta «dei necessari presupposti di organizzazione unitaria implicati nel termine Stato».

Se, dunque, la “collettività”, così intesa, non può considerarsi una persona giuridica (e, dunque, un soggetto giuridico), allora essa può intendersi come un tertium genus rispetto alle persone fisiche e alle persone giuridiche ? Ebbene, l’approccio economico può contribuire a dissipare i dubbi che si addensano su questo crinale.

L’approccio ai property rights rappresenta una estensione, in linea con le tesi dell’analisi economica del diritto (e di Ostrom), in merito alla distinzione piuttosto ristretta tra disponibilità e facoltà di godimento del nostro codice civile. Come sopra evidenziato, secondo tale approccio un ordinamento giuridico riconosce sulle cose un ampio fascio di diritti, tra loro separabili, distinti in diritti di disposizione (ovvero di trasferimento e di alienazione), diritti di godimento (ovvero di accesso, di uso, di ritiro) e diritti di gestione. Essi sono sottoposti a limiti volti ad assicurare la massima efficienza collettiva (la funzione sociale). Tali limiti, spesso previsti esplicitamente a livello costituzionale, costituiscono il titolo per gli interventi regolatori dello Stato.

La caratteristica di inescludibilità dei beni comuni implica che sia collettivo il diritto di godimento, almeno nel senso di accesso, uso e ritiro, e in ogni caso nei limiti previsti dalle regolamentazioni. Queste regolamentazioni, finalizzate alla loro tutela e valorizzazione, sono rese necessarie dalla natura dei commons, che li espone (a causa della rivalità) al rischio di depauperamento.

Diversa è la questione dei diritti di disposizione. Questi in linea di principio possono essere in capo a soggetti di natura diversa, ovvero pubblica, collettiva e privata, ma pur sempre a condizione che siano garantiti l’accesso e la fruizione collettiva e sia evitato il depauperamento. In altri termini, il diritto di disposizione è più o meno efficiente a seconda che l’alienabilità comporti più o meno rischi di esclusione dal godimento e di depauperamento.

Anche il diritto di gestione può, a sua volta, essere separato dal godimento e dalla disposizione. L’efficienza sociale di tale separazione e della sua assegnazione dipende tuttavia da quanto essa rende più facile e meno costosi l’accesso e il godimento, come più sopra si è visto a proposito della distribuzione dell’acqua.

Tornando ora al diritto di disposizione, l’inalienabilità e l’inappropriabilità, implicite nelle res communes omnium (che tuttavia sono piuttosto classificabili come beni pubblici puri in quanto non rivali), appaiono applicabili anche a molti commons naturali, quali laghi, fiumi, torrenti, foreste, spiagge, lidi, che le distinzioni meramente formali del nostro codice civile collocano alternativamente tra il demanio e il patrimonio statale indisponibile. Mentre nel caso della fauna ittica o forestale l’appropriazione, qualora ammessa, sembrerebbe quanto meno da assoggettare ai limiti delle regolamentazioni volte alla loro conservazione.

L’estensione dell’inalienabilità ai cultural commons sembra giustificata invece al caso in cui questi siano già di pubblica proprietà.

Ora, se dalla proprietà pubblica è escluso il diritto di disposizione si potrebbe sostenere che la proprietà non sia “pienamente” in capo Stato o agli enti pubblici territoriali (come è invece nel caso di beni del patrimonio disponibile o di beni mobili o immobili destinati a pubblici servizi).

Tuttavia ciò non sembra sufficiente a immaginare che la proprietà sia in capo ad una collettività indistinta. Intanto perché i titoli di proprietà, per essere efficienti, devono essere ben specificati dall’ordinamento quanto al detentore cui sono assegnati. In secondo luogo perché le collettività possono essere molteplici e possono avere un assetto oltremodo variabile. Si pensi ai nostri usi civici oppure al caso di collettività circoscritte di un ben definito territorio, in cui, secondo Ostrom, diritti di godimento più ristretti sarebbero spesso più efficienti, purché le collettività in questione siano ben definite e tali diritti siano ben regolati a fini di conservazione del bene comune.

9. Conclusioni

Il pilastro della moderna teoria dei beni comuni è rappresentato dalla configurazione degli stessi come un tertium genus che spezza il binomio proprietà pubblica (beni pubblici) e proprietà privata (beni privati). Questo approccio teorico si affranca dal classico criterio discretivo basato sul titolo di proprietà, per accedere ad una considerazione dei beni orientata verso la dimensione fattuale dell’uso degli stessi. Enucleando questa terza categoria di beni, i fautori di tale teoria mirano a porre le condizioni per l’edificazione di una inedita costruzione giuridica entro la quale collocare i beni comuni: un innovativo regime i cui elementi costitutivi

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dovrebbero frapporre ostacoli alle iniziative id privatizzazione che, negli ultimi anni, hanno interessato beni destinati alla fruizione collettiva. La teoria dei beni comuni non è un insieme monolitico e compatto di ipotesi, enunciati e proposizioni. Comparando i diversi contributi, si notano significative differenze quanto alla stessa identificazione puntuale dei beni comuni. Nei vari cataloghi, anche solo esemplificativi, si rinvengono infatti beni pubblici in senso economico, talora ascrivibili alle res communes omnium, veri e propri commons e, spesso, beni che l’economia classifica invece come meritori. Ebbene una simile divergenza e varietà non fa che riflettere l’assenza di un nucleo forte di fattori teorici attorno ai quali aggregare un modello esplicativo condiviso ed obiettivo in cui calare lo studio e la disamina dei beni in questione. Una affermazione è, tuttavia, ricorrente: i beni definiti come “beni comuni” sono preordinati all’effettivo esercizio dei diritti fondamentali e, dunque, al pieno soddisfacimento degli interessi ad essi sottesi. Il rinvio ai diritti fondamentali in quanto universali e non singolari, e perciò inescludibili, determina infatti un indissolubile nesso con un interesse inevitabilmente generale e collettivo e non solo individuale. Gli studi economici suggeriscono, però, che questa vocazione funzionale va ponderata alla luce della circostanza che i beni comuni hanno proprietà di inescludibilità e rivalità, diversamente dai beni pubblici in senso economico. Inoltre, i beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali sociali sono più correttamente qualificabili come beni meritori, anziché comuni, come peraltro emerge dalla ricostruzione concepita da Ferrajoli.

Ancora, i beni pubblici in senso economico (inescludibili e non rivali) possono essere di proprietà pubblica (si pensi ad alcuni beni del demanio e del patrimonio indisponibile) oppure non formano oggetto di proprietà, come nel caso dell’aria, dell’acqua indistinta, del mare, della conoscenza in generale. Diversamente, i beni comuni (inescludibili, ma rivali) possono essere tanto di proprietà pubblica quanto di proprietà collettiva. Per questo motivo, non appare condivisibile l’assunto secondo cui il tertium genus debba essere costituito da beni esclusivamente di proprietà collettiva, diversa e contrapposta da quella privata e da quella pubblica.

È anche vero che, in alcuni casi sono identificabili specificazioni dei beni indistinti che, quindi, possono essere qualificati come beni comuni: nel caso dell’acqua indistinta, si pensi ai bacini idrici, così come nel caso della conoscenza si pensi agli intellectual commons.

Ebbene, ogni tentativo di rigida classificazione dei beni comuni rischia di non riflettere le reali caratteristiche degli stessi, in termini di accesso e di fruizione secondo lo schema escludibilità/inescludibilità e rivalità/non rivalità, che l’analisi economica mette ben in evidenza. Pertanto, come dimostrato dal confronto tra elementi giuridici ed elementi economici, appare più efficiente e corretto procedere ad una valutazione caso per caso del bene che, presentando certi connotati, esigono l’allestimento di uno specifico regime giuridico autenticamente orientato alla valorizzazione della loro dimensione funzionale connessa all’esercizio dei diritti fondamentali. Così, ad esempio, la Corte costituzionale potrebbe sindacare la legittimità di atti legislativi destinati ad incidere pesantemente sull’assetto giuridico di un dato bene, quanto alla sua gestione o al suo accesso.

Perché questa valutazione caso per caso, condotta alla stregua di condivisi elementi essenziali, possa favorire una serena ed obiettiva ponderazione delle iniziative volte ad incidere sul regime giuridico dei cd. beni comuni, suscitando le reazioni polemiche dei sostenitori di questa teoria, appare necessario trovare un fondamento costituzionale attraverso la lettura combinata dei pertinenti enunciati della carta fondamentale.

Anzitutto la particolare attenzione per i beni qui considerati si riconnette alla necessità, in qualche modo sottintesa al catalogo dei diritti contemplati dal dettato costituzionale, di salvaguardare le legittime aspettative delle generazioni future.

Un antico ammonimento indiano invita tutti a considerare la terra non come un bene che abbiamo ricevuto in eredità da chi ci ha preceduti, ma come un bene che abbiamo ricevuto in prestito dai nostri figli e discendenti.

I processi costituenti si sono ispirati all’idea di salvaguardare le generazioni del domani. Oltre ai rivoluzionari francesi, ben consapevoli di non poter vincolare le generazioni future alle scelte del presente, a proposito dell’ammissione di nuovi Stati nell’Unione, Sherman, delegato del Connecticut, sostenne come si stesse «provvedendo alla nostra posterità, ai nostri figli e ai nostri nipoti, che avranno uguali probabilità di essere cittadini di nuovi stati o di quelli vecchi».

Tra le Costituzioni moderne, sulla medesima scia si colloca quella tedesca nella quale, a seguito della modifica avvenuta nel 1994 che ha portato all’inserimento del nuovo art. 20a nel Titolo II. Anche se la locuzione «sviluppo sostenibile» non è direttamente presente comunque le sue basi concettuali sono fortemente affermate e tutelate. Infatti, secondo l’art. 20°, «è compito dello Stato, anche in vista delle

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responsabilità per le future generazioni, proteggere le basi naturali della vita, nel quadro dell’ordinamento costituzionale e, in base alla legge e al diritto, tramite il potere esecutivo e la giurisdizione».

Inoltre, all’art. 74 della Costituzione polacca è affermato il dovere delle autorità pubbliche di «proteggere l’ambiente» congiuntamente a quello «di garantire la sicurezza ecologica delle presenti e delle future generazioni».

Per quanto manchi nella Costituzione italiana un esplicito riferimento alle generazioni future, nondimeno l’essenza dei beni che formano oggetto di una specifica protezione, in quanto patrimonio comune, è tale da imporre di proiettare il nostro sguardo, quanto ai potenziali fruitori degli stessi, ben oltre l’orizzonte attuale. Del resto, la giurisprudenza costituzionale va proprio in questa direzione, con specifico riferimento all’ambiente, la cui regolamentazione deve essere rivolta ad approntare «una tutela piena ed adeguata, capace di assicurare la conservazione dell’ambiente per la presente e per le future generazioni». E non mancano pronunce di analogo tenore giustappunto in relazione all’acqua. Invero, per la Corte «la dichiarazione di pubblicità delle acque si risolve in un limite della proprietà dovuto alla intrinseca e mutata rilevanza della risorsa idrica, rispondente alla sua natura, come scelta non irragionevole operata dal legislatore e quale modo di attuazione e salvaguardia di uno dei valori fondamentali dell’uomo (e delle generazioni future) all’integrità del patrimonio ambientale, nel quale devono essere inseriti gli usi delle risorse idriche».

Visto in questa prospettiva il secondo comma dell’art. 9 della nostra Costituzione potrebbe fornire una base solida alla considerazione e alla tutela non solo dei beni comuni naturali ma anche dei beni culturali come commons non naturali.

Quanto al tema della proprietà, la disposizione di riferimento è quella di cui all’art. 42 Cost., a mente del quale «la proprietà è pubblica o privata». La secca, quasi perentoria, alternativa (secondo lo schema dell’aut aut), parrebbe, di primo acchito, escludere qualsiasi altra forma di proprietà. Tradotta in termini congeniali alla presente ricerca, la disposizione in parola potrebbe essere letta nel senso di riconoscere solo beni pubblici o privati: tertium non datur. Più precisamente, quindi, non si potrebbe riconoscere un fondamento costituzionale alla proprietà collettiva che, come si è visto, potrebbe essere una delle forme giuridiche di titolarità dei beni comuni. In verità, è possibile accedere ad una diversa interpretazione. Innanzitutto, non è da escludere che alla base di tale previsione vi sia la volontà di riconoscere ai due regimi proprietari la medesima dignità dal punto di vista costituzionale. In effetti, l’opera di codificazione svolta dall’Assemblea costituente ha risentito dell’ascendente esercitato, sul punto, dalla tradizione illuministica e liberale, che ha sempre enfatizzato la concezione della proprietà privata come diritto fondamentale che si risolve in un potere assoluto ed esclusivo su di un determinato bene. La garanzia costituzionale della proprietà privata, anche alla luce del precedente rappresentato dall’art. 29 dello Statuto albertino, doveva considerarsi un dato acquisito definitivamente nell’ordinamento giuridico: una sorta di conquista irreversibile nel momento in cui si aderisce comunque alla tradizione liberale. Dal canto suo, il riconoscimento costituzionale della proprietà pubblica riflette una precisa scelta politica, sottesa anche ad altre previsioni disseminate nel testo costituzionale. In uno Stato sociale di diritto, fondato innanzitutto sul principio di eguaglianza sostanziale e alimentato dalla vitalità dei diritti sociali, la presenza di beni intestati ai poteri pubblici è una delle condizioni indefettibili affinché lo Stato possa assolvere alla funzione interventista ad esso assegnata proprio dalla legge fondamentale della Repubblica. Da ciò l’irrinunciabile compresenza dei due regimi di proprietà: la loro costituzionalizzazione non è che una forma di garanzia forte a presidio delle due categorie di beni giuridici, a fronte di possibili interventi del legislatore di tenore e portata non conciliabili con questa scelta. In secondo luogo, l’art. 42 rispecchia una chiara impostazione metodologica basata sulla classica nozione di proprietà e sul tradizionale modo di intenderla dal punto di vista giuridico. E non solo: come ha osservato un maestro del diritto, il regime del diritto di proprietà rispecchia la struttura delle relazioni economiche e sociali caratteristiche di una data epoca. Negli anni di avvio della Costituzione repubblicana la struttura delle predette relazioni non si conciliava con l’idea di beni comuni affiorata in epoca più recente.

Se, tuttavia, il fine perseguito dai beni comuni è l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali, l’orizzonte costituzionale degli stessi è destinato ad essere più ampio rispetto all’angusta prospettiva dischiusa dall’art. 42 Cost. Quest’ultima previsione identifica due tipologie di proprietà, ne consacra la dignità costituzionale e si preoccupa, con riferimento ai beni privati, di presidiarli a fronte del rischio di una loro espropriazione per ragioni di pubblica utilità. Per i beni comuni il profilo della titolarità soggettiva resta sullo sfondo, assumendo rilievo tanto il potere di fatto esercitato sui medesimi (possesso e detenzione), quanto la loro gestione.

Alla luce delle precedenti considerazioni, si evince che l’art. 42 Cost. non si frappone al riconoscimento giuridico della categoria dei beni comuni.

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A questo punto, è possibile sfruttare, sul piano ermeneutico, alcune combinazioni tra princìpi e norme costituzionali. Intanto, l’art. 43 Cost. contempla la possibilità, a fini di utilità generale, di riservare originariamente o di trasferire imprese o categorie di imprese che erogano servizi pubblici essenziali o che gestiscono fonti di energia o che operano in regime di monopolio, anche a «comunità di lavoratori o di utenti». In tale modo si allude ad una gestione partecipata, in seno alla comunità, di servizi che potrebbero inerire in molti casi a beni comuni. Più in generale, vista la matrice solidaristica e cooperativa dei beni comuni, un appiglio costituzionale si potrebbe rinvenire nell’art. 2, là dove ai consociati è imposto l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, nonché nell’art. 3, secondo comma, dal momento che il fine di giustizia sociale in esso espresso può trovare nei beni in parola uno strumento irrinunciabile al fine di garantire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita comunitaria. Senza dimenticare, poi, le tante previsioni, a cominciare dall’art. 42 là dove parla di funzione sociale della proprietà, che illuminano la vocazione sociale della Costituzione, da intendersi come sensibilità verso le dinamiche comunitarie relative alla distribuzione delle risorse ed all’esercizio dei diritti fondamentali. Se, poi, si pensa alle specifiche tipologie di beni atti a soddisfare diritti fondamentali, siano essi comuni in senso economico oppure meritori, allora altri agganci costituzionali potrebbero rinvenirsi, ad esempio, nella lettura combinata degli artt. 9 e 32 sulla quale ha trovato fondamento l’ambiente quale bene provvisto di dignità e, dunque, di tutela costituzionale, a cui si potrebbero ricondurre i vari commons naturali . Per converso lo stesso art. 32, che definisce la salute come oggetto di un diritto fondamentale dell’individuo, oltre che «interesse della collettività», costituisce anche il fondamento di un tipico bene meritorio quale la sanità pubblica, così come l’art. 34 sul diritto allo studio o l’art. 38 in tema di previdenza e assistenza.

La combinazione delle norme dettate in materia di libertà fondamentali potrebbe, a sua volta, fornire una ulteriore base costituzionale a beni strettamente correlati al diritto alla vita e ai diritti alla esplicazione dei momenti cruciali nei quali si esprime l’autonomia del singolo, sia pure come membro di una comunità. Si pensi all’impatto dell’art. 21 e anche dell’art. 33 sulla libertà di ricerca e di insegnamento sulla conoscenza, sia come bene pubblico in senso economico, sia in relazione a sue specificazioni nel senso dapprima chiarito, cui appaiono riconducibili i diversi casi di cultural e di intellectual commons.

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Capitolo VII GLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICAGLI STRUMENTI DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA

I soggetti, pubblici e privati, della costituzione economica, si avvalgono di una serie di strumenti che l’ordinamento giuridico mette a loro disposizione per lo svolgimento delle rispettive attività. In questo capitolo, analogamente ai precedenti, si analizzeranno gli strumenti della costituzione economica partendo dal versante pubblico per poi passare ai soggetti privati.

Sezione I I POTERI DEI SOGGETTI PUBBLICI

Le pubbliche istituzioni, nello svolgimento delle loro attività istituzionali, di regola si avvalgono di poteripoteripoteripoteri. Si tratta di situazioni giuridiche soggettive che esprimono una certa autorità, nel senso che attraverso il loro esercizio le pubbliche istituzioni sono legittimate a prescrivere comportamenti cogenti ai consociati. Attraverso il potere si esprime appieno la posizione di autorità che tali istituzioni rivestono nelle relazioni con gli individui. Nel nostro Stato costituzionale di diritto – è bene ribadirlo – i poteri non sono assoluti e illimitati, incontrando in realtà vincoli e limitazioni che discendono dalla Costituzione e che trovano, poi, attuazione in ambito legislativo. Lo Stato esprime la propria autorità attraverso i tre classici poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario. Di essi qualcosa è stato detto in precedenza. Ora si tratta di completare il quadro attraverso la disamina dei profili che più da vicino interessano i rapporti tra il diritto e l’economia.

La funzione legislativaLa funzione legislativaLa funzione legislativaLa funzione legislativa La funzione legislativa funzione legislativa funzione legislativa funzione legislativa è l’attività di prima e diretta attuazione della Costituzione. Spesso quest’ultima si limita ad enunciare princìpi generali lasciando alla legge il compito di attuarli ponendo norme di svolgimento e di dettaglio. Altre volte la Costituzione fissa essa stessa regole immediatamente applicabili: in questo caso la legge svolge una funzione integrativa o di specificazione. È bene precisare che la funzione legislativa si esprime non solo attraverso la legge ordinarialegge ordinarialegge ordinarialegge ordinaria del Parlamento, ma anche attraverso altre fonti primarie la cui produzione è devoluta ad altri organi o istituzioni: si pensi agli atti aventi forza di legge del Governo (i decreti legislativi decreti legislativi decreti legislativi decreti legislativi e i decreti leggedecreti leggedecreti leggedecreti legge) e alle leggi regionali leggi regionali leggi regionali leggi regionali (e delle Province autonome di Trento e di Bolzano).

1. La legge ordinaria del Parlamento. – Prendendo le mosse dalla legge ordinarialegge ordinarialegge ordinarialegge ordinaria, è bene innanzitutto osservare che essa è l’epilogo di un procedimentoprocedimentoprocedimentoprocedimento disciplinato dalla Costituzione e dai regolamenti di ciascuna Camera. Vigendo il principio del bicameralismo perfetto, ogni legge deve essere il frutto delle convergenti, seppur distinte, manifestazioni di volontà dei due rami del Parlamento. Per la descrizione del procedimento si rinvia a quanto sintetizzato in un precedente capitolo. In questa sede, invece, vale la pena indugiare sulle trasformazioni che hanno alterato l’originaria fisionomia della legge. In principio, la legge poteva a buon titolo considerarsi come lo strumento privilegiato e coerente di manifestazione della volontà popolare sul piano dell’attività normativa, sia pure attraverso la mediazione decisiva dell’organo democratico della rappresentanza politica. La legge era considerata espressione della volontà generale, in quanto preordinata a realizzare e garantire interessi della comunità nazionale, e si risolveva nella produzione di norme generali e astratte, in nome del principio di eguaglianza formale.

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Tutto ciò era in linea con le basi dello Stato liberale di diritto: - norme generali e astratte destinate a rendere effettiva l’eguaglianza di tutti davanti alla legge; - pieno rispetto della separazione dei poteri, atteso che la legge era destinata ad operare quale

fonte del diritto; - configurazione di un procedimento svolto dinanzi all’assemblea rappresentativa del popolo. Nel momento in cui muta la cornice di riferimento, cambia anche la fisionomia della legge. Con l’avvento dello Stato sociale, compito delle istituzioni pubbliche non è solo quello di

garantire i diritti soggettivi, ma è anche quello di intervenire direttamente nei rapporti economici e sociali per correggere i fallimenti del mercato e l’iniqua distribuzione della ricchezza nazionale.

Questa trasformazione del ruolo complessivo dello Stato ha prodotto ripercussioni anche sul versante legislativo attraverso una ridefinizione dei caratteri della legge. Più precisamente, questa rivisitazione dello strumento legislativo è stata favorita da un ripensamento globale del principio della separazione dei poteri. Nella sua versione classica, di ispirazione liberale, data la sua rigidità questo principio non avrebbe potuto assistere adeguatamente l’inedito ruolo delle pubbliche istituzioni. Lo Stato sociale ha, così, imposto una attenuazione della rigidità della divisione dei poteri. Ciò a favore, innanzitutto, di un potenziamento dei luoghi di confronto e di collaborazione. L’alleggerimento della rigidità di tale principio ha poi condotto alla introduzione di deroghe giustificate dalla necessità di configurare meccanismi idonei a fronteggiare i molteplici problemi dei quali si era preso carico lo Stato sociale. Dunque, nella versione classica di matrice liberale, la legge era considerata fonte primaria del diritto, produttive di norme generali e astratte, espressione diretta ed esclusiva della funzione legislativa, come tale pienamente rispettosa del principio della separazione dei poteri. Con l’avvento dello Stato sociale, resta ferma questa configurazione, ma lo spettro delle potenzialità espressive della legge si arricchisce progressivamente attraverso la creazione di inedite tipologie di legge. Si passa, così, da una concezione monolitica della legge ad una dimensione poliedrica della stessa. Ecco le novità su questo versante, che più interessano la costituzione economica.

1) Leggi provvedimentoLeggi provvedimentoLeggi provvedimentoLeggi provvedimento. Queste leggi scardinano la netta separazione tra potere legislativo e potere amministrativo. Infatti, nello Stato liberale di diritto il potere legislativo conduce alla produzione di norme giuridiche generali e astratte, mentre il potere esecutivo si esprime attraverso atti amministrativi, vale a dire in provvedimenti destinati a definire una situazione specifica mediante l’applicazione della legge ad un caso concreto.

Così, ad esempio, la legge stabilisce che per costruire una casa su di un terreno il proprietario deve chiedere una licenza (funzione legislativa). Il Sig. Tizio, proprietario di un terreno sito nel comune di Villanova in via Verdi 11, per costruire su di esso una casa, chiede al sindaco di tale comune la licenza (funzione amministrativa).

Ebbene, attraverso la legge provvedimento, il legislatore anziché produrre norme giuridiche generali e astratte, produce norme sì giuridiche, ma relative a situazioni specifiche, concretamente identificate.

Così, ad esempio, una legge dispone la revoca di tutti i provvedimenti amministrativi concessi a talune imprese per lo svolgimento di determinate attività. Oppure, una legge stanzia una data somma di denaro come sovvenzione ad un determinato ente privato di assistenza.

Con la legge provvedimento, dunque, il legislatore compie un atto che, stando al principio della separazione dei poteri, spetterebbe all’autorità amministrativa, cioè al potere esecutivo. Si parla, infatti, anche di leggi in luogo di provvedimento amministrativo, proprio a sottolineare questa sostituzione. Le ragioni sottese a questo tipo di intervento sono molteplici. Il potere legislativo intende assumersi direttamente la responsabilità di decisioni destinate ad incidere direttamente in realtà

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soggettive specificamente individuate. Oppure, si predilige la legge per ridurre il rischio di azioni legali contro certe decisioni. Infatti, un atto amministrativo può – come vedremo – essere impugnato davanti al T.a.r., in primo grado, e al Consiglio di Stato, in appello: non solo doppio giudizio, ma anche varietà dei vizi denunciabili (violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere). Al contrario, una legge (che si sostituisce all’atto amministrativo) può essere impugnata solo davanti alla Corte costituzionale in presenza di rigorosi presupposti (nel corso di un giudizio davanti ad un giudice, sempre che la questione di legittimità costituzionale sia rilevante e non manifestamente infondata). Detto in breve, sostituendosi all’amministrazione (potere esecutivo), il legislatore mette una decisione concreta al riparo di iniziative giudiziarie potenzialmente capaci di vanificare la decisione stessa. In campo economico è ricorrente l’uso delle leggi provvedimento. Quando lo Stato nazionalizzò alcuni servizi pubblici negli anni Sessanta (si pensi, ad esempio, all’energia elettrica), l’espropriazione delle vecchie aziende private e la creazione di un’unica impresa pubblica furono realizzate non con atto amministrativo, ma con la legge. In effetti, per espropriare un bene (funzione amministrativa, cioè potere esecutivo), è più facile e sicuro ricorrere alla legge (funzione legislativa), per le ragioni sopra ricordate. Le leggi provvedimento costituiscono oramai una componente stabile e accettata del nostro panorama giuridico. Nondimeno, la Corte costituzionale ha definito un assetto giurisprudenziale congeniale ad un appropriato equilibrio tra la funzione legislativa e la funzione amministrativa. a) La natura provvedimentale di una legge o di un atto avente forza di legge è riconosciuta quando essa «incide su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto». Non così, invece, allorché l’atto legislativo si riferisca «ad un numero indeterminato di destinatari» e non concerna «un oggetto rientrante tra quelli propri dei provvedimenti amministrativi». b) Anche il legislatore regionale è legittimato ad adottare simili atti. Non si può, infatti, asserire che «il divieto di leggi a contenuto particolare e concreto tocchi soltanto le Regioni in conseguenza di un presunto principio generale dell’ordinamento giuridico, poiché un principio del genere, concernendo i caratteri strutturali della legge diretti a qualificarne l’essenza o l’identità tipologica come atto normativo, dovrebbe essere desunto da una inequivoca norma avente un rango superiore alla stessa legge, che in verità non è dato rinvenire nel nostro ordinamento positivo». c) La legittimità delle leggi provvedimento riposa sulla mancata previsione, in Costituzione, di una riserva di amministrazione tale da imporre un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto. La legge può «attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa». Quindi, è «possibile che, in casi particolari, il legislatore provveda direttamente alla valutazione ed alla determinazione di scelte concrete che, altrimenti, in attuazione dei criteri dettati dal legislatore stesso, resterebbero affidate alla discrezionalità dell’amministrazione nell’apprezzamento del pubblico interesse». d) La legittimità di siffatte leggi, «valutata in relazione al loro specifico contenuto», è verificata attraverso uno scrutinio stretto di costituzionalità, condotto alla stregua del principio di ragionevolezza nelle sue molteplici declinazioni di non arbitrarietà, di proporzionalità, di adeguatezza, di congruità. In particolare, il giudice costituzionale è chiamato ad appurare, in maniera stringente, se siano identificabili interessi in grado di giustificare l’intervento del legislatore, desumibili anche in via interpretativa, e se sia stata realizzata una scelta proporzionata ed adeguata all’obiettivo da raggiungere. Ciò in considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio. e) Posto che sul legislatore non grava alcun obbligo di motivazione, nondimeno debbono risultare i criteri che ispirano le scelte realizzate con la legge provvedimento, nonché le relative modalità di attuazione. Al riguardo, «è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici». Resta fermo che il sindacato della Corte sulla denunciata irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore «non può spingersi fino a considerare la consistenza degli elementi di fatto posti a base della scelta medesima». Nondimeno, la Corte esige che dette leggi sia

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precedute ad una adeguata istruttoria, la cui carenza è sintomo di cattivo esercizio del potere legislativo in funzione provvedimentale.

2) Leggi incentivoLeggi incentivoLeggi incentivoLeggi incentivo. Nello Stato sociale, la legge non si limita a fissare norme giuridiche a contenuto prescrittivo (→ imposizione obbligatoria di comportamenti o di omissioni) o a contenuto punitivo (→ configurazione di illeciti e previsione contestuale di sanzioni). Talora, la legge svolge una funzione promozionale, nel senso di contemplare previsioni che spingono le persone interessate ad assumere determinate iniziative. Questa spinta è fatta attraverso la previsione di misure finanziarie, sgravi fiscali, alleggerimenti burocratici, volti tutti a incentivare il compimento di azioni che altrimenti nessuno avrebbe interesse a porre in essere.

Si pensi alle leggi che consentono di detrarre, nella dichiarazione dei redditi, una parte delle spese sostenute per la ristrutturazione di un immobile. Oppure ad una legge che prevede l’erogazione di una somma di denaro per la rottamazione dell’autovettura in vista dell’acquisto di un nuovo veicolo. O, ancora, alla previsione legislativa di incentivi per l’adozione di fonti rinnovabili di energia, come l’eolico o il fotovoltaico.

Queste leggi sono coerenti con l’inedita vocazione dello Stato quale soggetto promotore di attività rilevanti sul piano economico al fine di stimolare la ripresa del sistema produttivo e la sua crescita. Il fattore di criticità di queste leggi è la loro possibile abrogazione, magari con efficacia retroattiva. In questi casi è forte la lesione del legittimo affidamento che i consociati ripongono in misure che li hanno indotti a prendere iniziative che altrimenti non avrebbero assunto. Ancora una volta è la Corte costituzionale a porre vincoli e condizioni per l’abrogazione delle leggi di incentivo, in nome soprattutto del principio di ragionevolezza.

Così, ad esempio, se una legge incentivo prevede l’erogazione periodica di finanziamenti, la sua abrogazione, per non alterare un rapporto giuridico pendente in quanto destinato a proiettarsi nel tempo, deve essere, secondo la Corte costituzionale, corredata da una adeguata disciplina transitoria, in modo tale da rendere meno brusco il venir meno di quell’incentivo.

3) Leggi di interpretazione autenticaLeggi di interpretazione autenticaLeggi di interpretazione autenticaLeggi di interpretazione autentica. Interpretare la legge significa ricavare dalla disposizione la norma da applicare al caso concreto. Per disposizione s’intende la frase che il legislatore ha redatto per esprimere la propria volontà normativa. Per norme s’intende lo schema di qualificazione entro cui ricondurre un determinato fatto secondo il modello causale già descritto. Normalmente, da una disposizione si ricava una e una sola norma. Se, invece, a causa di inesattezze o ambiguità lessicali o perché vi sono stati importanti mutamenti sociali o economici dal momento dell’entrata in vigore della legge, dalla disposizione si possono in astratto ricavare più norme (confliggenti tra di loro), allora emerge un problema interpretativo. Nel rispetto del principio della separazione dei poteri spetta al giudice sciogliere il nodo interpretativo, applicando le ordinarie e vincolanti regole dell’interpretazione (criterio letterale, intenzione del legislatore, criterio sistematico, interpretazione costituzionalmente orientata). In effetti, l’interpretazione è il passo che precede l’applicazione della legge al caso concreto, che spetta al giudice per dirimere una data controversia. A volta, però, è lo stesso legislatore a svolgere questo compito, attraverso appunto le leggi di interpretazione autentica.

Queste leggi si identificano in presenza di espressioni del tipo: «... l’art. 18, comma 1, lett. a), della legge 23 marzo 1990, n. 123, deve essere interpretato nel senso che i beneficiari del trattamento pensionistico previsto dall’art. 17 della stessa legge sono soltanto i dirigenti...». Normalmente queste leggi recano testualmente la loro qualifica di “leggi di interpretazione autentica”.

Perché il legislatore si sostituisce all’autorità giudiziaria nell’interpretare una data legge ? Nel nostro ordinamento, posto che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (→ art. 101, secondo comma, Cost.), l’interpretazione dei giudici, persino quella della Corte di cassazione (→

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giurisprudenza), non è giuridicamente vincolante. Dunque, quand’anche la Corte di cassazione, organo di chiusura dell’apparato giudiziario e titolare del già citato potere di nomofilachia, sceglie una determinata interpretazione, gli altri giudici possono anche discostarsene., con l’unico rischio (ma non la certezza) di vedersi annullare la decisione nei successivi gradi di giudizio. La legge di interpretazione autentica, invece, è giuridicamente vincolante, in quanto detta interpretazione è stabilita da una fonte del diritto: dunque, i giudici sono soggetti alla legge di interpretazione autentica. È definita “autentica” proprio perché proviene dal legislatore, che interpreta propri atti precedenti. Normalmente, una legge di interpretazione autentica interviene quando vi è un forte dissidio tra i giudici sulla interpretazione di una data norma legislativa. Ciò che crea incertezza del diritto, in quanto in un tribunale una data disposizione si interpreta in un certo modo, mentre in un altro tribunale la si interpreta in modo diverso. Si suole affermare che, in quel caso, non si è formato alcun “diritto vivente”, ossia un indirizzo giurisprudenziale consolidato. Per risolvere questo problema, il legislatore mette fine ai dubbi interpretativi imponendo con legge una certa interpretazione, con esclusione delle altre. A volte, però, il legislatore interviene anche quando c’è un diritto vivente, ma in questo modo vuole costringere i giudici a cambiare idea, accedendo alla interpretazione preferita dallo stesso legislatore. In questo caso, è forte la tensione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, e il principio della separazione dei poteri ne risente parecchio. Ad accentuare questa tensione intervengono leggi che si mascherano dietro la qualifica di interpretazione autentica, avendo in realtà una diversa portata sostanziale. Non c’è nessun dubbio interpretativo da sciogliere. Il legislatore interviene solo per imporre anche per il passato una nuova norma giuridica. In effetti, le leggi di interpretazione autentica sono per definizione retroattiveretroattiveretroattiveretroattive. Visto che il loro compito è interpretare una precedente legge, il legislatore fornisce una risposta che non può non applicarsi sin dal momento in cui quella legge è entrata in vigore. Ebbene, per limitare l’abuso dell’interpretazione autentica, la Corte costituzionale ha stabilito che: a) non è decisiva l’autoqualificazione della legge come “legge di interpretazione autentica”; b) ciò che conta è la portata retroattiva della stessa, che è ammissibile solo nel rispetto dei limiti e delle condizioni, tutte in qualche misura riconducibili al principio di ragionevolezza, che la Corte stessa ha individuato nel tempo.

4) Leggi legate alla manovra di bilancioLeggi legate alla manovra di bilancioLeggi legate alla manovra di bilancioLeggi legate alla manovra di bilancio. Lo strumentario legislativo si è arricchito di inedite figure nel corso degli ultimi decenni, proprio in relazione alla manovra di bilancio. Ogni anno il Parlamento approva con legge il bilancio preventivo e il rendiconto consuntivo: - il bilancio preventivo bilancio preventivo bilancio preventivo bilancio preventivo indica le spese e le entrate previste per l’anno successivo; - il rendiconto consuntivo rendiconto consuntivo rendiconto consuntivo rendiconto consuntivo indica le spese e le entrate effettivamente poste in essere nel corso dell’anno precedente. Questi atti sono predisposti dal Governo per poi essere approvati, in ossequio al principio no taxation without representation, dal Parlamento con legge. Senonché ben presto la legge di bilancio si è rivelata uno strumento finanziario troppo rigido. In effetti: Tutte le spese devono essere previste dalla legge (più correttamente, da una fonte primaria del diritto). Anche le entrate, con particolare riferimento alle imposte (→ art. 23 Cost.), devono essere previste dalla legge (da una fonte primaria). Quando il Governo redige il bilancio, esso è vincolato al rispetto delle leggi, di spesa e di entrata, vigenti in quel momento. Nel contempo il Governo deve poter realizzare gli obiettivi con i quali la maggioranza si è presentata alle elezioni, per poter contare su una possibile nuova vittoria.

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Per la realizzazione di quegli obiettivi, il Governo deve spendere o deve agire sul versante delle entrate (ad esempio, diminuendo le tasse). Dunque, nel predisporre il bilancio (spese e entrate), il Governo può verificare se le leggi di spesa e di entrata in vigore in quel momento sono davvero sufficienti e adeguate. E se non lo sono ? - il Governo non può modificare quelle leggi mentre redige il bilancio perché non ne ha i poteri; - al tempo stesso, anche il Parlamento non può modificarle in sede di approvazione del bilancio, dal momento che la legge di approvazione del bilancio è una legge meramente formale in quanto il Parlamento non può modificare il bilancio redatto dal Governo, né apportare direttamente modifiche alla legislazione vigente. E, allora, che fare ? Ebbene, per garantire al Governo la possibilità di realizzare i propri obiettivi programmatici potendo contare su spese ed entrate adeguate, in modo organico e globale, il Parlamento ha introdotto, nel 1978, la legge finanziarialegge finanziarialegge finanziarialegge finanziaria. Alla legge finanziaria è stato affidato il compito di modificare le leggi di spesa e di entrata in vigore in quel momento in modo coerente con gli obiettivi programmatici del Governo. In questo modo i singoli ministri furono messi nelle condizioni di stabilire l’entità finanziaria degli interventi nei rispettivi settori contando su un quadro normativo modificato. Modificato non a casaccio, ma in maniera mirata e coordinata, alla luce della quantificazione delle risorse necessarie a realizzare i suddetti obiettivi. Pertanto, la manovra di bilancio si articolava, sommariamente, nelle seguenti fasi: 1) documento di programmazione economicodocumento di programmazione economicodocumento di programmazione economicodocumento di programmazione economico----finanziarfinanziarfinanziarfinanziariaiaiaia: il Governo adottava e presentava alle Camere un documento recante gli obiettivi macroeconomici da realizzare nel triennio successivo, in armonia con l’indirizzo politico di maggioranza; 2) legge finanziarialegge finanziarialegge finanziarialegge finanziaria: il Parlamento, su iniziativa del Governo, approva una sola legge che include tutte le modifiche alle leggi vigenti, sia sul versante delle spese sia su quello delle entrate, in modo tale da poter predisporre un bilancio coerente con i suddetti obiettivi; 3) legge di bilanciolegge di bilanciolegge di bilanciolegge di bilancio: finalmente il Parlamento procede con l’approvazione del bilancio. Senonché, la legge finanziaria ha ben presto smarrito la propria vocazione originaria, per divenire uno strumento col quale il debito pubblico è aumentato a dismisura. In effetti, la procedura di approvazione della legge finanziaria veniva percepita come l’occasione più propizia per introdurre nel testo presentato dal Governo le previsioni più disparate al fine di accontentare gruppi di pressione o assecondare i desideri espressi dagli elettori dei singoli parlamentari. Il disegno di legge finanziaria entrava in Parlamento con un peso, e ne usciva con un peso decuplicato: più interventi dello Stato, più spese e, quindi, più tasse e più indebitamento pubblico. A porre un freno a questa crescita smisurata e incontenibile del debito pubblico ha provveduto la maturazione del processo di integrazione europea. Un debito pubblico elevato indebolisce un sistema economico. L’indebolimento dell’economia di uno Stato si riflette inevitabilmente sui sistemi economici degli altri Stati membri dell’Unione europea. Sicché, le istituzioni comunitarie hanno intrapreso una serie di iniziative volte a raccomandare, prima, e a imporre, dopo, comportamenti virtuosi degli Stati, in termini di interventi strutturali di riduzione e di contenimento della spesa pubblica. Per semplificare al massimo, l’Unione europea ha obbligato gli Stati a tenere in ordine i conti al fine di non subire conseguenze negative, così accrescendo progressivamente i poteri di ingerenza e di controllo degli organismi comunitari. In particolare, in virtù del Trattato di Maastricht, i conti non tornano se: 1) il disavanzo supera la soglia del 3 % del prodotto interno lordo; 2) il debito pubblico supera la soglia del 60 % del prodotto interno lordo. Da ultimo è intervenuto il cd. Fiscal compactFiscal compactFiscal compactFiscal compact, vale a dire il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione europea, sottoscritto da 25 paesi (trai quali l’Italia) il 2 marzo 2012. Tra i molteplici vincoli così introdotti occorre ricordare, in particolare:

- l’inserimento del pareggio di bilanciopareggio di bilanciopareggio di bilanciopareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) di ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale»;

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- il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale” – quindi non legato a emergenze – rispetto al prodotto interno lordo;

- l’obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e prodotto interno lordo, già previsto da Maastricht;

- per i paesi con un rapporto tra debito e prodotto interno lordo superiore al 60 % previsto da Maastricht, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno un ventesimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60 %.

Il nostro Paese si è uniformato al fiscal compact innanzitutto modificando l’art. 81 Cost., nei seguenti termini:

«1. Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

2. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

3. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. 4. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo

presentati dal Governo. 5. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e

per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. 6. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad

assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale». Il senso di questa previsione è chiaro: le istituzioni debbono adoperarsi per garantire il pareggio pareggio pareggio pareggio

di bilanciodi bilanciodi bilanciodi bilancio, considerando il ricorso all’indebitamento quale extrema ratio da riservare solo in occasione di eccezionali situazioni di crisi economica.

La portata di questa disciplina è altrettanto evidente. Per pervenire al pareggio di bilancio, lo Stato può anche considerare di fare tagli notevoli alla spesa sociale.

Per garantire, poi, il rispetto dei vincoli comunitari di contenimento della spesa pubblica e di stabilità, la legge n. 196 del 2009, come modificata nel 2011, ha definito un ciclo annuale di bilanciociclo annuale di bilanciociclo annuale di bilanciociclo annuale di bilancio. Il Parlamento italiano ha eliminato la legge finanziaria e l’ha sostituita con la legge di stabilitàlegge di stabilitàlegge di stabilitàlegge di stabilità.

«La legge di stabilità riporta i livelli massimi del saldo netto da finanziare (cioè la differenza tra le entrate e le spese) e del ricorso al mercato finanziario. Essa dispone in particolare l’eventuale aumento o riduzione dell’imposizione fiscale, i fondi destinati al rinnovo dei contratti pubblici, le misure correttive alle varie leggi di cui è necessario (se del caso) ridurre l’onere: insomma, contiene le disposizioni volte a far sì che il bilancio dell’anno successivo corrisponda agli obiettivi programmatici. La legge di stabilità non è stata concepita come diversa solo nel nome dalla vecchia legge finanziaria: nelle intenzioni dovrebbe risultare un testo relativamente scarno, con un contenuto limitato alla fissazione di poste, saldi, aliquote, mentre per gli “interventi di carattere ordinamentale, organizzatorio ovvero di rilancio e sviluppo dell’economia” ci si dovrebbe affidare a specifici disegni di legge collegati alla manovra finanziaria (indicati sin da aprile nel documento di economia e finanza), con lo scopo cioè di introdurre nell’ordinamento quelle innovazioni che si ritiene servano a perseguire gli obiettivi prefissati. I disegni di legge collegati vanno presentati entro il gennaio successivo, quando il ciclo di bilancio dell’anno solare comincia a muovere i suoi primi passi in ambito europeo. A oggi si è tuttavia rimasti alle buone intenzioni: la legge di stabilità approvata alla fine del 2013 conteneva ben 749 articoli-commi (…). Le procedure di bilancio ora descritte, in base alla legge di attuazione del nuovo art. 81 Cost., restano in vigore fino al 2016 quando legge di stabilità e legge di bilancio confluiranno in un unico testo (v. l. 24 dicembre 2012, n. 243)» (A. BARBERA, C. FUSARO, Corso di diritto pubblico, VIII ed., Il Mulino, Bologna, 2014, 279).

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Il ciclo di bilancio tra Parlamento, Governo e istituzioni europee può essere descritto dal seguente calendario, non prima però di aver sintetizzato la tipologia e il contenuto degli atti che costituiscono la manovra di bilancio. a) Documento di economia e finanza Documento di economia e finanza Documento di economia e finanza Documento di economia e finanza (D.e.f.): analizza l’andamento dell’economia e dei conti pubblici, con le relative previsioni tendenziali, e contiene il programma di stabprogramma di stabprogramma di stabprogramma di stabilitàilitàilitàilità e il programma programma programma programma nazionale di riformanazionale di riformanazionale di riformanazionale di riforma. Questi ultimi, a loro volta, indicano gli obiettivi programmatici per il triennio, con particolare riferimento alla riduzione del debito pubblico, alla ripartizione degli obiettivi per livelli di governo e alle ipotesi di riforma strutturale. b) Rendiconto generale dello StatoRendiconto generale dello StatoRendiconto generale dello StatoRendiconto generale dello Stato: non è che il bilancio consuntivo relativo all’anno precedente. c) Legge di assestamentoLegge di assestamentoLegge di assestamentoLegge di assestamento: è la legge con la quale eventualmente si riportano i conti in linea con gli obiettivi per l’anno in corso. d) Nota di aggiornamento del D.e.f.Nota di aggiornamento del D.e.f.Nota di aggiornamento del D.e.f.Nota di aggiornamento del D.e.f.: aggiorna le previsioni macroeconomiche e indica i nuovi obiettivi da raggiungere anche su indicazione dell’Unione europea. e) Legge di bilancioLegge di bilancioLegge di bilancioLegge di bilancio: è la legge con la quale ogni anno le Camere approvano il bilancio preventivo dello Stato, redatto dal Governo. f) Legge di stabilitàLegge di stabilitàLegge di stabilitàLegge di stabilità: è l’erede della vecchia legge finanziaria, e serve a realizzare gli obiettivi stabiliti nel D.e.f. Nella legge di stabilità deve essere specificato: il saldo netto da finanziare, ovvero il disavanzo pubblico tra spese e entrate finali; il saldo del ricorso al mercato, ossia il deficit complessivo da coprire mediante prestiti; l’importo dei fondi speciali di bilancio; l’importo massimo per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego; gli stanziamenti per il rifinanziamento di spese in conto capitale previste da leggi in vigore; le previsioni di spesa a lungo termine, connesse alle risorse finanziarie disponibili in ogni anno. g) Documento programmatico di bilancioDocumento programmatico di bilancioDocumento programmatico di bilancioDocumento programmatico di bilancio: è l’atto con il quale il Governo illustra alle istituzioni europee i disegni di legge di bilancio e di stabilità. h) Leggi collegate alla manovraLeggi collegate alla manovraLeggi collegate alla manovraLeggi collegate alla manovra: recano le vere e proprie riforme strutturali volte a realizzare gli obiettivi programmati. 31 gennaio e 31 31 gennaio e 31 31 gennaio e 31 31 gennaio e 31 marzomarzomarzomarzo

La Commissione europea presenta l’analisi annuale sulla crescitaanalisi annuale sulla crescitaanalisi annuale sulla crescitaanalisi annuale sulla crescita e formula proposte strategiche. In seguito, il Consiglio U.e. fissa le linee guidalinee guidalinee guidalinee guida recanti i principali obiettivi di politica economica.

10 aprile10 aprile10 aprile10 aprile Il Governo presenta alle Camere di D.e.f.D.e.f.D.e.f.D.e.f. 30 aprile30 aprile30 aprile30 aprile Il Governo presenta alle istituzioni comunitarie il programma di stabilitàprogramma di stabilitàprogramma di stabilitàprogramma di stabilità e il

programma nazionale di riformaprogramma nazionale di riformaprogramma nazionale di riformaprogramma nazionale di riforma. 30 giugno30 giugno30 giugno30 giugno Il Governo presenta in Parlamento il disegno di legge di approvazione del

rendiconto generalerendiconto generalerendiconto generalerendiconto generale e, contemporaneamente, il disegno di legge dlegge dlegge dlegge di i i i assestamentoassestamentoassestamentoassestamento.

31 luglio31 luglio31 luglio31 luglio La Commissione e il Consiglio U.e. valutano il programma di stabilità e il programma nazionale di riforma, formulando eventuali pareri.

20 settembre20 settembre20 settembre20 settembre Il Governo presenta alle Camere la nota di aggiornamento del D.e.f.nota di aggiornamento del D.e.f.nota di aggiornamento del D.e.f.nota di aggiornamento del D.e.f. 15 ottobre15 ottobre15 ottobre15 ottobre Il Governo presenta in Parlamento il disegno di legge di approvazione del

bilancio di previsionebilancio di previsionebilancio di previsionebilancio di previsione e il disegno di legge di stabilitàlegge di stabilitàlegge di stabilitàlegge di stabilità. 30 novembre30 novembre30 novembre30 novembre La Commissione europea adotta un parere sul documento programmatico di documento programmatico di documento programmatico di documento programmatico di

bilanciobilanciobilanciobilancio. 31 dicembre31 dicembre31 dicembre31 dicembre Termine ultimo per l’approvazione del bilancio annuale. Altrimenti, scatta

l’esercizio provvisorioesercizio provvisorioesercizio provvisorioesercizio provvisorio per un periodo non superiore a quattro mesi. 31 gennaio dell31 gennaio dell31 gennaio dell31 gennaio dell’’’’anno anno anno anno succ.succ.succ.succ.

Il Governo presenta alle Camere i disegni di legge collegaticollegaticollegaticollegati alla manovra di finanza pubblica.

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2. Gli atti aventi forza di legge del Governo. – Dei decreti legislativi e dei decreti legge del Governo si è già detto abbastanza in precedenza. Qui basta notare come questi atti normativi siano sempre più considerato gli strumenti privilegiati di intervento in campo economico o, comunque, in settori sociali che risentono più da vicino delle vicissitudini del sistema produttivo. Si ricorre al decreto legislativo, preceduto dalla legge delega, quando s’intende realizzare vaste riforme di discipline organiche che richiedono particolari competenze tecniche che il Governo, meglio del Parlamento, è in grado di assicurare con il suo apparato amministrativo. In più, spesso con la legge delega si demanda al Governo l’adozione di misure normative impopolari, che come tali metterebbero a disagio la maggioranza parlamentare: si pensi al mercato del lavoro, al sistema previdenziale, al diritto tributario. Si ricorre al decreto legge quando non si confida più sulla capacità del Parlamento di intervenire in maniera efficace in campo economico, specie in presenza di una situazione di grave crisi. In questo modo, il presupposto dei casi straordinari di necessità e di urgenza viene interpretato spesso con disinvoltura, e l’atteggiamento del Parlamento in sede di conversione diviene accondiscendente, quasi di ratifica delle scelte operate dall’esecutivo. Ad ogni modo, oggi il Parlamento fa sempre meno leggi, e correlativamente è esplosa l’attività normativa del Governo, ritenuto l’organo meglio attrezzato, non solo per le competenze tecniche ma anche per la facilità nel pervenire alle decisioni, per fronteggiare i cicli sfavorevoli dell’economia. Ciò comporta, però, una traslazione della responsabilità politica dal potere legislativo al potere esecutivo, con significativi contraccolpi sul modello di democrazia rappresentativa accolto dalla nostra Costituzione: l’efficienza decisionale e la necessità di rispettare il confronto democratico spesso entrano in tensione.

3. La legge regionale. – Il principio autonomistico giustifica l’adozione di discipline legislative differenziate, che tengano conto delle peculiarità dei rispettivi contesti territoriali. Nel contempo il principio unitario impone l’adozione di discipline legislative uniformi allorquando vi siano interessi da tutelare che travalicano i confini regionali per coinvolgere l’intera comunità nazionale. Per contemperare questi due princìpi, l’assemblea costituente ha deciso di assegnare la funzione legislativa anche alle Regioni, eliminando così il monopolio statale. Si è posto, però, un problema di distribuzionedistribuzionedistribuzionedistribuzione della funzione legislativa: quando interviene la legge statale ? Quando interviene, invece, la legge regionale ? L’Assemblea costituente avrebbe potuto optare per il criterio del livello degli interessi. Se sono coinvolti interessi nazionali, spetta al legislatore statale intervenire. Se, invece, sono prevalenti gli interessi locali, tocca ai legislatori regionali. Tuttavia, questo criterio è troppo opinabile e inafferrabile, risultando estremamente difficile identificare con certezza il livello degli interessi incisi da una data disciplina legislativa. Senza contare, poi, i tanti casi in cui sussiste un tale intreccio di interessi (nazionali e locali) da rendere impossibile l’identificazione degli interessi prevalenti. Così, è stato scelto il criterio delle materiecriterio delle materiecriterio delle materiecriterio delle materie. La Costituzione italiana, al pari delle carte costituzionali degli ordinamenti federali, ha optato per un criterio oggettivo, accessibile, chiaro. Per materia, infatti, s’intende l’insieme di fatti e rapporti giuridici accomunati da condivisi elementi essenziali, alla luce degli obiettivi e delle finalità da raggiungere attraverso l’azione dei pubblici poteri e le iniziative poste in essere dai privati. Il limite di tale criterio è, nondimeno, evidente. Per un verso, la Costituzione non reca la definizione puntuale di ogni singola materia (e, comunque, sarebbe stato difficile pervenire a questo risultato). Pertanto, non sempre risulta agevole collocare un determinato rapporto o comportamento o situazione in una materia piuttosto che in un’altra.

Un esempio. Il servizio di telefonia in sede fissa, erogato dai cd. phone center, ossia locali aperti al pubblico, all’interno dei quali è possibile comunicare via telefono o internet a tariffe vantaggiose, è “commercio” o “comunicazione” ? Il dubbio nasce dalle specifiche caratteristiche di questa attività economica. Sono utilizzate

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apparecchiature elettroniche di comunicazione, ma al tempo stesso i phone center sono inclusi nella rete commerciale di un dato Comune (hanno l’aspetto esteriore del “negozio” a tutti gli effetti).

Questo criterio, poi, palesa una ulteriore criticità. I rapporti sociali ed economici sono in continua evoluzione. Dunque, che fare se si affermano, a livello legislativo, nuove materie non considerate nel testo costituzionale ? Senza trascurare i rapporti giuridici che andrebbero collocati contemporaneamente in ambiti materiali diversi.

Una esemplificazione del primo problema, sempre che ci si collochi idealmente agi anni dell’entrata in vigore della Costituzione, è senza dubbio internet, o anche la tutela dell’ambiente, che è una conquista relativamente recente nel panorama giuridico. Quanto al secondo problema, si pensi all’agriturismo: agricoltura o turismo ? O agli alloggi popolari: edilizia o servizi sociali ?

Nonostante queste criticità, il criterio materiale è stato accolto senza esitazione e continua a definire l’assetto dei rapporti tra legge statale e legge regionale. L’Assemblea costituente ha assegnato all’art. 117 art. 117 art. 117 art. 117 il compito di definire la distribuzione della funzione legislativa tra Stato e Regioni. In origine (dunque, prima della riforma costituzionale del 2001), l’assetto era definito nei seguenti termini: a) erano specificamente individuate materie rimesse alla potestàpotestàpotestàpotestà legislativa concorrentelegislativa concorrentelegislativa concorrentelegislativa concorrente. In questi ambiti materiali lo Stato avrebbe dovuto fissare i princìpi fondamentali (→ legislazione di cornice), mentre i legislatore regionali avrebbero dovuto dettare le norme di svolgimento di tali princìpi. Dunque, una cornice comune a tutte le Regioni, recante i princìpi di base, e poi discipline differenziate a seconda delle scelte politiche e delle esigenze espresse in quegli ambiti materiali; b) in tutte le materie non indicate nell’art. 117 ci sarebbe stato spazio solo per le leggi statali; c) in queste ultime materie, però, il legislatore statale avrebbe potuto delegare alle Regioni il compito di integrare la disciplina confezionata a livello statale (potestà legislativa integrativapotestà legislativa integrativapotestà legislativa integrativapotestà legislativa integrativa o o o o attuativaattuativaattuativaattuativa). Come si nota, lo spazio di espressione dell’autonomia legislativa regionale, come ritagliato in origine dall’art. 117, era alquanto striminzito, quasi il riflesso della missione paternalistica assegnata allo Stato nei confronti delle neonate Regioni: o interviene solo lo Stato (perché sono dominanti gli interessi nazionali) o intervengo le Regioni, ma nel rispetto dei princìpi dettati a livello nazionale, al fine di ridurre o contenere le differenziazioni legislative in ambito locale. Per le Regioni a statuto speciale la situazione non era poi tanto dissimile. È vero: ad esse fu riconosciuta una potestà legislativa sulla carta più forte, la cd. potestà legislativa regionale piena o potestà legislativa regionale piena o potestà legislativa regionale piena o potestà legislativa regionale piena o esclusivaesclusivaesclusivaesclusiva. Tuttavia, i limiti previsti dai rispettivi statuti speciali erano tali da consentire ingerenze forti da parte del legislatore statale (si pensi solo al limite delle “norme fondamentali di riforma economico-sociale” e all’uso che di esse ne è stato fatto nella prassi legislativa). Questa è la situazione in cui versa l’autonomia regionale nel momento in cui, come anticipato, il Parlamento varò una importante riforma costituzionale nel 2001 (→ legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), modificando anche e innanzitutto l’art. 117. La riforma, su questo versante, fu ispirata dal’esperienza degli ordinamenti federali, dove la regola è la legge statale e l’eccezione è la legge federale: cioè, la Costituzione individua le materie in cui c’è spazio per le leggi federali, mentre tutto il resto spetta alle legislazioni statali (→ clausola residuale). Come vedremo di qui a poco, l’ascendente esercitato dallo Stato federale ha prodotto solo in parte i suoi effetti palingenetici. Ebbene, per effetto della revisione costituzionale del 2001, l’attuale art. 117 contempla tre distinti livelli di legislazione. 1) Potestà legislativa esclusiva dello StatoPotestà legislativa esclusiva dello StatoPotestà legislativa esclusiva dello StatoPotestà legislativa esclusiva dello Stato. Nelle materie elencate nel secondo comma c’è spazio solo per leggi statali.

Ecco le materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b)

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immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

2) Potestà legislativa concorrentePotestà legislativa concorrentePotestà legislativa concorrentePotestà legislativa concorrente. Nelle materie elencate nel terzo comma al legislatore statale spetta la enunciazione dei princìpi fondamentali, mentre ai legislatori regionali tocca intervenire con norme di svolgimento.

Ecco le materie: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

3) Potestà legislativa residuale delle RegioniPotestà legislativa residuale delle RegioniPotestà legislativa residuale delle RegioniPotestà legislativa residuale delle Regioni. Ai sensi del quarto comma, «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Senza soluzione di continuità rispetto al passato, la riforma ha confermato al potestà legislativa concorrente, sia pure arricchendo il corrispondente elenco di materie. Diversamente dall’originaria opzione dell’Assemblea costituente, è stata capovolta la clausola residuale a favore dei legislatori regionali.

Quanto alle Regioni a statuto speciale, la loro condizione è rimasta sostanzialmente immutata. Tuttavia, l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha stabilito che «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite». Ciò significa che se per effetto della modifica dell’art. 117 alle Regioni a statuto ordinario è stata attribuita la potestà legislativa esclusiva in una data materia, per la quale invece gli statuti speciali non prevedono una analoga attribuzione, allora tale innovativa previsione va estesa anche alle Regioni speciali. Ciò per evitare che in determinate materie le Regioni ordinarie abbiano più poteri delle Regioni speciali grazie alla modifica dell’art. 117.

È agevole notare, dalla lettura complessiva dell’art. 117, come l’economia economia economia economia sia stata assegnata alle cure dei legislatori regionali. Non sono inclusi nei due elenchi definiti dal’art. 117 e, dunque, spettano ai legislatori regionali ambiti materiali inclusi nella macromateria “economia”: industria, commercio, agricoltura, artigianato, turismo, pesca, caccia. La riforma costituzionale aveva fatto sperare quanti invocavano da anni un potenziamento dell’autonomia legislativa regionale. Peraltro, due anni prima il Parlamento aveva varato una revisione costituzionale che aveva rafforzato l’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie. Inoltre, con la stessa riforma del 2001 è stato equiparato il trattamento delle leggi statali e di quelle regionali davanti alla Corte costituzionale, quanto meno per le modalità di accesso.

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Secondo gli auspici, la legge regionale sarebbe divenuta la regola, e la legge statale sarebbe diventata l’eccezione. Ma è andata davvero così ? La rinascita della legge regionale, e con essa dell’autonomia di tali enti territoriali, è stata ostacolata da una serie di fattori critici.

a) MaterieMaterieMaterieMaterie. Come in passato, si è riproposto il problema della esatta delimitazione degli specifici ambiti materiali. In mancanza di definizioni nel testo costituzionale, le materie sono definite dal legislatore statale. Ove le Regioni non condividano tali qualificazioni, allora spetterà alla Corte costituzionale identificare i contorni e i contenuti delle singole materie. Tutto ciò rende il legislatore statale più forte e, nel contempo, assegna alla Corte costituzionale – ad un giudice, quindi, sia pure particolare – un compito che dovrebbe essere assolto dalla politica. Le materie in ambito giuridico sono contenitori artificiosamente creati dall’uomo.

b) Potestà concorrentePotestà concorrentePotestà concorrentePotestà concorrente. Come in passato, la Corte ammette che i princìpi fondamentali non debbano necessariamente essere fissati da apposite leggi cornice, ma possano anche essere identificati in via interpretativa attraverso un metodo induttivo (→ da particolare al generale), attingendo dalle varie norme legislative prodotte dallo Stato nel corso degli anni. È questo un ulteriore elemento di forza del legislatore statale, che può fare affidamento su processi interpretativi dall’esito non scontato, la cui protagonista è ancora una volta (non la politica bensì) la Corte costituzionale.

c) Compiti trasversaliCompiti trasversaliCompiti trasversaliCompiti trasversali. Il secondo comma dell’art. 117, dedicato alla potestà esclusiva del legislatore statale, individua, accanto a vere e proprie materie, anche quelli che la Corte costituzionale ha definito compiti trasversali dello Stato. In effetti, e gli esempi che verranno addotti di qui a poco chiariranno bene il concetto, non sempre le espressioni usate in quel comma denotano insiemi organici di rapporti giuridici accomunati da condivisi tratti essenziali. Al contrario, si tratta di attività preordinate al conseguimento di determinati obiettivi associati alla tutela di interessi nazionali. Si pensi in particolare ai seguenti, importanti esempi. - Tutela dellTutela dellTutela dellTutela dell’’’’ambienteambienteambienteambiente: più che atteggiarsi a materia in senso stretto, la tutela dell’ambiente si traduce in un compito assegnato al legislatore statale in vista della cura dell’interesse generale alla preservazione dell’ecosistema. - Tutela della concorrenzaTutela della concorrenzaTutela della concorrenzaTutela della concorrenza: anche in questo caso l’art. 117 non affida al legislatore statale una materia in senso proprio, ma un obiettivo da raggiungere e, cioè, intervenire al fine di garantire la libera competizione tra attori economici nei diversi ambiti produttivi e commerciali. - LLLLivelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e socialiivelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e socialiivelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e socialiivelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali: in questo caso, compito dello Stato è quello di fissare norme, applicabili in tutte le Regioni, affinché i fondamentali diritti di libertà e i diritti sociali ricevano un grado di protezione minima e comune in tutti gli ambiti territoriali. Perché questi compiti sono definiti “trasversali” ? La risposta è semplice. Per loro natura, questi compiti tendono a propagarsi in tutti gli ambiti materiali di azione del legislatore regionale. Dunque, le norme giuridiche prodotte nell’assolvimento di tali compiti sono destinate a trovare applicazione diffusa in tutte le Regioni, così da imporsi alle scelte dei legislatori regionali, persino nelle materie in cui questi vantano la potestà residuale.

Si pensi ad esempio alla caccia. Questa è una materia residuale e, dunque, in astratto dovrebbe esserci spazio solo per leggi regionali. Ma non è così, dal momento che per preservare specie in via di estinzione il legislatore statale può intervenire anche con norme di dettaglio in nome della “tutela dell’ambiente”. Lo stesso vale per la pesca.

Si tenga presente, inoltre, che questa attitudine trasversale compete anche ad altre “materie” (queste sì) incluse nell’elenco di cui al secondo comma dell’art. 117. Si pensi all’ordinamento civileordinamento civileordinamento civileordinamento civile: questo è l’insieme delle norme che disciplinano il diritto privato. Così, le Regioni ben possono regolare il commercio o l’artigianato o il turismo, ma le attività contrattuali che si svolgono in questi

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settori sono regolate in via esclusiva dal legislatore statale. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’ordinamento penaleordinamento penaleordinamento penaleordinamento penale. Nei diversi ambiti in cui interviene, anche a titolo esclusivo, il legislatore regionale, vi possono essere comportamenti penalmente rilevanti (così nella caccia, ad esempio). Tali condotte possono essere qualificate come reati e punite solo da leggi dello Stato. Ora, è chiaro che se il legislatore statale, tramite i compiti trasversali, può ingerirsi in tutte le materie devolute alle Regioni, allora ne consegue un indebolimento dell’autonomia legislativa regionale.

In relazione ai compiti trasversali, un approfondimento merita senza dubbio la già citata “tutela tutela tutela tutela della concorrenzadella concorrenzadella concorrenzadella concorrenza”, vista l’intima connessione di tale compito con la costituzione economica. La Corte costituzionale ha chiarito la portata di questo compito trasversale. Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, la nozione di concorrenza, come mutuata dall’ordinamento comunitario, include innanzitutto gli interventi regolatori che, a titolo principale, incidono sulla concorrenza: si pensi alle misure legislative di tutela in senso stretto, volte a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati. Misure che, peraltro, disciplinano le modalità di controllo e i meccanismi sanzionatori. Detta nozione abbraccia, poi, le misure legislative volte a promuovere l’apertura dei mercati eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, e rimuovendo i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche. Nella sua proiezione dinamica, quindi, la tutela della concorrenza asseconda finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi. La Corte, al riguardo, ha ripetutamente precisato che la promozione della concorrenza «costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali». Ecco i punti salienti. - La Corte costituzionale ha costantemente sottolineato – stante il carattere «finalfinalfinalfinalisticoisticoisticoistico» della stessa – la «trasversalitàtrasversalitàtrasversalitàtrasversalità» che caratterizza tale materia, con conseguente possibilità per quest’ultima di influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, ed, in particolare, il possibile intreccio ed interferenza con la materia «commercio». Infatti, la materia «tutela della concorrenza» non ha solo un ambito oggettivamente individuabile che attiene alle misure legislative di tutela in senso proprio, quali ad esempio quelle che hanno ad oggetto gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, ma, dato il suo carattere «finalistico», anche una portata più generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere valutata in concreto al momento dell’esercizio della potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza. - La Corte ha anche puntualizzato che «nell’ambito dell’esercizio della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, l’illegittima invasione della sfera di competenza legislativa costituzionalmente garantita alle Regioni, frutto di un’eventuale dilatazioneeventuale dilatazioneeventuale dilatazioneeventuale dilatazione oltre misura dell’interpretazione delle materie trasversali, può essere evitata non tramite la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma esclusivamente con la rigorosa verifica della effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza Quest’ultima infatti, per sua natura, non può tollerare, anche per aspetti non essenziali, differenziazioni territoriali, che finirebbero per limitare, o addirittura neutralizzare, gli effetti delle norme di garanzia». - La concorrenza ha un contenuto complesso in quanto ricomprende non solo l’insieme delle misure antitrustmisure antitrustmisure antitrustmisure antitrust, ma anche azioni di liberalizzazioneazioni di liberalizzazioneazioni di liberalizzazioneazioni di liberalizzazione, che mirano ad assicurare e a promuovere la concorrenza “nel mercatonel mercatonel mercatonel mercato” e “per il mercatoper il mercatoper il mercatoper il mercato”, secondo gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e internazionale. Pertanto, la liberalizzazione, intesa come

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razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della requalità della requalità della requalità della regolazionegolazionegolazionegolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostostostostacoli alle dinamiche economicheacoli alle dinamiche economicheacoli alle dinamiche economicheacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale». - L’abrogazione delle disposizioni che prevedono l’obbligatorietà di tarifobbligatorietà di tarifobbligatorietà di tarifobbligatorietà di tariffe fissefe fissefe fissefe fisse tende a «stimolare una maggiore concorrenzialità nell’ambito delle attività libero-professionali e intellettuali, offrendo all’utente una più ampia possibilità di scelta tra le diverse offerte, maggiormente differenziate tra loro» e ciò in nome della tutela della concorrenza. - Anche l’uso di un determinato marchiomarchiomarchiomarchio, cui conseguono determinati effetti giuridici, può alterare la libera competizione all’interno di un mercato. La Corte costituzionale ha più volte sottolineato il rilievo centrale che, nella disciplina del mercato comune delle merci, ha il divieto di divieto di divieto di divieto di restrizioni quantitativerestrizioni quantitativerestrizioni quantitativerestrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, concernente sia le importazioni, sia le esportazioni». La legge regionale istitutiva di un marchio di origine locale, «mirando a promuovere i prodotti realizzati in ambito regionale, garantendone siffatta origine, produce, quantomeno “indirettamente” o “in potenza”, gli effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci che, anche al legislatore regionale, è inibito di perseguire per vincolo dell’ordinamento comunitario».

- Sono vietati gli aiuti concessi dagli Statiaiuti concessi dagli Statiaiuti concessi dagli Statiaiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma, che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza e che incidano sugli scambi tra Stati membri. Tuttavia, sul presupposto che non tutti gli aiuti hanno un impatto sensibile sugli scambi e sulla concorrenza tra Stati membri, per gli aiuti di importo poco elevato, generalmente accordati alle piccole e medie imprese e che sono per lo più gestiti da enti locali o regionali, nella disciplina attuativa del trattato, è stata introdotta una regola, detta de minimis, che fissa una cifra assoluta al di sotto della quale, in ossequio a un’esigenza di semplificazione amministrativa a vantaggio tanto degli Stati membri quanto dell’apparato organizzativo della Commissione e delle stesse imprese, l’aiuto non è più soggetto all’obbligo della comunicazione.

- In materia di aggiudicazione di lavori od opere pubblicilavori od opere pubblicilavori od opere pubblicilavori od opere pubblici, in relazione alle norme che riguardano l’ammissibilità delle offerte e, perciò, attengono alla fase della procedura di evidenza pubblica che precede la stipulazione del contratto, la Corte ha più volte precisato che «l’ambito materiale prevalente è quello della tutela della concorrenza» e che «nello specifico settore degli appalti pubblici vengono in rilievo norme che si qualificano per la finalità perseguita di assicurare la concorrenza “per” il mercato». Il codice dei contratti pubblici stabilisce che in tema di «qualificazione e selezione dei concorrenti» le Regioni «non possono prevedere una disciplina diversa» da quella statale. In particolare, lo stesso codice prevede, innanzitutto, che «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture», e, in secondo luogo, che «nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».

- Nell’accezione «dinamica» della «tutela della concorrenza», – scaturente dalla consolidata giurisprudenza costituzionale e inclusiva delle misure dirette a promuovere l’apertura di mercati o ad

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instaurare assetti concorrenziali, mediante la riduzione o l’eliminazione dei vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e alle modalità di esercizio delle attività economiche –, è consentito al legislatore statale intervenire anche nella disciplina degli orari degli esercizi commercialiorari degli esercizi commercialiorari degli esercizi commercialiorari degli esercizi commerciali che, per ciò che riguarda la configurazione «statica», rientra nella materia commercio attribuita alla competenza legislativa residuale delle Regioni. - È incostituzionale la norma che, imponendo una limitazione temporalelimitazione temporalelimitazione temporalelimitazione temporale alla cessione di attività commerciali, restringe la possibilità di accesso di nuovi operatori, con conseguente violazione del limite della tutela della concorrenza. Anche in un contesto nel quale il numero complessivo delle autorizzazioni all’esercizio del commercio è condizionato dalla disponibilità di «spazi appositamente definiti», una limitazione temporale alla cessione dell’attività si traduce inevitabilmente in una barriera all’entrata di nuovi operatori. - È precluso al legislatore regionale disciplinare il rinnovo delle concessioni in violazione dei principi di temporaneità e di apertura alla concorapertura alla concorapertura alla concorapertura alla concorrenzarenzarenzarenza, impedendo «l’accesso di altri potenziali operatori economici al mercato, ponendo barriere all’ingresso tali da alterare la concorrenza tra imprenditori». - Secondo la normativa europea una derogaderogaderogaderoga al principio della libera circolazione dei servizi può ritenersi necessaria, e dunque ammissibile, solo quando sia giustificata «da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente». d) Attrazione in sussidiarietàAttrazione in sussidiarietàAttrazione in sussidiarietàAttrazione in sussidiarietà. A partire dalla sentenza n. 303 del 2003sentenza n. 303 del 2003sentenza n. 303 del 2003sentenza n. 303 del 2003, la Corte costituzionale ha inaugurato il modello della «attrazione in sussidiarietàattrazione in sussidiarietàattrazione in sussidiarietàattrazione in sussidiarietà», che ha mitigato la rigidità insita nel riparto materiale definito dall’art. 117 Cost. Ove lo Stato, in vista del soddisfacimento di interessi unitari, decida di allocare, presso le proprie istituzioni, funzioni amministrative che, ratione materiae, dovrebbero spettare alle Regioni, allora tale conferimento, in nome del principio di legalità, trascinerà con se anche la potestà legislativa.

Ai sensi dell’art. 118 Cost.art. 118 Cost.art. 118 Cost.art. 118 Cost., le funfunfunfunzioni amministrativezioni amministrativezioni amministrativezioni amministrative sono assegnate in base al principio del comune come amministrazione generale e in base ai princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. In particolare, applicare il principio di sussidiarietàprincipio di sussidiarietàprincipio di sussidiarietàprincipio di sussidiarietà significa individuare l’ente che meglio di altri è in grado di esercitare una certa funzione amministrativa.

Tutte le funzioni amministrative devono essere disciplinate dalla legge, in nome del principio di principio di principio di principio di legalitàlegalitàlegalitàlegalità.

In forza del principio di legalità, spetta alla legge distribuire tra Stato, Regioni, Province e Comuni le funzioni amministrative. Tocca, in particolare:

- alla legge statalelegge statalelegge statalelegge statale, se si tratta di funzione amministrativa che insiste in una materia di potestà esclusiva statale (art. 117, secondo comma, Cost.);

- alla legge regiolegge regiolegge regiolegge regionalenalenalenale, se si tratta di funzione amministrativa che insiste in una materia di potestà legislativa regionale, sia essa concorrente o residuale (art. 117, commi terzo e quarto, Cost.).

Supponiamo ora che la realizzazione di una certa opera pubblica sia destinata ad interessare più Regioni (es. un’autostrada o un ponte o una linea ferroviaria) e che richiede l’esercizio di una funzione amministrativa (es. per il rilascio di una autorizzazione al privato che dovrà fare quella infrastruttura). Pertanto:

- siamo in una materia regionale (governo del territorio; grandi reti di trasporto); - spetterebbe alla legge regionale, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., decidere a chi

assegnare quella funzione amministrativa. SenonchéSenonchéSenonchéSenonché, si tratta di un’opera che coinvolge più Regioni e, dunque, tocca gli interessi di più

comunità regionali. Essendoci interessi sovraregionali, il principio di sussidiarietà impone di individuare l’ente più adatto ad esercitare quella funzione amministrativa. Date le caratteristiche dell’opera da realizzare, è lo Stato l’ente migliore in forza del principio di sussidiarietà.

Abbiamo così una sola funzione amministrativa, attribuita allo StatoStatoStatoStato. Ma chi la regola, in nome del principio di legalità ? Ovviamente lo stesso Stato con legge, visto che sarà poi una autorità statale a rilasciare l’autorizzazione (si tratta di opera che tocca più Regioni e sarebbe irragionevole imporre

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all’amministrazione statale di osservare più e magari diverse leggi regionali, quante sono le Regioni coinvolte).

Ricapitolando: - siamo in una materia regionale; - lo Stato si appropria della funzione amministrativa in quanto si tratta di gestire interessi che

vanno oltre i confini di una sola Regione (e il principio di sussidiarietà ci dice che è lo Stato l’ente più adatto, data la dimensione degli interessi da tutelare);

- lo Stato si prende pure la funzione legislativa per disciplinare quella funzione amministrativa. Pertanto, alla fine il risultato sarà il seguente: in una materia regionale (ai sensi dell’art. 117) la

disciplina legislativa viene fatta dallo Stato in applicazione dell’art. 118. Siamo in presenza dunque della cd. attrazione in sussidiarietà attrazione in sussidiarietà attrazione in sussidiarietà attrazione in sussidiarietà (o anche chiamata in sussidiarietà): lo Stato assegna a se stesso una funzione amministrativa e, con essa, si prende anche la corrispondente funzione legislativa, in deroga a quanto stabilito dall’art. 117.

La Corte ammette l’attrazione di sussidiarietà purché: 1) si tratti di intervento strettamente necessario per soddisfare interessi nazionali (principio di principio di principio di principio di

proporzionproporzionproporzionproporzionalità e ragionevolezzaalità e ragionevolezzaalità e ragionevolezzaalità e ragionevolezza); 2) vi sia una intesa con le Regioni interessate (principio di leale collaborazioneprincipio di leale collaborazioneprincipio di leale collaborazioneprincipio di leale collaborazione). Se la Regione

non acconsente, allora lo Stato potrà rivolgersi alla Corte costituzionale per far valere il comportamento sleale della Regione. e) Coordinamento della finanza pubblicaCoordinamento della finanza pubblicaCoordinamento della finanza pubblicaCoordinamento della finanza pubblica. Con questo titolo di legittimazione di natura concorrente, il legislatore statale ha inciso parecchio sull’autonomia regionale, in relazione a profili strettamente connessi alla costituzione economica.

La Corte costituzionale ha riconosciuto la natura di princìpi fondamentali nella materia, di competenza legislativa concorrente, del coordinamento della finanza pubblica alle norme statali che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi. Secondo la Corte, il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente «imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti».

Questi vincoli possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa».

Lo Stato, quindi, può agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con norme puntuali e, al contempo, dichiarare che le stesse norme sono efficaci nei confronti delle Regioni «a condizione di permettere l’estrapolazione, dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale». In caso contrario, la norma statale non può essere ritenuta di principio, a prescindere dall’autoqualificazione operata dal legislatore. La competenza statale in questo campo non si esaurisce con l’esercizio del potere legislativo, ma implica anche l’esercizio di poteri amministrativi, di regolazione tecnica e «di rilevazione di dati e di controllo». Nell’esercizio di questa potestà legislativa lo Stato ha introdotto una serie copiosa di misure volte a limitare e ridurre la spesa pubblica, a fronte di provvedimenti finanziari assunti a livello Regione che hanno contribuito non poco ad aumentare il disavanzo pubblico. Dal 1999 l’Italia ha adottato il proprio Patto di stabilità internoPatto di stabilità internoPatto di stabilità internoPatto di stabilità interno individuano gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno secondo modalità differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi. La definizione delle regole del patto di stabilità interno avviene durante la predisposizione ed approvazione della manovra di finanza pubblica. In questo frangente istituzionale si analizzano le

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previsioni sull’andamento della finanza pubblica e si decide l’entità delle misure correttive da porre in atto per l’anno successivo e la tipologia delle stesse. Così, la spesa per il personalespesa per il personalespesa per il personalespesa per il personale, per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente, con la conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a principio fondamentale della legislazione statale. In particolare, il blocco delle sostituzioni di personale andato in pensione con nuovo personale (→ turn over) è stato disposto con i seguenti divieti: a carico degli enti nei quali l’incidenza delle spese per il personale è pari o superiore al 40 per cento delle spese correnti, il divieto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale; a carico dei restanti enti, la possibilità di procedere ad assunzioni di personale nel limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente. Similmente, le norme statali in materia di stabilizzazione dei lavoratori precaristabilizzazione dei lavoratori precaristabilizzazione dei lavoratori precaristabilizzazione dei lavoratori precari sono state riconosciute come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, in quanto le stesse perseguono la finalità del contenimento della spesa nello specifico settore del personale. Ancora, è stato fissato il divieto di procedere «alle procedure contrattualprocedure contrattualprocedure contrattualprocedure contrattualiiii e negoziali relative al triennio 2010-2012» dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche e che non vi è «possibilità di recupero». Misura, questa, ribadita anche negli anni successivi, con ulteriori blocchi della contrattazione collettiva in questo ambito. In ambito sanitario, poi, è stato posto l’obbligo di rientro obbligo di rientro obbligo di rientro obbligo di rientro dal disavanzo. Al riguardo, la Corte ha reiteratamente affermato che «l’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa», peraltro in un «quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario». Pertanto, il legislatore statale può «legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obbiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari». Questi profili sono la premessa per indugiare sul tema dell’autonomia finanziariaautonomia finanziariaautonomia finanziariaautonomia finanziaria delle Regioni, vista la sua stretta attinenza con altri aspetti della costituzione economica. La previsione di riferimento è l’art. 119, come modificato anche di recente:

«1. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.

2. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

3. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

4. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

5. Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

6. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. 7. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti».

L’art. 119, come riformulato rispetto alla sua versione originaria, mira a implementare nel nostro ordinamento il modello del federalismo fiscalefederalismo fiscalefederalismo fiscalefederalismo fiscale. È quel sistema in cui gli enti territoriali

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provvedono a finanziare le loro attività attraverso tributi propri, ossia imposte disciplinate da loro leggi il cui gettito è destinato a rimanere entro i confini territoriali. Così, lo Stato federale ha tributi federali che riguardano funzioni federali. Gli Stati membri hanno propri tributi per proprie attività. L’ordinamento italiano non pretende di arrivare a questo assetto, ma intende comunque superare l’originaria scelta dell’Assemblea costituente di considerare e trattare l’autonomia finanziaria regionale come autonomia derivata dallo Stato, con tutte le conseguenze facilmente intuibili. Ebbene, un quadro completo dello stato di attuazione del modello italiano è tracciato da L. Antonini nel seguente saggio. L. ANTONINI, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica e prospettive, in RivistaAIC, 2014. …

2. La legge n. 42 del 2009: luci e ombre della prima sistematica attuazione dell’art.119 Cost. 2.1. Il versante dei poteri fiscali regionali

Il contesto italiano è molto particolare: da tempo la Corte costituzionale aveva richiamato la necessità di

dare attuazione alla nuova autonomia finanziaria definita dalla riforma costituzionale del 2001. Già la sentenza n. 370/03 affermava: “appare evidente che l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione”. Eppure quella pagina è rimasta bianca per molti anni e solo con la legge delega n. 42 del 2009 sembrò aprirsi una nuova stagione del nostro assetto della finanza decentrata: ispirata da una linea di continuità con l’impostazione del governo precedente, venne salutata con favore dalla migliore dottrina.

Coniugando in modo adeguato “il principio di autonomia con quello di unità della finanza pubblica” poteva, infatti, permettere un’imponente operazione di razionalizzazione di un sistema che, per molti aspetti e per diversi motivi, risultava inadeguato. La relazione presentata dal Governo alle Camere il 30 giugno del 2009, redatta sulla base delle analisi della Copaff (Commissione tecnica per l’attuazione del federalismo fiscale), titolava, consapevolmente, il suo primo paragrafo con la metafora dell’”albero storto” e proseguiva con la puntuale denuncia delle numerose anomalie (sedimentazione del criterio di finanziamento a spesa storica, bilanci non armonizzati e non trasparenti, compartecipazioni poco responsabilizzanti, ecc.) riscontrate nell’analisi di un sistema all’interno del quale pure non mancavano esperienze virtuose. Tutto il processo del federalismo fiscale era stato impostato nel tentativo di riconcepire il sistema, superando almeno i principali nodi critici che si erano sedimentati negli anni.

Se in attuazione della legge delega n. 42 del 2009 sono stati definitivamente varati, ad oggi, nove decreti legislativi, è evidente che qualcosa nel processo non ha funzionato. Occorre quindi cercare di evidenziare quali sono i fattori sia contingenti che strutturali che hanno reso difficile il tentativo di cambiamento, che cosa è opportuno salvaguardare di quello che è stato fatto e che cosa è necessario ancora fare (o rifare). A questo riguardo è necessario interrogarsi anche su quale livello normativo è necessario intervenire per non correre il rischio di buttare, assieme all’acqua sporca, anche il bambino. Sembra, infatti, prendere sempre più consistenza la convinzione che la crisi epocale che stiamo attraversando abbia definitivamente superato le ragioni che sottostavano alle istanze del decentramento. Questa opinione non appare convincente: non si può rimpiangere il “centralismo italiano”, all’interno del quale è esploso il debito pubblico e la corruzione che ha condotto poi a Tangentopoli, come un paradiso perduto. Inoltre, i modelli sanitari di alcune Regioni (ad esempio Emilia Romagna e Veneto) costituiscono ad esempio delle eccellenze mondiali che difficilmente sarebbero venuti in essere all’interno di una gestione centralizzata (il problema semmai è quello di uniformare verso questi modelli quelli degenerati di altre Regioni): oggi la sanità italiana, in base alle classifiche Ocse, è al secondo posto per il livello di qualità (la nostra aspettativa di vita è più alta della Germania) e all’undicesimo per il livello di costi (inferiori del 50% a quelli degli USA). C’è poi una questione di democrazia: centralismo e federalismo non hanno la stessa cifra democratica.

Un primo fattore contingente che occorre considerare deriva dal fatto che la riforma del federalismo fiscale è caduta in una congiuntura storica straordinaria, quella di una crisi economica epocale, non certo favorevole a un processo di dimensioni strutturali. Questa congiuntura ha condotto, da un lato, a comportamenti del centro non sempre giustificabili e poco concilianti e, dall’altro, a rivendicazioni contingenti

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degli enti territoriali colpiti dalle manovre di finanza pubblica. La stagione dei primi pesanti tagli statali ai trasferimenti, operati senza andare troppo per il sottile, è infatti iniziata proprio nel mezzo della fase della redazione dei primi decreti legislativi. L’imponente taglio lineare del decreto legge n. 78 del 2010 avvenne, ad esempio, per circostanza fortuita proprio dopo la determinazione da parte della Copaff - attraverso un lungo e accurato lavoro - dei trasferimenti statali che andavano fiscalizzati a favore delle Regioni. Si trattava di una cifra intorno ai quattro miliardi, inquadrabile come i cd. trasferimenti ex Bassanini, ovvero i trasferimenti diretti a finanziare le nuove funzioni amministrative che erano state, con quella riforma decentrate. In base a quella cifra si sarebbe dovuta ridurre l’Irpef nazionale e aumentare corrispondentemente l’aliquota base dell’addizione Irpef regionale. Ma quando nel 2010 è esplosa la crisi, quei quattro miliardi, anziché fiscalizzati a favore delle Regioni (come prevedeva la l. n. 42 del 2009), vennero semplicemente e brutalmente tagliati, aprendo anche sul fronte regionale una fase di ostilità alla direzione assunta dalla riforma.

È quindi più nel modo con cui è stata affrontata la crisi, che nelle sue intrinseche ragioni, che si è interferito con il processo di attuazione della riforma del federalismo fiscale.

Una crisi economico-finanziaria dovrebbe infatti esaltare, e non indebolire, le ragioni del federalismo fiscale, che è una riforma che intende rafforzare la responsabilità delle autonomie territoriali nella gestione dei propri bilanci a partire da una ripartizione delle risorse pubbliche tra livelli di governo e tra enti decentrati ispirata a criteri di equità.

Un secondo fattore che non ha giocato a favore della riforma è stata una certa retorica del federalismo, che probabilmente non ha favorito la comprensione dei processi che si stavano attuando: in questa retorica era implicita la prospettiva di una sorta di federalismo competitivo (decisamente incompatibile con una situazione come quella italiana caratterizzata da un forte divario tra Nord e Sud), che avrebbe assegnato maggiori risorse al Nord a prescindere dallo sforzo fiscale. A questa retorica si aggiungeva una generalizzata cultura degli amministratori locali più favorevole, dopo molti decenni di finanza derivata, ad acquisire maggiore potere di spesa piuttosto che maggiore potere impositivo: basti considerare che già la legge delega risentiva, per alcuni aspetti, di questa cultura ed effettuava, in quanto legge statale, scelte impositive che si sarebbero potute lasciare alla autonoma decisione delle Regioni, come ad esempio quella sull’imposta di soggiorno.

Come si è visto, peraltro, a questa retorica del federalismo si è in realtà accompagnata una pratica del centralismo19, che di fronte alle esigenze di risanamento dei conti pubblici, che la crisi ha via via imposto, ha trovato il Governo centrale non esitante, fin dall’inizio del processo di attuazione del federalismo, a ricorrere a forme di intervento non solo decisamente dirigistiche, come i tagli lineari, ma anche decisamente penalizzanti per le realtà più virtuose (che paradossalmente erano invece quelle che avrebbero dovuto beneficiare maggiormente del federalismo fiscale).

Salvo poi acconsentire a manovre come quella attuata con il decreto legge 201 del 2011 per cui le addizionali regionali Irpef che, in base al d. lgs. n. 68 del 2011, sarebbero potute aumentare solo nel 2013 e per autonoma decisione delle Regioni, vennero aumentate dallo Stato già dal 2011 dello 0,33% in modo generalizzato dal Governo per compensare le Regioni dei nuovi tagli subiti.

Accanto a fattori contingenti hanno giocato anche fattori strutturali nel rendere difficile l’attuazione dell’art.119 Cost. L’esito dell’affrettata riforma del Titolo V è stato, infatti, un sistema largamente incompiuto, dove si alimenta facilmente un localismo conflittuale in cui il diritto di veto rischia di bloccare qualunque decisione. È senz’altro significativo che né la xv né la xvi legislatura siano riuscite a portare al traguardo dell’approvazione, nonostante l’impegno profuso, la cosiddetta «Carta delle autonomie»: dieci anni di continui veti incrociati tra Regioni ed Enti locali non hanno ancora permesso un’adeguata definizione di «chi fa che cosa» (condizione invece indispensabile per procedere a una definizione dell’assetto finanziario): il nodo irrisolto a livello costituzionale tra regionalismo o municipalismo rende quasi impossibile l’impresa.

Il risultato è un sistema dove a prevalere sono frammentazione e incertezza del diritto. Le disfunzioni del sistema attuale sono evidenti: oggi a distanza di più di dieci anni dalla Riforma del Titolo V emerge un’eccessiva frammentazione del riparto delle competenze, che dovrebbe essere superata a favore di un decentramento legislativo più equilibrato e più funzionale allo sviluppo economico e sociale. Su una qualsiasi procedura si incrociano troppe competenze costituzionali e, in generale, questa frammentazione, con la difficoltà a mettere d’accordo i soggetti coinvolti, produce costi enormi: oggi in Italia il costo per un km di rete ferroviaria ha raggiunto 50 ml di euro, contro i 13 della Francia e i 15 della Spagna. La differenza dei costi non è giustificabile solo con la conformazione orografica del territorio italiano.

Si pensi inoltre ai costi per l’energia che in Italia risultano superiori del 30% rispetto a quelli di altri Paesi europei (a causa del fatto che per più di dieci anni abbiamo avuto un sistema amministrativo che ha bloccato gli investimenti nell’energia). Si pensi ancora alla questione del trasporto pubblico locale, che rappresenta

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l’emblema di come nel nostro sistema si sia innescato un sistematico scaricamento di responsabilità fra i vari livelli di governo coinvolti.

La materia «grandi reti di trasporto» è stata collocata tra le competenze concorrenti tra Stato e Regioni (neanche il Canada ha fatto una scelta di decentramento tanto forte), ma il finanziamento del trasporto pubblico locale continua ad avvenire tramite un trasferimento statale alle Regioni in base alla spesa storica, che poi lo girano, sempre seguendo lo stesso criterio, in parte alle Province e in parte ai Comuni. A loro volta questi enti lo girano alle aziende di trasporto. In sintesi: le Regioni hanno negoziato per due anni con lo Stato l’entità del trasferimento, con enormi polemiche tra i vari soggetti coinvolti; la possibilità di pervenire a una razionalizzazione della spesa appare lontana e se in un Comune gli autobus si fermano per mancanza di gasolio, il cittadino non sa a quale porta deve bussare per lamentarsi.

Eppure lo scopo del federalismo dovrebbe essere proprio quello di permettere di raggiungere più facilmente la porta cui bussare se le cose vanno male e al limite, se si rimane inascoltati, quello di cambiare residenza (il voting by feet).

Quali dunque i rimedi? Oltre a un riordino del riparto delle competenze legislative e amministrative, emerge evidentemente soprattutto la necessità di una revisione del bicameralismo e l’istituzione di una Camera delle autonomie, non solo per introdurre, cum grano salis, una sede di coordinamento a livello politico e legislativo, ma anche per realizzare la condizione di responsabilizzazione delle realtà territoriali in un sistema che non può che inspirarsi, dato il profondo divario Nord Sud, al federalismo solidale e quindi continuare a fondarsi in gran parte su compartecipazioni ai tributi erariali.

I modelli di federalismo, infatti, si possono semplificare in competitivi e solidali. Il primo (ad esempio: quello degli USA) si basa su forti poteri fiscali autonomi degli enti federati; il secondo si sviluppa invece principalmente su compartecipazioni ai tributi dello Stato centrale (è ad esempio il modello tedesco). Il rischio del secondo modello è di creare un meccanismo finanziario di tipo parassitario, che non responsabilizza gli enti sub statali, cui pure è decentrata la quota principale di spending power. È esattamente quello che è avvenuto in Spagna e in certa misura anche in Italia, soprattutto riguardo a certe realtà territoriali. In Germania, che appunto è un modello anch’esso fondato prevalentemente su compartecipazioni a tributi erariali, tutto questo non è successo grazie a un sistema che prevede non solo regole costituzionali molto dettagliate (quindi non travolgibili o negoziabili in modo estemporaneo) sul sistema fiscale dei Länder ma anche e soprattutto un vero e proprio senato federale - il Bundesrat, composto da delegati degli esecutivi regionali - funzionale a rendere i Länder corresponsabili (mettono quindi “la faccia” sulle imposte statali cui compartecipano) su tutte le decisioni finanziarie: tributi, perequazione, debito.

In Italia non è pensabile un sistema di federalismo competitivo all’americana, con forti poteri fiscali delle Regioni. Immaginiamo cosa potrebbe succedere se alla regione Lombardia si accordasse il potere, come può avvenire in Texas o in Oklahoma, di introdurre una propria imposta sul reddito.

Rispetto a quella delle regioni meridionali, la capacità fiscale della Lombardia è enormemente più elevata, per cui essa si troverebbe con una possibilità di finanziamento molto più alta della propria spesa pubblica o, al contrario, con la possibilità di praticare una imposizione sui redditi molto più bassa e competitiva. In un sistema di questo tipo la perequazione, ovvero la solidarietà tra territori, non sarebbe più realisticamente praticabile(perché la Lombardia dovrebbe trasferire la maggior parte della propria imposta sul reddito a finanziamento delle regioni del Sud o viceversa perché non potrebbe ridurre la propria imposizione sul reddito senza porsi il problema della solidarietà verso gli altri territori?).

Questo è stato poco compreso da chi sostiene che il federalismo fiscale avrebbe dovuto consegnare poteri fiscali molto più ampi non solo alle Regioni; realisticamente e costituzionalmente l’unica soluzione praticabile per l’Italia è quindi un federalismo solidale, fondato principalmente su compartecipazioni a grandi tributi statali, su limitati tributi propri (la cui ampiezza, rispetto alla situazione attuale, andrebbe senz’altro incrementata, ma senza eccessi) e perequazione. Questo sistema però deve però essere portato a compimento – altrimenti non può funzionare correttamente - con un adeguato meccanismo di responsabilizzazione politica. Da questo punto di vista il modello di senato federale introdotto nel progetto di riforma costituzionale recentemente approvato è poco idoneo, perché più simile al senato federale americano (valido in un sistema competitivo, ma non in uno solidale) che a quello tedesco.

2.2. La legge n. 42 del 2009 sul versante della spesa regionale e locale: l’innovazione dei costi e fabbisogni standard

Tra i nove decreti legislativi che hanno attuato la legge n. 42 del 2009, un rilievo particolare rivestono quelli relativi ai costi (d. lgs. n. 68/2011) e ai fabbisogni standard (d. lgs. n. 216/2010): sono, infatti, intervenuti

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in un sistema dove ancora nel 2008 ben circa cento miliardi di euro venivano assegnati a Regioni ed Enti locali sostanzialmente in base al criterio della spesa storica. Si è trattato di un intervento strutturale diretto a modificare nel lungo periodo il sistema istituzionale, con un impatto su grandi temi di natura costituzionale: i comportamenti, la responsabilità, la trasparenza, la democraticità, il controllo elettorale. Lo scopo è stato quello di avviare una dinamica che potesse permettere il passaggio dalla spesa storica (che finanzia indistintamente servizi e inefficienze) a quello del fabbisogno standard (che finanzia solo i servizi). L’evoluzione verso costi e fabbisogni standard ha anche implicazioni costituzionali che meritano di essere considerate. Costi e fabbisogni standard infatti si raccordano alla perequazione e quindi al principio di solidarietà, consentendo un grado di attuazione del principio di eguaglianza di alta intensità. Spesso nel dibattito scientifico non è mancato chi ha criticato questa soluzione, ritenuta eccessivamente farraginosa, affermando che il criterio preferibile sarebbe stato quello di perequare in base alle capacità fiscali. Chi sostiene questa tesi (…) non considera, però, non solo il vincolo che deriva dall’art.119 Cost., ma nemmeno quello che deriva dal principio di eguaglianza in relazione ai diritti sociali e civili. La perequazione in base alle capacità fiscali penalizza infatti indebitamente i territori che dispongono di minori risorse, mentre quella ai fabbisogni standard attiva processi di efficienza ma non pregiudica, anzi valorizza, il principio di eguaglianza. È utile, peraltro, ricordare che l’Ocse valuta il sistema dei fabbisogni standard come il modello di perequazione più evoluto, senz’altro preferibile non solo a quello distorsivo della spesa storica ma anche a quello della capacità fiscale.

È opportuno precisare che riguardo alla spesa sanitaria regionale il criterio di standardizzazione è stato di natura diversa rispetto a quello, molto più sofisticato ed efficiente utilizzato per i fabbisogni standard, ed è di tipo top down: tale scelta si è giustificata da un lato per un certo superamento del criterio della spesa storica che avvenuto negli ultimi anni e dall’altro per alcune carenze dei sistemi contabili regionali. Il metodo si basa sulla identificazione di cinque Regioni in sostanziale equilibrio economico tra le quali la Conferenza Stato-Regioni ne individua tre, che fanno da benchmark per le altre. Solo il 5 dicembre 2013 all’interno della Conferenza delle Regioni è stata effettuata la scelta a favore di Umbria, Emilia Romagna e Veneto, che poi è stata ratificata nel corso della Conferenza Stato-Regioni e servirà, in parte, per il riparto del Patto della Salute 2013 e a regime per quello del 2014. È un risultato comunque importante (anche nonostante il ritardo) perché permette perlomeno di raggiungere un obiettivo minimale: rendere maggiormente trasparenti gli sprechi che oggi si annidano in alcuni sistemi regionali, ottenere il superamento degli attuali limiti del Patto per la Salute dove spesso, disponendo di una base informativa idonea, si sono seguiti criteri empirici di negoziazione di natura prettamente politica o di convenienza contingente (…).

È opportuno precisare che costi e fabbisogni standard rappresentano un processo di razionalizzazione della spesa pubblica decisivo per superare la perdurante logica, ormai diventata inaccettabile, dei tagli lineari a Regioni e Enti locali.

Occorre, infatti, un cambio radicale, come peraltro richiesto dalla recente, dirompente (e poco considerata) sentenza n. 193/2012 della Consulta, per la quale i tagli di diversi miliardi che le ultime manovre stabilivano come strutturali e sostanzialmente definitivi, perderanno efficacia a partire dal 2015.

La sentenza ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 119 della Costituzione della manovra di agosto 2011, nella parte in cui estendeva i tagli anche agli anni successivi al 2014. La Corte costituzionale non si è limitata alle Regioni speciali, ma ha dichiarato, in via consequenziale, l’illegittimità anche delle restanti parti della manovra che “dispongono ulteriori misure restrittive in riferimento alle Regioni ordinarie, alle Province ed ai Comuni senza indicare un termine finale di operatività delle misure stesse”. In sintesi: tutta la manovra dei tagli agli enti territoriali è stata riscritta dalla Corte costituzionale nella parte in cui prevede che gli stessi si applichino a decorrere dall’anno 2012 e 2013 anziché “sino all’anno 2014”.

In questo modo la Corte costituzionale ha attivato il timer di una bomba a orologeria nei conti pubblici italiani, stabilendo un criterio senz’altro condivisibile, ovvero che il legislatore può ristrutturare in termini definitivi la spesa solo con vere e proprie riforme e non con tagli estemporanei, che al contrario possono essere solo a tempo determinato.

La via di uscita obbligata da questa situazione è allora proprio quella offerta dai costi e standard, che rendono possibile quantificare i lep (livelli essenziali delle prestazioni), la cui definizione diviene ora un altro passaggio fondamentale per rispondere alla giusta sentenza della Consulta. In altre parole, il legislatore nazionale dovrà definire quanti asili nido o residenze per anziani occorrono per un determinato numero di abitanti (si tratta appunto dei livelli essenziali delle prestazioni sociali) e il relativo fabbisogno standard permetterà di quantificare le risorse necessarie a garantire in termini efficienti quel servizio. Laddove imprescindibili esigenze di finanza pubblica imponessero un ridimensionamento della spesa locale, il

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legislatore nazionale dovrà intervenire sulla rimodulazione dei livelli essenziali, assumendosi la responsabilità della scelta.

In conclusione, se si è decentrato circa il 60% della spesa pubblica31 (è un dato di fatto) e si vuole rimanere all’interno di un modello di federalismo cooperativo e solidale occorre strutturare su solide basi la funzione di coordinamento statale del sistema e questo non può che avvenire considerando i costi e fabbisogni standard. Questi potranno determinare un’importante razionalizzazione del nostro federalismo di spesa; sarebbe molto grave se il processo, ora che è giunto al traguardo, non venisse portato a regime e sostenuto nei prossimi anni. La richiesta di proseguire in tale direzione proviene, come si è visto, ormai anche dalla Corte costituzionale che impone, per ristrutturare nel lungo periodo la spesa, di sostituire i tagli lineari o altri simili, grossolani, criteri.

Sempre su questo piano diventa imprescindibile dare piena attuazione alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, sia a livello regionale (alcuni punti previsti dalla legge delega e dai decreti legislativi sono rimasti inattuati e solo recentemente il processo è stato avviato ma è ancora lontano dalla conclusione: si veda infra) sia a livello locale, dove i lep mancano completamente. I due ambiti sono collegati, perché costi e fabbisogni standard permettono la corretta quantificazione dal punto di vista finanziario dei livelli essenziali delle prestazioni. È questa una funzione di coordinamento che lo Stato centrale deve assumere pienamente e responsabilmente. In futuro, cioè, lo Stato deve poter responsabilmente evidenziare che il sistema non può più, ad esempio, sostenere i costi di un asilo ogni (per ipotesi) mille abitanti, e che per questo motivo si deve ridurre il finanziamento agli Enti locali, indicando il livello sostenibile. È cosa diversa da - come invece si è fatto - operare un taglio lineare sostanzialmente al “buio”, con il risultato poi che parecchi Comuni devono chiudere gli asili nido perché, di fatto, magari pur essendo stati efficienti, non ricevono più risorse sufficienti.

La mancata definizione dei Lea e dei Lep, quindi, simboleggia come nel nostro sistema sia prevalsa una retorica del federalismo e una pratica del centralismo, cosa ben diversa dall’esercizio di un effettivo ruolo di coordinamento dello Stato. Recentemente la Corte costituzionale ha evidenziato la gravità della lacuna nella sentenza n. 273 del 2013 che salvato il fondo statale per il trasporto pubblico locale, adducendo come motivo per non seguire la sua consolidata giurisprudenza (che preclude che fondi statali possano essere istituiti nelle materie residuali regionali) proprio l’inattuazione della riforma del federalismo fiscale. “In particolare”, sottolinea la sentenza “non è stato ancora emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri cui l’art. 13, comma 4, del decreto legislativo n. 68 del 2011 demanda la ricognizione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle materie dell’assistenza, dell’istruzione e del trasporto pubblico locale, nonché dei livelli adeguati del servizio, anche nella materia da ultimo richiamata, previsti all’articolo 8, comma 1, lettera c), della citata legge n. 42 del 2009.

L’intero processo di individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia che le Regioni a statuto ordinario effettivamente garantiscono e dei relativi costi, nonché degli obiettivi di servizio, sulla base della determinazione dei costi e fabbisogni standard, è poi rimesso, dal successivo comma 6 dello stesso art. 13 del d.lgs. n. 68 del 2011, alla Società per gli studi di settore – SOSE s.p.a., in collaborazione con l’ISTAT e avvalendosi della Struttura tecnica di supporto alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome presso il Centro interregionale di studi e documentazione (CINSEDO) delle Regioni, secondo la metodologia e il procedimento di determinazione di cui agli articoli 4 e 5 del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province). I richiamati procedimenti, allo stato attuale ben lungi dal concludersi, costituiscono pertanto condizione necessaria ai fini della compiuta attuazione del sistema di finanziamento delle funzioni degli enti territoriali previsto dall’art. 119 Cost. Ciò determina la perdurante inattuazione di quanto previsto in materia dalla legge n. 42 del 2009, che non può non riflettersi sull’attuazione dell’art. 119 Cost., la quale, quantomeno sotto questo profilo, può dirsi ancora incompiuta”. La sentenza conclude quindi affermando: “Le suindicate finalità e il contesto nel quale è stato realizzato l’intervento del legislatore statale diretto a garantire un contributo al finanziamento del trasporto pubblico locale, per garantire quelle esigenze di omogeneità nella fruizione del servizio che rispondono ad inderogabili esigenze unitarie, valgono pertanto a differenziare la fattispecie in esame dalle ipotesi, soltanto apparentemente omologhe, in cui il legislatore statale, in materia di competenza regionale, prevede finanziamenti vincolati, ovvero rimette alle Regioni una determinata materia pretendendo poi di fissare anche la relativa disciplina”.

Il richiamo della Corte costituzionale - considerando anche le gravi disfunzioni (in precedenza sottolineate) che determina il corto circuito di un sistema dove, da un lato, la materia trasporto pubblico locale è diventata materia residuale regionale e quella sulle grandi reti di trasposto è divenuta concorrente, e, dall’altro, il finanziamento avviene ancora con un fondo statale a destinazione vincolata - evidenzia

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ulteriormente quale ruolo decisivo rappresenti la attuazione della legge n. 42 del 2009 e dello stesso disposto costituzionale dell’art.117 Cost. sulla determinazione dei Lea e dei Lep.

Peraltro, un altro ambito fondamentale che è rimasto sostanzialmente inattuato è quello relativo alla perequazione, che, come stabilisce la legge 42 del 2009, dovrebbe essere stabilmente basata sui costi/fabbisogni standard per le funzioni essenziali che si ricollegano a lea e lep (circa l’80% delle spese complessive) e sulla capacità fiscale per le altre. … f) Unità economicaUnità economicaUnità economicaUnità economica. L’art. 120, primo comma, Cost., stabilisce che le Regioni non possono «istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, nè adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, nè limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». Questa previsione mira a favorire la creazione di un mercato nazionale non parcellizzato, né irrazionalmente frazionato. I legislatori regionali sono abilitati a dettare discipline congeniali alle peculiarità dei rispettivi ambiti territoriali, con particolare riferimento alle realtà economiche locali. Tuttavia, ciò non può alterare la tendenziale unità dell’assetto economico italiano, che verrebbe gravemente compromessa da misure protezionistiche come quelle espressamente identificate. Si è visto, in particolare, nella parte dedicata alla tutela della concorrenza, come sia precluso ai legislatori regionali istituire marchi regionali al fine di valorizzare i prodotti locali a danno di quelli realizzati al di fuori dei confini regionali. La nozione di «unità economicaunità economicaunità economicaunità economica» è, poi, testualmente utilizzata nel successivo comma dello stesso art. 120, dedicato al potere statale di sostituzionepotere statale di sostituzionepotere statale di sostituzionepotere statale di sostituzione: «il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Il comma successivo dispone che «la legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione». Esercitando il potere sostitutivo, lo Stato rimedia all’inerzia degli enti territoriali. Tra le condizioni che giustificano il ricorso a tale intervento surrogatorio è annoverata proprio la tutela dell’unità economica.

Il requisito dell’unità economica (Wirtschaftseinheit) è stato introdotto ispirandosi alla konukurrierende Gesetzgebung di cui all’art. 72, secondo comma, della Costituzione tedesca. In quell’ordinamento, la tutela dell’unità economica giustifica l’intervento del legislatore dello Stato federale (Bund) in luogo di quello dei legislatori dei singoli Stati (Länder).

La Corte costituzionale non ha ancora chiarito la portata di tale requisito. In via generale, la Corte ha riconosciuto che la citata disposizione costituzionale «è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente». Sicché, «la previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari». In relazione ai presupposti di esercizio del potere sostitutivo la Corte costituzionale ha osservato che, proprio con specifico riferimento alla tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica, «si tratta all’evidenza del richiamo ad interessi “naturalmente” facenti capo allo Stato, come ultimo responsabile del mantenimento della unità e indivisibilità della Repubblica garantita dall’articolo 5 della Costituzione».

L’unità economica è stata, quindi, percepita come corollario del principio unitario enunciato, nella sua globalità, nell’art. 5 Cost.

Nella giurisprudenza costituzionale, perciò, le evocazioni della tutela dell’unità economica si hanno nelle pronunce in cui il giudice delle leggi si è occupato delle misure volte a garantire la stabilità dei conti pubblici. In particolare, la Corte ha precisato che i princìpi fondamentali enunciati

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dal legislatore statale in materia di «coordinamento della finanza pubblica» sono «funzionali anche ad assicurare il rispetto del parametro dell’unità economica della Repubblica».

4. La potestà regolamentare e la delegificazione. – Come si è visto, i regolamenti regolamenti regolamenti regolamenti (governativi, regionali, provinciali, comunali) sono fonti secondarie del diritto, ossia subordinate alla legge e agli atti aventi forza di legge in virtù del criterio gerarchico, che in questo ambio assume la qualificazione di principio di legalità. Il regolamento è uno strumento snello, rapido, efficiente, di produzione normativa. I tempi di gestazione del regolamento sono decisamente ridotti rispetto al procedimento legislativo. Il ministro competente lo predispone. Il Consiglio dei ministri lo discute e lo approva. Il Presidente della Repubblica lo emana. Dopo la pubblicazione esso entra in vigore. Pochi giorni, qualche settimana, per confezionare un atto normativo. In campo economico, il regolamento è uno strumento particolarmente utilizzato, specie ove si tratti di disciplinare i poteri dell’amministrazione. Il ricorso al regolamento è stato favorito anche dalla diffusione del modello della delegificazionedelegificazionedelegificazionedelegificazione. Si ha delegificazione quando un regolamento sostituisce una previa legge (o, comunque, una fonte primaria del diritto) per disciplinare in futuro una determinata materia. Il regolamento viene preferito alla legge appunto perché più snello e rapido: più facile è la sua approvazione, altrettanto più agevole è la sua modifica o sostituzione con un altro regolamento. La delegificazione risponde, quindi, alla sempre più incessante domanda di normazione rapida, mirata, efficiente, che spesso in campo economico caratterizza i rapporti tra le istituzioni pubbliche e i privati. Non solo. Con la delegificazione il protagonista della disciplina di una determinata materia non è più il Parlamento, ma il Governo. L’attività normativa, quindi, esce dal circuito rappresentativo della contrapposizione maggioranza/opposizione, per accedere ad un ambito in cui è solo la maggioranza a decidere. E non è una differenza trascurabile. Dal punto di vista tecnico, la delegificazione deve rispettare una serie di condizioni rigorose. In effetti: - non tutte le materie si prestano alla delegificazione; - quando un regolamento (fonte secondaria) si sostituisce alla legge (fonte primaria), quest’ultima viene abrogata, ma, in forza de criterio gerarchico, non può essere il regolamento ad abrogarla. Pertanto, il tradizionale modello di delegificazione è così strutturato: a) non c’è spazio per la delegificazione nelle materie coperte da riserva assoluta di legge (es. in materia penale): i beni in gioco sono dotati di tale rilevanza costituzionale (es. la libertà personale) da sconsigliare che la relativa regolamentazione sia affidata a fonti secondarie nelle mani della maggioranza; b) per avviare la delegificazione c’è pur sempre bisogno di una legge (o, comunque, di una fonte primaria) a cui spetta: - autorizzare l’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo; - emanare norme generali, in modo tale da orientare nel contenuto le future scelte regolamentari; - disporre l’abrogazione della previgente legge con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento di delegificazione: in questo modo non si vìola il criterio gerarchico e non si crea alcun vuoto normativo, garantendo la continuità tra la vecchia legge e il nuovo regolamento. Diversa dalla delegificazione è la cd. deregulationderegulationderegulationderegulation. Con essa addirittura si ritrae il diritto per lasciare il posto a diverse forme di regolamentazione, quale può essere, ad esempio, quella pattizia o negoziale tra gli attori economici. In breve, con la deregulation scompare il diritto e appare una disciplina non giuridica di determinati rapporti. È superfluo notare come la deregulation sia una misura evocata a gran voce da tutti coloro che accedono, idealmente, a istanze neoliberiste: più deregulation, meno Stato, più libertà. La

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deregulation, in effetti, è una delle strade percorse dalle riforme di liberalizzazioneliberalizzazioneliberalizzazioneliberalizzazione, che si ha quando vengono meno gli oneri burocratici a carico degli operatori economici (meno requisiti, meno autorizzazioni).

La funzione amminiLa funzione amminiLa funzione amminiLa funzione amministrativastrativastrativastrativa

Le autorità amministrative di regola svolgono le loro attività attraverso l’esercizio dei poteri amministrativi. Il potere amministrativo potere amministrativo potere amministrativo potere amministrativo è la capacità giuridica speciale con la quale una pubblica amministrazione provvede alla cura concreta di interessi generali. L’esercizio del potere amministrativo culmina in un atto amministrativoatto amministrativoatto amministrativoatto amministrativo che può avere l’effetto di accrescere o diminuire il patrimonio giuridico del destinatario.

Questa tematica è particolarmente importante nell’ambito qui considerato dal momento che in

molti casi l’attività economica è condizionata dal potere amministrativo, sotto forme di autorizzazioni, licenze, permessi, concessioni, sussidi, sovvenzioni, controlli, sanzioni, e via discorrendo.

Il potere amministrativo presenta essenzialmente tre caratteristiche: a) unilateralitàunilateralitàunilateralitàunilateralità: l’atto amministrativo si perfeziona con la volontà manifestata unilateralmente

dall’organo competente; b) imperativitàimperativitàimperativitàimperatività: l’atto amministrativo s’impone anche contro la volontà del destinatario,

modificandone cogentemente la sfera giuridica; c) tipicitàtipicitàtipicitàtipicità: in nome del principio di legalità, le autorità amministrative possono esercitare solo i

poteri ad esse attribuiti dalla legge, intesa come fonte primaria; d) funzionalizzazionefunzionalizzazionefunzionalizzazionefunzionalizzazione: ogni potere amministrativo è funzionale al soddisfacimento di uno e un

solo interesse generale. Come si avrà modo di illustrare successivamente, di fronte al potere amministrativo il singolo

versa in una condizione di soggezione, essendo titolare di un interesse legittimo, e non di un pieno diritto soggettivo.

Oltre al principio di legalità, il potere amministrativo è soggetto ai seguenti princìpi

fondamentali: 1) principio del buon andamentoprincipio del buon andamentoprincipio del buon andamentoprincipio del buon andamento: l’amministrazione deve essere organizzata in modo tale da

garantire efficienza, efficacia ed economicità nell’azione amministrativa; dove: • per efficienza efficienza efficienza efficienza s’intende il rapporto tra gli obiettivi programmati e le risorse utilizzate; • per efficacia efficacia efficacia efficacia s’intende il rapporto tra gli obiettivi programmati e i risultati

effettivamente conseguiti; • per economicità economicità economicità economicità s’intende il miglior utilizzo possibile delle risorse disponibili;

2) principio di imparzialitàprincipio di imparzialitàprincipio di imparzialitàprincipio di imparzialità: nello svolgimento della propria attività istituzionale ogni pubblica amministrazione deve rispettare e garantire l’eguaglianza formale di tutti, senza favoritismi o privilegi;

3) principio di ragionevolezza e proporzionalitàprincipio di ragionevolezza e proporzionalitàprincipio di ragionevolezza e proporzionalitàprincipio di ragionevolezza e proporzionalità: un atto amministrativo deve essere l’esito di una corretta ponderazione tra interesse pubblico e interesse privato. Una misura negativa per il destinatario è giustificata solo se strettamente necessaria, solo se congrua rispetto al fine da raggiungere, solo se c’è proporzione tra fini e mezzi;

4) principio dellprincipio dellprincipio dellprincipio dell’’’’equilibrio del bilancio e della sostenibilità del debito pubblicoequilibrio del bilancio e della sostenibilità del debito pubblicoequilibrio del bilancio e della sostenibilità del debito pubblicoequilibrio del bilancio e della sostenibilità del debito pubblico: è un principio che si ricollega a quanto stabilito dall’art. 81 Cost., come modificato nel 2012;

5) principio della distinzione tra politica e amministrazioneprincipio della distinzione tra politica e amministrazioneprincipio della distinzione tra politica e amministrazioneprincipio della distinzione tra politica e amministrazione: gli organi di governo stabiliscono gli obiettivi da raggiungere e controllano l’azione delle pubbliche amministrazioni attività politica), mentre gli organi amministrativi individuano i mezzi più opportuni per realizzare quegli obiettivi (attività di gestione);

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6) principio di responsabilità dei pubblici funzionariprincipio di responsabilità dei pubblici funzionariprincipio di responsabilità dei pubblici funzionariprincipio di responsabilità dei pubblici funzionari: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti;

7) principio del concorsoprincipio del concorsoprincipio del concorsoprincipio del concorso: alle pubbliche amministrazioni si accede tramite concorso, ossia attraverso una selezione pubblica destinata ad individuare i più meritevoli.

Con l’esercizio del potere amministrativo, la pubblica amministrazione pone in essere una serie

di atti ed operazioni qualificabili, nel loro complesso, come attivitàattivitàattivitàattività. A seconda del rapporto tra legge e attività amministrativa e del rapporto tra pubblica

amministrazione e giudici in caso di controversia, si possono distinguere tre tipologie di attività amministrativa.

a) Attività amministrativa vincolataAttività amministrativa vincolataAttività amministrativa vincolataAttività amministrativa vincolata. In alcuni casi l’amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza delle condizioni e dei requisiti stabiliti dalla legge ai fini della adozione di un determinato atto amministrativo. Una volta accertata la presenza di tali presupposti, l’amministrazione deve adottare quell’atto. In questo senso si parla di attività amministrativa vincolata.

Si pensi, ad esempio, alla iscrizione nelle liste elettorali, quale condizione indispensabile per esercitare il diritto di voto. La legge richiede che il cittadino sia residente in un dato comune al fine di essere iscritto nelle predette liste. In tal caso, l’amministrazione deve semplicemente appurare questa condizione e, in caso di esito positivo, deve procedere alla suddetta iscrizione. Altro esempio. L’assegnazione di un alloggio popolare è un atto di amministrazione vincolata. Una volta che l’autorità competente avrà verificato, nel caso del singolo richiedente, l’esistenza dei requisiti stabiliti dalla legge (reddito, composizione del nucleo familiare, eventuali disabilità, ecc.), allora l’amministrazione dovrà procedere all’assegnazione dell’alloggio.

Di fronte alla legge, dunque, l’amministrazione gode di insignificanti margini di manovra. Essa può considerarsi mera esecutrice del comando legislativo. La verifica delle condizioni fissate dalla legge non richiede un particolare sforzo. Di fronte all’autorità giudiziaria, poi, l’amministrazione versa in una condizione di debolezza. In effetti, ove il richiedente si rivolga al T.a.r. perché l’amministrazione gli ha negato l’atto richiesto, il giudice adìto non dovrà fare altro che verificare se, nel caso di specie, sussistano i requisiti stabiliti dalla legge. In caso di esito positivo di tale verifica, il T.a.r. darà ragione al privato e torto all’amministrazione (→ accoglimento del ricorso giurisdizionale). b) Attività amministrativa discrezionaleAttività amministrativa discrezionaleAttività amministrativa discrezionaleAttività amministrativa discrezionale. In altri casi, la legge si limita a definire l’obiettivo da raggiungere, lasciando all’amministrazione il compito di individuare i mezzi più opportuni per realizzare quell’obiettivo.

Si pensi ad una autorizzazione commerciale. La legge attribuisce alle competenti autorità il compito di consentire lo svolgimento di attività di natura commerciale se queste garantiscono o concorrono allo sviluppo del sistema economico. Questo è il fine stabilito dalla legge. Spetterà poi all’amministrazione decidere se, quando e a quali condizioni rilasciare ai richiedenti la prescritta autorizzazione. Altra esemplificazione. Per aprire uno stabilimento balneare occorre chiedere ed ottenere una concessione. In effetti, il lido è un bene del demanio pubblico, che può essere sfruttato economicamente dai privati solo a seguito del conseguimento della concessione, che è un atto amministrativo. La legge si limita a stabilire l’obiettivo: valorizzazione e corretta utilizzazione di tale bene. Spetta, quindi, all’autorità competente decidere se, a chi, quando e a quali condizioni rilasciare tale concessione, in relazione proprio a quell’obiettivo. Similmente, le miniere (beni pubblici) possono essere sfruttate economicamente solo grazie ad un permesso (atto amministrativo). Posto che ogni miniera può essere sfruttata da una sola impresa e posto che la legge si limita ad affermare che il permesso deve essere concesso a chi sarà in grado di ottenere il miglior risultato possibili in termini economici, allora l’amministrazione deciderà se e quale degli aspiranti avrà diritto di sfruttare quella risorsa naturale.

In questi casi si suole affermare che l’amministrazione gode di discrezionalità nel decidere se adottare oppure no l’atto amministrativo richiesto da un privato e, in caso affermativo, a quali condizioni e termini procedere.

A questo punto occorre fare una precisazione di estrema importanza. DiscrezionalitàDiscrezionalitàDiscrezionalitàDiscrezionalità e libertàlibertàlibertàlibertà non sono la stessa cosa. Nel caso della discrezionalità, l’obiettivo da raggiungere è determinato da un soggetto diverso da quello che assumerà una data decisione attraverso la manifestazione della propria

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volontà: nel caso qui esaminato, è il legislatore a determinare, in forza del principio di legalità, i fini da raggiungere. Nel caso della libertà, invece, è lo stesso soggetto che agisce a determinare da sé i fini delle proprie azioni. In questo senso, la pubblica amministrazione non è mai libera, diversamente dai privati, che quando svolgono un’attività negoziale o, comunque, giuridicamente rilevante, definiscono autonomamente gli obiettivi da raggiungere. Il fine da raggiungere è l’interesse pubblico sotteso ad ogni specifico potere amministrativo. Vale la pena ribadire che ogni potere amministrativo è finalizzato alla realizzazione di un determinato interesse generale, inteso come stato di aspirazione o di tensione ideale della comunità (e non si singoli individui o di specifici gruppi di persone) verso un bene ritenuto necessario per soddisfare un determinato bisogno.

Pertanto, di fronte alla legge, l’amministrazione che si avvale di discrezionalità gode di ampi margini di manovra, essendo la propria azione vincolata solo finalisticamente dalla legge.

Di fronte al giudice, poi, la posizione dell’amministrazione tende a rafforzarsi rispetto all’attività vincolata. Il giudice, infatti, deve limitarsi a verificare se l’autorità amministrativa abbia correttamente rispettato il fine predeterminato dalla legge. Nel contempo, il giudice non può sostituirsi all’amministrazione nel valutare l’adeguatezza o l’opportunità o l’efficacia dei mezzi prescelti, in quanto una simile valutazione entra nel merito merito merito merito dell’azione amministrativa. Nel rispetto del principio della separazione dei poteri, il giudice può solo verificare la legittimità legittimità legittimità legittimità degli atti amministrativi, e non il merito, cioè l’opportunità della scelta posta in essere dall’amministrazione.

Pertanto, se l’amministrazione competente nega il rilascio di una autorizzazione commerciale, in quanto ha giudicato il richiedente non idoneo a svolgere una utile attività economica, in caso di controversia il giudice amministrativo dovrà limitarsi a verificare la legittimità dell’atto: se l’amministrazione che ha respinto la domanda del privato è quella competente; se è stata rispettata la legge che disciplina quel potere; se c’è una motivazione; se l’amministrazione ha correttamente comparato gli interessi, pubblici e privati, in gioco, e via discorrendo. Il giudice non può dire: «se fossi stato io al posto dell’amministrazione avrei concesso all’imprenditore Tizio l’autorizzazione commerciale in quanto mi pare idoneo». Questo tipo di valutazione compete in via esclusiva al potere esecutivo, cioè all’amministrazione pubblica, in virtù del principio della separazione dei poteri.

c) Discrezionalità tecnicaDiscrezionalità tecnicaDiscrezionalità tecnicaDiscrezionalità tecnica. A volte, l’attività amministrativa vincolata presenta un aspetto particolare. L’amministrazione deve sì limitarsi a verificare i requisiti stabiliti dalla legge per l’emanazione di un determinato atto, ma questa verifica richiede una specifica preparazione tecnica da parte di chi procede a questo accertamento.

In un concorso pubblico, la decisione finale dipende dall’accertamento dei requisiti stabiliti dalla legge per quello specifico profilo professionale: professore universitario, magistrato, dirigente della pubblica amministrazione, funzionario di Polizia ecc. L’amministrazione in questi casi si affida ad una commissione composta da esperti: infatti, solo con una adeguata preparazione e competenza maturata nel tempo è possibile verificare se sussistono i requisiti stabiliti dalla legge. Lo stesso discorso vale per gli esami di abilitazione all’esercizio delle professioni: avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti, e via dicendo. L’esame per la patente di guida è un altro importante esempio di discrezionalità tecnica.

In questi casi, i giudici hanno elaborato la nozione di discrezionalità tecnica proprio per definire un’attività vincolata che però richiedere particolari conoscenze tecniche ai fini della decisione. Questa nozione è stata concepita al fine di rafforzare la posizione della pubblica amministrazione in caso di giudizio davanti al giudice amministrativo. In effetti, se la decisione dipende da particolari conoscenze tecniche, il giudice, in ossequio al principio della separazione dei poteri, non potrà sostituirsi all’amministrazione nel valutare la specifica posizione del privato, come invece accede – lo si è visto – nel caso della attività amministrativa vincolata.

Così, se un aspirante avvocato viene bocciato all’esame di abilitazione e questi ricorre al T.a.r. per ottenere l’annullamento del provvedimento negativo, il giudice non potrà verificare se il ricorrente fosse davvero preparato oppure no. Questa valutazione è riservata all’amministrazione, che a tal fine si è avvalsa dell’opera di esperti (la commissione dell’esame da avvocato è composta da avvocati, magistrati e docenti universitari in materie giuridiche). Semmai, il giudice potrà verificare il corretto svolgimento della prova: legittima costituzione della commissione esaminatrice, rispetto dei tempi, pertinenza dei temi di esame, ecc. Se un aspirante guidatore è stato

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bocciato all’esame per il conseguimento della patente (che è un atto amministrativo), il giudice non potrà sedersi al fianco del candidato per verificare di persona se è capace oppure no di guidare.

È bene, però, osservare che le più recenti riforme legislative sul giudizio amministrativo hanno, tra l’altro, rafforzato i poteri dei giudici, così che il concetto di discrezionalità tecnica ha smarrito gran parte della propria originaria configurazione garantistica a vantaggio dell’amministrazione. Basti pensare all’ampliamento dei poteri istruttori del giudice amministrativo che, a determinate condizioni, può anche avvalersi dell’opera di periti, ossia di consulenti esperti nei vari settori.

Il potere amministrativo è di regola esercitato tramite un procedimentoprocedimentoprocedimentoprocedimento. In quanto successione regolare e ordinata di atti e operazioni tra loro coordinati, il procedimento è un istituto di garanzia per il corretto e legittimo esercizio del potere amministrativo. Ciò risulterà ancora più chiaro quando ci si occuperà della nozione di interesse legittimo.

Il procedimento amministrativo si articola nelle seguenti fasi: a) fase defase defase defase dellllllll’’’’istruttoriaistruttoriaistruttoriaistruttoria: il procedimento è avviato su iniziativa di un privato o di un’altra

amministrazione (iniziativa di parte) oppure su iniziativa della stessa amministrazione decidente (iniziativa d’ufficio). Dell’avvio del procedimento occorre darne comunicazione agli interessati, con l’indicazione del responsabile del procedimento stesso (ossia il funzionario che seguirà la pratica, come si suol dire);

b) fase istruttoriafase istruttoriafase istruttoriafase istruttoria: il responsabile del procedimento provvede alla acquisizione degli elementi di fatto e di diritto necessari per prendere una decisione. A tal fine dispone di molteplici strumenti previsti dall’ordinamento (→ poteri istruttori);

c) fase costitutivafase costitutivafase costitutivafase costitutiva: una volta acquisiti tutti gli elementi di conoscenza, l’autorità competente (un organo monocratico, quale può essere un dirigente, o un organo collegiale, quale può essere una commissione) prende la decisione. Al termine di questa fase, si avrà un atto amministrativo perfetto, ma non ancora efficace;

d) fase integrativa dellfase integrativa dellfase integrativa dellfase integrativa dell’’’’efficaciaefficaciaefficaciaefficacia: l’atto amministrativo perfetto diviene anche efficace (cioè in grado di produrre validamente i propri effetti tipici) mediante operazioni che determinano la conoscenza ufficiale dell’atto ai suoi interessati: notificazione, comunicazione, pubblicazione.

La disciplina de procedimento amministrativo riposa sui seguenti princìpi: 1) di regola, obbligo di motivazione degli motivazione degli motivazione degli motivazione degli atti amministrativi; 2) minor aggravio possibileminor aggravio possibileminor aggravio possibileminor aggravio possibile per i destinatari dell’atto, in termini di tempi e di sacrifici subiti; 3) trasparenza trasparenza trasparenza trasparenza amministrativa, legata al principio di imparzialità e, dunque, sinonimo di

pubblicità, salvi i casi in cui le amministrazioni sono tenute al segreto; 4) diritto di accessoaccessoaccessoaccesso agli atti, quale modalità di realizzazione dell’interesse legittimo; 5) partecipazionepartecipazionepartecipazionepartecipazione degli interessati all’istruttoria, anche attraverso la presentazione di documenti

e di memorie; 6) contraddittorio contraddittorio contraddittorio contraddittorio tra i soggetti portatori dei diversi interessi coinvolti; 7) obbligo di conclusione del procedimento entro un determinato e perentorio terminetermineterminetermine.

A proposito di termine, se l’amministrazione non provvede entro il termine stabilito dalle

relative discipline normative, e dunque non decide se accogliere o rigettare la domanda del privato volta al conseguimento di un determinato atto amministrativo, allora si ha il silenzio silenzio silenzio silenzio della pubblica amministrazione.

Contrariamente al detto comune secondo cui «chi tace acconsente», nel diritto amministrativo opera il principio secondo cui «qui tacet utique non fatetur, sede tamen verum est non negare». Detto in parole povere, l’amministrazione che tace è un’amministrazione inadempiente: non acconsente, né respinge, ma semplicemente è inerte.

Pertanto, in questo ambito la regola è quella del silenziosilenziosilenziosilenzio----inadempimentoinadempimentoinadempimentoinadempimento.

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Di fronte al silenzio-inadempimento il privato potrà rivolgersi al giudice amministrativo e questi, una volta accertata l’inerzia della competente amministrazione, pronuncerà una sentenza con la quale intimerà alla stessa di decidere entro un certo termine.

Si noti. Quando un privato si rivolge al T.a.r. contro il silenzio dell’amministrazione, non chiede al giudice di intimare all’amministrazione di accogliere la sua domanda. Il privato ricorrente chiede al giudice di riconoscere che c’è stato un inadempimento e che, dunque, la pubblica amministrazione è costretta a decidere, in un senso o nell’altro.

Se, poi, l’amministrazione ignora la decisione del giudice e non decide entro il termine perentorio stabilito nella sentenza, allora il giudice, nuovamente adìto dal privato, procederà a nominare un commissario commissario commissario commissario ad actaad actaad actaad acta che si sostituirà all’amministrazione inadempiente nella assunzione della decisione finale.

Ancora una volta, si faccia attenzione. Il giudice che riconosce questo ulteriore inadempimento non determina l’accoglimento della domanda presentata a suo tempo dal privato ricorrente. Egli si limita a nominare un soggetto estraneo all’amministrazione per decidere. Il commissario, che si sostituisce all’amministrazione, potrà quindi anche respingere la domanda del privato e, dunque, negare il provvedimento richiesto.

Si tenga presente che l’inadempimento dell’amministrazione può avere anche conseguenze penali. Il codice penale prevede infatti il reato di omissione in atti d’ufficio, che però può dar luogo a condanna del singolo funzionario responsabile solo se il pubblico ministero dimostra il dolo, e cioè l’intenzione del funzionario stesso di non decidere entro il termine previsto.

Se il silenzio-inadempimento è la regola, vi sono però due eccezioni. Queste eccezioni sussistono nei soli casi tassativamente previsti dalla legge. a) SilenzioSilenzioSilenzioSilenzio----rigettorigettorigettorigetto. Se l’amministrazione non decide entro il termine stabilito, allora la

domanda del privato s’intende respinta. È il caso, importante, del ricorso gerarchico, sul quale ci si soffermerà più avanti quando ci occuperemo dei rimedi contro gli atti illegittimi della pubblica amministrazione.

b) SilenzioSilenzioSilenzioSilenzio----assensoassensoassensoassenso. Decorso il termine stabilito dalla legge o dal regolamento, senza che l’amministrazione abbia provveduto a decidere, allora la domanda del privato s’intende accolta.

Si noti che il silenzio-assenso rientra tra gli istituti di semplificazione amministrativasemplificazione amministrativasemplificazione amministrativasemplificazione amministrativa. Invero, se la legge dispone che, in caso di silenzio dell’amministrazione, il privato può svolgere quella attività (ad esempio, un’attività economica) subordinata ad un atto amministrativo, allora si semplifica il rapporto con i privati. Questi, infatti, non sono tenuti ad attivare il macchinoso e dispendioso meccanismo giudiziario creato avverso il silenzio-inadempimento.

Un altro istituto di semplificazione è la denuncia di inizio attivitàdenuncia di inizio attivitàdenuncia di inizio attivitàdenuncia di inizio attività. Nei casi previsti, il privato può immediatamente iniziare una data attività altrimenti subordinata ad un atto amministrativo, e l’amministrazione ha a disposizione un lasso di tempo relativamente breve per eventualmente vietare al singolo la continuazione di quell’attività. Decorso quel termine, il privato potrà considerarsi “al sicuro”. Pochi anni fa, questo istituto è stato sostituito dalla segnalazione certificata di inizio attività segnalazione certificata di inizio attività segnalazione certificata di inizio attività segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), ma nella sostanza nulla è cambiato. Resta ferma la possibilità per l’amministrazione di bloccare l’attività in oggetto, una volta decorso il predetto termine, solo esercitando i propri poteri di autotutela (v. dopo). In questo caso, però, l’amministrazione dovrà fare i conti con il legittimo affidamento vantato dal privato circa la prosecuzione dell’attività tacitamente assentita.

Gli atti amministrativi atti amministrativi atti amministrativi atti amministrativi sono l’esito dell’esercizio di un potere amministrativo. Normalmente

hanno forma scritta, ma vi possono essere anche atti privi di tale attributo. A parte il caso del silenzio-assenso, dapprima esaminato, si pensi agli atti posti in essere attraverso comportamenti concludenti o per il tramite di oggetti. Nel primo caso, si pensi ad esempio al vigile urbano quando regola il traffico. Nel secondo caso, e sempre in tema di circolazione stradale, si pensi ai colori del semaforo: il rosso impone l’arresto dei veicoli, e tale imposizione non è che espressione di un potere amministrativo della categoria degli ordini.

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Nell’ambito degli atti amministrativi assumono un particolare rilievo, soprattutto nell’ambito della costituzione economica, i provvedimenti amministrativiprovvedimenti amministrativiprovvedimenti amministrativiprovvedimenti amministrativi: in essi l’elemento qualificante è dato proprio dalla manifestazione di volontà posta in essere dall’autorità competente.

I provvedimenti amministrativi hanno forma scritta e recano l’intestazione, il preambolo, la motivazione, il dispositivo, la data, il luogo e la firma del funzionario.

I provvedimenti amministrativi possono avere portata negativa o positiva quanto all’incidenza che essi hanno nel patrimonio giuridico del destinatario. Più precisamente:

- i provvedimenti sfavorevoli (o restrittivi)provvedimenti sfavorevoli (o restrittivi)provvedimenti sfavorevoli (o restrittivi)provvedimenti sfavorevoli (o restrittivi) determinano un impoverimento del patrimonio giuridico del destinatario. Si pensi, ad esempio, ad un provvedimento di espropriazione di un terreno: a seguito di tale decisione, il destinatario si vedrà privare di un bene immobile che era di sua proprietà (altri esempi sono gli ordini, le occupazioni, le requisizioni, le sanzioni amministrative);

- i provvedimenti favorevoli (o ampliativi)provvedimenti favorevoli (o ampliativi)provvedimenti favorevoli (o ampliativi)provvedimenti favorevoli (o ampliativi), invece, arricchiscono il destinatario, conferendo loro beni o facoltà in precedenza non sussistenti.

Tra i provvedimenti favorevoli che più interessano la costituzione economica, vale al pena ricordare:

- le concessioniconcessioniconcessioniconcessioni: in questo modo il privato acquista un diritto che in precedenza non aveva (è già stato fatto in precedenza l’esempio della concessione per uno stabilimento balneare);

- le autorizzazioniautorizzazioniautorizzazioniautorizzazioni: il provvedimento amministrativo rimuove un ostacolo al legittimo esercizio di un diritto di cui il destinatario è già titolare. Si pensi, ad esempio, ad una licenza di commercio. Il privato è già titolare del diritto di iniziativa economica (→ art. 41 Cost.), la il legislatore ha ritenuto necessario subordinare l’esercizio concreto di tale diritto ad uno specifico atto amministrativo, per tutelare l’interesse generale allo sviluppo adeguato del sistema economico. O, ancora, per costruire una casa occorre ottenere una autorizzazione: per garantire l’interesse generale al corretto e razionale sfruttamento dell’assetto urbanistico il legislatore ha deciso di subordinare il concreto esercizio di edificare ad un apposito provvedimento amministrativo, benché in astratto il proprietario di un terreno, in quanto tale, sia già titolare dello ius edificandi.

- le sovvenzionisovvenzionisovvenzionisovvenzioni: con questi provvedimenti l’amministrazione concede incentivi o aiuti economici sotto forma di contributi alle imprese.

Si parla di ppppatologia atologia atologia atologia dell’atto amministrativo quando questo è affetto da vizi vizi vizi vizi che ne

compromettono l’attitudine ad esplicare la funzione tipica. Nel linguaggio tecnico, per patologia s’intende l’invalidità invalidità invalidità invalidità dell’atto amministrativo, come

deviazione dallo schema generale prefigurato dal diritto oggettivo. In questo ambito si distingue tra: a) inesistenza (o nullità)inesistenza (o nullità)inesistenza (o nullità)inesistenza (o nullità), nel senso che l’atto amministrativo è privo degli elementi costitutivi

essenziali necessari perché possa essere riconosciuto come tale dal punto di vista giuridico.

Si pensi, ad esempio, ad una licenza di commercio emanata dal giudice di pace di Pavia. L’atto materialmente esiste, ma è radicalmente inesistente in quanto adottato da un organo – il giudice di pace – del tutto estraneo dalla pubblica amministrazione. Oppure si pensi ad una autorizzazione costruire un villa sul pianeta Giove o sul pianeta Kubrakstwedzali: nel primo caso l’oggetto è (attualmente) impossibile, nel secondo l’oggetto è (attualmente) inesistente.

b) illegittimità (o annullabilità)illegittimità (o annullabilità)illegittimità (o annullabilità)illegittimità (o annullabilità), che ricorre quando un atto amministrativo, pur “esistente”

giuridicamente nel senso prima chiarito, non rispetta i requisiti, formali e sostanziali, di validità e, quindi, può essere annullato.

Il diritto oggettivo individua tre vizi di illegittimità vizi di illegittimità vizi di illegittimità vizi di illegittimità dell’atto amministrativo.

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1) Violazione di leggeViolazione di leggeViolazione di leggeViolazione di legge: si ha quando l’autorità amministrativa ha violato una norma giuridica (si parla di “legge”, anche se in realtà questo vizio ricorre anche quando è violato un regolamento). È in vigore una legge generale sul procedimento legislativo. Quando una sua disposizione è violata si ha illegittimità dell’atto.

Ad esempio, se non è stato comunicato l’avvio del procedimento, o se non è stato designato il responsabile

del procedimento, o se l’atto è carente di motivazione, o se non è stato acquisito un parere prescritto dalla legge.

2) IncompetenzaIncompetenzaIncompetenzaIncompetenza: si ha quando l’atto è stato emanato dall’autorità incompetente. In effetti, il diritto oggettivo attribuisce ogni singolo e specifico potere ad una determinata autorità amministrativa, e solo a quella. Si hanno, quindi, imperative norme sulla competenza, che a sua volta può essere per materia, per valore o per territorio.

Così, ad esempio, se un atto di competenza della Giunta comunale viene adottato dal Sindaco, o se un

provvedimento di competenza del Prefetto di Milano viene posto in essere dal Prefetto di Pavia.

3) Eccesso di potere: è questo il vizio tipico dell’attività amministrativa discrezionale. Non esiste una definizione puntuale di eccesso di potere. Piuttosto, i giudici hanno nel corso degli anni identificato una serie di figure sintomatiche figure sintomatiche figure sintomatiche figure sintomatiche di eccesso di potere. Così come tosse, raffreddore, febbre alta, dolori articolari sono sintomi dell’influenza, in questo modo identificata dal medico, analogamente grazie a questi sintomi il giudice riconosce un eccesso di potere e, quindi, annulla l’atto impugnato. Senza ambizione di completezza, ecco alcune figure sintomatiche:

- sviamento di potere: l’amministrazione ha agito per tutelare un interesse diverso da quello sotteso allo specifico potere amministrativo;

- irragionevolezza: l’amministrazione ha preso una decisione priva di conseguenzialità logica rispetto alle premesse, oppure ha assunto un atto che prevede una misura negativa sproporzionata rispetto al fine da raggiungere, o non c’è congruenza tra obiettivo e mezzi prescelti, o si tratta di una decisione arbitraria;

- ingiustizia manifesta: l’atto è aberrante, assurdo, privo di razionalità intrinseca; - contraddittorietà tra atti: in situazioni sostanzialmente equivalenti l’amministrazione ha

deciso in maniera opposta; - motivazione incongrua o carente: l’amministrazione ha sì rispettato l’obbligo di

motivazione, ma allega argomentazioni deboli, contraddittorie, ambigue; - istruttoria inadeguata: il responsabile del procedimento non ha svolto una adeguata

istruttoria, tenuto conto della complessità della realtà destinata ad essere incisa dal provvedimento finale;

- travisamento dei fatti: compiuta l’istruttoria, l’autorità procedente accede ad una interpretazione erronea della realtà;

- violazione della prassi amministrativa, cioè di ciò che normalmente fa l’amministrazione in determinati casi.

Di fronte ad un atto amministrativo affetto da invalidità, l’ordinamento giuridico contempla una

serie di rimedirimedirimedirimedi. 1) Autotutela amministrativaAutotutela amministrativaAutotutela amministrativaAutotutela amministrativa. È la stessa amministrazione pubblica ad attivarsi per porre

rimedio alla invalidità di un determinato atto. Essa, però, può attivarsi solo se allega uno specifico interesse pubblico all’intervento sull’atto viziato. L’autotutela può, invero, risolversi tanto nella eliminazione dell’atto viziato, quanto nella correzione dell’atto stesso. Nel primo caso si ha, ad esempio, l’annullamento dannullamento dannullamento dannullamento d’’’’ufficioufficioufficioufficio, quando l’amministrazione elimina un atto invalido per ragioni di legittimità. Oppure si ha revoca revoca revoca revoca dell’atto, quando questo viene meno per ragioni di opportunità. Nel secondo caso si ha, ad esempio, una ratificaratificaratificaratifica quando l’autorità competente conferma la decisione assunta dall’autorità incompetente.

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2) Ricorsi amministrativiRicorsi amministrativiRicorsi amministrativiRicorsi amministrativi. In questi casi il privato, che ritiene di essere stato danneggiato da un atto amministrativo asseritamente illegittimo, anziché agire in giudizio (v. dopo) si rivolge all’amministrazione pubblica. Più precisamente, si hanno tre tipi di ricorsi amministrativi:

• ricorso gerarchicoricorso gerarchicoricorso gerarchicoricorso gerarchico, quando il privato impugna l’atto davanti all’autorità amministrativa gerarchicamente sovraordinata a quella che lo ha emanato. È necessario, quindi, che vi sia un rapporto gerarchico o di sovraordinazione/subordinazione. Questo rimedio è di carattere generale e può essere fatto valere solo per motivi di legittimità. In caso di esito negativo o si silenzio-rigetto, il privato può rivolgersi al giudice competente o esperire il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (v. dopo);

• ricorso in opposizionericorso in opposizionericorso in opposizionericorso in opposizione: nei soli casi tassativamente previsti dalla legge, il privato può impugnare l’atto davanti alla stessa autorità che lo ha emanato;

• ricorso straordinario al Presidente della Repubblicaricorso straordinario al Presidente della Repubblicaricorso straordinario al Presidente della Repubblicaricorso straordinario al Presidente della Repubblica: esso vale solo contro gli atti definitivi, è un rimedio di carattere generale, prevede un ruolo formalmente consultivo ma sostanzialmente decisivo del ministero competente, ed è una misura alternativa all’azione giudiziaria, nel senso che se si opta per questo rimedio non ci si può poi rivolgere al giudice.

3) Ricorsi giurisdizionaliRicorsi giurisdizionaliRicorsi giurisdizionaliRicorsi giurisdizionali. Nel nostro ordinamento avverso gli atti della pubblica amministrazione opera il modello del doppio binario, nel senso che esistono due giudici diversi davanti ai quali promuovere una azione: il giudice ordinario e il giudice amministrativo (già descritti in precedenza). L’atto va impugnato davanti al giudice ordinario se il privato è convinto di aver subito una lesione di un proprio diritto soggettivo. Invece, l’atto va impugnato davanti al giudice amministrativo se il privato è convinto di aver subito una lesione di un proprio interesse legittimo (su questa distinzione, v. dopo). Nel dubbio, decide la Corte di cassazione a sezioni unite chi ha giurisdizione. In alcune materie in cui è problematico distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi (si pensi, ad esempio, ai servizi pubblici), l’ordinamento contempla la giurisdizione esclusiva del giudice giurisdizione esclusiva del giudice giurisdizione esclusiva del giudice giurisdizione esclusiva del giudice amministrativoamministrativoamministrativoamministrativo, nel senso che la controversia deve sempre essere risolta dal T.a.r. in primo grado e dal Consiglio di Stato in appello.

A questo punto della trattazione è bene sottolineare che la pubblica amministrazione non opera

soltanto attraverso l’esercizio di poteri. Può accadere, infatti, che nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali la pubblica amministrazione ricorra agli istituti e agli strumenti del diritto privato. In questi casi si è soliti parlare di attività consensualeattività consensualeattività consensualeattività consensuale della pubblica amministrazione.

Ricorrendo determinate condizioni la pubblica amministrazione, anziché adottare un atto imperativo e unilaterale, può concludere un accordo accordo accordo accordo con il privato interessato. Una volta concluso tale accordo, il regime applicabile sarà di regola quello definito dalle regole di diritto privato. Così, ad esempio, anziché adottare un provvedimento amministrativo di espropriazione, l’autorità competente può concludere un accordo con il soggetto interessato, il quale potrà beneficiare di un trattamento più favorevole in termini di ristoro economico per la perdita subìta.

Più in generale, le pubbliche amministrazioni ricorrono agli strumenti del diritto privato quando devono acquisire beni o servizi da privati: si pensi, ad esempio, alle pulizie degli uffici o alla ristrutturazione degli immobili, o alla fornitura di strumenti quali computer, materiale di cancelleria, e così via.

In questi frangenti la pubblica amministrazione si avvicina parecchio al privato, quanto a modalità giuridiche di acquisizione di beni o prestazioni: così, se si tratta di ristrutturare l’immobile in cui ha sede una determinata amministrazione, questa stipula un contratto d’appalto con un’impresa privata, che provvederà, dietro compenso, ad effettuare i lavori richiesti.

Tuttavia, e qui emerge con nettezza la specificità dell’attività negoziale di diritto privato della pubblica amministrazione, mentre un privato è libero di scegliere la controparte contrattuale, per gli enti pubblici non è così. In effetti, le amministrazioni pubbliche operano per il soddisfacimento di interessi generali e, in quanto tali, sono soggette al rispetto della legge. Si è detto prima che le

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amministrazioni non godono mai di libertà, ma semmai di autonomia e discrezionalità. Inoltre, le amministrazioni pubbliche sostengono i costi derivanti dalla conclusione di contratti di diritto privato attingendo a risorse pubbliche, costituite principalmente dalle entrate tributarie (i cd. “soldi del contribuente”). Tutto ciò impone una particolare cautela nella individuazione della controparte contrattuale, per evitare scelte inefficienti, diseconomiche e, soprattutto, parziali.

Non è superfluo rammentare i numerosi vantaggi che una impresa privata acquisisce, in termini economici, quando “vince un appalto” con la pubblica amministrazione. In altri termini, per una impresa privata è estremamente proficuo stipulare un contratto d’appalto con lo Stato o con altri enti pubblici: per la mole di lavoro, per il guadagno, per le possibilità di ritoccare in corso d’opera il prezzo del lavoro svolto o del servizio erogato. M al’amministrazione pubblica, come si è visto, deve essere imparziale, e deve quindi evitare favoritismi a favore di alcuni soggetti imprenditoriali a danno di altri.

A ciò si aggiunga che il diritto dell’Unione europea si è dimostrato molto sensibile al tema dal momento che uno dei suoi pilastri è la libera concorrenzalibera concorrenzalibera concorrenzalibera concorrenza. I legislatori nazionali devono, quindi, disciplinare l’attività di diritto privato delle pubbliche amministrazioni in modo tale da favorire la competizione tra tutte le imprese, anche di altri paesi dell’Unione europea, che avrebbero interesse e chances di vincere un appalto con una pubblica amministrazione.

Per realizzare questo obiettivo, la normativa comunitaria e quella italiano hanno eretto a regola la cd. evidenza pubblicaevidenza pubblicaevidenza pubblicaevidenza pubblica. Nella individuazione del contraente le pubbliche amministrazioni devono attivare una procedura concorsualeprocedura concorsualeprocedura concorsualeprocedura concorsuale finalizzata alla scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa: una gara pubblica o una licitazione privata. Ciò che conta è che si svolga una sorta di asta grazie alla quale le imprese concorrenti hanno la possibilità di fare la loro offerta, in segreto, in vista della pubblica selezione del vincitore. Soltanto per i contratti che, dal punto di vista economico, non superano una certa soglia in euro, l’amministrazione può, con trattativa privata, scegliere l’altro contraente senza indire una competizione pubblica.

Una volta individuato il contraente, la pubblica amministrazione stipula il contratto e ad esso si applicheranno le norme del diritto privato.

Questa succinta ricostruzione dell’attività di diritto privato della pubblica amministrazione è la premessa per passare all’argomento successivo, di grandissima rilevanza nell’ambito della costituzione economica: i servizi pubblici.

I servizi pubbliciI servizi pubbliciI servizi pubbliciI servizi pubblici Si parla correntemente di fallimenti del mercatofallimenti del mercatofallimenti del mercatofallimenti del mercato in due casi: - quando la libertà di mercato conduce alla creazione di monopoli o, comunque, di cartelli discorsivi della concorrenza, con conseguente aumento dei prezzi e minore attenzione verso la qualità dei prodotti; - quando le imprese, che coltivano per definizione l’ambizione a massimizzare il profitto (dunque, a rendere più ampio possibile il divario tra ricavi e costi) non hanno interesse a produrre determinati beni o a erogare determinati servizi, trattandosi di prodotti o prestazioni immessi nel sistema economico a prezzi ampiamente inferiori a quelli derivanti dall’incontro tra domanda e offerta. In questi casi il mercato fallisce in quanto non riesce a garantire la condizione di equilibrio ottimale tra domanda e offerta. E fallisce in quanto si tratta di beni e servizi ritenuti meritevoli di acquisizione generalizzata da parte dei consumatori e degli utenti. L’accesso universale a tali beni e servizi esige che il prezzo del bene o la tariffa del servizio siano così bassi da consentirne l’acquisizione anche agli individui che versano in condizioni di svantaggio economico. Perché è così importante garantire l’accesso a tali beni e servizi da parte dei ceti più deboli della società ? Dal punto di vista giuridico la risposta è molto semplice: è la Costituzione ad imporlo.

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La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2). Tutti sono eguali davanti alla legge (art. 3, primo comma). Le istituzioni sono tenute a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla vita comunitaria (art. 3, secondo comma). Non basta l’astratto riconoscimento dei diritti fondamentali a tutti: è necessario creare le condizioni per renderne effettivo l’esercizio. Perché ciò accada è indispensabile acquisire determinati beni o servizi. Così, per rendere effettivo l’esercizio della libertà di circolazione è necessario garantire i trasporti. Per rendere effettivo l’esercizio della libertà di domicilio è necessario garantire l’accesso di tutti ad una abitazione. Per rendere effettivo l’esercizio del diritto allo studio o il diritto alla salute è indispensabile ricorrere a percorsi formativi o a percorsi terapeutici gestiti da insegnanti o da medici. E gli esempi potrebbero essere ancora tanti. Tuttavia, l’imprenditore privato, vigendo le ferree regole di mercato, non avrebbe alcun interesse a erogare un servizio di trasporto a tariffe decisamente inferiori a quelle che sarebbero secondo le dinamiche competitive del mercato, specie se si tratta di collegare piccoli centri montani o comunque assai distanti dai principali centri urbani. Così, il mercato immobiliare garantisce la possibilità di affittare un appartamento, ma il canone di locazione di mercato non è accessibile a chi vive in condizioni di indigenza. Quale imprenditore sensato deciderebbe di erogare il servizio scolastico sapendo che ai ceti più indigenti la Costituzione impone di fornirlo gratuitamente ? E lo stesso vale per il servizio sanitario. Pertanto, in uno Stato sociale di diritto come il nostro, basato sui princìpi costituzionali dapprima evocati, le istituzioni sono giuridicamente obbligate a prendersi carico dei problemi di allocazione e distribuzione di beni e servizi associati ai fallimenti del mercato. Posto che tali prodotti e prestazioni sono correlati all’effettivo esercizio dei diritti fondamentali (il che li rende meritevoli di acquisizione universale), allora a ciò provvedono le pubbliche istituzioni tramite i servizi pubbliciservizi pubbliciservizi pubbliciservizi pubblici. Le amministrazioni si occupano, dunque, di funzionifunzionifunzionifunzioni e di servizi servizi servizi servizi pubblici. In relazione alle prime, ciò che rileva è la manifestazione di volontà culminante in un atto connesso alla tutela di un interesse generale. In relazione ai secondi, ciò che rileva è lo svolgimento di attività tese alla fornitura di prodotti o di prestazioni.

Il rilascio di una autorizzazione, di una concessione, di un certificato o lo svolgimento di un’attività di controllo magari culminante in una sanzione sono tutte espressioni di una funzione pubblica. I trasporti, le telecomunicazioni, il gas, l’acqua, l’energia elettrica, sono esemplificazioni di servizi pubblici.

Ora, secondo la concezione soggettivasoggettivasoggettivasoggettiva «costituiscono servizio pubblico le attività rivolte a produrre utilità per la comunità, quando il loro stesso svolgimento e le relative modalità sono determinati dalle decisioni regolative delle istituzioni pubbliche e non dalla spontanea azione e dalle spontanee convenienze del mercato» (G. FALCON, Lezioni di diritto amministrativo. I) L’attività, II ed., Cedam, Padova, 2009, 191). Questa definizione pone l’accento sul soggetto pubblico che provvede. Secondo, invece, la concezione oggettivaoggettivaoggettivaoggettiva, è servizio pubblico ogni attività volta a soddisfare esigenze essenziali della comunità, indipendentemente dal soggetto protagonista di tale attività. Atteso che queste due concezioni possono considerarsi, volendo, due facce della stessa medaglia, ciò che interesse di più in questa sede è la descrizione delle modalità di gestione modalità di gestione modalità di gestione modalità di gestione dei servizi pubblici. Le correnti modalità di gestione si collocano tra due estremi: - la gestione direttagestione direttagestione direttagestione diretta da parte della stessa pubblica amministrazione (cd. gestione in house); - la gestione privatagestione privatagestione privatagestione privata, ossia direttamente da parte di imprese private. Tra questi due estremi, si hanno diverse modalità di gestione: - per i servizi elementari si confida sull’ordinaria organizzazione amministrativa e si parla di gestione in economiagestione in economiagestione in economiagestione in economia; - per i servizi più complessi si adottano diverse formule organizzative:

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* per i servizi che richiedono una organizzazione imprenditoriale dominante in passato si ricorreva alla azienda speazienda speazienda speazienda specialecialecialeciale, ossia una struttura dedicata, incardinata presso una determinata pubblica amministrazione. Oggi si predilige la gestione attraverso una società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalesocietà per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalesocietà per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalesocietà per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totale; * oggi, però, si predilige la gestione mediante affidamento del servizio ad un soggetto esterno alla pubblica amministrazione, che viene scelto tramite gara pubblica. Lo strumento a tal fine adoperato è quello della concessione di pubblico servizioconcessione di pubblico servizioconcessione di pubblico servizioconcessione di pubblico servizio. In epoca più recente, alla concessione è subentrato l’affidamentoaffidamentoaffidamentoaffidamento, al fine di ridimensionare la connotazione pubblicistica propria della concessione a vantaggio della sua configurazione contrattuale (dal diritto pubblico al diritto privato); * in ambito locale esiste anche l’istituzioneistituzioneistituzioneistituzione, quale organismo strumentale dell’ente locale per l’erogazione di servizi sociali, ossia privi di carattere imprenditoriale; * altri servizi, particolarmente complessi in quanto s’intrecciano atti e prestazioni, si ricorre a formule organizzative diversificate: si pensi ai servizi di istruzione (le scuole, le università), o ai servizi sanitari (le aziende ospedaliere, le aziende sanitarie locali).

Ricapitolando. La gestione dei servizi pubblici può aver luogo: a) a mezzo di terziterziterziterzi tramite concessione (oggi affidamento). Il concessionario di pubblico servizio svolge l’attività economica sulla base di un contratto stipulato con l’amministrazione e trae la propria remunerazione dalle tariffe pagate dagli utenti. Se i ricavi non sono sufficienti, allora ha luogo una compensazione attraverso finanziamenti erogati dall’amministrazione concedente. La scelta del concessionario deve avvenire tramite gara, informata a princìpi di trasparenza e imparzialità; b) tramite l’in house providingin house providingin house providingin house providing. La gestione del servizio è devoluta ad una organizzazione appartenente all’ente che ne è responsabile. Visto che tale modello entra in tensione con il principio della concorrenza, la vigente normativa esige che sussistano le condizioni che permettano di considerare la struttura esterna come facente parte dell’organizzazione dell’ente pubblico, in una posizione non dissimile da quella degli ordinari organi e uffici in cui si articola quell’ente (si pensi, ad esempio, ad una società per azioni a totale partecipazione comunale).

Secondo la relativa direttiva comunitaria ricorre questo modello gestionale quando risultano soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi; b) oltre l’80 % delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore di cui trattasi; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione di capitali privati diretti, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

c) tramite società mistesocietà mistesocietà mistesocietà miste. Se l’impresa è esercitata da una società commerciale a capitale pubblico e privato, è mista la società in cui è socio l’ente pubblico che ha la responsabilità del servizio (→ partenariato pubblico-privato). Ora, per un adeguato e ricco approfondimento del tema dei servizi pubblici si rinvia al commento redatto da A. Lucarelli, in merito all’art. 43 Cost., non prima di aver ricordato che secondo questa disposizione «a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». A. LUCARELLI, Commento all’art. 43, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 883 ss.

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2. Commento 2.1 I principali orientamenti della dottrina

In dottrina, il primo nodo che emerse dall’interpretazione ed attuazione dell’art. 43 Cost., si pose in merito alla contrapposizione tra concezione oggettiva e concezione soggettiva del servizio pubblico.

Tale dualismo, apparentemente di portata solo teorica, in realtà, riguardava il modello di Costituzione economica ed in particolare la natura e la funzione della categoria dei servizi pubblici. Una parte della dottrina sosteneva l’esistenza di una categoria di servizi pubblici tanto ampia da comprendere accanto alle attività economiche assunte e gestite da soggetti pubblici, anche altre attività (economiche) private rientranti nei programmi di settore. Altro orientamento dottrinario costruiva una tesi restrittiva della categoria di servizio pubblico, sostenendo la natura pubblica soltanto per i servizi assunti direttamente dalla pubblica amministrazione, evidenziando come la gestione dei servizi pubblici essenziali, non solo potesse restare nelle «mani» private, ma addirittura potesse essere da loro meglio gestita. Si osservava come i privati potessero essere assoggettati, in merito al servizio prestato, ad una disciplina non diversa da quella prevista per l’attività economica pubblica di cui all’art. 41 Cost.

Il dibattito dottrinario si concentrava, dunque, in prevalenza sul ruolo dello Stato nelle attività economico-produttive e sul rapporto intercorrente tra impresa pubblica e impresa privata. Irrilevante rimaneva la posizione relativa ai diritti degli utenti.

Per Pototschnig, con una visione lungimirante, la riserva in favore dello Stato ed il monopolio pubblico di servizi essenziali sarebbero stati costituzionalmente legittimi, per fini di utilità generale, soltanto nei casi in cui si fosse dimostrata infruttuosa l’esperienza di una gestione sostenuta dalla libera iniziativa degli operatori privati. In coerenza con le scelte di fondo della Costituzione economica, andava ricercato un punto di equilibrio tra ruolo «attivo» dello Stato e riconoscimento e garanzia delle attività economiche dei privati. In questo senso, l’azione dello Stato avrebbe assunto una portata sussidiaria rispetto alla iniziativa dei privati. La valenza originaria della disposizione, in una logica di politica economica dirigista, consisteva nel porre limiti all’intervento autoritativo dello Stato nell’economia, ma contestualmente a legittimare poteri di intervento.

Interpretazioni differenti tendevano a valorizzare il ruolo dello Stato, sottolineando gli aspetti garantisti ed interventisti della disposizione. La nozione di utilità generale avrebbe determinato garanzie per il privato e per il pubblico. Secondo tale orientamento, l’utilità generale, che legittimava, nella sua idea originaria, interventi eccezionali ed il ricorso a strumenti autoritativi, quali la sostituzione della «mano pubblica» ai privati imprenditori, non coincideva unicamente con l’interesse economico della collettività, teso ad evitare la costituzione di monopoli privati, ma si allargava anche alla protezione di interessi diversi. In sostanza, l’utilità generale si identificava con la protezione diretta dei principi generali enunciati nell’art. 3, 2° co., Cost., nella presa d’atto che il pubblico potere dovesse rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale all’eguaglianza e comunque assicurare che certi bisogni della popolazione fossero soddisfatti. La titolarità pubblica dei servizi, in settori protetti, nasceva dal dovere-potere di fornire a tutti i cittadini le prestazioni ritenute necessarie per soddisfare, ad eguali condizioni, bisogni a corrispettivi moderati. In ogni caso, affinché la presenza dei servizi pubblici si potesse estendere legittimamente in un nuovo settore, era necessaria una legge a giustificarla. Nell’ambito del rapporto pubblico-privato, parte della dottrina conferiva, dal punto di vista politico-economico, all’art. 43 Cost. una forza riformatrice, in linea con lo schema europeo occidentale del dopoguerra ed in omogeneità con le altri componenti del sistema.

Come vedremo nei paragrafi successivi, in particolare nel paragrafo relativo alla «europeizzazione» dei servizi pubblici, si verifica dall’inizio degli anni novanta un totale ripensamento delle costruzioni teoriche. L’applicabilità dell’art. 43 Cost., in particolare per quanto attiene all’adozione di riserve pubbliche nella titolarità e gestione dei servizi pubblici, viene misurata in relazione al rispetto della regola comunitaria della concorrenza. Le teorie soggettive ed oggettive dei servizi pubblici perdono di attualità, così come non è più rilevante se il servizio sia prestato da un soggetto pubblico o privato. Le teorie aventi ad oggetto la trasformazione dei servizi pubblici si snodano nell’ambito di rapporti di natura orizzontale che coinvolgono i poteri pubblici, nella qualità di soggetti regolatori, il mercato, luogo dove si svolge in regime di concorrenza l’attività dei privati, e gli utenti, quali soggetti operanti in condizione di potere di mercato o contrattuale orientati naturalmente al perseguimento dello scopo di lucro. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale, i

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nuovi assetti istituzionali e socio-economici non consentono più all’interprete di ragionare con vecchie categorie, l’approccio dogmatico-formalista va appunto ad essere sostituito da una dimensione nuova che si sofferma in particolare sulla riduzione dei prezzi e sull’aumento della qualità.

2.2 Le applicazioni della norma costituzionale

In premessa, va detto che già in epoca pre-costituzionale, sussisteva il monopolio pubblico delle comunicazioni, regolato dal codice postale del 1936. Successivamente, i servizi postali e di comunicazione venivano sottoposti, dal d.p.r. 156/1973, a riserva originaria ai sensi dell’art. 43 Cost. Il codice del 1973 ribadiva che i servizi postali, telegrafici e di telecomunicazioni dovessero essere riservati allo Stato ed essere esercitati soltanto dall’amministrazione o mediante concessione.

Nell’ambito delle dinamiche socio-economiche sviluppatesi nel nostro Paese, va detto che l’art. 43 Cost., seppur in settori strategici dell’economia, è stato poco utilizzato. I casi più noti di applicazione della norma sono la introduzione della riserva per la ricerca e la coltivazione dei giacimenti di idrocarburi nella pianura padana a favore dell’Eni, disposta con la l. 136/1953 e la nazionalizzazione della energia elettrica, disposta con la l. 1643/1962, con la quale si nazionalizzava tutto il settore, dalla produzione alla distribuzione della energia elettrica, espropriando le imprese relative e trasferendole all’Enel, un ente appositamente costituito.

Con l’istituzione dell’Eni si intendeva promuovere ed attuare iniziative di interesse nazionale nel campo degli idrocarburi e dei vapori naturali. L’ente nasce come ente autonomo di gestione, titolare di una serie di società caposettore, dalle quali dipendono le società operative. Esso veniva successivamente sottoposto con l. 1589/1956 al potere di vigilanza e direzione delle partecipazioni statali. Successivamente, attraverso una serie di interventi normativi, si istituiva una riserva in suo favore, da esercitare attraverso società controllate a capitale integralmente pubblico, della ricerca e coltivazione di idrocarburi in determinate zone del territorio nazionale, comprese le piattaforme marine e dello stoccaggio sotterraneo nei relativi giacimenti. La distribuzione del gas naturale continuava ad essere assoggettata alla disciplina generale dei servizi pubblici locali, in quanto la riserva non determinava una espropriazione di imprese private, rimanendo limitata alla fonte di energia.

Con la nazionalizzazione dell’energia elettrica si procedeva alla espropriazione delle imprese operanti nel settore, ad eccezione delle aziende municipalizzate e delle imprese autoproduttrici. All’Enel, ente pubblico economico, al quale veniva attribuita una capacità generale di diritto privato, sottoposto tuttavia ad una direzione ed un controllo diretto del governo, veniva riconosciuta la riserva dell’attività di produzione, importazione, esportazione, trasporto e distribuzione24. Come affermato esplicitamente nell’art. 1, 3° co., l. 1643/1962 «ai fini di utilità generale l’ente nazionale provvederà alla utilizzazione coordinata e al potenziamento degli impianti allo scopo di assicurare con minimi costi di gestione una disponibilità di energia elettrica adeguata per quantità e prezzo alle esigenze d’un equilibrato sviluppo economico del paese».

Altro settore al quale veniva applicato l’art. 43 Cost. era quello radiotelevisivo. In merito al monopolio pubblico del settore radiotelevisivo determinato, sulla base degli artt. 21, 33, 41 e 43 Cost., dagli artt. 1 e 168, n. 5, Codice PT approvato con r.d. del 27 febbraio 1936 (come modificati dal d.p.r. n. 156 del 29 marzo 1973 «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni») si sosteneva che data la limitazione di fatto dei canali disponibili, la televisione si caratterizzasse come attività predestinata quanto meno all’oligopolio. Dalla limitatezza dei canali, e quindi dal pericolo del formarsi di oligopoli privati, si desumeva il riconoscimento della esistenza di ragioni di utilità generale idonee a giustificare l’avocazione in esclusiva, ai sensi dell’art. 43 Cost., di tali servizi allo Stato. In sostanza, in un siffatto scenario economico, caratterizzato dalla scarsezza delle risorse e dei mezzi tecnologici, lo Stato avrebbe garantito più favorevoli condizioni di obiettività, imparzialità, completezza e continuità in tutto il territorio nazionale. Questo orientamento, come si vedrà nella parte relativa alla giurisprudenza, successivamente muterà, ritenendosi legittima la riserva allo Stato del servizio radiotelevisivo soltanto in specifici casi.

2.3 La legislazione nazionale di riferimento

Con la Costituzione del 1947, ed in particolare sulla base dell’art. 43 Cost., veniva istituito nel 1953 l’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi, per la gestione, in regime di esclusiva, della ricerca e della coltivazione dei giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi. Con la l. 1589/1956 si istituiva il Ministero per le partecipazioni statali. Il numero degli enti di gestione si ampliava con l’istituzione dell’Enel e della Efim nel 1962. La nazionalizzazione dell’energia elettrica costituiva l’unico esempio di attuazione della riserva originaria ex art. 43 Cost. In dottrina, si è parlato più che di nazionalizzazione, di pubblicizzazione, con il trasferimento delle

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imprese elettriche dai privati ad un ente pubblico appositamente costituito, in favore del quale veniva disposta la riserva originaria, precludendo alle società espropriate l’esercizio dell’impresa elettrica.

Successivamente, l’art. 43 Cost., in merito alla nozione di servizi pubblici, trovava un equivalente nell’espressione comunitaria «imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico-generale», di cui all’art. 86 TCE, che sottoponeva anche tali imprese alla regola della concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non fosse ostativa all’adempimento della specifica missione loro affidata. La disposizione comunitaria trovava recepimento nell’art. 8 della l. 287/1990, in base al quale la regola della concorrenza si estendeva anche alle imprese pubbliche titolari della gestione di servizi di interesse economico-generale. Tale regola trovava dunque un fondamento giuridico diretto nell’ordinamento italiano, con il limite delle eccezioni previste in ambito comunitario. Sulla compatibilità dell’art. 43 Cost. con l’evoluzione normativa statale e comunitaria ed interna in tema di concorrenza, si esprimeva, seppur non in via diretta, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato con segnalazione del 28 ottobre 1998: «Misure di revisione e sostituzione di concessioni amministrative». L’Authority sottolineava, in particolare, come l’istituto della concessione avesse favorito la riserva di impresa a pubblici poteri, fondata sull’art. 43 Cost. Tale istituto, dal quale sarebbero derivate due rilevanti distorsioni della concorrenza, quali la restrizione discrezionale dell’accesso al mercato come regola e la posizione privilegiata delle imprese concessionarie, secondo l’Authority, dovrebbe gradualmente scomparire a seguito degli interventi comunitari e nazionali di liberalizzazione dei mercati. Successivamente, per favorire lo sviluppo della concorrenza all’interno di un mercato regolato, il legislatore, oltre all’istituzione dell’antitrust, ha previsto apposite autorità di settore, contemplate dall’art. 1, l. 474/1994. Su questa base, la l. 481/1995 ha dettato norme generali sui servizi pubblici e sui poteri attributi alle autorità, disciplinando immediatamente l’Autorità per l’energia elettrica e il gas. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni veniva istituita successivamente con la l. 249/1997. Tuttavia, come osservato in dottrina, oggetto della regolazione non era soltanto la introduzione della regola della concorrenza e dei principi di un mercato libero, ma anche la definizione di regole di comportamento destinate alle imprese erogatrici per il conseguimento dell’interesse della collettività. In estrema sintesi l’obiettivo era quello di migliorare il rapporto tra servizi pubblici e diritti degli utenti. Nel triennio 1997-2000, tutte le discipline di settore venivano radicalmente riformate, l’istituto societario si poneva quale unico modello di gestione, anche nei servizi pubblici locali, ed il regime della riserva di cui all’art. 43 Cost., risultava ormai superato, oltre che inapplicabile. In merito agli interventi settoriali più significativi avutisi con l’avvio del processo di liberalizzazione, tesi ad eliminare situazioni di monopolio e di riserve si segnalano: il d.lg. 261/1999 relativo ai servizi postali; il d.lg. 79/1999 relativo al mercato elettrico che liberalizza il settore, ad eccezione delle attività di trasmissione, volte all’utilizzazione e all’esercizio degli impianti di produzione e di trasmissione per i quali sussistono condizioni di monopolio naturale, assoggettate a riserva ed affidate in concessione; il d.p.r. 146/1999 relativo al sistema ferroviario; il d.lg. 164/2000 relativo alla liberalizzazione nel settore del gas.

In conclusione, settori economici storicamente protetti sono ormai liberalizzati ed importanti pacchetti azionari sono posti sul mercato. L’art. 43 Cost. perde di effettività, ad eccezione dei c.d. monopoli naturali. Tuttavia i venti delle privatizzazioni e della liberalizzazione del mercato, al passaggio del nuovo secolo, sembrano perdere di intensità. Alcuni segmenti di mercato restano in regime di concessione, l’apertura del mercato dal punto di vista formale non porta ad una concorrenza effettiva. In questo scenario incerto e confuso, il presidente dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, nella sua relazione annuale (2004), ha chiaramente affermato che le nostre utilities, facendo in particolare riferimento all’Eni ed all’Enel, sono nella sostanza monopoli privati, che hanno posto in essere comportamenti censurati come abusi di posizione dominante. L’Antitrust ha dovuto ammettere prezzi troppo alti in bolletta, concorrenza inesistente, collusioni, conflitti di interesse, evidenziando come una posizione nazionale dominante non garantisce alcuna capacità di concorrere a livello internazionale.

Secondo parte della dottrina e anche secondo l’Antitrust, la soluzione sarebbe quella di accelerare sulla strada delle liberalizzazioni, secondo altri sarebbe opportuno mettere un freno. Tuttavia, va detto che la stessa Antitrust ha sostenuto la necessità che le reti dei servizi, su cui viaggiano la corrente, il gas, i telefoni, i treni, fossero mantenute in mano pubblica.

Infine occorre ricordare che con l’art. 4 della l. 350/2003 (finanziaria 2004), si conferma l’istituto della golden share, adeguandolo semplicemente alla giurisprudenza comunitaria, bloccando di fatto la dismissione delle imprese pubbliche. In questa fase di ripensamento dell’applicazione della regola della concorrenza alle public utilities, nella quale si tende a riaffermare i privilegi dei poteri pubblici nell’economia, si leggono alcuni interventi legislativi che stanno determinando una erosione dei poteri delle autorità di regolazione,

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minacciandone la loro indipendenza. Si fa riferimento alla l. 66/2001, al d.l. 193/2002, convertito con l. 238/2002, al d.lg. 259/2003.

2.4 Principali orientamenti della giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza costituzionale degli anni sessanta si caratterizzava nel legittimare la nazionalizzazione dell’energia elettrica e più in generale le riserve ed i monopoli in favore dello Stato.

La Corte legittimava il monopolio pubblico nel settore radiotelevisivo, sostenendo che data la limitatezza di fatto dei canali disponibili, si trattasse di un’attività predestinata in regime di libero mercato a divenire ostaggio di oligopoli privati e dichiarava la legittimità costituzionale della nazionalizzazione dell’energia elettrica, ai sensi dell’art. 43 Cost. Nella sentenza, tuttavia, la Corte evidenziava che la legge di riserva non potesse predisporre mezzi inidonei o contrastanti con lo scopo che il servizio doveva perseguire. In tal senso, si limitava la discrezionalità del legislatore, riconducendo la sua azione nell’ambito dei principi e degli scopi fissati dall’art. 43 Cost.; sostenendo la necessità che la legge relativa al trasferimento o alla riserva di determinate imprese alla mano pubblica definisse il modello organizzativo necessario per rendere la nuova gestione rispondente ai fini di utilità generale.

Nel 1974, sempre in merito al settore radiotelevisivo, la Corte costituzionale, in due pronunzie, mutava il precedente orientamento, ponendo le basi per i successivi processi di liberalizzazione. In particolare, nella prima delle due sentenze si affermava che il monopolio statale nel settore radiotelevisivo potesse ritenersi legittimo soltanto se il suo esercizio fosse disciplinato in modo da garantire, da un lato la obiettività e la completezza della informazione, dall’altro il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici. Con la seconda sentenza si liberalizzavano le trasmissioni televisive via cavo a carattere locale.

Infine, la Corte costituzionale liberalizzava definitivamente l’attività radiotelevisiva privata limitatamente all’ambito locale, nella considerazione che l’aumento della disponibilità di frequenze ed i costi meno elevati, avrebbero evitato il rischio della formazione di oligopoli privati.

Il processo di liberalizzazione nei settori protetti procedeva negli anni ottanta, attraverso la giurisprudenza della Corte, con significative pronunzie. Nel 1988 si disponeva l’illegittimità della esenzione dell’Amministrazione delle Poste e delle Telecomunicazioni da responsabilità per danni verso l’utente, per contrasto con gli artt. 3 e 43 Cost., riducendo così le prerogative ed i «privilegi» dell’impresa pubblica. Tale esenzione, in precedenza giustificata da una concezione puramente amministrativa del servizio postale, risultava in contrasto con l’evoluta interpretazione dell’art. 43 Cost. che, secondo la Corte, istituendo uno stretto collegamento tra la nozione di servizio pubblico essenziale e nozione di impresa, imponeva la conformazione dei rapporti con gli utenti come rapporti contrattuali, fondamentalmente soggetti al diritto privato.

Sulla medesima linea, si dichiarava incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 6 del d.p.r. 156/1973, nella parte in cui disponeva che il concessionario del servizio telefonico non fosse tenuto al risarcimento dei danni per l’interruzione dovuta a sua colpa. È un’altra sentenza che tende ad interpretare i rapporti tra P.A. e privati in senso orizzontale, riducendo la portata dei poteri speciali della P.A., inducendo ad un ripensamento del classico modello di Etat Administratif.

In relazione all’art. 41 Cost., ma con una diretta ed immediata relazione con l’art. 43 Cost., si colloca la sentenza del 1991, nella quale si affermava che la regola della concorrenza fosse riconducibile ai principi costituzionali.

I privilegi del servizio pubblico, in particolare per quanto attiene alle relazioni con gli utenti, si riducono ulteriormente con l’intervento della Corte del 1994, che disponeva l’illegittimità, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 6 del d.p.r. 156/1973, nella parte in cui si escludeva, mediante il richiamo dell’art. 25 del d.m. del 1930, la responsabilità del concessionario del servizio telefonico in caso di omessa o erronea indicazione dell’utente nell’elenco degli abbonati. La Corte, confermando il precedente orientamento, affermava che il concessionario di un servizio pubblico potesse essere assoggettato a disciplina speciale soltanto nel caso in cui non si alterasse l’equilibrato componimento degli interessi nel rapporto di utenza.

Nel 1997 la Consulta confermava l’illegittimità dell’art. 6 del d.p.r. 156/1973, per violazione dell’art. 3, 1° co. Cost., nella parte in cui disponeva che l’amministrazione non fosse tenuta al risarcimento dei danni in caso di colpevole ritardo nella rinnovazione di assegno postale, smarrito, distrutto o sottratto.

Infine, alla regola della concorrenza, con sentenza della Corte del 2004, veniva attribuito rango costituzionale; allo Stato, in tema di regime delle competenze, era assegnata la funzione legislativa esclusiva in materia di servizi pubblici locali, ritenendola «trasversale» in merito agli aspetti della concorrenza. Significativo è che i servizi pubblici locali, classificati di rilevanza economica, trovino fondamento nella norma che tutela la

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concorrenza ed in senso più ampio nel mercato concorrenziale, piuttosto che nell’art. 43 Cost., che fisiologicamente è la norma che si occupa dei servizi pubblici.

Si tratta di un processo di liberalizzazione che oramai, al di là del diritto comunitario, ha una sua base normativa nella l. 481/1995, che detta norme generali sulla disciplina dei servizi pubblici e sui poteri attribuiti all’autorità. La legge mira a promuovere nei servizi pubblici essenziali la concorrenza e la efficienza, a garantire adeguati livelli di qualità dei sevizi in condizioni di economicità, redditività, ad assicurare la loro diffusione e fruizione in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale.

In conclusione, la giurisprudenza della Corte sembra recepire i mutamenti che in Europa, per effetto delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, indotte dal diritto comunitario, dall’inizio degli anni novanta, hanno completamente modificato la disciplina dei servizi pubblici40. Il modello sembrerebbe, adesso, ruotare intorno alle autorità di regolazione, pubblici poteri indipendenti dal governo, espressione di una attività di regolamentazione e controllo, tale da assicurare, anche nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, l’introduzione ed il funzionamento della concorrenza, insieme al soddisfacimento dell’interesse degli utenti. …

3.2 Il quadro sovranazionale. L’europeizzazione dei servizi pubblici: disciplina, limiti ed eccezioni

3.2.1 La prima fase: regola della concorrenza, servizi pubblici e disapplicazione dell’art. 43 Cost. Il diritto comunitario, durante la fase della costruzione europea, ha praticamente ignorato la categoria

dei servizi pubblici. Soltanto l’art. 77 TCE, con la politica comune dei trasporti e l’art. 86 TCE, con la nozione «servizi di interesse economico-generale», facevano riferimento, seppur sommariamente, ad essi. Lo scopo originario del Trattato, come è noto, non era la regolamentazione dei servizi pubblici, nell’ambito di una economia di mercato libera, fondata sulla regola della concorrenza, ma quello di eliminare progressivamente le barriere nazionali alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi. La stessa Comunità acquisiva i principi dell’economia concorrenziale in un secondo momento, attraverso un percorso lungo e accidentato. In una prima fase, l’azione comunitaria si caratterizzava per neutralità in ordine alla proprietà delle imprese economiche, al riconoscimento di diritti esclusivi in favore delle imprese pubbliche, all’ammissione di politiche dirigiste e protezioniste refrattarie al ricorso della regola della concorrenza.

Soltanto in un secondo momento, tra i principali obiettivi comunitari, si individuava la regola della concorrenza. L’obiettivo diveniva la costruzione di una definizione ampia di impresa, al fine di sottoporre ogni attività economica alle regole del diritto comunitario della concorrenza.

3.2.2 La seconda fase: l’Atto Unico europeo, le problematiche connesse all’armonizzazione del quadro giuridico e le deroghe alla regola della concorrenza

La contrapposizione tra il mercato libero e il modello stato-centrico di gestione e funzionamento dei servizi pubblici si accentuava con l’adozione dell’Atto unico europeo, che si proponeva, tra l’altro, di realizzare un mercato unico attraverso l’armonizzazione del quadro giuridico in tutti i campi in cui la diversità delle regole giuridiche ponesse ostacoli. I differenti modelli economico-istituzionali e le divergenti interpretazioni della nozione di servizio pubblico indussero, dagli anni novanta, il diritto comunitario a riconoscere che le funzioni dei servizi pubblici potessero giustificare l’applicazione di regole particolari, in deroga alla regola della concorrenza, garantendo un livello specifico di servizio. Occorreva uscire da dogmatismi concettuali e da imbalsamate nozioni giuridiche, al fine di rapportare, di volta in volta, in relazione a specifiche fattispecie, lo studio sui servizi pubblici più in una ottica di tutela dei diritti (diritti dell’impresa, diritti degli utenti), che in un’ottica organizzativo-funzionale.

Il processo evolutivo, pragmatico e garantista, si concretizzava attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia, sulla base di una innovativa, seppur formale, interpretazione dell’art. 86, 2° co., TCE, secondo la quale, a certe condizioni, la regola della concorrenza non sarebbe risultata applicabile.

3.2.3 La terza fase: il Trattato di Amsterdam, la peculiarità dei «servizi di interesse economico-generale» e la parziale rivalutazione dell’art. 43 Cost.

Come è noto, il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 a seguito del Consiglio di Europa del 16 e 17 giugno 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999, ha introdotto l’art. 16 TCE (ex art. 7 TUE) che

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riconosce l’importanza dei servizi di interesse economico-generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione europea e stabilisce che la Comunità e gli Stati membri devono provvedere affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i relativi compiti. L’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam ha segnato un cambiamento politico ed economico in favore del settore pubblico; con l’art. 16 TCE è possibile infatti parlare di riequilibrio del modello economico europeo, quanto meno dal punto di vista formale.

In particolare, l’art. 16 TCE prevede che «fatti salvi gli artt. 73, 86, 87, in considerazione della importanza dei servizi di interesse economico-generale nell’ambito dei valori comuni della Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, la Comunità e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione del presente Trattato, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i loro compiti». L’aver inserito l’art. 16 TCE nella prima parte del Trattato, relativo ai principi, dimostra l’importanza che i redattori hanno voluto attribuire a tale disposizione. L’articolo enfatizza la specifica e delicata missione affidata ai servizi di interesse economico-generale, di cui agli artt. 86 e 87 TCE, espressione dei valori comuni dell’Unione e strumenti decisivi per la promozione della coesione sociale e territoriale. In sostanza, la regola della concorrenza, nell’ambito dei servizi di interesse economico-generale, non ha valore assoluto, ma è limitata dal raggiungimento dei fini sociali e dal rispetto dei valori fondanti l’Unione, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, l’elevato livello dell’occupazione e la protezione dell’ambiente, della salute e dei consumatori.

L’art. 16 TCE consentirebbe una rilettura dell’art. 43 Cost., tesa ad un’interpretazione del ruolo dello Stato che non solo possa determinare la sostanza e le caratteristiche di qualità e quantità della regolamentazione o del sostegno economico al servizio stesso, ma possa altresì procurare, in presenza di certe condizioni, il servizio con i suoi mezzi.

Si configurerebbe uno Stato non soltanto regolatore, ma altresì idoneo a gestire l’attività produttiva, laddove il settore privato non sia in grado di assolvere a funzioni dall’alto impatto sociale. L’obiettivo e la garanzia di raggiungere un livello specifico di servizio consentirebbe allo Stato, impegnato nell’erogazione di servizi pubblici, di derogare alla regola della concorrenza, attribuendo poteri speciali o esclusivi ad una determinata impresa.

Tuttavia, va anche ricordato che la formula utilizzata dalla Corte di Giustizia nella sentenza Sacchi per affermare la legittimità del monopolio, non si ritrova più nella giurisprudenza della Corte negli anni novanta, nella quale si consolida la tesi che l’espropriazione di una impresa costituisca comunque una eccezione alla regola della concorrenza. Al di fuori dell’eccezione, si configura un esercizio abusivo della posizione dominante e dunque una violazione delle norme sulla concorrenza.

L’obiettivo sociale dell’art. 16 TCE rimane quello di soddisfare efficientemente, e ad eguali condizioni, diritti sociali dei cittadini e non quello di ripristinare regole di monopolio pubblico o di riserva di attività economiche in favore dello Stato. Alla dimensione dell’utente destinatario del servizio tende a sostituirsi quella del cittadino titolare di diritti fondamentali (diritti universali di cittadinanza).

Tuttavia, come evidenziato in dottrina, non si può escludere che l’art. 16 TCE possa in futuro influire sulla giurisprudenza della Corte per quel che concerne l’applicazione di regole comunitarie in materia di aiuti di Stato alle imprese pubbliche che esercitano una missione di interesse economico-generale. In particolare, l’eccezione prevista dall’art. 86, 2° co., TCE, potrebbe divenire oggetto di un’interpretazione più ampia, inducendo le imprese pubbliche a far valere le loro specificità in confronto alle imprese private.

Infine, si può ritenere che l’art. 16 TCE possa contribuire a realizzare nell’ambito dell’Unione un sistema di valori politici, culturali e sociali condivisi dagli Stati membri, al fine di limitarne la dimensione economica e mercantile. Il rallentamento dei processi di liberalizzazione delle public utilities a livello comunitario risultano evidenti, tra l’altro, anche dal tenore della normativa comunitaria, che sembrerebbe risentire dei nuovi scenari introdotti dall’art. 16 TCE. In particolare, si fa riferimento ai lunghi termini fissati per l’apertura dei mercati ferroviari, postali e dell’energia dalla dir. 12-14/2001/CE, dir. 39/2002/CE e dir. 54-55/2003/CE.

3.3 Il diritto comunitario ed i servizi di interesse economico-generale

I servizi di interesse economico-generale, esclusi quelli non orientati fisiologicamente al mercato, quali l’educazione e la salute, consentono, a certe condizioni, allo Stato di godere di regole particolari e, quindi, di «sfuggire» alla regola della concorrenza. Si tratta di settori che, secondo quanto ha affermato la Commissione, possono essere individuati in autonomia dagli Stati membri.

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In ogni caso, la rilevanza degli interessi economici generali va intesa quale limite all’applicazione delle regole del mercato comune e della concorrenza. La comunicazione della Commissione europea sui servizi di interesse generale del 20 settembre 2000 ha escluso dall’area occupata dai servizi di interesse generale le attività che non hanno contenuto economico e quelle identificate come servizi sociali, in ordine alle quali spetta agli Stati membri stabilire il tipo di politica ed organizzazione da seguire, nonché la determinazione delle attività non profit. Invece, sono stati qualificati servizi di interesse economico-generale la navigabilità della più importante via d’acqua del Paese (Porto di Mertert), un monopolio sulla pubblicità della televisione (Sacchi), la gestione delle linee aeree non redditizie dal punto di vista commerciale (Ahmed Saeed), la gestione di una rete telefonica pubblica (RTT), la gestione del servizio postale (Corbeau), la distribuzione di elettricità (Comune di Almelo). Va ricordato inoltre che la Commissione aveva già preso posizione sulla funzione e la regolamentazione dei servizi pubblici nel diritto comunitario con la sua comunicazione 433/1996 sui servizi di interesse generale in Europa. Il documento si riferisce soltanto ai servizi di interesse economico-generale, poiché la nozione di servizio pubblico è pressoché sconosciuta al diritto comunitario. Tali servizi dovrebbero operare, secondo la Commissione, come strumenti per garantire la parità di trattamento dei cittadini comunitari e promuovere la solidarietà. Per la prima volta, con la suddetta comunicazione, si pone in ambito comunitario in modo sistematico il problema dell’assunzione della responsabilità dell’individuazione e definizione dell’interesse generale europeo.

Il punto focale attiene alla produzione di beni e servizi, prescindendo dalla natura giuridica del soggetto che la pone in essere e dalle sue finalità. Tutte le attività economiche, in linea di principio, sono sottoposte al regime della concorrenza e pertanto non possono fruire di aiuti pubblici. Il paradigma per qualificare come economica una determinata attività è la sua capacità di incidere sul mercato. Tale regola, interpretata in senso rigido, non può che innescare un processo di privatizzazione delle imprese monopolistiche pubbliche.

Tuttavia, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che sta contribuendo alla creazione di un c.d. diritto sociale europeo, dell’art. 86, 2° co., TCE e dell’art. 16 TCE, occorre elaborare nuove configurazioni dei diritti d’impresa relativi ad attività che gestiscono servizi, ai quali ineriscono esigenze di conseguimento e soddisfazione di interessi pubblici. La comunicazione della Commissione del 20 settembre 2000 sottolinea come il servizio di interesse economico-generale non riguardi una normale attività di impresa, ma attenga a funzioni essenziali finalizzate alla coesione sociale. In sostanza, i servizi di interesse economico-generale, anche se di proprietà e gestione privata, non possono prescindere dall’organizzazione pubblica, che definisce i servizi di interesse economico-generale. Essa opera secondo i principi della proporzionalità e sussidiarietà, sulla base dei quali può derogare alla regola della concorrenza. I pubblici poteri possono intervenire con mezzi appropriati rispetto all’obiettivo e soltanto quando il servizio svolto dal privato si dimostri inidoneo al perseguimento dell’interesse generale.

Sempre al fine di rivalutare la funzione sociale del servizio pubblico, in una dimensione derogatoria dei principi del libero mercato, si è espressa la comunicazione della Commissione del 2001, che al punto 14), ha testualmente affermato che «[...] i servizi di interesse economico-generale si differenziano dai servizi ordinari per il fatto che le autorità pubbliche ritengono che debbano essere garantiti anche quando il mercato non sia sufficientemente incentivato a provvedervi da solo». Il nuovo orientamento comunitario tende dunque a realizzare un equilibrio tra regola della concorrenza e interesse generale da una parte e regimi speciali caratterizzanti i servizi pubblici dall’altra.

La Commissione ricorre al principio di proporzionalità affermando che «[...] le restrizioni sulla concorrenza sono giustificate soltanto per quanto riguarda i servizi che, per loro natura e per le condizioni nelle quali sarebbero offerti in un mercato in regime di concorrenza, comprometterebbero l’equilibrio economico della prestazione di servizi di interesse economico generale o avrebbero in altro modo un impatto su tale prestazione».

La proporzionalità, quale principio generale del diritto comunitario, offre al singolo Stato membro la possibilità di valutare la legittimità di una misura, nazionale o comunitaria, in base al rapporto fra mezzi impiegati e risultato ottenuto. Tale principio, applicato ai servizi di interesse economico-generale, è finalizzato a valutare se una misura restrittiva della regola della concorrenza, ad esempio la normativa che riserva la gestione della rete elettrica ad un solo soggetto, sia necessaria a garantire il servizio pubblico, ponendo le condizioni affinché tutti i cittadini possano ricevere energia elettrica in qualsiasi parte del paese a prezzi ragionevoli ed in modo continuo. Occorre ripensare quelle tesi nelle quali si affermava che il mantenimento della struttura concorrenziale, con i pubblici poteri posti in posizione di indipendenza e neutralità, fosse in grado di assicurare di per sé il perseguimento del pubblico interesse.

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La possibilità per gli Stati membri di invocare l’eccezione prevista dal 2° co. dell’art. 86 TCE sta determinando un’influenza diretta sull’applicazione delle regole di aiuto dello Stato alle imprese pubbliche che svolgono una missione di interesse economico-generale82. Il ricorso a tale eccezione potrà variare da Stato a Stato e comunque dovrà porsi in armonia con il quadro costituzionale. Inoltre, nelle suindicate comunicazioni della Commissione, è fatto salvo agli Stati il potere di individuare missioni di interesse generale (ai sensi dell’art. 86, 2° co., TCE) ulteriori rispetto agli obblighi del servizio universale. Come evidenziato in dottrina, oltre ai servizi oggetto delle direttive di liberalizzazione, che devono essere garantiti ai cittadini europei a prezzi abbordabili e ad eguali condizioni, secondo quanto richiesto dall’obbligo del servizio universale, non si esclude la possibilità di individuare ulteriori obblighi, che possono avere nella maggior parte dei casi contenuto minimo. …

3.5 La nozione di coesione sociale, la regola della concorrenza ed il ruolo dello Stato

La regola della concorrenza, in linea di principio, si applica ai settori strategici dell’economia «liberalizzati» e dalla rilevante funzione pubblica, quali le telecomunicazioni, i trasporti aerei e ferroviari, l’elettricità, il gas, l’acqua, cioè a quegli ambiti economici per anni gestiti ed esercitati in regime di monopolio. Tale regola, dopo l’art. 16 TCE e l’art. 36 della Carta europea dei diritti fondamentali, impone un ripensamento in relazione al rapporto tra erogazione dei servizi pubblici ed eguale soddisfacimento dei diritti sociali, con una conseguente riflessione sull’effettività dell’art. 43 Cost.

La nozione di «coesione sociale» in ambito europeo, da ultimo esplicitamente prevista dall’art. 36 della Carta europea dei diritti fondamentali, potrebbe costituire un «freno» all’onda liberista ed una rivalutazione dei principi di carattere sociale contenuti nell’art. 43 Cost. La dimensione sociale può concretizzarsi in vari modi, ad esempio, attraverso l’erogazione di aiuti di Stato finalizzati sia ad imprese pubbliche che private, purché giustificati dal perseguimento di finalità sociali e dall’obiettivo della coesione economico-sociale, che si concretizza, tra l’altro, in un livello alto di occupazione. La regola della concorrenza verrebbe quindi derogata da istituti che si caratterizzano per la temporaneità ed eccezionalità. L’intervento dello Stato nelle attività economiche relative a servizi di interesse economico-generale si trasforma da regola ad eccezione.

Tuttavia, al fine di legittimare interventi dello Stato in deroga alla regola della concorrenza, occorre intendere la coesione economico-sociale quale obiettivo e non quale strumento; obiettivo che difficilmente può raggiungersi senza l’intervento dello Stato. In un sistema fondato sul capitalismo concorrenziale, senza l’azione dello Stato, non si avrebbe avuto lo sviluppo di settori strategici dell’economia. Settori privati dell’economia, quali ad esempio quello automobilistico, non avrebbero avuto la stessa fortuna se a monte non vi fosse stato, in alcuni settori (siderurgico, rete dei trasporti) un modello di capitalismo monopolistico e non concorrenziale. Sistemi di monopolio e riserve in favore dello Stato costituiscono in certi momenti storici ed in alcuni segmenti di mercato l’indispensabile presupposto per lo sviluppo economico del Paese.

Si potrebbe addirittura sostenere che la coesione sociale vada interpretata dal legislatore europeo e dai singoli Stati membri come un pre-requisito alle politiche pubbliche e non come un mero obiettivo da raggiungere per mezzo delle politiche stesse. In questo senso, la coesione economico-sociale andrebbe letta in termini di omogeneità ed osservanza del principio di eguaglianza (in questo senso v. art. 11 del d.lg. 286/99 che ha dato fondamento normativo alla Carta dei servizi), divenendo un vero e proprio principio costituzionale, dal valore prescrittivo e non meramente programmatico. Il paradigma della coesione economico-sociale non può essere costituito unicamente dal binomio libertà-solidarietà, ma va implementato con i valori contenuti nel principio di eguaglianza sostanziale. Secondo tale interpretazione, i principi contenuti nell’art. 16 TCE, ed espressamente richiamati dall’art. 36 della Carta europea, bilancerebbero la dimensione sociale comunitaria, intesa nella sua più ampia accezione di eguale soddisfacimento dei diritti sociali, con la regola della concorrenza e del mercato.

In quest’ottica, si è espresso il Parlamento europeo che nella risoluzione 97/35799, sui servizi di interesse generale in Europa, ha chiesto alla Commissione di tenere debitamente conto, nella formulazione delle sue future proposte e nell’attuazione del mercato interno con diretto o indiretto riferimento ai servizi di interesse economico-generale, degli obiettivi dell’art. 130 TCE sulla coesione economica. La coesione assurgerebbe a principio dell’Unione e dei singoli Stati membri, finalizzata all’uguaglianza di trattamento ed alla perequazione tariffaria. Se la coesione sociale assumesse tale valenza, dal punto di vista giuridico e socio-

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economico, i servizi che operano in tali ambiti potrebbero derogare alla regola della concorrenza, nel caso in cui non siano in grado, all’interno del mercato, di raggiungere e mantenere soddisfacenti obiettivi sociali. …

4. La disposizione tra crisi e riforma

4.1 Il servizio pubblico «europeizzato» e la Costituzione italiana

In relazione all’evoluto quadro europeo che ha determinato il nuovo assetto normativo ed economico dei servizi pubblici, occorre verificare la legittimità, oltre che l’attuale vigenza, dell’art. 43 Cost. Come è noto, il diritto comunitario primario e secondario (trattati, regolamenti, direttive, decisioni della Commissione, sentenze della Corte di Giustizia) va applicato su tutto il territorio e prevale su quello nazionale sino alle disposizioni costituzionali comprese, fatti salvi i principi della democrazia ed il contenuto essenziale dei diritti inviolabili della persona.

I monopoli pubblici di servizi e di produzione sono ricondotti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia all’art. 86, 1° co. e 3° co., TCE e le eccezioni permesse, con riguardo a tutti i settori soggetti a monopolio o in cui vigano diritti speciali od esclusivi, sono quelle previste dall’art. 86, 2° co., TCE. Il principio generale è l’applicazione della regola della concorrenza anche nell’ambito dei servizi di interesse economico-generale, al fine di realizzare un mercato libero e aperto. Il diritto comunitario è indifferente al fatto che le imprese siano in mano pubblica o privata; la disciplina che l’ordinamento comunitario detta per il soggetto economico attiene all’attività, a prescindere dalla proprietà.

Quando vi sono i presupposti, di cui all’art. 86, 2° co., TCE, per derogare alla regola della concorrenza e consentire aiuti economici ad imprese che svolgono attività di interesse economico-generale, o l’attribuzione di poteri speciali, le disposizioni comunitarie richiedono che ciò avvenga in condizioni di trasparenza contabile, al fine di consentire l’individuazione degli interventi di aiuto pubblico. In dottrina, si è sostenuto che il servizio pubblico economico europeo non presenterebbe un insanabile contrasto con il complessivo impianto della Costituzione economica italiana. La applicazione della regola della concorrenza in settori liberalizzati, quali i servizi di interesse economico-generale, ai sensi dell’art. 86, 2° co., TCE e dell’art. 16 TCE, andrebbe attuata secondo procedure e programmazioni di politica economica, conformi ai principi fondativi della Carta costituzionale, ovvero orientate alla tutela del pubblico interesse, non inteso unicamente come raggiungimento dell’efficienza organizzativa e della razionalizzazione di settori economici.

In quest’ottica, il pubblico potere tende a ridurre le funzioni di gestione, concentrandosi su quelle di regolazione della concorrenza, delle tariffe e degli standards dei servizi, in un’attività di social regulation. Gli scopi e gli obiettivi delle privatizzazioni, che sono in particolare la massimizzazione dei profitti e la riduzione del debito pubblico, non possono prevalere sui diritti fondamentali della persona. L’obiettivo della privatizzazione dei servizi di interesse economico-generale non può essere unicamente quello di restituire efficienza e competitività alle imprese ex pubbliche, reinserendole in un mercato pienamente concorrenziale, e ridurre il debito pubblico, diffondendo l’azionariato ed allargando il mercato borsistico. Mentre gli obiettivi della produttività e dell’efficienza sono validi per i processi di privatizzazione degli enti pubblici, la cui trasformazione in persona giuridica può essere anche considerata uno strumento di semplificazione amministrativa, non sono sempre validi, o quanto meno esclusivi, per gli enti che svolgono funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico.

Le deroghe alla regola della concorrenza e del libero mercato, attraverso aiuti di Stato, o con l’attribuzione di poteri speciali (golden shares) o di esclusività (monopoli legali), non sono dunque giustificate dalla cura degli interessi economici dell’impresa, ma dal perseguimento degli obiettivi nazionali di politica economica ed industriale. Le deroghe al libero mercato, consentite dalla disciplina comunitaria, non possono esaurirsi in un’attività di ingerenza e controllo sulla vita e gestione delle imprese. La regola della concorrenza, all’interno dello spazio giuridico europeo, non può avere l’effetto di ridurre i diritti sociali a meri diritti legali o ritenere le disposizioni costituzionali mere norme programmatiche. Utilità e fini sociali contribuirebbero a configurare una visione solidaristica dell’attività economica, assicurando tutela al nucleo essenziale dei diritti della prima parte della Costituzione. In sostanza, si tratta di far coesistere i valori del mercato con quelli del Welfare e dell’eguaglianza, sulla base dei principi fondativi del patto costituzionale, pensando a nuove regole e a nuovi equilibri che non conducano alla riduzione dello Stato sociale. In futuro sarà opportuno con rilevazioni periodiche verificare se i ricavi delle liberalizzazioni e la riduzione del debito pubblico comportino

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anche la crescita delle entrate fiscali, lo sviluppo del mercato azionario, l’aumento della occupazione, migliori condizioni di vita, alimentari, abitative, sanitarie, più istruzione, sistema pensionistico sicuro.

4.2 L’ineffettività dell’art. 43 Cost. e la salvaguardia della dimensione sociale costituzionale

Il modello di economia sociale di mercato, e segnatamente quanto emerge dall’art. 86, 2° co., TCE, dall’art. 16 TCE, dalle comunicazioni della Commissione e dalla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia non sembrerebbe porsi in contrasto con principi fondativi della Carta costituzionale. L’Unione europea lascia agli Stati nazionali la definizione di pubblico servizio e la possibilità, nel rispetto del principio di proporzionalità, di attivare misure in deroga alla regola della concorrenza, anche in relazione al proprio quadro costituzionale. In quest’ottica, non sembra potersi accogliere la tesi che ritiene che il diritto comunitario, ma in particolare l’applicazione della regola della concorrenza, abbiano abrogato la Costituzione economica nazionale.

Gli strumenti di cui all’art. 43 Cost. non risulterebbero, dunque, in contrasto con il diritto comunitario, rappresentando un’eventuale deroga alla regola generale. In una economia «liberalizzata», è evidente che l’art. 43 Cost. si svuoti di significato, perdendo di effettività. Tuttavia, le attività economiche di interesse generale e dall’alto impatto sociale rimarrebbero suscettibili di interventi da parte dei poteri pubblici, specialmente nei casi in cui la spontaneità del mercato non possa soddisfarle. I processi di collettivizzazione, non espressamente vietati dal diritto comunitario, assumerebbero il carattere dell’eccezionalità, mutando il contenuto originario dell’art. 43 Cost. Infatti, come evidenziato in dottrina, la collettivizzazione prevista dall’art. 43 Cost., non aveva carattere eccezionale, ma era l’applicazione di un principio generale del controllo e della pianificazione economica. In questo senso, nella consapevolezza che è il diritto europeo, in ultima istanza, a stabilire quando è possibile derogare alla regola della concorrenza, l’art. 43 Cost. va ripensato, in via interpretativa, assumendo l’intervento dello Stato il carattere dell’eccezionalità.

4.3 Art. 43 Cost.: dimensione sociale ed eccezionalità degli interventi statali Nei casi in cui il pubblico servizio non sia in grado di raggiungere spontaneamente, ed all’interno del

libero mercato, gli obiettivi che la Costituzione pone alla base di detta attività, nel caso in cui non si raggiungano i fini del pubblico servizio, anche all’interno di un mercato regolamentato, ci si troverà di fronte ad un fallimento del mercato che potrebbe legittimare l’assunzione del servizio da parte dell’amministrazione pubblica in regime di monopolio, per concedere la gestione ai privati, in regime di concessione, o prestare direttamente i corrispondenti servizi.

Il diritto comunitario ammette la sottrazione di attività al regime di mercato quando ciò sia necessario per la realizzazione degli scopi che gli Stati assegnano alle attività medesime. La garanzia dei diritti di cittadinanza, al di là dei profili soggettivi, assurge ad elemento costitutivo del pubblico servizio. Il regime della riserva non è un presupposto necessario, ma una conseguenza dal carattere dell’eccezionalità, alla quale ricorrere allorquando fallisce l’attività di regolamentazione del mercato.

Vi sono casi in cui l’attività di regolazione può risultare inefficace, in presenza di forti rigidità tecniche o di economie di scala, oppure nel caso in cui la pubblica utilità richieda l’erogazione del servizio a tutti i cittadini, anche in assenza di economicità per l’impresa. In questi casi, lo Stato non può limitarsi allo status di regolatore, ma dovrebbe promuovere direttamente ed incentivare attività economiche.

4.4 Regime della riserva e servizio universale

La riserva in favore di un’impresa, giustificata dal perseguimento di interessi sociali e dall’obiettivo della coesione sociale, impedirebbe ad altri soggetti di accedere a settori economici, violando la regola della concorrenza. In linea di principio, l’utilità sociale e la coesione sociale non sembrano giustificare, come evidenziato in dottrina, riserve di attività economiche e quindi la creazione di monopoli legali. La riserva non è presupposto necessario affinché nell’ambito dei servizi di interesse economico-generale si possano raggiungere finalità di utilità generale, quali la qualità, l’eguaglianza e tariffe contenute.

La legge di riserva, per essere conforme al diritto comunitario, dovrebbe dimostrare che i servizi di interesse economico-generale per assolvere i loro compiti, ovvero al servizio universale, devono creare le condizioni di una riserva di attività. A queste condizioni, una legge adottata ex artt. 43 e 117, 2° co., lett. e Cost., potrebbe risultare compatibile con la normativa comunitaria.

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L’impresa pubblica, che gode di diritti speciali ed esclusivi, dovrà soddisfare due esigenze, una relativa al mercato, l’altra all’interesse generale ed al raggiungimento della coesione sociale. Tuttavia, il soddisfacimento del servizio universale non esclude mercati concorrenziali. Può avvenire, infatti, come nel settore delle telecomunicazioni, che la concorrenza ed il servizio universale siano obiettivi complementari, venendosi a realizzare una competizione.

4.5 Incompatibilità tra servizio universale e regola della concorrenza. La riserva e gli aiuti finanziari: da eccezione a regola

Diverso è il caso in cui si ricorre all’art. 16 TCE ed all’art. 86, 2° co., TCE, laddove la concorrenza ed il servizio universale non siano obiettivi complementari. Il servizio di interesse economico-generale non riesce ad avere i requisiti di servizio universale, ovvero ad avere tariffe ridotte ed a servire tutti i cittadini ad eguali condizioni, indipendentemente dalla localizzazione geografica dell’utente124. Vi sono settori nei quali non esiste un potenziale di innovazione tecnologica e di competitività tale da poter sviluppare con proprie forze il servizio universale. In tali ambiti si verifica il c.d. market failure, ovvero quando il mercato concorrenziale non offre affatto oppure offre in quantità e qualità insufficiente un bene pubblico puro. In questo caso, il soddisfacimento dell’interesse pubblico, che grava sul principio della fiscalità generale, e quindi sui principi dell’eguaglianza e della progressività, prevale sull’interesse del pubblico, laddove questo ultimo può essere fonte di discriminazioni, diseguaglianze e di parcellizzazione sociale.

In questi casi ciò che rileva è la qualità del servizio e la sua utilità sociale, a prescindere dalla natura giuridica dell’impresa e dalla titolarità della proprietà. La natura della attività può essere condizione sufficiente per derogare alla regola della concorrenza, con l’istituzione di riserve o con aiuti da parte dello Stato. Il finanziamento costituisce un meccanismo di deroga alla regola della concorrenza ed ha quale finalità il raggiungimento della coesione sociale nell’ambito dei servizi di interesse economico generale; esso sarà consentito nei limiti della necessità dell’equilibrio finanziario del servizio di interesse generale e nei limiti di quanto indispensabile ad assicurare il servizio universale. Ogni Stato, nel rispetto del principio di sussidiarietà e di proporzionalità, ed in relazione allo spirito di fondo del proprio modello economico, può decidere di finanziare un servizio economico di interesse generale, purché si rispettino le condizioni ed i requisiti comunitari e ci siano effettivamente quelle esigenze tali da giustificare deroghe alla regola della concorrenza. Una forma di new governance europea, diversa dalle forme di governo statali, difficilmente può assolvere a compiti redistributivi tipici dei sistemi politici nazionali ed assicurare prestazioni di livello uniforme all’interno del territorio europeo. In conclusione, dallo status di acquiescenza ed ineffettività temporale e contingente dell’art. 43 Cost., è possibile configurare all’interno del nostro sistema un equilibrio tra la regola della concorrenza ed i principi dell’economia sociale di mercato, un compromesso tra il dirigismo statale e l’ordine competitivo, un equilibrio volto a preservare le garanzie costituzionali di ambiti quali la sicurezza sociale e la giustizia sociale, necessari per la costruzione di un Welfare State, ispirato ai principi della democrazia economica sostanziale. Lo Stato gestore, e non soltanto regolatore, pur con i limiti posti dal diritto comunitario e dalle nuove esigenze di mercato, può, in via eccezionale, continuare a trovare il proprio legittimo fondamento giuridico nell’art. 43 Cost., e in senso più ampio, nei principi d’eguaglianza e solidarietà sociale. Una trattazione specifica merita il tema dei servizi a reteservizi a reteservizi a reteservizi a rete. Si ha monopolio legale monopolio legale monopolio legale monopolio legale quando lo Stato sottrae ai privati lo svolgimento di una determinata attività economica riservandola ad un unico operatore. Spesso, il monopolio legale subentra ad un preesistente monopolio di fattomonopolio di fattomonopolio di fattomonopolio di fatto il quale, a sua volta, in molti casi è riconducibile alle peculiari caratteristiche dell’attività economica, che ne rendono opportuna o conveniente la concentrazione in capo ad un solo soggetto. In questi casi si parla di monopolio naturalemonopolio naturalemonopolio naturalemonopolio naturale. L’ipotesi più ricorrente è quella di attività produttive che richiedono l’accesso a o la disponibilità di infrastrutture (tubi, binari, cavi, ecc.) che non sono moltiplicabili per ragioni di carattere fisico o perché la loro moltiplicazione avrebbe costi insostenibili. Ebbene, è proprio questo il caso dei servizi a reteservizi a reteservizi a reteservizi a rete.

Si pensi all’acqua potabile. Una volta introdotto un regime di liberalizzazione volto a favorire la competizione tra due o più operatori, se ognuno di questi avesse un proprio impianto gli edifici sarebbero invasi da tubi. Immaginiamo la situazione di un grande condominio in cui i diversi proprietari degli appartamenti stipulano contratti di erogazione del servizio idrico con più operatori. E la situazione diventerebbe insostenibile se una

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proliferazione di infrastrutture interne al condominio riguardasse anche gli altri servizi a rete: gas, elettricità, telefono e internet. È, dunque, più economico avere un solo impianto fruibile da più operatori.

Senonché, in un regime di monopolio, per quanto giustificato dalle diseconomie legate alla gestione delle infrastrutture, l’unico operatore ha carta bianca nel definire il prezzo o la tariffa del servizio reso. Per la risoluzione di questo problema la strada più vecchia imboccata nel nostro Paese è stata quella di sostituire all’impresa privata un’impresa pubblica, la quale, in quanto soggetta al controllo politico, era dissuasa dall’assumere i comportamenti tipici dell’operatore monopolista che sfrutta la propria posizione di rendita. Più di recente si è passati ad un diverso approccio, assegnando ai pubblici poteri compiti di regolazione finalizzati a prevenire comportamenti “egoistici” del monopolista. In effetti si parla di regolazione economicaregolazione economicaregolazione economicaregolazione economica proprio in relazione al sistema di regolazione dell’offerta in mercati non concorrenziali. Su impulso dell’Unione europea, l’ordinamento italiano ha avviato negli anni Novanta un vasto processo di liberalizzazioniliberalizzazioniliberalizzazioniliberalizzazioni nei settore dei servizi a rete: energia elettrica, gas naturale, telecomunicazioni, trasporto ferroviario: per “liberalizzazione” s’intende il passaggio da mercato chiuso al mercato aperto alla concorrenza. Tuttavia, la liberalizzazione introduce le condizioni legali per questa transizione, ma non risolve i problemi – prima descritti – legati al monopolio naturale. Resta, infatti, da sciogliere il nodo della gestione della infrastruttura, rispetto alla quale rimangono i problemi di economico sfruttamento degli impianti a rete. Ebbene, affinché la liberalizzazione funzioni e, nel contempo, affinché vi sia una adeguata gestione dell’infrastruttura, è necessario che quest’ultima sia sottratta al monopolista per essere resa accessibile alla generalità delle imprese che, in regime di concorrenza, intendono erogare un dato servizio pubblico. Deve esserci, insomma, una dissociazione dissociazione dissociazione dissociazione tra il soggetto che gestisce la rete e gli operatori economici che competono nel mercato attraverso l’erogazione di un dato servizio.

Si consideri l’esempio del trasporto ferroviario. Un tempo vi era un monopolio naturale. Un solo soggetto (un’impresa pubblica, ossia le Ferrovie dello Stato) che gestiva la rete (stazioni e rotaie) e che erogava il servizio. Oggi il settore è stato liberalizzato. In esso vi operano più imprese. Quanto alla Lombardia si pensi a Trenitalia, Trenord, Nuovo Trasporto Viaggiatori, Treni Regionali Ticino Lombardia. Nondimeno, sulla rete insiste ancora oggi una posizione di monopolio con protagonista l’impresa Rete Ferroviaria Italiana (RFI). Così in altri settori come quelli dell’energia e del gas, nei quali la società proprietaria della rete di trasmissione elettrica (Terna) è controllata dall’ENEL, e la proprietaria della rete di distribuzione del gas (Snam) è una controllata dell’ENI. Analogamente nel settore della telefonia fissa.

Per evitare che l’ente di gestione dell’infrastruttura favorisca un operatore economico appartenente alla medesima entità imprenditoriale (una società dello stesso gruppo), allora sono state adottate misure per rendere indipendenteindipendenteindipendenteindipendente l’ente di gestione della rete.

Così la società Terna è stata scorporata da Enel e accorpata al GRTN (Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale), dando luogo alla nascita del Gestore dei Servizi Energetici (GSE), proprietario e gestore della Rete elettrica, nonché responsabile della sua manutenzione e di tutte le politiche di sviluppo della medesima.

Il gestore dell’infrastruttura è un monopolista. Secondo il diritto europeo, è abuso di posizione abuso di posizione abuso di posizione abuso di posizione

dominante dominante dominante dominante la condotta dell’impresa che, gestendo una infrastruttura non duplicabile, ne rifiuta l’accesso, senza ragioni oggettive, alle imprese che ne abbiano necessità per lo svolgimento delle rispettive attività economiche. Si tratta di una infrastruttura essenzialeinfrastruttura essenzialeinfrastruttura essenzialeinfrastruttura essenziale, vale a dire un bene necessario per accedere al mercato in condizioni competitive con gli altri operatori. Ciò rende indispensabile uno specifico regime dell’infrastruttura specie sul versante della sua capacità, ossia della possibilità concreta di sfruttamento da parte di tutti gli operatori. Dunque, l’accesso alla infrastruttura si realizza mediante un regime pubblicisticoregime pubblicisticoregime pubblicisticoregime pubblicistico del servizio: le utilità fornite dall’infrastruttura sono oggetto di un servizio pubblico la cui gestione è affidata tramite concessioneconcessioneconcessioneconcessione. Indipendentemente dalla proprietà

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della infrastruttura, tale bene è gestito in forza di un atto amministrativo che presuppone la riserva pubblica del servizio erogato.

Il regime dell’infrastruttura ruota, così, intorno a due entità: l’autorità di regolazioneautorità di regolazioneautorità di regolazioneautorità di regolazione, che è una autorità amministrativa indipendente, e il gestoregestoregestoregestore.

In definitiva. Il gestore deve essere un amministratore imparziale della rete. Al gestore è precluso lo svolgimento delle attività economiche che si avvalgono dell’infrastruttura. La capacità della rete deve essere distribuita tra gli operatori sulla base di regole previamente determinate, in modo tale da evitare discriminazioni. L’uso della infrastruttura è subordinato al pagamento di una tariffa. Il gestore è responsabile dell’adeguamento della rete alle esigenze degli operatori.

La funzione giurisdizionaleLa funzione giurisdizionaleLa funzione giurisdizionaleLa funzione giurisdizionale Sulla struttura dell’ordinamento giudiziario ci si è già soffermati. Quanto ai rapporti tra dinamiche processuali e attività economiche il caso delle acciaierie Ilva di Taranto è un esempio eclatante dei molteplici modi attraverso i quali la funzione giurisdizionale finisce con condizionare le attività produttive. Le diverse forme di responsabilità dell’imprenditore, sulle quali si tornerà più avanti, sono affidate ad altrettanto differenti autorità giudiziarie. Qualche esempio: - l’imprenditore che non onore gli obblighi contrattuali scaturenti da un mutuo concesso da una banca sarà sottoposto a provvedimenti giudiziari che incideranno coattivamente sul suo patrimonio, così alterando la sua capacità di competere nel mercato sino a sancirne, nei casi estremi, la fuoriuscita (decreti ingiuntivi, precetti, giudizi civili seguiti se necessario da atti di esecuzione forzata come il pignoramento); - l’imprenditore che si vede negare una autorizzazione amministrativa si rivolgerà al competente T.a.r. per ottenere giustizia. In caso di esito negativo della vertenza giudiziaria, gli verrà preclusa la possibilità di svolgere quella data attività economica; - l’imprenditore che, con dolo o colpa, inquina l’ambiente senza aver adottato le misure preventive prescritte dalla legge o che immette nel mercato prodotti alimentari alterati o che corrompe un amministratore locale per vincere un appalto pubblico, è un imprenditore che verrà sottoposto a processo penale e che, in attesa della sentenza definitiva, potrà subire misure cautelari (il sequestro, ad esempio) tali da ostacolare lo svolgimento dell’attività economica; - sul piano fiscale, poi, l’imprenditore potrà essere coinvolto in vertenze giudiziarie che si celebrano dinanzi alle commissioni tributarie. In tutti questi frangenti processuali l’autorità giudiziaria dispone di poteri idonei a influenzare l’andamento dei mercati, inibendo determinate attività o sanzionando alcuni operatori. I princìpi costituzionali dettati in questa materia sono, dunque, finalizzati ad evitare un cattivo uso della funzione giurisdizionale, ma non sono certo diretti a proteggere le attività economiche di fronte alle iniziative giudiziarie. Lo sviluppo economico non può mai essere evocato per inibire l’esercizio del potere giudiziario. È uno degli elementi che il giudice dovrà prendere in considerazione, senza però derogare alla legge per motivi attinenti all’efficiente svolgimento di attività produttive e commerciali. La stessa Corte costituzionale svolge un ruolo importante in campo economico, come si è visto in altre parti di questa dispensa e che come si avrà modo di notare anche in prosieguo di trattazione. Nel giudicare la legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge la Corte è chiamata a pronunciarsi al cospetto di disposizioni costituzionali che riguardano proprio il fattore economico. Si pensi ai tanti casi in cui è evocato l’art. 41 sulla libertà di iniziativa economia privata, senza dimenticare i giudizi nei quali i parametri del sindacato della Corte sono attinti dalle disposizioni che riguardano i rapporti di lavoro. Quando si occupa dei rapporti tra legge statale e legge regionale, non è affatto raro che la Corte pronunci sentenze economicamente rilevanti: in tema di tutela della concorrenza, di coordinamento della finanza pubblica, di livelli essenziali delle prestazioni legate ai diritti civili e sociali, di attività negoziali e “ordinamento civile”, di tutela del lavoro, di professioni, di materie economiche devolute

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alla competenza residuale dei legislatori regionali. In questi frangenti, una decisione della Corte può spostare gli equilibri tra livelli di formazione, con ripercussioni anche nel mercato, perché non è indifferente che a dettare le norme da applicare sia lo Stato anziché la singola Regione.

Un esempio è particolarmente significativo, pur nella consapevolezza che se ne potrebbero allegare decine altrettanto suggestivi. In precedenza si è fatto riferimento ai cd. phone center, ossia i centri di telefonia in sede fissa che consentono di comunicare, via telefono o tramite la rete, a tariffe decisamente vantaggiose. Nel 2006 la Regione Lombardia adottò una legge finalizzata a contrastare un fenomeno ritenuto preoccupante per l’ordine pubblico, legato a comportamenti asseritamente pericolosi posti in essere da cittadini extracomunitari in questi luoghi. Questa legge introdusse due importanti elementi di novità: in primo luogo stabilì una serie di requisiti strutturali e logistici molto stringenti non solo per aprire nuovi phone center ma anche per continuare denuncia di inizio attività, una apposita autorizzazione comunale, imponendola anche agli operatori già presenti nel settore. Questa legge fu impugnata in quanto: irragionevolmente lesiva della libertà di iniziativa economica privata; difforme dai princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale nella materia concorrente dell’ordinamento delle comunicazioni. Dopo un primo tentativo andato male (nel senso che la Corte dichiarò inammissibile la questione), con la sentenza n. 350 del 2008 la Corte dichiarò l’incostituzionalità dell’intera legge regionale. La previsione di una nuova e ulteriore autorizzazione amministrativa aveva violato il principio fondamentale di semplificazione (c’era già la denuncia di inizio attività). È rimasto assorbito il profilo legato ala presunta violazione dell’art. 41 Cost. Ebbene, in questo modo la Corte ha impedito l’ulteriore smantellamento del settore dei phone center. Infatti, sino a quel momento nella sola provincia di Brescia quasi il 70 % dei centri attivi era stato costretto a chiudere perché impossibilitati ad adeguarsi ai nuovi requisiti stabiliti dal legislatore regionale.

Sezione II I POTERI DEI SOGGETTI PRIVATI

Le posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettiveLe posizioni giuridiche soggettive

Ogni individuo svolge le proprie attività giuridiche innanzitutto esercitando diritti soggettivi. Il diritto soggettivo diritto soggettivo diritto soggettivo diritto soggettivo è un insieme di poteri, facoltà, pretese, immunità oggetto di tutela da parte dell’ordinamento. Ad ogni diritto soggettivo è sotteso un interesse giuridicamente rilevante. L’interesse, a sua volta, è lo stato di aspirazione o di tensione ideale verso un bene ritenuto necessario per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Dunque, attraverso l’assegnazione di un diritto soggettivo l’individuo si vede riconosciuta una piena protezione da parte dell’ordinamento quanto al soddisfacimento dell’interesse coltivato verso un determinato bene. In altri termini, tramite il diritto soggettivo l’ordinamento tutela il rapporto tra il suo titolare e un determinato bene, così che ogni ingerenza illecita, ossia contraria al diritto oggettivo, da parte di altri potrà essere sanzionata e rimossa da un giudice. Ad ogni diritto soggettivo corrisponde un obbligoobbligoobbligoobbligo, che può gravare tanto su tutti i consociati (diritti assoluti) quanto su alcuni soggetti (diritti relativi). L’obbligo è lo stato di soggezione in cui versa un individuo che si relazione direttamente con il titolare di un diritto soggettivo. È un obbligo di fare qualcosa (→ obbligo di facere) o anche solo di astenersi dal fare qualcosa (→ obbligo di non facere). A fronte di un obbligo sussiste quindi una pretesa pretesa pretesa pretesa vantata da altri. Più intenso del diritto soggettivo è il diritto potestativodiritto potestativodiritto potestativodiritto potestativo, ossia il potere di determinare, attraverso un proprio atto di volontà, una modificazione della sfera giuridica di un altro individuo che versa in una condizione di soggezionesoggezionesoggezionesoggezione (cioè, non può che subire quella modificazione). Ove un soggetto non ha il potere di modificare la condizione giuridica in cui versa un altro soggetto, allora quest’ultimo risulterà protetto da una immunitàimmunitàimmunitàimmunità, cui corrisponde quindi una mancanza di potere. Se, invece, ad un soggetto è riconosciuta la facoltàfacoltàfacoltàfacoltà di compiere un determinato atto o di assumere un certo comportamento, allora la posizione passiva corrispondente non è l’obbligo, in quanto si ha mancanza di pretesa. A volte l’acquisto di un diritto dipende dal verificarsi di alcune circostanze di fatto. Quando alcune di queste si realizzano, e altre non ancora, allora si dice che il soggetto interessato vanta una

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aspettativaaspettativaaspettativaaspettativa. Aspettativa che è “di fatto” se non è protetta dall’ordinamento giuridico, mentre è “di diritto” se il diritto oggettivo contempla una norma che la riconosce e la garantisce. Così, ad esempio, se la legge vieta atti che possano impedire in modo sleale il perfezionamento di un diritto, allora il titolare dell’aspettativa è legittimato a compiere atti conservativi per preservare il bene che potrebbe divenire suo. Diverso, poi, dal’obbligo è l’onereonereonereonere. In questo caso un individuo non è tenuto ad assumere un determinato comportamento, ma se non lo fa non riuscirà ad ottenere il risultato prefissato. Una prima distinzione all’interno dei diritti soggettivi è quella che intercorre tra… - Diritto Diritto Diritto Diritto assolutoassolutoassolutoassoluto, tale perché conferisce ad un individuo pretese che questi può far valere nei confronti di una pluralità indeterminata di destinatari (→ erga omnes).

Oltre al già descritto diritto di proprietà, si pensi ad un brevetto di invenzione, che consente ad un soggetto di pretendere che chiunque si astenga dal fabbricare e mettere in commercio l’oggetto brevettato. Si pensi, poi, anche ai diritti al nome, alla reputazione, all’onore, all’integrità psicofisica, e via dicendo.

- Diritto relativoDiritto relativoDiritto relativoDiritto relativo, tale perché attribuisce al suo titolare una pretesa opponibile solo a una o più persone determinate.

Così, se un soggetto presta una somma di denaro ad un altro individuo vanterà solo nei confronti di quest’ultimo la pretesa a farsi restituire quella somma di denaro. Si pensi, poi, al patto di non concorrenza, che impegna solo lo stipulante nei confronti del soggetto che vanta un interesse a che altri si astenga dallo svolgere attività in competizione con la sua.

Altra importante distinzione è quella che intercorre tra … - Diritti della personalitàDiritti della personalitàDiritti della personalitàDiritti della personalità, che sono intrasmissibili (cioè inalienabili, irrinunciabili) in quanto attengono direttamente alla persona del loro titolare: la vita e l’integrità psicofisica, la riservatezza, la libertà di movimento, e le altre libertà fondamentali previste dalla Costituzione. - Diritti patrimonialiDiritti patrimonialiDiritti patrimonialiDiritti patrimoniali, i quali, avendo per oggetto una utilità economica, sono di regola trasmissibili. Così, i diritti patrimoniali assoluti includono la proprietàproprietàproprietàproprietà e gli altri diritti realidiritti realidiritti realidiritti reali già menzionati, laddove i diritti patrimoniali relativi sono detti diritti di creditodiritti di creditodiritti di creditodiritti di credito e i rapporti instaurati attraverso il loro esercizio sono definiti rapporti obbligatori rapporti obbligatori rapporti obbligatori rapporti obbligatori (o più semplicemente obbligazioniobbligazioniobbligazioniobbligazioni). Sul piano costituzionale, è importante la distinzione tra ddddiritti fondamentaliiritti fondamentaliiritti fondamentaliiritti fondamentali e altri diritti. Solo i primi godono di una particolare, specifica e forte protezione da parte della Costituzione, in questa essa reca vincoli e condizioni opponibili allo stesso legislatore. Pertanto, il regime giuridico dei diritti fondamentali può essere definito dal legislatore ordinario nel pieno rispetto di quanto stabilito dalla Costituzione. Il regime giuridico degli altri diritti, invece, è rimesso alla discrezionalità del legislatore ordinario, che così gode di ampi margini di manovra.

Così, sono fondamentali il diritto alla vita, all’integrità psicofisica, alla libertà personale, alla parola, al credo religioso, alla comunicazione, e via dicendo. Non è fondamentale il diritto di credito.

Riguardo ai diritti fondamentali si è posto un dilemma di difficile composizione: sono tali sono quelli espressamente contemplati dalla Costituzione o se ne possono aggiungere altri (i cd. nuovi nuovi nuovi nuovi dirittidirittidirittidiritti) grazie alla previsione dell’art. 2 Cost. secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti dell’uomo ?

Nel solco tracciato dal pensiero positivista, sarebbe corretto affermare che i diritti fondamentali sono soltanto quelli espressamente contemplati dagli enunciati costituzionali. La ragione è semplice: secondo questo approccio teorico, la Costituzione crea, in quanto atto normativo, i diritti fondamentali. Stando così le cose, le lacune, quanto al catalogo dei diritti fondamentali, sarebbero in radice escluse.

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Accedendo, invece, alla prospettiva illuminata dal giusnaturalismo, parrebbe più coerente abbracciare l’idea della Costituzione quale atto che si limita a riconoscere e a garantire i diritti fondamentali: questi, dunque, preesistono al processo costituente, essendo patrimonio irretrattabile di tutti gli individui in quanto appartenenti al genere umano. La Costituzione sarebbe, così, pervasa da un numero non previamente quantificabile di lacune, la cui consistenza dipende da ciò che la comunità ascrive, secondo ragione o in base a valori etici o religiosi, ai diritti fondamentali.

Non pochi studiosi hanno subito il fascino di questa interpretazione orientata dalla teoria del diritto naturale, pervenendo a riconoscere nell’art. 2 Cost. la base normativa di un catalogo aperto di diritti fondamentali, quasi che gli artt. 13 e seguenti si limitassero a fornire un elenco importante ma non tassativo di diritti. Si è prevenuti alla medesima conclusione, pur non aderendo alla dottrina giusnaturalistica, anche affermando che la categoria dei diritti è sensibile e, dunque, aperta ai valori e agli interessi inediti che stanno emergendo grazie alle forze politiche e culturali prevalenti.

Questa posizione è stata contestata da quanti, pur senza cedere alle lusinghe del formalismo, fanno notare come, imboccando questo itinerario interpretativo, si rischi di favorire l’affermazione di concezioni ideali che rappresentino solo una parte della comunità, là dove uno dei princìpi cardine della nostra Costituzione è proprio il pluralismo. Senza dimenticare, poi, che l’ampliamento progressivo di nuovi diritti fondamentali, i quali entrano nell’ordinamento attraversando la porta spalancata dall’art. 2, determina paradossalmente una graduale limitazione di tutti i diritti, vista la necessità di un loro bilanciamento.

Dal canto suo, il giudice delle leggi, abbandonato il vecchio indirizzo di chiusura, ha identificato nuovi diritti il più delle volte attraverso una interpretazione estensiva delle positive previsioni costituzionali: il diritto alla vita alla luce degli artt. 13 e 32, o la libertà di coscienza ancorandola agli artt. 19 e 21. In questa giurisprudenza, l’art. 2 è rimasto sullo sfondo, nel senso che non è stato dalla Corte ignorato, ma è sovente stato incluso nel complesso edificio argomentativo dalla stessa costruito per pervenire al riconoscimento di un nuovo diritto.

Gli sviluppi più recenti del costituzionalismo, sempre più orientato ad un dialogo multilivello tra differenti sistemi, testimoniano l’intensità dell’impatto prodotto dai cataloghi di diritti altrove definiti, a cominciare dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: si pensi, ad esempio, al diritto all’onore, al decoro, alla rispettabilità, alla riservatezza, intimità e reputazione. Si è, quindi, in presenza di un inedito universalismo dei diritti non più fondato sui pilastri del giusnaturalismo, ma ancorato alle fondamenta del costituzionalismo cooperativo che si proietta ben oltre i confini nazionali.

La Corte, dunque, assecondando il prevalente indirizzo dottrinale ha optato per il meccanismo dell’interpretazione estensiva, azionato alla luce dell’art. 2. Sicché, appare ragionevole affermare che i nuovi diritti, così identificati, sono già presenti in nuce nelle disposizioni costituzionali. Pertanto, non di riconoscimento di inedite situazioni giuridiche soggettive dotate di rilevanza costituzionale si tratta, quanto di arricchimento o ampliamento dell’oggetto definito dalle previsioni della legge fondamentale. La capacità giuridicacapacità giuridicacapacità giuridicacapacità giuridica, che si acquista al momento della nascita, è l’attitudine delle persone di divenire soggetto di diritti e di obblighi.

Peraltro, anche il concepito può ricevere per donazione o per successione ereditaria a condizione che successivamente nasca e nasca vivo. Durante la gestazione il concepito vanta solo una aspettativa, presidiata da una amministrazione dei beni nel suo interesse.

Dal canto suo, la capacità di agirecapacità di agirecapacità di agirecapacità di agire è l’attitudine dei soggetti a disporre dei rispettivi diritti e di assumere impegni mediante manifestazioni di volontà o comportamenti concludenti: è, dunque, la capacità di porre in essere validamente atti giuridici. Essa si acquista al raggiungimento della maggiore età.

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I minori versano in condizioni di incapacità di agire. Per i minori emancipati vi è una debole capacità di agire (tali sono i minori che, avendo compiuto i sedici anni, possono per gravi motivi essere autorizzati a contrarre matrimonio). Gli interdetti e gli abilitati, seppur maggiorenni, sono parimenti privi della capacità di agire in quanto incapaci di intendere e di volere. L’incapacità legale è assoluta per i minori e gli interdetti, e relativa per i minori emancipati e gli inabilitati. L’incapacità naturale è l’effettiva incapacità di intendere e di volere.

L’autonomia privata autonomia privata autonomia privata autonomia privata si sostanzia nel potere del singolo di regolare, in modo coerente con i propri interessi, i tanti rapporti giuridici che lo riguardano, sia da punto di vista sociale che in ambito economico, scegliendo da sé le finalità della propria azione. L’autonomia privata si esprime attraverso i negozi giuridicinegozi giuridicinegozi giuridicinegozi giuridici, vale a dire atti recanti dichiarazioni di volontà alle quali l’ordinamento fa seguire effetti corrispondenti all’intento manifestato dal dichiarante. Può anche esprimersi attraverso atti non negozialiatti non negozialiatti non negozialiatti non negoziali, che, non essendo diretti a creare, modificare o estinguere un determinato rapporto giuridico, perseguono soltanto un risultato di fatto: tali sono gli atti materiali (ad es. il rinvenimento di una cosa smarrita) e le comunicazioni, volte a informare o a intimare. Il negozio giuridico unilateralenegozio giuridico unilateralenegozio giuridico unilateralenegozio giuridico unilaterale si esprime attraverso la manifestazione di volontà o il comportamento concludete posti in essere da una sola parte (es. il testamento), dove per “parte” s’intende una persona fisica o giuridica o anche un gruppo di persone che agisce in maniera compatta e unitaria. Il negozio giuridico bilanegozio giuridico bilanegozio giuridico bilanegozio giuridico bilaterale o plurilateraleterale o plurilateraleterale o plurilateraleterale o plurilaterale si sostanzia, invece, in manifestazioni di volontà o in comportamenti concludenti posti in essere da due o più parti.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, la donazione è un negozio giuridico bilaterale, in quanto si perfeziona solo con l’incontro delle volontà manifestate dal donante e dal donatario. La ragione è semplice: non è da escludere che una donazione possa determinare effetti pregiudizievoli in capo al donatario. Si pensi alla donazione di un’azienda (→ insieme di beni utilizzati dall’imprenditore), che può essere gravata da debiti ingenti, che toccherà poi al donatario estinguere.

Tra i negozi giuridici di questo secondo tipo spicca il contrattocontrattocontrattocontratto, ossia il negozio con il quale due o più parti costituiscono, regolano o estinguono rapporti giuridici patrimoniali. Secondo il codice civile elementi costitutivi del contratto sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma quando è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. Il nostro ordinamento risposa sul principio della autonomia contrattualeautonomia contrattualeautonomia contrattualeautonomia contrattuale, nel senso che le persone possono concludere non solo i contratti espressamente previsti dal diritto positivo (i contratti contratti contratti contratti tipicitipicitipicitipici), ma anche i cd. contratti atipici o innominaticontratti atipici o innominaticontratti atipici o innominaticontratti atipici o innominati, ossia privi di puntuale disciplina legislativa ma invalsi nella pratica negoziale. L’art. 1322 del codice civile, infatti, stabilisce che «le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico». Si pensi, ad esempio, al leasing, al factoring, al catering, al sale and lease back. Quanto alle strutture contrattuali si possono fare ulteriori distinzioni. - Il contratto è a titolo onerosoa titolo onerosoa titolo onerosoa titolo oneroso quando al sacrificio patrimoniale di ciascuna parte fa riscontro un vantaggio corrispondente (es. la compravendita). Altrimenti, il contratto è a titolo gratuito a titolo gratuito a titolo gratuito a titolo gratuito (es. la donazione). - Nei contratti unilateraliunilateraliunilateraliunilaterali solo una parte esegue o si obbliga ad eseguire una data prestazione a favore dell’altra (es. la donazione), laddove nei contratti a prestazione corrispettiva a prestazione corrispettiva a prestazione corrispettiva a prestazione corrispettiva (o sinallagmaticisinallagmaticisinallagmaticisinallagmatici) alla prestazione di una parte fa riscontro la prestazione dell’altra. - Nel contratto preliminare preliminare preliminare preliminare le parti si impegnano a stipulare in futuro un determinato contratto. Se una delle parti rifiuta di concludere il contratto definitivodefinitivodefinitivodefinitivo, allora l’altra può adire il giudice che pronuncerà una sentenza produttiva degli stessi effetti del contratto non stipulato. - La distinzione tra contratti cocococommutativi mmutativi mmutativi mmutativi e contratti aleatori aleatori aleatori aleatori sta nel fatto che solo nei secondi vi è l’assunzione di un rischio, nel senso che l’esistenza, le dimensioni e il valore di una almeno delle prestazioni dipendono da eventi incerti (es. assicurazione).

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- Nei contratti a esecesecesecesecuzione continuata o periodicauzione continuata o periodicauzione continuata o periodicauzione continuata o periodica le prestazioni sono poste in essere ripetutamente nel corso del tempo al fine di appagare un bisogno del creditore che, analogamente, si protrae nel tempo (es. somministrazione, locazione, deposito, conto corrente, ecc.). - Infine, sono consensuali consensuali consensuali consensuali i contratti che si perfezionano in qualsiasi forma. Sono formali formali formali formali quelli che richiedono una specifica forma. Sono realirealirealireali quelli che richiedono la consegna della cosa oltre alla manifestazione della volontà negoziale. Nei contratti conconconcon effetti realieffetti realieffetti realieffetti reali, invece, la proprietà di un bene si trasmette e si acquista per effetto del consenso delle parti. I contratti sono usualmente raggruppati nei seguenti insiemi: - contratti di alienazione a titolo oneroso alienazione a titolo oneroso alienazione a titolo oneroso alienazione a titolo oneroso (vendita, riporto, permuta, contratto estimatorio, somministrazione); - contratti di alienazione a titolo gratuito alienazione a titolo gratuito alienazione a titolo gratuito alienazione a titolo gratuito (donazione); - contratti di utilizzazione di coseutilizzazione di coseutilizzazione di coseutilizzazione di cose (locazione, affitto, comodato); - contratti di prestazione dprestazione dprestazione dprestazione d’’’’opera opera opera opera (appalto, trasporto, deposito, sequestro convenzionale); - contratti di cooperazione nellcooperazione nellcooperazione nellcooperazione nell’’’’attività giuridica altrui attività giuridica altrui attività giuridica altrui attività giuridica altrui (mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione); - contratti di credito e garanzia credito e garanzia credito e garanzia credito e garanzia (mutuo, fideiussione, anticresi, conto corrente); - contratti bancari bancari bancari bancari (depositi, cassette di sicurezza, apertura di credito, anticipazione bancaria, sconto bancario, conto corrente);

- contratti aleatorialeatorialeatorialeatori (rendita vitalizia, assicurazioni, gioco e scommessa); - contratti diretti a dirimere controversie dirimere controversie dirimere controversie dirimere controversie (transazione, cessione dei beni ai creditori). Sono vizvizvizvizi della volontài della volontài della volontài della volontà, e come tali determinano l’annullamentoannullamentoannullamentoannullamento del contratto, l’errore, il dolo e

la violenza. Anche l’incapacità di agire è causa di annullamento del contratto. Quando, invece, il vizio è più radicale, si ha nullità nullità nullità nullità del contratto (ad es., se non è rispettata la forma scritta imposta dalla legge sotto pena di nullità). Accanto a queste figure patologiche del contratto, che ne determinano l’invalidità, altre cause possono far venir meno gli effetti obbligatori da esso discendenti: a) rescissionerescissionerescissionerescissione, perché si tratta di contratto concluso in stato di pericolo o in stato di bisogno; b) risoluzionerisoluzionerisoluzionerisoluzione, per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità sopravvenuta; c) recessorecessorecessorecesso, cioè il diritto di sciogliersi dal vincolo contrattuale mediante una dichiarazione unilaterale indirizzata alla controparte. Un cenno merita, infine, il tema della responsabilità responsabilità responsabilità responsabilità nell’ambito del diritto privato, da intendersi come insieme delle conseguenze negative che affliggono un soggetto quando vìola una norma di diritto privato. Non sempre l’ordinamento giuridico vieta attività che cagionano danni agli altri. L’imprenditore di successo, che sbaraglia i concorrenti, produce a questi un pregiudizio, ma non per questo va incontro a responsabilità. Altre volte, invece, l’ordinamento vieta attività dannose: queste si concretizzano, dunque, in atti atti atti atti illecitiillecitiillecitiilleciti, fonte di responsabilità per i loro autori. Sulla responsabilità contrattuale responsabilità contrattuale responsabilità contrattuale responsabilità contrattuale si è fatto un rapido cenno a proposito tanto delle cause di invalidità, quanto degli accadimenti che determinano l’estinzione del rapporto contrattuale (così, ad esempio, è contrattualmente responsabile chi non adempie la prestazione prevista dal contratto, con conseguente possibilità di risoluzione del contratto stesso). A ciò si aggiunga la responsabilità responsabilità responsabilità responsabilità precontrattualeprecontrattualeprecontrattualeprecontrattuale, derivante dalla inosservanza delle regole di correttezza e di lealtà che debbono connotare i comportamenti dei soggetti impegnati nelle trattative che potrebbero sfociare nella conclusione di un contratto. La responsabilità civile responsabilità civile responsabilità civile responsabilità civile (o extracontrattuale extracontrattuale extracontrattuale extracontrattuale o aquilianaaquilianaaquilianaaquiliana) riposa sulla regola generale di cui all’art. 2043 del codice civile: «qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno». Affinché vi sia un illecito civile, dunque, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: - l’elemento materiale, ossia il fatto: una azione o una omissione;

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- l’elemento psicologico, vale a dire il dolo (l’intenzione di cagionare il danno) o la colpa (negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline), con l’avvertenza che in determinati casi (si pensi, ad esempio, alla responsabilità del medico o del magistrato) è necessaria la colpa grave, e non una lieve incuria; - il rapporto di causalità, nel senso che occorre provare il nesso tra causa ed effetto; - l’ingiustizia del danno, quindi la sua contrarietà al diritto oggettivo. Si hanno, quindi, diverse figure di illecito: gli illeciti contro la persona, gli illeciti contro l’onore e la reputazione, la lesione di diritti reali, i danni all’ambiente. Per ciò che interessa di più la costituzione economica si segnalano la concorrenza sleale concorrenza sleale concorrenza sleale concorrenza sleale e gli illeciti contro lilleciti contro lilleciti contro lilleciti contro l’’’’impresaimpresaimpresaimpresa. Commettono concorrenza sleale:

- l’imprenditore che pone in essere atti idonei a generare confusione della propria attività e dei propri prodotti con l’attività e i prodotti di altri imprenditori;

- l’imprenditore che diffonda notizie ed apprezzamenti idonei a determinare il discredito dei concorrenti;

- l’imprenditore che si appropria dei pregi dei prodotti o dell’impresa del concorrente. Nel caso dell’impresaimpresaimpresaimpresa la responsabilità assume connotazioni peculiari, in quanto l’attività

oggetto di obbligazione è posta in essere dal debitore che si avvale di una propria organizzazione di mezzi e di persone e che intrattiene rapporti con altri soggetti per l’acquisizione di materie prime, di forniture, di servizi. Così, l’inadempimento può derivare non solo da motivi interni all’impresa, ma anche da problemi associati ai rapporti che l’imprenditore intrattiene all’esterno. L’elemento della colpa assume quindi tonalità in parte diverse da quelle generali. Pertanto, ad esempio, l’esistenza di misure tecniche e organizzative idonee ad evitare un danno non necessariamente conduce al riconoscimento della colpa in capo all’imprenditore per i danni eventualmente cagionati per effetto della omessa adozione di quelle misure. In effetti, può trattarsi di misure eccessivamente onerose dal punto di vista economico. Ancora, la responsabilità potrebbe essere imputata a ritardi o negligenze altrui, come nel caso di fornitori che tardano o non adempiono quanto pattuito, o magari ai ritardi con i quali spesso le amministrazioni pubbliche onorano gli impegni derivanti da un contratto d’appalto. Secondo la giurisprudenza, la responsabilità dell’imprenditore è esclusa solo quando l’inadempimento è ascrivibile a cause esterne alla sua sfera di controllo e di pianificazione.

È responsabile, ma solo per dolo o colpa, il genitore (al pari dei tutori, dei precettori e dei maestri) per i danni cagionati dai figli minori non emancipati che abitino con essi (negli altri casi, si tratta di danni provocati dai minori sottoposti a tutela e dagli allievi).

In alcuni casi, poi, non è necessario provare almeno la colpa, in quanto sussiste la cd. responsabilità oggettivaresponsabilità oggettivaresponsabilità oggettivaresponsabilità oggettiva: il proprietario di un veicolo, il caso della “rovina di un edificio”, il danno causato da cose o animali, la responsabilità per il fatto dei dipendenti, l’esercizio di attività pericolose. In questi casi, il soggetto attivo può esimersi da responsabilità soltanto provando il caso fortuito o la forza maggiore: dunque, avvenimenti che fuoriescono dal controllo del diligente padre di famiglia.

I rimedi giuridici contro gli atti illeciti sono: il risarcimento del danno per equivalente, la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno non patrimoniale, l’azione inibitoria. Ci si può esimere da responsabilità solo adducendo una delle cause di giustificazionecause di giustificazionecause di giustificazionecause di giustificazione previste dall’ordinamento: legittimità difesa, stato di necessità, consenso dell’avente diritto, esercizio di un diritto.

Diritto soggettivo e interesse legittimoDiritto soggettivo e interesse legittimoDiritto soggettivo e interesse legittimoDiritto soggettivo e interesse legittimo

Ogni consociato è portatore di una serie di interessi. Per interesse interesse interesse interesse s’intende lo stato di aspirazione o di tensione ideale verso un bene bene bene bene considerato necessario per il soddisfacimento di un determinato bisognobisognobisognobisogno. Non tutti gli interessi sono tutelati dall’ordinamento giuridico. Alcuni interessi trovano riscontro in norme sociali o etiche o religiose. Altri, invece, sono considerati e quindi protretti da specifiche

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norme giuridiche. I primi sono definiti meri interessi di fattomeri interessi di fattomeri interessi di fattomeri interessi di fatto, i secondi sono gli interessi interessi interessi interessi giuridicamente rilevantigiuridicamente rilevantigiuridicamente rilevantigiuridicamente rilevanti. Spetta al legislatore selezionare gli interessi giuridicamente rilevanti alla luce delle prevalenti concezioni sociali, politiche, economiche, culturali. Al mutare dei rapporti sociali si può assistere ad un ampliamento o a una restrizione degli interessi giuridicamente rilevanti. A loro volta, gli interessi giuridicamente rilevanti assumono una particolare forma, che è quella del diritto soggettivo. Questa posizione giuridica soggettiva è stata già descritta. Qui basta ribadire che il diritto soggettivo garantisce al suo titolare una particolare e intensa protezione quanto alla realizzazione dell’interesse sotteso a tale diritto. Una volta dimostrata la lesione del diritto soggettivo, il suo titolare potrà rivolgersi al giudice competente per ottenere giustizia, ossia per ripristinare la pienezza del diritto soggettivo anche solo sotto forma di risarcimento del danno così patito. Nei rapporti con la pubblica amministrazione, quando essa esercita un poterepoterepoterepotere la posizione del destinatario del relativo atto non è titolare di un diritto soggettivo. Di fronte al potere amministrativo, il privato è portatore di un interesse giuridicamente rilevante, che tuttavia non assume la forma dell’interesse legittimo. Consideriamo il seguente esempio. Tizio è proprietario di un terreno, vanta cioè su questo bene immobile un diritto soggettivo. Egli vorrebbe costruire una casa su questo terreno, ma la legge subordina questa costruzione ad un atto amministrativo, la cd. concessione o licenza edilizia. Ciò può apparire anomalo dal momento che il diritto soggettivo di proprietà avente per oggetto un determinato bene si sostanzia in una somma di pretese, facoltà, poteri che consentono al suo titolare il pieno godimento del bene con esclusione degli altri. Tra le facoltà di godimento incluse nel diritto soggettivo di proprietà su un terreno vi è senza dubbio il diritto di costruire al di sopra di esso, in quanto da questa attività il proprietario può trarre una utilità ammessa dall’ordinamento. Ma non può farlo direttamente, in quanto il suo diritto di costruire (→ ius edificandi) è subordinato ad un atto amministrativo. Pertanto, ove il proprietario di un terreno costruisse su di esso una casa senza aver ottenuto il prescritto atto amministrativo, egli incorrerebbe in una sanzione, avendo commesso un abuso edilizio: la case potrebbe essere demolita anche contro la volontà del proprietario. Dal canto suo la competente autorità amministrativa potrebbe negare la licenza di costruire ove il progetto presentato dall’interessato si rivelasse incompatibile con il piano regolatore del Comune. Questo piano è un atto amministrativo generale che suddivide il territorio comunale in aree individuando quelle in cui è consentito costruire e subordinando le costruzioni a specifici requisiti strutturali e condizioni urbanistiche. Il Comune predispone il piano regolatore per garantire il corretto, ordinato e razionale sfruttamento del territorio, dal momento che occorre bilanciare molteplici interessi: il diritto di costruire, lo svolgimento di attività commerciali, lo sfruttamento agricolo del territorio, la tutela dell’ambiente, la viabilità. Per questo motivo, la legge ha attribuito al Comune il potere amministrativo di permettere o meno al privato l’esercizio del diritto di costruire. Questo potere è finalizzato alla tutela dell’interesse generale alla razionale utilizzazione del territorio. Il legislatore ha ritenuto di dover dare peso a tale interesse, vietando attività dei privati incompatibili con esso. Quindi, quando il privato chiede al Comune il permesso di costruire, si fa portatore di un interesse individuale alla realizzazione di un edificio. Questo interesse individuale deve essere sottoposto a confronto con il superiore e prevalente interesse generale: se l’interesse individuale risulta compatibile con l’interesse generale (perché il progetto è rispettoso del piano regolatore) allora l’amministrazione comunale concederà al privato il permesso di costruire; se l’interesse individuale risulta contrastante con l’interesse generale (perché il progetto vìola il piano regolatore) allora l’amministrazione comunale negherà al privato il permesso di costruire. Da questo esempio si deduce che:

- in certi casi (ma non sempre) il legislatore decide, alla luce delle prevalenti concezioni sociali, politiche, economiche, culturali, che determinate attività individuali debbano essere valutate attraverso un confronto con interessi dell’intera comunità: gli interessi generali, appunto;

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- se il legislatore identifica tali interessi generali, conferisce loro prevalenza rispetto agli interessi privati;

- in forza di tale prevalenza, un interesse privato che dovesse risultare incompatibile con l’interesse generale potrà essere legittimamente sacrificato;

- questo sacrificio dell’interesse privato si risolve nel diniego dell’atto amministrativo che la legge prevede come condizione per il legittimo svolgimento di una determinata attività;

- se invece l’interesse privato risulta compatibile con l’interesse generale, allora l’atto amministrativo verrà emanato dall’amministrazione competente.

Se, invece, la legge non individua alcun interesse generale da preservare, allora l’interesse privato non potrà mai essere sacrificato in suo nome. Più semplicemente, non vi sarà alcun atto amministrativo cui subordinare una determinata attività. In questi casi, il privato risulterà titolare di un diritto soggettivo opponibile alla pubblica amministrazione, in quanto non suscettibile di essere sacrificato. Ebbene, quando la legge individua un interesse generale, lo protegge affidandone la cura ad una amministrazione, che così diviene titolare di un determinato potere il cui esercizio è condizione necessaria per svolgere legittimamente un’attività privata, allora il singolo è titolare di un interesse interesse interesse interesse legittimolegittimolegittimolegittimo. L’interesse legittimo è la posizione giuridica soggettiva in cui versa un individuo quando intrattiene un rapporto con una amministrazione titolare di un potere amministrativo. Diversamente dal diritto soggettivo, l’interesse legittimo può essere sacrificato se incompatibile con l’interesse generale. Tornando al precedente esempio, il proprietario di un terreno che chiede al Comune il permesso di costruire è, rispetto a tale attività, titolare di un interesse legittimo. Se il permesso viene accordato, ciò significa che, confrontando il progetto e il piano regolatore, il Comune ha riconosciuto la compatibilità dell’interesse legittimo a costruire con l’interesse generale al razionale sfruttamento del territorio. La differenza di tutela accordata dall’ordinamento al diritto soggettivo e, rispettivamente, all’interesse legittimo, si coglie anche in relazione alle dinamiche processuali conseguenti ad una eventuale controversia sottoposta ad un giudice.

a) Diritto soggettivo → Se Tizio, proprietario di una autovettura, subisce un incidente stradale a causa del comportamento colposo di Caio, allora Tizio potrà rivolgersi al giudice per ottenere il risarcimento dei danni così patiti. In particolare, potrà richiedere una somma di denaro per riparare l’autovettura danneggiata. Il giudice, dal canto suo, dovrà semplicemente limitarsi a verificare che il bene mobile di proprietà di Tizio sia stato danneggiato per colpa di Caio. In questo modo il diritto soggettivo ottiene una protezione piena.

b) Interesse legittimo → Se Sempronio, proprietario di un terreno, vede negarsi il permesso di costruire dal Comune di Valledorata, allora Sempronio, davanti al giudice amministrativo, dovrà dimostrare che il suo interesse legittimo era compatibile con l’interesse generale. Dunque, non baste lamentare la lesione di una posizione giuridica soggettiva, ma occorre fornire questa ulteriore prova, che nel caso del diritto soggettivo non è richiesta.

Per cogliere bene questa differenza, si rifletta sul seguente esempio. Chi è proprietario di un’autovettura, può goderne in modo pieno. Tra le diverse facoltà associate alla titolarità del diritto soggettivo su questo bene mobile vi è anche quella di guidarla. Senonché, a tutti è noto che per guidare legittimamente un autovettura è necessario ottenere la patente di guida, che altro non è che un provvedimento amministrativo di discrezionalità tecnica della categoria “abilitazioni”. La previsione di questo atto, e la conseguente attribuzione del relativo potere ad una determinata autorità, riflette l’individuazione, da parte del legislatore, di un interesse generale da proteggere: l’interesse della collettività alla corretta, ordinata, prudente circolazione stradale. Quindi, se all’esame l’aspirante patentato si dimostra inidoneo alla guida, la patente verrà negata: il suo interesse legittimo verrà sacrificato in nome del superiore interesse generale. Se il legislatore non avesse individuato e, quindi, protetto l’interesse generale alla sicura circolazione stradale, non ci sarebbe stato bisogno della

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patente e, quindi, di alcun esame. Chiunque, anche minorenne, una volta acquisita la proprietà dell’autovettura avrebbe potuto legittimamente e liberamente guidarla senza incorrere in divieti e sanzioni, a prescindere dalla propria capacità di guidare. Non è una situazione tranquillizzante questa...

Ricapitolando. Gli interessi di cui sono portatori i consociati sono tre: - meri interessi di fatto, tali perché non protetti dall’ordinamento giuridico; - interessi giuridicamente rilevanti tradotti in diritti soggettivi, come tali protetti al massimo

dall’ordinamento giuridico; - interessi giuridicamente rilevanti tradotti in interessi legittimi, come tali protetti

dall’ordinamento solo se compatibili con l’interesse generale presidiato dal potere amministrativo attribuito dalla legge ad una determinata autorità.

A questo punto è lecito chiedersi se e in quale misure l’interesse legittimo sia davvero tutelato dall’ordinamento giuridico.

La risposta è affermativa, pur nella consapevolezza del divario di tutela rispetto al diritto soggettivo. Infatti, il titolare dell’interesse legittimo può avvalersi delle seguenti due facoltà:

a) facoltà di partecipazionefacoltà di partecipazionefacoltà di partecipazionefacoltà di partecipazione, nel senso che il titolare dell’interesse legittimo può partecipare al procedimento amministrativo (allegando documenti e memorie, accedendo agli atti) affinché il potere amministrativo sia esercitato in maniera legittima;

b) una volta esercitato il potere, il titolare dell’interesse legittimo potrà esercitare facoltà di facoltà di facoltà di facoltà di reazionereazionereazionereazione contro l’atto negativo, al fine di far valere, nelle sedi già descritte, gli asseriti vizi. In effetti, l’interesse legittimo può essere sacrificato in nome dell’interesse generale, solo se il potere amministrativo viene esercitato in modo legittimo, cioè se l’atto è privo di vizi di nullità o di annullabilità.

A corredo di questa trattazione appare necessaria le seguente precisazione. Si è detto che il diritto soggettivo non può essere sacrificato in nome dell’interesse generale. Tuttavia, molti sanno che un terreno di proprietà privata può essere, in tutto o in parte, espropriato dalla pubblica amministrazione, con l’unica consolazione dell’indennizzo. Come si spiega questa lesione del diritto soggettivo di proprietà determinata dall’esercizio di un potere amministrativo ?

È stata fornita al riguardo una spiegazione basata sul concetto di diritto affievolitodiritto affievolitodiritto affievolitodiritto affievolito. Il proprietario di un terreno è sì titolare di un diritto soggettivo, ma quando l’amministrazione competente dichiara la pubblica utilità di una determinata opera e decide, ai fini della sua realizzazione, che un terreno debba essere espropriato, ossia sottratto dal patrimonio giuridico di una persona, allora il diritto di questi affievolisce e diventa un interesse legittimo. Egli, quindi, diverrà titolare di un diritto soggettivo all’indennizzo.

La libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privataLa libertà di iniziativa economica privata Lo studio delle posizioni giuridiche soggettive condotto nelle pagine precedenti è la premessa indispensabile per una corretta comprensione di uno dei temi centrali della costituzione economica. La liberliberliberlibertà di iniziativa economica privatatà di iniziativa economica privatatà di iniziativa economica privatatà di iniziativa economica privata è prevista e tutelata dall’art. 41 Cost.art. 41 Cost.art. 41 Cost.art. 41 Cost., di cui si riporta il testo:

1. L’iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Prima di procedere alla lettura del commento di R. Niro, occorre focalizzare l’attenzione, in particolare, sui seguenti profili.

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In via preliminare, è utile ricordare che l’art. 41 si rivolge innanzitutto al legislatore ordinario, prima ancora che ai potenziali operatori economici o alle pubbliche amministrazioni o ai giudici. Al legislatore ordinario spetta riconoscere e garantire la libertà di iniziativa economica privata, nella consapevolezza che le limitazioni che esso può introdurre sono soltanto quelle connesse ai limiti quivi indicati.

1) Qual è la storia di questa previsione ? Si tenga presente che difficilmente un liberista avrebbe

concepito una simile disposizione. Invero: - è stato fissato il limite della «utilità sociale»; - è riconosciuta anche una attività economica pubblica; - il legislatore può persino orientare e armonizzare pubblico e privato in campo economico per il conseguimento di fini sociali. La dimensione “sociale” è posta quale contrappeso del riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata. Quanto di compromissorio tra le diverse anime dell’Assemblea costituente c’è all’interno di questa disposizione ? 2) Quali sono i problemi interpretativi che questa previsione pone ? - iniziativa o anche attività economica ? - solo l’impresa o anche altre forme di attività economica pur in senso lato ? - e l’autonomia contrattuale ? Ma, ancor prima, perché sono importanti questi interrogativi ? Sono solo esercizi interpretativi o hanno un senso sostanziale ? 3) L’art. 41 prevede oppure no una riserva di legge ? Questo interrogativo è importante, in quanto dalla risposta ad esso data dipende lo spazio di manovra concesso dalla Costituzione al legislatore e al potere esecutivo. E se sì, quale legge ? Solo quella statale o anche quella regionale ? 4) I limiti. Alcuni di essi sono di facile decifrazione e comprensione. L’iniziativa economica non può violare la libertà altrui, al pari di qualsiasi altra libertà (“la mia libertà incontra un limite nella tua libertà”). Analogamente, al pari di tutte le altre libertà, anche quella in questione non può minare la sicurezza, intesa innanzitutto (ma non solo) come incolumità fisica delle persone. Il discorso diventa meno chiaro, invece, per gli altri due limiti: la dignità umana (cos’è ?) e, soprattutto, l’utilità sociale. Quanto a quest’ultima, la Costituzione italiana vuole che chi faccia impresa si occupi anche del benessere collettivo ? 5) Quale modello economico è prefigurato dall’art. 41 ? Economia di mercato, economia mista, economia socialista ? Quanto è importante, a questo proposito, leggere l’art. 41 unitamente alle altre pertinenti disposizioni della Costituzione ? Quanto la partecipazione italiana ad organizzazioni sovranazionali può condizionare la lettura del’art. 41 da questo punto di vista (si pensi all’Unione europea) ? R. NIRO, Commento all’art. 41, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 846 ss.

1. Precedenti, origine e linee evolutive

1.1 Le origini Tutte le indagini sulle «origini» della libertà di iniziativa economica assumono come atto di «nascita» di

tale libertà quello del riconoscimento della stessa come diritto «autonomo» dal diritto di proprietà, di cui in

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precedenza si ritiene fosse quasi un «segmento interno», per giunta di scarso rilievo, avviluppata com’era nelle sue spire, nell’ambito di un sistema «dominicale» per eccellenza, contraddistinto, sul piano economico, dal modo di produzione agricolo ed artigianale, finalizzato all’autoconsumo, e sul piano politico dalla complessa architettura feudale. È così che l’«emersione storica di un autonomo concetto di attività economica» si rinviene in coincidenza dello sviluppo dei traffici mercantili e dell’affermarsi dell’economia di scambio, la quale trova nelle strutture dell’età comunale (nelle c.d. «città libere»), che segnano la dissoluzione dell’ordinamento feudale, un assetto anticipatore di quello dello Stato moderno. È in quest’ultimo, infatti, che la libertà economica conosce la sua piena consacrazione, come dimostrato dalla proclamazione, nella Francia rivoluzionaria, del principio della «libertà del commercio e dell’industria» (l. 2-17 marzo 1791)- parallelo alla configurazione della proprietà quale «diritto sacro ed inviolabile» (art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) - principio simbolicamente rivelatore dell’abolizione del precedente sistema politico-economico nel quale il commercio e l’industria non costituivano esercizio di libertà, ma attività il cui svolgimento era possibile solo con il consenso del sovrano, mediante «privilegi» concessi singolarmente. Una forma di riconoscimento di siffatto principio, sia pure implicito, si era, d’altro canto, già avuta in Inghilterra, in corrispondenza dell’elaborazione della teoria dei «diritti naturali» (e dell’importante contributo ad essa dato da Locke) e della identificazione, fra di essi, in particolare della «libertà personale» e della «proprietà privata» dalla cui combinazione si desumeva il riconoscimento della predetta libertà di industria e di commercio.

1.2 I «precedenti» dell’art. 41 Cost.

Nonostante i richiamati sviluppi, sono tuttavia rare le costituzioni ottocentesche che contengono un’espressa e peculiare tutela dell’iniziativa ed attività economica, distinta ed autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà, prevalendo il modello tradizionale dell’indistinzione o del riconoscimento implicito della libertà economica nella proclamazione del diritto di proprietà. Nel segno della predetta tradizione si colloca anche lo Statuto albertino, il quale pone fra i «diritti e doveri dei cittadini», accanto alle classiche libertà civili (la libertà individuale, la libertà di domicilio, la libertà di stampa), il riconoscimento e la tutela di «tutte le proprietà», nel limite del rispetto dell’«interesse pubblico legalmente accertato» (art. 29). È, infatti, secondo questa «chiave di interpretazione» che Santi Romano rintracciava, fra le «libertà dei sudditi» statutariamente consacrate, non solo la c.d. «libertà di attività» - comprensiva della «libertà professionale» consistente nella facoltà di «chi possiede quei requisiti di capacità richiesti dalle norme generali» di «scegliere l’attività lucrativa che più gli conviene, sia nel campo delle professioni in senso stretto, sia in quello delle arti, delle industrie e del commercio» -, ma anche la c.d. «libertà patrimoniale», la quale «integra la libertà di attività», costituendo il patrimonio «un mezzo di esercizio, un effetto ed un campo dell’attività personale»: tale libertà patrimoniale - che pure costituisce «fondamento di molte facoltà che il diritto pubblico abbandona al diritto privato perché le regoli nei loro momenti e nelle loro conseguenze specifiche» - è contraddistinta da caratteri pubblicistici, che si rinvengono, in particolare, con riferimento alla espressa proclamazione dell’inviolabilità dei c.d. diritti quesiti ed all’inviolabilità delle proprietà, intesi quasi quali «svolgimenti» (impliciti) della prima libertà, pur non espressamente evocata dal testo dello Statuto. È utile ricordare come del riconoscimento (costituzionale) dell’autonomia (e della libertà) dell’iniziativa economica privata dallo Stato si ritiene che fosse espressione quel c. comm. del Regno d’Italia adottato nel 1882 e proteso ad affermare l’autoregolazione del processo economico anche attraverso la stessa separazione del c. comm. dal c.c., in linea con la concezione liberistica dello Stato e con le teorie della scuola economica classica inglese.

Per un espresso riconoscimento del ruolo centrale assegnato dall’ordinamento alla iniziativa economica privata in Italia occorre, però, attendere la c.d. Carta del Lavoro, elaborata nella vigenza dell’ordinamento corporativo fascista (21.4.1927) e contraddistinta, tuttavia, dall’accoglimento di un modello, per certi versi, contrapposto perché di tipo funzionalista. La predetta Carta, infatti, pur affermando la residualità dell’intervento dello Stato nella produzione economica («l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente la iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato»), espressamente qualificava l’iniziativa economica privata come «lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione» finalizzato al perseguimento degli obiettivi di «benessere dei singoli e sviluppo della potenza nazionale», specificando che l’organizzazione privata della produzione è una «funzione di interesse nazionale» e che «l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato». La «produzione economica» - al perfezionamento della quale si riteneva concorressero non solo coloro che svolgevano un’attività organizzata di impresa, ma anche coloro che esercitavano una libera professione o un’arte - era oggetto, in linea di principio, dell’iniziativa economica dei privati, consentendosi allo Stato di intervenire, nelle forme del «controllo, incoraggiamento e della gestione diretta» non solo, in un’ottica

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sussidiaria, nei casi di assenza o insufficiente esercizio dell’iniziativa privata, ma anche nel caso più significativo del ricorrere della necessità di realizzare gli «interessi politici dello Stato».

1.3 L’art. 41 Cost. nel dibattito in Assemblea Costituente: i «dilemmi» di una formula

La questione del rapporto fra iniziativa economica privata e pubblica, già delineata e risolta nei termini succintamente richiamati dalla Carta del Lavoro, è stata anche una delle questioni poste al centro del dibattito svoltosi in Assemblea Costituente in relazione all’approvazione delle disposizioni della nuova Costituzione repubblicana relative all’attività economica. È noto, infatti, che il testo dell’attuale art. 41 non è che la risultante finale di un dibattito acceso testimoniato dalla redazione, in sede di III Sottocommissione, di due distinti articoli (artt. 37 e 39) espressivi di due diverse visioni dell’attività economica, cui erano sottese differenti opinioni circa la qualificazione dell’iniziativa economica privata e la definizione degli ambiti dell’intervento dello Stato: l’una (espressa dall’art. 37) volta a configurare la medesima attività economica come interamente finalizzata all’esclusivo perseguimento del benessere collettivo e dunque funzionalizzabile a fini sociali (Mortati), fini definibili dallo Stato mediante «piani» dal contenuto vincolante per i privati; l’altra (contenuta nell’art. 39), viceversa, volta a riconoscere l’iniziativa economica privata come libera e ad impedire però che essa potesse recar danno all’utile pubblico. L’inconciliabilità delle tesi sottintese dalle richiamate disposizioni fu la ragione della soppressione della previsione delle necessarie finalità da perseguire mediante l’attività economica, privata e pubblica, di cui all’art. 37 (che, nel testo originario, avrebbe dovuto precedere ogni altra affermazione sull’iniziativa economica) e del sostanziale recepimento del testo dell’art. 39, al quale finiva con l’essere aggiunto quel 2° co. dell’originario testo dell’art. 37 del progetto, nella sua versione però «depurata» in quanto volta ad evitare che, in sede di programmazione economica nonché di determinazione legislativa di forme di indirizzo e coordinamento dell’attività economica pubblica e privata a fini sociali, l’iniziativa economica privata potesse essere negata mediante l’adozione di «piani» vincolanti per i privati. È evidente che in tale modo si operava una scelta in favore del riconoscimento dell’iniziativa economica privata in termini di libertà (1° co. dell’attuale art. 41): e tuttavia, da un lato, la si corredava di una serie di limiti, penetranti ed importanti, corrispondenti al non contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana, ma soprattutto con l’utilità sociale (2° co.), formula fortemente criticata per la sua «pericolosa genericità» da Einaudi; dall’altro, la si «assoggettava» alla possibilità che il legislatore statale intervenisse a determinare programmi, a prevedere controlli per indirizzare e coordinare la medesima iniziativa a fini sociali, così da indurre addirittura taluno in dottrina a qualificare la norma che ne era risultata come «indeterminata nel suo nucleo politico centrale» e «anfibologica», suscettibile, cioè, di essere sviluppata in due opposte direzioni. È infatti il peculiare «statuto» dell’attività economica delineato dall’art. 41 Cost. - e, più ancora, la considerazione delle diverse «anime» che all’elaborazione del medesimo avevano contribuito - ad aver provocato, in specie all’indomani dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, tante e così diverse e contrastanti interpretazioni, al punto da fare della disposizione in esame una delle disposizioni costituzionali di più controversa interpretazione, ma anche ad un tempo la «chiave di volta» dell’intera Costituzione economica italiana, intesa - quest’ultima - nel suo significato «neutro» di insieme delle disposizioni costituzionali inerenti ai rapporti economici.

Da un lato, infatti, l’esplicita - ed innegabile - proclamazione della libertà di iniziativa economica e la inevitabile connessione di quest’ultima non solo con la consacrazione costituzionale della proprietà privata (art. 42) - peraltro demandata, quanto al riconoscimento ed alla garanzia, al legislatore ordinario -, ma soprattutto con le altre libertà individuali, in quanto ritenuta espressione della personalità umana in un ordinamento costituzionale che pone al proprio centro lo sviluppo della persona umana (i diritti di quest’ultima), non poteva non indurre a ritenere accolta nel sistema quella «certa dose di liberismo economico» auspicata da Einaudi come garanzia della stessa «libertà di pensare». Dall’altro, il mancato espresso riconoscimento dell’inviolabilità di siffatta libertà, nonché l’apprestamento di vincoli assai più rigidi e penetranti di quelli previsti per le libertà civili all’esercizio della medesima, hanno fornito il fondamento giustificativo di quelle ricostruzioni che hanno assegnato alla predetta libertà uno status di libertà «dimidiata», di un rango diverso ed inferiore rispetto alle libertà civili, non configurabile, diversamente da queste ultime, come diritto fondamentale e conseguentemente priva dei caratteri ritenuti propri (solo) di siffatti diritti, ove non addirittura, pur in contrasto con le risultanze dei lavori preparatori (e con la configurazione stessa di un diritto di libertà), di situazione soggettiva funzionalizzabile al mero perseguimento di quei fini di utilità sociale individuati dall’attività pubblica di programmazione dell’attività economica letta come «pianificazione» vincolante ed autoritativa, in linea peraltro con quelle altre previsioni della Costituzione economica italiana di cui all’art. 43 in tema di collettivizzazioni nonché di cui all’art. 42 in tema di «funzione sociale» della proprietà privata.

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Ora, ove si escludano le interpretazioni della disposizione in esame adottate - all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana - sulla suggestione di quelle posizioni presenti in Assemblea Costituente anche se rimaste sconfitte nel dibattito sull’approvazione delle norme relative ai rapporti economici, vistosamente incompatibili con il dettato costituzionale, appare ragionevole la molteplicità delle opzioni interpretative suscitate dal peculiare «statuto» dell’iniziativa economica privata delineato non solo dalla medesima disposizione in esame o dalle altre disposizioni costituzionali relative ai rapporti economici, ma anche - e forse soprattutto - dalla inevitabile connessione di queste ultime con i principi fondamentali, di eguaglianza oltre che di libertà, accolti dalla Costituzione repubblicana come cardini dell’intero ordinamento democratico. Alla stessa accusa rivolta nei confronti della normativa contenuta nell’art. 41 in esame di essere, non solo di difficile interpretazione, ma «disarmonica» o addirittura «contraddittoria» e «di compromesso» per il fatto di contenere ad un tempo l’affermazione di valori di libertà individuale ed il riconoscimento di esigenze di controllo e programmazione delle attività dei singoli da parte dei pubblici poteri nel nome di valori sociali e di interessi generali, è stata opposta (dalla dottrina ma più ancora dalla giurisprudenza costituzionale) la possibilità, anzi la necessità di una lettura unitaria della stessa norma, proprio alla stregua di quei principi fondamentali caratterizzanti il «nuovo» ordinamento costituzionale e volti ad esaltare la centralità della persona umana, in specie dei diritti assegnati a quest’ultima (in primo luogo dei diritti di libertà), in un’ottica di (eguale) garanzia dei singoli e delle formazioni sociali da essi create, nei confronti dei poteri pubblici e privati. In questa medesima prospettiva si è ritenuto di rintracciare nell’art. in esame il fondamento di un sistema ad «economia mista» (formula, questa, aspramente criticata), corrispondente non già ad un modello economico preciso, ma semplicemente ad un sistema risultante dal contemporaneo riconoscimento della libera iniziativa privata - che non deve, tuttavia, svolgersi in contrasto con l’utilità sociale né in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, su cui è fondato il sistema costituzionale - e da forme (eventuali) di intervento pubblico volte ad indirizzare e coordinare «a fini sociali» l’attività economica pubblica e privata.

1.4 L’art. 41 Cost. secondo il diritto comunitario

Le richiamate ambiguità sottese alla formula dell’art. in esame, quindi, sono state, almeno in parte, presto fugate dagli indirizzi della prevalente giurisprudenza costituzionale, affermatisi sin dai primi interventi della Corte costituzionale sul punto (nonché di una parte della dottrina), nel segno del riconoscimento e della garanzia della iniziativa economica privata come diritto di libertà e dell’esclusione della funzionalizzazione del diritto, oltre che dal fallimento di quell’unica esperienza di legge di programmazione, la l. 685/1967 contenente il «primo piano quinquennale», unanimemente classificata, in ragione dell’assenza in essa di qualunque contenuto normativo, «libro dei sogni». E tuttavia è solo con l’accelerazione del processo di integrazione europea avutasi all’inizio degli anni novanta - oltre che con il consolidamento del «primato» del diritto comunitario - che talune opzioni interpretative sono state definitivamente estromesse dal sistema, ritenendosi così avviato quello che è stato qualificato come il «processo di emancipazione dallo schema dirigistico prefigurato dalla Costituzione». La scelta in favore del «principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (art. 4.2 TCE), il divieto di aiuti pubblici alle imprese, unitamente con la proclamazione della libertà di circolazione dei capitali, delle merci, dei servizi e delle persone, immediatamente vincolanti per le politiche economiche degli Stati membri, hanno inevitabilmente inciso sulla portata dell’art. 41 imprimendo a quest’ultimo caratteri in parte nuovi, di cui il legislatore ordinario si è, in alcuni casi, fatto carico di assicurare gli «svolgimenti». È così che, da un lato, - in linea con l’affermazione comunitaria della centralità della tutela della concorrenza, «raccolta» e «sviluppata» dal legislatore ordinario, in particolare, con la l. 287/1990 - si sono dispiegate le virtualità concorrenziali «nascoste» nelle pieghe del 1° co. dell’art. in esame (non da tutti condivise in dottrina), ravvisandosi la libertà di concorrenza come naturale espressione dello svolgimento della libertà di iniziativa economica (oggi confermata dall’espressa consacrazione costituzionale della «tutela della concorrenza» nell’art. 117, 2° co., come sostituito dalla l. cost. 3/2001), e si è desunto dalla medesima previsione l’implicito riconoscimento (e l’implicita, connessa tutela) del mercato (concorrenziale) inteso come sistema oggettivo capace di esprimere il massimo realizzabile di efficienza economica e di crescita del tenore di vita collettivo; dall’altro, si sono fortemente ridimensionate quelle indicazioni di cui al 2° e 3° co. (fino al punto di indurre a ritenere le medesime previsioni «quiescenti» al pari di quelle di cui all’art. 43) volte a legittimare gli interventi pubblici nell’economia, anche alla luce di quel principio di «sussidiarietà orizzontale» consacrato dall’ordinamento comunitario, appunto, e volto a sanzionare definitivamente la recessività dell’intervento pubblico in economia, la sua progressiva riduzione ove non la sua emarginazione a fronte del riconoscimento della competenza generale e prioritaria del privato in materia economica.

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2. Commento

2.1 La nozione di «iniziativa economica»: l’«oggetto» tutelato dalla norma

L’elevata problematicità (richiamata supra) della interpretazione della disposizione in commento è subito dimostrata da quello che è stato, per molto tempo, un primo, centrale snodo interpretativo: quello della identificazione dell’oggetto tutelato dalla norma. Si sono, infatti, contrapposte, in dottrina, ipotesi molto diverse, con conseguenze ricostruttive talora inconciliabili. In primo luogo, si è ritenuto di distinguere l’«iniziativa economica» dal suo «svolgimento», ravvisando la prima nel solo atto propulsivo dell’attività (corrispondente alla decisione se intraprendere o meno un’attività economica e comprensivo della eventuale destinazione dei capitali al processo produttivo) di cui si è postulata l’assoluta libertà, il secondo, viceversa nella disciplina dello svolgimento della medesima attività ed in particolare nella disciplina dell’impresa, ritenuta al contrario assoggettata ai penetranti limiti di cui al 2° (ed al 3°) co. della medesima norma e, per certi versi, del tutto estranea al medesimo raggio d’azione della libertà.

Di tale ipotesi, che delineava una «frattura» interna della norma identificando, quindi, due distinti oggetti della stessa, è stata - fin da epoca risalente - esclusa la fondatezza, in particolare dalla giurisprudenza costituzionale che ha, in ripetute occasioni, affermato che la «garanzia posta nel 1° co. di quest’articolo [...] riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell’attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento», riconoscendo così l’unitarietà dell’oggetto tutelato dalla norma e la conseguente necessaria applicazione anche all’atto di iniziativa dei limiti posti dal 2° (e dal 3°) co. della stessa.

Tale soluzione non ha tuttavia sciolto definitivamente il nodo dell’oggetto tutelato dalla norma in esame. Altre ipotesi ricostruttive sono state, infatti, elaborate sul punto ed hanno portato alla prefigurazione di ulteriori scenari confliggenti.

Da un lato, vi è chi ha ritenuto di dover ricondurre all’art. in esame la sola attività di impresa, in ragione della parentela lessicale tra le parole «iniziativa» ed «intrapresa» economica connesse all’aggettivazione «economica» nonché alla definizione di imprenditore di cui al c.c. come colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (art. 2082 c.c.), facendo leva anche sull’idea che solo l’esercizio di una simile attività (corrispondente all’esercizio di un «fascio di libertà» fra cui la libertà di disporre dei beni, la libertà di investire i capitali, la libertà di destinarli alla produzione o allo scambio di beni o servizi o all’acquisizione di ricchezza, la libertà contrattuale, il potere di organizzare il processo produttivo) potesse giustificare l’eventualità, contemplata dal 2° co. della disposizione in esame, di uno svolgimento contrastante, in particolare, con la «dignità umana» e quindi la necessaria apposizione di limiti (con conseguente giustificazione della esclusione della configurazione della libertà economica come diritto della persona ed affievolimento della stessa).

Dall’altro, si è delineata la tesi di chi viceversa ha rintracciato nell’art. 41 la copertura costituzionale di ogni atto con cui il soggetto sceglie il fine economico che intende perseguire e, in via immediata, l’attività con cui organizza i mezzi per raggiungerlo, in linea con l’idea della configurazione della libertà economica come di un diritto di libertà propria della persona, giungendo a comprendervi non solo l’esercizio di una libera professione, ma anche la prestazione di lavoro subordinato o addirittura la scelta di formare organizzazioni sindacali di categoria o di aderire ad organizzazioni sindacali già esistenti.

Ora, al di là della complessità logica di una riconduzione di attività quali l’adesione o anche la formazione di organizzazioni sindacali di categoria o anche dello stesso lavoro subordinato al concetto di «iniziativa economica», occorre ricordare che tale tesi è stata, nei suoi estremi sviluppi, disattesa dalla prevalente dottrina e dalla stessa giurisprudenza costituzionale, la quale, tuttavia, sulla scia delle indicazioni dei lavori preparatori della Costituzione, ha egualmente escluso la riconducibilità alla sola attività di impresa dell’«iniziativa economica privata», essendo l’impresa soltanto una delle forme di esercizio dell’attività economica, rintracciando nella disposizione in commento il fondamento costituzionale (e la disciplina) anche di altre attività economiche sebbene non organizzate ad impresa, quali quelle occasionali o anche il lavoro autonomo, fino in alcuni casi a comprendervi (non senza vivaci critiche) l’esercizio di attività economiche consistenti nelle professioni intellettuali

Quanto, infine, alla possibilità di rintracciare nelle maglie della disposizione in commento un autonomo fondamento della libertà contrattuale, essa si è ritenuto potesse ravvisarsi solo ove fosse stata accolta la nozione ampia di iniziativa economica privata di cui si è detto sopra, corrispondente ad ogni attività da cui possa derivare un vantaggio economico a chi la svolge: una volta accantonata, come si è visto, tale ipotesi, la libertà contrattuale finisce con il risultare costituzionalmente fondata solo in quanto si riveli strumentale alla realizzazione di una situazione soggettiva espressamente protetta dalla Costituzione e corrispondente, ad

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esempio, alla libertà di iniziativa economica o al diritto di proprietà, cosicché ogni limite posto alla libertà contrattuale si rivela legittimo - come affermato dalla Corte costituzionale - solo in quanto «preordinato al raggiungimento degli scopi previsti e consentiti dalla Costituzione» in relazione alla situazione sostanziale e quindi anche in relazione all’iniziativa economica.

2.2 I limiti del 2° co. e la questione della riserva di legge

Al di là della questione della complessità (ove non dell’impossibilità) di una elencazione di tutte le attività specificamente riconducibili all’iniziativa economica di cui all’art. in esame, le indicazioni richiamate in relazione all’oggetto tutelato dalla norma confermano il dato dell’unitarietà della disposizione in esame, almeno alla stregua degli indirizzi ormai più che consolidati della giurisprudenza costituzionale. Questo comporta la conseguenza - segnalata sin da epoca assai risalente da una parte della dottrina - per la quale il 2° co. dell’art. in esame fa corpo con la proclamazione di libertà del 1° co. cosicché deve ritenersi che «il diritto di cui al 1° e al 2° co. dell’art. 41 non è riconosciuto dalla Costituzione in modo assoluto, ma solo entro i limiti fissati dal 2° co. dell’articolo stesso», limiti esterni al diritto, i quali incidono quindi sulla configurazione della situazione soggettiva di libertà. Quanto a tali limiti - che corrispondono al riconoscimento di altrettanti principi costituzionali, quali la libertà, la sicurezza, la dignità umana, nonché l’utilità sociale - si è posto il problema della loro operatività e si sono, anche in tal caso, fronteggiate due distinte tesi: l’una, confortata fin da epoca risalente dal conforme indirizzo della giurisprudenza costituzionale, secondo la quale essi sarebbero oggetto di una riserva di legge implicita, desumibile dagli stessi «principi generali informatori dell’ordinamento democratico secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell’organo che trae da costoro la propria diretta investitura»; l’altra che, viceversa, ne sostiene l’immediata precettività, ritenendo che, «indipendentemente da leggi che diano maggiore precisione o concretizzazione alle formule adottate dalla Costituzione lì dove essa stabilisce limiti, divieti o binari per lo svolgimento delle iniziative, i singoli siano tenuti a rispettare i limiti fissati dall’art. 41, 2° co., Cost., i giudici a decidere sul loro rispetto e le autorità esecutive, nei limiti della propria competenza, ad imporne l’esecuzione anche attraverso l’emissione di atti regolamentari». Quest’ultima tesi - che dietro l’idea dell’esistenza di una riserva di legge implicita in materia di limiti all’iniziativa economica privata ravvisa la inammissibile sopravvivenza, sotto mentite spoglie, della configurazione delle disposizioni costituzionali come meramente programmatiche (che aveva avuto «qualche successo» appena entrata in vigore la Costituzione repubblicana, ma che era stata, poi, presto superata in buona misura grazie al contributo della giurisprudenza costituzionale) - è stata ripresa e «sviluppata», in dottrina, con particolare riferimento agli interessi e diritti costituzionali contemplati nella seconda parte del 2° co. dell’art. in esame. Si è cioè evocata l’idea dell’immediata precettività della previsione dei limiti all’iniziativa economica privata corrispondenti alla tutela della libertà, della dignità umana e della sicurezza, interessi e diritti già espressamente contemplati in altre disposizioni costituzionali e quindi già immediatamente efficaci nei confronti dell’operatore economico sotto forma di doveri di rispetto delle situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (i diritti di libertà del dipendente e del terzo, la sicurezza del dipendente e del terzo, la dignità del dipendente e del terzo), ma suggestivamente richiamati attraverso la «formula omnicomprensiva» del 2° co. dell’art. in commento a fini di ulteriore garanzia dell’immediato rispetto dei medesimi da parte di chiunque eserciti la libertà economica. Detta preoccupazione - di assicurare il rispetto di quei diritti ed interessi già costituzionalmente tutelati - si è ritenuto, d’altro canto, che si giustificasse anche in considerazione delle peculiari caratteristiche della libertà economica, la quale si realizza prevalentemente attraverso atti giuridici aventi contenuto patrimoniale, implica la trasmissibilità, rinunciabilità e disponibilità dei singoli diritti che al titolare spettano sui vari beni costituenti l’azienda, ecc., caratteristiche che rendono ragione di una maggiore compressione della medesima nell’ipotesi di contrasto con i suddetti diritti ed interessi, e che costituiscono fondamento giustificativo, ad un tempo, della configurazione della predetta libertà come «diritto non essenziale della persona» ovvero della più estrema esclusione - sostenuta da altra dottrina, ma contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale - della medesima libertà dal novero dei diritti fondamentali, ritenuti dotati di un rango superiore e di caratteristiche quindi peculiari (fra cui, ad esempio, l’irrivedibilità), con conseguenze perciò assai più radicali sulla qualificazione della libertà in commento. Proprio le predette caratteristiche peculiari della libertà in commento, d’altro canto, giustificherebbero la necessità dell’intervento del legislatore ordinario, a prescindere dall’esistenza o meno di una riserva di legge implicita, tutte le volte in cui tale libertà possa essere pregiudicata dalla imposizione di un obbligo o di un divieto di carattere personale o patrimoniale (ai sensi dell’art. 23 Cost.) o anche allorquando - come in molte delle ipotesi cui si riferivano le decisioni della Corte costituzionale nelle quali è stata affermata l’esistenza di una riserva di legge implicita - detto intervento si riveli doveroso al fine di soddisfare il principio

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di legalità dell’azione amministrativa (ai sensi dell’art. 97 Cost.), delineandosi l’attribuzione di compiti o di poteri alla P.A.. In favore, tuttavia, del riconoscimento dell’esistenza di una riserva di legge implicita nel 2° co. dell’art. in esame, vanno, come si è detto, le indicazioni della Corte costituzionale, la quale, sin da epoca assai risalente, ha ritenuto di rintracciare, nelle pieghe delle disposizioni costituzionali in materia economica (artt. 41, 42, 43 e 44), «una chiara ispirazione unitaria, della quale la regola della riserva di legge, pur senza che si possa negare una certa sua varia modulazione, rappresenta sicuramente una costante»: costante che sembrerebbe confermata dallo stesso testo dell’art. 41 in esame, il quale, prevedendo espressamente, al 3° co., il necessario intervento del legislatore ordinario per la determinazione dei programmi e controlli opportuni «perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (per la definizione cioè di quelli che sono stati configurati come i limiti «positivi» dell’attività economica privata), si è ritenuto che non possa non esigere egualmente ancorché implicitamente, anche per i limiti negativi di cui al 2° co., il medesimo intervento del legislatore ordinario. E ciò tanto più ove si tenga conto che, fra i predetti limiti «negativi» di cui al 2° co., ve ne è uno, quello del non contrasto con «l’utilità sociale», la cui vaghezza ed indeterminatezza ne rende quanto meno complessa l’immediata operatività, implicando l’opportunità, ove non la necessità, dell’intermediazione del legislatore.

2.3 Il limite dell’utilità sociale: il contributo della giurisprudenza costituzionale

Quanto a quest’ultimo limite, è noto che fu oggetto del più acceso e contrastato dibattito, sin dal suo primo appalesarsi, in ragione della ritenuta difficile qualificazione della formula impiegata, tanto ampia (e generica) da essere considerata, in sede di Assemblea Costituente, da Einaudi, addirittura inconoscibile, in quanto espressiva di una norma indeterminata ed indeterminabile. Di una simile formula - che ha inciso ed incide non poco sulla stessa qualificazione della natura dell’iniziativa economica privata (diritto di libertà non fondamentale, situazione soggettiva funzionalizzabile, ecc.) - sono state proposte le più varie interpretazioni, e si sono delineati i più diversi contenuti, ravvisandosi in essa ora l’esigenza di raggiungere i massimi livelli di occupazione, attraverso una lettura proposta da Mortati che congiungeva in maniera sistematica l’art. 41 all’art. 4 Cost., ora il «recupero» della nozione utilitaristica di Bentham secondo cui essa corrisponderebbe alla «maggior quantità di benessere per il maggior numero possibile di uomini», ora ancora il «benessere economico collettivo» inteso quale «progresso materiale di tutti in condizioni di eguaglianza». In considerazione della oggettiva difficoltà di identificare una precisa definizione di «utilità sociale» e della «irriducibile poliedricità» della medesima, riferibile a due distinti campi applicativi costituiti ora dai rapporti interni dell’unità produttiva, ora dalla sua attività rivolta all’esterno, e quindi riferibile ora ai bisogni dei lavoratori dipendenti, ora a quelli dell’intera società ovvero di quei soggetti che nella singola fattispecie si presentino investiti dell’interesse sociale, si è proposta la qualificazione dell’utilità sociale quale «principio-valvola» che consente «l’adattamento dell’ordinamento al mutare dei fatti sociali», ma anche quale «concetto di valore» intriso di «giustizia sociale», che partecipa dei caratteri dei valori costituzionali che connotano l’ordinamento, e che quindi è teso alla realizzazione di quel progetto di trasformazione della società italiana voluto dal 2° co. dell’art. 3 Cost.. In tal modo, se da un lato si è esclusa ogni forma di «pietrificazione» della nozione di utilità sociale attraverso un unico intervento del legislatore, dall’altro si è riconosciuto il rilevante ruolo dello stesso nella individuazione delle singole (e svariate) fattispecie normative nelle quali si rintracci l’utilità sociale, ma soprattutto si è evidenziato il fondamentale compito dell’organo di giustizia costituzionale, chiamato a verificare, in virtù della propria posizione istituzionale di garante della Costituzione, in primo luogo i fini effettivamente perseguiti dalla legge (nel nome della necessità di evitare il contrasto con l’utilità sociale) e l’idoneità dei mezzi predisposti a perseguirli. Detto controllo (di cui si è sottolineata la estrema delicatezza in ragione del carattere complesso del parametro sia in relazione alla sua formazione, vale a dire al «ricorso a criteri non espressamente codificati o, come pure si dice impropriamente, extragiuridici», sia in relazione alla sua struttura, vale a dire alla «mutabilità e mobilità degli specifici valori che vi si incarnano»), è stato, sin da tempi assai risalenti, svolto dalla Corte costituzionale, la quale, a partire dalla sentenza 14/1964, ha provveduto a delineare i confini del proprio intervento, riconoscendosi competente a sindacare la palese contraddizione dei fini di utilità sociale perseguiti dal legislatore con i presupposti di fatto accertabili, la non assoluta inidoneità dei mezzi predisposti dal legislatore rispetto allo scopo ed infine il perseguimento di finalità palesemente diversa da quella di utilità sociale formalmente indicata. Le caratteristiche di un simile sindacato - sebbene non sempre identicamente svolto, ma talora connotato in termini più «formali» in quanto volto a verificare solo la riconducibilità dei fini perseguiti dalla legge allo spettro delle possibilità consentite dalle clausole costituzionali, altre volte invece più penetrante ed incisivo sulle scelte operate dal legislatore - rendono arduo desumere dalle pronunce della Corte una nozione di «utilità sociale» puntualmente definita, non solo in ragione del risvolto

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«negativo» del controllo (sono censurate le scelte del legislatore che non corrispondono ad una «utilità sociale»), ma anche per la varietà dei fini di volta in volta ritenuti idonei a configurare la predetta utilità sociale. E tuttavia, se una precisa definizione di utilità sociale si rivela inaccessibile, è comunque possibile rintracciare, al fondo delle decisioni in tema una «logica comune» corrispondente al principio «secondo cui sono di utilità sociale quei beni che non solo sono ritenuti tali dal legislatore ma che godono anche e soprattutto di diretta protezione e garanzia in Costituzione», che coincidano cioè con altri interessi o diritti costituzionalmente tutelati, quali, ad esempio, la salute, l’ambiente, il diritto al lavoro, ecc., interessi e diritti la cui tutela imponga, nel bilanciamento con l’iniziativa economica privata, una limitazione di quest’ultima, proprio alla stregua del 2° co. dell’art. 41 in commento. A tal proposito si è osservato che esisterebbe una sorta di «nucleo minimo» del concetto di utilità sociale corrispondente al complesso di «valori che la Costituzione protegge con norme specifiche in materia di libertà personale, sindacale, di espressione e di informazione, di insegnamento; di diritto alla salute, al salario «sufficiente», all’assistenza e previdenza; di tutela del paesaggio [...]», non tutti riconducibili ai limiti di cui alla seconda parte del 2° co. dell’art. 41 e cioè ai limiti della libertà, sicurezza e dignità, ma riferibili anche ad altre situazioni soggettive espressamente protette dalla Carta costituzionale, come ad esempio quelle relative ai diritti sociali, in particolare ove considerati in relazione ai loro presupposti storici di strumenti di attuazione della libertà eguale. In questa direzione vanno quelle decisioni nelle quali la Corte ha riconosciuto il fondamento costituzionale di utilità sociale di quelle limitazioni poste dal legislatore all’attività imprenditoriale nel nome della tutela del diritto dei lavoratori al riposo settimanale o del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale o della tutela della donna lavoratrice. Non contraddicono quanto sopra evidenziato, anzi sembrano confermare la tesi della esistenza di un «nucleo minimo» della nozione di utilità sociale in parte coincidente con i limiti di cui alla seconda parte del 2° co. della norma in commento, quelle decisioni della Corte nelle quali si sono individuati, contestualmente, come fondamenti costituzionali delle limitazioni poste all’iniziativa economica privata dal legislatore, sia i limiti di cui alla seconda parte del 2° co. dell’art. in commento, sia il limite dell’utilità sociale, quasi a «rafforzare» la scelta operata dal legislatore e a suggerire una sostanziale contiguità fra gli indicati limiti nel nome della tutela dei diritti e degli interessi costituzionalmente tutelati e quindi della necessità di un contemperamento degli stessi con la libertà di iniziativa economica. È così che la Corte ha rintracciato il fondamento del limite posto all’iniziativa economica avente ad oggetto il gioco d’azzardo nel contrasto con l’utilità sociale oltre che nel danno a libertà, sicurezza e dignità umana arrecato dal gioco d’azzardo; così pure ha ritenuto di ravvisare una ragione di utilità sociale nell’abolizione del lavoro notturno dei fornai necessario a garantire la salute - e quindi anche la sicurezza - dei fornai Il riferimento al limite dell’utilità sociale, congiuntamente ai limiti della libertà, sicurezza e dignità, ha, d’altra parte, caratterizzato la giurisprudenza costituzionale degli anni novanta, con particolare riferimento alla tutela del diritto dell’individuo a vivere in un ambiente non degradato: se, infatti, nella sentenza 427/1995, la Corte, chiamata a pronunciarsi sul condono edilizio, ha rigettato le censure prospettate in relazione alla presunta lesione di interessi costituzionalmente protetti quali la dignità umana, minacciata dall’abusivismo edilizio, ritenendo detti interessi, corrispondenti all’utilità sociale, adeguatamente tutelati dai rilevanti limiti posti al condono (sul tema è «tornata» nella recente sentenza 196/2004, nella quale ha sottolineato il necessario contemperamento fra gli interessi coinvolti, realizzato nel nome dell’utilità sociale, dalla disciplina sul condono quali la tutela del paesaggio, della cultura, della salute, oltre che di quegli altri interessi, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell’abitazione e del lavoro), nella ord. 186/1996, in tema di rifiuti speciali di origine industriale, assimilabili agli scarichi tossici e nocivi, ha rintracciato il fondamento giustificativo degli obblighi di comunicazione inerenti alla quantità e qualità dei rifiuti prodotti non tanto e non solo nel limite dell’utilità sociale (più volte successivamente connesso alla tutela dell’ambiente), quanto esplicitamente nel limite della sicurezza, libertà e dignità umana «da ricollegarsi anche alla tutela dell’ambiente» in cui l’individuo vive.

In alcuni casi, tuttavia, è più arduo rinvenire le tracce di quella «logica comune» alla maggior parte delle pronunce della Corte sul tema di cui si è detto prima: è accaduto, infatti, in alcune occasioni, che siano stati ritenuti di «utilità sociale» interessi attinenti alla sfera squisitamente economica, più difficilmente riconducibili alle previsioni espresse di cui alla carta costituzionale e corrispondenti a valori economici generali quali l’incremento della produzione, «l’equilibrio locale di mercato tra domanda e offerta», i «valori aziendali» della concorrenzialità e competitività delle imprese nonché il «sistema economico produttivo vigente», tutti valori il cui fondamento è rintracciato nella stessa proclamazione costituzionale della libertà di iniziativa economica anche se sganciati dalla sfera della libertà di iniziativa ed ancorati piuttosto al mercato inteso quale struttura oggettiva. Di quest’ultimo - del cui implicito (e consapevole) riconoscimento nelle maglie del medesimo art. 41, in sede di Assemblea Costituente, si è, in dottrina, dubitato, rintracciandosi la «scoperta» del medesimo solo sulla scia dell’integrazione comunitaria - si sono rinvenuti i caratteri di quei fini di utilità sociale «ai quali deve

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essere finalizzata l’attività imprenditoriale», nonostante essi si siano risolti in una compressione ad un tempo di diritti ed interessi «altri», quali ad es. i diritti dei lavoratori subordinati dell’impresa, ed anche degli stessi diritti di iniziativa economica degli altri operatori, in una prospettiva di prevalenza della protezione del «sistema economico vigente». Si è, in altri termini, finito con l’intendere l’utilità sociale come una sorta di «ordine pubblico economico», ma in un senso che sembrerebbe piuttosto distante da quello fatto proprio dalla dottrina francese ed accolto, sulla suggestione di quest’ultima, anche in Italia, già sul finire degli anni sessanta: non già, infatti, come la risultante della «combinazione» del principio di libertà (di iniziativa economica privata) con il principio di giustizia, rispetto al cui soddisfacimento il miglioramento delle condizioni economiche complessive o l’efficienza del sistema economico possano rivelarsi strumentali, ma piuttosto come l’insieme delle ragioni della produttività e dell’efficienza del sistema economico nazionale (le ragioni del «mercato»), elevate a ragioni giustificatrici del sacrificio delle sfere di libertà del soggetto, ivi compresa la libertà economica costituzionalmente consacrata. Tale «eterogenesi» dei fini di utilità sociale - contraddetta in altre decisioni della Corte, nelle quali si è viceversa sottolineato il carattere meramente strumentale dell’efficienza del sistema economico complessivo rispetto ai principi di libertà ed eguaglianza - si sarebbe determinata in corrispondenza della affermazione comunitaria, enfatizzata dalla accelerazione del processo di integrazione, del mercato concorrenziale e della conseguente necessità di leggere le disposizioni del dettato costituzionale in materia economica in maniera conforme rispetto alle indicazioni comunitarie. Si accendeva così il dibattito attorno alla possibilità di rintracciare nelle maglie della disposizione in commento il riconoscimento costituzionale della libertà di concorrenza o ancora del mercato (concorrenziale) e non solo con riferimento alla clausola dell’utilità sociale, come dimostrato dalla stessa l. 287/1990, la quale reca «norme per la tutela della concorrenza e del mercato» «in attuazione dell’art. 41 Cost. a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica».

2.4 Iniziativa economica privata e tutela della concorrenza

Se in dottrina si è da tempo sostenuto - sebbene con autorevoli voci dissenzienti - che fosse possibile desumere, sulla base delle stesse indicazioni dei costituenti, dall’art. in commento il fondamento costituzionale della libertà di concorrenza, come libertà per certi versi conseguente alla configurazione della libertà di iniziativa economica quale libertà valevole erga omnes, e cioè non solo nei confronti dello Stato e dei pubblici poteri ma anche nei confronti degli altri privati, così da qualificarla quale «eguale possibilità» di tutti i privati «di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore» e quindi «di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine», si è anche rilevato che solo con l’adesione dell’ordinamento italiano all’ordinamento comunitario, ed in particolare con gli sviluppi di quest’ultimo, si sono forniti robusti strumenti di tutela della concorrenza, e di resistenza nei confronti di quelle letture dei limiti posti all’iniziativa economica privata dallo stesso 2° co. dell’art. in esame volte a determinarne una surrettizia estensione in favore dell’intervento diretto dello Stato nell’economia, fino a giungere alla consacrazione costituzionale espressa della concorrenza, operata dall’art. 117 come modificato dalla l. cost. 3/2001, quale bene o fine o valore costituzionalmente rilevante da perseguire, assegnato, nell’ambito della nuova ripartizione di competenze fra diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Tale percorso interpretativo - che si snoda lungo traiettorie non sempre identiche, muovendo dalla libertà di concorrenza e passando attraverso il mercato concorrenziale comunitario e la concorrenza tout court di cui al nuovo art. 117 - ha coinciso con una diversa declinazione della concorrenza nella stessa giurisprudenza costituzionale. E, infatti, se è possibile rinvenire in alcune decisioni più risalenti della Corte la qualificazione della concorrenza quale libertà che «integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori» ed è ad un tempo «diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti ed a contenerne i prezzi», o ancora quale «valore basilare della libertà di iniziativa economica [...] funzionale alla protezione degli interessi dei consumatori», è nelle decisioni più recenti che sembra sfumare il richiamo alla concorrenza nei termini di libertà ed accentuarsi invece una diversa «dimensione» della medesima nozione proprio sulla suggestione delle indicazioni comunitarie. Nella sent. 14/2004 la Corte, infatti, non solo afferma che «dal punto di vista del diritto interno la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario, che comprende interventi regolativi, misure antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza», ma precisa anche che la tutela della concorrenza «costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota

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al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali»: con ciò adombrando l’idea di una valenza oggettiva del mercato concorrenziale, inerente non più tanto o comunque soltanto alle sfere di libertà dei soggetti (comprensive della libertà di concorrenza, intesa come una sorta di «altra faccia» della libertà di iniziativa economica dei soggetti) quanto al sistema economico oggettivamente considerato, in linea con quel principio «ordinatore» della Comunità di un’«economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (art. 4, 1° co., TCE) per la realizzazione del quale sembra pertanto possibile il sacrificio o comunque la compressione delle medesime sfere di libertà economica consacrate dall’art. in commento.

2.5 I «programmi» e i «controlli»

Nell’orizzonte dell’art. in esame in precedenza delineato, il riconoscimento della iniziativa economica privata di cui al 1° co. come libertà consente di leggere i limiti ad essa apposti dal 2° co. come limiti «esterni» all’attività economica privata: il che vuol dire che l’attività economica è garantita anche ove non persegua fini di utilità sociale o non miri allo sviluppo della libertà, della sicurezza e della dignità umana, essendo sufficiente - per soddisfare il precetto costituzionale - che essa non sia svolta in contrasto con tali valori. Nella medesima prospettiva di riconoscimento e tutela della «libertà economica» si svela - di contro a letture «funzionaliste» che non poca fortuna hanno avuto in particolare negli anni sessanta e settanta, sulla base di una fraintesa contiguità con la disciplina delle collettivizzazioni prevista dall’art. 43 - la portata della previsione del 3° co. della disposizione in commento, nella parte in cui attribuisce alla legge il compito (la facoltà) di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Si è, infatti, rilevato che, «se si ritiene che tra le attività economiche private rientrino quelle che costituiscono lo svolgimento della libertà di iniziativa (art. 41, 1° e 2° co.), la conclusione è evidente: la previsione di «fini sociali» da perseguire con programmi e controlli non può implicare negazione di quella libertà». E infatti non può ritenersi che la legge determinativa di programmi e controlli abbia la capacità di far venir meno il principio della libertà dell’iniziativa economica non solo in ragione della unitarietà dell’art. 41 (e dei suoi tre commi), ma anche sulla base delle risultanze dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, che rivelano che, in sede di dibattito, la scelta dell’introduzione del termine «programmi» - in luogo di «piani» - nonché del termine «controlli» implicasse un regime di libertà dell’iniziativa economica privata, pur soggetta a limiti importanti: in questa chiave, la legge determinativa dei programmi e controlli già si riteneva non potesse far altro che indicare degli obiettivi, dotati di una valenza puramente orientativa o persuasiva o «indicativa» (ad esempio mediante misure di incentivazione), e non autoritativa, senza quindi incidere sulla libertà del privato di determinare le proprie iniziative e di organizzarsi di conseguenza. Il che è stato in più occasioni ribadito dalla stessa Corte costituzionale, la quale ha precisato che i «programmi» ed i «controlli» non devono essere tali da sopprimere l’iniziativa privata ma solo da indirizzarla e condizionarla, e che - sebbene non debbano essere tali da condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell’attività economica di cui si tratta, sacrificando le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle stesse scelte organizzative - essi possono affermarsi in vista del perseguimento di fini di utilità sociale, come nel caso dell’assunzione obbligatoria di determinate categorie di soggetti (orfani di guerra, invalidi), particolarmente meritevoli di tutela o nel caso del divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa del matrimonio, a tutela della libertà e dignità delle donne lavoratrici o ancora nel caso della previsione della chiusura settimanale dei pubblici esercizi e la disciplina dell’orario dei negozi, connesse alla tutela del diritto del lavoratore al riposo.

La previsione del 3° co. dell’art. in esame presuppone pertanto alcuni elementi: in primo luogo, la consapevolezza dell’incapacità del mercato di autoregolarsi e di garantire l’«ottimo sociale» e la conseguente attribuzione alla legge del compito di regolazione dell’attività economica in vista della necessità di correggere i «fallimenti» del mercato; in secondo luogo, la garanzia della «riserva (relativa) di legge» in base alla quale solo la legge può intervenire a limitare, sempre dall’esterno, l’attività economica e deve farlo determinando criteri e direttive idonei a contenere in un ambito ben delineato sia l’attività normativa secondaria che la concreta esecuzione amministrativa; ancora, la scelta di una «programmazione» indicativa o per incentivo, contrapposta ad ogni forma di pianificazione totalitaria, di per sé incompatibile con il riconoscimento della libertà economica. Tale ultimo elemento impone una ulteriore riflessione: la legge determinativa dei programmi e controlli opportuni, perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali, ha ad oggetto non solo l’attività economica privata, che costituisce esercizio della libertà di iniziativa economica privata consacrata dall’art. in commento, ma anche l’attività economica pubblica. Quest’ultima indicazione, mentre svela la possibilità che l’attività economica sia svolta dai pubblici poteri in condizioni di parità e di concorrenza

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con i privati imprenditori - possibilità che ha aperto le porte allo Stato imprenditore e moltiplicato negli anni le forme di intervento pubblico nell’economia, portando alla proliferazione degli enti, dagli enti pubblici economici alle società a partecipazione statale, in un’ottica di governo dell’economia teso, almeno negli intenti, a realizzare la direzione politica del processo economico ed il contestuale rispetto del mercato e delle sue leggi (dalla l. 136/1953, istitutiva dell’Eni, alla l. 1589/1956, istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali, al d.p.r. 1670/1962 regolante l’organizzazione dell’Enel) -, sollecita la precisazione che detta attività non costituisce e non può costituire esercizio di una libertà, ma piuttosto una funzione, assegnata dalla legge al soggetto pubblico e strutturalmente destinata a soddisfare esclusivamente la finalità sociale per la quale tale attività viene imputata al soggetto pubblico, in una prospettiva di garanzia di non pregiudizio dei privati.

È soprattutto dagli anni novanta, tuttavia, che tale «delimitazione» dell’intervento pubblico nell’economia si è andato profilando in linea anche con una «ripresa» del principio di sussidiarietà dell’azione statale nel settore della produzione economica, principio - secondo il quale «l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato» e «può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta» - già affermato nella dichiarazione IX della Carta del Lavoro, recepito da Pio IX nella enciclica Quadragesimo anno e ribadito dalla Centesimus annus, ma tornato in auge anch’esso sulla spinta dell’integrazione comunitaria (ed oggi costituzionalmente consacrato nel diverso ambito della ripartizione dell’attività amministrativa dall’art. 118).

Rispetto a tale riscoperta risulta viceversa assai datato il dibattito relativo alle leggi di «programmazione». È infatti noto che le più attente analisi sul punto si sono avute attorno agli anni sessanta, nei quali si riteneva opportuno impostare la politica di programmazione economica generale, al fine di ottenere il duplice risultato dell’attribuzione al Parlamento della elaborazione delle scelte strategiche in campo economico attraverso la legge e della tutela, mediante la legge, delle situazioni giuridiche soggettive. La legge di programmazione, in altri termini, avrebbe dovuto sottrarre alla «mutevole facoltà del potere esecutivo» la determinazione degli indirizzi di politica economica ed assicurare continuità all’indirizzo politico legislativo in materia economica, superando la frammentarietà degli interventi che avevano caratterizzato la politica economica dei primi governi di centrosinistra, condannati a vita breve. L’obiettivo era quello di applicare il metodo della programmazione economica generale per individuare i fini di politica economica da perseguire ed i mezzi adeguati per raggiungerli, delineando le apposite procedure di programmazione. Di contro alle indicazioni costituzionali, è in questa fase che viene recuperato il riferimento ai «piani» (nel segno della necessità di assicurare «una legislatura, un Governo, un Piano»), anche se l’unica esperienza - peraltro destinata al fallimento - di legislazione di piano sarebbe stata quella della l. 685/1967, di approvazione del «Primo piano quinquennale 1966-1970», tesa - almeno secondo le indicazioni contenute nella stessa legge cui era allegato il Piano - a definire «il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici». Anche tale esperimento - come si è detto fallito prima ancora di essere attuato - ha sollevato un dibattito dottrinale, dividendosi la dottrina fra chi sosteneva l’opportunità (ove non la necessità) di una simile legislazione a fini ad un tempo di identificazione precisa degli obiettivi economici da perseguire - e quindi di vincolo ai governi - e di tutela degli operatori economici stessi e chi, viceversa, segnalava l’inutilità del ricorso alla legislazione, essendo sufficiente l’atto di direttiva parlamentare per la specificazione dell’indirizzo politico assunto dal programma.

Il diritto al lavoroIl diritto al lavoroIl diritto al lavoroIl diritto al lavoro In un’impresa, colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi si avvale di manodopera. L’imprenditore assume persone fisiche concludendo con ognuno di lavoro contratti individuali di lavoro. Così, l’imprenditore è il datore di lavoro, mentre il personale è composto da lavoratori subordinati. Il lavoro lavoro lavoro lavoro assume uno specifico rilievo nella nostra Costituzione: - « l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1, primo comma); - «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, secondo comma); - «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità

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e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4); - «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero» (art. 35); - «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi» (art. 36); - «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione» (art. 37); - «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera» (art. 38); - «l’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce» (art. 39);

- «il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano» (art. 40); - «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della

produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (art. 46).

A queste disposizioni si aggiungano, tra le altre, le previsioni sul C.n.e.l. (art. 99) e sui rapporti tra legge statale e legge regionale (art. 117 e, anche, l’art. 120).

Si è già detto che il principio lavorista è annoverato tra i princìpi fondamentali del nostro ordinamento, in quanto il lavoro è la forma privilegiata di pieno sviluppo della personalità e di effettiva partecipazione alla vita comunitaria.

Il diritto del lavorodiritto del lavorodiritto del lavorodiritto del lavoro è una branca importante dell’ordinamento giuridico. Essa include norme

contenute nel codice civile e in altre leggi ordinarie di fondamentale importanza, a cominciare da cd. statuto dei lavoratoristatuto dei lavoratoristatuto dei lavoratoristatuto dei lavoratori, ossia la legge n. 300 del 1970. A tali norme vanno aggiunte, per l’importanza che verrà sottolineata più avanti, le regole poste dai contratti collettivi di lavoro, i quali sono sì negozi giuridici di diritto privato, ma producono effetti cogenti assimilabili a quelli dispiegati dalle fonti del diritto.

Prima di passare in rassegna le previsioni costituzionali dedicate al lavoro, appare necessario

fornire alcuni concetti basilari. Secondo l’art. 2094 del codice civile, «è prestatore di lavoro subordinatoprestatore di lavoro subordinatoprestatore di lavoro subordinatoprestatore di lavoro subordinato chi si obbliga

mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».

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Il rapporto giuridico che lega il lavoratore subordinato al datore di lavoro scaturisce da un apposito negozio giuridico bilaterale a prestazioni corrispettive, ossia il contratto individuale di lavorocontratto individuale di lavorocontratto individuale di lavorocontratto individuale di lavoro. È bilaterale in quanto per il suo perfezionamento esige la convergenza delle volontà manifestate dalle due parti. È a prestazioni corrispettive (o sinallagmatico), giacché il lavoratore s’impegna a prestare la propria opera materiale o intellettuale, mentre il datore di lavoro s’impegna ad erogare lo stipendiostipendiostipendiostipendio, consistente in una somma di denaro (→ salario).

Secondo l’art. 2099 del codice civile, la retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo e deve essere corrisposta nella misura determinata, con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. In mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali.

Nel determinare le obbligazioni nascenti dal contratto individuale, le parti sono tenute ad attenersi ai contratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori nel settore merceologico interessato. Ciò vale per lo stipendio. Ciò vale anche per le mansioni, per le ferie, per il riposo settimanale, per l’orario di lavoro, per i periodi di astensione per malattia, e così via.

Il lavoratore dipendente deve essere adibito alle mansionimansionimansionimansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

Il prestatore di lavoro deve usare la diligenzadiligenzadiligenzadiligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale, come recita testualmente l’art. 2104 del codice civile.

Quanto all’epilogo del rapporto individuale di lavoro, il codice civile stabilisce che ciascuno dei contraenti può recedererecedererecedererecedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.

Inoltre, ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda.

Dal canto suo, l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, come modificato nel 2012, stabilisce che il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti di licenziamento di cui alle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazionereintegrazionereintegrazionereintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Il giudice, con la precedente sentenza, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del risarcimento del risarcimento del risarcimento del dannodannodannodanno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento

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non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazionein sostituzione della reintegrazionein sostituzione della reintegrazionein sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.

Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

La descritta disciplina si applica al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratoripiù di quindici lavoratoripiù di quindici lavoratoripiù di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

Fatto questo inquadramento generale, e a dire il vero molto semplificato, il primo passo per la disamina del tema è il seguente: il “lavoro” è un diritto soggettivo diritto soggettivo diritto soggettivo diritto soggettivo a tutti gli effetti ? In effetti, come si è visto la stessa Costituzione parla di diritto al lavoro, al primo comma dell’art. 4. L’ordinamento italiano dunque configura un vero e proprio diritto soggettivo al lavoro ? Oppure questa configurazione è destinata ad operare non prima dell’instaurazione di un rapporto individuale di lavoro bensì dopo ? Non è una differenza da poco. Se esistesse un diritto soggettivo al lavoro anche prima della instaurazione di un simile rapporto, allora in caso di rifiuto opposto dall’imprenditore al potenziale lavorator dipendente determinerebbe una lesione illegittima ad un diritto soggettivo, con conseguente azione legale per ottenere il ripristino di tale diritto. Questo, però, significherebbe sancire l’obbligo per l’imprenditore di assumere tutti coloro che ne fanno richiesta.

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E, poi, cosa s’intende per “dovere” al lavoro ? Certamente, una volta stipulato il contratto individuale di lavoro, il dipendente è tenuto a prestare la propria opera. E prima si è davvero in presenza di un obbligo giuridico a lavorare, ossia a cercare un’occupazione ? Il seguente commento di Cariola aiuterà a sciogliere questi interrogativi. A. CARIOLA, Commento all’art. 4, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 114 ss. …

2.1 La parabola del diritto al lavoro tra istanze di trasformazione sociale e processi di integrazione sovranazionale

I profili di trasformazione del diritto al lavoro appaiono su tanti versanti. La proclamazione costituzionale dell’art. 4 Cost. è stata, insieme all’affermazione dell’eguaglianza

sostanziale, uno dei motori di sviluppo della nostra storia repubblicana. Dopo le prime letture che ne riducevano l’efficacia quale norma esclusivamente programmatica, e che la intendevano quale riconoscimento di una libertà negativa, tesa a «che i pubblici poteri si astengano da qualsiasi intervento rivolto ad impedire l’attività del lavoro dei privati», l’art. 4 Cost. è divenuto il principio propulsore ed il campo di prova dell’estensione dei diritti di libertà nel campo dei rapporti privati, secondo ciò che con espressione tedesca è indicato con il termine di Drittwirkung, e dell’affermazione dei valori costituzionali riguardo il lavoro nel naturale ambito dei rapporti di produzione.

Dovrebbe dirsi che l’art. 4 Cost. e le altre norme costituzionali sul lavoro hanno trovato nello st. lav., il loro momento di massima affermazione. La nota e spesso ripetuta frase di G. Di Vittorio, secondo cui occorreva «portare la Costituzione nelle fabbriche» indicava, in fondo, il successo della Costituzione repubblicana quale strumento di integrazione delle forze sociali, atteso, appunto, che a quella Costituzione si guardava come ad un modello in cui riconoscersi, anche perché frutto del proprio patrimonio ideologico; ed, al tempo stesso, rilevava quale tendenza di un’interpretazione estensiva dei principi costituzionali medesimi, colti nel loro aspetto dinamico. Lo st. lav., in altri termini, interpretava ed integrava il quadro delle norme costituzionali sul lavoro, rappresentando un vero e proprio pezzo della costituzione materiale del nostro Paese (e certo ben più delle pressoché coeve proclamazioni degli Statuti regionali del 1971, che pure dedicano al lavoro numerose previsioni).

È plausibile ritenere che tali sviluppi hanno scontato una lettura classista delle norme sul lavoro39, ma è pur vero che le proclamazioni costituzionali hanno dimostrato di possedere maggiore efficacia proprio in virtù ed in forza di tali tendenze.

Per altro verso, la considerazione degli interessi propri delle classi lavoratrici ha indotto nell’Italia degli anni settanta a teorizzare l’utilizzo degli istituti giuridici (sia pure borghesi) in funzione di tutela delle medesime classi. Ora, a parte le questioni circa l’accettabilità sul piano metodologico dell’uso alternativo del diritto, va riconosciuto che lo stesso ha contribuito a guardare con occhio critico al formalismo dommatico e a rinnovare l’attenzione per gli interessi (e i valori) fatti oggetto di tutela da parte delle norme costituzionali.

In siffatta prospettiva, per così dire, materialmente costituzionale non può non rilevarsi, d’altra parte, il mutamento della tavola di valori costituzionali che si sta producendo ad opera dell’integrazione comunitaria europea e dei fenomeni di globalizzazione.

Già in ambito nazionale è profondamente cambiato il lavoro, soprattutto quello operaio fatto oggetto di considerazione e di tutela da una ormai lunga tradizione sociale e politica. Può forse essere uno slogan ad effetto notare che il figlio dell’operaio una volta adibito alla catena di montaggio, è oggi un promotore finanziario che celebra le alterne fortune della borsa. La realtà sociale quotidiana continua a conoscere fenomeni di marginalizzazione e di diseguale distribuzione delle risorse, che segnano le classi sociali ed i relativi processi di trasformazione. Eppure, è anche vero che una considerazione unitaria del lavoro non è più possibile, né sotto il profilo legislativo, né tantomeno sotto quello sociale, attese, appunto, le rilevanti differenze intervenute tra i vari settori produttivi. Si aggiunga che sembra assai mutato anche il ruolo che si è disposti a riconoscere all’azione pubblica volta ad investimenti di carattere sociale ed a ridurre le diseguaglianze.

In termini assai sintetici, va poi notato che in ambito comunitario il lavoro e la sua tutela non assumono quel carattere di fondamentalità che li distingue nell’ambito della Costituzione repubblicana.

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Il dibattito circa la compatibilità tra i principi della nostra Costituzione e quelli propri del processo costituente europeo si infiamma periodicamente per poi perdere di interesse dinanzi all’ineluttabilità - del resto ampiamente voluta e condivisa tra le forze politiche e sociali - dell’integrazione europea. Come è stato ancora di recente osservato a proposito della crisi delle fonti nazionali e statali, l’erompere delle fonti comunitarie nell’ordinamento interno e la presenza di un sistema giudiziario europeo finiscono per riflettersi sulla tavola dei valori materialmente costituzionali che non sono più (solo) quelli della Costituzione del 1947, mentre i fenomeni di globalizzazione economica danno vita a processi anche di produzione normativa che non sono per intero dominabili dallo Stato.

Invero, in ambito europeo la preoccupazione per i problemi sociali è stata a lungo tempo secondaria «rispetto a quella di promuovere un grande mercato unificato, fondato sulla concorrenza». L’azione delle Comunità nel campo delle politiche sociali si è progressivamente estesa in corrispondenza delle disposizioni che sono state aggiunte ai Trattati istitutivi, ma proclamazioni analoghe a quella dell’art. 4 Cost. (così come di altre Costituzioni) continuano ad essere assenti nel TCE e nel TUE.

L’art. 2 del TCE assegna alla Comunità «il compito di promuovere [...] un elevato livello di occupazione e di protezione sociale», ed il successivo art. 3 prevede che l’azione della Comunità comporta «i) la promozione del coordinamento tra le politiche degli stati membri in materia di occupazione al fine di accrescerne l’efficacia con lo sviluppo di una strategia coordinata per l’occupazione; j) una politica nel settore sociale comprendente un Fondo sociale europeo; k) il rafforzamento della coesione economica e sociale». Ma può dirsi che il nucleo duro di tale valore comunitario sta nella libera circolazione dei lavoratori (artt. 48-51, ora 39-42), e solo con il Trattato di Amsterdam si è introdotto il Titolo VI- bis (ora VIII) sulle politiche europee per l’occupazione, con la sanzione formale secondo cui gli Stati membri considerano «la promozione dell’occupazione una questione di interesse comune» (art. 126).

La promozione di un elevato livello di occupazione è indicata, poi, tra gli obiettivi dell’Unione Europea (art. 2 del Trattato di Maastricht).

Non si possono certo negare il rilievo e l’importanza delle politiche europee per l’occupazione, né si può trascurare il peso determinante della giurisprudenza europea in tema di libertà di circolazione, sulla parità di trattamento e sul divieto di discriminazione. Anzi, l’azione della Comunità si è manifestata ampiamente attraverso l’adozione di direttive che hanno inciso su campi assai significativi e a mezzo del Fondo sociale europeo e dell’attività che ne è derivata. Epperò, la norma di principio dell’integrazione europea rimane quella dettata dall’art. 4 (3A) del TCE, che proclama l’adesione al modello di «un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza». Il riconoscimento del diritto al lavoro (inteso come libertà) può farsi rientrare tra i «principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri», che per l’art. 6 (A) del Trattato di Maastricht danno fondamento e fisionomia all’Unione Europea. Ed è certo che la caratterizzazione sociale dello Stato contemporaneo accomuna i Paesi europei (art. 3 Cost. Italia; art. 20 Grundgesetz tedesco; art. 1 Cost. Spagna, ecc.), e che di siffatta caratterizzazione la tutela del lavoro rappresenta la parte qualificante. Ma è altrettanto evidente che in ambito comunitario si tratta di un riconoscimento indiretto, che muove pur sempre dalla premessa circa la necessità di assicurare condizioni di libera concorrenza alle imprese. Si pensi che la stessa Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, approvata dal Consiglio l’8-9 dicembre 1989, ha finito con il prevedere «il minimo comune denominatore dei diritti già riconosciuti» in ambito nazionale, sempre, peraltro, al fine di «impedire la concorrenza verso il basso delle condizioni di lavoro, cioè un dumping sociale» estremamente contrario alle politiche ed ai principi medesimi dell’integrazione europea.

Il fatto è che l’integrazione comunitaria sembra in gran parte svolgersi sul presupposto di taluni valori, e più in generale di una cultura, segnati dalle idee di concorrenza e competitività, tipici appunto della cultura imprenditoriale, e relativamente ai quali i diritti c.d. sociali assolvono funzione comprimaria, per così dire, di correzione, di integrazione o di vero e proprio limite, ma sempre in riferimento ad un "progresso economico e sociale" prodotto dall’attività di imprese operanti in regime di mercato.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, in fondo, ha codificato principi già riconosciuti nell’ordinamento comunitario. Il diritto di lavorare e di esercitare una professione è garantito dall’art. 15 sempre come libertà, ma è significativo che si sia prestata attenzione alla parità tra uomini e donne (art. 23), al diritto dei lavoratori all’informazione ed alla consultazione (art. 27), al diritto di negoziazione e di azioni collettive di autotutela compreso lo sciopero (art. 28), alla tutela in caso di ingiustificato licenziamento (art. 30), al diritto ad avere condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (art. 31), al divieto di lavoro minorile ed alla protezione del lavoro svolto dai giovani (art. 32), ai diritti della donna lavoratrice (art. 33), alla sicurezza ed all’assistenza sociale (art. 34). Nella Carta non hanno trovato, invece, posto le politiche europee per l’occupazione, mentre sul valore giuridico delle proclamazioni della Carta

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medesima riguardo al lavoro sembra pesare la circostanza che le stesse rimandano alla disciplina comunitaria e nazionale e persino alla prassi (artt. 27, 28, 30 e 34), di modo che il contenuto di principio risulta in gran parte riepilogativo e riassuntivo.

Da questo punto di vista potrebbe osservarsi che il paradigma di costruzione dei diritti sociali ha assunto dapprincipio (lo Stato nazionale e) l’ambito statale come livello di riferimento e il tentativo di dare effettività a tali situazioni e di sancire anche a loro riguardo il carattere di fondamentalità sembrerebbe scontare oggi i limiti segnati dal superamento dello Stato nazionale, oltre che dalla disponibilità delle risorse. Sempre in questa prospettiva potrebbe concludersi nel senso che aveva visto correttamente quella dottrina che aveva inteso l’art. 4 come riconoscimento del diritto a lavorare e, quindi, innanzitutto come libertà.

Senonché una conclusione in tali termini sarebbe probabilmente affrettata. Letto alla luce del processo di integrazione comunitaria e dei suoi sviluppi applicativi, il diritto al lavoro sancito dall’art. 4 Cost. dimostra di possedere una notevole vitalità, atteso che il diritto comunitario ha dato prova di poter rendere justiciable almeno profili del diritto in questione e di attribuirgli, allora, un’effettività cui l’orizzonte esclusivamente statalistico non era pervenuto. Il riferimento è a quei profili del diritto al lavoro che maggiormente intercettano la tavola dei valori comunitari, si tratti della parità di accesso o del divieto di discriminazioni o sulla sicurezza negli ambienti di lavoro, e che proprio per questo concretizzano aspetti della proclamazione costituzionale, offrendole l’efficacia via di tutela avanti il sistema giudiziario europeo e quella della responsabilità civile dello Stato inadempiente, secondo il filone giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza Francovich.

Da questo punto di vista, anzi, si realizza in parte l’intuizione di Mortati circa la responsabilità dello Stato per l’inerzia nell’attuazione dell’art. 4 Cost., sebbene siffatta responsabilità non riguardi direttamente ed immediatamente l’obbligo dello Stato di fornire lavoro ai disoccupati, ma solo taluni profili del rapporto di lavoro (e per lo più, peraltro, relativi ad un rapporto già costituito).

Nella stessa ottica contemporanea, per dir così, può leggersi il dibattito - iniziato già in Assemblea Costituente - circa la qualificazione del diritto al lavoro, se questo, cioè, significhi il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo, di un interesse legittimo o di altro ancora. In linea generale, appare difficile applicare al termine diritto adoperato in Costituzione le classificazioni proprie della legislazione ordinaria. Se, infatti, le proclamazioni costituzionali dei diritti esprimono valori più che regolamentazioni specifiche, la disciplina dei singoli rapporti attiene a scelte di bilanciamento del legislatore coerenti con la tavola dei valori indicati al livello più alto. Non a caso la dottrina ha preferito parlare di figure soggettive per qualificare le posizioni di vantaggio disposte dalla Costituzione. Ed a proposito del diritto al lavoro si è ricorsi alla prospettazione di «una situazione soggettiva di obbligo per lo Stato, e quindi per gli organi di esso».

Se, allora, la previsione sul diritto al lavoro nell’art. 4 Cost. esprime un valore fondamentale dell’ordinamento, che funge da ispirazione e copertura delle specifiche disposizioni degli artt. 35-40 Cost., ma al tempo stesso non è pienamente scomponibile o riconducibile a queste ultime, può convenirsi nella tesi che l’art. 4 stabilisca una situazione giuridica complessiva di vantaggio a sua volta composta di varie posizioni giuridiche, molte delle quali tendono ad essere riconosciute anche in sede giurisdizionale.

2.2 Il lavoro e i lavori

Il riferimento a tali sviluppi, compresi quelli di carattere sovranazionale, rende manifesto che sotto il termine lavoro si celano diverse nozioni, che - come è stato notato a proposito della Costituzione italiana - hanno riguardo ora al lavoro subordinato, ora a questo ed al lavoro autonomo, altre volte a qualsiasi attività relativa allo scambio di beni e servizi, ed ancora a qualsiasi attività socialmente utile.

Si è già ricordato che non a caso il confronto su cosa debba intendersi per lavoro e chi debba qualificarsi come lavoratore ha impegnato sin dall’inizio l’elaborazione dottrinale ed, ancor più, l’azione dei soggetti sociali. Si è pure rilevato che le trasformazioni intervenute nel settore della produzione, ed anche in quello che un tempo si definiva mondo operaio, rendono per alcuni versi superata la netta contrapposizione tra interpretazioni classiste e, come dire?, organicistiche dell’art. 4, 1° co. Il lavoro è considerato, infatti, non solo strumento di affermazione della personalità, ma fonte di legittimazione sociale per la titolarità e l’esercizio di ogni altra posizione, ad iniziare dalla proprietà privata che dal lavoro trae, appunto, una delle sue possibili giustificazioni. Da questo punto di vista può convenirsi con quelle tesi che individuano nell’art. 4, 1° co., la garanzia di una libertà, "che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa" e giungono a ritenere che "lavoro significa qualsiasi attività diretta allo scambio di beni e di servizi", individuando una sostanziale omogeneità tra l’art. 4 e l’art. 1, che sul lavoro fonda, appunto, la Repubblica.

Detto questo, però, va subito aggiunto che la questione sembra in gran parte nominalistica per la semplice ragione che - se il sistema economico accolto c.d. misto risulta dall’intera Costituzione - la norma sul

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diritto al lavoro ha (politicamente e giuridicamente) senso per coloro che si trovano in posizione di soggezione e di debolezza nei confronti dei detentori del potere economico. Questi ultimi più che all’art. 4, guardano infatti all’art. 41 Cost. ed alla garanzia lì contenuta del diritto di iniziativa economica.

In un certo senso, allora, art. 4, 1° co., ed art. 41, 1° co., si fronteggiano nel fare riferimento a due contrapposte categorie di soggetti. Potrebbe sostenersi che l’imprenditore trae forza e legittimazione dal proprio personale lavoro, e che allora l’art. 4 vale anche per lui, ma l’argomentazione alla fine risulterebbe vana, atteso che i problemi dell’impresa (ad esempio quelli che sorgono a causa degli affidamenti suscitati da leggi di incentivazione o di agevolazioni tributarie) trovano nell’art. 41 più che nell’art. 4 Cost. la chiave di soluzione.

Al contrario, l’art. 4 Cost. ha quali suoi naturali destinatari i soggetti che, privi di altre risorse, traggono il proprio sostentamento essenzialmente dalla propria attività manuale o intellettuale. Il riferimento, allora, è ai lavoratori subordinati ed agli altri soggetti bisognosi di tutela ed ai quali, infatti, gli artt. 35 Cost. e ss. apprestano una serie di istituti a garanzia (retribuzione, ferie, riposo, lavoro femminile, assistenza). In altri termini, la previsione costituzionale dell’art. 4 (delle successive norme degli artt. 35 e ss.) offre copertura al sistema di garanzie che la disciplina lavoristica fin dal suo sorgere ha sviluppato, di modo che sarebbe, alla fine, formalistico ritenere che essa riguardi indistintamente tutti i lavori (e concretamente nessuno).

Tra i due estremi rappresentati dal lavoro subordinato e dall’esercizio di attività di impresa stanno tutte quelle posizioni (oggi, peraltro, estremamente variegate) di lavoratori autonomi, intellettuali, liberi professionisti, ecc., e di volta in volta si tratta di stabilire se è più forte l’attrazione verso il polo della tutela lavoristica o verso quello dell’attività di impresa e delle leggi del mercato, in base ad elementi di fatto ed a considerazioni sociologiche che non possono sottrarsi al giudizio di ragionevolezza. In questa chiave si spiega perché ai lavoratori autonomi c.d. piccoli siano spesso apprestate le forme di tutela tipiche in origine dei lavoratori subordinati64. Nella stessa ottica possono trovare soluzione alcuni dei problemi posti dalla legislazione sul lavoro autonomo (ad iniziare dall’imposizione fiscale) e da talune discipline a sostegno di figure imprenditoriali in posizione di debolezza sociale, di cui sostenere la presenza sul mercato.

2.3 La disciplina sui licenziamenti e la tutela reale o risarcitoria

Discende dalla funzione di tutela del lavoro subordinato, per così dire, assolta dall’art. 4, 1° co., Cost. che dalla previsione costituzionale sia stato fatto discendere il diritto al mantenimento del posto di lavoro. Così, con motivazione stringente si è notato che "se, infatti, la Costituzione ha assunto come interesse degno di tutela quello di ogni cittadino a ottenere un posto di lavoro o ad ottenerne un altro adeguato, la ratio legis vuole che risulti al tempo stesso protetto altresì l’interesse - in un certo senso, ancora più concreto - di ogni lavoratore a conservare il posto che occupa". Se ne è arguito che sarebbe stato abrogato l’art. 2118 c.c., nel testo del 1942 che consentiva il recesso ad nutum dell’imprenditore, o quantomeno che sarebbe costituzionalmente ammissibile solo il licenziamento per giustificato motivo, e comunque che l’art. 4 offrisse un chiaro criterio interpretativo per integrare la disposizione civilistica ed "offrire in qualche modo una garanzia all’interesse del lavoratore".

La Corte costituzionale non si è mostrata sorda a siffatte ricostruzioni, ma nell’oramai lontano 1965 ha preferito adottare una sentenza interpretativa di rigetto, la quale, da un canto, ha affermato che l’art. 4 "non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro"; ma dall’altro ha riconosciuto che "l’art. 2118 c.c. è stato progressivamente ristretto nella sua sfera di efficacia" sia da provvedimenti legislativi che hanno limitato o temporaneamente precluso il potere di recesso del datore di lavoro, sia dagli intervenuti accordi sindacali. La stessa Corte, del resto, fece presente che i principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa erano immediatamente immessi nell’ordinamento giuridico con efficacia erga omnes e che al legislatore ordinario incombeva di dettare la disciplina del licenziamento con gli opportuni temperamenti.

Invero, la disciplina successivamente introdotta dal legislatore ha mostrato di voler fare tesoro di tali insegnamenti e la giurisprudenza costituzionale ha seguito siffatta evoluzione, finendo per riconoscere il diritto dei lavoratori dipendenti a non essere arbitrariamente licenziati.

In un "incalzante crescendo di tutele" la disciplina generale, oggi risultante dalla l. 604/1966 (l. lic. indiv.), dall’art. 18 st. lav. e dalla l. 108/1990, ha finito per distinguere tra diversi tipi di licenziamento, le rispettive forme e le tutele predisposte. In particolare, la garanzia di tipo obbligatorio, prevista dall’art. 8 l. lic. indiv., comporta l’obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità quando il licenziamento risulti privo di giusta causa o di un giustificato motivo. La tutela reale è stata introdotta dall’art. 18 st. lav. a carico dei datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti in ciascuna unità produttiva ed in ogni caso quando occupino più di sessanta dipendenti; per i datori di lavoro

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imprenditori agricoli il limite numerico è stabilito in più di cinque unità dipendenti. La stessa importa, nel caso di licenziamento ingiustificato, inefficace e nullo, l’obbligo di reintegrare il lavoratore nel posto occupato e di corrispondergli un’indennità a titolo di risarcimento del danno subito. Il lavoratore può anche rinunciare al reintegro ed ottenere in alternativa un’ulteriore indennità.

È significativo che a distanza di oltre mezzo secolo dalle prime elaborazioni sulla portata giuridica dell’art. 4 Cost. - in occasione del giudizio di ammissibilità del referendum volto ad abrogare l’art. 18 st. lav. e ad estendere l’area della garanzia obbligatoria - la stessa Corte costituzionale ha inteso dare una qualche forma di copertura alla disciplina richiamata, riconoscendo sì che le due modalità di tutela non necessariamente debbono sussistere entrambe, ma al tempo stesso affermando che gli artt. 4 e 35 Cost. sono il presupposto dell’abbandono del criterio del recesso ad nutum dell’art. 2118 c.c. e del "principio della necessaria giustificazione del recesso e del potere di adire il giudice, riconosciuto al lavoratore, in caso di licenziamento arbitrario".

2.4 Gli ambiti di operatività del diritto al lavoro ed il divieto di discriminazione

Il diritto al lavoro, proclamato nell’art. 4 Cost., invero manifesta un’amplissima propensione a collegarsi e ad integrarsi con le altre garanzie previste in Costituzione a tutela della persona e della sua dignità.

In fondo, gli artt. 2, 3, 4, 13, 19, 21 e 32 (per citarne solo alcuni) apprestano una serie di garanzie a favore del lavoratore ed offrono copertura costituzionale ad istituti e precetti che sono stati magari individuati dalla legislazione ordinaria, ma che ad un esame un poco più approfondito si rivelano dirette e conseguenti applicazioni dei principi costituzionali, di modo che gli stessi istituti appaiono a contenuto costituzionalmente vincolato e comunque necessario e risulterebbe di dubbia legittimità un eventuale ritorno indietro.

La tutela della dignità personale, della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro, il diritto a ricevere informazioni, ad esempio, sono sviluppi coerenti dell’istanza di valore contenuta nell’art. 4 di volta in volta in collegamento con altri valori costituzionali. Le normative di carattere settoriale che ne contengono la disciplina, risultano obbligatorie riguardo principi di riferimento e contenuto minimo, anche se non può dirsi che per questo le medesime normative sono determinate una volta per tutte, poiché, anzi, proprio il settore regolato richiede un costante adeguamento della legislazione agli sviluppi della tecnica (come alla mutata sensibilità accolta nell’ordinamento: si pensi al campo delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, assurto a notevole rilevanza negli anni più recenti, o al più alto livello di protezione della dignità del lavoratore che la repressione del mobbing intende promuovere).

Il collegamento con l’art. 2 Cost. va riferito anche al riconoscimento ed alla promozione delle formazioni sociali: il che finisce per dare più che adeguata copertura alla libertà sindacale (art. 39 Cost.) ed alla proclamazione dell’autonomia contrattuale, sino a configurare una vera e propria riserva di normazione contrattata (sia pure in un rapporto flessibile con la legge), la quale non a caso è sancita in alcune Carte costituzionali, comprese quelle di carattere sovranazionale.

A contenuto costituzionalmente vincolato sembrano essere le previsioni - oggi nell’artt. 1 e 8 st. lav. - che riconoscono al lavoratore di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi di lavoro e che fanno divieto al datore di lavoro di svolgere indagini sulle opinione politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché sugli altri fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionale del lavoratore. Si tratta, infatti, di contenuti normativi che discendono direttamente dalle previsioni costituzionali degli artt. 2, 19 e 21, e che le disposizioni di fonte legislativa si limitano a specificare e chiarire, rendendo concreti precetti altrimenti derivabili ad opera dell’interpretazione costituzionale.

Lo stesso è da dire a proposito del divieto di discriminazioni a causa dell’appartenenza sindacale, contenuto nell’art. 15 st. lav., e che riceve dagli artt. 4 e 39 giustificazione e copertura.

Del resto, l’art. 4 Cost. sembra essere a fondamento anche del diritto alla carriera che l’art. 13 st. lav. - riformulando l’art. 2103 c.c. - ha riconosciuto sotto forma di diritto alle mansioni superiori effettivamente svolte. Spetta, certo, alla discrezionalità del legislatore indicare forme, modalità e termini di esercizio di siffatta pretesa ed entro certi limiti distinguere anche tra gli ambiti di applicazione della previsione. Ma appare altrettanto indubbio che - come ha riconosciuto la giurisprudenza formatasi in tema di demansionamento - se il diritto al lavoro è espressione dei diritti della personalità, la pretesa a vedersi riconosciute le competenze acquisite attraverso le esperienze maturate (ed i corrispondenti livelli retributivi) attiene ad un profilo legato, appunto, in maniera assai intensa alla dignità del lavoratore, atteso che il principio sancito nell’art. 4 Cost. si riflette anche sullo svolgimento del rapporto di lavoro e non riguarda solo la fase della sua instaurazione.

Allo stesso modo, l’art. 4 Cost., questa volta collegato al principio di eguaglianza del precedente art. 3, è a fondamento del principio di parità e del divieto di discriminazioni. Tra l’altro, muovendo dall’art. 141 TCE,

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il processo di integrazione comunitaria ha reso assai intenso il campo di applicazione del principio di parità, tentando di colpire quelle forme di discriminazioni, anche indirette, che si hanno quando "una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari".

Campo privilegiato di attenzione ai temi della parità e delle discriminazioni sono, poi, in ambito statale come in quello europeo, le politiche di pari opportunità e le azioni positive volte a promuovere le opportunità di lavoro e di carriera del sesso sottorappresentato.

Se la l. 903/1977, aveva inteso reprimere ogni discriminazione per ragioni di sesso, sia nel momento dell’assunzione che durante lo svolgimento del rapporto; assicurare la parità di trattamento a fini previdenziali e fiscalizzare gli oneri sociali legati alla maternità; l’aspirazione della l. 125/1991, espressamente intitolata alle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, è stata quella di promuovere il raggiungimento di alcuni punti di arrivo da parte di soggetti considerati deboli, perché sottorappresentati in alcuni ambiti lavorativi, sul fondamento dell’eguaglianza sostanziale sancita dall’art. 3, 2° co. Cost., ed anche a costo di introdurre forme ed istituti di discriminazione rovesciata a favore, appunto, dei soggetti più deboli. La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto che le azioni positive "sono il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate - fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel 1° co. dello stesso art. 3 (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) - al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico". E con particolare riguardo al campo dell’imprenditoria femminile, fatto oggetto di promozione ad opera della l. 215/1992, ha continuato nel senso che le medesime azioni "sono dirette a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale. A tal fine è prevista, in relazione a un settore di attività caratterizzato da una composizione personale che rivela un manifesto squilibrio a danno dei soggetti di sesso femminile, l’adozione di un trattamento di favore nei confronti di una categoria di persone, le donne, che, sulla base di una non irragionevole valutazione operata dal legislatore, hanno subìto in passato discriminazioni di ordine sociale e culturale e, tuttora, sono soggette al pericolo di analoghe discriminazioni".

Sulle politiche di pari opportunità (e sulla loro intensità), anche in occasione ed a seguito della recente riforma dell’art. 51 Cost., ad opera della l. cost. 1/2003, si è sviluppato un confronto assai serrato, a testimonianza, peraltro, degli interessi coinvolti e del peso delle medesime culture che alimentano il principio di eguaglianza. Invero, nel passaggio da una misura generale a sostegno di gruppi e di categorie all’individuazione di un trattamento privilegiato che avvantaggia un singolo individuo a discapito di altri, pare intravedersi un salto che comporta disponibilità di risorse e vasta accettazione sociale della discriminazione introdotta.

In ogni caso, applicato al mondo del lavoro, il tema delle discriminazioni (rovesciate) a tutela di interessi costituzionalmente protetti conferma che l’area coinvolta dalle proclamazioni contenute nell’art. 4 Cost. comprende, appunto, (la disciplina de) i rapporti ove sono parti soggetti deboli, si tratti (tipicamente) dei lavoratori subordinati, di quelli autonomi e dei liberi professionisti, come, ancora, di quegli imprenditori che bisognano di sostegno iniziale per affacciarsi e affermarsi sul mercato (come è il caso della citata imprenditoria femminile). La circostanza che nel giudicare della legislazione di settore la Corte costituzionale italiana abbia fatto pressoché esclusivo riferimento al 2° co. dell’art. 3 Cost., non deve infatti far trascurare che misure di tal tipo rinvengono nell’art. 4 un fondamento di rilievo, atteso che si tratta, appunto, di assicurare da parte della Repubblica il diritto al lavoro con i mezzi di volta in volta più appropriati. Ne offrono significativa conferma l’art. 137 e l’art. 141 TCE (nel testo modificato dal Trattato di Amsterdam), che al 4° co. consente che uno Stato "mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali"; e, ancora di recente, l’art. 23 della Carta dei diritti di Nizza, che contiene una formulazione analoga, appunto appena dopo la proclamazione del principio di parità tra uomini e donne in tutti i campi, "compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione".

Le disposizioni comunitarie richiamate sono state, per alcuni versi, necessitate a seguito dell’intervento della Corte di Giustizia nel caso Kalanke, allorché si è ritenuto che violasse il principio di parità la disciplina del Land tedesco di Brema, che attribuiva in maniera automatica la preferenza ai candidati di sesso femminile per promozioni in settori ove le donne erano sottorappresentate. Nelle successive decisioni sui casi Marschall e

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Badeck la stessa Corte ha ammesso la legittimità di normative nazionali riconducibili allo schema delle azioni positive a condizione che si operi un esame obiettivo delle candidature e si considerino le qualità personali di tutti i candidati.

2.5 Lavoro pubblico e privato

La disciplina del pubblico impiego attiene ai fondamenti dell’organizzazione costituzionale se non altro sotto due profili, giacché il principio democratico richiede che sia socializzato l’esercizio dei poteri pubblici e, pertanto, sia reso ampio l’accesso agli impieghi e perché, comunque, non può concepirsi che l’utilizzo di una siffatta risorsa sia ristretto soltanto ad alcuni. Non a caso, l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 14 luglio 1789 legava il principio di eguaglianza all’ammissione di tutti i cittadini "a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, secondo la loro capacità e senz’altra distinzione che quella delle loro virtù e del loro ingegno", tenendo a battesimo un valore che sarà ripetuto in sede internazionale (art. 21 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e statale (art. 51 Cost.).

Il senso costituzionale del pubblico impiego sta, in fondo, nell’esigenza di garantire gli accennati valori di eguaglianza e di partecipazione, insieme a quelli di imparzialità e di personalizzazione dell’amministrazione.

In questa prospettiva si è marcata, in particolar modo, l’istanza partecipativa all’organizzazione sociale e politica del Paese che sarebbe sottesa al fenomeno burocratico e che si fonderebbe sui principi stabiliti dagli artt. 2, 3 e 4 Cost.: "la stessa attività pubblica, nei suoi termini formali, deve essere intesa come una delle tante scelte che il cittadino ha di fronte a sé, per esercitare il suo potere di partecipare all’organizzazione complessiva del Paese".

La tesi sembra avere riguardo soprattutto al momento di accesso allo svolgimento di funzioni e di servizi pubblici, e non alle successive fasi di esercizio del potere amministrativo, riguardo alle quali prevale l’attenzione alle forme di tutela nei confronti di un potere che (se pure può in astratto definirsi partecipato) in ogni caso risulta eteronomo per quelli ai quali si rivolge.

Per questo, al fine di individuare il significato dell’inclusione in Costituzione di numerose disposizioni sul pubblico impiego, si è preferito insistere sui caratteri che allo stesso derivano dalla disciplina costituzionale: l’ampia ed eguale garanzia di accesso, appunto, fondata sul principio meritocratico; l’attinenza del rapporto di lavoro ai profili organizzativi dell’amministrazione; l’imparzialità da assicurare nei confronti del potere politico; la responsabilità dei funzionari verso i cittadini le cui sfere soggettive sono incise dall’azione pubblica; la personalizzazione dell’amministrazione.

Tutto ciò, ovviamente, non significa che le fonti di disciplina del pubblico impiego debbano essere necessariamente di carattere pubblico, cioè a dire di fonte legislativa e regolamentare. È noto, anzi, che dalla fine degli anni sessanta si è assistito ad un progressivo ampliamento delle fonti contrattuali nel settore sino alla c.d. legge quadro 93/1983 ed al d.lg. 29/1993, che ha segnato, alla fine, la (quasi) integrale privatizzazione del pubblico impiego e l’attrazione dello stesso settore nel campo delle discipline giuslavoristiche.

A dire il vero, permangono molti elementi di specialità del pubblico impiego rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato: il regime delle incompatibilità, la permanenza della giurisdizione amministrativa sulle procedure concorsuali; l’accertamento pregiudiziale circa la validità, l’efficacia e l’interpretazione dei contratti, con la possibile proposizione di un ricorso in Cassazione; la previsione dei comparti della contrattazione collettiva nazionale da operare mediante appositi accordi tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) ed i sindacati che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5 per cento. Insomma, anche in regime di c.d. privatizzazione il soggetto pubblico si sceglie il soggetto con il quale contrattare (sia pure sulla base di indici piuttosto obiettivi) e può persino prevedere che le norme di legge, regolamento o statuto che introducano discipline particolari per i dipendenti pubblici, possano essere derogate dai successivi contratti collettivi e non risultino più applicabili. In linea generale, poi, il criterio di distinzione tra ambiti destinati alla disciplina pubblicistica (legge o regolamento) e ambiti "riservati" alle fonti contrattuali continua a suscitare problemi non indifferenti.

Dal canto suo, la Corte costituzionale non ha potuto incidere più di tanto sulle scelte del legislatore, quasi a consacrare lo stato della legislazione esistente. Così, la sentenza 68/1980 aveva sì apprezzato la liberazione a mezzo della contrattazione collettiva del "rapporto di lavoro nell’impiego pubblico dalla prevaricante sovrapposizione del rapporto c.d. organico o di ufficio", ma ha subito dopo precisato che "anche se si intendesse privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio di potestà pubbliche, dovrebbero pur sempre essere conservati come rapporti di diritto pubblico quelli dei dipendenti, cui tale esercizio è o potrebbe essere affidato".

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L’idea sottesa alla decisione sembrava essere quella che dovessero rimanere sottoposti all’integrale disciplina ad opera della legge i rapporti di impiego dei dirigenti, ma il d.lg. 80/1998 ha sottoposto alla contrattazione collettiva anche tali rapporti, di modo che oggi restano sottratti al campo di applicazione di quest’ultima magistrati, avvocati dello Stato, personale militare e di polizia, personale diplomatico e prefettizio, nonché i docenti universitari.

La disciplina c.d. di privatizzazione è passata indenne al giudizio di costituzionalità, sia per la parte che riguarda i dirigenti, sia più generale per l’eventuale contrasto con gli artt. 97 e 39 Cost. Sotto il primo profilo si è ritenuto che "l’organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà amministrativa nell’ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente pone; mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa". Per quanto riguarda il secondo profilo si è fatto ricorso ad un’elegante costruzione, secondo la quale l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nel settore pubblico deriverebbe non direttamente dagli stessi contratti, ma dall’obbligo delle pubbliche amministrazioni di osservarne gli impegni.

2.6 Il lavoro come dovere

Sul fatto che il 2° co. dell’art. 4 Cost. non ponga una vera e propria norma giuridica assistita da una corrispondente sanzione la riflessione è pressoché unanime96. Semmai, si è riconosciuto che la previsione allude ad un contenuto etico minimo senza il quale nessun ordinamento sociale potrebbe sussistere.

Di ciò erano probabilmente consapevoli gli stessi costituenti, e lo rileva sia il fatto - già ricordato - che si eliminò il 3° co. del progettato art. 31; sia, ancora, la spiegazione che lo stesso Ruini ebbe ad avanzare, notando che "il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione".

Non parrebbe che il costituente fosse sensibile all’idea weberiana del lavoro intellettuale come vocazione, eppure è accolta la concezione secondo la quale tale attività costituisce contributo al progresso sociale, ed in questo senso può individuarsi un collegamento della norma in esame con l’art. 33 Cost., riguardo la libertà di insegnamento e l’autonomia delle università e dei centri di ricerca.

Nella visione accolta dal costituente diritto al lavoro e dovere di svolgerlo sono entrambi coerenti applicazioni dell’ispirazione personalista. Anzi: se il 1° co. dell’art. 4 Cost. fosse letto soprattutto in senso individualista come libertà da costrizioni e condizionamenti pubblici, paradossalmente potrebbe essere il 2° co. ad imporre o meglio a consentire la previsione di un qualche obbligo, valorizzando la dimensione sociale del lavoro medesimo. In questo senso si è collegato il dovere al lavoro con l’art. 38 Cost., che garantisce il godimento degli istituti di assistenza solo agli inabili ed escluderebbe, perciò, che i disoccupati volontari possano aspirare legittimamente alla relativa indennità.

Invero, da un lato può rintracciarsi nell’art. 4 Cost., cpv., un’ispirazione comune a quella delle altre disposizioni costituzionali che prevedono obblighi a carico dei cittadini, come l’art. 23, il 52, il 53 ed 54 Cost., ai quali va certamente aggiunto l’art. 2 Cost. con il suo riferimento espresso al dovere di solidarietà. In questa prospettiva potrebbe individuarsi un fondamento alla possibilità della legge di imporre prestazioni e altri obblighi riconducibili all’idea di una collaborazione civica. Dall’altro lato, tuttavia, tali obblighi non possono estendersi sino a violare la dignità umana o ad essere privi di un qualche collegamento con talune situazioni qualificanti (ad esempio, quella costituita dalla titolarità del diritto di proprietà, che per definizione obbliga ad alcune prestazioni a protezione dei terzi).

La realtà è che nello spirito del costituzionalismo "clausole aperte" o interpretazioni estensive hanno ragione di essere applicate solo a favore dei diritti e non dei doveri, la cui imposizione presuppone un forte ancoraggio a precise disposizioni costituzionali. Lo stesso è da dire a proposito della tesi che intende legare il 2° co. dell’art. 4 e l’ultima parte dell’art. 48 Cost. e giustificare in tal modo qualche forma di limitazione al godimento dei diritti politici.

In definitiva, i tentativi ricordati non porterebbero comunque lontano, sia perché il raggiungimento della piena occupazione è un obiettivo remoto (e forse nemmeno accolto tra i presupposti dell’economia contemporanea), di modo che i poteri pubblici non potrebbero imporre alcuna costrizione; sia per la contrarietà di obblighi costituzionali siffatti ai presupposti dello Stato liberale. Ancora la Carta dei diritti di Nizza, all’art. 5, sancisce che "nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio", assimilando addirittura il lavoro forzato alla schiavitù.

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Il 2° co. dell’art. 4 Cost. rafforza così l’idea del lavoro come libertà, giacché contempla e ritiene degne di considerazione costituzionale tutte le attività attraverso le quali si esprime la dignità umana, smorzando la caratterizzazione classista che è in qualche modo implicita nel 1° co.

A tal proposito, infatti, è evidente che il riconoscimento e l’affermazione di diritti ha senso laddove questi ultimi vengano negati o subiscano restrizioni. La proclamazione del diritto al lavoro si inserisce e si spiega in tale contesto, e ne rappresenta anzi una parte fondamentale. E non a caso è al diritto al lavoro che hanno guardato le forze sociali per farne uno strumento di azione politica assai intensa. Il che ha comportato che (solo) il 1° co. dell’art. 4 Cost. abbia espresso una carica di trasformazione assai feconda. Al contrario, il 2° co. dell’art. 4 Cost. con il suo amplissimo riferimento alle possibilità ed alle inclinazioni finisce per costituire più un limite per l’azione statale, che non un obbligo per il soggetto privato.

2.7 Il diritto al lavoro tra pubblico e privato, tra statalismo e federalismo

Costantino Mortati fece a suo tempo rilevare che "l’art. 4 occupa una posizione intermedia, posto come è fra alcune proposizioni più generali che rispetto ad esso compiono una funzione di presupposto, ed altre più particolari le quali possono considerarsi integrative". L’attenzione, infatti, era rivolta ad indagare il modello economico accolto dalla Costituzione appena entrata in vigore e gli strumenti giuridici atti a conferire efficacia ad una proclamazione della quale si temeva l’assenza di effettività. In realtà, la considerazione del diritto al lavoro riflette e richiama le coordinate essenziali del sistema economico e del medesimo assetto istituzionale, di modo che trattare del lavoro significa non solo tenere presente le politiche occupazionali e sociali, ma le medesime scelte fondamentali nel campo dell’economia e dello sviluppo.

La "storia" del diritto al lavoro è così (parte del) la storia economica del nostro Paese e del contesto internazionale in cui il medesimo è inserito. In tale prospettiva, ad esempio, all’indomani dell’entrata in vigore della Carta costituzionale risultava coerente con il compromesso raggiunto in materia economica puntare sull’intervento pubblico per la soluzione dei problemi occupazionali ed individuare quali strumenti di attuazione del compito di rendere effettivo il diritto posto a carico della Repubblica le politiche di piano ed il monopolio pubblico nel collocamento, subito istituito infatti con la l. 264/1949.

È nota la progressiva dissoluzione - manifestata tra gli anni settanta e ottanta - della fiducia nelle capacità di programmazione del nostro sistema politico e, più in generale, nei confronti del medesimo strumento di pianificazione economica generale. La praticabilità di siffatto strumento, infatti, si è dovuta misurare con vari fattori: dall’instabilità del quadro politico italiano, alle ripetute crisi internazionali, agli stessi limiti di crescita dell’azione statale. L’intenso processo di integrazione comunitaria, poi, ha reso evidente che i livelli di programmazione andrebbero individuati su base più ampia di quella nazionale, atteso che proprio il livello statale appare condizionato e limitato dalle scelte adottate in un ambito comunitario che tanta parte dedica alla valorizzazione del mercato.

Il diritto al lavoro ha rappresentato in un certo senso la cartina di tornasole di tali mutamenti (culturali e) istituzionali. In particolare, l’organizzazione del mercato del lavoro ha dovuto fare i conti con una concezione che in via generale, a partire dai primi anni novanta, ha ridisegnato i rapporti tra pubblico e privato all’insegna delle politiche di privatizzazione, invocando semmai la c.d. sussidiarietà orizzontale quale criterio di ri-sistemazione di tali rapporti, e con tendenze autonomistiche sempre più forti (da far parlare nel linguaggio politico di federalismo, anziché di un più esteso e razionale regionalismo).

Si spiega in tale prospettiva che la Corte di Giustizia delle Comunità europee abbia affermato il contrasto tra i principi comunitari e la disciplina italiana sul collocamento e sull’interposizione nei rapporti di lavoro, ritenendo che un tale servizio costituisca una vera e propria attività di impresa, assoggettata alle regole del mercato. Dal canto suo, la l. 59/1997, ha conferito alle regioni gran parte dei compiti relativi al collocamento prima affidati allo Stato. Il successivo d.lg. 469/1997 ha provveduto alla riorganizzazione della materia, introducendo la radicale novità dell’affidamento a soggetti privati dell’attività di intermediazione nelle assunzioni. Il c.d. Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, reso noto dal Governo nell’ottobre 2001, la successiva l. delega 30/2003 ed il d.lg. 276/2003, sono le tappe fondamentali di un processo di profondo rinnovamento del settore, che sta cambiando anche taluni tradizionali approcci alla materia. Del resto, ad un ritmo impressionante di interventi normativi, il rapporto di lavoro a tempo determinato, il contratto di lavoro interinale, le possibilità offerte dal lavoro a tempo parziale, il contratto di somministrazione della manodopera a tempo determinato ed indeterminato, il contratto di lavoro intermittente, ripartito, occasionale, accessorio, a progetto, stanno modificando la configurazione di molti istituti del diritto del lavoro, seguendo le trasformazioni sociali e l’apparire di figure professionali nuove, ma anche tentando di dare impulso e sostegno all’occupazione.

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L’altro profilo con il quale il diritto del lavoro deve oggi confrontarsi attiene all’estensione delle competenze regionali ad opera della l. Cost. 3/2001. Come è noto, alla potestà concorrente (statale e) regionale sono state attribuite le materie della "tutela e sicurezza del lavoro" e delle "professioni"; le regioni sono, poi, attributarie delle materie innumerate non specificamente assegnate alla potestà esclusiva dello Stato. A tal proposito si è quasi da subito avvertito che il diritto del lavoro rientra all’interno della materia "ordinamento civile" di competenza statale, quasi a voler scongiurare la possibilità di discipline regionali differenziate tali da mettere in crisi il fondamentale valore dell’eguaglianza e da attentare al sistema delle garanzie. La precisazione è stata senz’altro opportuna; peraltro, essa sembra essere eccessivamente attenta al rischio che l’indicazione delle materie statali e regionali sia intesa alla stregua del criterio di una netta separazione. Invero il modello prefigurato dalla riforma del 2001 può acquisire funzionalità solo a condizione di sviluppare tecniche di integrazione delle competenze e di collaborazione tra lo Stato e le regioni anche sotto il versante normativo, come poi riconosciuto da C. Cost. 303/2003 e dalla successiva giurisprudenza che impone la previsione di intese tra Stato e regioni. In questo contesto, l’attribuzione statale di individuare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali non è solo la norma di chiusura, ma la medesima chiave di lettura del riparto realizzato. La giurisprudenza costituzionale in tema di professioni, (sentt. nn. 353/2003, 319, 355, e 405/2005), sembra confermare la tendenza a contenere in maniera rigorosa gli spazi regionali entro penetranti scelte di principio della legislazione statale. Si aggiunga che la possibilità delle regioni di estendere le rispettive possibilità di normazione nel campo lavorativo non può andare disgiunta dalla valorizzazione del livello regionale di contrattazione in forme molto più consistenti di quelle attuali, di modo che in materia (non solo si incontrano e si intercettano sussidiarietà verticale ed orizzontale, ma) l’esercizio delle competenze normative regionali appare il frutto di un’articolazione organizzativa che non può non coinvolgere le parti sociali.

I sindacati e la contrattI sindacati e la contrattI sindacati e la contrattI sindacati e la contrattazione collettivaazione collettivaazione collettivaazione collettiva Il sindacato sindacato sindacato sindacato è l’organizzazione che rappresenta i lavoratori subordinati. Il sindacato stipula i contratti collettivi di lavoro. Il sindacato intrattiene rapporti con gli imprenditori. Il sindacato assiste e tutela i lavoratori anche in ambito giudiziario. Il sindacato indice uno sciopero. Il sindacato è nato storicamente con l’idea di coalizzare i lavoratori subordinati in modo tale da contrapporre al datore di lavoro un gruppo unitario forte, compatto, organico. La libertà sindacale è prevista dall’art. 39 Cost., secondo cui «l’organizzazione sindacale è libera». Uno dei compiti fondamentali del sindacato è la stipulazione dei contratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavorocontratti collettivi di lavoro. Tali contratti sono negozi giuridici di diritto privato, recanti regole destinate a vincolare il datore di lavoro e il singolo lavoratore dipendente in occasione della conclusione del contratto individuale di lavoro e per tutto lo svolgimento del rapporto. Il contratto collettivo, dunque, enuncia regole comuni relative al rapporto di lavoro: retribuzione, mansioni, orari di lavoro, ferie, malattie ecc. Ci sono diversi livelli di contrattazione collettivalivelli di contrattazione collettivalivelli di contrattazione collettivalivelli di contrattazione collettiva. I lavoratori sono raggruppati per settori settori settori settori merceologicimerceologicimerceologicimerceologici (es. industria, bancario, commercio, e via discorrendo) e in ognuno di questi c’è un contratto nazionale. Seguono, poi, contratti locali e contratti aziendali, che specificano ulteriormente la disciplina negoziale fissata a livello nazionale. L’importanza del contratto collettivo è evidente. Integrando la disciplina legislativa, tali contratti permettono di adattare le regolamentazioni alle specificità dei singoli settori. Dal punto di vista giuridico, però, i contratti collettivi di lavoro scontano un problema che ne potrebbe minare la capacità di tutelare adeguatamente i lavoratori subordinati. Si è detto: il contratto collettivo di lavoro è un negozio giuridico di diritto privato. Come tale, ad esso di applicano le norme del codice civile e delle leggi complementari. Il codice civile stabilisce che «il contratto ha forza di legge tra le parti». Ciò significa che dal contratto nascono diritti e obblighi imputabili esclusivamente alle parti contrattuali. Quanto viene stipulato un contratto collettivo nazionale di lavoro le parti sono: i sindacati dei lavoratori (es. Cgil, Cisl, Uil) e le organizzazioni delle imprese (es. Confindustria, Confcommercio). Dunque, stando a quanto sancito dal codice civile, che comunque enuncia un principio di portata generale, il contratto collettivo dovrebbe obbligare soltanto i sindacati e le organizzazioni delle imprese che lo hanno stipulato.

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A loro volta, i sindacati e le organizzazioni delle imprese sono associazioni alle quali sono iscritti lavoratori e, rispettivamente, datori di lavoro. Assolvendo una funzione rappresentativa rispetto a questi, si può affermare che i contratti collettivi, pur stipulati da parti collettive, impegnano anche i rispettivi associati. Senonché, l’iscrizione ad un sindacato o ad una organizzazione imprenditoriale non è obbligatoria, essendo rimessa ad una libera scelta dei lavoratori e dei datori di lavoro. Pertanto, coloro che non sono iscritti alle organizzazioni che hanno concluso un contratto collettivo, non sono obbligati a rispettarne il contenuto. Questa circostanza non è trascurabile. Il contratto collettivo mira ad evitare che, in sede di stipulazione di un contratto individuale di lavoro, la parte più forte (il datore di lavoro) imponga condizioni sfavorevoli alla parte più debole (il lavoratore subordinato). Così, ad esempio, il contratto collettivo di un dato settore merceologico stabilisce il salario minimo per ogni tipo di qualifica, mansione e anzianità. Le parti di un contratto individuale non dovrebbero mai scendere al di sotto di tale minimo. Si è detto però che il contratto collettivo vale solo per le parti e per coloro che sono iscritti alle organizzazioni che lo hanno stipulato. Dunque, un datore di lavoro, chiamato a scegliere il lavoratore da assumere, preferirà colui che non è iscritto ad un sindacato, così da non essere costretto a rispettare il contratto collettivo. In questo modo, egli riuscirà ad imporre unilateralmente le condizioni di lavoro, a cominciare dallo stipendio. Se le cose stessero davvero così, allora il sindacato ne uscirebbe decisamente depotenziato. I lavoratori non avrebbero interesse ad iscriversi ai sindacati: solo così riuscirebbero a convincere il datore di lavoro ad assumere loro al posto di altri, iscritti ai sindacati. Questa conclusione è inconciliabile con il principio consacrato in apertura dell’art. 39 Cost. sulla libertà sindacale. Ebbene, per porre rimedio a questo problema, lo stesso art. 39 ha concepito il seguente meccanismo: - i contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati registrati sono validi ed efficaci erga omnes, ossia nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alle categorie di riferimento; - per la registrazione, i sindacati devono possedere una struttura interna di carattere democratico. Senonché, la realizzazione di tale modello è stata dallo stesso art. 39 demandata ad una apposita legge che dal 1948 ad oggi non è mai stata approvata dal Parlamento. Quindi, questo meccanismo non ha mai funzionato e tuttora i sindacati sono associazioni non registrate. Cosa ha impedito l’approvazione di questa legge ? Si è detto che l’unica condizione richiesta per conseguire la registrazione (che è un atto amministrativo vincolato, ossia non discrezionale) è l’ordinamento interno a base democratica. A parte le intuibili difficoltà nel definire una volta per tutte le condizioni di avveramento di tale requisito, in Parlamento si è sempre formato uno schieramento trasversale ostile a questo meccanismo. In effetti, la verifica dello stesso presuppone forme di controllo da parte dei pubblici poteri che i sindacati hanno sempre giudicato con sospetto. Dunque, non se n’è fatto nulla. E, allora, il problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi è rimasto irrisolto ? Verso la fine degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo il legislatore è intervenuto in più occasioni traducendo in norme giuridiche i contenuti dei contratti collettivi di lavoro. Siccome le norme giuridiche sono per definizione valide ed efficaci erga omnes, il problema poteva considerarsi così risolto. Tuttavia, la Corte costituzionale ha bloccato questo meccanismo in quanto incompatibile con la libertà sindacale e con l’essenza dei contratti collettivi quali espressioni di autonomia negoziale privata. Allora, a partire dagli anni Sessanta ci pensarono i giudici del lavoro (i cd. Pretori d’assalto) a risolvere il problema. In che modo ? Applicando direttamente la Costituzione. L’elemento più rilevante della contrattazione collettiva è la remunerazione del dipendente. L’art. 36 Cost. stabilisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla

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qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. È questo un fondamentale principio di civiltà giuridica calato nei rapporti di lavoro, così da sottrarre almeno in parte all’autonomia negoziale delle parti la determinazione dello stipendio. Proprio perché il datore di lavoro (la parte contrattualmente più forte, con il coltello dalla parte del manico si potrebbe dire) potrebbe approfittarne a fissare uno stipendio modesto. Ora, quando un lavoratore non iscritto al sindacato agisce in giudizio contro il datore di lavoro perché il suo stipendio è inferiore al minimo salariale stabilito dal contratto collettivo, il datore stesso obietterà alla controparte l’inapplicabilità del contratto collettivo per le ragioni suesposte: il contratto vincola solo le parti e tale non è il lavoratore non iscritto al sindacato. Per superare questa obiezione il giudice applica direttamente l’art. 36 Cost. utilizzando il contratto collettivo come standard di riferimento per stabilire cosa sia, in concreto, una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore stesso e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. Il principio generale viene riempito di contenuto idoneo ad una sua applicazione diretta n ambito processuale. Il contratto collettivo, usato come parametro oggettivo di riferimento (non potrebbe infatti il giudice valutare l’adeguatezza dello stipendio) finisce coll’acquisire, in tal modo, la necessaria efficacia erga omnes. Questa prassi giurisprudenziale, seguita nel corso degli anni e tuttora operativa, è stata quindi estesa anche alle altre parti del contratto collettivo. Di seguito, dunque, sono riportati i commenti di D’Aloia, sui sindacati, e di Colapietro sull’art. 36. A. D’ALOIA, Commento all’art. 39, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 796 ss. …

2.1 La libertà dell’organizzazione sindacale: contenuto, limiti, soggetti e forme della rappresentanza

2.1.1 L’art. 39 nel disegno costituzionale di «liberazione e promozione umana»

La disattivazione della parte «normativa» (quella dedicata al problema dei contratti e della rappresentanza negoziale) dell’art. 39 ha di fatto conferito al principio della libertà dell’organizzazione sindacale una qualificazione «olistica» e riassuntiva dell’intero svolgimento dell’esperienza sindacale, facendone il punto di legittimazione e di confronto dei suoi processi di autoformazione ed autoregolazione.

Libertà e autonomia organizzativa del sindacato costituiscono una delle principali epifanie di quello che può essere definito il filo conduttore del nostro modello di democrazia costituzionale: l’intreccio tra personalismo e pluralismo, la tutela dei diritti dell’uomo dentro una cornice collettiva in cui le istanze individuali si rafforzano e si alimentano diventando parte di un progetto complessivo di «società e Stato».

La libertà sindacale, in tutte le sue molteplici manifestazioni, è innanzitutto una libertà della persona, un diritto che interagisce in maniera biunivoca con altri diritti fondamentali, traducendo da un lato la ricerca costituzionale di un effettivo riequilibrio della pesante asimmetria che caratterizza il conflitto tra interessi dei lavoratori e poteri economici, e funzionando altresì come strumento della partecipazione dei lavoratori alla definizione sul piano normativo-amministrativo della strategia dell’eguaglianza sostanziale (art. 3, 2° co., Cost.). A questa stregua, il fenomeno sindacale proietta, più di quanto non riescano a fare altre istanze o posizioni individuali giuridicamente protette, la dimensione tradizionalmente «oppositiva» del discorso sui diritti sul versante della qualità del sistema democratico, come sistema intrinsecamente «poliarchico», costruito in altre parole su una complessa rete di figure e procedure (non limitati al campo delle istituzioni pubbliche) che muovono verso l’obiettivo del potere «bilanciato», dinamicamente «separato».

2.1.2 Art. 39 e art. 18 Cost. L’organizzazione sindacale «non associativa»

Rispetto alla norma costituzionale «generale» sui fenomeni associativi (art. 18), l’affermazione per cui «l’organizzazione sindacale è libera» esprime una sorta di doppia e divergente «specialità». Infatti, il restringimento dell’orizzonte teleologico dell’associazione sindacale in rapporto alla tipicità dell’oggetto e del

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fine della sua attività, nonché degli interessi che essa per definizione rappresenta, appare in un certo senso «compensata» dalla più ampia delineazione dei modelli di «aggregazione» sindacale dei lavoratori, che potrebbero assumere anche forme ulteriori rispetto allo schema codicistico dell’associazione non riconosciuta (art. 36 ss. c.c.).

Secondo la nota e risalente impostazione di Flammia, invero non particolarmente sostenuta dalla giurisprudenza, «nel nostro settore l’effettività prevale decisamente sulla forma legale nel senso che l’ordinamento non precostituisce o predetermina forme legali di organizzazione, ma richiede soltanto che l’autotutela sia effettiva, ...». Di conseguenza, il pluralismo sindacale potrebbe contenere e giustificare anche soggetti diversi dalle «ordinarie» associazioni; il riferimento, poi ripreso e sviluppato da dottrina successiva, è a soggetti come coalizioni di sciopero di lavoratori non aderenti ad un sindacato, delegazioni di datori di lavoro non organizzati in sindacati di settore (delegazioni che nascono ad hoc per contrattare le condizioni di lavoro con la controparte e che si estinguono automaticamente ad avvenuta contrattazione), forse anche le commissioni interne (tipiche forme di rappresentanza in azienda nel clima della contestazione).

2.1.3 Problemi di identificazione della fattispecie sindacale: l’art. 10 Convenzione OIL n. 87. Il sindacato e i lavoratori «non attivi»

Proprio la libertà delle forme organizzative finisce per spostare soprattutto sugli elementi di tipo teleologico-finalistico il lavorìo di identificazione della fattispecie sindacale. Quello che conta nel fenomeno sindacale è «l’esserci per», la combinazione tra dimensione organizzativa e «attività diretta alla autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro (e non solo di lavoro dipendente)». Illuminante in questo senso la definizione di sindacato contenuta nell’art. 10 Convenzione OIL n. 87: «ogni organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro che abbia lo scopo di promuovere e di difendere gli interessi dei lavoratori o dei datori di lavoro».

La definizione OIL apre tutta una serie di prospettive all’azione sindacale, legate al carattere indeterminabile e al tempo stesso continuamente ri-determinabile degli interessi dei lavoratori, e alla interazione tra sfera politica, funzioni pubbliche e ambito economico-sociale; ad ogni modo, non appare del tutto priva di una capacità di orientamento e precisazione nella soluzione di alcune questioni interpretative sull’essenza del fenomeno sindacale.

In primo luogo, la formula «interessi dei lavoratori» sembra sufficientemente larga per «coprire» sia il movimento espansivo del diritto del lavoro, con riferimento alle forme del lavoro (subordinato, para-subordinato, autonomo) e alle nuove figure di lavoratore che si vanno delineando attorno a questo processo evolutivo, che tutta una serie di vicende e di condizioni personali che si pongono come fasi - precedenti, interne o successive - del rapporto di lavoro. Correttamente, dunque, rimanendo su quest’ultimo punto, le organizzazioni sindacali possono comprendere (sebbene in modo non esclusivo) soggetti inoccupati, disoccupati, pensionati, e svolgere la loro azione anche sulle problematiche connesse a tali status.

2.1.3.1 Segue: l’associazionismo «sindacale» degli imprenditori

Cambiando angolo di visuale, la definizione di sindacato e attività sindacale rilanciata dalla Convenzione OIL giustifica una lettura del fenomeno sindacale comprensiva dell’associazionismo imprenditoriale. In altri termini, le aggregazioni rappresentative degli interessi dei datori di lavoro non sono semplicemente libere associazioni (nel «cono» di legittimazione dell’art. 18 Cost.) ovvero forme di organizzazione dell’attività economica privata (riconducibili direttamente all’art. 41 Cost.), ma vere e proprie associazioni sindacali, nel quadro di una immagine tendenzialmente simmetrica e oppositiva del modello sindacale che non pare esclusa o impedita dall’art. 39.

In effetti, la formulazione dell’art. 39, la tutela costituzionale per il lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35), l’identificazione del lavoro con (ogni) «attività o funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, 2° co.), sono argomenti forti nel senso della piena legittimazione del sindacalismo datoriale. Né oggi si può dubitare del fatto che anche il mercato e i suoi «attori» possano essere contemporaneamente oggetto e fattore di politiche di eguaglianza sostanziale.

È anche vero però che le due situazioni (quella degli imprenditori e quella dei lavoratori a vario titolo) non sembrano completamente sovrapponibili. A parte la considerazione «classica» (forse oggi più teorica che non legata all’effettività delle dinamiche socio-economiche) sul diverso grado di rilevanza delle associazioni sindacali (dei lavoratori) e delle associazioni imprenditoriali ai fini del funzionamento e della stessa pensabilità di un sistema di relazioni sindacali, è proprio il legame «genetico» dell’esperienza sindacale con le implicazioni

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e i contenuti del principio-valore dell’eguaglianza sostanziale37 a suggerire di mantenere comunque una linea di distinzione tra le organizzazioni dei lavoratori e l’associazionismo imprenditoriale. Almeno nel senso che le ragioni più profonde di una norma come quella dell’art. 3, 2° co., Cost., non possono non legittimare un indirizzo preferenziale e di sostegno rafforzato - che è stato quello poi praticato dalla legislazione sindacale, e soprattutto dallo Statuto dei lavoratori - verso i soggetti esponenziali degli interessi e delle condizioni del lavoro subordinato, più deboli sul piano economico-sociale.

2.1.3.2 Segue: il divieto di sindacati «misti» e di sindacati «di comodo»

La coesistenza di associazioni dei lavoratori e degli imprenditori all’interno dell’ordinamento sindacale può avvenire comunque solo in una prospettiva di «alterità» e di contrapposizione degli interessi e dei rispettivi moduli aggregativi. A questa stregua, la figura del sindacato misto (datori di lavoro e lavoratori dipendenti insieme) appare estranea alla tipicità dell’esperienza sindacale, potendo tutt’al più trovare uno spazio di riconoscimento come associazione di fatto (ai sensi dell’art. 18 e non dell’art. 39), priva però dei normali poteri sindacali, primo fra tutti quello di concludere contratti ai diversi livelli.

L’art. 17 st. lav. vieta inoltre la formazione di sindacati di comodo, cioè di quelle associazioni sindacali di (soli) lavoratori, costituite o sostenute, «con mezzi finanziari o altrimenti», dai datori di lavoro ovvero dalle loro associazioni. Si tratta di un meccanismo normativo per certi versi intrinseco alla dinamica sindacale, che si qualifica in rapporto alla natura antagonistica degli interessi rappresentati, raccordandosi altresì ai principi di non ingerenza dell’imprenditore e di tutela del lavoratore nei confronti delle discriminazioni legate alla propria affiliazione o attività sindacale (v. art. 15 st. lav. e art. 2 Convenzione OIL n. 98). Questa norma ha ricevuto dalla giurisprudenza un’applicazione particolarmente rigorosa, tesa a tutelare anche una libera concorrenza tra le organizzazioni sindacali.

Il sindacato di comodo è in sostanza un «non sindacato». A questo paradigma, negli ultimi anni, è stato accostato il caso dei contratti collettivi «al ribasso» o «pirata», stipulati da sigle sindacali scarsamente rappresentative e dichiaratamente alternative ai soggetti confederali, e applicati soprattutto alle piccole e piccolissime imprese operanti nel settore del turismo, commercio, panificazione, radio e televisioni private, conto-terzismo. Secondo le letture più critiche di questo fenomeno, la legittimazione datoriale alla stipulazione dei contratti in favore di queste associazioni «pirata» funzionerebbe da elemento di torsione e di svuotamento della autenticità dell’azione sindacale, che finirebbe in sostanza col piegarsi, in cambio del riconoscimento come controparte negoziale, ad interessi economici del datore di lavoro.

Forse però, la realtà del fenomeno è più complessa, ed è difficile inquadrarla in uno schema valutativo unico. Il carattere sicuramente «disgregativo» di questa esperienza non può escludere del tutto e sempre una qualificazione sindacale di questi «nuovi soggetti», almeno quando non siano apertamente violate le garanzie dei lavoratori (e tra queste, principalmente, il diritto ad una retribuzione sufficiente) e i contenuti della libertà sindacale. Semmai, di fronte a questi contratti, e alle clausole più dissonanti rispetto al parametro dei contratti collettivi «confederali», può senz’altro ammettersi, come si è giustamente fatto rilevare, un più intenso e «stretto» sindacato da parte del giudice.

2.1.4 Contenuti «positivi» della libertà sindacale

La declinazione almeno in prima battuta dei contenuti «positivi» della libertà sindacale non pone particolari problemi o dubbi interpretativi.

Appare scontato che nei confini della libertà sindacale rientrino pienamente la libertà per i lavoratori di iscriversi ad un sindacato tra quelli esistenti, come pure di recedere da un sindacato ovvero di non aderire ad alcuno.

Tali opzioni non sono necessariamente condizionate dalla categoria di appartenenza dei lavoratori, almeno nel senso che la categoria è pur sempre il riflesso di una scelta organizzativa autonoma dei soggetti sindacali e non, secondo una concezione superata proprio perché fortemente intrecciata con i commi dell’art. 39 rimasti irreversibilmente inattuati, una sorta di elemento logicamente precedente (in quanto naturalmente emergente dal tessuto sociale) rispetto alle dinamiche volontarie dell’esperienza sindacale.

Del resto, lo stesso riferimento costituzionale alla strutturazione «categoriale» del fenomeno lavoristico-sindacale riguarda solo l’ambito di applicazione del contratto collettivo e non l’intero spettro operativo e finalistico del sindacato; alla fine, anche a volerlo considerare un segno di preferenza della norma fondamentale (o meglio dei suoi compilatori) verso la dimensione della categoria, non è affatto una preferenza

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assoluta, convivendo nella prassi con molteplici articolazioni organizzative (settoriali, territoriali, aziendali, sub-categoriali, ...) del gruppo dei lavoratori, «tanto longitudinali quanto trasversali» alla categoria medesima.

2.1.5 Il «problema» della libertà sindacale «negativa»

In verità, il punto che resta controverso riguarda il grado e l’estensione della protezione della libertà «negativa», cioè della libertà di non aderire ad alcun sindacato. Posto che nessuno può essere costretto ad iscriversi ad un’associazione sindacale (compulsory unionism), il problema è se ed entro quali limiti possano ritenersi ammissibili strumenti o clausole contrattuali volti ad incentivare o «forzare» l’aggregazione sindacale mediante la garanzia di ottenere o mantenere un posto di lavoro, ovvero di poter rivendicare alcuni diritti legati al rapporto di lavoro.

Sul profilo segnalato, l’atteggiamento dei diversi ordinamenti giuridico-lavoristici conserva evidenti connotazioni asimmetriche: non a caso, questo è un tema quasi «aggirato» dalla normativa internazionale. Non sono pochi infatti, i Paesi che adottano schemi legislativi non chiusi all’impiego delle tecniche di «sicurezza sindacale», con una progressiva intensità nella preferenza verso i lavoratori affiliati e, per converso, negli effetti di «penalizzazione» per i lavoratori non associati. E, per rimanere all’esperienza europea, anche la Cedu ha sempre evitato di assumere una posizione netta e drasticamente negativa nei confronti degli accordi di closed shop, valutando invece caso per caso l’accettabilità o meno del meccanismo preferenziale rispetto alla libertà di scelta dei lavoratori.

Da noi, l’art. 15 st. lav. esprime chiaramente un indirizzo opposto alla logica del «closed shop-System» (o monopole syndical d’emploi) almeno nelle sue versioni più «estreme», sancendo la nullità di qualsiasi patto o atto diretto «a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte». Del resto, su un piano più generale, non sembra molto coerente con il nostro disegno costituzionale dei diritti, nonostante questo abbia una forte impronta pluralistica e «collettiva», che interessi soggettivi primari (come sono certamente quelli dei lavoratori o di chi aspira ad avere un lavoro) siano «condizionati» agli interessi delle strutture organizzative che la Costituzione preordina alla più efficace realizzazione dei diritti medesimi. Nemmeno appare sostenibile l’argomento fondato sull’esigenza di «tranquillità aziendale» ad avere dipendenti affiliati ad una o a poche sigle sindacali con le quali (magari) ci può essere una maggiore facilità di negoziare.

In sintesi, la libertà sindacale - come fatto contemporaneamente individuale e collettivo - presuppone una dimensione di non obbligatorietà, all’interno della quale non c’è spazio per pratiche o procedure che non rispettino anche una scelta di estraneità complessiva al movimento sindacale, e non semplicemente di recesso o di dissenso finalizzati ad una diversa proiezione organizzativa. La legge può ovviamente promuovere e incentivare la scelta associativa, anche alla luce del favor costituzionale per la tutela «collettiva» dei diritti dei lavoratori (artt. 3, 2° co., e 39), ma può farlo solo agendo sul versante del ruolo e dei compiti riconosciuti alle organizzazioni sindacali nei diversi livelli in cui si svolge il sistema delle relazioni industriali, e non operando in chiave discriminatoria nei confronti dei singoli che manifestano una posizione radicalmente «astensiva» nei confronti dell’organizzazione e dell’azione sindacale.

2.1.6 L’attuazione «conformativa» dell’art. 39: Convenzione OIL e Statuto dei lavoratori

In un contesto costituzionale «rigido», le norme costituzionali costituiscono il parametro orientativo e il limite delle politiche legislative; di contro però, sono queste a definire l’immagine reale e la proiezione dinamica dei contenuti delle prime. In altre parole, i principi della Costituzione sono anche ciò che le leggi progressivamente attuano, in una continua ed incessante rielaborazione dei significati e delle implicazioni sostanziali riconducibili al suo tessuto normativo «elastico».

A questa stregua, il principio-valore della libertà sindacale ha trovato i suoi momenti fondamentali di esplicitazione nelle due convenzioni OIL del 1948 e del 1949 (rispettivamente le nn. 87 e 98, ratificate entrambe nel nostro Paese con la l. 367/1958), e nello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970).

Soprattutto lo Statuto dei lavoratori sembra replicare assai bene lo schema dell’attuazione «innovativa» (o conformativa) del dettato costituzionale. È stata la stessa Corte costituzionale a qualificare le norme dello Statuto (nel caso in esame gli artt. 14 e 20) come scelte di politica legislativa che «eccedono il contenuto della garanzia costituzionale della libertà sindacale per tradursi in un intervento giuridico-istituzionale qualificato da una funzione di sostegno dell’organizzazione sindacale all’interno delle imprese».

E, in effetti, la logica della l. 300/1970 è quella di rafforzare la presenza sindacale nelle aziende, attraverso il riconoscimento di diritti e possibilità operative (v. soprattutto gli artt. 14-16 e 19 ss. st. lav.), e sul

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terreno complessivo dell’evoluzione della democrazia industriale nel nostro Paese, accentuando il rilievo di alcuni soggetti sindacali, quelli confederali, particolarmente adatti a svolgere una funzione di sintesi e rappresentanza generale degli interessi del mondo del lavoro, e di raffronto di questi con le grandi questioni dello Stato sociale e della crisi economica.

2.1.7 Limiti alla libertà sindacale tra Costituzione e legge

La libertà di scegliere la forma organizzativa più adatta alle finalità sindacali perseguite, senza ingerenze statuali o pubbliche, così come l’attività di proselitismo e di autotutela che insieme alla contrattazione costituiscono il nucleo essenziale di azione delle strutture sindacali, sono inevitabilmente soggette ad una serie di condizioni limitative poste a garanzia di interessi diversi (si pensi, per un primo esempio agli artt. 17 e 26 st. lav.). D’altronde, questo è un destino di ogni diritto o libertà costituzionale: ovviamente, è necessario che i limiti trovino un fondamento giustificativo nella protezione di beni o interessi comunque di rango costituzionale (nei riferimenti appena fatti, la genuinità del fenomeno sindacale, o il normale svolgimento dell’attività aziendale e dunque esigenze connesse alla tutela dell’iniziativa economica privata).

2.1.7.1 Segue: sindacati e democraticità

L’art. 39, 3° co., stabilisce che «è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica». La connessione testuale tra procedura di registrazione e requisito di democraticità dell’ordinamento interno dei sindacati, una volta esaurita ogni concreta prospettiva di attuazione della seconda parte della disposizione costituzionale, ha messo in ombra proprio questo secondo profilo, portando una larga parte della dottrina a ritenere che il carattere democratico dell’organizzazione costituisse in realtà un semplice onere per la registrazione, non più indispensabile al di fuori dell’attivazione di quello specifico meccanismo procedurale.

Tra le costruzioni più rigorose di questo self-restraint organizzativo dei sindacati, spicca quella di Carabelli, che configura la libertà sindacale come «immunità» da ogni regola eteronoma, fosse anche rivolta a garantire il rispetto del principio democratico e dei diritti inviolabili dell’uomo. Per questo A., invero, il problema di assicurare un minimo di organizzazione democratica dei sindacati - come formazioni sociali «speciali» (al pari dei partiti politici) - può essere ribaltato nella considerazione che la possibilità stessa di costituire sindacati è stata ritenuta dal costituente la massima garanzia idonea a promuovere, indirettamente, all’interno di queste organizzazioni, l’esistenza di una vita democratica e il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo.

In altre parole, secondo l’impostazione richiamata, posto che «l’essenza della democrazia sindacale consiste nella possibilità di aderire o di recedere in ogni momento dal sindacato, e di fondarne un altro», l’unico modo per spingere le organizzazioni sindacali ad adottare regole interne ispirate al metodo democratico (elettività delle cariche, partecipazione associati alle decisioni, temporaneità delle cariche direttive, ...) potrebbe consistere in una legislazione di tipo promozionale, volta cioè a «compensare» con incentivi finanziari e altre agevolazioni la scelta del sindacato di sottoporsi a regole democratiche più stringenti.

Certo, la questione della democraticità dell’ordinamento sindacale non va ingigantita, nel senso che, sul piano dell’esperienza, l’alternativa non è quella - pure ipotizzata teoricamente - tra sindacati assoggettati a rigide prescrizioni «democratiche» imposte dallo Stato e sindacati liberi invece di articolarsi anche secondo moduli organizzativi totalmente estranei al principio democratico.

In fondo, sembra piuttosto un controsenso accettare l’idea che una «Repubblica democratica» (art. 1 Cost.) possa tollerare che alcune sue articolazioni settoriali esprimano una connotazione apertamente difforme dal principio fondativo, soprattutto quando si tratta di soggetti che a vario titolo partecipano alla determinazione dell’indirizzo politico e ai processi decisionali pubblici. Lo «spirito democratico» rappresenta una sorta di punto di attrazione delle diverse manifestazioni dell’ordinamento giuridico (v. anche, in questo senso, l’art. 52, 3° co., sull’ordinamento militare), che ad esso debbono tendere. La specialità di taluni «ordinamenti» (quello sindacale, tra gli altri) può legittimare una certa autonomia o flessibilità di traduzione del metodo democratico, nel senso che non può esistere uno schema rigido da seguire automaticamente con il rischio di controlli troppo pressanti sulle associazioni sindacali, ma non una negazione del principio in nome di una (malintesa) libertà organizzativa che finirebbe col tradire la sua logica finalistica più profonda, quella di funzionare da strumento di svolgimento e di realizzazione della persona e dei suoi diritti fondamentali. E questo a prescindere dal fatto che organizzazioni sindacali palesemente non democratiche non troverebbero probabilmente molto spazio nell’andamento spontaneo delle relazioni sociali.

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2.1.7.2 Segue: il limite della segretezza

Possono ritenersi certamente vietate le associazioni sindacali segrete, in ossequio alla regola generale

concernente i fenomeni associativi (art. 18 Cost.). Per altro verso, è stato giustamente sottolineato che un’associazione sindacale «segreta» non sarebbe in realtà un’associazione sindacale, essendo la segretezza una modalità di azione «intrinsecamente incompatibile» con la fattispecie sindacale, che presuppone una chiara presenza dei soggetti rappresentativi nei luoghi dove si costruisce la tutela dei diritti e degli interessi dei lavoratori.

2.1.7.3 Limiti «soggettivi» alla libertà sindacale: il caso dei militari e degli appartenenti alla Polizia di Stato

Il discorso sui limiti alla libertà sindacale non può essere concluso senza un riferimento ad alcune categorie «speciali» di lavoratori per le quali l’ordinamento prevede condizioni più ristrette di esercizio di tale fondamentale libertà.

La l. 382/1978 («Norme di principio sulla disciplina militare») sancisce il divieto per i militari di «esercitare il diritto di sciopero, costituire associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali» (art. 8). Tuttavia, la stessa legge (artt. 18 ss.) istituisce, su diversi livelli corrispondenti alle dimensioni delle unità principali delle forze armate, dei Consigli di Rappresentanza che hanno il compito di formulare pareri, proposte e richieste (mai comunque vincolanti) su tutti gli aspetti concernenti il trattamento giuridico ed economico dei militari.

È chiaro che i Consigli di rappresentanza sono un surrogato di una libera ed autonoma organizzazione sindacale. Non c’è pluralismo né competizione (almeno non tra liste o sigle sindacali); si tratta, in buona sostanza, di apparati «interni» all’ordinamento militare, tanto è vero che il regolamento attuativo della legge quadro (d.p.r. 661/1979) assegna ad essi un ruolo che va più nella direzione della «coesione» che in quella del «conflitto», chiedendo a queste Rappresentanze di «favorire lo spirito di partecipazione e di collaborazione», e di «mantenere elevate le condizioni morali e materiali del personale militare nel superiore interesse dell’Istituzione».

La Corte costituzionale, nella sentenza 449/1999, ha respinto una questione di legittimità costituzionale proprio sul punto del mancato riconoscimento della libertà sindacale in seno alle Forze armate. Per il giudice delle leggi, il divieto di costituire forme associative di tipo sindacale in ambito militare non appare irragionevole in rapporto alla specialità dell’ordinamento militare, che permane nonostante il forte processo di avvicinamento di questo all’ordinamento generale dello Stato, con tutto il suo sistema di garanzie dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, anche se militari.

Per gli appartenenti alla Polizia di Stato, la l. 121/1981 (artt. 81 ss.) prevede - anche come conseguenza della «smilitarizzazione» del corpo - un sistema di norme sull’attività sindacale appena più elastico di quello relativo ai militari: divieto di partecipare in uniforme, anche fuori servizio, a manifestazioni di [...] organizzazioni politiche o sindacali; possibilità di associarsi in sindacati però «interni» alla Polizia di Stato, perché formati, diretti e rappresentati soltanto da appartenenti alla Polizia di Stato, e privati della opportunità di affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo con altre associazioni sindacali; divieto di esercizio del diritto di sciopero.

Ad ogni modo, sia per i militari - il cui ordinamento deve informarsi allo spirito democratico della Repubblica (art. 52, 3° co.) - che, a fortiori, per gli agenti di Polizia ormai «smilitarizzati», appaiono sempre meno visibili e incontroverse le ragioni di una disciplina così riduttiva della libertà sindacale.

Limitazioni alle libertà costituzionali possono essere imposte solo per esigenze tassativamente esplicitate dalle disposizioni costituzionali, o da queste chiaramente ricavabili come implicazioni sostanziali.

Su questa linea, da un lato non sembra facilmente utilizzabile il richiamo analogico all’art. 98, 3° co., Cost.. Questa norma appare eccezionale (sebbene la Corte costituzionale, nella sentenza 196/87, abbia finito per qualificarla, almeno per la magistratura, alla stregua di un «indice rimarchevole» di un problema più generale), e come tale si giustifica in rapporto alla situazione particolare dei partiti politici che possono influire «direttamente» sull’attività dello Stato attraverso i propri membri eletti negli organi rappresentativi. Su un diverso versante, la specialità del servizio svolto, e la sua connessione con primari interessi come la sicurezza dello Stato e della collettività (e persino la difesa «esterna»), se possono giustificare una posizione di chiusura sul riconoscimento del diritto di sciopero, non appaiono nella stessa misura sufficienti a definire su basi così limitate la libertà di associazione sindacale.

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2.2 La «questione» della rappresentatività sindacale

2.2.1 Posizione del tema

La «rottura» del modello di sindacalismo «registrato» prescritto dalle norme costituzionali, e di

conseguenza la disattivazione dell’ipotesi di una rappresentanza unitaria dove le diverse strutture sindacali contassero in misura proporzionale alla loro consistenza associativa (e/o elettiva), ha costretto il diritto sindacale a confrontarsi con il problema dell’equilibrio tra pluralismo e rappresentatività dei soggetti sindacali.

La tensione verso l’«unicità» (almeno tendenziale) del contratto collettivo, che invero ha costituito anche la proiezione di una chiara scelta organizzativa e negoziale dei datori di lavoro e delle rispettive associazioni, ha spinto il sistema normativo (e lo stesso «ordinamento sindacale di fatto») a ricercare e identificare criteri e meccanismi selettivi (appunto di «rappresentatività») che funzionassero nel senso della razionalizzazione della soggettività sindacale e della riduzione del potenziale di frammentazione insito nell’opzione pluralistica.

Un simile processo non poteva ovviamente restare esente da limiti e imperfezioni, legati sia alla complessa morfologia dell’esperienza sindacale, con la conseguente difficoltà di tracciare indici di rappresentatività sempre soddisfacenti e applicabili, sia al rischio di inserire nelle dinamiche sindacali una prospettiva di monopolio della rappresentanza.

Del resto, la definizione di ciò che è rappresentativo è pur sempre un giudizio di valore che «se non prescinde totalmente dal fatto, in realtà lo sovrasta e lo conforma».

2.2.2 La lunga stagione dei sindacati maggiormente rappresentativi

Il criterio selettivo che ha dominato largamente la costruzione e lo sviluppo del sistema sindacale post-costituzionale è stato quello rappresentato dalla formula della «maggiore rappresentatività», utilizzata inizialmente dalla giurisprudenza amministrativa soprattutto per gestire il problema della partecipazione sindacale agli organi collegiali della P.A., e successivamente incorporato dall’art. 19 st. lav. in riferimento alla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (d’ora in avanti r.s.a.) e da tutta una teoria di leggi che nel delegare all’autonomia collettiva e al metodo negoziale interventi anche peggiorativi di tutele e standards normativi e contrattuali prima garantiti, individuavano i soggetti della contrattazione nelle «confederazioni maggiormente rappresentative».

Diversi sono stati i criteri - di carattere quantitativo ovvero qualitativo - elaborati per ricostruire la nozione di «maggiore rappresentatività», nel quadro di itinerari interpretativi non sempre lineari: tra questi, il dato associativo (cioè la consistenza degli iscritti), l’ampiezza e «diffusione» della dimensione organizzativa, sia categoriale che territoriale, e quindi essenzialmente la confederalità, infine anche il criterio della partecipazione al negoziato come indice di effettività e di capacità di governo del conflitto collettivo.

L’art. 19 st. lav., nella sua formulazione originaria, individuava come ambito esclusivo per la formazione di r.s.a.: «a) le associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) le associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali e provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva».

Il risultato era la configurazione di una «doppia» rappresentatività, da un lato presunta come riconoscimento di un merito storico (e di un obiettivo promozionale in favore) delle grandi organizzazioni confederali, dall’altro definita secondo requisiti tecnici (la capacità negoziale nell’ambito categoriale o territoriale) «aperti», anche nel tempo, in modo da assicurare dinamicità e inclusività al concetto di maggiore rappresentatività.

La scelta «selettiva» del legislatore trova, in una prima fase, un convinto avallo da parte del giudice delle leggi. Con la sentenza 54/1974, la Corte giudica l’intervento del legislatore ragionevole e coerente con la filosofia complessiva della l. 300/1970 di frenare la deriva «anarco-spontaneistica» della rappresentanza sindacale in quel momento storico, sostenendo il tentativo dell’organizzazione confederale di recuperare sul piano aziendale - luogo centrale di costruzione della democrazia industriale - la sua capacità di controllo e di orientamento del movimento dei lavoratori.

Con la sentenza 334/1988, la Corte conferma questa impostazione, raggiungendo anzi «il punto più alto nella sua opera di supporto» allo Statuto dei lavoratori. Il giudice costituzionale difende lo schema del sindacalismo confederale, come simbolo della «valorizzazione, in funzione solidaristica, del modello intercategoriale», la cui preferenza viene iscritta nel progetto costituzionale dell’eguaglianza sostanziale dei lavoratori e della loro partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, 2° co.).

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Dentro questa lettura complessiva del disegno costituzionale, si inserisce la «ben precisa opzione» del legislatore statutario, «consistente, da un lato, nel favorire un processo di aggregazione e di coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali [...]; dall’altro, nel dotare le organizzazioni sindacali - in ragione del complesso intreccio tra conflitto industriale e conflitti sociali - di strumenti idonei a pervenire ad una sintesi tra istanze rivendicative di tipo microeconomico e di tipo macroeconomico ed, insieme, di raccordare l’azione di tutela delle classi lavoratrici con la considerazione di interessi potenzialmente divergenti quali, in particolare, quelli dei lavoratori non occupati».

La strategia difensiva comincia a mostrare la corda di fronte ad un contesto fattuale caratterizzato da una significativa ripresa, nel movimento sindacale, di elementi di pluralismo concorrenziale. Un nuovo intervento della Corte costituzionale riesce a irrigidire il criterio statutario di selezione (configurandolo anzi in termini vincolanti e inderogabili), prospettando tuttavia la necessità di un ripensamento legislativo posto che «è andata progressivamente attenuandosi l’idoneità del modello disegnato dall’art. 19 a rispecchiare l’effettività della rappresentatività».

L’inerzia del legislatore produce in prima battuta il tentativo (dichiaratamente «provvisorio») degli stessi soggetti sindacali, con il Protocollo del 23.7.1993, di autoregolare la rappresentanza sui luoghi di lavoro, attraverso l’istituzione delle r.s.u., nuovi organismi a derivazione prevalentemente elettiva. L’apertura al sindacalismo non confederale, con l’ammissione all’elettorato attivo di tutti i dipendenti dell’unità produttiva interessata a prescindere dalla loro iscrizione ad una organizzazione sindacale, e l’estensione dell’elettorato passivo a tutte le associazioni sindacali formalmente costituite con proprio statuto e atto costitutivo, a condizione che abbiano aderito formalmente all’Accordo interconfederale del dicembre 1993, e abbiano una minima capacità rappresentativa, attestata dalla presentazione della lista elettorale da parte di un numero di firme pari al 5% degli aventi diritto al voto nell’unità produttiva interessata, e la ricerca in sostanza di una reale rappresentatività degli organismi unitari, sono in realtà «compensati» dalla previsione secondo cui un terzo dei componenti delle r.s.u. sono designati o eletti dalle organizzazioni stipulanti il contratto collettivo nazionale di lavoro (d’ora in poi c.c.n.l.), che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti. Di fatto, un vantaggio per le organizzazioni confederali, rafforzate dall’attribuzione della legittimazione negoziale non solo alle r.s.u., ma anche e direttamente in favore delle organizzazioni sindacali territoriali dei lavoratori aderenti a loro volta alle organizzazioni stipulanti il c.c.n.l.

L’art. 19 restava però formalmente in piedi, il modello delle r.s.a. statutarie non era completamente assorbito nelle nuove r.s.u., e ciò rendeva possibile una concorrenza tra organismi rappresentativi diversamente composti: questi ultimi a formazione elettiva, i primi invece soggetti a dei criteri di rappresentatività [in particolare quelli della lett. b)] di tipo diverso.

Si spiega dunque l’attacco referendario al meccanismo statutario, con due quesiti: uno radicale, finalizzato all’abrogazione di tutti i criteri selettivi dell’art. 19, e all’estensione a qualsiasi gruppo di lavoratori della possibilità di costituire r.s.a. e del godimento di diritti sindacali; il secondo circoscritto all’abrogazione della lett. a) e del riferimento alla contrattazione nazionale e provinciale contenuto nella lett. b). Entrambi dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale, solo il quesito cosiddetto «minimale» risultò approvato dal voto popolare, con l’effetto di ancorare la formazione di r.s.a. all’ambito delle associazioni firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, indipendentemente dall’essere stati negoziati a livello nazionale e/o provinciale, quindi anche negoziati soltanto a livello locale. In altri termini, dopo la modifica referendaria, la qualità della maggiore rappresentatività promana esclusivamente dalla competenza contrattattuale, con il rischio che il riconoscimento sindacale venga di fatto a dipendere dal potere di accreditamento datoriale.

In realtà, l’esperienza successiva ridimensiona questa preoccupazione, e i nuovi indici di rappresentatività non spostano più di tanto il baricentro «confederale» del movimento sindacale. D’altronde, l’accreditamento datoriale è un elemento di quell’ordinamento intersindacale che non può che orientare le sue dinamiche a logiche di ragionevolezza e di affidabilità reciproca delle scelte negoziali, il che, dalla parte dei lavoratori finisce col confermare la centralità delle organizzazioni «diffuse» e «intercategoriali», «in grado di coniugare partecipazione e solidarietà».

Il nuovo testo dell’art. 19 supera comunque anche il sindacato del giudice di costituzionalità. La sentenza 244/1996 esclude che la rappresentatività del sindacato derivi dal riconoscimento del datore di lavoro [...], essendo al contrario «una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi (nazionali, locali, aziendali) applicati nell’unità produttiva». Ma soprattutto, con questa decisione la Corte mette in chiaro che l’operazione di «riscrittura» dell’art. 19 st. lav. non tocca tutto quel complesso stratificato di norme che «ai livelli sovra-aziendali, attribuiscono alle associazioni sindacali più rappresentative (così definibili in ragione della loro articolazione a livello nazionale e dai caratteri di

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intercategorialità e pluricategorialità) la legittimazione a stipulare determinati contratti collettivi», o particolari diritti di informazione e consultazione.

2.2.3 Alla ricerca di nuovi indici: il sindacato comparativamente più rappresentativo

Fuori dalla dimensione aziendale, la ricerca di nuove categorie della rappresentatività porta il legislatore ad elaborare la figura del sindacato comparativamente più rappresentativo, che compare per la prima volta nella l. 549/1995 (art. 2, 25° co.), al fine di selezionare il contratto collettivo di riferimento per l’individuazione della retribuzione imponibile a fini previdenziali. La finalità è contrastare il fenomeno dei contratti «al ribasso» o «pirata», assumendo come base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria». Dopo questa prima sperimentazione, il criterio viene consolidato dalla legislazione in differenti contesti: da ultimo, nel d.lg. 276/2003 («integrato» e «corretto» dal d.lg. 251/2004), per la disciplina tra l’altro di lavoro intermittente, apprendistato, progetto individuale di inserimento (artt. 34 ss., 48-49 e 55), e per la costituzione degli enti o organismi bilaterali.

La chiarezza delle relazioni sindacali non guadagna molto da questa nuova nozione. Se, come sembra, la categoria del scpr costituisce una sorta di specificazione selettiva della categoria del smr, non è facile individuare regole e criteri per operare questa ulteriore distinzione, e questo finisce col rimettere in primo piano, problematicamente, la funzione giurisprudenziale di identificazione di criteri e soggetti, e le forze storico-concrete dei processi socio-economici, con la loro capacità «integrativa» del contenuto dello schema legislativo. …

2.3 Il contratto collettivo e la regolazione dei rapporti di lavoro

2.3.1 Premessa e posizione del tema

La intima complessità del fenomeno sindacale, le questioni legate alle forme ed ai soggetti della rappresentanza, il «vuoto» di effettività della norma costituzionale, si rovesciano interamente sul tema del contratto collettivo, trovando lì un punto di necessaria verifica.

Certamente, l’autonomia negoziale e normativa è l’espressione più visibile e al tempo stesso controversa dell’autonomia sindacale. È soprattutto attraverso la contrattazione dei contenuti del rapporto di lavoro che i sindacati inverano il messaggio costituzionale della partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese (art. 3, 2° co., Cost.); e che, più in generale, l’ordinamento sindacale diventa una delle «strutture portanti» della costituzione materiale.

Dietro il volto tipologicamente differenziato del contratto collettivo, collegato a diversi parametri (livelli di contrattazione, ambito pubblico o privato, rapporto di dipendenza-integrazione rispetto alla legge, parti stipulanti, destinatari, finalità, ecc.) e funzioni [v. infra], si può individuare una logica sociale unitaria, quella di essere strumento fondamentale degli interessi dei lavoratori.

2.3.2 Il contratto collettivo nel sistema delle fonti: profili problematici ed elementi di «singolarità»

L’evoluzione dell’esperienza sindacale non ha mai sciolto completamente il nodo già individuato da Carnelutti nella sua plastica identificazione della fisionomia del contratto collettivo: «il corpo della legge e l’anima del contratto». Da un lato, si tratta di regole «bilaterali», pattizie, definite in vista della composizione degli interessi (normalmente contrapposti) dei lavoratori e dei datori di lavoro da parte dei rispettivi soggetti collettivi di rappresentanza; d’altro canto, però, l’impatto reale di queste regole sulla disciplina dei rapporti di lavoro e, ormai, sulla complessiva conformazione di tutti i più rilevanti profili del modello di welfare, il costante e sistematico rinvio alla contrattazione collettiva da parte della legge (con l’esito che in molti casi i contratti collettivi operano in modo non dissimile dai regolamenti delegati, come completamento della disciplina legislativa, ovvero perfino come fonte principale della disciplina, con il ritaglio alla legge solo di una funzione sussidiaria e suppletiva), mettono «fuori gioco» ogni tentativo di insistere sulla natura «solo» negoziale (nel senso di «privatistica») di questi atti, che pure resta dominante negli indirizzi della giurisprudenza ordinaria.

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Almeno sul piano della regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro, il contratto collettivo manifesta una dimensione (o meglio una funzione) «normativa»: siamo di fronte a «fonti del diritto» (atipiche o extra ordinem, secondo le più diffuse varianti ricostruttive), o quantomeno a materiali normativi, collegati all’autonomia costituzionalmente riconosciuta alle organizzazioni sindacali dall’art. 39 Cost., e alla scelta - parimenti costituzionale - di affidare al metodo «consensuale», anziché alla normazione autoritativa ed unilaterale di fonte pubblica, la disciplina delle relazioni tra datori di lavoro e lavoratori. In quest’ottica, l’art. 39 funge da elemento di raccordo tra l’ordinamento intersindacale (di cui sarebbero «direttamente» fonte i contratti collettivi) e l’ordinamento giuridico generale.

Al fondo di questi tentativi definitori rimane pur sempre un’irriducibile ambiguità, che poi finisce col condizionare il regime giuridico di tali atti. Infatti, per la c.d. «legge pattizia» non opera il principio «iura novit curia», la violazione delle norme del contratto collettivo non è deducibile come «violazione di legge» davanti alla Corte di Cassazione, il canone interpretativo applicabile ai contratti non è quello dell’art. 12 disp. prel., valendo bensì al suo posto i criteri dell’ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.).

La identificazione dei contratti collettivi come fonti normative collegate ad una condizione di autonomia costituzionalmente garantita e promossa, pur con tutte le peculiari connotazioni derivanti dal loro contenuto «negoziale», pone il problema di delineare il rapporto di tali atti con la legge.

La Corte costituzionale sembra negare la sussistenza di una riserva in favore dell’autonomia sindacale della disciplina dei rapporti di lavoro, in particolare guardando alla «attuale situazione di inattuazione delle regole costituzionali relative alla stipulazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes». Nondimeno, la discrezionalità riconosciuta al legislatore non è senza limiti, proprio in forza del valore costituzionale dell’autonomia sindacale, di cui l’autonomia negoziale costituisce parte fondamentale. In questo contesto interpretativo è forse troppo parlare di «primarietà eventuale» dei contratti collettivi; o ipotizzare una relazione legge/contratto collettivo modellata sullo schema legge statale/legge regionale (anche prima della riforma costituzionale del 2001). D’altra parte però, la scontata «secondarietà» del contratto collettivo (rispetto alla legge e alle altre fonti primarie) non sembra chiusa ad elementi di «preferenza» o di parziale «riserva» in favore della fonte contrattuale, quantomeno nel senso che la legge non può espropriare del tutto l’area della normazione «autonoma» dei soggetti collettivi; ed è chiaro che queste soglie non sono determinabili a priori, in quanto affidate nella loro consistenza alle dinamiche che alimentano e danno effettività a quella struttura costituzionale materiale che collega l’ordinamento intersindacale e l’ordinamento generale dello Stato.

Il rapporto legge-contratto collettivo è stato finora inteso assumendo come primo termine la legge statale. Quanto e se questo dato sia destinato a cambiare alla luce delle dinamiche neoregionaliste del nostro ordinamento costituzionale (per effetto della l. cost. 3/2001) non è facile dirlo.

La «materia» (termine qui usato impropriamente) contrattazione collettiva è scomponibile in molteplici profili e contenuti, alcuni dei quali attratti all’interno di quell’«ordinamento civile» riservato alla legge statale, ovvero condizionati dai compiti - sempre rimessi alla gestione esclusiva dello Stato - di determinare «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» [art. 117, 2° co., lett. m)], di tutelare la concorrenza [art. 117, 2° co., lett. e)], di garantire un’impronta unitaria del diritto del lavoro «su tutto il territorio nazionale» (art. 120, 1° co.), di regolare l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali [art. 117, 2° co., lett. g)], di assicurare la sostenibilità finanziaria complessiva del sistema. Altri però (certo di minore rilievo), potrebbero raccordarsi alla competenza legislativa regionale «concorrente» sulla «tutela e sicurezza del lavoro», o a quella «residuale» sull’organizzazione amministrativa regionale e sulla formazione professionale (v. l’art. 48, d.lg. 276/2003); non si possono escludere a priori, pertanto, interferenze tra legge (non più solo statale ma) regionale e contrattazione collettiva, così come - a monte - l’intreccio di competenze legislative statali («esclusive») e competenze legislative regionali («residuali») sui temi del lavoro, secondo schemi che superano il semplice figurino della competenza concorrente o ripartita, basato sulla coppia principi fondamentali-disciplina di dettaglio. L’unica cosa che certo una legge regionale non potrebbe mai fare, sarebbe eludere l’art. 39 attribuendo ai contratti collettivi una funzione normativa rafforzata; ovvero, come ha statuito il giudice costituzionale nella sentenza 314/2003, «concorrere» con la disciplina contrattuale nel campo dell’impiego pubblico, rispetto al quale il principio della regolazione contrattuale dei rapporti di lavoro costituisce «norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica».

2.3.2.1 Legge e contratto collettivo: tra derogabilità in melius e «vincoli» legislativi

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La «concorrenza» di fonti legislative e fonti contrattuali nella regolamentazione del sistema lavoristico è in linea di principio governata dalla regola della inderogabilità della legge, salvo che il contratto non disponga più favorevolmente per i lavoratori. Questo modello, giustificato sia sul piano della teoria generale delle fonti (riguardata alla luce della rilevanza costituzionale primaria degli interessi sottesi alla contrattazione collettiva) che su quello del normale rapporto tra legge e autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), non è privo di eccezioni, tutte in qualche modo legate - come momento iniziale - alle c.d. «politiche del diritto della crisi» adottate a partire dalla seconda metà degli anni settanta: ci si vuole riferire da un lato, alla previsione legislativa di «tetti» massimi, non superabili neanche in melius dalla contrattazione collettiva; dall’altro, a tutte quelle leggi di intervento sull’economia e sul mercato del lavoro che definiscono sequenze normative in cui il contratto perde la sua qualità esclusivamente incrementale e integrativa, per trasformarsi in un fattore di co-gestione dei processi di ristrutturazione economico-sociale, chiamato anche a stabilire standards di trattamento peggiorativi rispetto a quelli legali.

Per quanto riguarda la legislazione «vincolistica» (si pensi soprattutto all’art. 2, 1° co., l. 91/1977, sulla sterilizzazione della contingenza ai fini dell’indennità di anzianità), essa, inizialmente, superò (sebbene a fatica e con argomentazioni non particolarmente convincenti) i dubbi di costituzionalità prospettati in rapporto sia all’art. 36 che all’art. 39, 1° e 2° co., Cost. In particolare, nella sentenza 141/1980, la Corte da un lato negò l’esistenza di un’area materiale riservata all’attività normativa dei sindacati (almeno nella situazione di inattuazione dell’art. 39), dall’altro, affermò che tali limitazioni non avrebbero impedito alle organizzazioni sindacali di conseguire le opportune compensazioni attraverso rivendicazioni migliorative di altri istituti contrattuali, né al giudice di intervenire autonomamente e direttamente laddove il trattamento retributivo risultasse in seguito ridimensionato, nell’insieme delle sue componenti, fino a scendere al di sotto della soglia della sufficienza.

Queste giustificazioni vengono dapprima «relativizzate» nella successiva sentenza 697/1988, dove la Corte ammette che il superamento della fase dell’emergenza economica che aveva legittimato l’introduzione dei limiti alla contrattazione collettiva avrebbe potuto rimettere in discussione il loro mantenimento in rapporto ad altri parametri costituzionali. E infine ribaltate con la sentenza 124/1991, nella quale il giudice costituzionale, partendo dal riconoscimento alla contrattazione collettiva della funzione di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia costituzionale del salario sufficiente, sancisce il principio per cui la limitazione della libertà delle parti sociali può avere solo un carattere eccezionale e transitorio in vista del raggiungimento di generali obiettivi di politica economica, una volta conseguiti i quali la conservazione di tali vincoli confligge «non solo con l’art. 39 Cost. (non richiamato nell’ordinanza di rimessione), ma anche con l’art. 36 del quale la contrattazione collettiva, secondo un’interpretazione costituzionale consolidata, è lo strumento di attuazione». Di qui, la dichiarazione di illegittimità costituzionale «sopravvenuta» della disposizione impugnata (appunto, l’art. 2, 1° co., l. 91/1977).

2.3.2.2 Contratto collettivo e contratto individuale di lavoro: l’art. 2113 c.c.

Il medesimo schema derogabilità in melius/inderogabilità in peius, che traduce in linea di principio il rapporto tra legge e contratto collettivo, si riproduce nel rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale.

Una soluzione questa che sembra definitivamente avvalorata a partire dal nuovo testo dell’art. 2113 c.c. come risultante dalla riforma del 1973; ma che, invero, già in precedenza era considerata «un dato costante dell’interpretazione giudiziale», costruito soprattutto sull’adattamento al nuovo ordinamento post-corporativo dell’art. 2077 c.c.

Peraltro il passaggio di testimone tra le due norme come fondamento dell’inderogabilità della fonte contrattuale collettiva è meno scontato e lineare di quanto non possa a prima vista apparire.

Per un verso infatti, molti autori non ritengono che l’art. 2113 c.c. abbia «chiuso» completamente ogni problema, o almeno che l’inderogabilità della fonte non sia necessariamente l’altra faccia dell’affermata inderogabilità dei diritti da essa derivanti: il regime di indisponibilità dei diritti ivi tracciato è solo parziale, poiché sono valide le rinunzie e le transazioni intervenute in sede di conciliazione giudiziale e sindacale, e anche quelle in astratto «invalide» non sono nulle di diritto ma semplicemente annullabili (o meglio impugnabili a pena di decadenza, entro il termine di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima). Da un altro punto di vista, se si ammette che tale disposizione «sembra più presupporre che affermare l’inderogabilità delle clausole collettive», allora il fondamento di tale meccanismo di superiorità della fonte collettiva va ricercato altrove, e questo «altrove» finisce con l’essere identificato ancora con il vecchio art. 2077 c.c.

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2.3.3 L’inattuazione dell’art. 39 e il problema dell’efficacia «soggettiva» del contratto collettivo

Al declino di ogni ipotesi attuativa del modello ex art. 39 (registrazione dei sindacati e,

conseguentemente, riconoscimento ad una rappresentanza unitaria di tali soggetti del potere di concludere contratti collettivi con efficacia erga omnes) ha fatto da contraltare la ricerca di meccanismi (legislativi o interpretativo-giurisprudenziali) tendenti a sganciare il problema dell’efficacia soggettiva del contratto dall’esito «privatistico» cui appariva destinato in forza della disattivazione della norma costituzionale. Fuori dallo schema costituzionale rimasto inattuato infatti il contratto collettivo (perciò definito «di diritto comune») non può che applicarsi nei confronti di quei datori di lavoro e lavoratori aderenti alle associazioni che hanno stipulato il contratto; il che, nella cornice pluralistica del sistema sindacale, ben avrebbe potuto (e potrebbe) comportare la coesistenza, nel medesimo ambito settoriale-professionale, di più accordi conclusi dai diversi sindacati e vincolanti esclusivamente per i propri associati. Una prospettiva teorica, quest’ultima, che ha ceduto alla forza conformativa delle dinamiche unificanti che hanno connotato fin dall’inizio (con diversa intensità) l’esperienza intersindacale repubblicana, con particolare riferimento proprio al comportamento negoziale e alla regolazione del mercato del lavoro e delle condizioni dei lavoratori.

2.3.3.1 L’efficacia «generalizzata» del contratto collettivo «al di fuori» dell’art. 39 Cost. La l. 741/1959

Le soluzioni di «aggiramento» dell’art. 39 possono essere raggruppate in due categorie: a) soluzioni legislative; b) soluzioni interpretative (giurisprudenziali e/o dottrinali).

Il modello più «celebre» resta quello della l. 741/1959, con la quale il Governo viene delegato a recepire in altrettanti decreti legislativi i contratti collettivi esistenti, purché stipulati prima dell’approvazione della legge delega, conferendo ad essi efficacia erga omnes, con la conseguente applicazione dei meccanismi contrattuali a tutti gli appartenenti alla categoria professionale alla quale il contratto si riferiva. L’obiettivo esplicito della l. 741/1959 era la garanzia di minimi di trattamento economico e normativo a tutti i lavoratori, in conformità agli artt. 3 e 36 Cost.

Ad ogni modo, al di là dello scopo perseguito, era palese il contrasto di tale opzione legislativa con l’art. 39, 4° co.: la Corte costituzionale, tuttavia, dichiarò provvisoriamente non incostituzionale la l. 741/1959, insistendo sul carattere transitorio ed eccezionale della scelta del legislatore. Per gli stessi motivi, guardati dalla prospettiva opposta, la Corte censurò invece la reiterazione del modello tentata con la l. 1027/1960, determinando per questo una disparità di trattamento a danno di alcune categorie di lavoratori (chimici, telefonici, ...) le cui condizioni contrattuali erano legate alla partecipazione alla formazione del contratto da parte delle associazioni cui aderivano i rispettivi datori di lavoro.

Un impatto meno diretto sulla norma costituzionale hanno quelle disposizioni legislative che condizionano determinati benefici alle imprese da parte dello Stato o degli enti pubblici (finanziamenti agevolati, concessioni e appalti pubblici, sgravi fiscali, ...) all’impegno che esse pratichino ai dipendenti condizioni non inferiori a quelle dei contratti collettivi vigenti, ovvero che utilizzano i contenuti «minimi» dei contratti collettivi come parametro per determinare il trattamento economico da corrispondere a speciali categorie di lavoratori (quelli ad es. assunti in base alla l. sull’occupazione giovanile, 285/1977, art. 9). …

2.3.3.3 Segue: Soluzioni giurisprudenziali di «allargamento» dell’efficacia soggettiva del contratto

Se l’inattuazione dell’art. 39 è «compensata» solo parzialmente dalle soluzioni legislative, a fortiori l’esito non poteva essere migliore per i meccanismi giurisprudenziali (o comunque interpretativi) elaborati con il medesimo fine di «rafforzare» la portata soggettiva del contratto collettivo di lavoro fuori dallo schema costituzionale.

Il più famoso di questi espedienti logico-giuridici di estensione «indiretta» dell’efficacia del contratto è stato sicuramente l’uso combinato della determinazione giudiziale della retribuzione (prevista dall’art. 2099 c.c.) e del principio costituzionale della retribuzione sufficiente di cui all’art. 36. In sintesi, i livelli retributivi (minimi) stabiliti nei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative vengono ritenuti adeguati a realizzare le esigenze vitali (e di dignità personale e familiare) tutelate dalla norma costituzionale per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro scelta di associazione sindacale: in altre

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parole, il contratto collettivo diventa una sorta di «prolungamento» attuativo della garanzia costituzionale della retribuzione giusta e sufficiente (al riguardo si rinvia al Commento all’art. 36).

Altri tentativi di spingere il contratto collettivo oltre i confini dell’efficacia «privatistica» sono stati ancorati alla dimensione e al ruolo sostanzialmente «politico» delle grandi strutture sindacali («maggiormente rappresentative»). I contratti conclusi dalle organizzazioni confederali maggiormente rappresentative godrebbero di una presunzione di efficacia tendenzialmente «generale» («erga omnes»), che verrebbe meno soltanto di fronte ad un parallelo e concorrenziale sviluppo di una contrattazione di diritto comune, posta in essere da sindacati non qualificabili come maggiormente rappresentativi. Nello stesso contesto storico-sindacale, anche la Cassazione è arrivata ad affermare che «i contratti collettivi nazionali di categoria quando coinvolgono [...] tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori, o comunque quelle di gran lunga più rappresentative, adempiono ad una funzione [...] nazionale [...] nel senso che [...] rivelano la chiara intenzione delle parti contraenti di considerare i contratti in questione come norme generali di disciplina del lavoro».

Ancora, altre ipotesi «estensive» sono state costruite intorno alla teoria della recezione implicita delle clausole collettive nel contratto individuale o dell’adesione al regolamento collettivo per effetto di una perdurante e uniforme applicazione di fatto della (o anche semplicemente del richiamo alla) disciplina collettiva; all’obbligo del datore di lavoro di applicare le clausole contrattuali in caso di mancata tempestiva eccezione in giudizio della sua estraneità (diretta o indiretta, in quanto non iscritto all’associazione datoriale stipulante) alla contrattazione, ovvero, qualora sia affiliato ad una delle associazioni datoriali firmatarie, di applicare il contratto a tutti i lavoratori, a prescindere se questi siano o meno aderenti alle controparti sindacali stipulanti.

Infine, si è provato a desumere dall’art. 39, nonostante la disattivazione delle fasi procedurali ivi regolate, la sussistenza di un principio democratico maggioritario idoneo a fondare una efficacia «generale» del contratto collettivo stipulato da soggetti sindacali configurabili come «maggioritari» sul piano della rappresentatività rispetto al panorama delle forze sindacali relativo alla categoria cui il contratto si riferisce.

2.3.4 Contrattazione collettiva e lavoro nelle pubbliche amministrazioni

Autonomia e potere negoziale dei sindacati hanno dovuto superare non pochi ostacoli per radicarsi come princìpi fondamentali anche nel lavoro presso le P.A.

La solidità del paradigma «amministrativo» dello Stato, fondato sulla coppia concettuale legalità-autorità, ha costituito a lungo un fattore di specialità del pubblico impiego, nel senso della «rinunzia del pubblico dipendente a contrapporre i propri interessi a quelli dell’amministrazione» e dell’accettazione di una tutela sostanzialmente rimessa all’ordinamento generale e alle scelte unilaterali dell’amministrazione medesima.

All’interno di questo orizzonte interpretativo, alla difficoltà di pensare ad uno svolgimento pieno della libertà sindacale nel pubblico impiego, si accompagnava una considerazione «marginale» di quelle esperienze negoziali che in questo settore continuarono a registrarsi dopo la fine dell’ordinamento corporativo.

Solo la l. 83/1993 ha tentato una razionalizzazione di questa prassi frammentata e ha definito una disciplina della contrattazione collettiva come strumento di regolazione - su materie e secondo i princìpi stabiliti dalla legge - del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. L’inquadramento teorico dell’autonomia negoziale nell’organizzazione amministrativa è ancora «cauto», prevalendo atteggiamenti ricostruttivi incentrati sulla piena (e revocabile) discrezionalità del legislatore ad introdurre elementi di contrattualità nel precedente schema unilaterale.

D’altro canto, l’impianto complessivo del lavoro pubblico restava ancora troppo ancorato alla sua tradizionale specialità, e al contesto amministrativo; e il segno più appariscente di questa ambiguità era proprio la torsione del procedimento contrattuale ad esiti pubblicistici, con la recezione in decreti presidenziali, e - più in generale - l’inserimento in «un processo infinito ad esito incerto», aperto all’intervento e al condizionamento (unilaterale) di numerosi soggetti pubblici: il Governo, la Corte dei Conti, i giudici amministrativi, lo stesso Parlamento, attraverso la rilegificazione di molti contenuti contrattuali.

La «privatizzazione» del lavoro pubblico delinea un nuovo «ambiente» nel quale la contrattualizzazione (in primis collettiva) del rapporto di lavoro non è più una novità eccentrica rispetto al sistema, ma una logica conseguenza del modello generale adottato.

Il contratto collettivo diventa il perno di una regolamentazione dello status del dipendente pubblico comunque orientata ad una prospettiva di tipo privatistico (art. 2, 2° e 3° co., t.u. 165/2001). La legge definisce soggetti e procedure della contrattazione.

Sul primo aspetto, per la parte sindacale, soprattutto con la cd. «seconda privatizzazione» si è avuta una significativa ridefinizione della rappresentatività sindacale, con la previsione di criteri e di indici minimi per

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l’ammissione alla negoziazione e per la validità del contratto che sono da molti considerati come un possibile (sebbene parziale) riferimento per la riscrittura delle regole sulla rappresentanza sindacale anche nel lavoro privato.

Per la parte datoriale, la soggettività negoziale delle P.A. si realizza nella figura dell’ARAN, che l’art. 46 t.u. individua come «rappresentante legale» delle P.A. ai fini della contrattazione nazionale, e come struttura di assistenza e consulenza (però eventuale) ai fini della contrattazione integrativa. L’azione contrattuale dell’ARAN soggiace al potere di indirizzo delle istanze associative o rappresentative delle amministrazioni pubbliche «che danno vita a tal fine a comitati di settore» (art. 41 t.u.). Per le Regioni e le altre amministrazioni locali il Comitato di settore è costituito rispettivamente nell’ambito della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, dell’ANCI e dell’UPI. Questi organismi sono chiamati poi a designare, in conformità agli indirizzi «autonomisti» espressi dalla sentenza 359/1993 della Corte costituzionale, ciascuno un componente dell’ARAN.

I connotati descritti differenziano sensibilmente l’ARAN dalle organizzazioni datoriali private: la prima è disciplinata dalla legge, mentre le altre sono disciplinate in virtù del vincolo associativo che lega i soggetti rappresentati148; inoltre nel settore privato i sistemi di rappresentanza sono articolati per ambiti produttivi (industria, agricoltura, artigianato, servizi), mentre nel pubblico c’è un’unica entità organizzativa per l’esercizio della funzione sindacale, indipendentemente dai «comparti» di interesse. …

Con qualche dissenso, la configurazione «normativa» (come fonte del diritto «negoziata») dei contratti collettivi nel pubblico impiego sembra decisamente prevalere, con minori incertezze rispetto a quelle che caratterizzano i contratti collettivi concernenti i lavoratori privati. Gli argomenti più rilevanti (anche se non assolutamente incontrovertibili) nella prospettiva della differenziazione tra contrattazione «pubblica» e contrattazione «privata» riguardano la struttura del procedimento di contrattazione, per la prima dettagliatamente disciplinato quanto alla ammissione dei soggetti al tavolo negoziale, alla validità dell’accordo, ai vincoli preventivi e successivi all’attività dell’ARAN; la pubblicazione dei contratti sulla Gazzetta Uff., che secondo un’autorevole dottrina «fa probabilmente scattare il canone "iura novit curia", [...] proprio delle fonti normative»; infine la proponibilità, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle P.A., del ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali (art. 63, t.u. 165/2001).

La stessa questione dell’efficacia «soggettiva» del contratto si presenta qui in forme diverse dal settore «privato», almeno stando all’orientamento del giudice costituzionale. Nella sentenza 309/1997 la Corte, dopo aver confermato la legittimità costituzionale complessiva del disegno legislativo della «privatizzazione» (così, in precedenza, già la sentenza 313/96), ha sostanzialmente «bypassato» l’ostacolo costituzionale dell’art. 39, 4° co., sul presupposto che l’applicazione del contratto collettivo «deriva, non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà di questo [...] ma si colloca sul distinto piano delle conseguenze che derivano, per un verso, dal vincolo di conformarsi imposto alle amministrazioni (art. 40, 4°co., e 45, 2° co., t.u.), e per l’altro, dal legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo». C. COLAPIETRO, Commento all’art. 36, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 739 ss. …

2.1 I principi costituzionali della «proporzionalità» e della «sufficienza» della retribuzione

La disposizione di cui all’art. 36, 1° co., Cost., nel riconoscere non solo il «diritto fondamentale che al lavoratore compete in base alla sua prestazione», ma anche i criteri ed i limiti di determinazione della «giusta retribuzione», assume un ruolo preminente nel quadro della disciplina costituzionale del rapporto di lavoro, dal momento che continua a costituire, nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano - che «non ha mai preso posizione [...] sui requisiti a cui debba commisurarsi la retribuzione dei lavoratori dipendenti» - «l’unica norma giuridica (legislativa), volta a disciplinare il contenuto dell’obbligo retributivo».

In particolare, l’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata»

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garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata»; mentre quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». In altre parole, l’uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l’altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto».

È evidente «l’apparente schizofrenia» della prescrizione costituzionale, chiaramente ispirata da logiche contrapposte, in cui confluiscono elementi che ne evidenziano tanto «la natura contrattuale di corrispettivo della prestazione lavorativa», quanto «la funzione di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia»; affidando conseguentemente all’interprete l’ingrato compito di realizzare la non facile sintesi tra proporzionalità e sufficienza, due criteri che, anche in virtù della loro estrema genericità, «sono in qualche modo ambigui e potrebbero risultare alternativi, se non addirittura contraddittori».

E ciò nonostante, la disposizione in esame ha avuto in questi anni una «singolare» fortuna rispetto alle altre disposizioni costituzionali in materia sindacale e del lavoro, rivelando «una vitalità normativa» decisamente superiore anche alla stessa disciplina tradizionale di tutela del lavoratore contenuta nel Titolo III della Costituzione, come testimonia il supporto offerto a quella copiosa giurisprudenza in materia di determinazione della retribuzione per i lavoratori, di gran lunga la più rilevante nell’esperienza giurisprudenziale, e che rappresenta uno dei «più vistosi esempi di creatività normativa della nostra magistratura».

Tale giurisprudenza, sviluppatasi nella perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost., ha ritenuto che i contratti collettivi di diritto comune, i quali avrebbe potuto dispiegare efficacia soltanto nei confronti dei lavoratori appartenenti ai sindacati firmatari, «rilevino anche per quelli non iscritti, come fonti statuenti i trattamenti retributivi minimi inderogabili dai contratti individuali», secondo uno standard che, dal momento che riflette l’interesse collettivo di tutto il gruppo professionale, è valido per una pluralità di soggetti appartenenti alla stessa categoria e collocati nel medesimo livello contrattuale di inquadramento.

Il che significa riconoscere la propensione del nostro ordinamento - nel quadro di una Costituzione che garantisce la libertà sindacale e per essa l’autonomia collettiva - per «l’autonoma determinazione dei trattamenti retributivi ad opera delle parti sociali interessate», ed il conseguente ruolo fondamentale svolto, anche in materia tariffaria, dalla contrattazione collettiva, quale fonte di determinazione della misura della retribuzione, secondo il chiaro rinvio (non assoluto) alla fonte di derivazione contrattuale contenuto nell’art. 2099 c.c., «espressione precipua e cospicua della relazione di interdipendenza che sussiste tra legge e contratto collettivo in tutta la disciplina del rapporto di lavoro».

2.1.1 L’evoluzione e l’allargamento del concetto di retribuzione nell’ordinamento giuridico italiano

La dottrina è pressoché concorde nel ritenere che il concetto di retribuzione - non espressamente indicato né dalla Costituzione, né dal codice civile, e tuttavia «ricavabile dagli elementi e dai requisiti offerti dalle norme ivi contenute» - sovrappone e giustappone una pluralità di significati, «ciascuno dei quali è debitore nei confronti delle diverse finalità che ad esso risultano sottese».

Il termine «retribuzione», espressione relativamente recente del lessico giuridico italiano, in luogo del quale ha preferito utilizzare per lungo tempo il termine classico di «mercede», evidenzia etimologicamente l’atto del «restituire», del «rendere indietro», ed in questo senso sottolinea il carattere sinallagmatico del contratto di lavoro, come contratto di scambio tra prestazioni corrispettive, ben delineato dalla definizione di prestatore di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c., laddove con l’espressione «mediante retribuzione» si sottolinea «la funzione della controprestazione retributiva rispetto alla erogazione di energie psico-fisiche da parte del lavoratore».

Tuttavia, con l’entrata in vigore dell’art. 36, 1° co., Cost. si assiste ad una estrema dilatazione del concetto di corrispettività, per l’assorbente rilevanza acquisita nella determinazione della retribuzione del lavoratore dalle sue esigenze di vita rispetto all’equilibrio che ordinariamente si stabilisce tra le prestazioni contrattuali, dal momento che «la retribuzione compensa un’attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore, il quale [...] ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della famiglia [...]». E ciò secondo un’ispirazione personalistica che ha indotto persino un’autorevole dottrina a ripensare, peraltro senza particolare successo, la struttura stessa del rapporto giuridico retributivo, per sganciarlo dal novero dei diritti di credito in senso stretto e classificarlo, invece, tra i diritti assoluti della personalità.

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È evidente che, pur non ponendosi il problema dell’intrinseca sinallagmaticità del contratto individuale di lavoro, si rileva certamente la presenza di molti elementi contrastanti con tale caratteristica, primo fra tutti il collegamento, operato per effetto dell’art. 36, 1° co., Cost., dell’obbligazione retributiva «ad una situazione esterna rispetto alle caratteristiche intrinseche della prestazione lavorativa», con il conseguente «progressivo attenuarsi del nesso di corrispettività fra prestazione e retribuzione, a favore della seconda, nel senso che si è progressivamente ampliato il numero dei casi in cui all’erogazione retributiva non corrisponde l’erogazione di energie di lavoro». Ciò in quanto con la prestazione il lavoratore non acquista soltanto il diritto alla controprestazione retributiva, ma, si potrebbe dire, entra in «un’area di garanzia in cui la sua personalità fisica e morale viene tutelata nel senso più ampio dell’espressione».

Il riferimento è, ovviamente, a tutte quelle situazioni in cui opera il principio della traslazione sul datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, in base al quale, nonostante il rapporto di lavoro sia sospeso e la prestazione lavorativa sia temporaneamente impossibile, si ha ugualmente il mantenimento della retribuzione o l’attribuzione di una particolare indennità. È chiaro che in tutti questi casi di «(apparenti) deroghe al principio di corrispettività» opera una nozione allargata di corrispettività rispetto a quella propria degli altri contratti sinallagmatici, e la stessa nozione di retribuzione - su cui ora incidono «valutazioni di ordine sociale tali da trascendere la sua configurazione come semplice corrispettivo oggettivo della prestazione lavorativa» - viene dilatata ben oltre i confini del concetto di corrispettività, stante il «decisivo rilievo del coinvolgimento della persona umana nell’adempimento dell’obbligazione di lavoro».

E così ai caratteri tradizionalmente tipici della retribuzione - la causalità, l’onerosità, la corrispettività, l’obbligatorietà, la continuità, la determinatezza e l’intangibilità - si aggiungono quelli, costituzionalmente imposti, della proporzionalità e della sufficienza alle esigenze di vita del lavoratore, che finiscono con il coniugare «antichi richiami alla necessità di una giusta mercede [...] con moderne impostazioni concernenti la tutela del reddito vitale del lavoratore».

2.1.2 I due modelli interpretativi dell’art. 36, 1° co., Cost.: la complementarità tra «proporzionalità» e «sufficienza»

La polarità sottesa all’art. 36, 1° co., Cost. tra «l’astrazione economica che oggettivizza la prestazione di lavoro in un bene di scambio, [...] e la valutazione etico-sociale che ne fa valere la concreta realtà di manifestazione essenziale della persona umana», si traduce nella tensione tra la funzione parametrale e determinativa e la funzione promozionale della retribuzione, che a sua volta si riflette in due modelli interpretativi del rapporto tra i principi enunciati nel 1° co. dell’art. 36:

- il principio di proporzionalità, in virtù del quale la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio oggettivo, considerando la prestazione di lavoro nella sua consistenza quantitativa (durata ed intensità dell’impegno) e qualitativa (mansioni espletate e loro caratteristiche intrinseche);

- il principio di sufficienza, che fa, invece, perno sull’elemento soggettivo, ed in base al quale la retribuzione - in quanto diritto avente «precipuo carattere alimentare» - deve soddisfare le «esigenze minime di vita» del lavoratore e della sua famiglia, assicurando loro «un’esistenza libera e dignitosa attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita»; il che significa che «la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo vitale o di sussistenza, in modo da garantire [...] una retribuzione adeguata alle esigenze sociali oltre che ai bisogni immediati del lavoratore», secondo quella che è la funzione sociale della retribuzione.

È evidente come questo secondo modello - in cui «la garanzia di sufficienza si realizza anzitutto a livello di diritto di cittadinanza sociale» - si fondi su quell’imperativo primario insito nel precetto costituzionale e riassunto nel concetto di sufficienza, «sottolineato dall’assolutezza impressa al comando attraverso la locuzione in ogni caso, e valorizzato dal triplice riferimento alla famiglia del lavoratore, alla libertà e alla dignità della sua esistenza», onde non superare nella fissazione del salario quel limite invalicabile al di sotto del quale si finisce con il ledere la stessa «centralità della persona umana, che nel disegno del costituente è sancita appunto nell’art. 2».

In questa prospettiva, l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato dalla rilevanza della persona umana, comporta che il principio della tutela inderogabile dei diritti del lavoratore, pur restando il principio cardine dell’ordinamento, non è più limitato alla posizione contrattuale, ma esteso alla posizione sociale del lavoratore, in questo modo correggendo o almeno temperando il rigido criterio proporzionalistico.

Ecco allora che il rapporto intercorrente tra i due richiamati principi, da sempre così conflittuale e controverso in dottrina - tra quanti li ritengono scindibili, con una conseguente separata ed autonoma sfera di applicazione (Pugliatti), e quanti li ritengono, invece, coessenziali, in quanto parti di un unico indissolubile

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precetto normativo (Ghezzi e Romagnoli) - non può assolutamente essere impostato in termini gerarchici, relegando, attraverso un’artificiosa ricostruzione del dato normativo, il principio della sufficienza ad un ruolo meramente sussidiario rispetto al connotato principale della proporzionalità, se non a costo di dissolvere il principio «subordinato» in quello «principale».

Nell’economia della norma costituzionale non è, infatti, riscontrabile un siffatto rapporto gerarchico tra i due principi - «si potrebbe affermare, al contrario, che la locuzione in ogni caso significhi un prius rispetto alla proporzionalità» - i quali appaiono, invece, strettamente connessi ed accomunati dal medesimo fine tanto di fornire la nozione costituzionale di retribuzione prescrivendone i requisiti essenziali, quanto di garantire «nel loro insieme e nella loro idoneità a soddisfare i diversi interessi in gioco, [...] quel livello di dignità richiesto dal costituente».

E così il rapporto di continuità, oserei dire quasi simbiotico, in cui si pongono nel disegno costituzionale proporzionalità e sufficienza sembra poter essere ulteriormente sviluppato secondo una linea che ricerchi «la dinamica e la complementarità» tra i due termini del rapporto, dal momento che è proprio «la sufficienza, attraverso il riferimento alle esigenze di vita, ad inserire elementi di concretezza e di storicità [...] nella stessa valutazione di proporzionalità, anzi a fornirle una sorta di unità di misura [...]». Nella prospettiva che così si apre, viene ad instaurarsi attraverso la retribuzione in entrambe le sue dimensioni «un rapporto, che esprime il destino dell’uomo moderno, tra qualità-quantità di lavoro e qualità di vita sua e della famiglia, anzi del nucleo familiare».

Del resto, una chiara indicazione in tal senso viene proprio dalla Corte costituzionale, allorché, nell’articolata e diffusa motivazione della sentenza 559/1987, ha precisato che il concetto di retribuzione assunto dal 1° co. dell’art. 36 Cost. non è «mero corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità e, insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del lavoratore e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa».

Proporzionalità e sufficienza sono dunque, per i giudici della Consulta, criteri che operano congiuntamente, affermazione che, d’altra parte, gli stessi giudici costituzionali avevano già fatto nella sentenza 74/1966 e ripreso nella sentenza 82/1973, nella quale, dopo aver precisato che la nozione di retribuzione non è comprensiva di tutte le prestazioni che il datore di lavoro eroga a titolo di corrispettivo al lavoratore, hanno infatti ribadito che la retribuzione garantita dall’art. 36 Cost. comprende le sole «controprestazioni che servono nell’economia del rapporto, proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

E dalla stessa ed ormai consolidata giurisprudenza costituzionale è possibile ricavare ulteriori ed importanti indicazioni sull’effettiva portata dei principi costituzionali in materia di retribuzione.

Come la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare in più occasioni, infatti, i requisiti di proporzionalità e sufficienza della retribuzione devono essere valutati non già in relazione ai singoli elementi che compongono il trattamento economico, ma considerando la retribuzione nel suo complesso, nella sua globalità, «cosicché la riduzione di una singola componente della retribuzione non può, di per sé sola, costituire una lesione della disposizione costituzionale». L’art. 36, 1° co., Cost., non impedisce, infatti, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità e fermo restando il limite della ragionevolezza, possa procedere a nuove valutazioni ed a variare di conseguenza l’entità delle singole voci retributive.

Peraltro, la disposizione costituzionale non tende neppure «a garantire la indicizzazione degli elementi retributivi», dal momento che «la scelta in concreto dei meccanismi di perequazione è riservata al legislatore ordinario, chiamato ad operare il bilanciamento tra le varie esigenze nel quadro della politica economica generale e delle concrete disponibilità finanziarie». Tuttavia, questa valutazione «va operata non nel senso di un doveroso, costante allineamento, ma nel senso che il verificarsi di un macroscopico ed irragionevole scostamento è indice sintomatico della non idoneità del meccanismo, in concreto prescelto, a preservare la sufficienza dei trattamenti per assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati ad una esistenza libera e dignitosa».

2.1.3 L’art. 36, 1° co., Cost. nell’applicazione giurisprudenziale

Tuttavia, come rileva concorde la dottrina, l’importanza del 1° co. dell’art. 36 Cost. è soprattutto nella sua applicazione giurisprudenziale, laddove si è espressa, a partire dagli anni cinquanta, e si esprime tuttora la «vitalità normativa» del precetto costituzionale in esame, la cui fortuna si presenta «nei fatti come l’altra faccia del fallimento dell’ordinamento contrattuale ipotizzato dal costituente nell’art. 39».

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Il percorso logico intrapreso dalla giurisprudenza muove dal riconoscimento dell’immediata precettività dell’art. 36 Cost. e quindi della sua diretta applicabilità ai rapporti individuali di lavoro, che autorizza il trasferimento al giudice del potere di determinare concretamente gli indicatori, della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione, «esterni al dettato normativo e storicamente variabili [...], di fronte alla carenza degli altri strumenti storici utilizzabili per realizzare tale obiettivo»: la contrattazione collettiva, per l’assenza di una legislazione attuativa dell’art. 39 Cost.; ed una legislazione sui minimi salariali, «tuttora estranea alle ipotesi di intervento considerate nel nostro paese», nonostante la tendenza diffusa nella maggior parte degli altri paesi industrializzati, nel cui ordinamento è prevista accanto alla contrattazione collettiva una legislazione sul salario minimo.

Il merito della giurisprudenza è nell’aver attribuito alla magistratura la responsabilità attuativa del precetto costituzionale (sebbene realizzando, come si vedrà, un’attuazione solo parziale), affidando al giudice il compito di provvedere a dichiarare la nullità delle clausole retributive dei contratti individuali contrastanti con i principi dell’art. 36 Cost. e, conseguentemente, di fissare la retribuzione secondo equità, ai sensi dell’art. 2099, 2° co, c.c., facendo ricorso, onde eliminare la soggettività insita in questa valutazione, alle tariffe salariali di fonte collettiva, quali parametro per stabilire la misura della retribuzione sufficiente, pervenendo in questo modo ad una possibile estensione indiretta dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, che se non è contra legem è quanto meno praeter legem.

Peraltro, come si è fatto rilevare, la giurisprudenza non ha avuto in questi anni un indirizzo univoco, nonostante sia comunque sicuramente prevalente l’orientamento giurisprudenziale che giudica conforme ai principi costituzionali la retribuzione equivalente ai CCNL applicabili alla categoria di appartenenza del lavoratore, ovvero ad una categoria affine - individuata dal giudice senza essere vincolato dalle indicazioni delle parti - qualora non si possa fare riferimento ad un contratto collettivo stipulato per la specifica categoria cui appartiene l’impresa e direttamente applicabile al rapporto, oppure quando le parti non abbiano fornito criteri attendibili di altra natura.

Quel che è fuori discussione, secondo la giurisprudenza della Cassazione, in un’ottica di intensificazione del garantismo sociale, è che la tutela dei diritti inderogabili dei lavoratori, ed in particolare del diritto ad una retribuzione sufficiente, impone che il minimo retributivo non possa essere comunque derogato, né in relazione alle particolari condizioni economico-ambientali in cui viene effettuata la prestazione, né in considerazione della situazione economico-finanziaria dell’impresa, che pure sono suscettibili di influenzare, in linea generale, i livelli salariali attraverso il contemperamento dei contrapposti interessi operato dalla contrattazione collettiva. Il che significa, in altre parole, che il diritto del lavoratore alla retribuzione sufficiente non può essere condizionato dalle condizioni di mercato.

Tuttavia, il filone giurisprudenziale attraverso il quale si è tentato di dare attuazione per via giudiziaria al precetto costituzionale se, da un lato, riconferma l’importante contributo della giurisprudenza nell’interpretazione e, quindi, nella formazione extra-legislativa del diritto del lavoro, dall’altro evidenzia anche un orientamento giurisprudenziale fortemente manipolativo del dettato costituzionale, che attraverso il costante riferimento alle tariffe salariali previste dai contratti collettivi ha finito per soddisfare il requisito della proporzionalità, ma non quello della sufficienza, identificando aprioristicamente la retribuzione sufficiente con quella contrattuale, la quale non si può negare che, «sebbene coerente con il principio scambista [...], può non assicurare l’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia prescritta dall’art. 36 Cost.».

In altri termini, rispetto alla nozione di retribuzione contenuta nella norma costituzionale e caratterizzata anche da «venature sociali», la giurisprudenza ha adottato «una nozione più ristretta e limitata, più attinente al profilo proporzional-corrispettivo che a quello sufficiente e socialmente rilevante», e per nulla rispondente all’impianto solidaristico della nostra Costituzione.

2.2 La disciplina limitativa della durata massima della prestazione lavorativa

Dal momento che la durata della prestazione di lavoro è destinata ad influenzare in maniera determinante molti istituti preposti alla disciplina, sotto diversi profili, non solo del trattamento economico, ma di taluni diritti inderogabili dei lavoratori, l’articolazione della prestazione lavorativa è stata, pertanto, fatta oggetto di apposita garanzia costituzionale per quel che concerne la durata delle pause giornaliere, settimanali ed annuali, al fine di perseguire la «più ampia valorizzazione della personalità del lavoratore, concepita nella sua integralità», nonché il soddisfacimento dei suoi «interessi personali, familiari e sociali». In una parola, al fine di consentire al lavoratore di «vivere quella esistenza libera e dignitosa di cui parla il 1° co. dello stesso art. 36, indicando all’interprete la chiave di lettura di tutta questa materia».

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In definitiva, alla base dell’esigenza garantista si rinviene l’esigenza di tutela dell’interesse generale a salvaguardare «l’integrità fisica del lavoratore, mediante interventi sull’autonomia privata che determinano una limitata - in termini temporali - disponibilità della prestazione erogabile da ciascun lavoratore»; interesse che rinviene anche uno specifico rilievo internazionale, dal momento che fra i primi obiettivi dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) viene indicato proprio quello della «ragionevole limitazione» delle ore di lavoro, della fissazione di una durata massima della giornata e della settimana lavorativa, tutti contenuti ulteriormente ampliati e specificati dall’art. 2 della Carta sociale europea, ratificata dall’Italia con la l. 929/1965.

La ratio comune al 2° ed al 3° co. dell’art. 36 Cost. è, infatti, quella di essere entrambi preordinati alla tutela della personalità morale e fisica del lavoratore, attraverso la garanzia, rispettivamente, «del tempo libero, della ricreazione e della partecipazione alla vita della propria comunità di affetti», nonché del «reintegro delle proprie energie psico-fisiche», in maniera tale «che essi appaiono basati su valori costituzionali fondamentali, quali la dignità umana (art. 2), la partecipazione alla vita comunitaria (art. 3, 2° co.), la salute (art. 32)». In tal senso, «tali diritti vanno garantiti in modo adeguato sia sotto il profilo della loro cadenza temporale [...], sia sotto il profilo delle modalità di godimento», dovendo il riposo essere garantito nella sua triplice forma (giornaliero, settimanale e annuale), «senza sovrapposizione fra l’una e l’altra e senza raggruppamenti irragionevoli dei periodi di riposo».

Quel che è certo è che nonostante il complesso degli istituti fondamentali che presiedono alla normale determinazione quantitativa della prestazione lavorativa ed alla relativa distribuzione temporale - racchiusi nei due commi in questione - «hanno ricevuto attenzione molto minore della prima parte della norma e presentano in effetti vicende applicative meno vistose», se non addirittura singolari ritardi in sede applicativa e nel dibattito dottrinale, che non trovano riscontro nelle altre norme costituzionali in materia di lavoro, in ogni caso «anche la loro storia testimonia una significativa attività di formazione del diritto da parte della nostra giurisprudenza con carattere suppletivo o integrativo» nei confronti di una disciplina legislativa ed anche contrattuale «che sui problemi del tempo di lavoro e dei riposi presenta non pochi ritardi e contraddizioni».

In particolare, la giurisprudenza costituzionale, con il dichiarato obiettivo di realizzare una protezione minimale degli interessi dei lavoratori, ha esercitato anche in questo caso, come era già accaduto per il 1° co. dell’art. 36, «una supplenza a carenze legislative» ed, indirettamente, «un’estensione generale di alcuni risultati contrattuali», attraverso interventi destinati a durare nel tempo, che, tuttavia, «risultano di portata circoscritta e progressivamente sempre più marginali rispetto ai problemi nuovi che si pongono».

In questo modo, le pronunzie della Corte costituzionale intervenute nell’ambito del sistema delle pause di lavoro hanno di fatto finito con lo sconvolgere gli equilibri previsti dalla inadeguata od anacronistica legislazione previgente spingendosi in «prospettazioni più elastiche e più coerenti con le evoluzioni normative, giurisprudenziali e, soprattutto, contrattuali collettive che hanno contraddistinto i processi innovativi del diritto del lavoro».

2.2.1 La durata massima della giornata lavorativa

La limitazione dell’orario massimo giornaliero di lavoro costituisce, «fino dai tempi remoti, un classico campo di intervento della legislazione sociale», sulla base della considerazione che, in assenza di prescrizioni limitative, il datore di lavoro tende a prolungare la giornata lavorativa, «scavalcando non solo i limiti massimi morali, ma anche quelli puramente fisici della giornata lavorativa».

In materia dispone il 2° co. dell’art. 36 Cost., «la meno rigida delle tre norme sui riposi», in quanto senza predeterminare alcun vincolo di merito al legislatore ordinario «si limita a porre la necessità di un limite legislativo all’orario massimo». Il che testimonia il riconoscimento dell’interesse generale affinché la durata della giornata lavorativa sia contenuta entro un limite massimo - inderogabile sia dall’autonomia collettiva che da quella privata - fissato appunto dalla legge, espressione della volontà generale, che in quanto tale «non può sottrarsi all’impegno di sancire un limite al dispendio giornaliero delle energie del lavoratore, che potrebbe comprometterne la salute fisica e l’integrità morale».

La richiamata norma costituzionale pone una riserva di legge per la determinazione della durata massima della giornata lavorativa, il cui carattere relativo, pacificamente riconosciuto in dottrina, induce a considerare legittimo il rinvio alla contrattazione collettiva (rectius alle norme corporative) operato in proposito dall’art. 2107 c.c., nell’interpretazione correttiva aggiornata alla prescrizione costituzionale ed ai mutamenti istituzionali intervenuti.

Tale riserva non può in ogni caso intendersi nel senso che richieda la necessità di un intervento legislativo più generale sulla disciplina dell’orario di lavoro, che sarebbe quanto mai irragionevole ed

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inopportuno in una materia tradizionalmente di competenza dell’autonomia collettiva, in cui quest’ultima «è ammessa ad operare e può disporre con ben maggiore concretezza ed effettività».

Peraltro, ancora oggi - fino al recentissimo d.lg. 66/2003, che ha introdotto la nuova organizzazione dell’orario di lavoro in recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34 - la regolamentazione base della materia, ormai risalente nel tempo, era contenuta nel r.d.l. 692/1923, (convertito nella l. 472/1925), che, in stretta aderenza a quanto previsto dalla Convenzione OIL n. 1/1919, imponeva che la durata massima normale della giornata lavorativa per la generalità dei lavoratori non potesse eccedere le otto ore giornaliere o le quarantotto ore settimanali.

La vecchia disciplina innanzi richiamata ha subito in questi anni, sino all’odierno intervento legislativo che ha finalmente introdotto la nuova disciplina sull’orario di lavoro, talune innovazioni in sede legislativa di non particolare rilievo, mentre innovazioni di rilievo sono state operate proprio dalla contrattazione collettiva, che è venuta progressivamente riducendo i limiti massimi di durata della giornata e della settimana lavorativa.

In questa prospettiva e consolidando le acquisizioni della prassi contrattuale, ha inciso significativamente sul precedente assetto normativo la l. 196/1997, il cui art. 13, 1° co., ha stabilito direttamente una riduzione della durata legale normale dell’orario di lavoro, fissato in quaranta ore settimanali e non più nelle quarantotto ore precedentemente previste come orario massimo, con effetti che ridondano anche sul ricorso al lavoro straordinario.

La medesima disposizione consente alla contrattazione collettiva di stabilire una durata dell’orario normale inferiore anche al nuovo limite legale delle quaranta ore e, soprattutto, «di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno», consentendo in questo modo alla contrattazione collettiva - che si riconferma così lo strumento più adeguato e proficuo di regolamentazione dell’orario di lavoro - di rispondere in maniera adeguata «alle esigenze di flessibilizzazione temporale della prestazione lavorativa».

Da ultimo, il quadro normativo è stato profondamente modificato dal d.lg. 66/2003, di recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34, le cui disposizioni sono dirette «[...] a regolamentare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale [...]» la nuova disciplina dell’orario di lavoro (art. 1), che opera per tutti i dipendenti, sia pubblici che privati, regolando altresì pause, riposi e ferie (artt. 7-10), nonché il lavoro notturno (artt. 11-15) ed il lavoro straordinario (art. 5).

In particolare, la nuova disciplina legislativa, nel continuare a garantire un ampio spazio di intervento alla contrattazione collettiva, anche in deroga ai principi generali, ricalca all’art. 3 l’identica previsione già contenuta nel richiamato art. 13 della l. n. 196/1997 sull’orario normale di lavoro, fissato in quaranta ore settimanali, ed introduce all’art. 4, recante «Durata massima dell’orario di lavoro», il principio della «durata media settimanale di quarantotto ore», comprensiva anche delle prestazioni di lavoro straordinario.

2.2.1.1 Le deroghe all’orario massimo normale di lavoro

Per quel che concerne, infine, quelle norme, contenute nel r.d.l. 692/1923, che istituiscono deroghe al limite massimo di orario, con riferimento a due categorie particolarmente significative di lavoratori tradizionalmente sottratti alla disciplina vincolistica dell’orario di lavoro - il personale direttivo (art. 1, 2° co.), ed il personale addetto ad attività cc.dd. discontinue o di semplice attesa o custodia (art. 3) - la giurisprudenza costituzionale, sebbene con incolpevole ritardo, è stata chiamata a darne una nuova e più aggiornata lettura, aderente al disposto costituzionale.

Tutte le richiamate pronunce della Corte costituzionale si ispirano, come si vedrà anche per i riposi settimanali, «alla preoccupazione fondamentale di contemperare in modo elastico l’interesse costituzionale alla protezione dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nel normale ritmo quotidiano della loro attività», con l’altrettanto apprezzabile interesse alla tutela «di situazioni particolari di lavoro (e di lavoratori) che per la loro configurazione nel processo produttivo» rifiutano la rigidità della protezione generale.

Per ambedue le fattispecie esaminate i giudici della Consulta respingono le eccezioni di incostituzionalità sollevate, sull’assunto, da un lato, che l’esigenza di un limite orario legale necessariamente rigido non ha senso di fronte al carattere squisitamente «fiduciario» del rapporto di lavoro del personale direttivo - la cui nozione è ovviamente più ampia di quella di dirigente - e delle relative prestazioni, dal momento che la durata del lavoro è quella richiesta, in misura non prevedibile né determinabile secondo periodicità costante o uniforme, per l’adempimento dei compiti affidati alla responsabilità personale di coloro che appartengono a tale categoria, in rapporto alla specialità delle mansioni ed alle più varie contingenze.

D’altro lato, anche con riferimento alle attività discontinue, i giudici della Corte costituzionale, posto che dall’art. 36, 2° co., non discende che il limite della giornata lavorativa debba essere fissato dalla legge in modo

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uniforme per ogni tipo di lavoro, riconoscono che corrisponde ad «un criterio di razionalità» regolare diversamente la loro durata da quella dei lavori continui, non potendo aversi una loro disciplina unica e indifferenziata data la varietà dei modi in cui si esplicano.

Tuttavia, nell’un caso come nell’altro «la mancanza di un vincolo rigido all’orario non significa per la Corte assenza totale di limite quantitativo globale di orario», dal momento che è da ritenere sussistente e verificabile dal giudice, «ancorché non stabilito dalla legge o dal contratto», una durata massima della giornata lavorativa da determinarsi «anzitutto in rapporto alla necessaria tutela della salute ed integrità fisica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori [...]».

2.2.2 Il riposo settimanale

Alla medesima ratio di assicurare al lavoratore adeguate possibilità di reintegro delle sue energie psico-fisiche, nonché un periodo di tempo sufficiente «da destinare alla cura dei suoi interessi personali, di ordine spirituale, affettivo e materiale»85 risponde anche il 3° co. dell’art. 36 Cost., laddove riconosce al lavoratore un diritto soggettivo perfetto e irrinunciabile al riposo settimanale, dando a questo diritto garanzia costituzionale. Il che induce di conseguenza a ritenere costituzionalmente illegittime - come riconosciuto dalla Corte costituzionale sin dalla sua prima pronuncia in materia - tutte quelle norme volte deliberatamente ad escludere determinate categorie di lavoratori dal godimento del diritto al riposo settimanale.

Tuttavia, l’irrinunciabile diritto dei lavoratori al riposo settimanale non equivale ad un irrinunciabile diritto né al riposo domenicale, né ad una rigida periodicità del riposo, nel rapporto di un giorno di riposo dopo ogni sei giorni di lavoro, secondo una tendenza giurisprudenziale, anche della Cassazione, che si viene inizialmente delineando e che si muove in aperto contrasto proprio con le modalità organizzative poste in essere in molti settori dell’attività produttiva.

In tal senso la giurisprudenza costituzionale in materia, tutta incentrata sul significato da attribuire alla periodicità del riposo settimanale, è stata sin dall’inizio molto chiara, pur evitando di «assegnare all’attributo settimanale un qualunque significato definito», riuscendo così a «contemperare in modo sapiente diverse esigenze in gioco»: la salvaguardia della «normalità di un regime rigido», senza sacrificare «a priori una serie di regimi speciali richiesti dalla frammentata situazione produttiva italiana e ampiamente legittimati dalla disciplina ordinaria». E così l’intervento specifico della Corte è reso più facile, proprio dal momento che si effettua «su una disciplina che appare di massima superata dalla coscienza e dalla realtà diffuse».

I giudici della Corte costituzionale, nel pronunciarsi espressamente sull’interpretazione correttamente attribuibile all’ult. co. dell’art. 36 Cost., che «per ragioni di ordine umano e sociale» fissa «un’alternanza periodica fra lavoro e riposo, concretata nell’interruzione del lavoro per ventiquattro ore consecutive», chiariscono che il precetto costituzionale «non può essere limitato alla sola forma di periodicità che più comunemente si verifica, ma comprende anche tutte le altre previste da norme ordinarie in conseguenza delle esigenze dettate dalla grande varietà dei regimi di lavoro [...] ed in relazione alle varie specie di attività lavorative caratterizzate da peculiari circostanze». Il che significa che la sua attuazione ben potrebbe assumere «forme più elastiche e comunque differenziate secondo la varia natura propria di ciascuna attività», a condizione, tuttavia, che la mancata applicazione delle norme sul riposo settimanale - come si verifica, ad esempio, per il personale direttivo per effetto dell’art. 1, n. 4 della l. 370/1934 - non voglia dire mancato riconoscimento di tale diritto, ma soltanto e più semplicemente suo esercizio secondo le caratteristiche dell’azienda e del tipo di lavoro svolto. Di conseguenza, la Corte costituzionale riconosce la legittimità di tutte quelle norme che, nei casi di evidente necessità e nei limiti strettamente indispensabili, autorizzano, di volta in volta, «il riposo ad intervalli più lunghi di una settimana, a condizione che nel ciclo di lavoro di un certo periodo di tempo rimanga ferma la media di ventiquattro ore di riposo dopo sei giornate lavorative».

Tuttavia, affinché non ci si discosti oltremodo dai principi di ragionevolezza, la Corte indica, a temperamento delle proprie affermazioni, limiti precisi all’ammissibilità di una periodicità differente da quella fissata, ossia che a) si tratti di casi di evidente necessità a tutela di altri interessi rilevanti; b) non venga complessivamente snaturato il rapporto tra giorni di lavoro e giorni di riposo, in maniera tale da eludere il precetto costituzionale; c) non vengano superati i limiti di ragionevolezza sia rispetto alle esigenze particolari della specialità del lavoro, sia rispetto alla tutela degli interessi del lavoratore soprattutto per quanto riguarda il suo stato di salute.

Peraltro, dal momento che al lavoratore dipendente debbono comunque essere assicurate tre forme «inderogabili e infungibili» di riposo (giornaliero, settimanale e annuale), senza sovrapposizione fra l’una e l’altra e senza raggruppamenti irragionevoli dei periodi di riposo, come hanno cura di precisare i giudici della Consulta nella successiva sentenza 102/1976, la condizione di legittimità di tale diverso modo di usufruire del

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riposo sta nel fatto che le ventiquattro ore di riposo settimanale né possano interferire, riducendole, sulle ore di riposo giornaliero, al quale quello settimanale si aggiunge e non si sostituisce; né, del resto, come soggiunge la pronuncia 23/1982, possano neppure essere frazionate, sovrapponendo così il riposo settimanale - la cui consecutività delle ventiquattro ore è elemento essenziale - al riposo giornaliero e a quello annuale, vanificando così, per effetto del frazionamento, le finalità stesse del precetto costituzionale.

2.2.3 Le ferie annuali

Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo annuale di ferie retribuito - connotato, al pari del diritto al riposo settimanale, dal requisito dell’irrinunziabilità, proprio perché entrambi attengono, «al di là e prima della loro qualificazione come diritto, all’essere stesso del lavoratore» - è riconducibile al sistema delle pause di lavoro e rinviene quindi anch’esso il proprio fondamento giuridico tanto nell’interesse, meramente privatistico, «comune ad entrambe le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle stesse», quanto nell’interesse, eminentemente pubblico, «alla tutela della persona del lavoratore». Ed anzi, nel caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio questi ultimi «interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici», cui sono, invece, «essenzialmente preordinate le altre pause, di minore durata e di maggiore frequenza».

Anche in materia di ferie l’intervento della Corte costituzionale è stato molto incisivo, ed ha riservato una tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale, attraverso un consolidato filone giurisprudenziale risalente al 1963, allorché la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109, 2° co., c.c., nella parte in cui poneva il decorso di un anno di ininterrotto servizio a presupposto del diritto del lavoratore ad un periodo annuale di ferie retribuite, ponendosi così in contrasto con l’art. 36, 3° co., Cost., che attribuisce al lavoratore il diritto a ferie annuali e quindi ad un periodo di riposo da usufruire ad ogni anno di servizio, «entro e non dopo un anno di lavoro», come invece prescriveva la norma del codice civile.

Questa sentenza rappresenta indubbiamente una delle pronunce di maggior rilievo della giurisprudenza costituzionale lavoristica per ben due ordini di ragioni.

Da un lato, sostituendo il criterio della c.d. post annualità con quello della c.d. intro annualità, ha di fatto introdotto nel codice civile una norma nuova, con conseguenti effetti innovativi sulla natura e sulla disciplina dell’istituto, anticipando, peraltro, un’evoluzione che si è manifestata anche a livello internazionale con la nuova convenzione 132/1970 dell’OIL, ratificata dall’Italia con l. 157/1981.

Dall’altro, affermando la maggiore «coerenza» alla norma costituzionale dei contratti collettivi di lavoro che prescrivono il frazionamento delle ferie annuali (in maniera tale da assicurare al lavoratore «un riposo proporzionato alla quantità di lavoro effettivamente prestato presso l’imprenditore»), la Corte finisce con il riconoscere «valore normativo generale ai criteri della contrattazione collettiva, elevandone i relativi principi addirittura al rango di principi costituzionali», e segnando l’allineamento della giurisprudenza costituzionale alle tendenze della contrattualistica, ormai da tempo affermatesi nella stessa evoluzione legislativa lavoristica.

Anche successivamente, allorché, in svariate occasioni, i giudici della Consulta sono stati chiamati ad occuparsi del diritto del lavoratore alle ferie annuali, sono stati sempre estremamente chiari e nel contempo rigorosi nel ribadire che «il diritto del lavoratore alle ferie annuali soddisfa allo scopo di proteggere le energie psicofisiche», e, pertanto, tale diritto sorge con la costituzione del rapporto di lavoro (e spetta, quindi, anche al lavoratore assunto in prova), matura col decorso dei giorni e sussiste pur quando non si sia completato un anno di lavoro, «potendosi in tal caso ammettere un bisogno minore, ma non escludere del tutto che la necessità esista».

In definitiva, la Corte costituzionale ha sempre interpretato l’art. 36, 3° co., Cost. in stretta connessione con il primo, «nel senso che esso inserisce il diritto alle ferie nel sinallagma prestazione di lavoro-retribuzione, qualificandolo come elemento del corrispettivo dovuto al lavoratore».

Questa interpretazione ha successivamente portato la Corte, con la sentenza 543/1990, a ritenere illegittimo «il differimento delle ferie al di là del periodo nel cui ambito esse concretamente assolvono non solo la loro funzione ricreativa della salute e dello spirito, ma altresì quella, logicamente prioritaria, di riduzione della durata del lavoro a parità di retribuzione, ossia una funzione di maggiorazione del corrispettivo per il lavoro prestato».

Se da un lato, infatti, la scelta del tempo di concessione delle ferie spetta al datore di lavoro, dovendosi contemperare gli interessi dei lavoratori con le esigenze delle imprese, dall’altro è altresì vero che il riposo feriale non può essere frantumato in brevissimi periodi né può essere differito arbitrariamente in periodi successivi a quello normale, in maniera tale da «frustrare» il diritto stesso.

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La Corte ritiene, pertanto, di dovere censurare la norma impugnata laddove prevede testualmente la facoltà per le aziende autoferrotranviarie di derogare alla infra-annualità del periodo feriale, per «mere esigenze di servizio». E ciò in quanto la compressione del diritto al godimento infra-annuale delle ferie, per la particolare natura e per il fine del diritto che ne è l’oggetto, «può avvenire solo per l’insorgere di situazioni eccezionali non previste né prevedibili, e non per generiche e immotivate esigenze di servizio».

Da ultimo, la Corte costituzionale, con una pronuncia di alto valore sociale106, ha nuovamente riconosciuto che il diritto alle ferie fa parte di quel «contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato», compreso perciò quello carcerario, dal momento che il diritto al riposo annuale integra una di quelle «posizioni soggettive» che non possono essere in alcun modo negate, neanche a chi presta attività lavorativa in stato di detenzione, in quanto rivolto a soddisfare primarie esigenze del lavoratore, tra le quali, in primo luogo, la reintegrazione delle energie psicofisiche.

Del resto, la garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente sancita nel 3° co. dell’art. 36 Cost., non consente deroghe e «va per ciò assicurata ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta [...], dunque anche al detenuto, sia pure con differenziazione di modalità». Uno dei problemi cruciali della libertà sindacale è la rappresentativitàrappresentativitàrappresentativitàrappresentatività. Questa può essere intesa come capacità del sindacato di porsi quale effettiva entità esponenziale degli interessi dei lavoratori, in grado di esercitare una serie di poteri idonei a meglio tutelare le esigenze espresse dagli stessi rappresentati. I sindacati maggiormente rappresentativi sono senza dubbio la CGIL, la CISL e la UIL. Sindacati, questi, con una lunga e consolidata tradizione nella storia delle relazioni industriali in Italia. In anni più vicini a noi si sono affermate nuove sigle sindacali altrettanti capaci di aggregare lavoratori che per diverse ragioni non si sentono più rappresentati dalle storiche organizzazioni. L’arricchimento del panorama delle associazioni sindacali ha incrementato la complessità dei rapporti con le organizzazioni dei datori di lavoro. Di ciò ne ha risentito proprio la rappresentatività, per effetto della frammentazione che ne è scaturita. Un chiaro esempio di tale situazione è dato dalla sentenza della Corte costituzionale che di qui a poco verrà riportata nella sua parte motiva. Essa s’inserisce nella drammatica vicenda che ha visto contrapposte la FIAT e la FIOM, quest’ultima l’organizzazione sindacale, aderente alla CGIL, che rappresenta i lavoratori del settore metalmeccanico. La FIOM ha rifiutato di stipulare i contratti aziendali di lavoro, giudicati penalizzanti per il lavoratori, pur avendo partecipato alle trattative. Ma una norma dello Statuto dei lavoratori impediva ai sindacati non firmatari dei contratti aziendali di avere proprie rappresentanze all’interno delle fabbriche.

Più precisamente, il Tribunale di Modena aveva eccepito l’incostituzionalità dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui consentiva la costituzione di rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali «firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva», e non anche a quelle che avessero comunque partecipato alla relativa negoziazione, pur non avendoli poi, per propria scelta, sottoscritti.

La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale con la sentenza n. 231 del 2013.

La Corte ha così motivato la dichiarazione d’incostituzionalità della norma impugnata. «L’articolo 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori è stato ripetutamente sottoposto

all’esame di questa Corte. Le prime pronunce hanno riguardato la versione originaria di detto articolo, anteriore al referendum del

1995, ossia quella per la quale «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva».

I dubbi di legittimità costituzionale investivano, in quel contesto, la mancata attribuzione ad ogni associazione sindacale esistente nel luogo di lavoro della possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali.

Nell’affermare la razionalità del disegno statutario, con i due livelli di protezione accordata alle organizzazioni sindacali (libertà di associazione, da un lato, e selezione dei soggetti collettivi fondata sul

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principio della loro effettiva rappresentatività, dall’altro), la Corte si è soffermata anche sul criterio della “maggiore rappresentatività”, che pur conducendo a privilegiare le confederazioni “storiche”, non precludeva rappresentanze aziendali nell’ambito delle associazioni sindacali non affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative, purché si dimostrassero capaci di esprimere, attraverso la firma di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva, un grado di rappresentatività idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale (sentenze n. 334 del 1988 e n. 54 del 1974).

A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si è sviluppato, però, un dibattito critico in vista di una esigenza di revisione del meccanismo selettivo della “maggiore rappresentatività” previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro.

Ed è stata proprio questa Corte a segnalare, con un monito al legislatore, l’ormai ineludibile esigenza di elaborare nuove regole che conducessero a un ampliamento della cerchia dei soggetti chiamati ad avere accesso al sostegno privilegiato offerto dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, oltre ai sindacati maggiormente rappresentativi (sentenza n. 30 del 1990).

L’invito al legislatore è stato ribadito nella sentenza n. 1 del 1994, che ha dato ingresso ai due quesiti referendari che in quell’occasione la Corte era chiamata ad esaminare: il primo, “massimalista”, volto ad ottenere «l’abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentatività adottati dall’art. 19, nelle lettere a e b», e il secondo, “minimalista”, mirante all’abrogazione dell’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e all’abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b).

In quella decisione, nella consapevolezza dei profili di criticità che avrebbero potuto annidarsi nel testo risultante dall’eventuale conformazione referendaria, nuovamente, questa Corte sottolineò che, comunque «il legislatore potrà intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentatività sindacale compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori».

Come è noto, in occasione del referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995 e tenutosi l’11 giugno 1995, ottenne il quorum solo “il quesito minimalista”, dando luogo all’attuale art. 19, che attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale.

Nel commentare la normativa “di risulta”, non si mancò di sottolineare come questa – pur coerente con la ratio referendaria di allargare il più possibile le maglie dell’agere sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale – rischiasse, però, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, ove l’espressione «associazioni firmatarie» fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione, anche meramente adesiva, del contratto a fondare la titolarità dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, quella espressione, come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda. E ciò con il risultato, nell’un caso e nell’altro, di una alterazione assiologica e funzionale della norma stessa, quanto al profilo del collegamento, non certamente rescisso dall’intervento referendario, tra titolarità dei diritti sindacali ed effettiva rappresentatività del soggetto che ne pretende l’attribuzione.

Le pronunzie di questa Corte, nel quinquennio successivo al referendum – sentenza n. 244 del 1996, ordinanze n. 345 del 1996, n. 148 del 1997 e n. 76 del 1998 – hanno fornito indicazioni, per quanto in concreto sottoposto al suo esame, solo con riguardo al primo dei due sottolineati punti critici.

E, per questo aspetto, l’art. 19, «pur nella versione risultante dalla prova referendaria», ha superato il vaglio di costituzionalità sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata, che ha condotto ad una sentenza interpretativa di rigetto. In virtù della quale, dalla premessa che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia», bensì dalla «capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale», la Corte ha inferito che «Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto», e che «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva» (sentenza n. 244 del 1996).

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In questi termini, la Corte ha ritenuto che l’indice selettivo di cui alla lettera b), del primo comma, dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori «si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalità pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e, di riflesso, della sua rappresentatività, tipicamente proprio dell’ordinamento sindacale».

Nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali, quale diffusamente descritto ed analizzato dai giudici a quibus, l’altro (speculare) profilo di contraddizione (per sbilanciamento in difetto) – teoricamente, per quanto detto, già presente nel sistema della lettera b) del primo comma, dell’art. 19, ma di fatto sin qui oscurato dalla esperienza pratica di una perdurante presenza in azienda dei sindacati confederali – viene invece ora compiutamente ad emersione. E si riflette nella concretezza di fattispecie in cui, come denunciato dai rimettenti, dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è derivata la negazione di una rappresentatività che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei lavoratori addetti all’unità produttiva.

In questa nuova prospettiva si richiede, appunto, una rilettura dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende.

L’aporia indotta dalla esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell’effettivo consenso da parte dei lavoratori, che ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l’accesso alle trattative, era già stata del resto rilevata; e dalle riflessioni svolte in proposito era scaturita anche la sollecitazione ad una interpretazione adeguatrice della norma in questione, alla stregua della quale, superandosi lo scoglio del suo tenore letterale, che fa espresso riferimento ai sindacati “firmatari”, si ritenesse condizione necessaria e sufficiente, per soddisfare il requisito previsto dall’art. 19, quella di aver effettivamente partecipato alle trattative, indipendentemente dalla sottoscrizione del contratto. Interpretazione di cui si è sostenuta la coerenza con la richiamata giurisprudenza costituzionale in materia di irrilevanza, ai fini dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, della mera sottoscrizione del contratto collettivo non preceduta dalla effettiva partecipazione alle trattative.

I Tribunali rimettenti, a differenza di quanto ritenuto da altri giudici di merito, hanno escluso, però, la possibilità della richiamata interpretazione adeguatrice, reputata incompatibile con il testo dell’art. 19, e perciò hanno sollevato le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame, al fine di conseguire, attraverso una pronuncia additiva, quel medesimo risultato di estensione della titolarità dei diritti sindacali, sulla base della nozione di “effettività dell’azione sindacale”, alle organizzazioni che abbiano partecipato alle trattative, ancorché non firmatarie del contratto.

La Corte giudica corretta questa opzione ermeneutica, risultando effettivamente univoco e non suscettibile di una diversa lettura l’art. 19, tale, dunque, da non consentire l’applicazione di criteri estranei alla sua formulazione letterale.

Ma alla luce di una siffatta testuale interpretazione la disposizione in oggetto non sfugge alle censure sollevate dai rimettenti.

Infatti, nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.

Risulta, in primo luogo, violato l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati. Questi ultimi infatti nell’esercizio della loro funzione di autotutela dell’interesse collettivo – che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all’art. 2 Cost. – sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa.

E se, come appena dimostrato, il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale.

La quale, se trova, a monte, in ragione di una sua acquisita rappresentatività, la tutela dell’art. 28 dello Statuto nell’ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative, si scontra poi, a valle, con l’effetto legale di estromissione dalle prerogative sindacali che la disposizione denunciata automaticamente collega alla sua decisione di non sottoscrivere il contratto. Ciò che si traduce, per un verso, in

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una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.

L’intervento additivo così operato dalla Corte, in coerenza con il petitum dei giudici a quibus e nei limiti di rilevanza della questione sollevata, non affronta il più generale problema della mancata attuazione complessiva dell’art. 39 Cost., né individua – e non potrebbe farlo – un criterio selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori in azienda nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva per carenza di attività negoziale ovvero per impossibilità di pervenire ad un accordo aziendale.

Ad una tale evenienza può astrattamente darsi risposta attraverso una molteplicità di soluzioni. Queste potrebbero consistere, tra l’altro, nella valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti, o ancora nella introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, o nell’attribuzione al requisito previsto dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente, oppure al riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro. Compete al legislatore l’opzione tra queste od altre soluzioni».

Lo scioperoscioperoscioperosciopero è una forma importante di lotta sindacale. Tecnicamente, lo sciopero è l’astensione collettiva dal lavoro. Affinché si abbia sciopero, ai

sensi e con le garanzie di cui all’art. 40 Cost., è necessario che esso sia indetto da una pluralità di lavoratori, e non dal singolo dipendente. Non è necessaria una formale iniziativa da parte di un sindacato. Anche una formazione occasionale di più lavoratori può essere sufficiente. Sicché, è corretto qualificare il diritto di sciopero come una libertà collettivo, nel senso che il suo esercizio richiede il contributo di due o più persone.

Diversa dallo sciopero è la serrataserrataserrataserrata, dal momento che l’interruzione dell’attività lavorativa è in questo caso imputabile ai datori di lavoro.

Si noti sin da subito che solo lo sciopero, e non anche la serrata, ha avuto un esplicito riconoscimento a livello costituzionale. Ciò si traduce in maggiori vincoli a carico del legislatore nella disciplina dello sciopero rispetto al trattamento da riservare alla serrata.

In entrambi i casi si ha una sospensione degli effetti scaturenti dal contratto individuale di lavoro. In caso di sciopero, il lavoratore può legittimamente astenersi dal prestare la propria opera, senza correre il rischio di sanzioni disciplinari o di licenziamento. Egli non potrà però rivendicare il trattamento economico per il periodo di astensione dal lavoro. Se è disposta la serrata, al lavoratore spetterà quando dovuto, visto che la sospensione dall’attività dell’azienda non è ad esso imputabile.

Sui molteplici problemi associati allo sciopero, e in parte anche alla serrata, è dedicato il seguente scritto di Roselli. Occorre porre particolare attenzione ad alcuni profili: le finalità sottese allo sciopero (solo per ragioni economiche o anche per altre motivazioni, a cominciare da quelle di natura politica ?); lo sciopero in specifici ambiti lavorativi (si pensi ai settori nei quali sono erogati i servizi pubblici essenziali); limiti soggettivi e oggettivi al diritto di sciopero. O. ROSELLI, Commento all’art. 40, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 825 ss. …

2. Commento

2.1 Il diritto di sciopero dopo l’entrata in vigore della Costituzione

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La scelta adottata dal Costituente, di includere lo sciopero ma non la serrata tra i diritti fondamentali

costituzionalmente protetti, descrive un processo costituzionale consolidato. Ma, nel rinviare la disciplina del suo esercizio alle scelte future del legislatore, il Costituente opera un ragionevole compromesso aperto a soluzioni per molti profili imprevedibili per l’incertezza nelle relazioni sociali, nel quadro politico, nel delinearsi di un nuovo diritto del lavoro, nella capacità della cultura giuridica (ed in particolare di quella dei giudici) di ripensare gli istituti in modo coerente con i nuovi caratteri dell’ordinamento giuridico. Tutto ciò non deve stupire, la natura di fenomeno sociale dello sciopero non ne fa soltanto oggetto di disciplina giuridica, ma anche elemento costitutivo dello stesso fenomeno giuridico. Non a caso, Tosato, illustre costituzionalista, ha sottolineato in Assemblea Costituente che «lo sciopero è un fenomeno sociale, che va al di là dei rapporti regolati dal contratto di lavoro».

Al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, sullo sciopero molto risulta essere indefinito: dal suo esercizio, ai suoi stessi elementi identificativi, alle tipologie delle astensioni collettive da ritenersi rientranti nel diritto, alla disciplina nei servizi pubblici essenziali. Tutti temi rinviati alla futura legislazione.

Ma, come noto, occorrerà attendere oltre quarant’anni perché si giunga ad una legge di ampio respiro in materia di esercizio del diritto di sciopero (nei servizi pubblici essenziali) e, per il noto ritardo nella sua istituzione, nove anni perché la Corte costituzionale emetta la prima sentenza in materia.

Nel frattempo, il nostro Paese conosce profondissime trasformazioni sociali, che producono una tipologia variegatissima di astensioni collettive dal lavoro. È inevitabile che nella configurazione giuridica di un diritto fondamentale che la nuova Costituzione (e prima ancora il processo rivoluzionario che ne è a fondamento) riconosce come immediatamente esercitabile, un ruolo determinante sia svolto dalla giurisprudenza.

C’è una parte inespressa, ma pur costituzionalmente presentissima, nell’art. 40 della nostra Carta fondamentale: per il nostro sistema costituzionale la norma va oltre la disposizione scritta, essendo implicita la previsione che «La Repubblica riconosce il diritto di sciopero»; il costituente ha poi espressamente previsto, come noto, che questo «si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

In altre parole, la Costituzione non provvede a precostituire una sua (limitativa) definizione giuridica di diritto di sciopero, ma assume come oggetto di una disciplina riservata alla legge, nel rispetto del nuovo sistema costituzionale, il fenomeno sociale (e la sua evoluzione).

In mancanza di una disciplina legislativa, della cui peculiarità parleremo in seguito, che cosa si debba intendere per diritto di sciopero risulta determinato dalla copiosissima giurisprudenza in materia, tant’è che è stato giustamente ricordato come la formula dell’art. 40 Cost. sia stata suggestivamente parafrasata in «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle sentenze che lo regolano».

Ancora una volta il fenomeno dello sciopero e della sua regolamentazione si manifesta essere un indicatore delle trasformazioni costituzionali in corso, dell’evoluzione della forma di stato, di dinamiche sociali che diventano componenti degli stessi processi di strutturazione di rilevanti profili dell’ordinamento giuridico.

Così non è un caso che, per ciò che riguarda gli artt. 39 e 40 Cost. siano stati da subito operanti la libertà di organizzazione sindacale, di contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro e di sciopero ma siano tutt’ora inattuate le altre previsioni dell’art. 39. Tutto questo è infatti il prodotto di risultanti sociali e politiche che finiscono per esprimere profili della Costituzione materiale.

Con la formula adottata dal Costituente con l’art. 40, lo sciopero è il fenomeno in ogni sua (sempre nuova) manifestazione sociale di astensione collettiva dal lavoro, che diventa legittimo, cioè diritto di scioperare, tutte le volte che è compatibile con il sistema costituzionale.

Se si volesse proporre una periodizzazione su tale diritto con riferimento all’evolversi della riflessione scientifica (e della giurisprudenza), l’operazione sarebbe probabilmente fuorviante, perché potrebbe indurre a credere all’esistenza di percorsi evolutivi lineari sulla sua concezione giuridica.

Del resto, va da sé che, nel momento in cui si opera una ricostruzione dell’evoluzione storica di un istituto giuridico, una periodizzazione temporale altro non è che l’assunzione di uno o più punti esterni di valutazione rispetto al complessivo arco temporale. Ed il punto di osservazione qui scelto è la disamina non di singoli profili ma della evoluzione della dimensione costituzionale del fenomeno sociale dello sciopero.

2.2 Dall’entrata in vigore della Costituzione alla l. 146/1990

Nel campo della qualificazione giuridica dello sciopero gli interpreti (soprattutto i giudici) hanno finito per svolgere un’attività creatrice, in quanto «Il problema giuridico dello sciopero diviene [...] il problema stesso "della determinazione delle [sue] condizioni d’uso" [...]».

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Naturalmente, il ruolo degli interpreti è stato particolarmente ampio nel periodo che ha preceduto la disciplina legislativa (anche se non viene comunque mai meno, riferendosi ad un istituto giuridico che va sempre rapportato ad una tipologia in continua trasformazione).

In tale lungo periodo, non sono mancati alcuni significativi tentativi di autoregolamentazione del diritto. Come ricordato, nel dibattito in Assemblea Costituente erano proprio esponenti sindacali come Di Vittorio, richiamando lo stesso statuto della CGIL, che ponevano in capo ai lavoratori ed alle loro organizzazioni sindacali l’onere di una (auto)regolamentazione, in particolare nel campo del pubblico impiego, dei servizi pubblici essenziali e di tutti quegli ambiti in cui fosse necessario garantire i diritti degli altri lavoratori. «La Cisl attuò [...], negli anni cinquanta, una rigidissima forma di autoregolamentazione, relegando lo sciopero nei confini dell’"extrema ratio" da utilizzarsi solo quando ogni altro sistema di composizione del conflitto si fosse rivelato inefficace». Gli statuti dei sindacati confederali rappresentano un embrione di «codice di comportamento», fanno da premessa ad una logica delle relazioni sindacali che mira a promuovere «tecniche conciliative» disciplinate nei contratti collettivi. E l’autoregolamentazione, «che poi vuol dire un’intesa tra le organizzazioni sindacali interessate per dare allo sciopero determinate modalità», rappresenterà a lungo il contraltare di ogni tentativo di regolamentazione legislativa. Questo modello presenta i suoi limiti tanto più si fa acuto il contrasto sociale (si pensi, ma non solo, alla stagione del c.d. autunno caldo del 1969 ed a quella del diffondersi di una vasta gamma di c.d. «scioperi anomali»).

Del resto, il tema centrale nelle relazioni sindacali in questi anni, è soprattutto legato a quello del riconoscimento e potenziamento dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro, più che sull’esigenza di regolamentare le modalità del (peraltro aspro) conflitto sociale, come sta a dimostrare la l. 300/1970 (c.d. st. lav.), che pur non ignora certo il problema. Nondimeno, nella seconda metà degli anni settanta, riprendono, da parte del sindacalismo confederale, gli sforzi per forme di autoregolamentazione del diritto di sciopero (intuendo che il loro fallimento apre inevitabilmente la strada ad una regolamentazione legislativa). Ed infatti, sarà proprio la inadeguatezza di tali tentativi a condurre all’approvazione della l. 146/1990, in un contesto di relazioni sociali (in cui lo sciopero è sempre meno un problema di relazioni tra le sole parti contraenti coinvolgendo fasce sempre più numerose di utenti) ormai tale da imporre il superamento delle resistenze di settori del mondo sindacale e politico.

2.2.1 Dall’entrata in vigore della Costituzione all’avvio delle attività della Corte costituzionale

La rappresentazione giuridica dello sciopero (e, più in generale, dell’insieme del diritto del lavoro) è così fortemente condizionata dall’effettivo contesto ordinamentale.

Non deve così stupire come, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, «Per lunghi anni vi fu una grave contraddizione nell’ordinamento»: il permanere di norme penali sanzionatorie di un diritto ormai costituzionalmente riconosciuto. «Non solo: i meccanismi che predisponevano una soluzione eteronoma del conflitto erano stati formalmente abrogati col d.l.lt. 23.11.1944, n. 369, mentre rimanevano in vigore le norme penali che servivano a garantirne l’effettività». «La soluzione di queste contraddizioni avrebbe potuto essere agevole. Sarebbe bastato, infatti, utilizzare l’uno o l’altro dei due strumenti che fanno parte del bagaglio ordinario di ogni operatore giuridico: la successione delle leggi nel tempo o il criterio della gerarchia delle fonti». Se a lungo questo non è avvenuto è stato per l’orientamento di parte della magistratura ordinaria (ed in seguito, inizialmente, parzialmente, anche della Corte costituzionale). Questa cautela, che oggi può apparire incomprensibile, ci aiuta invece a comprendere il complesso faticoso percorso nella formazione di un nuovo ordinamento: il grande corpo dei magistrati si è formato su una cultura giuridica funzionale prima allo stato liberale, poi (parzialmente) a quello fascista corporativo; deve abituarsi a reinterpretare gli istituti giuridici, non solo del diritto del lavoro, alla luce del nuovo sistema delle fonti; non è certo preparato a svolgere quel ruolo di controllo di costituzionalità che gli è attribuito, «fino a quando non entri in funzione la Corte costituzionale», dal 2° co. della VII disp. trans. Cost.

Nondimeno, sia pure faticosamente, in modo spesso contraddittorio ed oscillante, il sistema tende a dare soluzione ai problemi posti dall’incrociarsi del concreto esercizio del diritto con i molteplici profili dell’ordinamento giuridico ed al contempo (sia pure con analoghe incertezze) a ragionare in termini generali sulla portata del diritto.

Sotto quest’ultimo profilo, ad esempio, in una delle prime pronunce in materia, la Cassazione, all’inizio del 1951, qualifica l’art. 40 Cost. come «norma precettiva e di immediata applicazione» ed afferma che «La legge ordinaria alla quale la norma costituzionale fa riferimento non potrà avere che carattere esplicativo e mai innovativo e, pertanto, la sua attuale mancanza non può determinare il disconoscimento del diritto in violazione della proclamazione fattane dalla Costituzione». Non solo, la mancanza di una tale legislazione non

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«consente di affermare che l’esercizio del diritto stesso possa considerarsi lecito solo se contenuto in determinati limiti e se osservate certe condizioni (per es. previo tentativo di conciliazione, preavviso, intimazione, ordine o autorizzazione da parte degli organi sindacali)». Di conseguenza, «Esclusa l’applicabilità di condizioni e limitazioni "specifiche" al diritto di sciopero, lo stesso come ogni altro diritto soggettivo, è sottoposto ai limiti che derivano dall’ordinamento giuridico generale i quali non consentono la violazione delle norme dettate a tutela di altri beni e interessi (libertà, proprietà, amministrazione della giustizia ecc...)».

Si delinea così quella che poi risulterà essere, nella giurisprudenza successiva, la teoria dei limiti esterni, e non interni al diritto di sciopero, ma con riferimento a quelli che sono genericamente definiti i limiti derivanti dall’«ordinamento giuridico generale» (i cui princìpi, siamo all’inizio degli anni cinquanta, sono ancora il prodotto di una stratificazione normativa in gran parte pre-costituzionale), anziché fare riferimento diretto ai limiti deducibili da esigenze di bilanciamento con norme e valori costituzionali.

Ma, soprattutto, lo sciopero è considerato un fenomeno sostanzialmente circoscritto alle relazioni economico-professionali, anche se non mancano diversità di accenti nei tentativi definitori della giurisprudenza, che tra l’altro pone, in questa fase, particolare attenzione alla risoluzione di uno dei problemi che risultava concettualmente più controverso ai giuristi dell’epoca liberale: la compatibilità del diritto di sciopero con gli obblighi contrattuali. Viene così sottolineato che «l’astensione non costituisce inadempimento contrattuale e giusta causa di risoluzione del rapporto, ma determina soltanto la sospensione del rapporto stesso in ordine sia alla prestazione di lavoro che alla corrispondente retribuzione».

2.2.2 Dall’avvio delle attività della Corte costituzionale alla l. 146/90

Come noto, bisognerà attendere il 1956 perché la finalmente costituita Corte costituzionale emetta la prima sentenza, ed il 1957 perché si pronunci su profili relativi all’esercizio del diritto di sciopero. Anche in questo ambito, come nel più generale campo dei diritti di libertà, la Corte si trova a dover "liberare" l’ordinamento dalle contraddizioni di una legislazione pensata per un altro sistema costituzionale, ma nel caso del diritto di sciopero, come vedremo, la Corte si trova anche a doverne determinare l’ampiezza costituzionale.

L’attività della Corte si concretizza non solo attraverso dichiarazioni di incostituzionalità, ma anche, talora, in una sorta di "pedagogia costituzionale", attraverso il richiamo rivolto ai giudici ad una interpretazione delle norme alla luce del riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero. In una delle primissime sentenze in materia (la 46/1958), che concerne la costituzionalità dell’art. 333 del c.p. (Abbandono individuale di un pubblico ufficio servizio o lavoro), la Corte rigetta il ricorso perché «Trattasi [...] non di questione di legittimità costituzionale [...] bensì [...] di pura interpretazione di tale norma, nel senso che essa non può trovare applicazione allorché l’abbandono dell’ufficio, servizio o lavoro costituisca» legittimo esercizio del diritto di sciopero.

Ricordo questa sentenza della Corte, in genere ritenuta dalla dottrina non tra le più significative, perché tocca un profilo di portata generale (oggi assodato, ma in quegli anni non ancora diffusamente percepito): che non c’è solo un problema di dichiarazione di costituzionalità o incostituzionalità delle fonti primarie da parte della Corte costituzionale, ma di (re)interpretazione dell’intero ordinamento giuridico da parte dei giudici alla luce della Costituzione.

2.2.2.1 La serrata, lo sciopero e le avvenute trasformazioni costituzionali

Nel 1960, con la sentenza 29, la Corte giunge alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 502 c.p., relativo alla sanzione penale della Serrata e sciopero per fini contrattuali, fondando la propria decisione proprio sull’avvenuta trasformazione (rottura) costituzionale rispetto al regime corporativo per il quale l’articolo era stato pensato63. Nel far ciò opera una prima sistematizzazione costituzionale degli istituti relativi al conflitto sociale: «L’art. 39 e l’art. 40 sono da considerare come espressione unitaria del nuovo sistema; e pertanto il significato dell’art. 39 non può essere circoscritto entro i termini angusti di una dichiarazione di mera libertà organizzativa, mentre invece, nello spirito delle sue disposizioni e nel collegamento con l’art. 40, esso si presenta come affermazione integrale della libertà di azione sindacale». Ne consegue «che lo sciopero è riconosciuto costituzionalmente come un diritto, destinato però, secondo il preciso dettato dell’art. 40, ad essere regolato dalla legge; e che la serrata, priva di tal riconoscimento, ma in pari tempo anche della qualificazione giuridico-penale a suo tempo posta dall’ordinamento corporativo, si presenta attualmente come un atto penalmente non vietato o, come si suol dire, penalmente lecito [...]». Pertanto, per la serrata la «attuale posizione giuridica di atto penalmente lecito è piuttosto la oggettiva risultante di un sommovimento di sistemi che non l’effetto di una propria disciplina normativa».

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Si tratta di un’affermazione che conferma come si sia in presenza di una materia in cui l’evoluzione della disciplina si accompagna alle trasformazioni costituzionali (e la Corte, in questa sentenza, fa riferimento significativamente a quello che chiama il «sistema della Costituzione»).

Certamente, il prevedere o meno la serrata come atto penalmente lecito, caratterizza costituzionalmente il sistema delle relazioni sociali e la Costituzione consente un’interpretazione quale quella adottata dalla Corte. Ma il dibattito in Assemblea Costituente fu, sul punto, non proprio come ricostruito dalla Corte costituzionale: la posizione dei costituenti sul riconoscimento del diritto di serrata, come ho avuto modo di ricordare, fu di netta amplissima chiusura. Se, in ipotesi, gli equilibri politici successivi all’entrata in vigore della Costituzione fossero stati favorevoli a quelle componenti della Costituente che avversavano l’istituto (per motivi, è proprio il caso di dire, "costituzionali", rispetto al modello di relazioni sociali propugnato), la serrata difficilmente avrebbe trovato, nella costituzione materiale, la strada di una sua depenalizzazione, in quanto quei «sommovimenti di sistemi» di cui parla la Corte avrebbero preso un’altra direzione.

Del resto, è indubbio «il ben diverso rilievo rivestito» dalla serrata rispetto allo sciopero «nel conflitto sindacale e nell’ordinamento vigente».

Colpisce, sia nella giurisprudenza costituzionale, sia nella dottrina, la difficoltà nel dare soluzione a tutti i quesiti relativi alla qualificazione giuridica della serrata. Da un lato, gli orientamenti prevalenti in dottrina sembrano impegnati a marcare comunque una diversità tra i due istituti, ma talora con esiti ambigui perché sovente fondano il tentativo sulla ricerca di una loro ontologica diversità, anziché su limiti puntualmente deducibili dalla Costituzione (che sono questi sì diversi nel caso dello sciopero e della serrata).

La dottrina prevalente determina così una ricostruzione del sistema, successiva alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 502, 1° co., c.p., così articolata: la serrata a fini contrattuali è penalmente lecita; la Costituzione parla solo del diritto di sciopero; la serrata, pur quando penalmente lecita, non può essere pertanto qualificata come un diritto e, di conseguenza, comporta (tendenzialmente) una responsabilità civile contrattuale (un po’ come avveniva nell’epoca liberale, dopo la depenalizzazione operata dal Codice Zanardelli, per lo sciopero).

La posizione costituzionale della serrata, dopo la ricordata sentenza della Corte costituzionale, si differenzia da quella dello sciopero perché questa, oltre a tutti i limiti che incontra l’astensione collettiva dei lavoratori (del rispetto dei diritti della persona costituzionalmente tutelati), presenta quelli ulteriori di un esercizio delle attività economiche che comunque debbono essere indirizzate, per usare l’espressione dell’art. 41, u.c., Cost., «a fini sociali» (tra i quali vanno inclusi due profili della stessa medaglia: la tutela del diritto di lavorare e la sopravvivenza economica dell’impresa). Soltanto il rispetto di questi macro limiti costituzionali può determinare un’esimente della stessa responsabilità civile, configurandosi altrimenti un’ipotesi, a carico dell’imprenditore, di «messa in mora del creditore» ai sensi dell’art. 1206 del c.c.

Questa ricostruzione parrebbe tale da poter consentire di valutare, caso per caso, la legittimità costituzionale della serrata: appare di tutta evidenza che, così ragionando, la possibilità che l’attuale ordinamento giuridico possa considerare legittime ipotesi di serrata è piuttosto remota (dati gli stringenti limiti costituzionali e come rileva, peraltro, dalla sentenza 141/1967 in tema di serrata a scopo di solidarietà o di protesta). Nondimeno, questa ricostruzione porta a superare il postulato (ideologico più che giuridico) che la serrata possa mai essere un diritto anche quando (in ipotesi sia pur limite) questa non sia incoerente con il sistema costituzionale. Del resto, una copiosissima giurisprudenza, nel valutare ipotesi di "serrata" conseguente agli effetti di scioperi anomali, dopo una valutazione sui molteplici profili legati agli obblighi contrattuali, d’impresa e sociali dell’imprenditore, ne ha riconosciuto in casi concreti la legittimità. Che in tali ipotesi (eccezionali per le condizioni di fatto richieste) ci si rifiuti di parlare di diritto dell’imprenditore deriva più da una pruderie sociale che non da un problema di corretto uso delle categorie giuridiche.

Non solo, ma questo porta poi a trovarsi spiazzati quando il nostro ordinamento giuridico deve fare i conti con una dimensione non solo nazionale. Si pensi a come la dottrina dominante, proprio perché attardatasi nella ricerca di ricostruzioni dogmatiche dell’istituto, si sia trovata in difficoltà di fronte alla ratifica, con la l. 929/1965, della Carta sociale europea del 18.10.1961, che all’art. 672, dispone che, «per assicurare l’esercizio effettivo del diritto di negoziazione collettiva le parti contraenti [...] riconoscono il diritto dei lavoratori e dei datori di lavoro ad azioni collettive in caso di conflitti di interesse, compreso il diritto di sciopero, con riserva degli obblighi che potrebbe derivare da contratti collettivi vigenti». Il solo avere parlato di forme collettive di autotutela sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, ha fatto temere ad alcuni l’introduzione di una surrettizia parificazione dello sciopero e della serrata. Ma la Carta sociale europea, recepita con legge ordinaria, è sì entrata a far parte dell’ordinamento giuridico nazionale anche con il suo articolo 6, ma, come tutte le leggi, deve essere poi interpretata alla luce della Costituzione, che nel caso di

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specie significa che le forme di autotutela del datore di lavoro (in particolare la serrata) incontrano i limiti di cui si è detto.

Per sottolineare la differenza tra sciopero e serrata, potremmo forse dire che per lo sciopero la Costituzione non prevede limiti al diritto in quanto tale ma solo derivanti dalla necessità di realizzare un bilanciamento tra valori costituzionali che potrebbero essere lesi dal suo esercizio; mentre ipotesi di serrata legittima derivano non da un riconoscimento costituzionale del diritto in sé ma dall’esigenza di salvaguardare altre norme e valori costituzionali (come, ad esempio, nel caso estremo, oggettivamente comprovabile, che la serrata si renda necessaria per la sopravvivenza dell’impresa).

Se questa ricostruzione è fondata, da approfondire è il diffuso orientamento secondo il quale «una eventuale legge ordinaria che sancisse un diritto di serrata sarebbe, con ogni probabilità, illegittima, perché in aperto contrasto con la differente valutazione giuridica fatta esplicitamente propria dal legislatore costituente»; a mio avviso sarebbe certamente illegittima una disciplina legislativa che legittimasse a priori un diritto di serrata come manifestazione di un diritto di libertà dell’imprenditore, mentre potrebbe essere proprio in funzione di garanzia dei lavoratori una disciplina legislativa che circoscriva l’esercizio di autotutela dell’imprenditore in caso di conflitto sindacale secondo quanto previsto dal sistema costituzionale e dalla sua specifica cornice normativa, rappresentata in materia dagli artt. 39, 40 e 41 Cost.

La ratio costituzionale è per l’esclusione della serrata utilizzata come strumento di sopraffazione nei confronti dei lavoratori, contraenti deboli del rapporto di lavoro; non (in ipotesi il cui onere della prova spetta al datore di lavoro) nei casi in cui le modalità dell’esercizio del diritto di sciopero determinino una «"impossibilità oggettiva" di ricevere le prestazioni offerte, ad es. in uno "sciopero a singhiozzo", negli intervalli tra un’astensione e l’altra: impossibilità, quindi, da intendersi secondo i rigorosi requisiti che pone, per poterla configurare, il diritto delle obbligazioni e dei contratti: non quindi mera onerosità o non convenienza di accettare le prestazioni stesse».

Una particolare menzione merita la sentenza della C. cost. 222/1975, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità (in relazione all’art. 505) dell’art. 506 c.p., relativo alla Serrata di esercenti di piccole industrie o commerci che non hanno lavoratori alle loro dipendenze. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo, per contrasto con l’art. 40, cioè per violazione del diritto di sciopero. Infatti, «Impropriamente [l’art. 506 c.p.] definisce serrata la sospensione del lavoro dei piccoli esercenti che personalmente gestiscono un’azienda industriale o commerciale nel campo di una professione, di un’arte o un mestiere. La realtà dimostra che ci si trova pur sempre di fronte ad una categoria di lavoratori, definibili autonomi in quanto svincolati da ogni rapporto di dipendenza, la cui forma di autotutela, strutturata dallo stesso codice sul modello di quella dei lavoratori dipendenti, non può non essere compresa in quel più ampio concetto di sciopero che ha trovato modo di esprimersi nell’attuale mondo del lavoro».

Nell’includere quindi il comportamento di questa «particolare categoria di lavoratori» nella figura dello sciopero e non della serrata, la Corte costituzionale tiene conto della distinzione, che «trova riscontro nella realtà socio economica», «tra queste due forme di autotutela desumibile dalle fonti del diritto positivo, le quali, pur non dandone una definizione ne precisano tuttavia il contenuto [...]». «Ad integrare la nozione tipica di serrata - si legge ancora nella sentenza - è sufficiente il comportamento anche di un singolo soggetto, purché sia datore di lavoro e dalla sua condotta consegua la sospensione del lavoro subordinato nell’ambito dell’azienda; perché si abbia sciopero, invece, è necessaria una sospensione del lavoro da parte di una pluralità di lavoratori che agiscano per il conseguimento di un comune interesse».

2.2.2.2 I doveri dei lavoratori nel momento in cui abbandonano il posto di lavoro

La sentenza della C. cost. 124/196278, che affronta il tema della legittimità costituzionale dell’art. 1105, n. 1, c. nav., partendo dalla specificità dei problemi posti dallo sciopero dei marittimi imbarcati, finisce per determinare quale sia, in via generale, l’obbligo dei lavoratori prima di abbandonare il posto di lavoro. Dice, infatti, la Corte che «l’indizione dello sciopero rimane condizionato all’adempimento dell’obbligo dei lavoratori di abbandonare il lavoro solo dopo avere adottato tutte quelle cautele le quali si palesino necessarie ad evitare il pericolo o della distruzione degli impianti (essendo inammissibile, e contrario allo stesso interesse cui tende l’autotutela di categoria, che lo sciopero abbia per effetto di compromettere la futura ripresa del lavoro), oppure della produzione di danni alle persone o ai beni dello stesso datore, o, a più forte ragione, dei terzi». Ma, a ben vedere, questo non significa negazione del diritto di sciopero (tant’è che in tale sentenza viene riconosciuta la titolarità del diritto anche ai lavoratori marittimi), ma la previsione di un obbligo al rispetto di adempimenti, nel momento in cui s’interrompe il rapporto di lavoro, legati alla tutela di diritti fondamentali.

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Quest’aspetto della sentenza della Corte è stato forse uno dei meno evidenziati, perché in parte celato dalla specificità della fattispecie concreta (legata appunto al personale marittimo in servizio). Ma proprio la specificità della fattispecie ci può aiutare a comprendere profili della dimensione costituzionale dello sciopero: la forza espansiva al riconoscimento del diritto (per la sua natura di «diritto fondamentale» previsto in una norma costituzionale immediatamente precettiva); il suo essere strumento di autotutela, manifestazione di un diritto al conflitto, fondato non solo sull’art. 40 ma sull’insieme del sistema costituzionale [in quanto strumento di partecipazione e manifestazione di pluralismo (politico) economico e sociale] ma proprio per questo da esercitarsi compatibilmente con l’insieme del sistema costituzionale.

2.2.2.3 La forza espansiva del diritto conseguente al riconoscimento costituzionale: lo sciopero di solidarietà

Che l’art. 40 della Costituzione rappresenti una cesura con il passato è di tutta evidenza; meno evidenti sono i molteplici collegamenti (fortissimi nella prima fase di entrata in vigore della Costituzione) tra presente e passato, sul piano culturale (della definizione economico-sociale dello sciopero) e normativo (favorito dalla latitanza del legislatore).

Sul piano culturale, la nozione di sciopero è a lungo circoscritta al profilo economico-professionale direttamente riferibile alle dinamiche contrattuali. Sul piano normativo, lo abbiamo già visto, sia la giurisprudenza ordinaria che quella costituzionale, tendono inizialmente a reinterpretare, più che a considerare abrogata o a dichiarare incostituzionale la passata legislazione penale. Nondimeno, il combinarsi del riconoscimento costituzionale del diritto con la forza dei fenomeni sociali espressi con la forma dello sciopero, portano ad un’espansione delle ipotesi ritenute dall’ordinamento giuridico come rientranti nel legittimo esercizio del diritto.

Lo abbiamo appena visto nella vicenda relativa alla sentenza della C. cost. n. 124/1962, ma questo risulta anche nella contemporanea sentenza 123/1962, che dichiara non fondata la questione di costituzionalità degli artt. 330 (Abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori), 504 (Coazione alla pubblica Autorità mediante serrata o sciopero) e 505 (Serrata o sciopero a scopo di solidarietà o di protesta) del c.p., ma «ai sensi e nei limiti risultante dalla motivazione», che si sforza di renderli compatibili con l’art. 40 Cost.

La Corte parte da una circoscritta definizione di sciopero (di «astensione totale dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati, al fine della difesa dei loro interessi economici»), ma poi, con riferimento all’art. 505, nega che l’ipotesi incriminatrice dello sciopero attuato per solidarietà a favore di altri lavoratori comporti che «sarebbe da considerare legittimo solo nel caso in cui si inserisca in un conflitto determinato da motivi contrattuali». Con ciò si apre la strada al riconoscimento dello sciopero di solidarietà, ampliando il concetto di interesse economico al ben più ampio orizzonte della tutela economica «di interessi comuni a intere categorie di lavoratori», sulla base della sussistenza delle «affinità» degli interessi in gioco tra i vari gruppi di lavoratori, la cui sussistenza sarà oggetto di valutazione del «giudice di merito».

Anche con riferimento all’applicabilità dell’art. 330 del c.p., la Corte costituzionale non opera una cesura netta con il passato dichiarando l’incostituzionalità della norma che sanziona penalmente lo sciopero delle categorie menzionate, ma la subordina alla valutazione «della natura delle funzioni [loro] affidate». Con ciò riconosce il diritto anche a tali categorie, in quanto la previsione sanzionatoria non è più in funzione della repressione del diritto di sciopero (come era nel previgente ordinamento corporativo), ma di astensioni dal lavoro che ledano diritti fondamentali.

Tra l’altro, il giudice delle leggi teorizza questo suo self-restraint con il «mancato adempimento da parte del legislatore dell’imperativo a lui imposto dall’art. 40»: «la Corte gode di un potere più ristretto di quello proprio dell’organo legislativo, essendole consentito di far valere solo quelle, fra le possibili limitazioni, che si desumono in modo necessario o dal concetto stesso dello sciopero [...], oppure dalla necessità di contemperare le esigenze dell’autotutela di categoria con le altre discendenti da interessi generali i quali trovano diretta protezione in principi consacrati nella stessa Costituzione».

2.2.2.4 La forza espansiva del diritto conseguente al riconoscimento costituzionale: lo sciopero politico

Col passare degli anni si fa strada la consapevolezza che, se le norme penali sanzionatorie del diritto di sciopero sono il prodotto del passato regime (e che la perentorietà ed estensiva applicabilità di quelle norme derivava dall’essere quel regime repressivo dell’insieme delle libertà civili e politiche), al contrario oggi l’estensione del riconoscimento del diritto di sciopero è la naturale conseguenza del nuovo sistema costituzionale.

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Si tratta di una consapevolezza che procede per gradi. Così, ad esempio, nella sentenza 1/1974, la Corte costituzionale afferma che, «se i fini, per i quali lo sciopero è stato promosso e attuato, si inquadrano, direttamente o indirettamente, sul piano degli interessi economici di ordine generale dei lavoratori, desumibili senz’altro dal titolo terzo, non può aprioristicamente essere disconosciuto il ricorso all’autotutela». Una tale affermazione rende più sottile il confine tra sciopero per fini economici e sciopero per fini politici, e proietta definitivamente il diritto oltre gli angusti confini dei fini contrattuali.

Non a caso, nello stesso anno la Corte opera un ulteriore salto di qualità, trovandosi a dover giudicare dell’art. 503 c.p., in relazione alla legittimità dello sciopero per fini politici. La Corte, nella ormai celebre sentenza 290/1980, compie una ricostruzione di sistema, attraverso il combinato disposto dell’art. 3, 2° co., con l’art. 40 Cost.

Per la Corte «Lo sciopero [...] acquista rilievo costituzionale in una duplice direzione: come specifico strumento di tutela degli interessi che fanno capo ai lavoratori, ed in tal caso il suo esercizio non può dar luogo ad alcuna conseguenza svantaggiosa per coloro che vi partecipino; e come manifestazione di una libertà che non può essere penalmente compressa se non a tutela di interessi che abbiano rilievo costituzionale». Non solo, lo sciopero è «un mezzo che, necessariamente valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali, è idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui al 2° co. dell’art. 3 della Costituzione» (cioè partecipazione democratica e costruzione dello Stato sociale).

La conseguenza naturale di questa impostazione è la dichiarazione d’«illegittimità costituzionale dell’art. 503 del codice penale nella parte in cui punisce anche lo sciopero politico che non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la volontà popolare».

La considerazione iniziale, dello stretto rapporto tra disciplina del diritto di sciopero e forma di stato, trova qui un’esemplare conferma.

2.2.2.5 L’espansione del diritto come prodotto delle dinamiche sociali. Le c.d. «forme anomale di sciopero»

Il costante riferimento che qui viene fatto al rapporto tra processi sociali e dinamiche giuridiche, non significa ovviamente predominio dei fatti sulle norme (che avviene solo nei momenti di rottura costituzionale o quando lo stato di necessità si configura come fonte fatto), ma segnala che, in modo evidentissimo quando l’ordinamento giuridico va a regolare una dinamica sociale, il diritto è la risultante di tale rapporto.

Così, l’ordinamento giuridico, che ha operato la scelta costituzionale di riconoscere il diritto di sciopero, deve poi giungere a stabilire che cosa esso intenda per sciopero e quando questo possa configurarsi come diritto: e nel fare questo non può che partire dal concreto manifestarsi del fenomeno sociale. Ma questa operazione non consiste nella mera passiva verifica della corrispondenza della fattispecie concreta con la fattispecie normativa astratta perché, nel momento stesso in cui il fatto che si va a regolare si presenta in forme nuove anche la disciplina giuridica tende a presentare contorni nuovi (anche quando vengono riconfermati gli indirizzi precedenti, perché comunque il prodotto di nuovi elementi di fatto e di nuove correlazioni giuridiche).

Lo strumento di lotta delle astensioni collettive dal lavoro tende ad essere sempre più variegato (a singhiozzo, a scacchiera, a sorpresa, articolato) per la naturale tendenza a massimizzare i danni alla controparte con la minore penalizzazione salariale possibile.

Pratiche di astensioni collettive dal lavoro di questo tipo diventano sempre più incisive con il crescere della complessità dei processi produttivi e l’introduzione sempre più ampia di nuove tecnologie. Non è questo un fenomeno sociologico irrilevante rispetto agli originari fondamenti costituzionali dell’istituto. Innanzitutto, perché rende meno netto uno dei paradigmi costituzionali: che i lavoratori siano sempre e comunque il contraente debole. Questo spiega perché, per un lungo primo periodo dall’entrata in vigore della Costituzione, parte della dottrina ed il prevalente orientamento giurisprudenziale, con riferimento alle modalità anomale dello sciopero, abbiano «elaborato la teoria del c.d. danno ingiusto o della corrispettività dei sacrifici, con la quale [si] tracciava un limite al diritto». Gradualmente gli orientamenti giurisprudenziali sono andati modificandosi (in parallelo con la sempre più incisiva critica dottrinaria), sino a giungere alla vera e propria svolta rappresentata dalla sentenza della Cass. civ., sez. lav., 711/1980, con la quale si afferma che «Con la dizione "sciopero" va intesa un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune, rimanendo estranea a tale nozione qualsiasi delimitazione all’ampiezza dell’astensione». Di conseguenza, «Ogni individuazione di una sua misura, normale o non, deve ritenersi estranea alla nozione di sciopero in assenza di una norma che la preveda. Un’illegittimità delle forme c.d.

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anomale di sciopero appare insostenibile facendo ricorso alle c.d. clausole generali, quali la buona fede o l’abuso del diritto. Pertanto, limiti all’esercizio del diritto di sciopero possono rinvenirsi in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quanto meno paritario con quel diritto, onde l’eventuale illegittimità dello sciopero dev’essere accertata caso per caso dal giudice, in relazione alle concrete modalità di esercizio del diritto di sciopero ed ai parimenti concreti pregiudizi o pericoli cui vengono esposti il diritto alla vita, all’incolumità delle persone e all’integrità degli impianti produttivi».

Non solo, «Lo sciopero è in sé legittimo, quale sia la sua forma e indipendentemente dall’entità del danno arrecato alla produzione; è invece illecito qualora, ledendo e mettendo in pericolo l’impresa come organizzazione istituzionale, non come mera organizzazione gestionale, sia così lesivo degli interessi primari costituzionalmente protetti [...]».

Ma la mancanza di una disciplina legislativa contribuisce a rendere oscillante la stessa giurisprudenza, tanto che la sentenza Cass. civ., sez. lav., 2214/1986, relativa al c.d. sciopero delle mansioni, si è differenziata dalla sopra ricordata pronuncia (e da quella 2840/1984) ritornando per lo sciopero, come ha scritto un Autore, «alle definizioni» obsolete del primo periodo.

2.3 La peculiarità della l. 146/1990 sulla disciplina dei servizi pubblici essenziali: una legge sul procedimento di bilanciamento tra diritti costituzionali fondamentali

La legge 146/1990 è un indicatore delle profonde trasformazioni del sistema costituzionale delle relazioni sociali. Lo è la sua stessa adozione, perché supera una inattuazione costituzionale più che quarantennale; perché segnala che profili della costituzione materiale in tema di relazioni sociali si sono andati profondamente evolvendosi; perché incide sui poteri regolativi dello sciopero da parte della magistratura, che la mancanza di una disciplina legislativa ha contribuito sinora a sovradimensionare.

Non vi è poi alcun dubbio che si tratti di una legge ordinaria dal peculiare contenuto sotto il profilo costituzionale: la regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali comporta una ricognizione dell’articolazione dei diritti fondamentali nella complessità di funzionamento dello stato sociale.

Ma, soprattutto, la disciplina si configura, espressamente, come una legge sul procedimento di bilanciamento tra diritti costituzionali fondamentali. È stata pensata, infatti, per rispondere all’esigenza di «contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati», «alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione», disponendo «le regole da rispettare e le procedure da seguire in caso di conflitto collettivo [...]».

Così si statuisce, tra l’altro, che «il diritto di sciopero» debba essere «esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili», in modo tale da configurarne il ricordato «contemperamento [...] con il godimento dei diritti della persona»; si prevede l’obbligo del «preavviso»; una disciplina sanzionatoria sia per i lavoratori che si astengono dalle prestazioni, che per i sindacati che proclamano lo sciopero, in forme e modalità che violano la finalità della legge ed iter rivolti a rimuovere le situazioni lesive di tale costituzionalmente necessario contemperamento. Al contempo, si provvede all’abrogazione dei controversi artt. 330 e 333 c.p.

La l. 146/1990 si configura così come uno strumento per promuovere nel mobilissimo ambito dello stesso conflitto sociale il principio di legalità costituzionale. E, del resto, questa non può che essere la corretta lettura dell’art. 40 Cost. (e del combinato disposto con l’art. 39): il conflitto anche nelle relazioni sociali è riconosciuto e garantito come parte integrante della nostra forma di Stato pluralista e democratica e si deve esercitare nel rispetto della legalità costituzionale (cioè di quegli stessi caratteri della forma di stato che lo legittimano: in primis, pluralismo, non violenza, rispetto dei diritti fondamentali della persona).

La peculiarità di questa legge condiziona anche i criteri per interpretarne le norme: i limiti (o, meglio, le regole) che riguardano l’esercizio del diritto di sciopero, sono applicabili solo e nella misura strettamente necessaria a garantire il contemperamento con gli altri valori fondamentali, secondo il principio più volte ribadito dalla Corte costituzionale che il relativo bilanciamento non deve essere inteso come l’integrale sacrificio di uno dei diritti fondamentali in gioco (quindi, neppure del diritto di sciopero).

Spetta, ad una particolarissima Autorità indipendente, la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, «valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare» le finalità della legge. Le competenze che vengono attribuite dalla legge a tale Commissione ne fanno un’Autorità indipendente con funzione di "raccordo" tra ordinamento giuridico e realtà sociale, in quanto la Commissione non deve limitarsi ad un «controllo astratto delle regole», ma esercitare altresì «un controllo concreto sui comportamenti» di tutti gli attori del conflitto sociale. Compito di tale Autorità è, in altre parole, quello di

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rendere attuale il contemperamento dei diritti fondamentali in gioco, nel corso stesso del conflitto sociale, che per sua natura tende a presentarsi sempre più in forme nuove e diversificate. Pertanto, la Commissione è costretta ad operare in una logica «sperimentale, dovendo trovare nell’esperienza la conferma della [...] efficacia» dei propri provvedimenti, «preparando gli aggiustamenti delle regole che gli inconvenienti registrati nella pratica rendono raccomandabili». In tal modo, la Commissione è di frequente «intervenuta [...] in funzione di supplenza normativa» ed ha segnalato, con la propria attività, quei profili problematici che rendevano indispensabile un adeguamento della l. 146/1990 (tanto che, con la l. 83/2000, si è provveduto a modifiche ed integrazioni che ne recepiscono in misura significativa le raccomandazioni).

La l. 146/1990 è un sistema in perenne evoluzione di produzione di procedure e di regole di salvaguardia dei diritti fondamentali nel conflitto sociale, che necessita per la propria efficacia di un «apprezzabile grado di "assimilazione" sociale [...]», tanto «che la tenuta del "sistema" delineato dalla legge [...] rischia di essere messa in pericolo, se - a causa di situazioni abnormi - la conflittualità superi i suoi limiti fisiologici». Tra l’altro, «è emersa una grave lacuna della l. 146, che se da un lato affida la determinazione delle prestazioni indispensabili alla contrattazione collettiva, dall’altro non affronta la questione della rappresentatività sindacale».

Si tratta di una legge che «non agisce sulle "cause" dei conflitti collettivi ma sulle loro modalità».

2.3.1 L’intervento della Corte costituzionale in funzione "integrativa" della l. 146/1990: il c.d. "sciopero" dalle attività giudiziarie degli avvocati e dei procuratori legali

"Cucire" un "vestito" giuridico ad un fenomeno sociale come lo sciopero è sempre un’operazione di difficile attuazione non solo perché questo si presenta continuamente con nuove forme e modalità (per cui si tratta di valutare anche rispetto a tali nuove manifestazioni la compatibilità con il sistema costituzionale), ma anche perché non è sempre agevole nella complessità della realtà sociale distinguere lo sciopero da altre forme di astensione dal lavoro. Di conseguenza, il legislatore o l’interprete non possono non prendere come riferimento il fenomeno come storicamente si configura; la nozione stessa di sciopero è il prodotto della cultura del tempo e questa fornisce il substrato al legislatore ed all’interprete (compresi i giudici, la Commissione di garanzia e la stessa Corte costituzionale) per giungere, secondo i poteri che l’ordinamento giuridico loro attribuisce, a definirlo giuridicamente.

Ma se il nostro sistema costituzionale che riconosce il diritto di sciopero come diritto fondamentale, ne prevede comunque il contemperamento con gli altri diritti fondamentali, il problema della distinzione tra sciopero e altre forme di astensioni collettive dal lavoro perde in gran parte di rilievo: nel senso che anche a quest’ultime si applicano comunque (a maggior ragione e quantomeno) le limitazioni che la l. 146/90 prevede per lo sciopero a tutela dei diritti fondamentali della persona.

Così, la Corte costituzionale, già nel 1994 (con la sentenza 114), riferendosi alla l. 146/90, rileva che «non vi è ragione per cui debbano restare esenti da regolamentazione forme di protesta collettiva, le quali compromettono al pari dello sciopero, il pieno e ordinato esercizio di funzioni, come quella giurisdizionale, che assumono rilievo fondamentale nell’ordinamento» ed a tal fine rivolge «un invito al legislatore». Come noto, con la sentenza 176/1996, la Corte, avendo rilevato l’inattività del legislatore e che «la situazione si è deteriorata» ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, della l. 12.6.1990, n. 146 [...] nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza».

2.3.2 La disciplina in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati dopo la l. 83/2000

Possiamo senz’altro dire che la l. 83/2000, che novella la l. 146/1990, è il prodotto del recepimento delle indicazioni della Commissione di garanzia e conseguenza di alcuni interventi della Corte costituzionale, come la sopra ricordata sentenza 176/1996 e la sentenza 57/1995.

Come risulta dalla relazione al disegno di legge di «Modifiche e integrazioni» alla l. 146/1990 (relatore il compianto Massimo D’Antona), gli obiettivi della l. 83/2000 «possono così essere riassunti: 1) sviluppo delle forme volontarie, negoziali di prevenzione, raffreddamento e moderazione dei conflitti; 2) riequilibrio del sistema sanzionatorio e miglioramento delle procedure di irrogazione e applicazione delle sanzioni; 3) estensione dei principi della l. 146/1990, con adattamenti, alle forme di astensione collettiva di lavoratori

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autonomi, professionisti e piccoli imprenditori che incidono sulla funzionalità dei servizi essenziali; 4) rafforzamento del ruolo degli utenti, attraverso le loro associazioni, e introduzione degli strumenti di tutela degli interessi diffusi nel caso di danni causati da comportamenti sleali delle parti; 5) rivisitazione del potere di ordinanza del Governo nei casi di pericolo di pregiudizio ai diritti costituzionali delle persone; 6) ampliamento dei poteri di intervento attivo della Commissione di Garanzia nella prevenzione dei conflitti e nella promozione di accordi più avanzati sulle prestazioni indispensabili».

Sotto questo ultimo profilo la l. 83/2000 ha posto «definitivamente [...] la Commissione [...] come centro di gravità dell’intera disciplina legislativa, tanto che oggi non vi è alcun percorso di svolgimento del conflitto collettivo - anteriore, contestuale o successivo alla proclamazione dello sciopero stesso - che si sottragga ai suoi doveri di intervento». La Commissione rappresenta ormai una vera e propria «cerniera» tra «l’ordinamento pubblicistico dello Stato» e «l’ordinamento sindacale», «al fine di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con quello di altri diritti costituzionalmente garantiti della persona», e per garantire il contemperamento tra il diritto di sciopero e gli altri diritti fondamentali può anche emanare una «provvisoria regolamentazione».

Si è venuto delineando, con tale legislazione, un peculiare sistema normativo, dove la legge determina procedure e princìpi; le parti sociali s’impegnano a regolare le modalità del conflitto sulla base di tale cornice normativa; la particolare Autorità indipendente che è la Commissione di garanzia garantisce comunque con propri provvedimenti (di controllo o direttamente regolativi) il raggiungimento del previsto bilanciamento tra diritti e valori costituzionali. Il tutto nel rispetto della maggiore autonomia possibile delle parti sociali, tanto che un Autore ha visto nel sistema così costruito un caso «ispirato al principio sussidiarietà» orizzontale, in quanto alle parti sociali è riservato, in prima istanza, (attraverso contratti o accordi collettivi o codici di autoregolamentazione) di prevedere le modalità di esercizio dello sciopero secondo le indicazioni della legge (e soltanto in mancanza od inadeguatezza delle fonti prodotte dall’esercizio della loro autonomia si legittima l’intervento autoritativo).

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Capitolo VIII LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICALA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COSTITUZIONE ECONOMICA

IntroduzioneIntroduzioneIntroduzioneIntroduzione La lettura del saggio di Luciani ha messo in evidenza la stretta connessione che la Costituzione ha definito tra gli enunciati dedicati ai rapporti economici e i princìpi con la più forte connotazione sociale. La nostra Costituzione non è una costituzione liberale in senso classico. In essa, l’ascendente esercitato dal pensiero liberista non ha assorbito ideologicamente l’assetto complessivo delle norme dedicate al fattore economico. L’impronta socialdemocratica è forte. Essa costituisce uno degli elementi intorno ai quali si è addensato il compromesso tra le diverse componenti politiche presenti in Assemblea costituente. Pertanto, nel decifrare i caratteri della costituzione economica non è possibile prescindere dalla dimensione sociale dei princìpi fondamentali consacrati nella nostra carta costituzionale.

I princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza socialeI princìpi costituzionali ad alta valenza sociale In una Costituzione liberale in senso classico non troveremmo mai una previsione, quale quella contenuta nel nostro art. 2, che impone a tutti l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, doveri di solidarietà politica, doveri di solidarietà politica, doveri di solidarietà politica, economica e socialeeconomica e socialeeconomica e socialeeconomica e sociale. Secondo il pensiero liberale le diseguaglianze sono il frutto di dinamiche sociali ed economiche spontanee, come tali non condizionabili dallo Stato e dalle istituzioni pubbliche. Eventuali condizioni di svantaggio, a danno di alcuni consociati, possono essere rimosse attraverso l’impegno individuale. Semmai, sarebbe rimesso alla libera iniziativa di privati, spinti da motivazioni filantropiche, l’adozione di iniziative di solidarietà nei confronti dei meno abbienti. Mai e poi mai, secondo questo ordine di idee, lo Stato potrebbe non solo ingerirsi in queste dinamiche sociali, ma anche imporre ai cittadini di farsi carico dei problemi altrui. La consacrazione dei doveri di solidarietà sociale riflette la consapevolezza che uno Stato può sopravvivere solo adottando misure idonee a prevenire i conflitti sociali. La lotta alle diseguaglianza non solo è un obiettivo irrinunciabile in una moderna democrazia, ma deve essere perseguita attraverso una azione comune dello Stato e dei singoli nella direzione di una più intensa coesione sociale. In una Costituzione liberale in senso classico, inoltre, non troveremmo mai l’affermazione, contenuta nel nostro art. 3, secondo comma, del prinprinprinprincipio di eguaglianza sostanzialecipio di eguaglianza sostanzialecipio di eguaglianza sostanzialecipio di eguaglianza sostanziale: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svolgimento della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il primo comma dell’art. 3 ribadisce un principio, quale quello di eguaglianza formale, che è diretta eredità del pensiero liberale: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Eguaglianza formale significa parità di trattamento di tutti davanti alla legge: nelle aule di tribunale, dinanzi alla pubblica amministrazione, ma ancor prima nelle sedi in cui sono approvate le leggi. Eguaglianza formale significa, se ci si rivolge al legislatore, obbligo di trattare allo stesso modo situazioni eguali e obbligo di trattare in maniera diversa situazioni altrettanto differenti. La posizione dell’individuo dinanzi alla legge non muta a seconda di condizioni soggettive del medesimo: il sesso, l’etnia, la lingua, i convincimenti politici, le condizioni personali e sociali non possono essere elementi idonei a giustificare discriminazioni a danno di alcuni e a beneficio di altri.

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Nel principio di eguaglianza formale si esprime appieno l’ideologia liberale. È compito dello Stato considerare i consociati come individui meritevoli del medesimo trattamento giuridico: il ricco e il povero hanno le stesse garanzie e i medesimi diritti in ambito processuale; non v’è distinzione tra uomini e donne quanto al diritto di voto; il legislatore non può approntare una disciplina peculiare a favore o contro coloro che si riconoscono in determinati ideali politici. In definitiva, il principio di eguaglianza formale impone allo Stato di riconoscere a tutti i diritti fondamentali sui quali si fonda il patto costituzionale tra autorità e società. Questo modello entra in crisi nel momento in cui ci si avvede che non basta riconoscere a tutti l’astratta titolarità dei diritti fondamentali, mentre il concreto esercizio degli stessi risulta spesso ostacolato da fattori di ordine economico e sociale. Tutti hanno il diritto all’inviolabilità del domicilio: non tutti, però, hanno una abitazione in cui esercitare tale diritto. Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero, ma ciò presuppone un certo livello di cultura accessibile soltanto a coloro che possono permettersi di studiare; tutti hanno il diritto alla salute, ma spesso le cure richiedono spese che non tutti possono permettersi; tutti hanno il diritto di circolare liberamente, ma spesso occorrono mezzi di trasporto che non sono disponibili per la generalità delle persone. E gli esempi potrebbero continuare. Insomma, ad un certo punto della storia dell’umanità, si riconosce il divario tra astratta titolarità dei diritti fondamentali e concreto esercizio degli stessi. Uno Stato, che intenda sopravvivere inibendo i conflitti sociali, non può tollerare un simile divario. L’astratta titolarità di un diritto fondamentale non è nulla se non è accompagnata dall’effettivo esercizio dello stesso. Non che il pensiero liberale non fosse consapevole di questo divario. Tuttavia, la soluzione prospettata dal liberalismo classico era la seguente: ogni individuo deve impegnare i propri talenti, le proprie risorse, il proprio spirito di intraprendenza, magari assumendo qualche rischio o accettando qualche sacrificio, per potere davvero esercitare i propri diritti fondamentali. Se non ci riesce, è colpa sua. Idealmente, lo Stato non può ingerirsi nella vita delle persone. Se un individuo scientemente decide di rassegnarsi al proprio infausto destino, allora lo Stato non può intromettersi in questa scelta che, per quanto opinabile, è pur sempre espressione di libertà. E il liberalismo è la filosofia della libertà individuale. L’avvento impetuoso del proletariato nelle società industriali determina un mutamento radicale del panorama politico, ossia di quelle sedi nelle quali le ideologie politiche attecchiscono e maturano in provvedimenti e decisioni coerenti. Nei parlamenti nazionali si affacciano, prima timidamente e poi con vigore, i partiti di massa quali espressioni dei ceti meno abbienti della società. Queste formazioni politiche rappresentano l’insieme di coloro che subiscono le degenerazioni del capitalismo industriale. Le relative istanze di tutela trovano così la possibilità di essere recepite e tradotte in atti legislativi idonei a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle rispettive famiglie. Ma non basta. La nascita dei partiti di massa, di ispirazione socialdemocratica, crea le condizioni favorevoli per un ripensamento dei vecchi dogmi del liberalismo classico di matrice borghese, ma fu necessario uno scossone, anzi un autentico cataclisma per rivelare una volta per tutte i fallimenti del mercato e, con essi, l’inconsistenza delle tesi della mano invisibile e del laissez faire. La crisi del 1929 determinò il crollo dei sistemi economici dei paesi occidentali. Il mercato si rivelò incapace di garantire il raggiungimento della condizione ottimale di equilibrio tra domanda e offerta, generando invece squilibri e ingiustizie nella distribuzione della ricchezza nazionale. Questi squilibri, queste diseguaglianza nella distribuzione del reddito, un tempo erano giustificate dal pensiero liberale come conseguenza di libere scelte individuali. Questa giustificazione non persuase più gli schieramenti politici progressisti presenti nei diversi parlamenti nazionali, e la crisi indusse ad implementare inedite forme di intervento dei pubblici poteri nei rapporti sociali ed economici. Siamo, dunque, agli albori dello Stato socialeStato socialeStato socialeStato sociale (Welfare State). In sintonia con le tesi keynesiane, lo Stato non si accontenta più di garantire le condizioni minime per il libero dispiegarsi delle iniziative individuali, ma, conscio dei fallimenti del mercato che hanno provocato una iniqua distribuzione della ricchezza nazionale, interviene direttamente nelle relazioni tra le unità di decisione economica,

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in modo tale da cercare il punto di equilibrio tra domanda e offerta anche alterando il libero gioco degli attori economici. Lo Stato sociale concepisce una nuova soluzione per risolvere il problema del divario tra astratta titolarità dei diritti fondamentali e concreto esercizio degli stessi. Occorre intervenire per garantire a tutti, e in particolare ai più bisognosi, i beni necessari per avvalersi effettivamente di quei diritti: trasporti pubblici, alloggi popolari, sanità e istruzione affidata ad enti pubblici, un sistema previdenziale e assistenziale sottratto al mecenatismo dei privati. Ebbene, questa inedita versione dello Stato interventista riposa proprio sul principio di eguaglianza sostanziale. Diversamente dagli Stati socialisti, nei quali il livellamento sociale ed economico fu perseguito attraverso la affermazione della proprietà pubblica dei fattori di produzione, negli Stati di ispirazione socialdemocratica come il nostro, che comunque tengono ferme le conquiste dello Stato liberale, l’obiettivo perseguito è quello non dell’egualitarismo assoluto, bensì dalla progressiva riduzione del divario tra classi sociali quanto alla distribuzione del reddito. Come si avrà modo di ripetere anche più avanti, questo obiettivo viene perseguito garantendo a tutti eguaglianza delle opportunitàeguaglianza delle opportunitàeguaglianza delle opportunitàeguaglianza delle opportunità, ossia eguaglianza nei punti di partenza, in modo tale da assicurare anche a coloro che nascono o versano in condizioni di svantaggio sociale ed economico le medesime opportunità dei più fortunati di esercitare appieno i propri diritti fondamentali. Il seguente scritto di Giorgis offre il necessario approfondimento del tema relativo all’eguaglianza sostanziale. A. GIORGIS, Commento all’art. 3, secondo comma, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, pp. 88 ss. …

2. Commento 2.1 L’obiettivo e la struttura del principio di uguaglianza sostanziale

In questa disposizione trova espresso riconoscimento uno degli obiettivi fondamentali del diritto

costituzionale europeo del secondo dopoguerra: garantire a ogni individuo le condizioni materiali, culturali e sociali per poter condurre un’esistenza libera e dignitosa; detto in altri termini, garantire a ogni individuo le condizioni per poter concretamente esercitare tutti quei diritti di libertà e di partecipazione (all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese) che lo stesso diritto costituzionale gli riconosce e che dovrebbero (a loro volta) consentirgli di realizzare nella maniera più piena lo sviluppo della propria persona.

Pur essendo (relativamente) chiaro l’obiettivo che l’art. 3, 2° co., si prefigge di raggiungere, i problemi interpretativi che esso solleva sono molteplici: ogni singolo termine di cui si compone è, infatti, potenzialmente in grado di esprimere, come si evidenzierà in seguito, una pluralità di significati. Tuttavia, se si volesse provare a sintetizzare e a classificare l’insieme delle diverse opzioni interpretative risulterebbe che esse, in ultima analisi, possono essere ricondotte a tre principali questioni: due connaturate alla struttura stessa del principio d’uguaglianza e una connaturata al carattere giuridico delle prescrizioni costituzionali.

Innanzitutto, la prima questione che si pone all’interprete è quella di stabilire tra chi debba essere realizzata una condizione di uguaglianza sostanziale; quali sono cioè i soggetti titolari di una "pretesa" all’uguaglianza?

La seconda questione che si pone è, invece, quella di stabilire in che cosa debbano, e/o in che cosa possano, essere uguali i soggetti di cui sopra; qual è cioè l’oggetto della pretesa all’uguaglianza sostanziale e/o quali potrebbero essere i contenuti di scelte legislative volte a realizzare condizioni di uguaglianza sostanziale?

La terza questione, infine, concerne il problema della definizione dei soggetti istituzionali che dovrebbero ritenersi giuridicamente obbligati a realizzare le condizioni di uguaglianza sostanziale; l’art. 3, 2° co., contiene cioè delle norme che sono applicabili anche dai giudici, e se sì in quale misura, oppure contiene delle norme che si rivolgono al solo legislatore?

A più di cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la dottrina appare divisa su tutte e tre le questioni: a) se i beneficiari dei (di alcuni) possibili contenuti normativi siano, ad esempio, soltanto i cittadini oppure tutti coloro che sono sottoposti alla sovranità dello Stato; b) se dalla lettera del 2° co. dell’art. 3 sia possibile evincere soltanto norme meramente riassuntive di quanto è successivamente stabilito in altri articoli

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della Costituzione (quali, ad esempio, gli artt. 4, 24, 3° co., 32, 1° co. e 38, ecc.) oppure sia altresì possibile evincere norme suscettibili di dispiegare un autonomo contenuto prescrittivo e c) se la disposizione in esame contenga anche delle norme che possono essere immediatamente applicate dai giudici, è, insomma, a tutt’oggi, oggetto di discussione.

Non meno incerta è la giurisprudenza dei giudici comuni e della Corte costituzionale: alle poche decisioni che fanno espresso richiamo alla disposizione in esame si accompagnano sia decisioni che accolgono ricorsi o questioni di legittimità facendo applicazione di quelle disposizioni costituzionali che più direttamente si considerano estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale, quali sono appunto le disposizioni che riconoscono agli individui più deboli i vari diritti a prestazioni positive di carattere redistributivo (cosiddetti, anche se in maniera non del tutto appropriata, diritti sociali), sia decisioni che paiono considerare (non soltanto legittime ma) doverose procedure normative "diseguali" nel mercato del lavoro e sul piano della partecipazione politica, sia decisioni che respingono ricorsi e rigettano questioni di legittimità sulla base dell’opposto assunto che la disposizione in esame e le disposizioni che riconoscono i vari diritti all’uguaglianza sostanziale siano disposizioni meramente programmatiche, nonché decisioni che considerano incostituzionali deroghe al principio di parità formale nell’ambito della rappresentanza politica, e meramente legittime, e dunque non costituzionalmente obbligatorie o comunque non introducibili in via giurisdizionale, azioni positive nell’ambito della disciplina del lavoro.

2.2 I soggetti titolari delle pretese all’uguaglianza sostanziale

La pretesa ad essere posto in una situazione di uguaglianza rispetto a qualcuno non può mai, per definizione, essere una pretesa di tutti; al limite, perlomeno questo "qualcuno", a cui si vogliono parificare gli altri, ne rimane escluso.

Titolare di una pretesa all’uguaglianza sostanziale non può quindi mai essere l’individuo in quanto tale, considerato nella sua astratta natura di essere umano, ma soltanto l’individuo concreto, considerato nella sua specifica e reale posizione sociale.

Nella sua estrema espressione, l’uguaglianza sostanziale, al contrario dell’uguaglianza formale, reclama infatti tante discipline quante sono le situazioni di concreto svantaggio individuale.

In via di prima approssimazione si potrebbe allora dire così: i soggetti destinatari delle misure legittimate e prescritte dall’art. 3, 2° co., sono tutti coloro che per ragioni economiche e/o sociali si vedono ostacolato l’esercizio dei propri fondamentali diritti di libertà e di partecipazione.

Tuttavia, per definire "tra chi" l’uguaglianza sostanziale possa e debba essere realizzata, occorre definire anche l’ambito entro il quale il problema dell’uguaglianza assume rilievo.

Ogni questione di uguaglianza, commutativa o distributiva, semplice o complessa, com’è noto, non può essere definita che all’interno di una qualche entità composta da (almeno due o) più parti.

Al di fuori dell’ambito familiare, le cui specificità peraltro ne consigliano una trattazione a parte, i luoghi sociali che la Costituzione - anche attraverso l’art. 3, 2° co. - parrebbe assumere come prima unità di misura, ovvero, come presupposto per la definizione di ogni ulteriore elemento soggettivo e oggettivo, sono essenzialmente due: quello della produzione o, meglio, del lavoro, e quello più generale della territorialità, ossia della sovranità dello Stato.

a) Nel primo luogo parrebbero trovare riconoscimento sia diritti e aspettative di diritti che mirano a realizzare una maggiore uguaglianza tra lavoratore e datore di lavoro (e dunque un principio di uguaglianza, o giustizia, commutativa), sia diritti e aspettative di diritti che mirano a realizzare una maggiore uguaglianza tra i lavoratori stessi (e dunque un principio di uguaglianza, o giustizia, distributiva).

b) Nel secondo, invece, parrebbero trovare riconoscimento, diritti e aspettative di diritti che mirano a realizzare una maggiore uguaglianza tra tutti coloro che sono sottoposti alla sovranità dello Stato, e dunque un principio di uguaglianza (o giustizia) distributiva.

2.2.1 I soggetti titolari delle pretese all’uguaglianza sostanziale relative al luogo sociale del lavoro a) La condizione che occorre possedere per essere titolari dei diritti (costituzionali e legislativi) relativi ai

luoghi e ai momenti del lavoro è semplicemente quella di entrare a far parte della "comunità" produttiva. Chi assume, in virtù di un contratto, la posizione di lavoratore "subordinato", ad esempio, ha diritto, ex

art. 36 Cost., quale che sia la particolare forma del suo rapporto, a una retribuzione proporzionata al lavoro svolto e, in ogni caso, sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa. Analogamente ha diritto al riposo settimanale e a un ragionevole periodo di ferie annuali retribuite. Ma, soprattutto, ha diritto a che non assumano rilievo aspetti particolari della propria persona che non presentano alcuna relazione con lo

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svolgimento delle mansioni cui viene adibito. Il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche o le condizioni personali e sociali non debbono essere fonte di alcuna discriminazione. Né deve essere fonte di discriminazione la cittadinanza o il carattere eventualmente illegittimo del titolo in base al quale in un determinato momento un individuo si trova nel territorio italiano: una volta che lo straniero abbia assunto la posizione di lavoratore deve poter godere degli stessi diritti e degli stessi vantaggi che sono riconosciuti al lavoratore cittadino. Il soggetto titolare di questi diritti relativi ai luoghi di lavoro - siano essi diritti riconosciuti direttamente da specifiche disposizioni costituzionali (cfr. ad es. art. 36), siano essi diritti posti dal legislatore ordinario in attuazione di quei principi costituzionali (insuscettibili di immediata applicazione) che, ad esempio, gli prescrivono di tutelare "il lavoro in tutte le sue forme" e di curare "la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori" (art. 35), oppure di determinare "i programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali" (art. 41, 3° co.), o in attuazione dello stesso art. 3, 2° co. - è colui che lavora, dietro corrispettivo, sotto la direzione e il controllo di un imprenditore.

Alcuni particolari caratteri di debolezza o di bisogno, quali ad esempio il sesso o la minore età, semmai attribuiscono ai lavoratori in questione ulteriori pretese. Alle donne, secondo quanto espressamente prescrive anche l’art. 37 Cost., debbono essere assicurate condizioni di lavoro che consentano loro di adempiere altresì alla "essenziale funzione familiare". E in ogni caso a entrambi i genitori - come ha in più occasioni ribadito la Corte costituzionale - deve essere assicurata la possibilità di prendersi cura dei figli. Nella stessa prospettiva, il lavoro dei minori, oltre a non subire discriminazioni di carattere retributivo, deve essere adeguatamente tutelato.

2.2.2 I soggetti titolari delle pretese all’uguaglianza sostanziale relative al territorio (e/o alla sovranità) dello Stato

b) La condizione che occorre possedere per essere titolari dei diritti all’uguaglianza distributiva, per essere titolari, cioè, del diritto di accedere a una quota (essenziale) di tutti quei beni e servizi di cui si ritiene indispensabile poter fruire per condurre un’esistenza libera e dignitosa, dovrebbe invece essere soltanto quella di trovarsi sul territorio dello Stato italiano. L’unico requisito che un individuo parrebbe dover possedere per essere titolare del fondamentale diritto di condurre un’esistenza dignitosa, è quello di essere sottoposto alla sovranità dello Stato. Altri aspetti non dovrebbero assumere rilievo. Le particolari opinioni politiche di cui ciascuno può essere portatore, le specifiche convinzioni religiose, il sesso e finanche lo stato legale di cittadinanza - ai fini, ad esempio, della definizione della titolarità del diritto di fruire di cure mediche, o del diritto di ricevere un livello minimo di istruzione, o del diritto all’abitazione, quanto meno nella veste dell’accesso all’assegnazione degli alloggi dell’edilizia pubblica popolare, o ancora del diritto a essere posto nella condizione economica e sociale onde poter concretamente esercitare il diritto di azione e di difesa in giudizio - non dovrebbero insomma presentare alcuna rilevanza giuridica.

Ciò non significa - si badi bene - che vi sia un diritto di tutti gli individui di fruire di una quota essenziale di alcune risorse del nostro Paese, ovvero che vi sia un diritto di entrare in Italia per ricevere delle cure mediche essenziali o una certa assistenza, ma semplicemente che se si è stati ammessi nel nostro territorio, secondo quanto prescrivono le norme costituzionali e di legge sul diritto di asilo e sul diritto di immigrazione, allora si è altresì titolari dei diritti all’uguaglianza distributiva. Questa soluzione - che parrebbe a una prima analisi contrastare con la lettera dello stesso art. 3, 2° co., là dove indica quali destinatari degli interventi pubblici di rimozione degli ostacoli i "cittadini" - emerge, oltre che dalla lettera di tutte le successive disposizioni costituzionali che riconoscono i singoli diritti all’uguaglianza sostanziale - lettera nella quale non vi è altra indicazione che lo specifico stato di bisogno - soprattutto, dall’inclusione di questi diritti tra quei diritti inviolabili dell’uomo che sono volti ad assicurare la soddisfazione di bisogni essenziali connaturati alla dignità della persona e che concorrono altresì a definire la nostra forma di Stato. Com’è stato anche di recente sottolineato, essendo il valore della persona umana il valore primario intorno al quale ruota l’intero edificio costituzionale ed essendo coessenziale a una vita degna la disponibilità di alcune risorse materiali e culturali, non sembra possibile negare al principio di uguaglianza sostanziale e ai diritti che da esso discendono un ruolo e una posizione giuridica di massima importanza. La possibilità di accedere a una quota (essenziale o minima essenziale) delle risorse - è facile dimostrare - costituisce, anzi, la precondizione per l’esercizio di qualsiasi libertà; e ciò, del resto, è ribadito anche nell’inciso, retto dal gerundio, che si ritrova nella disposizione in esame e che esplicita le ragioni dell’intervento della Repubblica. Come tali, i diritti all’uguaglianza distributiva - in conformità a quanto dispongono le principali norme del diritto internazionale

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sui diritti dell’uomo (alle quali la legge ordinaria, ex art. 10, cpv., Cost., deve adeguarsi) - non possono che spettare a tutti gli esseri umani. Il principio d’uguaglianza - come si può leggere in alcune decisioni della stessa Corte costituzionale - quando viene riferito al godimento di diritti inviolabili dell’uomo, non tollera discriminazioni neanche "tra la posizione del cittadino e quella dello straniero".

A sostegno della soluzione ipotizzata si può inoltre evidenziare la natura dei soggetti sui quali grava l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, e in particolare di solidarietà economica nella misura prescritta dall’art. 53 Cost. Anche in questo caso il destinatario della prescrizione costituzionale sembrerebbe doversi individuare semplicemente ed esclusivamente in colui che è contributivamente capace. Se tutti coloro che sono sottoposti alla sovranità dello Stato sono soggetti agli inderogabili doveri specifici di solidarietà economica allora allo stesso modo dovrebbero essere considerati anche potenziali beneficiari del diritto di accedere ad alcune risorse essenziali. Se, in altri termini, il principio che individua i soggetti sottoposti al dovere tributario è quello della territorialità, allora questo stesso principio dovrebbe, in linea di massima, valere anche per la individuazione dei soggetti titolari dei diritti all’uguaglianza sostanziale.

Come emerge anche dalle considerazioni fin qui svolte, l’individuazione dei soggetti destinatari delle misure di supporto prescritte dall’art. 3, 2° co., dipende (almeno in parte) dalla definizione del contenuto delle misure stesse. La risposta alla domanda "tra chi" debba essere realizzata una condizione di maggiore uguaglianza è, infatti, strettamente correlata alla risposta che si dà all’altra domanda relativa all’oggetto degli interventi pubblici, "in che cosa" debba, cioè, essere assicurata l’uguaglianza. A questo proposito, occorre sottolineare che le soluzioni che si sono più sopra avanzate, in merito alla definizione dell’ambito soggettivo di incidenza del principio di uguaglianza sostanziale, costituiscono il risultato di una specifica scelta interpretativa in merito al significato giuridico delle due proposizioni con le quali si chiude la disposizione in esame e con le quali viene esplicitato il fine ultimo dell’attribuzione alla Repubblica del compito di rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale [...]": creare le condizioni affinché non sia impedito "il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Ebbene, come si cercherà di argomentare meglio più oltre, queste due conclusive proposizioni, pur esprimendo qualcosa di diverso dal pieno ed effettivo godimento dei diritti di libertà previsti in Costituzione, non paiono né attribuire specifiche e definite pretese in capo a una qualche classe di soggetti, né - ed è ciò che più conta in questa sede - suggerire all’interprete di introdurre una distinzione ulteriore a quelle che si sono più sopra tracciate (tra luogo della produzione e luogo della territorialità) per quanto riguarda appunto i soggetti destinatari delle varie misure prescritte e/o legittimate dalla disposizione oggetto della presente analisi.

Titolari delle pretese all’uguaglianza distributiva dovrebbero, quindi, essere tutti coloro che sono sottoposti alla sovranità dello Stato e che, per ragioni economiche e/o sociali, si vedono ostacolato l’esercizio dei propri diritti di libertà e di partecipazione (politica, economica e sociale), e che a causa di tale limitazione si vengono a trovare in una condizione di impedimento o di difficoltà - economica o anche "solo culturale o sociale in senso largo - al libero dispiegarsi della propria inconfondibile e irripetibile identità".

Peraltro, se si accoglie una interpretazione estensiva e dinamica del concetto di ostacolo, e dunque si ritiene, come del resto parrebbe ragionevole doversi ritenere, che non si possa mai giungere a considerare del tutto pieno (nel senso di non più migliorabile) l’esercizio dei diritti di libertà e di partecipazione alla vita economica sociale e politica del Paese, l’insieme dei soggetti titolari delle (diverse) pretese di cui all’art. 3, 2° co., Cost., è potenzialmente in grado di ampliarsi fino quasi a coincidere con l’insieme degli stessi (astratti) titolari dei diritti di libertà e di partecipazione.

2.3 Gli oggetti delle pretese all’uguaglianza sostanziale

"In che cosa" tale uguaglianza deve essere assicurata; in che cosa debbono cioè essere uguali i soggetti titolari di una "pretesa" all’uguaglianza sostanziale?

In via di prima approssimazione si potrebbe sicuramente rispondere così: in tutto ciò che è indispensabile assicurare a un individuo affinché questi possa condurre un’esistenza libera e dignitosa, o, per riprendere l’espressione utilizzata dalla disposizione in esame, in tutto ciò che si ritiene indispensabile assicurare a un individuo affinché questi possa sviluppare al meglio la propria persona ed effettivamente partecipare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Se, però, si volesse cercare di essere un po’ più precisi, occorrerebbe innanzitutto indicare il criterio (c.d. di giustizia) sulla base del quale i diversi beni e servizi (la cui fruizione è considerata appunto indispensabile) debbono essere distribuiti tra i membri del gruppo (o luogo) sociale volta per volta preso in esame.

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Inoltre occorrerebbe definire, sempre in relazione a ciascun bene considerato essenziale, quale sia la natura dell’ostacolo che impedisce ad alcuni individui di acquisirlo e, in particolare, se sia un ostacolo di carattere economico oppure sia un ostacolo di carattere ("meramente") sociale.

2.3.1 Gli oggetti delle pretese all’uguaglianza sostanziale relative al luogo sociale del lavoro

A) Per quanto riguarda il luogo della produzione, i beni oggetto dei diritti (costituzionali e legislativi) che i lavoratori vantano nei confronti del datore di lavoro sono essenzialmente di due tipi: 1) beni che spettano al lavoratore in quanto lavoratore dotato di certi meriti o certe capacità (si pensi, ad esempio, oltre che all’assunzione, a una promozione o all’affidamento di compiti di particolare responsabilità) e 2) beni che spettano al lavoratore in quanto tale (retribuzione, riposo settimanale, ecc.).

1) Il criterio di distribuzione dei beni del primo tipo dovrebbe essere innanzitutto il criterio del merito.

L’esigenza di assicurare a ogni individuo l’effettiva possibilità di condurre una vita libera e dignitosa può perciò richiedere, oltre che un intervento normativo di carattere produttivo di beni e servizi e redistributivo delle risorse, una limitazione dell’autonomia privata e, in particolare, una limitazione della libertà contrattuale.

Le modalità attraverso le quali l’autonomia privata potrebbe (legittimamente) subire una limitazione, da parte del legislatore, sono sicuramente molteplici.

Al fine di realizzare l’obiettivo di cui all’art. 3, 2° co., e in particolare al fine di rimuovere gli ostacoli di carattere sociale, i giudici, in assenza di una specifica norma legislativa, potrebbero (o, meglio, dovrebbero) tuttavia, iniziare con l’estendere ai privati l’ambito di operatività del principio d’uguaglianza formale e con l’imporre, quindi, ad esempio, ai datori di lavoro di non adottare alcun criterio per l’assegnazione delle mansioni, per le promozioni e per la distribuzione di ogni altro beneficio che svantaggi in modo arbitrario i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso (come prescrive, del resto, l’art. 4, 2° co., l. 125/1991). Analogamente, e sempre al fine di neutralizzare tutte quelle caratteristiche personali e/o sociali che non presentano alcun rilievo rispetto alle mansioni che debbono essere svolte, il legislatore potrebbe altresì introdurre (o reintrodurre) l’istituto del collocamento obbligatorio e della chiamata numerica. Più in generale, comunque, si potrebbe argomentare, proprio a partire dal principio costituzionale di cui all’art. 3, 2° co., il riconoscimento a ciascun individuo del diritto di non subire alcun tipo di discriminazione, oltre che nell’accesso al lavoro, nell’accesso a tutti i beni (rientranti nella disponibilità di soggetti privati) di cui si considera necessario poter fruire per condurre una vita dignitosa, come, per fare un altro esempio, si potrebbero considerare gli immobili a uso abitativo.

2) Il criterio che governa la distribuzione dei beni del secondo tipo è, invece, per espressa previsione costituzionale, quello del bisogno. La retribuzione, ad esempio, deve essere non soltanto proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto ma, altresì, "sufficiente ad assicurare [... al lavoratore] e alla [propria] famiglia un’esistenza libera e dignitosa" (art. 36, 1° co., Cost.). Analogamente il lavoratore ha diritto, quale che sia il proprio talento, "al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite" (art. 36, 2° co., Cost.). E sulla base della stessa logica ha diritto a condizioni e a luoghi di lavoro adeguati alla tutela della propria integrità psico-fisica (come recita anche l’art. 2087 c.c.).

Il riferimento finalistico all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale, e in particolare il riferimento alla partecipazione all’organizzazione economica, al di là dell’interpretazione più o meno estesa che si ritenga di dover avanzare del termine lavoratori (tutti i cittadini; tutti coloro che svolgono una funzione che concorre al progresso materiale o spirituale della società; "i soggetti collocati nei rapporti di produzione in posizione antagonista, contraddittoria e eventualmente anche solo non coincidente con quella dei soggetti in grado di appropriarsi privatamente del plusvalore creato nel processo produttivo"; i soli lavoratori subordinati in senso stretto) - come è stato sostenuto da alcuni Autori - parrebbe altresì consentire di riconoscere a coloro che sono coinvolti nel processo produttivo capitalistico in una posizione subordinata il diritto di partecipare (in una misura che spetterà ovviamente al legislatore determinare, tenendo conto del fondamento costituzionale della proprietà privata e dell’iniziativa economica privata) alle decisioni sul che cosa, sul quando e sul come si deve produrre.

2.3.2 Gli oggetti delle pretese all’uguaglianza sostanziale relative al territorio (e/o alla sovranità) dello Stato

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B) Per quanto riguarda il luogo della territorialità, e dunque i diritti (costituzionali e legislativi) che gli individui (economicamente e/o socialmente) più deboli, sottoposti alla sovranità dello Stato, vantano nei confronti delle diverse articolazioni della Repubblica (e, dunque, in ultima analisi, nei confronti degli individui contributivamente capaci), il criterio di accesso alla specifica misura volta alla rimozione dell’ostacolo (che impedisce il pieno ed effettivo esercizio dei diritti di libertà e di partecipazione) è sempre e solo quello del bisogno. Ciò al fine di garantire che alcuni beni e servizi (prestazioni sanitarie, istruzione e, più in generale, tutti i beni e i servizi considerati oggetto, o presupposto dell’esercizio, dei diversi diritti fondamentali) siano allocati - per utilizzare le categorie di Michael Walzer - secondo i criteri intrinseci ai beni medesimi; e in nessun caso, quindi, secondo il criterio della capacità economica. L’obiettivo (e l’effetto) primario del riconoscimento delle diverse pretese all’uguaglianza distributiva è infatti proprio quello di neutralizzare il peso sociale della ricchezza materiale, nonché quello di socializzare il costo di tutti i servizi e gli interventi che mirano ad assicurare ai soggetti più svantaggiati le condizioni per il pieno sviluppo della propria persona e per l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Posto che una certa quantità delle risorse di cui la collettività dispone deve essere allocata secondo il criterio del bisogno, uno dei problemi che si pone è allora, in primo luogo, quello di definire tale quantità: come si determina la misura dell’obbligo costituzionale, che incombe sulla Repubblica, di apprestare una adeguata disciplina attuativa dei diritti di prestazione, oppure, se questa disciplina già esiste o se le prestazioni oggetto dei diritti sono già esigibili, come si determina il limite costituzionale alle decisioni legislative che intendono ridurre il grado di tale attuazione?

La risposta che la dottrina e le Corti costituzionali di tutti i Paesi nei quali vigono costituzioni rigide e lunghe hanno avanzato è sostanzialmente la stessa: occorre cercare di definire, caso per caso, il contenuto essenziale (o minimo essenziale) di ciascun diritto.

E in effetti - da un punto di vista teorico - l’unico modo per coniugare, nel divenire dell’ordinamento, politica, economia di mercato e diritto; l’unico modo, cioè, per coniugare discrezionalità legislativa e garanzia dei (confliggenti) principi di libertà (anche economica) e di uguaglianza (anche sostanziale) pare essere proprio quello di verificare, caso per caso, che il legislatore non abbia composto il (fisiologico) contrasto tra principi (dotati di analogo ancoraggio costituzionale) dando (sostanzialmente) prevalenza integrale all’uno o all’altro, ovvero, sacrificando in maniera pressoché integrale uno dei principi coinvolti nella situazione concreta.

Ma quand’è che un principio può dirsi sacrificato in maniera integrale? Come si deve cioè procedere per stabilire il contenuto essenziale di un principio (diritto) e, in particolare, del principio d’uguaglianza sostanziale?

2.3.3 Il contenuto (minimo) essenziale dei diritti

Innanzitutto, occorre considerare il carattere "relativo" del concetto di contenuto essenziale. Il contenuto essenziale dei diritti (e dei principi costituzionali dai quali discendono) non è un elemento che possa essere determinato in sé e per sé, astrattamente e una volta per tutte. La sua determinazione può avvenire solo attraverso una valutazione della concreta e reale situazione in cui le diverse pretese si innestano. Per giungere alla definizione del contenuto essenziale dei principi costituzionali, e in particolare del principio costituzionale d’uguaglianza sostanziale, occorre pertanto procedere, oltre che alla valutazione circa la ragionevolezza delle limitazioni disposte dalla legge - valutazione che verrà condotta attraverso gli ormai consolidati test di rilevanza costituzionale dell’interesse concorrente, di idoneità logica, di non eccessività e di proporzionalità del mezzo impiegato per perseguirlo - alla valutazione di almeno altri due elementi, peraltro, non a caso, strettamente collegati e, in concreto, forse perfino indistinguibili: l’uno di carattere economico, l’altro di carattere, per così dire, culturale.

Per cercare di tracciare con il massimo rigore possibile i confini del "costituzionalmente obbligatorio" - e dunque verificare la non eccessività della compressione imposta alle pretese costituzionali degli individui economicamente più poveri e degli individui socialmente più svantaggiati - in primo luogo, occorre verificare le condizioni economiche e personali dei soggetti nei cui confronti è richiesta o contestata l’attribuzione o l’estensione di una determinata prestazione. Nel contempo occorre precisare quale sia, nello specifico contesto culturale in cui il giudizio si svolge, la qualità e la quantità dei beni di cui si deve poter fruire per condurre un’esistenza libera e dignitosa. Una valutazione economica del contenuto minimo essenziale di ciascun diritto all’uguaglianza sostanziale non può infatti prescindere da una valutazione di carattere, per così dire, culturale: senza una previa definizione di ciò che, in quel determinato momento storico, si ritiene materialmente necessario poter disporre per condurre una vita dignitosa, non sarebbe possibile procedere a nessuna determinazione di ciò che il diritto costituzionale aspira a sottrarre alla politica e all’economia.

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Per cercare di tracciare con rigore i margini del "costituzionalmente obbligatorio" oltre che verificare le condizioni personali ed economiche dei soggetti esaminati occorre altresì cercare di definire, con altrettanta precisione, il presupposto di fatto del bilanciamento, ossia l’ammontare della ricchezza esistente e ragionevolmente ridistribuibile. In un contesto in cui le risorse sono scarse, e il legislatore tendenzialmente gode di uno spazio costituzionalmente impregiudicato, il contenuto minimo essenziale delle pretese all’uguaglianza sostanziale risulta, infatti, correlato all’ammontare della ricchezza complessivamente disponibile. Quanto maggiori sono le risorse presenti, tanto minori sono i sacrifici che debbono essere imposti alle diverse pretese costituzionalmente garantite (e tanto maggiore è di conseguenza lo spazio riservato alla discrezionalità del legislatore).

E qui, naturalmente, accanto ai problemi pratici connessi alla difficoltà per la Corte - così come per qualsiasi altro organo, compreso lo stesso legislatore - di svolgere accurate indagini su elementi fattuali e previsionali, si presentano i problemi relativi alla determinazione del limite della pressione fiscale e dell’indebitamento pubblico. Qual è il limite massimo possibile del dovere di solidarietà economica? E qual è il limite massimo all’assunzione di debiti da parte dello Stato?

Anche in questo caso non è possibile procedere in astratto, e stabilire quale sia in sé e per sé l’entità di queste due grandezze. È però possibile individuare alcuni criteri di massima: a) il diritto costituzionale del secondo dopoguerra - in maniera coerente con il proprio obiettivo di fondo, consistente, in ultima analisi, come si è già ricordato all’inizio, nel cercare di garantire a ciascun individuo le condizioni (materiali e spirituali) per condurre un’esistenza libera e dignitosa - non prevede espressamente alcuno specifico limite giuridico né alla pressione fiscale né all’indebitamento pubblico. Fatto salvo il diritto di non vedersi sottrarre integralmente il risultato del proprio lavoro e della propria iniziativa economica privata, e fatto altresì salvo il diritto all’"intassabilità del minimo vitale" - o, come ha affermato il Tribunale costituzionale tedesco; il diritto a non vedersi trasformato, proprio a causa dell’intervento fiscale, da libero contribuente in un caso sociale (Sozialfall), al quale poi spetta il diritto di ricevere una integrazione economica - il legislatore, a seconda delle esigenze dei soggetti più deboli, e delle risorse complessivamente prodotte, può essere tendenzialmente libero di procedere secondo valutazioni di carattere politico ed economico connesse a esigenze di efficienza complessiva del sistema produttivo, oppure può essere tendenzialmente obbligato a praticare una politica fiscale marcatamente redistributiva. In ogni caso - è bene sottolineare - l’unico limite che parrebbe essere legittimamente opponibile alla fruizione di una prestazione indispensabile (che integra il contenuto essenziale di un diritto fondamentale) è l’uguale bisogno di un altro essere umano, mai invece l’esigenza di rispettare la discrezionalità politica del legislatore, né l’astratta esigenza di preservare l’equilibrio della finanza pubblica.

Tuttavia, per quanto riguarda il problema degli eventuali limiti all’assunzione di debiti da parte dello Stato, come è stato puntualmente osservato, le "generazioni future non possono essere gravate oltre misura facendo vivere quelle attuali a loro spalle". Pur in assenza di un modello economico che possa predire con ragionevole sicurezza quali siano gli effetti reali di una politica di riduzione e di contenimento del debito pubblico, da un punto di vista strettamente giuridico, occorre infatti riconoscere che i soggetti passivi dei diritti all’uguaglianza sostanziale non sono le generazioni future, ma coloro che attualmente sono contributivamente capaci. In linea di principio, il contenuto essenziale di ciascuna prestazione dovrebbe essere determinato avendo presente la situazione economica attuale: ogni bilanciamento, compreso quello tra le ragioni dell’uguaglianza e le ragioni della proprietà (e della libertà) non può, in linea di massima, essere realizzato proiettando una delle due esigenze nel futuro. Così come non appare legittimo ritardare nel tempo, in maniera ingiustificata, la tutela della pretesa all’uguaglianza, allo stesso modo non dovrebbe considerarsi legittimo accollare l’onere di questa spesa alle generazioni future.

Nei momenti di recessione economica, la tensione tra le pretese all’uguaglianza e le pretese alla libera disponibilità della ricchezza legittimamente acquisita (e le pretese delle generazioni future a non dover sopportare oltremisura i costi delle prestazioni fruite dalle generazioni precedenti) si fa, ovviamente, più acuta. In questi particolari momenti - ha precisato la stessa Corte - può trovare giustificazione l’impiego "di moduli improntati al principio di gradualità".

Qualora l’esborso finanziario che la soddisfazione di alcune pretese all’uguaglianza sostanziale richiede fosse così consistente da determinare, pur in presenza di una ragionevole pressione fiscale, un aggravio del debito pubblico assolutamente diseconomico, si giustificherebbe insomma una momentanea compressione di queste ultime, o, più precisamente, una loro attuazione "graduale". Una politica legislativa che sia diretta a realizzare una rimozione degli ostacoli economici e sociali - che "limitando di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini, impediscono [...]" - se comporta l’esborso di ingenti risorse - si legge in diverse decisioni della Corte costituzionale - può avvenire con una gradualità di passaggi e può, altresì, comportare una momentanea

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differenziazione soggettiva (di per sé contraria anche al principio d’uguaglianza formale) nell’ammontare dei relativi trattamenti.

Analoga gradualità deve però essere applicata anche nell’eventuale riduzione dei livelli di uguaglianza precedentemente assicurati. Gli interventi legislativi di contenimento della spesa pubblica, quando vanno a incidere su posizioni di non particolare privilegio, anche se non giungono a intaccare i livelli minimi essenziali, devono prevedere "una disciplina transitoria che assicuri un passaggio graduale al trattamento meno favorevole".

2.3.4 I "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali" di cui all’art. 117, lett. m), Cost.

La lett. m), 2° co., art. 117, attribuisce alla legislazione statale la competenza esclusiva a determinare i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". Le prestazioni che integrano quella parte positiva del contenuto essenziale dei diritti costituzionali (siano essi qualificati come civili, siano essi qualificati come sociali) devono, cioè, essere garantite dalla legge (e quindi dai regolamenti, salvo delega) dello Stato in maniera uguale per tutti i cittadini ovunque essi risiedano o lavorino.

Ora - pur senza entrare nel merito dei complessi problemi interpretativi che l’art. 117 e, in particolare, la lett. m) sollevano, per l’analisi dei quali si rinvia allo specifico commento - la domanda alla quale, in questa sede, occorre cercare di fornire una prima risposta riguarda il significato che debba essere attribuito all’espressione "essenziale" e, più precisamente, se tale espressione sia da considerare o no come indicante quel medesimo concetto che la giurisprudenza utilizza per delimitare l’area del costituzionalmente obbligatorio, e di cui si è detto nel precedente paragrafo.

Le risposte che in astratto si possono ipotizzare, e che la dottrina ha fino ad ora fornito, sono due. Innanzitutto, si potrebbe ritenere, come hanno argomentato alcuni Autori, che il livello di contenuto dei

diritti al quale fa riferimento la lett. m dell’art. 117 sia analogo a quello (talvolta definito "minimo", talaltra "minimo essenziale") che la I Parte della Costituzione (secondo la giurisprudenza costituzionale) prescrive sia garantito a ogni persona.

Oppure, si potrebbe ritenere, come hanno argomentato altri Autori, che il livello di contenuto dei diritti al quale fa riferimento la lett. m) dell’art. 117 sia diverso e superiore a quello garantito dalla I Parte della Costituzione. Il legislatore costituzionale del 2001, attraverso l’impiego dell’espressione "essenziale" - anziché, come pure era stato ipotizzato in diverse proposte di revisione del Titolo V, dell’espressione "minimo" - avrebbe introdotto un livello ulteriore (e più avanzato) di contenuto (costituzionalmente "protetto") dei diritti.

Considerazioni di ordine logico-sistematico inducono a preferire la prima soluzione. Come si è cercato di evidenziare già in altra sede, il secondo orientamento, pur essendo ispirato dal condivisibile intento di offrire una maggiore protezione alle pretese degli individui più deboli, parrebbe infatti incontrare degli insuperabili ostacoli di carattere costituzionale derivanti sia dai principi che sono contenuti nella I Parte della Costituzione, sia dalla stessa lettera dell’art. 117, lett. m).

Ecco, in breve, i termini della questione. Se si segue l’orientamento da ultimo descritto (e in questa sede oggetto appunto di critica), e si prende

sul serio l’inciso con il quale si chiude la disposizione di cui alla lett. m) dell’art. 117, e dunque si ritiene che la specificazione "devono essere garantiti" significhi che il legislatore nazionale non possa non garantire il contenuto essenziale dei diritti civili e sociali, si giunge alla conclusione di attribuire al nuovo art. 117 la forza di incidere sulla I Parte della Costituzione, circoscrivendo lo spazio che in origine, prima della riforma del Titolo V, i principi contenuti nella I Parte della Costituzione e, soprattutto, i diritti politici imponevano di riservare alla libera determinazione degli organi legislativi.

Se, all’opposto, si esclude che la riforma dell’art. 117 abbia ridotto l’area (complessivamente) riservata alla discrezionalità politica del legislatore (statale e/o regionale), l’ipotesi di interpretare la formula di cui alla lett. m) come se introducesse un livello ulteriore di contenuto dei diritti finisce inevitabilmente per escludere che tale ulteriore livello (essenziale) debba necessariamente essere definito dal legislatore statale e, soprattutto, che i giudici possano sanzionare l’eventuale omissione di quest’ultimo. Se lo spazio riservato alla discrezionalità politica rimane nel suo complesso invariato, la previsione di un ulteriore livello, infatti, non avrebbe altro effetto che quello di operare una distribuzione di tale spazio tra il legislatore statale e i legislatori regionali: accanto a un contenuto "minimo" o "minimo essenziale" che deve essere garantito (e può quindi essere tutelato in sede giurisdizionale) - a seguire tale prospettiva - bisognerebbe distinguere un contenuto c.d. essenziale che

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(non deve ma) può essere garantito dal legislatore statale e un contenuto c.d. non-essenziale che può essere garantito solo dal legislatore regionale.

Sia la prima soluzione, sia la seconda paiono contrastare con la Costituzione. La prima perché, in ultima analisi, come si è già evidenziato, finisce con il ritenere che la l. cost. 3/2001

possieda la forza per incidere sul contenuto di fondamentali principi garantiti dalla Costituzione nei suoi primi articoli, o, detto in altri termini, finisce per interpretare la I Parte della Costituzione alla luce della II, anziché, come parrebbe più corretto, il contrario.

La seconda soluzione perché solleva difficili problemi di carattere applicativo - che a loro volta rinviano a complesse questioni di carattere teorico e pratico relative al ruolo e alla funzione degli organi giurisdizionali - e perché finisce con il rendere possibili delle situazioni che appaiono decisamente incompatibili con la stessa lettera del nuovo testo costituzionale dell’art. 117.

Com’è noto, definire quale sia la misura del contenuto costituzionalmente garantito di un diritto è assai difficile: in presenza di risorse (inevitabilmente) scarse, e in un contesto culturale eterogeneo nel quale, talvolta, vi sono opinioni differenti (anche) su che cosa debba considerarsi necessario avere per condurre una vita dignitosa, distinguere nell’ambito del contenuto di ogni diritto costituzionale ciò che deve considerarsi sottratto alla "libera" determinazione delle maggioranze politiche è un’operazione estremamente complessa ed è altresì un’operazione caratterizzata da un elevato (e ineliminabile) tasso di discrezionalità, che richiede agli organi giurisdizionali senso del proprio ruolo istituzionale e nei casi più controversi self-restraint. Ancora più difficile, ovviamente, sarebbe distinguere ciò che integra il contenuto irrinunciabile, ciò che costituisce il contenuto essenziale (che, se garantito, deve essere garantito in maniera uguale su tutto il territorio nazionale) e ciò che le Regioni potrebbero liberamente decidere di assicurare o di non assicurare ai propri residenti. Definire uno spazio - e dunque un contenuto - che va al di là del contenuto (minimo?) immediatamente applicabile da parte dei giudici, ma che sta al di qua di quello che dovrebbe rimanere l’ambito riservato alla discrezionalità politica del legislatore regionale è, infatti, un’operazione ancora più complessa e problematica che, oltre ad impegnare i giudici in un’impresa davvero ardua, rischia di aprire la strada a una forse non del tutto auspicabile conflittualità interistituzionale e, alla fine, a una pressoché integrale giurisdizionalizzazione dei processi di integrazione politica.

Inoltre, se si adotta questa prospettiva ci si trova poi di fronte all’altrettanto difficile problema di stabilire quali sarebbero le competenze delle Regioni in presenza di una (in questo caso legittima) omissione del legislatore nazionale nel garantire i livelli essenziali. Se si ritiene che le Regioni non possano che legiferare al di là del contenuto essenziale e, in particolare, si ritiene che non possano eventualmente sostituirsi al legislatore nazionale nel predisporre tali misure di garanzia (c.d. essenziali), si rischia di vanificare gran parte delle competenze legislative regionali o comunque di subordinarle alle determinazioni del Parlamento; il quale, peraltro, così come potrebbe legittimamente non emanare le leggi volte a garantire i livelli essenziali, così potrebbe, in tale ottica, abrogare quelle già esistenti: e quali conseguenze ciò avrebbe per le leggi regionali nel frattempo emanate è difficile dire. Se, invece, si ritiene che le Regioni possano sostituirsi al legislatore nazionale anche nella predisposizione dei livelli essenziali, allora il senso (di garanzia di unità) e la lettera (nella quale si parla di livelli che "devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale") della prescrizione di cui all’art. 117, lett. m), verrebbero palesemente contraddetti: i livelli essenziali non sarebbero più, come recita il testo costituzionale, garantiti su tutto il territorio nazionale, ma soltanto in quelle Regioni che lo decidano.

Il significato letterale del termine impiegato dall’art. 117 (un contenuto se è essenziale dovrebbe altresì essere irrinunciabile in quanto parte integrante di ciò che costituisce appunto l’essenza della pretesa costituzionalmente garantita) e lo spirito della riforma (che emerge da una interpretazione sistematica dell’intero testo costituzionale) parrebbero quindi suggerire di considerare il legislatore nazionale giuridicamente obbligato ad adottare tutte quelle misure che appaiono (ragionevolmente) necessarie per garantire a ogni individuo l’effettivo esercizio del contenuto essenziale dei vari diritti civili e sociali; e i giudici (e tra questi in maniera particolare la Corte costituzionale) abilitati a censurare le leggi dello Stato che prevedano livelli di prestazioni troppo bassi o troppo alti, facendo ricorso a quegli stessi paradigmi del controllo di ragionevolezza che sono stati elaborati nel corso del tempo proprio per garantire la piena effettività (almeno) del contenuto essenziale di tutti i diversi principi costituzionali.

2.3.5 Una precisazione (e una distinzione): oggetto delle pretese all’uguaglianza sostanziale sono sia i beni e i servizi che il mercato è in grado di produrre spontaneamente, sia i beni e i servizi che il mercato non è in grado di produrre spontaneamente

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A tutti coloro che si trovano in una situazione (economica, fisica, psichica, culturale [...]) che può ostacolare l’effettivo esercizio dei diritti di libertà e di partecipazione, e il pieno sviluppo della persona umana, l’art. 3, 2° co., Costituzione - come si è detto - riconosce la pretesa a che lo Stato si adoperi per l’eliminazione di tali ostacoli, nonché la pretesa a che l’insieme degli individui contributivamente capaci si accolli il costo di un simile intervento.

Ora, l’eliminazione dei suddetti ostacoli richiede che lo Stato e gli altri soggetti pubblici in cui si struttura l’ordinamento della Repubblica non si limitino a effettuare un intervento di carattere redistributivo delle risorse esistenti attraverso, in ipotesi, il mero acquisto di beni e servizi che l’iniziativa economica privata già produce e di cui alcuni individui già fruiscono, ma che intervengano nell’ambito dei processi produttivi correggendo le distorsioni o supplendo alle mancanze dell’iniziativa privata in maniera tale da assicurare l’esistenza di una quantità adeguata di tutti quei beni e servizi di cui si ritiene indispensabile poter fruire per condurre una vita libera e dignitosa.

La Repubblica è cioè gravata sia del compito di garantire la distribuzione ugualitaria (perlomeno) di una quantità "essenziale" delle risorse volta per volta esistenti, sia del compito di garantire la realizzazione di alcuni specifici beni e servizi (e dunque del compito di garantire che una quantità "essenziale" delle risorse volta per volta esistenti sia trasformata in alcuni beni e servizi, anziché in altri, così ponendo rimedio a quelli che gli economisti usano definire i "fallimenti del mercato").

Quest’ultima considerazione, unitamente a quella più sopra accennata relativa al carattere dinamico e storicamente variabile del concetto di ostacolo all’esercizio delle libertà e al pieno sviluppo della persona umana (e, prima ancora, ovviamente, del concetto di libertà e di pieno sviluppo della persona umana) induce l’interprete a non escludere l’ipotesi che dalla lettera della disposizione in esame - in presenza ad esempio di una evoluzione culturale e/o tecnologica - si possano anche trarre autonomi significati normativi; o perlomeno a non escludere l’ipotesi che la disposizione in esame si trovi a svolgere un ruolo particolarmente significativo nell’orientare l’interpretazione delle altre disposizioni costituzionali, così da rendere possibile trarre dal combinato disposto di queste ultime e dell’art. 3, 2° co., nuovi (e puntuali) significati normativi, prima mai individuati.

Il riferimento finalistico al pieno sviluppo della persona conferisce infatti, com’è stato esattamente osservato, "dinamicità adattiva al [...] valore della dignità umana" e dunque ai principi di uguaglianza e di libertà in cui esso si struttura. Dinamicità adattiva che, peraltro, viene ulteriormente rafforzata dal secondo riferimento finalistico all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale; specie se non si prospetta di tale riferimento un’interpretazione rigidamente "classista" ma, in ossequio al canone ermeneutico magis ut valeat, si cerca di trarre dallo stesso "tutti i significati che in base alle regole della logica costituiscono [suoi] possibili sviluppi e specificazioni" e, naturalmente, si raccordano tali possibili significati al complessivo disegno costituzionale e alla pluralità dei principi (tra i quali, in primo luogo, quelli di democrazia e di limitazione e separazione del potere) che in esso trovano riconoscimento.

2.4 La limitazione dell’autonomia privata e le c.d. "azioni positive" o "discriminazioni alla rovescia". Il problema della rimozione degli ostacoli di carattere "meramente" sociale

L’esigenza di assicurare a ogni individuo l’effettiva possibilità di condurre una vita libera e dignitosa, in un ordinamento nel quale trovano riconoscimento gli istituti dell’iniziativa economica privata e della proprietà privata, può richiedere - come si è più sopra osservato - oltre che un intervento normativo di carattere produttivo e redistributivo, anche una limitazione dell’autonomia privata e, in particolare, una limitazione della libertà contrattuale di coloro che a vario titolo dispongono dei beni e dei servizi la cui fruizione è ritenuta appunto necessaria per condurre una vita libera e dignitosa.

Al fine di rimuovere ostacoli di ordine economico e, dunque, garantire condizioni materiali di uguaglianza, il legislatore - sulla falsariga di quanto è dalla stessa Costituzione garantito al lavoratore subordinato - potrebbe, ad esempio, introdurre limitazioni all’utilizzo della proprietà privata: in relazione ad alcuni beni, ai quali si ritiene debbano poter accedere tutti, quali sono i beni immobili a uso abitativo il legislatore (anche in virtù di quanto prevede il 2° co., art. 42 Cost.) potrebbe, in ipotesi, disporre - come, del resto, dispose (con la l. 392/1978) e, anche se solo più in minima parte, tuttora dispone (con la l. 431/1998) - una disciplina vincolante sia della durata del contratto di locazione, sia del relativo canone.

Al fine di rimuovere ostacoli di ordine (prevalentemente) sociale, il legislatore e, a nostro avviso, anche i giudici (pur in assenza di un previo intervento legislativo) potrebbero, inoltre, giungere a estendere ai privati l’ambito di operatività del principio d’uguaglianza formale e, in tal modo, potrebbero quindi, ad esempio, rendere privi di consistenza giuridica gli atti e le attività aventi un contenuto discriminatorio che vengano posti

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in essere da gestori privati di esercizi e locali pubblici o aperti al pubblico nonché, più in generale, gli atti e le attività aventi un contenuto discriminatorio che vengano posti in essere da privati nell’ambito di un rapporto contrattuale che abbia a oggetto beni comunemente ritenuti essenziali, come potrebbero considerarsi proprio i rapporti di locazione degli immobili a uso abitativo, o i rapporti di lavoro.

Assai più difficile è, invece, stabilire se, al fine di perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale e, in particolare, sempre al fine di rimuovere degli ostacoli di ordine sociale (più che economico), il legislatore possa altresì trattare in maniera disuguale situazioni uguali. Più precisamente, se il legislatore possa - in nome del principio di cui all’art. 3, 2° co. - attribuire direttamente certi beni scarsi (un posto di lavoro, l’accesso all’università, una promozione, ecc.) ad alcuni individui a preferenza di altri, non sulla base del criterio intrinseco al bene medesimo (che solitamente in tali casi è quello del merito), ma in ragione dell’appartenenza dei soggetti preferiti a un gruppo sociale che si presume svantaggiato (le donne, le persone di colore, le persone disabili[...]). Insomma, la disposizione costituzionale qui in esame autorizza il legislatore ad adottare quelle misure normative che la dottrina ha proposto di denominare "azioni positive indirette" o "discriminazioni alla rovescia"?

La risposta, come si è detto, non è facile e ciò perché, in ultima analisi, per giungere ad ammettere simili prescrizioni (che peraltro dal punto di vista tecnico possono assumere le forme più diverse, e, del resto, la stessa distinzione tra quotas e goals - tra misure cioè che si limitano a garantire l’eguaglianza dei punti di partenza, o delle opportunità, e misure che garantiscono direttamente l’eguaglianza dei punti di arrivo o dei risultati - non è sempre e del tutto chiara), occorrerebbe dimostrare, oltre all’effettiva condizione di svantaggio (sociale) in cui si trovano i beneficiari, a) che altre misure di sostegno (che non operano direttamente, in relazione all’accesso a un qualche bene fondamentale, alcuna discriminazione alla rovescia) non sarebbero altrettanto efficaci o comporterebbero dei costi ragionevolmente non sostenibili, b) che il pregiudizio che esse arrecano ai diritti (all’uguaglianza di trattamento) dei soggetti "non favoriti" non è un pregiudizio sproporzionato o eccessivo, o, come è stato anche detto, "irrimediabile" e, soprattutto, c) che esse non si traducono nella lesione di alcun fondamentale diritto dei terzi: non solo - come scrive Uberto Scarpelli - non "sarebbe di alcuna consolazione uscir male dalla sala operatoria, sapendo che una donna meno capace, o un uomo meno capace, sono stati portati al posto di chirurgo da un nobile principio di giustizia", ma sarebbe altresì quantomeno dubbio che una tale situazione possa legittimamente essere imposta dal legislatore (seppur al fine di attuare gli obiettivi di cui all’art. 3, 2° co.). Se può apparire discutibile che il legislatore per distribuire alcuni beni attribuisca rilievo anche a profili o ad aspetti delle persone che rispetto a tali beni non dovrebbero avere alcun rilievo (quali, ad esempio, il sesso o la razza), appare, infatti, piuttosto difficile da accettare che il legislatore si spinga fino al punto di non tenere più in considerazione la effettiva capacità delle persone selezionate a svolgere al meglio l’attività volta per volta presa in esame.

L’introduzione di trattamenti preferenziali forti che tendono ad attribuire determinati benefici a gruppi socialmente deboli, secondo alcuni Autori, incontra, inoltre (e indipendentemente dai limiti, per così dire impliciti, che si sono appena descritti) il limite dell’esplicita e puntuale riaffermazione, a livello costituzionale, del principio di uguaglianza formale o, meglio, del principio di indifferenza dei profili di cui allo stesso art. 3, 1° co. È il caso, essenzialmente, dell’uguaglianza del voto sancita dall’art. 48 Cost. e dell’uguaglianza nell’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive di cui all’art. 51 Cost., anche se - osservano gli stessi Autori - dopo le modifiche che il legislatore costituzionale ha apportato all’art. 117 e al medesimo art. 51 Cost., le misure di regolazione delle candidature volte ad incrementare la rappresentanza politica delle donne dovrebbero considerarsi legittime, se non perfino costituzionalmente obbligatorie.

In ogni caso, se appare ragionevole ipotizzare che, in relazione a una specifica situazione concreta, sia possibile definire l’oggetto delle pretese alla rimozione di ostacoli di carattere economico, molto più problematico è ipotizzare che sia possibile definire l’oggetto delle pretese alla rimozione di ostacoli di carattere sociale. Quand’anche si dimostrasse possibile distinguere, al di là ovviamente dell’imposizione di un dovere di non discriminazione, gli ostacoli di carattere economico da quelli di carattere sociale e, in particolare, si dimostrasse possibile tratteggiare le specifiche caratteristiche di un ostacolo di carattere meramente sociale, risulterebbe comunque obiettivamente molto difficile definire con precisione quali sarebbero le misure positive più adeguate per rimuovere l’ostacolo medesimo. E sarebbe difficile definire con precisione tali misure, soprattutto, in relazione a una specifica situazione concreta individuale. Dal che discende, oltre alla necessità di sottoporre a un attento giudizio di ragionevolezza e proporzionalità le eventuali azioni positive che il legislatore abbia inteso adottare, l’impossibilità o, quantomeno, la difficoltà di considerare le pretese alla rimozione degli ostacoli di carattere ("meramente") sociale (e/o culturale) alla stregua di pretese soggettive a un facere positivo immediatamente azionabile.

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2.5 I soggetti (istituzionali) giuridicamente obbligati ad attuare il principio di uguaglianza sostanziale

Nell’art. 3, 2° co., Cost., - come si è cercato di mettere in evidenza nei precedenti paragrafi - trova (implicito) riconoscimento (anche) un articolato complesso di pretese soggettive che, pur avendo tutte quante come contenuto primario e specifico una prestazione positiva (pur non essendo cioè il loro contenuto costituito da comportamenti o condotte del titolare, ma da una pretesa giuridica rivolta ad altri soggetti, pubblici o privati, affinché questi pongano in essere comportamenti o condotte a favore dei titolari), presentano caratteristiche strutturali differenti.

Per quanto riguarda i soggetti passivi, si sono distinte due principali tipi di pretese: a) quelle che il lavoratore vanta nei confronti del proprio datore di lavoro; e b) quelle che l’individuo economicamente e/o socialmente "più debole" e il lavoratore vantano nei confronti dello Stato.

Per quanto riguarda l’oggetto (nel mentre si evidenziava il criterio distintivo) si è, invece, distinto tra: ) le pretese che hanno a oggetto una somma di denaro, oppure hanno a oggetto uno specifico bene o servizio che viene realizzato anche dall’iniziativa privata e può dunque essere convertito in una somma di denaro); e ) le pretese che hanno a oggetto un bene o un servizio che nessun soggetto privato al momento produce.

La duplice distinzione, peraltro, non dà vita a quattro diversi tipi di pretese: le pretese che il lavoratore vanta direttamente nei confronti del proprio datore di lavoro - a differenza di quelle che il lavoratore medesimo e gli individui "più deboli" vantano nei confronti dello Stato - possono infatti avere a oggetto (com’è ovvio, stante la natura del soggetto passivo e dello stesso rapporto giuridico dal quale le pretese in esame traggono origine) soltanto una somma di denaro o uno specifico bene o servizio che può venir convertito in una somma di denaro.

Queste due distinzioni, relative al soggetto passivo e all’oggetto delle pretese all’uguaglianza sostanziale (pur con la precisazione da ultimo svolta) meritano di essere richiamate e prima ancora tracciate perché da esse occorre prendere le mossa allorché si voglia provare ad affrontare il problema - sul quale, com’è noto, la dottrina e la giurisprudenza si interrogano fin dall’entrata in vigore della Costituzione - della definizione delle garanzie giurisdizionali che il nostro ordinamento predispone nei confronti del principio d’uguaglianza sostanziale.

b) Iniziamo con l’esaminare le pretese che i soggetti economicamente e/o fisicamente più deboli vantano nei confronti dello Stato (e, in ultima analisi, nei confronti dell’intera comunità statale o comunque dell’intera categoria dei lavoratori).

Il compito di determinare le forme, i modi e la misura (al di là del minimo essenziale) della concretizzazione di ogni simile pretesa soggettiva all’uguaglianza sostanziale spetta, innanzitutto, al legislatore (nazionale e regionale) e, quindi, alla P.A. dello Stato e delle Regioni e agli enti locali.

Ma se esso non adempie al suddetto obbligo, o adempie in maniera inadeguata, cosa possono (e quindi debbono) fare i giudici?

La risposta - occorre subito riconoscere - non è semplice, anche perché dipende da una pluralità di condizioni.

In primo luogo, dipende dall’atteggiamento interpretativo che si segue, o, più precisamente, dalla concezione di Costituzione che si adotta per procedere all’interpretazione delle disposizioni costituzionali, e, in particolare, per procedere all’interpretazione delle disposizioni costituzionali dalle quali è astrattamente possibile trarre norme che "riconoscono" agli individui diritti e doveri. In secondo luogo, dipende dalle caratteristiche del bene o del servizio che si ritiene costituisca l’oggetto dell’obbligo che grava sulla Repubblica, ovvero l’oggetto della pretesa soggettiva all’uguaglianza sostanziale.

In terzo luogo, infine, dipende dalla possibilità di individuare il soggetto passivo della pretesa, ovvero (sempre per quanto riguarda le pretese che gli individui più deboli e i lavoratori vantano nei confronti dello Stato) dalla possibilità di individuare una struttura organizzativa alla quale ordinare l’adempimento immediato (nelle varie forme concretamente possibili) dell’obbligo costituzionale.

Ora, se si ritiene che i giudici debbano estrarre dalle disposizioni costituzionali scritte tutti i significati che in base alle regole della logica costituiscono loro possibili sviluppi e specificazioni e dunque si ritiene - come, per la prima volta, ritenne la Corte d’Appello dell’Aquila pochi anni dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale - che "costituirebbe un non senso il poter supporre che una legge, anzi la legge fondamentale dello Stato, creata appositamente per determinare e per fissare i diritti e i doveri dei cittadini e, di conseguenza, additare e delimitare il campo e l’oggetto delle future leggi, non sia destinata ad una immediata e integrale attuazione, almeno fin dove ciò sia materialmente e giuridicamente possibile"; se l’oggetto del diritto costituzionalmente garantito è una somma di denaro o un bene che viene già realizzato dall’iniziativa di

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qualche soggetto, pubblico o privato, ed esiste una struttura organizzativa alla quale sia stato attribuito dal legislatore il compito di assicurarne l’attuazione (e, ovviamente, vi sia una burocrazia fiscale in grado di trasferire le risorse accollando a tutti coloro che sono costituzionalmente tenuti agli inderogabili doveri di solidarietà, nella misura prescritta dall’art. 53 Cost. - o per le pretese c.d. previdenziali all’intera categoria dei lavoratori - il costo della prestazione) i giudici comuni (ed eventualmente la Corte costituzionale) parrebbero in grado di porre rimedio all’omissione del legislatore.

Nella misura in cui un determinato bene o servizio appare, per così dire, indispensabile o "essenziale" per condurre una vita libera e dignitosa, l’art. 3, 2° co., e gli altri articoli della Costituzione che in maniera puntuale riconoscono (agli individui più svantaggiati) i diversi diritti all’uguaglianza sostanziale, parrebbero infatti prescrivere ai giudici di ordinare alla P.A. (che risulta preposta a garantire l’attuazione dello specifico principio costituzionale volta per volta richiamato) di accollarsi il costo di detto bene o servizio.

Peraltro, qualora il legislatore non avesse provveduto a definire neanche una sia pur minima articolazione amministrativa per il perseguimento dei diversi obiettivi sociali che il testo costituzionale prescrive vengano realizzati dallo Stato, non sarebbe forse impossibile argomentare una responsabilità dello Stato-soggetto, unitariamente considerato (o in quanto reale soggetto passivo delle pretese in esame, oppure, sull’esempio di quanto è avvenuto a livello comunitario con la famosa sentenza "Francovich" della CGCE, in quanto soggetto che non ha provveduto attraverso i propri organi legislativi a eseguire i compiti che le norme costituzionali gli impongono) e dunque ipotizzare una condanna di quest’ultimo (lo Stato-soggetto appunto, rappresentato processualmente dal Presidente del Consiglio, in maniera analoga a quanto accade nei conflitti costituzionali tra Stato e Regioni) al pagamento di una somma di denaro equivalente al costo del bene o del servizio ritenuti indispensabili.

Considerazioni analoghe dovrebbero valere anche per i diritti che i lavoratori vantano nei confronti del proprio datore di lavoro. La diretta azionabilità di questi ultimi - se non si ripropone, in una delle sue diverse versioni, la tesi circa il carattere meramente programmatico dell’intero documento costituzionale - dovrebbe anzi risultare ancora più facile da argomentare. Il soggetto passivo in questo caso, poiché concorre attivamente e spontaneamente alla nascita del rapporto giuridico e del relativo diritto soggettivo in capo al lavoratore, è sempre un soggetto individuato (anche dal punto di vista strettamente giuridico) che non gode, per definizione, di alcuna discrezionalità politica o amministrativa. Le uniche difficoltà che possono sorgere, e che tali pretese possono pertanto incontrare in sede di concreta tutela, sono di carattere, per così dire, pratico. Al giudice, in caso di conflitto tra le parti e di assenza di una adeguata e puntuale disciplina legislativa, spetterà infatti il compito di determinare il quantum della prestazione dovuta. Un compito talvolta non facile da adempiere, che i giudici comuni tuttavia, a partire dalla su richiamata decisione della Corte d’Appello dell’Aquila del 24.10.1950, hanno dimostrato di saper ben svolgere, attraverso l’uso dei tradizionali argomenti retorici ed, eventualmente, il ricorso a parametri extra-legislativi o consuetudinari.

Sostenere, diversamente - attraverso la riproposizione di una interpretazione "svalutativa" della Costituzione - che l’art. 3, 2° co., e le altre disposizioni costituzionali che riconoscono i diritti all’uguaglianza sostanziale non siano immediatamente applicabili, ovvero che l’intervento del legislatore sia giuridicamente indispensabile (per definire il contenuto del diritto medesimo, o per definire le caratteristiche economiche dei soggetti titolari, oltre che ovviamente la specifica articolazione amministrativa tenuta alla concreta erogazione dei beni e/o dei servizi); sostenere, cioè, che la presenza di una puntuale disciplina legislativa sia una conditio sine qua non per l’attuazione del principio in esame e per l’effettiva azionabilità dei diritti che da esso discendono significherebbe, in ultima analisi, vanificare gran parte delle aspirazioni del diritto costituzionale contemporaneo: anziché sottrarre alla politica la decisione in ordine alla redistribuzione di alcuni beni, si affiderebbe a essa la più ampia libertà in proposito. Affermare, in altri termini, l’esistenza di una riserva di legge anche in materia di definizione del contenuto (costituzionalmente garantito) del diritto di accedere ai beni e ai servizi essenziali (secondo criteri immanenti ai beni medesimi) significherebbe ribaltare la stessa ratio della riserva di legge: quest’ultima, da strumento di garanzia dei diritti di libertà dei cittadini contro gli abusi dell’Esecutivo, si tramuterebbe infatti in possibile strumento di abuso del legislatore contro i diritti dei più poveri. Né sarebbe corretto capovolgere il ragionamento incentrando l’attenzione sui doveri di solidarietà e, in particolare, sulla esclusiva competenza degli organi legislativi a determinarne la concreta misura: per l’impegno delle risorse necessarie a finanziare i diritti all’uguaglianza sostanziale non vi è alcuna prerogativa del Parlamento da esercitare. Per le spese che corrispondono a veri e propri diritti di prestazione sanciti dalla Costituzione - come è stato sottolineato da diversi Autori - "non c’è politica (e quindi nemmeno dipendenza da interpositio di valutazioni discrezionali del legislatore) ma solo giurisdizione in nome della Costituzione".

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I diritti socialiI diritti socialiI diritti socialiI diritti sociali

1. Introduzione. – La Costituzione italiana contempla una serie di posizioni giuridiche soggettive solitamente inquadrate e qualificate come diritti socialidiritti socialidiritti socialidiritti sociali: diritto al lavoro, diritto all’istruzione, diritto alla previdenza e assistenza sociale, diritto alla salute, tanto per citare quelli più significativi. La genesi e lo sviluppo dei diritti sociali rispecchiano l’evoluzione degli ordinamenti contemporanei. Nello Stato liberale, l’impronta individualistica fu impressa così a fondo da non concedere spazio a posizioni giuridiche soggettive diverse dai tradizionali diritti di libertà. Le prestazioni pubbliche eventualmente previste erano considerate oggetto di doveri da parte dello Stato nei confronti dei consociati in difficoltà, e non di diritti soggettivi in capo agli individui indigenti. In questo contesto, la legge funge da fattore di ordine, in quanto tale preordinata a garantire la piena esplicazione delle libertà individuali. L’eguaglianza formale garantisce una uniforme distribuzione dei diritti di libertà, cui corrisponde pari limitazioni. Lo Stato esercita il proprio dominio attraverso i poteri riconducibili alla sovranità. L’individuo, dal canto suo, esercita il proprio dominio avvalendosi delle libertà riconosciute dall’ordinamento. La crescente industrializzazione, la graduale affermazione dei partiti di massa presso le istituzioni politiche rappresentative, l’incapacità del mercato di garantire benessere – dapprima circoscritta a casi specifici e poi estesa ad ampi settori sociali ed economici – hanno contribuito a minare la stabilità delle fondamenta su cui si erigeva lo Stato liberale, immettendo elementi di criticità inediti, come tali idonei a sollecitare nuove e rivoluzionarie risposte. In particolare, i tre pilastri dello Stato di diritto furono sottoposti a istanze innovative che ne hanno sensibilmente alterato l’originaria fisionomia. Alla legalità formale, alimentata dalla primazia della legge quale atto di volontà della maggioranza parlamentare, si affianca, per poi sovrapporsi, la legalità costituzionale: esattamente nel momento in cui gli Stati dell’Europa continentale, in ritardo rispetto all’ordinamento nordamericano, finalmente si affrancano dall’idea della Costituzione quale legge priva di superiorità rispetto alle altre fonti. Nel contempo, la funzione giurisdizionale da mera esecutrice del dettato legislativo acquista margini sempre più significativi di discrezionalità, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge. La separazione dei poteri, dal canto suo, smarrisce la primigenia configurazione rigida per assumere connotazioni flessibili, tali da imporre un più costante e organico coordinamento tra le istituzioni, in nome della leale collaborazione. Lo spettro dei poteri dello Stato si arricchisce di nuove entità (i tribunali costituzionali, le autorità amministrative indipendenti), titolari di attribuzioni di rilievo nella vita istituzionale. Il fattore di aggregazione di tali elementi innovativi è rappresentato dalla consacrazione della democrazia pluralistica, quale modello di partecipazione alla vita politica non previamente circoscritto a poche istanze sociali, che si erge a punto di equilibrio tra libertà ed eguaglianza. Così facendo, la democrazia pluralistica ha arato il terreno più fecondo per l’attecchimento dei diritti sociali così come li conosciamo oggi. In effetti, nella visione classica del liberalismo individualistico, la ricerca dell’eguaglianza avrebbe potuto imporre vincoli alle libertà individuali incompatibili con l’impegno profuso dai singoli. L’avvento della democrazia pluralistica conduce alla ricostruzione dell’intelaiatura statale come confronto dialettico fra i vari gruppi sociali, al cospetto di alcuni princìpi basilari di libertà, di pari dignità sociale e di reciproca tolleranza. Se lo Stato sociale può considerarsi come la forma di Stato che ha consacrato l’avvento dei diritti sociali, allora appare chiaro come l’affermazione della democrazia pluralistica lo abbia reso compatibile con lo Stato di diritto. La «tensione inconciliabile» tra i due è stata superata a favore di un assetto congeniale alla convivenza tra i princìpi in essi consacrati. Il punto di equilibrio è stato rinvenuto nella dignità umana: ogni persona rileva non solo come individuo che esercita il dominio nella propria sfera d’azione, ma anche come homme situé che intrattiene relazioni sociali con gli altri consociati. Valorizzando questa ancipite proiezione dell’individuo, lo Stato sociale impone ai pubblici poteri di intervenire nei rapporti sociali ed economici al fine di realizzare una equal liberty, come l’ha

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definita Rawls. All’effettivo godimento dei diritti di libertà previsti dall’ordinamento si frappongono ostacoli, di ordine economico e sociale, che impediscono il compiuto inveramento della dignità umana, declinata ora come pieno svolgimento della personalità, ora come reale partecipazione alla vita comunitaria. Se l’individuo rileva anche nella sua dimensione sociale, allora la resistenza opposta da tali ostacoli non può lasciare indifferenti le istituzioni. Non è sufficiente collocare tutti gli individui in una posizione equidistante dalla legge, così da rimuovere situazioni di privilegio. È necessario rendere effettivo il godimento dei diritti fondamentali attraverso la provvista dei necessari beni e servizi. Dall’eguaglianza formale si passa all’eguaglianza sostanziale intesa come eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza. La «mano invisibile» non ha raggiunto l’equilibrio sperato e, dunque, non resta che azionare interventi tangibili volti a ricomporre un mosaico sociale compromesso dai fallimenti del mercato. Finalmente, lo Stato democratico si erge a “Stato di distribuzione”. I diritti sociali possono così considerarsi come la risposta politico-costituzionale alla crescente insicurezza sociale. Simili trasformazioni non potevano non incidere sulla qualificazione dei diritti sociali. In ambiente liberale, fu coerente assegnare loro la portata di mere direttive o indicazioni rivolte al legislatore o la struttura di norme di principio vincolanti lo stesso legislatore dal punto di vista finalistico. L’adesione ad una concezione minimale dello Stato indusse a sottovalutare l’impatto dei diritti sociali, il cui regime fu affidato alle scelte ampiamente discrezionali delle istituzioni titolari della funzione legislativa. La consacrazione dello Stato sociale revoca in dubbio queste conclusioni. Se poi si aggiunge il riconoscimento della Costituzione quale fonte superprimaria del diritto, allora si perviene alla quadratura del cerchio. I diritti sociali sono essenziali alla realizzazione delle finalità proprie dello Stato sociale. Affinché detti diritti possano assolvere a questa funzione, la Costituzione non solo è chiamata a codificarli, ma è nel contempo tenuta a presidiarli attraverso previsioni dotate di forza coattiva nei confronti del legislatore ordinario. La svolta è esattamente questa: i diritti sociali acquistano pari dignità costituzionale rispetto ai diritti inviolabili della tradizione liberale. Il ventaglio delle posizioni giuridiche soggettive garantite dalla legge fondamentale si arricchisce, così da creare le condizioni favorevoli alla piena esplicazione del valore supremo della dignità umana. La Costituzione italiana è senza dubbio ascrivibile tra le carte fondamentali che definiscono uno Stato sociale di diritto: una forma giuridica inedita, che riassume e compendia i princìpi liberali dello Stato di diritto e i princìpi socialdemocratici dello Stato sociale. Il fondamento dei diritti sociali non si esaurisce nel solo principio di eguaglianza sostanziale, canonizzato nel secondo comma dell’art. 3, ma si rinviene anche nel principio personalista consacrato nell’art. 2, senza trascurare la «pari dignità sociale» degli individui ai sensi dell’art. 3, primo comma. Nel solco tracciato dai valori della democrazia pluralistica si muovono anche altre carte costituzionali adottate dopo la fine della seconda guerra mondiale. Qualificano i rispettivi Stati come Stati sociali l’art. 20 della Costituzione federale tedesca e l’art. 1 della Costituzione spagnola del 1978. A sua volta, quella francese è una Repubblica «indivisibile, laica, democratica e sociale», come recita l’art. 1 della Costituzione del 1958.

Nell’attuale frangente storico, è diffuso il convincimento circa una crisi dello Stato sociale, che inevitabilmente trascina con se anche i suoi strumenti operativi, i diritti sociali. La crisi economica ha indotto gli Stati, talvolta – come nel caso dell’Unione europea – sollecitati da istituzioni sovranazionali, a ripensare le rispettive politiche di intervento nei rapporti sociali ed economici. La cattiva gestione dei conti pubblici ha indebolito l’assetto finanziario di molti Paesi, imponendo l’adozione di misure di rigore per il contenimento della spesa pubblica. Complice la diffusa deriva assistenzialistica di interventi spesso disomogenei, squilibrati o inefficienti, il welfare State è diventato il bersaglio preferito delle iniziative volte a ridurre il peso della finanza pubblica. Ne hanno fatto le spese quei servizi essenziali che, negli ultimi decenni, avevano svolto una innegabile opera di riequilibrio e di coesione sociale, a cominciare dall’istruzione. Non è, tuttavia, così scontato che la crisi degli Stati debba essere declinata come crisi degli Stati sociali, dei diritti sociali quindi. Dunque, non è così pacifico che le correzioni massicce da apportare all’organizzazione statale debbano necessariamente investire l’insieme delle strutture, dei servizi, delle

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prestazioni dello Stato del benessere. Questa semplicistica diagnosi sconta un malinteso pervicacemente radicato nella società, nella cultura, anche in ambito scientifico, e cioè che solo i diritti sociali costino. È stato, in effetti, dimostrato, con argomentazioni difficilmente contestabili, la fragilità e l’opinabilità del corrente confronto tra diritti di libertà e welfare rights sul piano delle spese sostenute dallo Stato per il loro soddisfacimento. Anche i beni ed i servizi che lo Stato utilizza ed eroga per assicurare l’esercizio delle libertà fondamentali hanno un costo non secondario rispetto a quello sopportato in relazione ai diritti sociali. La presunta crisi del Welfare State solleva una serie di domande sui diritti sociali. Lungi dal sancirne l’epilogo, questa congiuntura avversa può essere l’occasione per ribadire la loro indefettibilità quali elementi imprescindibili di compiuta realizzazione della democrazia pluralistica e partecipativa, che a sua volta riposa su princìpi costituzionali ineludibili e chiaramente vincolanti il legislatore e le istituzioni pubbliche nel loro complesso. 2. La dimensione giuridica dei diritti sociali. – La storia dei diritti sociali ruota intorno ad una evidenza empirica: non basta riconoscere a qualcuno un diritto, se poi versa in condizioni tali da ostacolarne o addirittura impedirne l’esercizio. L’esperienza insegna che al concreto godimento dei diritti soggettivi si frappongono spesso ostacoli insuperabili. Il codice civile prevede, disciplina e tutela il diritto di proprietà privata: la mancanza di risorse può, però, precludere ai singoli l’accesso ai beni suscettibili di divenire oggetto di tale diritto. Se, poi, detti ostacoli pregiudicano il reale esercizio dei diritti fondamentali, vale a dire quelle posizione giuridiche soggettive sulle quali si è idealmente perfezionato il patto costituzionale tra autorità e società, allora il problema assume connotazioni alquanto più rilevanti. I problemi associati al frequente divario tra astratto o formale riconoscimento dei diritti di libertà e concreto esercizio degli stessi non erano certo sfuggiti ai pensatori liberali. Rispetto ai successivi sviluppi di ispirazione socialdemocratica, però, furono differenti la diagnosi formulata e i rimedi proposti. Per il pensiero liberale classico l’effettivo godimento delle libertà fondamentali era rimesso alle determinazioni volitive dei singoli individui e, dunque, era condizionato dall’impegno profuso dagli stessi, dal loro spirito di intraprendenza e di adattamento alle alterne vicende della vita, dal loro talento, dai sacrifici sopportati, dal rischio accettato. Lo Stato avrebbe, quindi, dovuto astenersi dall’interferire nei rapporti tra i consociati per non contraddire l’autonomo svolgimento delle personalità individuali. La crisi del mercato, quale ordine spontaneo delle relazioni economiche, e la contestuale emersione di innovative istanze politiche, hanno indotto i costituenti del ventesimo secolo a ripensare radicalmente tanto le diagnosi quanto le cure immaginate dai pensatori liberali. Carlo Rosselli, nel suo Socialismo liberale, scrisse che l’astratto riconoscimento delle libertà «ha un valore ben relativo, quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche ed ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà, non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dall’emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è mero fantasma». Come non rievocare, dunque, le parole dell’allora Presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson: «you do not take a person who, for years, has been hobbled by chains and liberate him, bring him up to the starting line of a race and then say, “you are free to compete with all the others”, and still justly believe that you have been completely fair». Lo Stato interventista rinuncia ad essere mero spettatore e guardiano delle spontanee dinamiche sociali ed economiche per assumere un ruolo da attore protagonista, al pari degli individui e delle formazioni sociali. Assumendo compiti dapprima sconosciuti o scarsamente assolti, le istituzioni pubbliche s’impegnano ad agire in funzione redistributiva, in nome della giustizia sociale che, al pari dei tradizionali princìpi essenziali degli Stati contemporanei, assurge a strategico e indefettibile indirizzo di sviluppo della società. Entro questa cornice i diritti sociali sono configurati e distribuiti allo scopo precipuo di affrancare i meno abbienti dalla «schiavitù del bisogno», come la definì Calamandrei.

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La Costituzione italiana asseconda questo anelito di trasformazione della società, nella consapevolezza dei rischi associati agli squilibri sociali che, all’epoca della sua redazione, gravavano sul nostro paese. La rivoluzione promessa dal principio di eguaglianza sostanziale esprime esattamente questa inversione di rotta. Per garantire l’effettivo esercizio dei diritti sociali è necessario soddisfare due condizioni esistenziali. Gli individui debbono poter contare sulla possibilità di sviluppare pienamente le loro personalità (principio personalista). I consociati stessi devono essere messi nelle condizioni di partecipare effettivamente alla vita comunitaria, in ambito politico, economico e sociale (principio partecipativo). Le barriere erette dalle spontanee dinamiche sociali debbono essere rimosse attraverso un intervento diretto delle istituzioni repubblicane. Le armi da brandire per sconfiggere tali sperequazioni sono per l’appunto i diritti sociali, i quali, proprio in considerazione della loro proiezioni teleologica, possono ben qualificarsi come diritti all’eguaglianza sostanziale. Il fine perseguito è quello del compiuto inveramento della democrazia pluralistica attraverso l’eguaglianza sostanziale delle persone. Essa, infatti, non può accontentarsi della dimensione formale o statica della partecipazione passiva di tutti i consociati alle attività preordinate alla selezione dei rappresentanti politici e alle iniziative volte a interagire con il potere attraverso la manifestazione diretta della volontà referendaria. Accedendo ad una dimensione sostanziale, la democrazia pluralistica pretende che la platea dei potenziali attori della vita comunitaria sia la più estesa possibile: non solo dal punto di vista ideologico, ma anche sociale. Attraverso la mobilità sociale, promossa dalla attivazione dei diritti sociali quali strumenti per garantire eguaglianza di chances, la democrazia pluralistica si rigenera continuamente, scongiurando il rischio di derive oligarchiche. Il quadro è completato dalla esplicita consacrazione dei doveri di solidarietà, che gravano su tutti, e dalla possibile e per molti versi auspicabile valorizzazione del principio di fraternità. La vocazione sociale della Costituzione repubblicana rispecchia una tangibile sensibilità verso le esigenze di coesione che, garantendo unità e condivisione, reclamano una adeguata attenzione per prevenire antagonismi e tensioni tra gruppi sociali. In fondo, anche se non testualmente enunciato nella nostra Costituzione, la combinazione di tutti questi elementi rende suggestiva l’idea che anche da noi l’ordinamento riconosca e promuova un diritto alla ricerca della felicità. L’autorealizzazione dell’individuo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui vive ed opera, è il presupposto per quella esistenza libera e dignitosa che, pur testualmente prevista dall’art. 36 Cost. in relazione alla retribuzione nei rapporti di lavoro, ben può essere generalizzata, visto il sicuro ancoraggio al valore della pari dignità sociale e ai più volte evocati princìpi personalistico e partecipativo.

Ora, l’approccio più seguito nel tentativo di definire i diritti sociali è quello che ricerca le differenze tra essi e i tradizionali diritti di libertà. Un profilo cruciale, che ha generato una copiosissima e ricchissima letteratura, non solo giuridica, ma che richiederebbe uno spazio incompatibile con l’economia di questo saggio. In questa sede, pertanto, ci si limiterà ad esaminare i profili che, più di altri, consentono un dialogo tra economia e diritto. Una affermazione difficile da confinare tra i più ostinati luoghi comuni è quella secondo cui soltanto i diritti sociali, e non anche quelli appartenenti alla tradizione liberale, esigerebbero prestazioni positive da parte dei pubblici poteri. In fondo, la distinzione tra queste due tipologie di diritti è spesso declinata anche in termini di differenza tra libertà negative, che prescrivono allo Stato di astenersi dal violare la sfera giuridica del singolo, e libertà positive, che invece impongono alle istituzioni un intervento diretto, un facere quindi, al fine di consentire ad un individuo l’acquisizione di un bene o di un servizio necessario per il soddisfacimento di un interesse giuridicamente rilevante. Come si è detto, questo elemento di discrimine è stato evocato per giustificare misure di contenimento della spesa pubblica solo o, comunque, innanzitutto, sul versante dei diritti sociali, fermo il convincimento che questi ultimi “costano”, a differenza dei diritti di libertà. A questo ordine di idee si può obiettare che pur essendo incontestabile che l’esercizio dei diritti sociali dipende dalle scelte organizzative dello Stato, è pura illusione pensare che lo stesso non sia vero anche per i diritti di libertà. La libertà di domicilio resterebbe una simbolica enunciazione nel

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testo costituzionale in difetto di un apparato pubblico preordinato a garantirne l’integrità. E lo stesso potrebbe dirsi in relazione all’intero catalogo dei diritti di libertà, rispetto ai quali svolgono una funzione irrinunciabile gli organi giudiziari, le forze di polizia, e pure la difesa militare: istituzioni, queste, destinate ad attivarsi, con il relativo e conseguente sacrificio di risorse finanziarie, ogni qual volta un individuo asserisca di essere stato leso in un proprio diritto fondamentale. Si potrebbe tracciare una ragionevole linea di demarcazione tra diritti di libertà e diritti sociali mutuando la distinzione, altrove in uso, tra tutela e valorizzazione/promozione. Nel caso dei diritti di libertà, l’azione dei pubblici poteri è primariamente orientata verso la protezione dei beni rispetto ai quali è indirizzato l’interesse sotteso agli stessi diritti. Si pensi, a titolo esemplificativo, al bene della libertà personale. Compito essenziale delle autorità è di preservare l’integrità di tale bene contro atti di violenza di privati o anche di soggetti pubblici. Nel caso, invece, dei diritti sociali, spetta innanzitutto alle istituzioni pubbliche intervenire per promuovere l’acquisizione dei beni oggetto degli interessi individuali sottesi a tali diritti. Così, il bene istruzione è garantito a tutti gratuitamente, quanto alla scuola dell’obbligo, attraverso l’azione positiva posta in essere dalle istituzioni. In estrema sintesi: lo Stato tutela i diritti di libertà e promuove i diritti sociali. È chiaro, come dimostrato dalla nota vicenda legata all’interpretazione dell’art. 117 in tema di ambiente, che il confine tra tutela e valorizzazione/promozione non è così marcato, trattandosi di modalità di azione che spesso interagiscono vicendevolmente: si protegge un bene per promuoverlo (e non solo per garantirne la permanenza nel tempo) e, nel contempo, valorizzandolo lo si preserva nel tempo (e non ci si limita a renderlo un bene economicamente apprezzabile). Nondimeno, la dimensione statica della preservazione contraddistingue la posizione dello Stato nei confronti dei diritti di libertà, mentre la proiezione dinamica è il tratto essenziale del ruolo che l’ordinamento assegna in primo luogo ai pubblici poteri. L’adesione a questa tesi sdrammatizza il divario tra le due classi di diritti in esame, atteso che tutela e valorizzazione sono due facce della stessa medaglia. Sono due versanti di azione dei pubblici poteri rispetto ai quali non può che sussistere equilibrio, proprio affinché la medaglia resti in piedi. E se le cose stano così, allora è giocoforza ammettere che l’impegno richiesto allo Stato è di pari entità e, come tale, non legittima alcuna interpretazione del dettato costituzionale tesa a dimostrare la primazia dei diritti di libertà rispetto ai diritti sociali. Nella transizione dai diritti di libertà ai diritti sociali muta, dunque, l’atteggiamento dei consociati nei confronti del potere. Lo Stato costituzionale è posto a presidio dei diritti fondamentali delle persone nei confronti dell’autorità. Tuttavia, non sempre questa protezione assume gli stessi connotati. Come ha insegnato Bobbio, nel caso dei diritti di libertà, questi sono riconosciuti contro il potere. Nel caso dei diritti sociali, questi sono riconosciuti verso il potere. Nell’un caso, il singolo si aspetta che il potere si astenga dall’assumere atti o comportamenti lesivi dei propri diritti. Nell’altro caso, il singolo si aspetta che il potere intervenga con atti o comportamenti idonei a soddisfare i propri bisogni. Altrettanto discutibile si rivela la tesi che coglie la distinzione tra le due tipologie di diritti nella diversa portata delle previsioni costituzionali che le contemplano: i diritti di libertà sarebbero sorretti da norme immediatamente precettive, laddove i diritti sociali dovrebbero contare sull’influenza dispiegata dalle norme programmatiche. Invero, questa distinzione è stata da tempo ridimensionata, anche grazie alla posizione netta e chiara della Corte costituzionale assunta sin dalla sua prima pronuncia. Non è il caso di indugiare su questo punto. È sufficiente ricordare come la “normatività” della Costituzione, intesa come attitudine a vincolare le opzioni del legislatore ordinario, è una condizione generale che connota tutti i suoi enunciati: non solo quelli che consentono una diretta sussunzione dello specifico caso della vita entro lo schema di qualificazione definito dal testo, ma anche quelli che orientano finalisticamente le leggi. Non del tutto condivisibile appare, inoltre, la distinzione tra diritti sociali incondizionati e diritti sociali condizionati.

Chi ha descritto questa distinzione ha teorizzato che mentre i primi sono diritti che attengono a rapporti giuridici che si istituiscono spontaneamente, cioè su libera iniziativa delle parti, accedendovi

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per qualificarne il tipo o la quantità di talune prestazioni dovute, gli altri invece sono diritti il cui godimento dipende dall’esistenza di un presupposto di fatto, vale a dire la presenza di un’organizzazione erogatrice delle prestazioni oggetto dei diritti stessi o, comunque, necessaria per rendere possibili i comportamenti o le condotte formanti il contenuto di quei diritti. Sono proprio le esemplificazioni portate a sostegno di tale distinzione a suscitare qualche dubbio. In effetti, il diritto alla retribuzione sufficiente, il diritto al riposo, il diritto all’assistenza familiare, il diritto dei figli all’educazione, non sono che pretese giuridicamente rilevanti che si innestano in rapporti già disciplinati dal diritto privato. Il codice civile contempla e disciplina il contratto di lavoro subordinato, imponendo obblighi ad entrambe le parti coerentemente con la natura sinallagmatica del negozio stesso. I diritti soggettivi vantati dal dipendente quanto alla retribuzione e al riposo scaturiscono dal contratto di lavoro e ricevono una puntuale disciplina dal codice stesso come integrato dai contratti collettivi. A questi ultimi, poi, compete garantire che la retribuzione sia proporzionata al lavoro svolto e sia sufficiente ad assicurare, al lavoratore e alla sua famiglia, una esistenza libera e dignitosa. Gli obblighi di assistenza familiare, così come il dovere dei genitori di provvedere all’educazione dei figli trovano anch’essi una specifica base normativa nel codice civile e, comunque, traggono origine dai rapporti inclusi nel diritto di famiglia. Il fatto che la Costituzione espressamente li preveda non comporta una loro qualificazione come “diritti sociali” nel senso di strumenti di inveramento dello Stato sociale. Tant’è vero che il diritto dei figli all’educazione o i diritti del lavoratore nei confronti della controparte erano riconosciuti dal diritto positivo anche prima dell’avvento dello Stato sociale. La nostra Costituzione ha inteso rafforzare la tutela di tali posizioni giuridiche soggettive, dettando previsioni idonee a vincolare coattivamente non solo l’autonomia negoziale dei privati, ma ancor prima il legislatore e le stesse parti sociali impegnate nella contrattazione collettiva.

Per questa ragione, pare più convincente considerare i diritti sociali in senso stretto – quali meccanismi di realizzazione delle finalità proprie dello Stato sociale – solo i diritti sociali condizionati: il diritto all’assistenza e alla previdenza, il diritto all’istruzione, il diritto degli indigenti a cure gratuite, il diritto degli inabili all’educazione e all’avviamento professionale, il diritto all’abitazione, il diritto ad un ambiente salubre, il diritto al lavoro inteso come obbligo per le istituzioni di adoperarsi per favorire l’incontro della domanda e dell’offerta di lavoro. Invero, sono proprio questi i “diritti” che impongono un intervento positivo delle istituzioni, sotto forma di edificazione di strutture organizzative appropriate e di erogazione dei relativi servizi. Una volta soddisfatta questa condizione di fatto – alla quale, si ribadisce, non sono subordinate le posizioni giuridiche soggettive indicate come diritti sociali incondizionati – il singolo risulterà titolare di una pretesa direttamente e concretamente azionabile per soddisfare il proprio interesse. Ad ogni modo, è chiaro che la mancanza del succitato presupposto di fatto non incide sulla positiva previsione dei diritti sociali, i quali riposano direttamente su apposite disposizioni costituzionali, ma si riverbera semmai sulle concrete modalità di realizzazione degli stessi. 3. Sulle modalità di realizzazione dei diritti sociali. – Da tempo si registra una certa uniformità di vedute nel sottolineare senza esitazione la cogenza del principio di gradualità nella attuazione dei diritti sociali. Mentre per i diritti inviolabili della tradizione liberale vale la logica del «tutto-o-niente», per cui essi debbono essere sempre e comunque previsti, regolati e integralmente garantiti dal legislatore (o non se ne fa nulla, con conseguente violazione del dettato costituzionale), per i diritti della tradizione socialdemocratica vige la logica del «più-o-meno»: la loro attuazione, cioè, può essere progressiva, a stadi successivi, secondo un percorso che può anche essere reversibile, e tutto ciò in connessione alle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone in un dato frangente storico. La nostra Corte costituzionale ha assecondato questa lettura, arrivando a legittimare interventi legislativi volti a ridurre il livello di realizzazione dei diritti sociali, in nome della razionalizzazione dei conti pubblici. A presidio dei diritti in parola la stessa Corte ha imposto una sorta di gradualismo, nel senso sia della possibilità di avvicinarsi progressivamente a standard appropriati di soddisfacimento dei diritti sociali, sia nel senso della necessità di discipline transitorie per rendere meno repentino il

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passaggio da un regime più favorevole ad un regime più restrittivo, e ha altresì preservato l’integrità del contenuto minimo essenziale dei diritti sociali. Il bilanciamento tra esigenze contrapposte (la garanzia dei diritti sociali e il contenimento della spesa pubblica) ha seguito i ben noti itinerari tracciati dal canone generale di ragionevolezza, con una particolare attenzione alle conseguenze di eventuali decisioni di accoglimento. La prudenza dimostrata dal giudice delle leggi in questo ambito è testimoniata dal graduale passaggio dalle sentenze additive di prestazione, stigmatizzate da una parte consistente della dottrina in quanto fonti di spese prive di copertura, alle sentenze additive di garanzia, accolte con favore da quanti ritengono necessario preservare una qualche discrezionalità del legislatore ordinario nella scelta dei mezzi e dei tempi più congeniali per ripristinare la violata legalità costituzionale. Attraverso il giudizio di ragionevolezza, la Corte ha sindacato la congruità delle soluzioni adottate rispetto ai fini perseguiti; ha valutato la proporzionalità delle misure limitative di prestazioni dapprima riconosciute; ha apprezzato la solidità e l’oggettività dei presupposti di fatto sottesi allo specifico intervento del legislatore. È bene precisare, comunque, che la giurisprudenza costituzionale non ha seguito una traiettoria lineare e che, dunque, sarebbe improprio tentare di ricostruire una dottrina della Corte sui diritti sociali. Più corretto è, quindi, un approccio diacronico che metta in risalto le diverse tappe evolutive (o “stagioni”) di questa giurisprudenza. Ad un iniziale periodo di sostanziale emarginazione dei diritti sociali, a vantaggio di una più spiccata sensibilità vero le ragioni della libera iniziativa economica privata, segue un periodo di accentuato interesse, specie in materia di rapporti di lavoro e di previdenza sociale. L’inaugurazione di un prudente indirizzo giurisprudenziale proclive a valorizzare la portata costituzionale dei diritti sociali è favorita da un atteggiamento filokeynesiano della Corte rispetto ai vincoli posti, in tema di bilancio, dall’art. 81 Cost., con particolare riferimento all’obbligo di copertura di nuove spese. Ammette, infatti, la Corte la possibilità di ricorrere anche alla previsione di maggiori entrate, «tutte le volte che essa si dimostri sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in un equilibrato rapporto con la spesa che s’intende effettuare negli esercizi futuri, e non in contraddizione con le previsioni del medesimo Governo, quali risultano dalla relazione sulla situazione economica del Paese e dal programma di sviluppo del Paese». Senonché, le condizioni economiche avverse che iniziarono ad affacciarsi già negli anni Ottanta, spinsero la Corte ad accedere alla già ricordata duplice lettura del principio di gradualità, in senso non favorevole alle aspettative vantate dai titolari dei diritti sociali. In presenza di «difficoltà finanziarie da superare», al legislatore si può imporre una sorta di obbligazione di mezzi, e non di risultato, così da enfatizzare la necessità – peraltro difficilmente sanzionabile – di un impegno positivo nel reperimento delle risorse necessarie. Nel successivo decennio la fiducia riposta nell’opera di supplenza della Corte, quanto a decisioni che il potere politico non riuscirebbe ad adottare, è delusa. Si succedono pronunce dalle quali affiora chiaramente la consapevolezza circa le ormai improcrastinabili esigenze di risanamento della finanza pubblica, atteso che quest’ultima viene sempre più percepita quale valore costituzionalmente tutelato. Un solo esempio è sufficiente, e riguarda quello che a suo tempo fu definito dalla stessa Corte come il diritto fondamentale all’abitazione: «come ogni altro diritto sociale, anche quello all’abitazione, è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione delle risorse della collettività; solo il legislatore, misurando le effettive disponibilità e gli interessi con esse gradualmente satisfattibili, può razionalmente provvedere a rapportare mezzi a fini, e costruire puntuali fattispecie giustiziabili espressive di tali diritti fondamentali». Emerge chiara, così, la portata finanziariamente condizionata di questi diritti. In questa cornice la Corte si sente autorizzata a pronunciare una decisione additiva tout court soltanto ove, nel bilanciamento dei valori posto in essere dal legislatore, le ragioni di equilibrio della finanza pubblica avessero un peso assolutamente preponderante tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto sociale e solo se ci si trovasse al cospetto di un esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa. Infine, pur in difetto di indici inequivoci, anche il primo decennio del Duemila appare contrassegnato da un atteggiamento della Corte come quello dapprima descritto: il giudice costituzionale continua ad esercitare un prudente self restraint ribadendo il proprio ruolo di garante del contenuto minimo essenziale dei diritti in parola.

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Appare evidente l’influenza esercitata, con ostinazione, dalla pervicace tendenza a rimarcare il divario tra i diritti della tradizione liberale e gli “onerosi” diritti sociali. Anche in questo caso, il confronto in atto nella letteratura nordamericana, così pervaso dalla combinazione di elementi giuridici ed economici, è in grado di fornire spunti preziosi per un ripensamento critico di questa consolidata posizione.

4. I diritti sociali tra pubblico e privato. – Il secondo comma dell’art. 3 Cost. designa la

Repubblica quale entità protagonista degli ostacoli che si frappongono all’eguaglianza sostanziale. Se, poi, si interpreta questa previsione alla luce dell’art. 114, come novellato nel 2001, allora si accede ad una chiara lettura: gli attori dell’eguaglianza sostanziale sono gli enti che costituiscono la Repubblica, vale a dire comuni, province, città metropolitane, regioni e, finalmente, lo Stato. È altrettanto evidente che il citato art. 114 non esaurisce il novero delle istituzioni repubblicane. Esso, infatti, identifica le istituzioni repubblicane dotate di riconoscimento costituzionale, nel senso che una loro eventuale rimozione – si allude specificamente alle province vista l’attualità – non può non passare attraverso la procedura aggravata di revisione della carta fondamentale. Ad ogni modo, l’opzione trasfusa nell’art. 3, quanto ai soggetti chiamati ad intervenire in funzione di riequilibrio sociale, rispecchia il disegno di fondo che sorresse l’introduzione di una previsione così carica di ambizioni in qualche misura rivoluzionarie. Gli ostacoli quivi indicati sono imputabili a distorsioni del sistema economico e a modelli sociali chiusi e conservatori. L’unico soggetto in grado di incidere sulle relazioni economiche e sociali, imponendo limitazioni o promuovendo azioni positive in tensione con l’eguaglianza formale, è la Repubblica, intesa come organizzazione pubblica preposta alla cura degli interessi generali attraverso l’esercizio di poteri sovrani. L’interventismo pubblico, di chiara ascendenza socialdemocratica e di ispirazione keynesiana, mira altresì a istituzionalizzare forme di sostegno e di promozione sociale che, un tempo, erano rimesse a spontanee iniziative di enti caritatevoli, il più delle volte di connotazione religiosa. Questa istituzionalizzazione apparve indispensabile per l’edificazione di una struttura stabile, efficiente, universale, non soggetta quindi a quelle contingenti vicissitudini negative che avevano determinato il fallimento di alcune, meritorie iniziative private. Ebbene, in estrema sintesi fu sin da subito pacifico il connubio tra il pubblico e i diritti sociali, intesi questi quali posizioni attive di fronte alle prestazioni rese dai vari organismi che compongono le istituzioni repubblicane. Questo abbinamento ha segnato l’evoluzione del welfare state in termini di progressivo potenziamento delle strutture pubbliche preposte alla erogazione dei servizi resi ai soggetti deboli. È sin troppo noto questo processo di accrescimento, talvolta incontrollato, dell’apparato pubblico, le cui ramificazioni si sono via via moltiplicate generando un complesso ed intricato sistema organizzativo. Ma tant’è: il welfare state è sempre stato inteso come il luogo di compiuta realizzazione di un nuovo Stato, profondamente diverso da quello liberale, incline a percorrere, da protagonista, le innumerevoli strade che compongono l’ambiente sociale. Nel contempo, è altrettanto conosciuto l’esito di questo processo di appesantimento dell’apparato pubblico. La evocata crisi dello Stato sociale non è che la conseguenza del riconoscimento della ingovernabilità di un apparato elefantiaco, disorganico, a volte incomprensibile sul piano della reale necessità di esistere e di operare. La deriva dello Stato sociale nello Stato assistenziale è l’effetto della strumentalizzazione delle istituzioni pubbliche quale sede privilegiata per la gestione di rapporti clientelari, di relazioni con i gruppi di pressione, per il radicamento delle posizioni di rendita dell’alta burocrazia. Lo Stato assistenziale diviene luogo di scontro e di contrattazione politica, smarrendo la propria originaria dimensione funzionale quale struttura preposta all’inveramento dell’eguaglianza sostanziale. Complice la crisi economica, al pari se non di più rispetto ad altri paesi, anche il nostro ha intrapreso un difficile e controverso processo di riforma dell’apparato pubblico, per una razionale allocazione e utilizzazione delle risorse e per uno snellimento congeniale alla eliminazione di strutture ormai inutili, irragionevolmente costose, in una parola inefficienti.

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Tutto ciò ha condotto ad un ripensamento del ruolo stesso del pubblico rispetto ai diritti sociali. In effetti, non poche delle prestazioni tradizionalmente rese dalle istituzioni in funzione di realizzazione di tali diritti presentano caratteristiche tali da poter essere altrettanto, se non di più, efficacemente rese da soggetti non incardinati nell’apparato pubblico: le famiglie, le organizzazioni di volontariato, o altre formazioni sociali che compongono la eterogenea e poliedrica galassia del “privato”. L’idea di privatizzazione non ha dunque pervaso soltanto i settori nei quali il pubblico è stato, da decenni, protagonista nello svolgimento di attività economiche preordinate al soddisfacimento di interessi generali. Questa idea ha polarizzato l’attenzione anche sul versante dei servizi e delle prestazioni che, tradizionalmente, sono abbinate al ruolo attivo del pubblico. In breve, il monopolio pubblico in materia di diritti sociali è stato messo in discussione, pur restando fermo che, come ha reiteratamente affermato la Corte costituzionale, il pubblico non può mai rinunciare del tutto a rivestire un ruolo attivo nella gestione di tali attività. In termini più generali, è stato osservato che il nesso che avvince i diritti sociali alla sfera pubblica non è immanente, in quanto si lega alla forma storica concretamente assunta dalle modalità di soddisfacimento di quei diritti. E, dunque, ciò che appare determinante ai fini della concreta realizzazione dei diritti sociali è il risultato, non invece la natura pubblica o privata dei soggetti che prestano il servizio. A suggellare la ripresa del privato in questo ambito è intervenuta la riforma costituzionale del 2001 che, modificando l’art. 118, ha consacrato, nell’ultimo comma, il principio di sussidiarietà orizzontale o sociale. Pertanto, assume dignità costituzionale «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale». Questa novità legislativa è stata accolta quale enunciazione di un principio che legittima l’azione diretta di soggetti estranei all’apparato pubblico nella erogazione di servizi e prestazioni per l’esercizio effettivo dei diritti sociali. Se, poi, si riconoscono le trasformazioni che hanno accompagnato la storia degli stessi diritti sociali (da mere raccomandazioni rivolte ai pubblici poteri a situazioni giuridiche soggettive provviste di dignità costituzionale), allora il cerchio si chiude.

Dall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione socialeDall’eguaglianza sostanziale alla promozione sociale Secondo l’opinione assolutamente dominante, il principio di eguaglianza sostanziale va inteso come eguaglianzeguaglianzeguaglianzeguaglianza delle opportunità o di a delle opportunità o di a delle opportunità o di a delle opportunità o di chanceschanceschanceschances. La rimozione degli ostacoli, di ordine economico e sociale, è finalizzata a porre tutti nelle stesse condizioni di partenza. Questo principio impone, dunque, alle istituzioni repubblicane di agire affinché anche coloro che nascono o versano in condizioni di svantaggio sociale ed economico possano avere le stesse opportunità di autorealizzazione personale di coloro che provengono da contesti e realtà sociali e familiari di vantaggio. Il figlio dell’operaio e il figlio dell’avvocato devono avere le stesse chances di successo nella vita. Si suppone, quindi, che le relazioni sociali siano raffigurabili come una competizione, come quella che Bobbio definì la «gara della vita». Affinché vinca il migliore, all’esito di una competizione improntata a lealtà e correttezza, è necessario che tutti i concorrenti partano dalla medesima linea, esattamente come nelle gare di atletica leggera. I diritti sociali servono esattamente a questo. Ad esempio, a consentire al figlio dell’operaio le stesse opportunità di studio del figlio dell’avvocato. Una volta laureati entrambi, il successo non dipenderà dalle condizioni di partenza, ma dall’impegno profuso nello svolgimento dell’attività professionale o lavorativa. Il sistema sanitario, dal canto suo, permetterà a tutti di curarsi, così che una data patologia non sia di ostacolo alla autorealizzazione individuale. E così via. L’eguaglianza sostanziale impone, dunque, non il livellamento dei consociati, bensì la rimozione degli ostacoli che impediscono alle persone di intraprendere la gara della vita partendo dalla stessa linea. Dunque, l’art. 3, secondo comma, Cost., persegue l’obiettivo della eguaglianza nei eguaglianza nei eguaglianza nei eguaglianza nei punti di partenzapunti di partenzapunti di partenzapunti di partenza, e non quello, proprio dell’egualitarismo assoluto, dell’eguaglianza nei punti di arrivo.

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Sempre Bobbio fece il seguente esempio per chiarire la differenza tra eguaglianza nei punti di partenza e

eguaglianza nei punti di arrivo. Negli anni della contestazione studentesca spesso gli esami di profitto erano fatti in gruppo, anziché individualmente. Il bene da acquisire è la valutazione positiva all’esame di profitto. Le strade sono due: o interrogazione individuale o interrogazione di gruppo. Nel secondo caso, non è necessario che partecipino attivamente all’esame tutti i membri del gruppo, anche se alla fine lo stesso voto verrà assegnato a tutti. L’interrogazione individuale consente ad un solo studente di ottenere il bene desiderato. La qualità di tale bene (vale a dire, il voto espresso dalla commissione) dipenderà in prevalenza da diversi fattori legati alle capacità del candidato: talento, intelligenza, applicazione, spirito di sacrificio, impegno. L’eguaglianza delle opportunità consente a tutti i candidati di partecipare all’esame muovendo dagli stessi punti di partenza. Il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, infatti, impone allo stato di intervenire per rendere effettivo il diritto allo studio: diritto, questo, a sua volta contemplato e garantito dal successivo art. 34, anche con la previsione di misure atte a favorirne l’effettivo esercizio da parte di persone che versano in condizioni di indigenza. Così, l’accesso all’università è aperto a tutti, sono previste esenzioni quanto alla tassa d’iscrizione, le aule sono a disposizione di tutti, stessi docenti e programmi di esame, orari comuni a tutti gli studenti. Quanto alla verifica, l’esame è svolto dalla stessa commissione e nello stesso giorno, sui medesimi argomenti. Questo significa, dunque, garantire a tutti eguaglianza nei punti di partenza, anche con l’attivazione degli strumenti ascrivibili al principio di eguaglianza sostanziale. Dopodiché, l’esito dell’esame di profitto dipenderà dal merito individuale. Si consideri, ora, la seconda ipotesi. La commissione procederà ad esaminare il gruppo: pur essendo tutti presenti fisicamente, in ipotesi anche uno solo tra i membri verrà scelto dallo stesso gruppo per rispondere materialmente alle domande. Il voto verrà così assegnato, in egual misura, a tutti i componenti il sodalizio. In questo caso, è evidente la logica solidaristica che connota una simile modalità di esame. Nel gruppo potranno essere inseriti studenti che, costretti a lavorare, non hanno potuto seguire le lezioni, o che, privi dei mezzi necessari, non sono stati in grado di acquistare i libri d’esame. In questo senso, dunque, si può parlare di eguaglianza di risultato: indipendentemente dall’impegno profuso da ogni membro del gruppo, il bene (ossia, il voto positivo) sarà assegnato a tutti senza distinzioni. Viene così soddisfatto il bisogno di acquisire quel bene: il bisogno di superare l’esame di profitto. Entrambi i criteri – eguaglianza delle opportunità ed eguaglianza di risultato – mirano a risolvere un problema: alcuni studenti partono svantaggiati rispetto ai colleghi. Solo che, applicando il canone dell’eguaglianza nei punti di partenza, il problema viene risolto eliminando il gap iniziale; applicando, invece, il canone dell’eguaglianza nei punti di arrivo, il problema permane, ma viene superato assegnando a tutti il medesimo bene. In questo secondo caso, ciò che conta non è disporre tutti sulla stessa linea di partenza, ma far sì che tutti arrivino al medesimo traguardo, e nello stesso istante, pur essendosi mossi da punti anche relativamente distanti.

Tuttavia, l’esperienza insegna che il divario che lo Stato intende rimuovere quanto alle condizioni di partenza si ripresenta fatalmente durante lo svolgimento della gara della vita, finendo così per determinare la vittoria di coloro che versavano già in condizioni di vantaggio. Per dimostrare quanto sia vera questa affermazione, allego i seguenti dati sulla mobilità sociale mobilità sociale mobilità sociale mobilità sociale in Italia nel 2009.

Classe del padre

classe occupazionale attuale

borghesia classe media impiegatizia

piccola borghesia

urbana

piccola borghesia agricola

classe operaia urbana

classe operaia agricola

totale

borghesia 38,1 33,3 12,1 0,8 15,4 0,3 100,0 classe media impiegatizia 20,8 49,9 11,6 0,6 16,7 0,4 100,0

piccola borghesia urbana 15,8 31,4 27,6 0,5 24,0 0,7 100,0

piccola borghesia agricola 10,8 21,4 18,9 14,6 30,2 4,1 100,0

classe operaia urbana 8,5 31,4 13,8 0,5 44,7 1,0 100,0 classe operaia agricola 7,0 17,3 16,3 3,8 46,6 9,0 100,0 totale 15,3 33,3 16,0 1,8 32,0 1,6 100,0 fonte: Istat, Rapporto annuale 2012, Roma, 2012, 242.

La mobilità sociale (ascendente o discendente) descrive il passaggio da una classe sociale all’altra. Le classi sociali esistono dal punto di vista politico, sociologico, statistico, economico. Si tratta, infatti, di una suddivisione delle persone in gruppi omogenei, individuati alla stregua di alcuni fattori,

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tra i quali domina la capacità di reddito. Le classi sociali, invece, non hanno mai rilevanza giuridica. Come si è visto, tutti gli individui hanno pari dignità socialepari dignità socialepari dignità socialepari dignità sociale e non sono ammissibili disparità di trattamento determinate da condizioni sociali. Per calcolare la mobilità sociale, si prende un campione rappresentativo di popolazione e tramite una intervista si individuano la classe sociale di origine e la classe sociale di appartenenza al momento dell’intervista. Ebbene, cosa si deduce dalla tabella sopra riportata ? Chi nasce nella classe operaia urbana ha l’8,5 % delle probabilità di raggiungere la “vetta” della scala sociale, ossia la borghesia. Chi nasce nella borghesia ha, invece, il 38,1 % delle probabilità di rimanere in questa condizione di vantaggio. Da anni si denuncia il fatto che in Italia l’ascensore socialeascensore socialeascensore socialeascensore sociale non funziona. Noi abbiamo uno dei tassi di mobilità sociale più basso tra tutti i paesi occidentali. La nostra società è immobile, ferma. Le condizioni di partenza sono decisive. Il figlio di un operaio ha il 44,7 % delle probabilità di rimanere nella classe di origine, senza quindi migliorare la propria condizione di partenza. Tutto ciò può diventare un pericoloso fattore di antagonismo sociale, in quanto una modestissimo tasso di mobilità ascendente preclude in pratica ogni speranza di miglioramento delle proprie condizioni esistenziali a chi nasce in un contesto familiare e sociale svantaggiato. Diversi e molteplici sono gli ostacoli che si frappongono ad una più dinamica mobilità sociale. Tra tutti, il meccanismo di autoreclutamento delle élitesautoreclutamento delle élitesautoreclutamento delle élitesautoreclutamento delle élites. Studi condotti in diverse branche disciplinari hanno da molto tempo dimostrato che coloro che detengono il potere (istituzionale, politico, economico, culturale), e che appartengono alla classe sociale più elevata ossia la borghesia, hanno la tendenza a perpetuare il proprio potere trasmettendolo ad individui della stessa classe sociale. Essi, dunque, adottano una serie di iniziative volte a erigere barriere all’ingresso, così da contrastare l’accesso al potere di coloro che provengono da altre classi sociali. Ebbene, l’interpretazione unanime dell’eguaglianza sostanziale come eguaglianza nei punti di partenza non ha impedito la perpetuazione nel tempo di tale pratica di autoreclutamento delle élites. I gruppi sociali economicamente, politicamente, istituzionalmente, socialmente, culturalmente più forti hanno assunto modalità di comportamento tali da condizionare pesantemente il concreto svolgimento della “gara della vita”: si pensi al reclutamento della classe politica, ai concorsi pubblici, agli esami di accesso a professioni importanti, alla gestione familistica delle aziende, al governo del settore dell’informazione. La tesi dell’eguaglianza delle opportunità ha, quindi, rivelato la propria parziale insufficienza. Per tutti gli studiosi, essa è stata considerata come il limite massimo entro il quale può spingersi l’azione dei pubblici poteri nella redistribuzione delle chances di realizzazione individuale. L’autoreclutamento è quindi percepito o come qualcosa di irriconoscibile per il diritto o come qualcosa che il diritto non può contrastare, in quanto rimesso a dinamiche (sociali, etiche, culturali, economiche) che fuoriescono dall’azione di controllo delle norme giuridiche. Ebbene, nel 2013 ho pubblicato uno studio finalizzato a dimostrare che l’eguaglianza delle opportunità è solo il punto di partenza dell’azione dei pubblici poteri informato a valori di equità e di giustizia sociale. I pubblici poteri debbono andare oltre, contrastando le molteplici forme di ingerenza che le classi sociali dominanti attuano per conservare le cose così come stanno. La mobilità sociale è un problema di diritto costituzionale. La Costituzione impone alle istituzioni repubblicane non solo di liberare le persone dal bisogno economico, ma anche di mettere tutti nelle effettive condizioni di svolgere pienamente la loro personalità e di partecipare effettivamente, ossia da veri protagonisti, alla vita comunitaria. Questa azione positiva dei pubblici poteri deve, dunque, realizzare il valore costituzionale della promozione socialepromozione socialepromozione socialepromozione sociale. Q. CAMERLENGO, Costituzione e promozione sociale, Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 337 ss. 1. Il tipo di società prefigurata dalla Costituzione

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Ragionando in termini di potere, e accedendo alla dimensione sostanziale del medesimo, si è giunti alla conclusione che di mobilità sociale, in senso costituzionalmente orientato, si può parlare ove l’ascesa sociale sia culminata proprio nel raggiungimento della posizione “apicale”. È lì, infatti, che si concentra la disponibilità dei mezzi, non solo economici, per assumere decisioni in grado di influenzare le sorti del paese. I dati esibiti in precedenza dimostrano come il processo di trasmigrazione che ha interessato i due strati estremi ha raggiunto in Italia dimensioni insoddisfacenti, se paragonate al resto dei paesi occidentali. La società che ha preceduto l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana era accentuatamente elitaria. Le ragioni di censo erano decisive ai fini della collocazione sociale degli individui. Il divario tra classi sociali era profondo, e le opportunità di ascesa sociale erano rimesse soprattutto ad una combinazione casuale di eventi favorevoli. Il sistema di protezione sociale era, pur nella sua approssimativa configurazione, finalizzato fondamentalmente ad attenuare situazioni di rilevante disagio economico. Il che ha forse favorito il raggiungimento di qualche risultato soddisfacente in termini di alfabetizzazione, di emancipazione da gravi forme di indigenza, di diffusione di cure essenziali, ma non ha certo promosso una autentica mobilità sociale. La nuova Carta costituzionale avrebbe dovuto innescare un processo di vigoroso rinnovamento della struttura sociale. E le premesse furono poste proprio con l’enunciazione di inediti princìpi dalle virtualità immense, a cominciare proprio dall’eguaglianza in senso sostanziale. Ma le cose non sono andate così. Se è dimostrato che la mobilità sociale, a breve o medio raggio, ha fatto registrare buoni risultati, non vale lo stesso per quella a lungo raggio, che è quella qui rilevante. Quote consistenti di appartenenti alle classi meno socialmente rilevanti hanno migliorato la loro condizione: il figlio del bracciante che, ultimati gli studi, ha trovato impiego in un istituto di credito, o il figlio dell’operaio che ha trovato occupazione nella pubblica amministrazione con funzioni di concetto. Il grande salto, però, è rimasto appannaggio di marginali, statisticamente trascurabili, frazioni delle classi operaie urbane e agricole. In estrema sintesi. Quanto all’accesso alla classe che dispone del potere la società italiana, che si è sviluppata negli anni successivi alla Costituzione repubblicana, è rimasta pressoché ferma nella sua conformazione strutturale. Una speranza di rinnovamento era stata riposta, già in Assemblea costituente, proprio sul principio di eguaglianza sostanziale. Nel precedente capitolo è stato operato un tentativo di rintracciare i limiti e i fallimenti della lettura di tale principio in termini di eguaglianza delle opportunità. Si è visto come il profilo economico sia stato preponderante nel guidare la mano dell’interprete. E ancora di recente l’accento è stato posto sulla emancipazione dallo stato di bisogno in cui versano i destinatari dell’eguaglianza sostanziale e dei suoi strumenti operativi, vale a dire i diritti sociali. In verità, i padri costituenti volevano qualcosa di più che una mera (seppur indispensabile) liberazione dal bisogno. Sotteso alla proclamazione della proiezione sostanziale dell’eguaglianza vi è il riconoscimento delle contraddizioni e delle disparità che attraversavano la società italiana in quell’epoca. Scriveva Mortati al riguardo che, alla base del secondo comma dell’art. 3, si rinviene il «riconoscimento della sussistenza nell’ordinamento attuale di un sistema di rapporti inducente differenziazioni di posizione sociale fra gruppi e gruppi della popolazione tali da contrastare con la parità di dignità sociale e da ostacolare lo sviluppo di un gran numero di persone, e più particolarmente dei lavoratori». Il divario proietta le proprie ombre innanzitutto sul sistema democratico in quanto le denunciate diseguaglianze finiscono col falsare il circuito della rappresentanza politica, a favore di assetti elitari del potere. A questo proposito, appare fulminante l’avvio del noto commento al secondo comma dell’art. 3 da parte di Umberto Romagnoli: «con buona pace degli storici nozionisti secondo i quali la democrazia italiana è nata nella primavera del 1945 (…), il legislatore costituente ha chiaramente voluto indicare il modello di società in cui viveva rappresenta un “ostacolo al modello da instaurare”». Più precisamente, il modello di società rifiutata è quello della democrazia formale; quello prefigurato è quello della democrazia reale, ossia «dell’autogoverno del popolo a cui “appartiene” la sovranità». Il dettato costituzionale si prefigge così l’obiettivo di riformare la società verso una conformazione strutturale diversa da quella del passato. Per non scadere nell’ovvio, occorre considerare il vero profilo controverso: quanto diversa dovrebbe essere la nuova società, rispetto alla precedente, perché si possa considerare attuato il disegno costituzionale ? In nostro aiuto soccorre ancora una volta Calamandrei. «Più che il punto d’arrivo di una rivoluzione già compiuta», la consacrazione della dimensione sostanziale dell’eguaglianza rappresenta «il punto di partenza di una rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino». Invero, «per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella costituzione una rivoluzione promessa».

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La forza delle idee non dipende solo dall’autorevolezza di chi le esprime, ma anche dall’uso che ne fanno coloro che le abbracciano. Il pensiero di Calamandrei è entrato nel patrimonio culturale di ogni studioso della Costituzione. La «rivoluzione promessa» è divenuta la chiave più utilizzata per accedere alla comprensione dello spirito che pervade la componente sociale della Costituzione. Il problema, però, è che è stata data troppa enfasi all’aggettivo usato da Calamandrei, piuttosto che al sostantivo. E così diviene agevole, pensando alla storia repubblicana, parlare di promessa mancata, di speranze disattese, di sogni infranti. Se, invece, l’attenzione viene indirizzata verso la vocazione rivoluzionaria dell’enunciato in parola, allora lo scenario può davvero cambiare. In effetti, scorgere nel secondo comma dell’art. 3 le premesse di una palingenesi della struttura sociale dischiude un ampio spettro di problemi e di ipotesi di soluzione, più di quanto possa farlo la mera considerazione di un qualche impegno, suggellato in Costituzione, verso le generazioni future. E ciò senza necessariamente evocare la “supernorma” di Lavagna e Predieri. Non sono mancate voci di dissenso rispetto alla vocazione rivoluzionaria del dettato costituzionale. E, senza dubbio, queste riserve colgono nel segno quando escludono l’intenzione del costituente di dissodare e coltivare il terreno ideale all’attecchimento delle versioni più radicali di egualitarismo. Come si è detto, un simile intendimento avrebbe scardinato, al proprio interno, la complessa trama di valori che s’intrecciano nel tessuto costituzionale, e che appaiono ispirati ai princìpi fondamentali di libertà e di democrazia. Invero, la «polemica contro il presente», prefigurata da Piero Calamandrei, «non è polemica contro l’impianto costituzionale ma contro la struttura sociale concreta che tutto il disegno costituzionale mira a trasformare nel senso del benessere, dell’emancipazione, del pieno sviluppo della persona». Tuttavia, una volta negata la sostenibilità costituzionale di una ipotesi così estrema di rivoluzione sociale, non resta che ricostruire, interpretando la Carta fondamentale (e non solo il principio di eguaglianza sostanziale), gli elementi costitutivi dell’assetto sociale più compatibile con i suoi enunciati. Alcuni studiosi hanno negato che la Costituzione abbia raffigurato un determinato tipo di società da edificare grazie alla sua attuazione. Così, per Spagna Musso, la Costituzione riconosce l’esistenza «di un forte contrasto nelle condizioni di vita fra singoli, ceti e classi sociali, ma ne demanda il componimento ad un disegno complessivo appena abbozzato nel merito». Ancora più esplicito Luciani, secondo cui «la società prefigurata dal Costituente non è omogenea, perché semplicemente non c’è in Costituzione un disegno di società, ma semmai un progetto di trasformazione sociale, o se si vuole c’è solo il disegno di una società di transizione ad una società futura che però non è regolata in Costituzione, e della quale si sa solo che dovrà essere il frutto, il risultato, del processo di trasformazione che le forze politiche e sociali debbono innescare per “rimuovere gli ostacoli” di cui parla il secondo comma dell’art. 3». In queste affermazioni si coglie il diffuso convincimento che il diritto, in generale, e la Costituzione, in particolare, non possano determinare il mutamento sociale, ma solo influenzarne gli sviluppi. Il diritto positivo si arresta in corrispondenza di un limite considerato invalicabile, oltrepassato il quale dominano le spontanee dinamiche sociali, economiche, politiche, culturali. Questa opinione confida sulla capacità della società di autocorreggersi, traendo dal diritto solo gli strumenti e le modalità operative per realizzare i necessari interventi. Ancor prima, si pensa che ai rapporti sociali (comprensivi di tutte le relazioni tra individui e tra gruppi), il diritto non possa imporre la mèta da raggiungere quanto alla loro conformazione strutturale. La Costituzione, quindi, per non eccedere deviando dal proprio ruolo, non può che limitarsi ad enunciare princìpi il cui effettivo inveramento è rimesso alle forze sociali, politiche ed economiche del paese. Del resto, la stessa legislazione è “diritto politico” in quanto rimessa alle scelte discrezionali delle formazioni che operano innanzitutto in Parlamento. Interrogarsi sul rapporto tra la funzione normativa della Costituzione ed il dinamismo spontaneo delle relazioni sociali significherebbe addentrarsi in un dedalo di cunicoli nei quali non sempre s’intravede una via d’uscita. Occorre, quindi, accontentarsi di un certo grado di approssimazione. La Costituzione è essa stessa un fenomeno sociale. È l’esito di un articolato processo di interazione tra le molteplici forze costitutive di una data comunità. Nei sistemi democratici basati sulla sovranità popolare, la Costituzione non è il frutto di una concessione, ma è il risultato di una complessa opera di mediazione solo in parte formalizzata in uno specifico assetto istituzionale. Proprio in quanto il compito di redigere un testo costituzionale è demandato ad una assemblea ad investitura elettiva, è inevitabile il condizionamento proveniente dalla società nella definizione delle scelte poi tradotte nel testo stesso. Una assemblea costituente non è mai un laboratorio in cui un gruppo ristretto di luminari del diritto e della politica, in forza di un qualche mandato, si confrontano, discutono e alla fine licenziano un corpo di regole destinate a reggere il destino di uno Stato. L’assemblea è sì luogo di scontro tra diverse sensibilità politiche, ma è anche luogo di convergenza di sollecitazioni provenienti dalla comunità. È la società ad esprimere una domanda di costituzione, che viene

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recepita dai costituenti e trasposta in un atto accessibile a tutti, e destinato a fungere da legge fondamentale dello Stato. Si suole spesso affermare che la Costituzione, enunciando una serie di princìpi fondamentali, esprime una tavola di valori. Certo, è rischioso assegnare alla legge fondamentale il compito di fissare e, dunque, di imporre coattivamente il perseguimento di determinati valori, che così verrebbero calati dall’alto e resterebbero inalterati nonostante il fluire del tempo. Peraltro, la consacrazione dei valori quali elementi essenziali del dettato costituzionale pone le premesse per uno scardinamento progressivo delle barriere erette a presidio della integrità del diritto positivo: il rilievo assunto dai valori, in effetti, potrebbe condurre a forzature interpretative. Se, però, ai valori si assegna una accezione meno impegnativa, quale quella di concezioni ideali dei rapporti che formano oggetto della materia costituzionale, allora un simile rischio potrebbe considerarsi attenuato. Esprimere una concezione ideale significa, in effetti, prefigurare un assetto sociale corrispondente alla percezione di ciò che è condiviso dalle forze politiche in vista della sopravvivenza e del progresso della comunità statale. La Costituzione si esprime per lo più tramite princìpi. Attraverso questi, il sistema normativo accede ad una prospettiva di sviluppo orientata verso il conseguimento di obiettivi generali, a loro volta identificati alla luce della visione ottimale, ossia ideale, della società. Il valore è l’impulso grazie al quale una comunità, che nasce ineluttabilmente imperfetta, trascende la realtà per superare i propri limiti oggettivi. In questo senso, quindi, i valori non sono che «il prodotto della capacità, acquistata dalla specie umana, di prendere le distanze dal mondo che la circonda e di cui è parte, d’ideare, simbolizzare, comunicare». I valori, perciò, esprimono la propria forza normativa nella misura in cui sono tradotti in princìpi, vale a dire in regole giuridiche dalla generale portata precettiva. Pertanto, se la Costituzione è anche un fenomeno sociale, essa stessa è anche fattore di cambiamento della società, nei limiti in cui i suoi princìpi, traducendo in istituti giuridici le concezioni ideali sollecitate dalla comunità, sono in grado di orientare il cambiamento. Si consideri, a questo punto, il principio di eguaglianza sostanziale. Esso traduce in categoria normativa il valore della giustizia sociale immaginando una società in cui le diseguaglianze di fatto non siano ascrivibili a privilegi di nascita o di altra natura. Detto principio esprime il valore della equità, così da imporre interventi correttivi atti a ridimensionare il divario tra consociati quanto a disponibilità delle risorse. La società è attraversata da conflitti. Buona parte di questi sono originati da diversi livelli di allocazione della ricchezza nazionale. Una Costituzione che consacra l’eguaglianza sostanziale traduce in una prescrizione giuridica una concezione ideale preordinata alla perpetuazione della società ed al suo costante miglioramento, nella consapevolezza che più diffuso è il benessere, maggiore è la “felicità” per tutti. Enunciando quel principio, l’Assemblea costituente ha recepito questa istanza sociale, incanalata attraverso le forze politiche più sensibili a questo tipo di domanda. E così facendo, essa ha posto le basi per una evoluzione della società verso questo assetto ideale. Il problema, però, sta proprio nella ricostruzione di questo assetto ideale. Gli interpreti della Costituzione hanno avallato la lettura della eguaglianza nei punti di partenza. Così opinando, essi hanno immaginato la tensione ideale della Costituzione verso un assetto in cui tutti possano godere delle medesime opportunità (di sviluppo della personalità e di partecipazione alla vita comunitaria), a prescindere dalle origini familiari e sociali e dalla disponibilità delle necessarie risorse. Come a dire che oltre la Costituzione non va e non può andare oltre, per non intralciare l’autonoma evoluzione delle relazioni sociali: non va in quanto essa non prevede una soluzione più radicale (dimensione del diritto costituzionale formale); non può andare in quanto il testo non può essere forzato – in sede interpretativa e applicativa – a tal punto da turbare drasticamente le libere dinamiche sociali (dimensione della diritto costituzionale vivente). Secondo questo modo di pensare, eguagliare le opportunità è la premessa per consentire una competizione, nella gara della vita, priva di vantaggi, franchigie, scorrettezze. La Costituzione può fare solo questo. L’esito della gara è rimesso a dinamiche che sfuggono al controllo delle sue previsioni, essendo rimesse tanto al talento individuale, quanto alle concrete situazioni sociali in cui si realizza questa competizione. Senonché, così ragionando in realtà non è che si assume, con una chiara opzione ideologica, che la Costituzione non vuole andare oltre l’eguaglianza nei punti di partenza ? Che il talento individuale (declinato in termini di intelligenza, spirito di sacrificio, intraprendenza, senso di responsabilità, accettazione di sacrifici, perseveranza, e così via) sia incoercibile è indubbio: il diritto positivo e men che meno la Costituzione possono costringere un individuo ad assecondare le proprie attitudini e a sfruttare le opportunità che si presentano di volta in volta. È, però, altrettanto indubbio che le concrete situazioni sociali al cospetto delle quali si materializza la gara della vita non necessariamente sfuggono alla azione regolatrice del diritto. Invero, non è così scontato che, una volta assicurata a tutti la partenza dalla stessa

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linea, il seguito della competizione si realizzi senza che riaffiorino privilegi, parzialità, favoritismi. Non è detto, in poche parole, che l’ambiente sociale sia strutturato in modo tale da garantire una competizione leale. Gli interpreti della Costituzione, nel cimentarsi con le sfide imposte dalla tumultuosa evoluzione della società, hanno concentrato l’attenzione sul solo secondo comma dell’art. 3, ricavando da esso una lettura che solo in parte coglie le potenzialità dell’intero dettato costituzionale. Trascurando, d’altro canto, che l’eguaglianza delle opportunità si è affermata, quale criterio-guida, in ordinamenti (e penso agli Stati Uniti) le cui Costituzioni non enunciano il principio di eguaglianza in senso sostanziale. Ciò dovrebbe portare a riflettere sui limiti generali di questa operazione interpretativa, che sconta una certa disattenzione verso la interazione tra princìpi avvinti dalla medesima aspirazione a sollecitare il cambiamento sociale in termini di effettivo ricambio della classe dirigente. Un ricambio che si attua riconoscendo alla promozione sociale la dignità di valore costituzionale scaturente dalla combinazione di più princìpi fondamentali. 2. Alla ricerca del fondamento costituzionale della promozione sociale: il rapporto con l’eguaglianza delle opportunità Si è detto che la promozione sociale si risolve nell’avvicinamento e, poi, nel raggiungimento delle classi dirigenti (i cd. centri di potere), ossia di quelle componenti della società che, a vario titolo e con attribuzioni più o meno rilevanti, detengono il potere di guidare il cammino del paese attraverso un insieme complesso e variegato di decisioni. Si ha, più precisamente, promozione sociale quando l’accesso a tale porzione della comunità interessa individui provenienti da altre componenti sociali. Il tasso di promozione sociale è tanto più elevato quanto più coinvolge persone provenienti dagli strati sociali meno prossimi al potere (la mobilità a lungo raggio). Il riconoscimento della promozione sociale quale valore costituzionale passa innanzitutto attraverso la rilettura del principio di eguaglianza sostanziale, come interpretato dalla dominante letteratura giuridica e come applicato nella giurisprudenza (non solo, ma soprattutto) costituzionale. La promozione sociale non annulla le diseguaglianze, anzi le presuppone. Essa, invero, si sviluppa all’interno di una società articolata non tanto in classi tra le quali si possa persino immaginare una relazione di tipo gerarchico (quanto meno in termini di prestigio sociale), quanto in contesti sociali che si differenziano tra di loro a seconda della distanza rispetto ai centri di potere. Piuttosto che immaginare una scala sociale, si potrebbe pensare ad una serie di cerchi concentrici, tutti equiordinati dal punto di vista spaziale: da quello centrale, che include i detentori del potere, via via a quelli periferici, dove la dimensione del potere diviene sempre più rarefatta fino a scomparire. Pur accedendo a questa impostazione strutturale – che, ribadisco, ha il pregio di inibire qualsiasi visione gerarchica dei rapporti sociali – resta il fatto che i consociati non sono eguali rispetto alla vicinanza al potere. Ciò è, del resto, coerente con la visione del potere dapprima illustrata, quale posizione di forza (cioè, di capacità di assumere decisioni rilevanti per le sorti del paese) per sua natura circoscritta ad un numero ristretto di consociati. La promozione sociale innesca un moto di avvicinamento al potere (al cerchio centrale), e ciò avviene a scapito di altri, ossia la maggioranza composta da coloro che rimangono estranei ai circuiti decisionali. E se ciò accade, allora significa che le diseguaglianze permangono. Il canone basilare dell’eguaglianza formale resta nondimeno integro ove la promozione sociale non sia perseguita in violazione dei limiti soggettivi indicati nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione. Ma ciò non basta. In effetti, potrebbe rivelarsi leso l’enunciato di cui al secondo comma. Ora, qual è il rapporto tra la promozione sociale e l’eguaglianza sostanziale declinata come eguaglianza nei punti di partenza ?

La risposta a questo interrogativo non è difficile. Per i teorici dell’eguaglianza delle opportunità questa è il fine da raggiungere. Secondo la tesi proposta in questa sede, invece, l’eguaglianza delle opportunità è uno dei mezzi (forse il prioritario) per garantire una società “più giusta”. Si ricordi quanto detto prima. Per la teoria dominante, il compito del diritto positivo e, segnatamente,d ella Costituzione è quello di garantire eguali opportunità. Secondo l’interpretazione qui sposata, occorre andare oltre.

La teoria classica ha colto il senso dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione tra i molteplici orizzonti sostanziali che detta disposizione svela. Proclamando che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli ivi previsti, la Carta fondamentale illumina la mèta da conquistare affinché la società non sia gravata da disparità in grado di minarne le fondamenta. Questa impostazione teleologica si riverbera sulla ricerca del senso da assegnare all’enunciato oggetto di interpretazione. Nella pluralità dei significati che esso esprime, è stato estratto quello più vicino agli altri princìpi costituzionali. Pertanto, garantire a tutti, indipendentemente da

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pregresse condizioni di svantaggio, la possibilità di intraprendere le diverse sfide della vita sociale è il traguardo verso cui debbono tendere le istituzioni repubblicane.

Così ragionando, però, la teoria classica finisce col segnare il confine oltre il quale la Costituzione, attraverso le sue multiformi modalità di inveramento, non può spingersi, se non a costo di tradire il proprio ruolo invadendo la sfera di autonomia delle relazioni sociali. Una volta conseguito questo equilibrio, che corregge le imperfezioni determinate dalla diseguale distribuzione di fatto delle chances, il diritto si arresta, lasciando che siano le libere dinamiche sociali (non solo quelle in senso stretto, ma anche quelle economiche, politiche, culturali) a decretare le fortune individuali.

Questo ordine di idee cui accede la teoria classica è la risposta al paventato rischio che in alternativa alla eguaglianza delle opportunità non possa che esserci l’eguaglianza di risultato o nei punti di arrivo.

Ebbene, la proposta teorica formulata in questa sede aspira a dimostrare la fallacia di questa alternativa secca. Tra l’eguaglianza delle opportunità e l’eguaglianza dei risultati vi è un percorso di affermazione delle individualità dei consociati all’interno del quale è possibile, nelle forme e nei modi che verranno successivamente descritti, favorire la promozione sociale. Per farla breve: tra la linea di partenza ed il traguardo vi è un percorso, più o meno complesso e articolato, in cui gli svantaggi che si pensava di aver emendato (nella logica dell’eguaglianza di chances) si ripresentano e finiscono coll’alterare il corretto svolgimento della competizione. Ed è lì che gli istituti della promozione sociale sono destinati ad operare con interventi correttivi, senza che ciò comporti la predeterminazione imperativa, da parte dei pubblici poteri, del risultato finale. La promozione sociale non può, comunque, prescindere dall’eguaglianza delle opportunità. È sin troppo intuitivo che assicurare le medesime opportunità di affermazione diventi una condizione indefettibile affinché la strada verso la promozione sociale non sia lastricata di ostacoli e impedimenti. La promozione sociale, nel senso qui accolto, risulterebbe viziata in origine se l’accesso ai centri di potere fosse già in partenza riservato ad un circolo ristretto di consociati, scelti non in ragione di propri meriti e attitudini, bensì alla stregua di altri criteri selettivi inconciliabili con una società “giusta”. E, così, chiunque ne coltivi l’interesse e l’aspirazione, pur gravato da pregressi fattori di sfavore, potrà contare su interventi correttivi volti a riequilibrare le sorti dei diversi concorrenti. Sicché, il patrimonio di norme, istituti, provvedimenti, avvinti dalla comune matrice dell’eguaglianza sostanziale, intesa come eguaglianza delle opportunità, diviene la premessa per intraprendere il cammino verso la promozione sociale.

Ciò, però, comporta che la parità nei punti di partenza sia la premessa, e non l’esito, dell’azione dei pubblici poteri. Perché tale condizione possa essere soddisfatta è necessario rileggere la stessa disposizione costituzionale che racchiude il suddetto principio, al fine di individuare elementi che promuovano una lettura combinata con altri princìpi costituzionali. Oltre, ovviamente, a ribadirne la «ampiezza enorme dell’orizzonte operativo». In effetti, la teoria dell’eguaglianza delle opportunità tende a mettere in risalto il compito assegnato alla Repubblica. La rimozione degli ostacoli finisce coll’essere percepita come l’essenza dell’azione riequilibratrice dei pubblici poteri, dove però fine e mezzi tendono a confondersi. Al contrario, il secondo comma dell’art. 3 dice ben altro. Gli ostacoli da eliminare sono quelli che limitano di fatto non solo la parità di trattamento di tutti davanti alla legge, ma anche l’effettivo godimento delle libertà fondamentali. L’eguaglianza e la libertà dei consociati non sono valori a sé stanti. La loro limitazione di fatto è di impedimento a due momenti essenziali di realizzazione individuale: il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Il pieno svolgimento della personalità non è che l’oggetto del principio personalista, innervato dalla dignità umana e consacrato nell’art. 2 della Costituzione. L’effettiva partecipazione alla vita comunitaria, dal canto suo, è il risvolto positivo del principio democratico posto a fondamento delle istituzioni repubblicane, corredato dai princìpi del pluralismo e della partecipazione. Prima di procedere oltre, si osserva che gli aggettivi enunciati nella disposizione in parola indirizzano l’opera di interpretazione verso una soluzione che sia autenticamente in grado di esaltarne le potenzialità. Pienezza ed effettività, oltre a riflettere l’incidenza che su tali qualità o condizioni sociali esprime la realtà, alludono ad una prospettiva che valorizzi l’esito delle diverse modalità di intervento dei soggetti cui quali grava l’obbligo di rimozione degli ostacoli. Lo sviluppo della persona umana può considerarsi “pieno” se e solo se l’individuo è stato messo davvero nelle condizioni di sfruttare al meglio le proprie attitudini ed il proprio talento. La partecipazione alla vita comunitaria può considerarsi “effettiva” se e solo se davvero il singolo ha

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avuto occasione di misurarsi con il potere e di dare il proprio contributo grazie alle proprie capacità ed al proprio impegno. Questo non significa perseguire una inimmaginabile eguaglianza nei punti di arrivo. Significa immaginare azioni di sostegno affinché la riduzione del divario, garantita al momento della partenza, non venga meno a causa del riaffiorare, in altre forme e con altre modalità espressive, delle pregresse situazioni di svantaggio. E questa è la strada illuminata dalla promozione sociale. 3. Promozione sociale, principio personalista, pari dignità sociale Lo sviluppo della personalità è il fine perseguito dall’art. 2 della Costituzione. Il secondo comma dell’art. 3, per parte sua, esige il “pieno” svolgimento della personalità.

Il principio personalista, quale matrice dei diritti fondamentali, pone la persona al centro delle istituzioni preposte dall’ordinamento giuridico alla realizzazione dei fini generali di pacifico svolgimento delle relazioni tra consociati. Citare Kant è d’obbligo: la persona non come mezzo al servizio del potere, ma come fine in sé (Zweck an sich) dell’azione delle istituzioni. E, più di recente, l’intuizione kantiana è stata ripresa da altri autorevoli studiosi del diritto costituzionale: così, per Onida, «non la persona è per lo Stato (…), ma lo Stato è per la persona».

La persona rileva quale perno attorno al quale ruota l’ordinamento, con il suo irriducibile e infungibile patrimonio di idee, di esperienze di vita, di attitudini, di progetti, di speranze. La Corte costituzionale ha affermato che, con la consacrazione del principio personalista, la Carta fondamentale riposa sul «riconoscimento di quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della personalità umana: diritti che appartengono all’uomo inteso come essere libero». Le capacità sono poste al servizio della persona per la realizzazione individuale. Il diritto positivo supporta tali aspirazioni con il riconoscimento di diritti, pretese, facoltà, ossia con situazioni giuridiche soggettive preordinate al soddisfacimento dei rispettivi interessi, materiali e immateriali. Ciò significa che «ogni uomo, in qualunque posizione sociale si trovi inizialmente, dev’essere messo in grado di avere pari opportunità di autorealizzazione».

Del resto, la centralità della persona traspare nitidamente dal nesso che lega gli artt. 2 e 3 della Costituzione, la cui combinazione per un verso esclude le concezioni rigidamente individualiste del pensiero liberale, e, d’altro canto, nega diritto di cittadinanza alle concezioni collettiviste del pensiero marxista.

Se un individuo non si prefigge, quale mèta da raggiungere, l’accesso ai centri di potere, reputando sufficiente condurre una vita orientata verso altri obiettivi, allora nessun problema. La prospettiva cambia, all’opposto, se la promozione sociale anima le scelte esistenziali di una persona. Se il talento, l’impegno, lo spirito di sacrificio, non trovano riscontro nei fatti, allora il principio personalista, inteso come canone dell’autorealizzazione, risulta infranto.

Ridurre questa eventualità alla mera combinazione sociale di elementi sfavorevoli all’individuo è semplicistico, e contraddice la portata giuridica del principio personalista. Questo principio, infatti, non è un diadema filosofico destinato ad ornare i discorsi sulla realizzazione della personalità umana. Esso stesso è matrice e fondamento di pretese, variamente qualificabili, che l’ordinamento giuridico riconosce ai singoli per appagare i rispettivi bisogni, anche di affermazione e, dunque, di promozione sociale. Così, ad esempio, il conseguimento di un titolo di studio legittima la partecipazione a procedure selettive rispetto alle quali i candidati vantano pretese giuridicamente rilevanti, sia pure di interesse legittimo. La vittoria di un concorso è una forma di svolgimento della personalità, oltre che, in ipotesi, anche il primo passo per l’ascesa sociale.

Si è portati a ritenere che già il raggiungimento di una laurea o, persino, di un dottorato di ricerca («i gradi più alti degli studi», come recita il terzo comma dell’art. 34 della Costituzione), sia una forma di sviluppo della persona umana. E questo è innegabile. Ma la Costituzione reclama il “pieno” svolgimento della personalità. L’apice della carriera scolastica non è che il trampolino per procedere oltre. Il titolo di studio può essere davvero la premessa dell’autorealizzazione solo se il singolo ha la possibilità di trarne i benefici legittimamente attesi, ossia quelli oggettivamente correlati a quel tipo di attestato. Il che non significa che tutti debbano conseguire il risultato prefissato. Significa, piuttosto, costruire un sistema di garanzie e di rimedi a che il merito individuale trovi un puntuale riscontro. E – come si è detto più volte – questo apparato protettivo non può contare solo sull’idea dell’eguaglianza delle opportunità.

Ad ulteriore conferma di tale ragionamento, soccorre un ulteriore elemento di riflessione: la promozione sociale è un fattore di sviluppo della personalità che esalta la dignità dell’uomo.

È diffuso il convincimento che la base dei diritti fondamentali, in chiave personalistica, sia la dignità. Essa viene percepita, in effetti, come « il punto di partenza: e la sua salvaguardia costituisce il fine di tutte le società umane».

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Questo entusiasmo non cela un certo grado di inafferrabilità della dignità sul piano giuridico, trattandosi di un concetto potenzialmente in grado di assorbire i contributi di senso offerti da una svariata gamma di ambiti disciplinari e culture. La dignità è, comunque, entrata in non pochi ordinamenti accedendo dall’ingresso principale. Per tutte si pensi alla la previsione dell’art. 1, primo comma, della Costituzione tedesca del 1949, a mente del quale «die Würde des Menschen ist unantastbar». In ambito internazionale, la dignità è oggetto di esplicite previsioni nello Statuto delle Nazioni Unite del 1945 e nella di poco successiva Dichiarazione generale dei diritti dell’uomo sottoscritta a New York nel 1948. In tempi più recenti, l’art. II-61 del Trattato costituzionale europeo ha sancito l’inviolabilità della dignità umana, imponendone il rispetto e la tutela. Il riconoscimento di una qualità, giuridicamente rilevante, che sintetizzi l’essenza della persona non è che la reazione rispetto ad assetti totalitari che hanno profondamente lacerato la dimensione più intima delle persone. È la reazione forte a regimi che hanno strumentalizzato gli esseri umani per l’affermazione di interessi “superiori”, sino a sottometterli a forme di mortificazione, di degrado e di sopraffazione espressive di un odioso senso di disprezzo per il genere umano.

La dignità umana è, così, entrata a pieno titolo tra i princìpi fondamentali dei sistemi costituzionali che la prevedono e, dunque, non sorprende l’uso importante che di essa ha fatto soprattutto il Bundesverfassungsgericht. E, anche laddove difetti un esplicito riconoscimento, si assiste ad una sua graduale emersione. In Italia, in particolare, la dignità umana è stata invocata in relazione ad eccezioni d’incostituzionalità su disposizioni legislative destinate ad incidere su «beni essenziali della vita» o sul diritto alla libera autodeterminazione in campo sessuale.

La dignità umana tende ad esprimere le proprie potenzialità soprattutto in una prospettiva relazionale. Essa è, in effetti, evocata nei contesti in cui l’individuo instaura rapporti con gli altri consociati, proiettando così la propria personalità oltre i confini della propria sfera interiore. In questo senso, la dignità riesce a denotare la posizione del singolo all’interno dell’ambiente in cui vive e opera quotidianamente.

La dignità, a cagione della sua estrema latitudine sostanziale, finisce col rispecchiare le concezioni invalse in seno alla specifica comunità e da queste essa acquista una peculiare identità. Invero, la dignità umana «racchiude una carica assiologica idonea a sprigionare la sua forza qualificatoria per tutto l’ordinamento». Il contenuto della dignità è, dunque, fortemente influenzato dalla struttura ideologica dei rapporti sociali ed economici.

Il liberalismo esalta il senso di responsabilità e di intraprendenza dell’individuo in quanto artefice del proprio destino. La dignità dell’uomo connota così la capacità dell’individuo di elevarsi sugli altri e di conseguire risultati, socialmente rilevanti, di ricchezza e di prestigio. Per realizzare il valore della dignità, le politiche liberali cercano di favorire al massimo l’emersione di tali attitudini individuali. Sicché, “degno” è l’uomo che raggiunge i più alti livelli di promozione sociale.

Nell’assecondare le ragioni della dignità la socialdemocrazia, atteso il profondo divario tra ceti sociali, acclama gli ideali di equità e di giustizia sociale. Le istituzioni pubbliche interpretano i bisogni manifestati dalla collettività e ad essi fanno fronte con politiche attive di intervento. Pertanto, “degno” è l’uomo che aspira a migliorare la propria condizione sociale anche invocando e usufruendo del sostegno dispensato dai pubblici poteri.

Non è, pertanto, difficile cogliere le implicazioni di tali approcci ideologici sul piano giuridico: basti solo por mente al bilanciamento tra le ragioni dell’impresa e quelle dei dipendenti, anche alla luce dell’art. 41 della Costituzione che, tra i limiti alla iniziativa economica privata, annovera proprio la dignità. Ebbene, la promozione sociale è una forma di realizzazione della dignità. Detto altrimenti, la mancata promozione sociale, pur in presenza dei presupposti, è una mortificazione della dignità. Questo vale sicuramente se della dignità se ne illumina la dimensione interiore. Il singolo si realizza attraverso l’ascesa sociale. I suoi sforzi trovano compimento nel raggiungimento di una condizione migliore, che gli consente di condividere l’assunzione delle decisioni rilevanti per le sorti del paese. Il suo bisogno di dignità è appagato grazie alla corrispondenza effettiva tra l’impegno profuso ed i risultati conseguiti. Quanto alla dimensione relazionale, invece, non bisogna dimenticare che, in forza del primo comma dell’art. 3 della Costituzione, tutti hanno «pari dignità sociale». Si è detto che la promozione sociale presuppone le diseguaglianze. Non le elimina, ma ne inibisce la carica negativa premiando il talento e l’impegno dei singoli. La promozione sociale sottintende una articolazione sociale, ma questa – come si è visto – per essere costituzionalmente sostenibile non può avere una conformazione gerarchica. Ed è proprio in relazione a questo requisito strutturale che si palesa il principio della pari dignità sociale. Al cospetto di tale principio, tutti i consociati sono egualmente degni dal punto di vista sociale, senza che rilevi la circostanza che solo alcuni hanno accesso ai centri di potere.

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La pari dignità sociale è il ponte che collega i due commi dell’art. 3, tanto da avvalorare l’ipotesi che tra le due dimensioni dell’eguaglianza vi sia un continuum: la pari dignità sociale è «espressione del pregio ineffabile della persona umana come tale». La consacrazione della pari dignità sociale comporta «una parificazione dei valori riconosciuti ai singoli membri della comunità». Eguale dignità sociale di tutti attraverso l’azione dei pubblici poteri finalizzata a rimuovere gli ostacoli che si frappongono a tale parità. Invero, è imposto allo Stato «di operare contro situazioni economiche, culturali e morali degradanti, e che giustificherebbero che alcuni cittadini siano considerati indegni del trattamento sociale riservato alla generalità degli altri cittadini». Così intesa, la pari dignità sociale non esprime soltanto una idea di preservazione passiva della identità degli individui, che può essere compromessa tanto da condizioni di indigenza, quanto da atteggiamenti di disprezzo o di discredito sociale ad opera degli altri consociati. Letta congiuntamente al principio di eguaglianza sostanziale, la pari dignità sociale rivela una proiezione dinamica verso la piena realizzazione delle persone, in un contesto che non distingue tra ruoli o posizioni quanto alla condivisa appartenenza di tutti alla comunità. Così, la consacrazione costituzionale del principio di pari dignità sociale determina non solo l’imposizione, in capo al legislatore, dell’obbligo di rimuovere le disparità di fatto che si frappongono alla «effettiva parità sociale fra i cittadini», ma anche la «immediata garanzia (che prescinde dunque dall’intervento pubblico, anche da quello del legislatore) di strumenti giuridici strettamente operativi per una prima attuazione del precetto costituzionale». La socialità non si concretizza, dal punto di vista giuridico, nella sola predisposizione di misure, per lo più sanzionatorie, atte a presidiare l’integrità complessiva di una persona avverso molteplici forme di aggressione alla reputazione ed all’onore. Di più, in un sistema costituzionale informato a princìpi di giustizia sociale, la socialità presuppone l’intervento positivo delle istituzioni pubbliche affinché, attraverso l’esercizio delle libertà fondamentali, le persone possano assecondare le proprie aspirazioni puntando a risultati di ascesa sociale. L’Assemblea costituente ha, infatti, ripudiato la nozione «depurata» di eguaglianza (vale a dire quella classica del pensiero liberale) per accedere ad una concezione più pregnante, volta a «riconoscere un diritto al cittadino che ambisse a qualche concretezza in tema di pariordinazione dei componenti la comunità». In sintesi. La promozione sociale riposa, innanzitutto, sul principio personalista, letto alla luce del canone fondamentale della pari dignità sociale, in quanto esprime la condizione di chi, assecondando i propri talenti e impegnando le proprie risorse, ha perseguito il proprio percorso di autorealizzazione in seno alla comunità accedendo al contesto in cui si assumono le decisioni rilevanti per le sorti del paese. 4. Promozione sociale e democrazia Nel determinare l’accesso alla cerchia ristretta di soggetti preposti alla assunzione delle decisioni fondamentali per la vita di uno Stato, la promozione sociale rappresenta, anche intuitivamente, un elemento imprescindibile per l’ottimale funzionamento di un sistema democratico. Soccorre subito una precisazione. Quando si parla di democrazia il pensiero va immediatamente alla sovranità popolare, alle istituzioni della rappresentanza politica, alla forma di governo: in una parola, al potere politico. In realtà, come si avrà modo di precisare ulteriormente, il tema della promozione sociale abbraccia l’intera organizzazione di una comunità statale, e non solo l’apparato autoritativo. Pertanto, il riferimento alla democrazia, pur indirizzato prioritariamente alla sua sede naturale, assume un senso più esteso quale principio cardine dello Stato inteso nella sua poliedrica conformazione di struttura complessa di potere politico, sociale, economico, culturale.

La democrazia apre le istituzioni e, dunque, il potere, al popolo e ad esso ne consegna le chiavi e le regole per attivarne la funzionalità. Il riferimento al popolo allude ad una piena apertura a coloro che fanno parte di una data comunità organizzata in Stato. Certamente, l’imputazione del potere al popolo preclude soluzioni organizzative destinate ad esaltare le virtù di pochi e a perpetuare le relative investiture secondo logiche oligarchiche o di chiusura ad elementi estranei.

Le condizioni minime per una democrazia ottimamente funzionante sono note: eguale godimento dei diritti politici; eguale peso del voto; libero convincimento dei singoli elettori; libera competizione elettorale secondo cadenze temporali predefinite; pluralità di partecipanti alla competizione; principio di maggioranza, corredato da adeguate garanzie per le minoranze. La democrazia è innanzitutto una questione di forma. Essa, infatti, esige l’allestimento di procedure che consentano di soddisfare le predette condizioni minime. La procedimentalizzazione dei meccanismi democratici è garanzia di rispetto delle sue prescrizioni basilari. Ciò vale nella fase della scelta dei rappresentanti (presentazione dei candidati e delle liste elettorali, elezioni, proclamazione dei risultati con la

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conversione dei voti in seggi), e ciò vale anche in seguito, in relazione cioè al funzionamento delle istituzioni che incarnano l’ideale democratico e lo traducono in uno strumento operativo. È, così, democrazia, ad esempio, il confronto dialettico tra maggioranza e opposizione nel procedimento legislativo.

La democrazia, però, è anche sostanza. Invero, «una democrazia non solo formale implica che tutti i cittadini siano messi effettivamente in grado di esercitare i poteri che spettano al popolo». Per rendere effettiva la partecipazione all’organizzazione politica del Paese, oltre ad assicurare gli strumenti a ciò deputati come l’associazionismo politico e la libera manifestazione del pensiero, è necessaria «la costruzione di un assetto economico-sociale nel quale tutti abbiano l’effettiva possibilità di sviluppare la propria personalità e di partecipare alla vita collettiva». Il principio di eguaglianza è uno dei pilastri del sistema democratico. Esso si declina, sul versante della scelta dei governanti, nell’eguale diritto di tutti coloro che presentano determinate ed essenziali caratteristiche (cittadinanza, età, godimento dei diritti civili e politici) di votare e di essere eletti.

Quanto all’elettorato attivo , il suffragio universale ha reso l’ordinamento coerente con il canone generale dell’eguaglianza. Quanto all’elettorato passivo, è forse lì che si annidano i rischi maggiori in ordine all’effettiva partecipazione ed al pieno sviluppo della personalità. È ben vero che dal punto di vista giuridico il rispetto del principio di eguaglianza impone di assicurare a tutti parità di chances nelle sfide elettorali. Ma l’esperienza dimostra come ciò non sia sempre sufficiente. Pur non essendo sulla carta precluso, se non a coloro che non hanno i requisiti basilari richiesti dalla Costituzione, l’accesso alle cariche elettive finisce di fatto col richiedere il possesso di condizioni, personali e sociali, che non sono appannaggio di tutti. È ben vero che il criterio del censo è stato abbandonato da un pezzo. Tuttavia, l’istruzione, l’esistenza di reti familiari e sociali consolidate e ramificate, il possesso di significative risorse finanziarie, sono alcuni tra i fattori che, in concreto, condizionano le opportunità di realizzazione individuale in questo ambito.

Ancora una volta il principio di eguaglianza sostanziale mira a rendere effettivo il godimento di tale diritto stimolando una azione di riequilibrio delle concrete possibilità di effettiva partecipazione attiva. Una democrazia può definirsi sostanziale quando qualsiasi consociato, a prescindere da pregresse condizioni di svantaggio, è in grado di assecondare le proprie aspirazioni e inclinazioni accedendo alle cariche politiche. Del resto, l’interazione tra dimensione formale e dimensione sostanziale della democrazia è già emersa, in qualche misura, nella trattazione relativa alla teoria delle élites.

Si è avuto modo di ricordare, infatti, come questa teoria sia nata quale reazione polemica al democratismo egualitario, rispecchiando il timore delle classi dirigenti di perdere il loro ruolo egemone specie negli Stati in cui più intensi stavano diventando i conflitti sociali. L’elitismo, chiaramente influenzato dalla lezione darwiniana, esalta la selezione come metodo di evoluzione sociale. Nelle originarie versioni, le teorie elitistiche mirano a svelare l’inganno democratico, nel tentativo di dimostrare che le rivoluzioni non sono altro che avvicendamenti al potere da parte di minoranze. Nel tempo, la rigidità di questa impostazione teorica ha lasciato il posto a versioni meno intransigenti. Anche un sistema basato sulle élites può essere democraticamente sostenibile, a condizione che l’accesso alla classe dirigente non sia sostanzialmente precluso ai consociati: invero, formalmente non lo è mai, in nome dell’eguaglianza appunto formale. In pratica, la democrazia non è incompatibile con le élites: ciò che rileva è il procedimento di selezione delle stesse. Se questo è aperto, e non invece circoscritto a poche fazioni sociali, allora l’ideale democratico risulta appagato. La promozione sociale, dunque, riposa sul principio democratico nella misura in cui rappresenta il canale attraverso il quale l’accesso al potere politico non sia il frutto di atteggiamenti elitari da parte di sodalizi circoscritti di individui, che si trasmettono le rispettive posizioni in virtù di legami familiari o di intesa e radicata affinità sociale e culturale. Un essenziale momento di inveramento della democrazia sta proprio nei meccanismi di selezione delle classi dirigenti. La promozione sociale, in quanto tecnica di selezione aperta a tutti, diviene perciò una condizione indefettibile di democrazia. Non vale opporre, a questo ordine di considerazioni, l’irrilevanza di questi meccanismi fattuali di reclutamento dell’élite in quanto estranei alla capacità di controllo da parte del diritto. Invero, la consacrazione dell’eguaglianza in senso sostanziale dimostra esattamente il contrario quanto alla rilevanza giuridica di fatti che si frappongono al pieno sviluppo della personalità ed alla effettiva partecipazione alla vita comunitaria. Le pagine di Kelsen sulla democrazia confermano la fondatezza di questo assunto. La democrazia è una tecnica di allocazione e di esercizio del potere in un sistema orientato verso la protezione delle libertà fondamentali. Democrazia e libertà possono entrare in conflitto nel momento in cui si profila la necessità di imporre regole che inevitabilmente limitano le predette libertà: «l’ideale libertario della democrazia, cioè assenza di un potere e assenza di capi, non è realizzabile neppure in via di approssimazione». Invero, «la realtà

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sociale è (…) potere e comando. Si può solo discutere come si debba formare la volontà sovrana, come debba essere creato il capo».

Da un altro punto di vista, appare evidente come il valore della promozione sociale consenta alla democrazia di maturare la propria essenza di pietra angolare di un assetto che favorisca autenticamente l’affermazione e l’affinamento del principio della sovranità popolare. Se le istituzioni repubblicane sono impegnate a sostenere l’ascesa sociale, attraverso misure che, pur senza garantire il risultato, vadano oltre la mera eguaglianza delle opportunità, il popolo detentore della sovranità e, dunque, artefice e protagonista della democrazia, è davvero il popolo complessivamente inteso, e non solo una minoranza “illuminata” dello stesso.

È noto che la democrazia riposa, tra l’altro, su di una «identità fittizia di elettori e di eletti». Il popolo esercita la propria sovranità attraverso rappresentanti scelti con sistemi elettorali informati al principio democratico. È questa una finzione, che serve a conferire una forte base di legittimazione a tale sistema. Per renderla meno artificiosa di quanto non lo sia per sua natura, è necessario che vi siano le condizioni effettive per un avvicendamento o, quanto meno, che la rotazione non sia già in partenza preclusa a cagione di ostacoli frapposti da chi detiene il potere. Per garantire la tenuta di tale finzione, la promozione sociale opera affinché il rapporto tra rappresentanti e rappresentati abbia una struttura circolare, tale da garantirne processi di interazione e di scambio reciproco. Il ricambio della classe politica, quale elemento fondamentale di un sistema democratico, trae così linfa dalla promozione sociale.

Questa finzione riposa sugli istituti della rappresentanza politica, «vero cuore delle democrazie moderne». È per il tramite dei rappresentanti che il popolo sovrano esprime la propria volontà, attesa l’impossibilità reale di conciliare la complessità della struttura sociale con l’assunzione diretta delle decisioni politiche dello Stato. Così, la rappresentanza si atteggia a «ineludibile punto di partenza di qualunque accettabile e realistica teoria della forma di governo».

Come comprovato dall’esperienza degli ultimi anni, anche la rappresentanza politica può entrare in crisi, trascinando con sé la democrazia. Numerosi fattori alimentano la crisi del rappresentato, quali l’incapacità dei partiti di comunicare con la società, i ripetuti fallimenti di una classe politica attraversata da scandali e promesse non esaudite, il divario sempre più crescente tra l’agenda politica e le concrete sollecitazioni provenienti dalla comunità, senza dimenticare lo scadimento del linguaggio politico e l’uso spesso distorto e strumentale dei mezzi di comunicazione di massa.

Alla base di questa disaffezione verso il ceto politico (quella che l’informazione politica passa sotto il nome non certo edificante di “casta”) vi è, tuttavia, un altro elemento di criticità.

La rappresentanza è essa stessa una forma di selezione. Essa finisce col creare un divario tra la massa degli elettori ed il circolo ristretto dei rappresentanti. Già tanto tempo addietro si diceva che la democrazia rappresentativa determina l’affermazione di una «majorité parmi les capables». Se nasce come selezione, e nondimeno si perpetua con modalità tali da garantire la permanenza della carica nel tempo, la rappresentanza finisce col rafforzare l’esclusività del gruppo detentore del potere, a scapito della vasta congerie di consociati che aspirerebbero a divenire essi stessi rappresentanti del popolo. Se tutto ciò si coniuga con la progressiva vanificazione degli istituti della responsabilità politica, ecco che l’involuzione della rappresentanza in forma di conservazione del potere può considerarsi compiuta.

Ebbene, affinché questo processo possa interrompersi, imboccando un percorso di maturazione della democrazia, è necessario che si rivitalizzi l’eguaglianza sostanziale reinterpretandola in chiave di promozione sociale. Questo determinerebbe l’apertura del gruppo dei rappresentanti favorendo il ricambio della classe dirigente. E ciò, appunto, in nome di una non simbolica attuazione del canone dell’eguaglianza, avverso forme di privilegio e di conservazione del potere: «la forma di governo rappresentativa saprà liberarsi di questi originari tratti caratterizzanti soltanto quando verrà pesantemente “contaminata” dal principio di eguaglianza».

Ancora una volta Kelsen ricorda come sia «caratteristico della democrazia reale un movimento di ascesa dalla collettività dei governati al posto di comando». Diversamente dai regime autocratici, nelle democrazia si assiste ad «un sostanziale ampliamento del materiale posto a disposizione per la scelta, cioè delle personalità che concorrono al posto di comando». E questo metodo potrebbe garantire «l’ascesa dei migliori». Vedremo più avanti il legame tra la promozione sociale e i due ingredienti fondamentali della democrazia, vale a dire il pluralismo e la partecipazione. Prima, però, soccorre una integrazione a quanto detto sin qui.

In effetti, l’attenzione rivolta alla democrazia, nella ricerca delle basi costituzionali della promozione sociale, potrebbe determinare una contrazione dello spazio di indagine al solo potere politico. Il principio democratico rimanda alle dinamiche della forma di governo, ai sistemi elettorali, agli istituti della rappresentanza politica.

In realtà, la democrazia è un principio che non informa soltanto l’assetto istituzionale di uno Stato.

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Il potere di tracciare il destino di uno Stato è frammentato in una pluralità di centri decisionali. Accanto alle istituzioni operano soggetti economici, istituzioni culturali, in generale organismi sociali che, in misura più o meno incisiva, condizionano sino a determinare gli stessi processi decisionali avviati in ambito istituzionale. È già stato ricordato il ruolo delle lobbies nei procedimenti legislativi. È altrettanto rilevante il peso assunto dai comportamenti dei soggetti finanziari nella elaborazione delle politiche di governo in campo economico. La mobilitazione dell’opinione pubblica, attraverso la stampa o gli altri mass media, può essere decisiva nella definizione delle preferenze espresse dagli elettori. In sintesi, la democrazia è divenuta un fenomeno complesso, in cui s’intrecciano elementi eterogenei in quanto attinti non solo dalla sfera istituzionale, propriamente detta, ma anche dagli altri settori strategici della vita di uno Stato. Lo avevano intuito già alcuni dei più recenti esponenti dell’elitismo, da Burnham che considerava tra i gruppi dominanti i soggetti detentori degli strumenti di produzione a Wright Mills, che parlava di una élite al potere composta di uomini che si trovano in posizioni cruciali della struttura sociale in cui sono accentrati gli strumenti del potere, la ricchezza, la celebrità. Pertanto, ragionare di democrazia e promozione sociale significa proiettarsi oltre i confini disegnati dal solo potere politico-istituzionale, per accedere ad un orizzonte composito, come complessa e multiforme è del resto la società. Innanzitutto, le relazioni sociali influiscono sui processi democratici nella misura in cui concorrono a determinare le risorse umane e materiali da investire nell’organizzazione politica. Le interazioni tra formazioni sociali possono determinare forme di emarginazione a danno di gruppi più o meno consistenti, e, nel contempo, possono sostenere spinte elitarie a vantaggio di aggregazioni limitate di consociati, pronti a difendere i loro privilegi. Affinché non vi sia la lesione del principio democratico, è necessario che queste dinamiche sociali siano depurate da simili sollecitazioni. Ne consegue che per il tramite della promozione sociale, l’accesso ai contesti comunitari in cui si gestisce il potere sociale diventa una delle condizioni perché una democrazia possa ben funzionare.

I rapporti economici, le transazioni finanziarie, i processi produttivi, dal canto loro, influenzano e, talora, orientano la vita democratica nella selezione dei governanti, nella stesura dei programmi elettorali, nella definizione dell’agenda politica. Perché la democrazia non sia vulnerata dall’azione di tali soggetti, è necessario che questi fenomeni di condizionamento siano contenuti entro meccanismi procedurali informati a canoni di trasparenza e accessibilità; che vi siano adeguate forme di controllo; che siano chiare le rispettive responsabilità; che, in definitiva, tutto ciò rientri nel circuito democratico del consenso popolare. Pertanto, attraverso la promozione sociale, e solo se questa è perseguita con adeguati mezzi, l’accesso al potere economico diviene una ulteriore forma di realizzazione del principio democratico. Infine, il potere culturale influisce sul potere politico attraverso il condizionamento dell’opinione pubblica. Affinché la democrazia non sia alterata da un uso distorto della libertà di informazione e di manifestazione del pensiero, è necessario che il «libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali» avvenga non solo in un clima di pluralismo e di rispetto reciproco, ma anche secondo modalità che favoriscano l’accesso ai mezzi di informazione senza barriere all’ingresso. Sicché, mediante la promozione sociale, l’accesso al potere culturale concorre ulteriormente a rinvigorire il principio democratico. 4.1. Promozione sociale, pluralismo, partecipazione La democrazia presuppone il pluralismo. Senza pluralismo, non può esservi democrazia. Anche per la Corte costituzionale il pluralismo «costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica».

Il pluralismo si risolve nell’integrazione democratica, e dunque egualitaria, delle molteplici realtà sociali. Il modello pluralista allude ad «una società composta da più gruppi o centri di potere, anche in conflitto

fra loro, ai quali è assegnata la funzione di limitare, controllare, contrastare, al limite di eliminare, il centro di potere dominante identificato storicamente con lo Stato».

Le società pluraliste sono «le società segnate dalla presenza di una varietà di gruppi sociali, portatori di interessi, ideologie e progetti differenziati ma in nessun caso così forti da porsi come esclusivi o dominanti e quindi da fornire la base materiale della sovranità statale». Quelle pluraliste sono società aperte, nemiche delle corporazioni.

Il pluralismo si manifesta innanzitutto sul versante politico, traducendosi nel confronto tra un numero non previamente determinato di formazioni e movimenti, impegnati nella ricerca del consenso popolare in occasione delle diverse e molteplici sfide elettorali. Consacrando il diritto dei cittadini «di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49) e, più in generale, tutelando la libertà di associazione (art. 18), la Costituzione innerva di pluralismo la struttura

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competitiva in cui si anima la conquista del potere politico. Il giudice delle leggi ha riconosciuto che il diritto di associazione, «più particolarmente quando si riferisce ai raggruppamenti a fini sindacali e politici, trova collocazione tra i cardini essenziali dell’ordine democratico». Ha scritto Elia che «nello stato democratico si realizza una organizzazione costituzionale della concorrenza pacifica per l’esercizio del potere. Questa concorrenza presuppone ovviamente una struttura pluralista e, sul piano politico, pluripartitica».

Il pluralismo, al cospetto del principio democratico che è cardine dell’intero sistema costituzionale, è destinato a pervadere anche gli altri spazi di potere. In ambito sociale, economico, culturale, si assiste ad una competizione, presidiata dal diritto, tra una molteplicità di soggetti, impegnati ad acquistare il consenso dei rispettivi interlocutori con la provvista di beni e prestazioni. Non è, invero, forzato parlare di “mercati” politici, economici, sociali, culturali, se con tale termine s’intende far riferimento, in funzione descrittiva, a luoghi o contesti nei quali si realizzano scambi tra più entità (individuali, ma il più delle volte collettivi) in vista del soddisfacimento di determinati interessi. Nel caso dell’economia ciò è scontato. Quanto alla politica, il rapporto tra competitori ed elettori ruota intorno ad una “merce” del tutto peculiare che è il voto. In ambito sociale e culturale non dissimile è la relazione che intercorre tra i diversi attori e la vasta platea di fruitori delle relative attività.

Stando così le cose, perché si abbia pluralismo è necessario che non vi siano barriere all’ingresso in tutti gli ambienti in cui assumono decisioni espressione di potere. Chiunque deve poter contare sulle proprie risorse per accedere ai vari “mercati” da protagonista e, dunque, non da semplice fruitore. E in questa cornice la competizione può assumere anche i tratti problematici dell’antagonismo tra forze contrapposte. La democrazia presuppone il confronto libero, anche lo scontro se necessario. Sostiene Pinelli che «una democrazia pluralista non solo ammette in linea di principio i conflitti che fondano e alimentano una società aperta, ma dispone di una varietà di istituzioni e circuiti decisionali utili a canalizzarli, a contemperarli reciprocamente, a trasformarne la natura o ad assorbirli nel tempo, senza scaricarne l’impatto su un solo punto del sistema».

Il pluralismo concorre, quindi, a ulteriormente fondare, sul piano costituzionale, il valore della promozione sociale, in un rapporto di mutua implicazione. Il riconoscimento, nella Carta fondamentale, del pluralismo sociale mira a favorire la socialità dell’individuo in vista della sua piena autorealizzazione: «e favorire lo sviluppo della personalità dei singoli significa (…) garantire loro la possibilità di essere parte attiva nella società». La promozione sociale favorisce il pluralismo nella gestione del potere, in quanto antidoto a fenomeni di gestione e trasmissione elitaria dei “posti di comando”, come li definisce Kelsen. Il pluralismo legittima l’azione dei pubblici poteri affinché siano rimossi ostacoli alla promozione sociale.

In un sistema democratico, «ciò che conta è che non vengano bloccati quei processi di mobilità sociale, di circolazione delle idee, di mutuo apprendimento di esperienze ritenuti intrinseci al pluralismo quale condizione di una società aperta». Del resto, in vista del superamento dell’assetto monoclasse dello Stato borghese, a suffragio rigorosamente circoscritto, i Costituenti hanno prefigurato una società interclassista e pluralista. La promozione sociale riposa, poi, sulla partecipazione, quale momento di emersione del principio democratico. La partecipazione rispecchia e conferma l’avvenuto rovesciamento di prospettiva nelle relazioni tra lo Stato e l’individuo. Quest’ultimo, infatti, non versa più in una condizione di soggezione rispetto al potere in quanto, esprimendo la propria libertà e autonomia, concorre egli stesso ad alimentare la vitalità dello Stato. Partecipando, il singolo consociato ribadisce l’intangibilità della propria sfera di autodeterminazione volitiva, nel senso che accetta le costrizioni poste dal diritto come forma di consapevole inclusione nel tessuto ordinamentale. Scrisse, infatti, Kelsen che «è politicamente libero chi si è sottomesso, sì, ma alla volontà propria, non alla volontà esterna».

Per molto tempo l’idea di partecipazione è stata abbracciata con timidezza. Secondo questa lettura minimalista si ha partecipazione quando soggetti diversi da quelli titolari del potere di provvedere prendono parte ai processi decisionali.

Questa visione serba intatto il divario tra i centri di potere e la massa indistinta di soggetti che, a diverso titolo, vantano solo un ruolo ancillare o passivo rispetto al procedimento di assunzione delle decisioni. Vi è chi decide e vi è chi sceglie coloro che decidono, vi è chi ratifica altrui decisioni o ne vanifica gli effetti in funzione di controllo.

Senonché, partecipare non significa solo esprimere la propria preferenza nel segreto dell’urna il giorno delle elezioni. Non significa solo timbrare il cartellino prima di iniziare una giornata di lavoro. Non significa solo leggere un quotidiano o assistere passivamente a trasmissioni televisive di informazione. Non significa solo iscriversi ad una associazione politica o ad una organizzazione culturale. Partecipare effettivamente,

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sviluppando in modo pieno la propria personalità, in un sistema democratico, significa essere protagonisti della vita politica, economica, sociale e culturale del Paese. E questo è reso possibile giustappunto dal valore della promozione sociale.

La piena partecipazione non allude al solo ritorno all’isegoria, intesa come «eguale possibilità di accesso all’arena o all’agorà del discorso». Essa significa qualcosa di più: concreta capacità di stabilire ancor prima l’oggetto su cui discutere in vista dell’adozione di future decisioni. E questo è reso possibile proprio dalla promozione sociale. La nostra Costituzione già, in qualche misura, persegue il fine della partecipazione, anche oltre l’enunciazione della stessa nel secondo comma dell’art. 3. E lo fa non solo in relazione al potere politico, ma anche relativamente ad altre molteplici forme di potere. Accanto agli istituti della democrazia diretta, si pensi alla previsione dell’art. 46 sulla collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. E pure lo sciopero può considerarsi una forma di partecipazione dei lavoratori alla determinazione dell’indirizzo politico. La stessa libertà di associazione, che favorisce il pluralismo attraverso la partecipazione (ma si potrebbe dire anche la partecipazione mediante il pluralismo), è supportata da azioni di sostegno da parte dei pubblici poteri che trovano una base di legittimazione nella stessa Carta fondamentale.

La partecipazione è, dunque, una necessità, costituzionalmente riconosciuta, destinata ad abbracciare tutti i contesti in cui si assumono decisioni vitali per il Paese. La tutela della persona umana, anche uti socius, e la consacrazione dell’eguaglianza in senso sostanziale sono, infatti, «principi fondamentali dell’ordinamento che indicano in modo inequivocabile che la partecipazione politica e sociale, quale contenuto essenziale della sovranità popolare, deve permeare non solo la società civile e l’economia ma anche le istituzioni partitiche, sindacali, il governo e la P.A.». Tuttavia, questa sensibilità verso le istanze partecipative rischia di naufragare travolta da spinte avverse alla promozione sociale. L’approssimazione ai centri di potere, da parte di coloro che partono da una condizione di svantaggio (uno degli ostacoli da rimuovere), consente proprio quella effettiva partecipazione evocata dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Si tratta, invero, «di realizzare una partecipazione “effettiva”, per un superamento della crisi della democrazia formale caratterizzata dal divorzio tra titolarità del diritto politico ed il suo esercizio». 5. La combinazione dei princìpi costituzionali a fondamento della promozione sociale La promozione sociale mira ad accompagnare il singolo verso l’accesso ai contesti (politici, economici, sociali, culturali) in cui si assumono le decisioni rilevanti per le sorti del paese. Essa, dunque, non è semplicemente mobilità (di breve o medio raggio) verso l’alto. È approssimazione progressiva verso gli ambiti nei quali si esercitano poteri, di natura ed intensità variabile, accomunati dalla condivisa attitudine a determinare lo sviluppo della comunità nazionale. La promozione sociale non assicura l’eguaglianza di risultato. Essa non è espressione di egualitarismo assoluto e radicale, in quanto riconosce l’intangibilità delle libertà fondamentali che, più di altre, riflettono l’impegno profuso dai singoli nelle rispettive attività. La promozione sociale presuppone così un sistema di diseguaglianze non confliggenti con il canone generale di eguaglianza formale di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione. La promozione sociale non tollera alcuna configurazione gerarchica della società, dal momento che tutti hanno pari dignità sociale, risultando incompatibile solo con forme illegittime di privilegio o di disparità di trattamento in relazione alle condizioni soggettive indicate nel citato enunciato costituzionale. La promozione sociale, nel contempo, non si risolve nel riconoscimento di una mera eguaglianza delle opportunità, in quanto obbliga le istituzioni ad accompagnare i singoli, nelle diverse forme di competizione sociale, verso il traguardo prefissato in modo tale da garantire il pieno riconoscimento delle capacità dimostrate e dei meriti acquisiti da ciascuno. L’esperienza insegna, e i dati sulla mobilità sociale di lungo raggio ne danno conferma, che le condizioni di svantaggio rimosse in occasione della partenza il più delle volte si rimaterializzano, anche sotto mentite spoglie, nel corso della gara della vita. L’impegno delle istituzioni repubblicane, basato sulla promozione sociale, è proprio quello di curare il corretto svolgimento della competizione, annullando gli effetti devianti di tali condizioni.

La promozione sociale è un valore in quanto esprime una concezione ideale dei rapporti sociali, complessivamente intesi, in vista della edificazione di una struttura che riconosca e valorizzi le risorse individuali, l’impegno profuso da ciascuno, il senso di responsabilità. In poche parole, la promozione sociale è la compiuta realizzazione del merito.

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La posizione del singolo dovrebbe essere tutelata dallo Stato in presenza di condizioni di bisogno. E a questa esigenza sovrintendo i diritti sociali. Se, tuttavia, la posizione individuale rileva come aspirazione al raggiungimento dei centri di potere, allora è il merito a dover orientare la mano delle istituzioni. È questa una affermazione scontata. La fortuna di una nazione dovrebbe essere determinata dalle capacità espresse in concreto dai suoi protagonisti. Le sorti di un paese dovrebbero essere gestite da quanti dimostrano di saper fare un uso sapiente, ottimale, efficiente delle risorse disponibili. Anzi, da quanti si dimostrano in grado di reperire nuove risorse. Il progresso di una comunità dipende dal talento e dall’impegno di chi si adopera per la sua crescita. È scontato che una organizzazione, grande o piccola che sia, deve funzionare bene: e il merito è l’ingrediente fondamentale. Senonché, si comincia a parlare di meritocrazia proprio quando questo criterio è abbandonato o entra in crisi: parlarne, infatti, dovrebbe essere superfluo in una società matura guidata da persone intelligenti e responsabili. In questo senso, dunque, la promozione sociale mira ad enfatizzare il ruolo del merito come esclusivo criterio di selezione delle classi dirigenti.

E non solo perché ce lo dice il buon senso o perché lo confermano studi e ricerche relative al funzionamento di strutture organizzative complesse. È così perché lo vuole la nostra Costituzione.

La promozione sociale è, così, un valore di rilievo costituzionale in quanto riposa sulla combinazione dei princìpi fondamentali di eguaglianza sostanziale, personalista, democratico, pluralista e di partecipazione.

Il principio di eguaglianza sostanziale impone alle istituzioni della Repubblica di mettere il singolo nelle condizioni innanzitutto di svolgere pienamente la propria personalità in vista dell’effettivo esercizio delle libertà fondamentali. L’esercizio di tali libertà, per essere effettivo, deve consentire al suo titolare di perseguire gli interessi ad esse sottesi. Se lo sviluppo della personalità deve essere pieno, allora il singolo deve poter contare sulle sue competenze e sul suo lavoro per poter assecondare le proprie aspirazioni: aspirazioni che sono legittime nella misura in cui, secondo i canoni di uno Stato che funzioni in maniera ragionevole e giusta e, soprattutto, nel rispetto della Costituzione, corrispondono all’effettivo livello di preparazione e di capacità dimostrate dal singolo.

La promozione sociale presuppone, pur senza sovrapporsi ad essa, l’eguaglianza delle opportunità, che viene perseguita attraverso l’attivazione dei diritti sociali. Eventuali condizioni di svantaggio iniziale sono così rimosse o fortemente circoscritte in modo tale da consentire a tutti di intraprendere la «gara della vita» senza il peso di altrui privilegi o favoritismi di diversa natura. La promozione sociale diviene, in questo modo, veicolo di realizzazione, e non di solo mero rispetto, della dignità umana, in quanto consente al singolo di realizzare le proprie aspirazioni in un contesto sociale disposto a riconoscere effettivamente il talento, l’impegno, lo spirito di sacrificio.

Come si è più volte detto, la prospettiva illuminata dalla promozione sociale non si arresta al solo riconoscimento di una eguaglianza nei punti di partenza. Il principio consacrato nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione si coniuga con il principio democratico così da imporre l’introduzione di modifiche strutturali al quadro normativo di riferimento atte a favorire il ricambio della classe dirigente, secondo meccanismi che permettano, per il tramite della promozione sociale, di promuovere l’accesso ai “posti di comando” anche di consociati appartenenti ai contesti sociali più lontani dalla gestione del potere.

Il vero salto di qualità rispetto all’idea dell’eguaglianza nei punti di partenza sta proprio nella consapevolezza che la selezione non può essere rimessa alle sole dinamiche sociali, nei vari settori, ma deve essere accompagnata e corredata da misure ed interventi, di varia natura e forza, che consentano di dare effettivo riconoscimento alla personalità come sviluppata, principalmente nel lavoro, da ogni consociato. Il sistema sociale della mobilità ha fallito, ed una inedita lettura dei princìpi costituzionali potrebbe emendarne gli errori e rimuoverne le contraddizioni.

Ancora, la promozione sociale affranca la democrazia dalla mera dimensione formale per conferirle una autentica proiezione sostanziale. E lo fa presupponendo l’eguaglianza sostanziale e andando oltre. In questo modo, anche la rappresentanza politica si atteggia meno a finzione e più a reale assetto relazionale tra governanti e governati. Diversamente, la democrazia entrerebbe in crisi e, con essa la stessa Costituzione, della quale di fatto ne verrebbe minata la legittimazione ad operare quale suprema fonte di ordine e di pace sociale.

La democrazia sostanziale presuppone non solo una pluralità di istanze che interagiscono e spesso si contrappongono, ma anche una circolazione effettiva tra le diverse forze sociali che animano quelle istanze. Nell’esigere l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, la Costituzione esclude che un destino avverso possa relegare alcuni consociati in una posizione passiva di meri spettatori di quanto accade, in termini di assunzione delle decisioni, nei diversi ambiti della vita comunitaria.

Invero, l’effettiva partecipazione reclamata dalla Carta fondamentale non è mera distribuzione della ricchezza. Essa concorre a realizzare una democrazia emancipante o inclusiva, come viatico, attraverso la

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promozione sociale, di un sistema che consenta alle persone di elevarsi affermando pienamente la propria autonomia e la propria individualità.

Una democrazia pluralista e partecipativa, basata sull’eguaglianza sostanziale, non tollera l’immobilità sociale. Quest’ultima, invero, non fa che consolidare situazioni di potere e di privilegio generando un profondo solco tra consociati. Una società immobile, o che non ha ancora raggiunto accettabili livelli di promozione sociale, è una società che, dal punto di vista costituzionale, non ha saputo accogliere i princìpi fondamentali connessi all’affermazione della persona come entità in grado di concorrere, con le proprie forze ed il proprio talento, allo sviluppo ed al benessere dell’intera comunità. La democrazia non è soltanto un principio di legittimazione del potere, ma è anche un fattore di crescita e di progresso dal momento che apre i contesti decisionali ad una platea non previamente determinata di potenziali protagonisti. Per non ridursi ad un sistema oligarchico, la democrazia vive di pluralismo, di effettiva partecipazione, di pari dignità sociale, di pieno svolgimento della persona umana, e la promozione sociale non fa che favorirne la capacità di stimolare la crescita di un popolo.

In altri termini, attraverso la promozione sociale, la democrazia pluralista e partecipativa, fondata sul canone generale dell’eguaglianza in senso sostanziale, può finalmente approssimarsi al proprio ideale di struttura ordinamentale idonea a promuovere l’autorealizzazione individuale e, con essa, una selezione autenticamente orientata verso il merito e la perseveranza dei singoli. Anche questa è una condizione indefettibile perché l’esercizio delle libertà fondamentali sia affettivo.

Il ricambio di idee, di prospettive, di orientamenti, che alimenta ogni sistema democratico maturo, è garantito dal fatto che, attraverso la promozione sociale, il principio personalista determina l’assunzione del pluralismo quale irriducibilità delle personalità individuali. Questa osservazione mitiga il rischio paventato da colui che, usualmente, viene ricordato come il primo studioso della meritocrazia. Michael Young immaginò la deflagrazione di un sistema retto da individui, scelti per quoziente intellettivo e per impegno profuso, a causa della rivolta delle masse contro l’élite: masse che contestavano ai governanti di essere troppo distanti dai problemi reali. La promozione sociale mira proprio a scongiurare questo rischio. Favorendo l’ascesa sociale di quanti sono nati in ambienti sociali lontani dal potere, la promozione sociale consente di selezionare una classe dirigente che conosce, perché li ha vissuti, i problemi da gestire e risolvere esercitando il potere.