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“IL GIOCO NEL BAMBINO (PRIMA PARTE)” PROF.SSA BARBARA DE CANALE

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Università Telematica Pegaso Il gioco nel bambino (prima parte)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 CONTINUITÀ VITALE DELL’ESPERIENZA LUDICA ------------------------------------------------------------- 3

2 PRELUDIO AL GIOCO COMPLESSO DELLA VITA --------------------------------------------------------------- 9

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Il testo di questa lezione è tratto da A. PERUCCA, B. DE CANALE, L’educazione dell’infanzia

e il futuro del mondo, Armando, Roma 2012; quanto riportato è estratto dagli scritti di Angela

Perucca. Al volume indicato si rimanda per ulteriori approfondimenti.

1 Continuità vitale dell’esperienza ludica

Il gioco è un fenomeno pervasivo nella vita del bambino, affiora, infatti, e si manifesta in

quasi tutte le condotte aprendo spazi impensati di libertà, di azione, di creatività e, soprattutto, di

senso. Per questo non è facile darne una interpretazione ed una spiegazione che ne valorizzi tutti gli

aspetti; per questo, le molteplici teorie del gioco, da quelle pedagogiche a quelle psicologiche,

etologiche e persino filosofiche, risultano interessanti e valide, ma insufficienti a cogliere il

fenomeno nella sua interezza.

Molto è stato detto sul gioco ed anzi qualcuno ritiene sia già stato detto tutto. Grande spazio è stato

dato al gioco come azione libera e preesercizio, come proiezione simbolica del desiderio o

dell’impulso e come sorgente delle prime regole di interazione sociale, come manifestazione di

creatività e di libertà ed anche come dimensione funzionale del bambino non meno che dell’adulto.

Quest’ultimo aspetto può introdurci ad una nuova linea di interpretazione del gioco che,

considerando il fenomeno nella sua universalità e nella sua integrale dimensione umana, sia in

grado di recuperare il contributo delle diverse teorie senza riduttivismi.

J. Huizinga sostiene che il gioco è un elemento di ordine e di tensione indispensabile al nascere ed

al crescere della cultura umana, la quale può, essa stessa, essere letta come gioco. Vi è una

“effettiva compenetrazione di gioco e cultura” che consente di “indicare il gioco stesso, autentico e

puro come base e fattore di cultura”1.

Considerare il gioco anche come elemento della vita sociale e culturale degli adulti, può aiutare a

leggere, fuori dagli schemi consueti, il gioco del bambino per scoprirvi una costante ricerca delle

possibilità di conferire senso agli eventi, di inserire intenzioni nella realtà e di costruire la

convivenza sociale.

1 Cfr. J. HUIZINGA, Homo ludens, tr. it. Einaudi, Torino 1973, pp. 8 e ss. Per certi aspetti, può risultare significativo che

l’opera sia stata pubblicata, per la prima volta, in lingua tedesca ad Amsterdam nel 1939.

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Non si tratta di operare una proiezione adultistica, ma di ricostruire la linea genetica che conduce

dal gioco di esercizio a quello simbolico, da questo a quello sociale e a quello culturale degli adulti,

cogliendone il comune denominatore funzionale.

La lettura psicologica del fenomeno ludico può essere condotta in chiave strutturale o in chiave

funzionale.

Se privilegiamo l’analisi delle strutture psicologiche che vengono coinvolte, le differenze nella

classica distinzione che viene fatta fra gioco di esercizio, gioco simbolico, e gioco con regole o

gioco sociale, si radicalizzano. Se invece operiamo una ricognizione funzionale, emerge un comun

denominatore che consente di leggere i fenomeni ludici lungo una linea di continuità e non di

discontinuità, e differenzia le varie manifestazioni ludiche della vita infantile ed adulta.

Anche la ormai classica distinzione del gioco infantile in gioco di esercizio, gioco simbolico e gioco

con regole, riconsiderata sotto il profilo funzionale ed evolutivo, più che strutturale, rivela la

continuità vitale della esperienza ludica del bambino.

All’interpretazione del gioco è importante accedere con un approccio globale più che con una

analisi distintiva delle diverse forme e manifestazioni della condotta ludica. Non interessa soltanto

classificare la gamma dei comportamenti, ma ricondurre a spiegazione unitaria, se pur complessa, la

loro interpretazione.

Utilizzeremo i più recenti contributi della ricerca psicologica per leggere l’intera gamma delle

forme ludiche, sullo sfondo della relazione che il bambino instaura con le cose, con se stesso e con

gli altri, come ricerca di padronanza e di senso, e di intesa sociale.

Nel gioco, il bambino può liberarsi dei vincoli normativi della realtà ed aprire all’agire gli orizzonti

della immaginazione; può creare nuovi vincoli e nuove condizioni, può esprimere un dominio sulle

cose e sul mondo che ancora non è in grado di gestire sul piano della realtà2. Egli non può ancora

puntare ad una padronanza tecnica o concettuale sul mondo, il suo tentativo di dominio magico e

verbale è effimero, non così la padronanza di senso.

Seguendo il progressivo emergere delle strutture motorie, percettive, linguistiche, intuitive, logiche

e socio-relazionali che caratterizzano lo sviluppo infantile è possibile cogliere l’unità funzionale ed

evolutiva delle varie forme ludiche ed il loro coerente contributo alla maturazione personale e

sociale del bambino.

a) Nel gioco di esercizio sono prevalentemente coinvolte le strutture della coordinazione motoria e

percettiva, il gusto del gioco sta nella ripetizione o nella imitazione, lo scopo è nella verifica di

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padronanza di una abilità. Lungo questo filone il gioco evolve dalla mera ripetizione ludica di un

gesto, fino all’esercizio di presa, di lancio o di equilibrio e dalla prestazione di sforzo o di

resistenza, sino alla prova motoria di tipo atletico e agonistico.

Quando si coniuga allo sviluppo di nuove strutture cognitive, si può spostare sul piano

dell’esercizio di abilità mentali in cui la dimensione motoria può essere più o meno implicata, come

ad esempio nei giochi con il domino, i puzzles, il meccano, ecc.

Questa linea di sviluppo sembra avere per comune denominatore la esigenza di una verifica di sé

che facilmente evolve anche in termini agonistici e competitivi; le strutture implicate sono strutture

motorie e percettive, via via anche cognitive, sia di tipo intuitivo che logico.

L’attitudine ludica si fa allora tendenza alla padronanza del mondo, alla gestione competente del

proprio rapporto con le cose, al controllo sulla realtà.

b) Nel gioco simbolico, che diventa possibile quando dal piano della percezione e della

rappresentazione mentale il bambino passa a quello delle immagini mentali ove il residuo percettivo

si carica di valenze simboliche in rapporto al vissuto personale, riscontriamo condotte molto diverse

da quelle del gioco di esercizio. Se quello appare come impegno a misurarsi con la realtà, questo

sembra invece volerla eludere, mistificare, alterare; acquista il carattere di finzione immaginifica, si

ricollega più alla dimensione affettiva che a quella cognitiva, fa emergere aspetti inespressi del

mondo interiore a scapito dell’aggancio alla realtà. Il Piaget definisce questo gioco “assimilazione

distorta” ed anche “pensiero egocentrico allo stato puro”3, coglie la frattura che in esso si verifica

fra gioco e realtà, sottolinea la prossimità che esiste fra simbolo ludico e simbolo onirico, anche se

avverte il diverso livello di coscienza che essi implicano.

Questo tipo di gioco appartiene al regno della fantasia, non a quello della conoscenza veridica;

risponde alle esigenze dell’Io più che alle istanze della realtà, ma non è pura evasione: il bambino,

infatti, anche quando è tutto preso dalla sua creazione fantastica, sa bene che cosa è realtà e che

cosa è frutto della immaginazione.

È a tutti evidente che il gioco non è follia, non è alienazione, è invece ricerca di equilibrio fra

mondo interiore e mondo esterno, è tentativo di elaborazione del divario, è impegno a costruire un

mondo in cui sia possibile assumere insieme i dati di realtà e i processi interiori di significazione

senza che questi vengano schiacciati dalla valenza univoca, convenuta, già stabilita e rigida del

2 Cfr. A. PERUCCA, Gioco e promozione intellettuale, in “Cultura e educazione per il bambino”, n. 5-6, 1990, pp. 24-28.

3 Cfr. J. PIAGET, La formazione del simbolo, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 134 e ss.

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dato. In questo modo i vissuti interiori, i bisogni, i desideri propri del bambino possono dar vita alla

realtà e questa non resta inerte e totalmente già definita e determinata.

Nel gioco simbolico non sono l’oggetto o l’azione a determinare il significato, ma questo

predomina su di essi sino a produrne la trasformazione immaginifica. La sedia non è più solo fatta

per sedersi, ma, cavalcata, diventa un magico destriero. Questa dominanza del significato sul dato è

quella che consente poi il grande gioco del linguaggio magico, del rito, del mito, dell’enigma, della

metafora e persino dell’arte e della retorica man mano che si coniuga alla dimensione concettuale

del pensiero.

È chiaro che lungo questa linea evolutiva, la dimensione affettiva inizialmente prevale su quella

cognitiva; quando però nel pensiero le forme logiche e concettuali diventano dominanti, l’affettività

si integra ad esse per conferire il colore personale del senso all’arida determinazione dei nessi

logici. Allora emerge l’importanza dell’essere capaci di attribuire un senso personale oltre che

strumentale alle elaborazioni concettuali, di poter dominare ed orientare la logica combinatoria per

esserne padroni e non schiavi.

L’attitudine ludica si pone allora come tendenza alla elaborazione personalizzata della esperienza,

attraverso la ripetizione, la ri-creazione, la ridefinizione, oltre che la invenzione delle dimensioni

della realtà.

Così il processo di personalizzazione coinvolge non soltanto il soggetto, ma anche il mondo e la

cultura e questa si fa creazione oltre che condizione dell’uomo.

c) Nel gioco sociale, cui il bambino accede man mano che supera la disposizione egocentrica,

emergono le regole. Nella percezione comune sembra quasi esservi una contraddizione di fondo fra

gioco e regola, come v’è contrasto fra serio e faceto, affidabile ed imprevedibile, produttivo e futile.

Le regole fanno parte del mondo della realtà, il gioco appartiene al mondo della fantasia; eppure,

nel gioco, le regole non sono assenti, nemmeno in quello simbolico, che pure sembra creare un

mondo fantastico avulso dalla realtà.

Il gioco non è elusione della realtà, se mai è ricerca delle dimensioni e del significato del reale; in

esso, le norme regolative delle azioni non sono dettate dai vincoli del dato, ma da quelli del senso.

Uno dei maggiori contributi alla comprensione del gioco è certamente quello che ne sottolinea la

natura transizionale e ne fa un’area intermedia fra le costrizioni e i vincoli del mondo esterno, le

leggi di natura e le regole sociali che governano ogni situazione, e la rappresentazione interiore e

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personale del mondo che ognuno elabora e ricostruisce attraverso l’esperienza4. Mondo dato e

mondo vissuto si incontrano nel gioco sociale.

Il gioco non è totale disimpegno; spesso è ardua gestione dell’equilibrio fra adesione al mondo e

distinzione da esso, fra accoglienza del mondo e azione sul mondo, fra appartenenza al mondo e

autenticità personale. Questo equilibrio richiede delle regole.

Un laborioso equilibrio fra farsi altro e restare se stesso va conservato non soltanto nell’incontro

con il mondo delle cose e delle situazioni, ma anche e soprattutto nell’incontro con gli altri. Allora

più che mai le regole sono necessarie perché il dialogo non è più soltanto fra mondo interiore e

realtà esterna; in questa realtà si collocano e si esprimono altri mondi interiori con le loro particolari

e speciali esigenze di senso, di orientamento e, soprattutto, con le loro intenzioni5.

Un accordo sul piano operativo è possibile se le intenzioni si coniugano e si coalizzano verso uno

scopo comune.

Questo scopo richiede una condivisione dei motivi, talvolta persino della identità, sempre una

partecipazione, talvolta una appartenenza comune; esige un accordo non soltanto empatico perché il

sentire insieme, il condividere un vissuto o una esperienza spesso non bastano. L’intesa con l’altro

sul piano delle motivazioni dell’agire, per essere affidabile, comporta non soltanto il medesimo

sentire (simpatia), ma un accordo operativo, un sistema di regole comuni concretamente esperibile,

che garantisca il perseguimento della stessa intenzione, il raggiungimento dello scopo condiviso e,

in questa esperienza, il potenziale di crescita è enorme.

Il gioco sociale, che assume spesso la forma di gioco di gruppo o di squadra è fondamentalmente un

gioco con regole date, un esercizio di accordo operativo in vista di uno scopo già stabilito. In esso

convergono l’esercizio di abilità ed il significato simbolico.

Non v’è scopo comune senza condivisione di senso e di motivazione e senza concorso di abilità e

impegno per il controllo e la padronanza dell’azione in ordine ad un accordo condiviso e ad una

intesa operativa.

Da questo livello, già estremamente complesso, nella misura in cui la dimensione egocentrica viene

abbandonata e l’incontro con l’altro si fa ricchezza anziché minaccia, è possibile lasciare a ciascuno

spazi di variabilità creativa. In una squadra ben affiatata, l’innovazione anche improvvisa non

disturba, anzi stimola altri, non costituisce errore da correggere, ma provocazione da cogliere e da

gestire ricostruendo creativamente l’equilibrio delle parti e dei ruoli.

4 Cfr. D. W. WINNICOTT, Gioco e realtà, tr. it., Armando, Roma 1974.

5 Cfr. A. PERUCCA, Genesi e sviluppo della relazione educativa, op. cit., capp. IV e V.

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Lungo la linea evolutiva delle strutture motivazionali, il crescente spazio della variabilità

comportamentale richiede l’impegno a mantenere l’intesa pur nella rielaborazione creativa del

gioco; quando poi interviene la capacità dei soggetti non soltanto di stare nel gioco uscendo da sé,

vale a dire con una ottica non egocentrica, ma anche la capacità di stare nel gioco e insieme di

sapere uscire da esso, cioè di saperlo anche guardare dall’esterno oltre che gestire dall’interno,

allora diventa possibile cambiare le regole del gioco o persino inventare un nuovo gioco senza che a

compagine di accordo sul senso dell’agire si spezzi, distruggendo il contesto sociale e la possibilità

stessa di continuare a giocare.

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2 Preludio al gioco complesso della vita

Per comprendere a pieno la valenza educativa del gioco, occorre saperlo leggere, oltre che

in riferimento al progressivo sviluppo delle strutture percettivo-motorie, intuitive e cognitive, anche

e soprattutto, nelle sue dimensioni funzionali e permanenti. Considerarne gli aspetti funzionali

induce a coglierne le forme stabili, pur nel variare delle strutture evolutive. Ci riferiamo a quelle

modalità essenziali del giocare che sono fondate sulla elusione, sulla illusione e sulla collusione;

queste sono, per molti aspetti, comuni all’uomo ed al bambino, anche se l’uomo evidentemente le

gestisce con dotazioni strutturali e con esperienza personale ben diversa.

In qualunque età, giocare vuol dire riuscire a costruire o a conservare la relazione con le cose, con

se stessi, con gli altri, pur riservandosi uno spazio di libertà, di creatività, di accordo.

Dal punto di vista funzionale un buon gioco è quello in cui lo spazio di libertà e di espressività è

ampio per la persona e, allo stesso tempo, funzionale al gioco. Un cattivo gioco è quello in cui lo

spazio personale di elaborazione e di significato è minimo (gioco rigido) oppure tale spazio è

talmente ampio da mettere a rischio la stessa sussistenza della situazione ludica. Anche di un giunto

meccanico diciamo che ha buon gioco se non è troppo rigido o troppo lasco.

La situazione ludica è ad un tempo situazione di vincolo e di libertà. È ad un tempo possibilità di

contatto e di distanza, di incontro e di allontanamento. Il gioco consente di gestire i rapporti con un

distacco che non giunge mai alla perdita e con un coinvolgimento che non diventa mai confusione.

Educare al gioco significa educare ad una relazione non univoca con le cose, ad una percezione

serena, non enfatica o drammatica di se stessi, ad una relazione non rigida con gli altri. Il gioco

infatti “garantisce un’elasticità di rapporti tale da permettere tensioni che altrimenti diventerebbero

insostenibili”6.

Uno spazio di gioco aiuta il bambino a crescere, a scoprire sempre nuove possibilità di coniugare

insieme le esigenze della realtà e le spinte del desiderio. Il gioco aiuta a creare un terreno di

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incontro più ricco di possibilità di azione e di espressione, e soprattutto nuove modalità di

riconoscimento, di condivisione e di intesa con le persone.

Il gioco esprime fondamentalmente la continua ricerca di una intesa tra l’interiorità personale

significante ed i significati già dati nella rigidità oggettiva del reale. Nel gioco, l’impatto con le cose

si fa gradualmente esercizio di abilità e di padronanza, il conflitto fra desiderio e realtà produce

stupende metafore che aiutano a governare l’azione, l’incontro con gli altri conduce ad una intesa

sulla dimensione normativa del convivere, ma soprattutto sul senso da conferire ad esso e sui

significati di valore da costruire insieme.

Proprio perché il gioco è l’eterno confronto dell’uomo con la realtà, con se stesso e con gli altri può

acquisire i connotati della elusione, della illusione, della collusione, e cessa quando intervengono la

delusione, lo scacco, l’impossibilità della relazione e dell’intesa. Questo avviene ogni volta che

qualcuno spezza la tensione simbolica, la irride o la sconferma7, ogni volta che qualcosa risulta

molto rigido, pesante e determinato, per prestarsi alla elaborazione ludica.

La stessa finalizzazione strumentale che caratterizza la maggior parte dei nostri rapporti con le cose

corre sul filo dell’in-ludere: tutte le volte che non è un semplice e meccanico costruire, ma implica

una tensione valoriale mai completamente esauribile8.

Il gioco è illusione, ma non è falsità; è elusione, ma non alienazione dalla realtà; è collusione,

ovvero convergenza di senso e di scopo, che prescinde dalla normatività, ma non è inganno. Il gioco

non nega, tuttavia, la norma, la verità, la realtà; non è follia, non è falsificazione del reale; è invece

tensione, ricerca di senso, tentativo di incontro e di accordo.

Come dice J. Huizinga, è insieme serio e non serio, vero e non vero, impegnativo e divertente, cosi

che “il bambino può essere dominato da un’emozione tale da raggiungere lo stato del credere di

essere senza perdere completamente la coscienza della realtà consueta”; anzi, quest’ultima è

arricchita dalla dimensione ludica, perché, “una volta finito, il gioco non finisce nel suo effetto,

bensì si irradia sul mondo ordinario situato al di là, e origina sicurezza, ordine, benessere per il

gruppo” e si fa, anche per questo, fondamento della civiltà e della cultura9.

6 Cfr. J. HUIZINGA, Homo ludens, op. cit., p. 244.

7 Cfr. in J. HUIZINGA, il concetto di “guastafeste”, Homo ludens, op. cit., p. 15.

8 In questo senso anche l’educazione può entrare nella categoria culturale del gioco per la non esaustività operativa dei

fini, pur nella normatività dei principi e nella determinatezza dei costrutti; infatti la dimensione simbolica, la dinamica

sociale e la tensione verso l’azione efficace sono tutte molto intense nel gioco come nella educazione. 9 Cfr. J. HUIZINGA, Homo ludens, op. cit., p. 18. Cfr. anche le pp. 8, 12, 251.

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Il gioco infantile è preludio, anticipazione di tutti i possibili motivi dell’essere, del fare, del

socializzare, quando i modi della partecipazione piena al mondo sono già intravisti, ma non ancora

possibili.

Nel gioco, il bambino tende ad eludere la realtà e tutto ciò che in essa è troppo rigido o univoco,

troppo complesso o difficile; il gioco si fa allora divertimento, distrazione, modo per evitare il

conflitto, per irridere la difficoltà, per sottrarsi alla responsabilità, ma anche per recuperare

spontaneità e integrità personale. Giocare può voler dire ricrearsi, ricomporre l’unità dispersa dai

conflitti, ricaricarsi dopo uno sforzo rendendo tutto gradevole, gioioso, sicuro, allegro e magari

riproducendo le situazioni di tensione e sdrammatizzandole come comiche e buffe.

Nel gioco, il bambino tende ad illudersi, a creare un mondo conforme ai suoi desideri, ad esercitare

un potere che non ha, a far vivere i sogni più belli, a demolire gli incubi e le paure, a comunicare

l’inesprimibile, a controllare in un modo fantastico e magico quel che più lo preme o lo opprime.

Giocare può voler dire conferire nuovo senso alle cose e alle situazioni, circoscrivere il luogo e il

tempo di un’azione, anticipare o differire, delimitare e isolare l’istante significativo, estenderlo ed

elaborarlo in fiaba e storia: storia delle cose e storie del mondo che si fanno storia e senso di sé.

Nel gioco, l’ordine e il senso sono sovrani, ma non rigidi; possono essere personalizzati, sostenuti

in funzione delle intenzioni che, se anche esercitate su situazioni illusorie, possono poi essere

confermate ed estese al piano della realtà. Il gioco, infatti, favorisce “la creazione di intenzioni

volontarie e la formazione di vita reale o di motivazioni volitive”10

.

Nel confronto fra gioco e realtà, con l’aiuto dell’educazione, si viene infatti “gradualmente a

delineare dove il gioco finisce e dove comincia la fase dei propositi irreversibili, dove la fantasia

non è più ammissibile e la realtà richiede di essere sperimentata direttamente”11

.

Quella che E. H. Erikson chiama l’età del gioco e che coincide con lo stadio edipico è fondamentale

per lo sviluppo della persona, perché fonda, insieme al principio di realtà, un iniziale senso morale

che, mentre “limita l’orizzonte di quel che è permissibile” serve a dirigere il bambino “verso quel

tanto di possibile e tangibile che accomuna i sogni dell’infanzia agli svariati obiettivi della

tecnologia e della cultura”12

. Anche per questo Autore, sogni infantili e cultura tecnologica si

incontrano nel gioco.

10

Cfr. L. S. VYGOTSKIJ, Il ruolo del gioco nello sviluppo mentale del bambino, in J. S. BRUNER, A. JOLLY, K. SYLVA

(curr.), Il gioco, tr. it., vol. IV, p. 675. 11

Cfr. E. H. ERIKSON, Introspezione e responsabilità, tr. it., Armando, Roma 1968, p. 125. 12

Cfr. E. H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità, tr. it., Armando, Roma 1974, p. 141.

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In esso il mondo dell’infanzia e il mondo degli adulti trovano un comun denominatore nella

capacità dell’uomo di inventare la realtà e non soltanto di riprodurla, di esprimersi attraverso l’agire

con le cose e sulle cose e non soltanto di controllare e governare la realtà.

Con il gioco il bambino impara a collocarsi nel mondo, a porvi la propria impronta personale, le

proprie intenzioni ed azioni, come segni del suo essere persona, fonte di significati e di valori che

arricchiscono la realtà, fonte di intese, di accordi e di regole che costruiscono la civiltà sul nesso

natura-cultura più che sul suo contrasto.

Il gioco è essenziale a quel processo che E. Mounier definisce di personalizzazione del mondo oltre

che a quello di crescita della persona13

. L’intero habitat umano è frutto di questo in-ludere, ovvero

del collocare, nella realtà definita delle cose, i segni e i simboli della presenza umana.

Su questa lettura del gioco convergono psicologi e filosofi; in questo senso può essere intesa anche

la capacità che E. Cassirer attribuisce all’homo simbolicus di usare le forme simboliche come

metodo per adattarsi in maniera creativa all’ambiente.

Non basta tuttavia soltanto l’in-ludere per costruire civiltà e cultura, occorre l’intesa fra gli uomini,

un’area d’incontro che sia fonte di accordi e di regole; occorre anche un con-ludere, vale a dire la

capacità di incontrare gli altri e di agire con loro per costruire un mondo comune di significati, di

intenzioni, di valori. Il gioco infantile può acquisire gradualmente questa dimensione; certamente la

collusione infantile diviene facilmente elusione delle regole e del consentito, il gioco diversivo ed

elusivo è sempre presente nella esperienza del bambino. Tuttavia, v’è anche l’esigenza di creare un

campo di azione non del tutto privo di regole, ma vincolato alla struttura stessa della situazione

ludica che si fa di per sé normativa e favorisce l’incontro delle intenzioni, la coordinazione delle

azioni, l’individuazione degli scopi ai fini stessi del buon andamento del gioco.

Nel gioco del bambino, il significato personale e quello sociale sono intrinsecamente connessi: nella

misura in cui il bambino supera la condizione egocentrica, persino il gioco solitario assume i

caratteri di un gioco per o di un gioco con e il cosiddetto gioco parallelo acquisisce sempre più

l’attenzione ai ritmi degli altri, ai tempi comuni, alla situazione e si fa via via più partecipativo,

meno esclusivo degli altri, più attento al consenso.

Page 13: I ))video.unipegaso.it/02SCUMA/Pedagogia_corpo_sport/DeCanal...Considerare il gioco anche come elemento della vita sociale e culturale degli adulti, può aiutare a leggere, fuori dagli

Università Telematica Pegaso Il gioco nel bambino (prima parte)

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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, tr. it., AVE, Roma 1964.