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FILOSOFIA POLITICA John Locke, Montesquieu , Rousseau John Locke (1632 – 1704) Nato nel sud dell’ Inghilterra nel 1632, eredita una discreta fortuna grazie al nonno, imprenditore tessile, e al padre, capitano d’esercito, conducendo così una vita piuttosto agiata. Frequenta Oxford, e nel 1649 assiste all’esecuzione di Carlo I, evento di svolta nel decennio che culminerà con la presa del potere da parte di Cromwell. Locke, pur potendo diventare docente, non accettò di ordinarsi sacerdote (condizione necessaria per ricoprire la carica), preferendo ripiegare sulla facoltà di medicina; intorno ai trent’anni chiude la sua carriera accademica. Più tardi, si trovò a dover eseguire un intervento chirurgico su Anthony Ashley Cooper , importante uomo politico dell’epoca, del quale divenne poi amico e confidente, accompagnandolo in diversi viaggi. Nel 1671 Locke compone il Saggio sull’Intelletto Umano. Negli anni seguenti, a causa dell’incompatibilità della sua posizione con il nuovo governo di Cromwell, si trasferisce prima in Francia e successivamente in Olanda. Durante il decennio in esilio, compone i Trattati sul Governo Civile. Torna in Inghilterra nel 1689, lavorando su trattati di vario genere, per poi ricoprire la carica di consigliere di Guglielmo III d’Orange. Muore nel 1704. La sua opera più importante sono i due Trattati sul Governo Civile, composti tra il 1679 3 il 1680, e pubblicati nel 1690 in forma anonima. Contesto storico dei Trattati sul Governo Civile L’Inghilterra stava vivendo la transizione da una sanguinosa guerra civile ad un governo basato sul consenso. L’evento scatenante fu il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona e le successive nozze con Anna Bolena, che portarono alla sua scomunica e al conseguente Scisma anglicano. Dal matrimonio nasce Elisabetta I , che regna dal 1558 al 1630. Il tema dominante del secolo è quindi la frattura tra la Chiesa romana e quella anglicana; in questo contesto si inserisce la Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648). La lotta tra cattolici e protestanti è anche politica: in Inghilterra era viva la paura che potesse verificarsi una sorta di “invasione” cattolica dall’Irlanda, e lo stesso protestantesimo aveva al suo interno diverse correnti, tra cui quella episcopale, secondo 1

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FILOSOFIA POLITICA

John Locke, Montesquieu , Rousseau

John Locke (1632 – 1704)

Nato nel sud dell’ Inghilterra nel 1632, eredita una discreta fortuna grazie al nonno, imprenditore tessile, e al padre, capitano d’esercito, conducendo così una vita piuttosto agiata. Frequenta Oxford, e nel 1649 assiste all’esecuzione di Carlo I, evento di svolta nel decennio che culminerà con la presa del potere da parte di Cromwell. Locke, pur potendo diventare docente, non accettò di ordinarsi sacerdote (condizione necessaria per ricoprire la carica), preferendo ripiegare sulla facoltà di medicina; intorno ai trent’anni chiude la sua carriera accademica. Più tardi, si trovò a dover eseguire un intervento chirurgico su Anthony Ashley Cooper, importante uomo politico dell’epoca, del quale divenne poi amico e confidente, accompagnandolo in diversi viaggi. Nel 1671 Locke compone il Saggio sull’Intelletto Umano. Negli anni seguenti, a causa dell’incompatibilità della sua posizione con il nuovo governo di Cromwell, si trasferisce prima in Francia e successivamente in Olanda. Durante il decennio in esilio, compone i Trattati sul Governo Civile. Torna in Inghilterra nel 1689, lavorando su trattati di vario genere, per poi ricoprire la carica di consigliere di Guglielmo III d’Orange. Muore nel 1704.

La sua opera più importante sono i due Trattati sul Governo Civile, composti tra il 1679 3 il 1680, e pubblicati nel 1690 in forma anonima.

Contesto storico dei Trattati sul Governo Civile

L’Inghilterra stava vivendo la transizione da una sanguinosa guerra civile ad un governo basato sul consenso. L’evento scatenante fu il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona e le successive nozze con Anna Bolena, che portarono alla sua scomunica e al conseguente Scisma anglicano. Dal matrimonio nasce Elisabetta I, che regna dal 1558 al 1630. Il tema dominante del secolo è quindi la frattura tra la Chiesa romana e quella anglicana; in questo contesto si inserisce la Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648). La lotta tra cattolici e protestanti è anche politica: in Inghilterra era viva la paura che potesse verificarsi una sorta di “invasione” cattolica dall’Irlanda, e lo stesso protestantesimo aveva al suo interno diverse correnti, tra cui quella episcopale, secondo cui il governo della Chiesa sarebbe dovuto essere ordinato dal Re, e quella presbiteriana, secondo la quale erano invece i fedeli a doverlo eleggere. Altro fattore di instabilità era il rapporto fra il re e il parlamento, che agiva solo su convocazione del sovrano stesso, detentore del potere esecutivo. Spesso il re convocava il parlamento per motivi di mera convenienza, e il parlamento resisteva alle sue pretese. L’oppositrice di Elisabetta I era Mary Stuart, regina di Scozia. In seguito alla morte del marito, dovuta a intrighi di corte, Mary si risposò con uno degli individui sospettati di aver preso parte alla congiura, Henry Stuart, suddito inglese e suo cugino di primo grado. I figli sarebbero stati diretti pretendenti al trono d’Inghilterra, data la parentela con Margherita Tudor, sorella di Enrico VIII. Questo, insieme alla forte connotazione cattolica del matrimonio, diede il pretesto ad Elisabetta I di chiederne, ed ottenerne, la decapitazione. Il successore (non naturale) di Elisabetta I fu Giacomo I, figlio di Mary Stuart, il quale prese immediatamente le distanze dal cattolicesimo sposando Anna di Danimarca. Giacomo I unificò le corone di Scozia (della quale era re), Inghilterra e Irlanda. È famoso anche per aver promosso la più importante traduzione della Bibbia, per questo conosciuta come “Bibbia anglicana” o “Bibbia di re Giacomo”. Divenne molto impopolare quando, allo scoppio della Guerra dei Trent’anni, non prese una posizione netta, per via della sua alleanza con la Spagna, fortemente cattolica. Alla sua morte, nel 1625, lascia un regno in forte crisi

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al figlio Carlo I, il quale decise immediatamente di entrare in guerra contro la Spagna. L’ingente richiesta di tasse per finanziare la guerra, e i ripetuti fallimenti in battaglia, portarono ad un aspro conflitto col parlamento, che approvò la Petizione dei Diritti, ossia una serie di impedimenti civili al re. Carlo I entrò quindi apertamente in rotta con il parlamento, arrivando a non convocarlo per ben undici anni, e tentando di imporre un regime assolutista, ispirato a quello di Luigi XIII in Francia. Carlo I perseguitò le frange più estreme dei protestanti: è in questo periodo che si formano le prima importanti colonie in America, che daranno in seguito vita ai primi dodici stati. Il tentativo di imporre la sua visione religiosa in Scozia portò ad una rivolta dei calvinisti scozzesi, che minacciarono di marciare su Londra. Carlo I li respinse con l’esercito: per fare ciò dovette riconvocare il parlamento, che si oppose. Carlo I fece arrestare i deputati più facinorosi, e arrivò addirittura ad ordinare la decapitazione di un suo ministro. A quel punto, tutta Londra insorse a difesa del parlamento, costringendo il sovrano alla fuga. Godendo ancora del controllo sull’esercito, Carlo I riuscì a mantenersi in questa situazione di stallo per due anni, durante i quali Oliver Cromwell, condottiero militare e membro del parlamento, formò una vera e propria milizia, attingendo alla piccola borghesia. Nel 1644 Cromwell ottiene una prima vittoria, ma la svolta arriva due anni più tardi, con la cattura di Carlo I. Nel 1649 Cromwell ordinò la decapitazione di Carlo I, e si autoproclamò Lord Protector, dando inizio ad un decennio di democrazia puritana.

Nel 1650 Cromwell riformò il parlamento, nominando da sé i deputati, ma l’eccessivo estremismo lo costrinse a scioglierlo e riformarlo tre anni dopo, fondando la Camera dei Lord. Cromwell morì nel 1658, lasciando il figlio alla guida del regno. Nel 1660 viene comunque restaurata la monarchia, con Carlo II, che regnerà per venticinque anni. Con Carlo II si assiste al ritorno ad un regime episcopale; il sovrano istituì anche un processo contro i giudici che condannarono il padre, arrivando anche lui a configgere col parlamento. Strinse un’alleanza con Luigi XIV, sovrano francese, del quale finisce per diventare succube. Carlo II muore senza eredi, lasciando il trono al fratello Giacomo II, di orientamento cattolico. L’orientamento religioso del nuovo sovrano induce il parlamento a cercare un’alternativa, trovandola in Guglielmo III d’Orange, protestante. Giacomo II ripara da Luigi XIV, il quale lo propone per il trono di Polonia, trovando però il suo rifiuto.

Il primo Trattato sul Governo Civile.

In questa opera, Locke contesta la teoria dominante dell’epoca, che trovava l’esponente maggiore in Robert Filmer, secondo cui la monarchia è la forma più legittima di governo, poiché la provenienza del diritto era divina. Alla base di questa teoria vi era la condizione di suddito dell’uomo, che comportava ovviamente una diseguaglianza data dalla posizione di soggezione del governato rispetto al governante. Il governo del re non era quindi basato sul consenso. Secondo Filmer, il re sarebbe un discendente di Adamo, prima persona cui Dio ha affidato il potere di governare sul mondo. La critica portata da Locke giostra sul fatto che nella Bibbia non si parla di potere sugli uomini, ma sul mondo, e che gli uomini di fronte a ciò sono tutti uguali, e nessuno è in posizione dominante sugli altri.

Il secondo Trattato sul Governo Civile.

Nella seconda parte della sua opera, Locke cerca quindi di trovare un fondamento legittimo del governo; adducendo come risposta che la legittimità del governo è data dal consenso dei governati. Per assecondare il suo ragionamento, traccia un parallelo dello Stato di Natura descritto da Hobbes. Nello Stato di Natura

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descritto da Locke, tutti gli uomini sono stati creati uguali. Diversamente da quanto teorizzato da Hobbes, in Locke lo Stato di Natura non è totalmente senza regole, ma gli uomini devono rispettare dei limiti, dettati da una legge di natura, che fondamentalmente impedisce di fare del male agli altri per motivi diversi dal sostentamento e dall’autoconservazione. È quindi presente un’idea elementare di giustizia, fondata sul rispetto della legge naturale. Il punto di distacco più evidente dalle teorie di Hobbes, quindi, risiede nel fatto che esistono, secondo Locke, delle forme di governo peggiori dello stato di natura, dove non si rispettano le leggi naturali: l’esempio è quello dei regimi assoluti.

Nello stato di natura delineato da Locke non c’è un vuoto normativo assoluto, come invece in quello di Hobbes; vi sono bensì dei diritti naturali (quello alla vita, alla libertà, alla proprietà) e la facoltà di farli valere. Altre forme di normatività provengono dai patti che le persone pongono in essere tra loro. Vige comunque una situazione di incertezza, che spinge gli individui a voler uscire da questa situazione. Non è tuttavia uno stato di guerra: a dominare è l’incertezza del diritto, dalla quale può derivare un conflitto. Analogamente a quanto descritto da Hobbes, per uscire da questa situazione, gli individui giungono ad un patto che prevede una limitazione della libertà. La concezione della libertà in Locke è negativa, ma si distacca dalla visione estrema propria delle teorie hobbesiane, visione che invece viene ripresa da Filmer. Locke concepisce una sorta di “libertà naturale” dell’uomo, che consiste non nell’essere subordinato agli altri, ma nell’essere vincolato alla legge naturale.

La proprietà nello stato di natura

Nello stato di natura descritto da Hobbes non esiste il concetto di proprietà: esiste una condizione di insicuro possesso. Un diritto di proprietà si configura solo con l’avvento di un sovrano. In Locke esiste invece un diritto naturale alla proprietà, ed un conseguente diritto a difenderla. Locke distingue ciò che la natura offre (naturale) da ciò che è invece prodotto dall’uomo (artificiale). In realtà non esisterebbe nessun bene assolutamente naturale, dato che qualsiasi cosa presuppone una, seppur minima, attività dell’uomo. Dato che l’uomo possiede un corpo, ciò che è prodotto dal suo lavoro è anch’esso di sua proprietà, come anche ciò che viene soltanto modificato tramite il lavoro. Questa idea che il lavoro produce proprietà avrà una grande portata sullo sviluppo politico successivo. La proprietà di un bene si acquisisce al primo contatto che il soggetto ha con esso; essendo un diritto naturale, non vi è bisogno di alcun consenso di terzi. Il limite di una giusta ed equa proprietà, nel quadro di un diritto naturale, sta nella differenza tra consumo e spreco: la proprietà legittima non si estende a ciò che viene sprecato dopo essere stato sottratto ad altri. All’individuo spetta solo ciò che viene prodotto dal suo lavoro, nei limiti dello spreco. Locke presuppone un sistema di abbondanza, in cui ad ognuno dovrebbe legittimamente spettare una parte dei beni; nel momento in cui questa condizione di abbondanza arriva al culmine, diventa necessario un meccanismo di transazione della proprietà. In questo processo, il passo successivo è l’incremento della proprietà tramite divisione del lavoro. Dato che il valore dei beni dipende dalla quantità del lavoro servito a produrli, la divisione del lavoro, creando diverse rivendicazioni di proprietà, ne moltiplica il valore. Il passaggio ad un sistema di transazione della proprietà comporta l’introduzione della moneta, bene che non viene sprecato; da ciò deriva la difficoltà nel tracciare la proprietà giusta e ingiusta.

Il potere in Locke

Nelle sue teorie, Hobbes identificava il potere con l’assolutismo; Locke va in una direzione diversa: gli individui abbandonano lo stato di natura alla ricerca di un sistema che garantisca certezza del diritto, equità ed imparzialità, e questo rende l’idea di un sovrano assoluto incompatibile con quella di uno stato civile.

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Nella società civile descritta da Locke, infatti, nessuno, nemmeno il sovrano, può essere al di sopra delle leggi. Gli individui hanno l’obbligo politico di conformarsi al volere della maggioranza. Lo stato di diritto deve essere un unico corpo politico, che si muove in un’unica direzione, delineata dal volere della maggioranza. Ogni individuo si obbliga, quindi, nei confronti dello stato civile, a sottomettersi al potere della maggioranza. Un’obiezione che veniva posta alle teorie contrattualistiche era quella secondo cui, in realtà, nessun individuo contribuisce a formare il contratto, ma si limita ad apprenderne i meccanismi e ad adeguarsi ad essi. Locke, al riguardo, parla di un consenso tacito, che si esplicita già con la semplice appartenenza ad uno stato. La possibilità di esprimere o meno il consenso è quindi indice della libertà dello stato civile. Tramite il consenso tacito, Locke anticipa il concetto di consenso moderno, tramite votazioni, che prenderà piede con le teorie di Rousseau.

Nella concezione lockiana dello stato di natura, il sovrano deve essere soggetto alle stesse leggi dei suoi sudditi. Le leggi devono essere prestabilite, e non promulgate dal sovrano; devono essere anche note a tutti. L’operato del sovrano è sotto il veto di giudici “imparziali e retti”. Lo stato può usare la forza per far sì che le leggi vengano rispettati, o per evitare ingerenze esterne. Il compito, in generale, dello stato, è infatti quello di mantenere la pace. Locke abbozza un primo concetto di divisione del potere: il potere legislativo è quello che determina come la legge dello stato deve essere impiegata; il potere esecutivo è quello che vigila sull’applicazione della leggi, ed è totalmente mancante nello stato di natura; il potere federativo è il potere “di guerra e di pace”, ossia quello che determina le relazioni da mantenere all’esterno dello stato.

Il potere e la forza

Locke riprende il discorso di Platone sul governo degli uomini contrapposto a quello delle leggi, concentrandosi sul grado di discrezionalità di chi governa rispetto alle leggi. Il potere costituito dovrebbe operare all’interno di binari posti dalle leggi, ma colui che governa ha il potere di gestire le leggi per il bene dello stato. Un giudizio discrezionale è quindi legittimo, poiché le fattispecie sono sempre diverse tra loro, e in alcuni casi, una rigida osservanza delle leggi potrebbe rivelarsi addirittura dannosa. Il potere discrezionale permette al governo di agire in deroga (in assenza, ma talvolta anche contro) alla legge, anche nel caso in cui non ci sia il tempo di produrre una norma adatta al caso. L’evoluzione del contesto politico ha via via limitato la discrezionalità del governo: il popolo intende controllare il potere che ha affidato ai suoi rappresentanti. In questa fase, Locke considera il problema di tramutare la forza in potere legittimo, considerando soprattutto il punto di vista della conquista e dei conflitti bellici. Secondo Locke è impossibile compiere il salto da forza bruta a potere legittimo; la conquista di un paese in guerra è illegittima. Locke considera il problema della legittimità al governo da parte di chi ha conquistato un governo, considerando come “giusta” la sola guerra di difesa. Non esiste, secondo Locke, un potere normativamente giustificabile sugli alleati, mentre sui conquistati esiste un potere assoluto, ma che non si estende ai loro possessi e alle vite di coloro che non hanno partecipato alla guerra, quindi ai civili. Nel caso in cui ci si trovi in pericolo di vita, nello stato di natura c’è un diritto naturale a proteggere la propria vita, che viene meno qualora ci sia il tempo o il modo di rivolgersi alla legge. Le promesse fatte subendo forza non sono vincolanti.

Il diritto di resistenza

Uno stato che abusa del suo potere riporta la situazione allo stato di natura, e legittima il popolo alla resistenza. Il criterio di determinazione dell’abuso è rimesso al giudizio di criteri accessibili a tutti: si può resistere quando il governo cambia il sistema elettorale senza il consenso, o leda la proprietà degli individui, o corrompa i deputati con la forza, o quando proponga come deputati dei corrotti. Si può resistere anche

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quando il potere esecutivo trascuri il suo ufficio. La possibilità di resistere si ha anche quando viene meno la certezza che il governo stia operando per il bene dello stato. Il diritto di resistenza è in definitiva un diritto di prevenzione. La resistenza non introduce il disordine, ma al contrario, previene l’eventualità che il governo agisca male e si torni allo stato di natura. Locke non esclude che una guerra possa essere anche giusta e migliore, in alcuni momenti, della pace.

Nello stato civile immaginato da Locke, l’equilibrio si raggiunge con la “pace giusta”; una situazione di pace senza giustizia non può essere vera pace. Coloro che nella gerarchia sono inferiori, non dovrebbero mai ribellarsi al superiore, a meno che egli non abusi della sua posizione. Il giudizio sull’operato del superiore è sempre rimesso al popolo, ossia, nella concezione lockiana, alla coscienza di ciascun individuo.

Lettera sulla tolleranza (1689)

Secondo Locke, la radice del conflitto politico sta nel rifiutare la diversità delle opinioni altrui. Locke identifica il concetto di tolleranza con quattro prerogative: delimitare i confini delle competenze di stato e chiesa; delineare i compiti di ognuno in un regime di tolleranza; tolleranza verso gli articoli di culto; tolleranza verso gli articoli di fede.

1. Rapporti tra stato e chiesa – lo stato è definito come società di uomini finalizzata a procurare, preservare e accrescere i beni civili (buona salute, libertà, proprietà), mediante l’applicazione imparziale di leggi e sanzioni. Questa finalità dello stato non è rivolta a fini religiosi, come la salvezza delle anime. Mentre le norme dello stato costringono l’individuo a rispettare la legge, una religione non può essere imposta; la fede deve essere acquisita spiritualmente, senza costrizioni. Inoltre, mentre i governi sono diversi tra loro e ancorati a territori, le religioni sono universali e non possono essere legate ad uno stato. Locke definisce la chiesa come un’associazione volontaria di uomini, che si riuniscono allo scopo di onorare pubblicamente un dio nella forma che ritengono efficace per il loro fine, la salvezza delle anime. Anche la chiesa si impone delle regole e una disciplina, per fare rispettare la quale si serve di esortazioni e, come sanzione, la possibilità di allontanare i suoi adepti.

2. Compiti dell’individuo nella tolleranza – la chiesa deve poter scomunicare chi non ne segue le regole, ma chi viene scomunicato non perde per questo i suoi diritti civili. La chiesa, allo stesso modo, non può vantare pretese sui beni civili, né imporre norme al di fuori del suo ambito. Tutto questo vale anche in senso opposto: lo stato deve astenersi dal regolare questioni inerenti alla chiesa, e un capo di governo non può giudicare questioni religiosi, dato che un suo eventuale errore sarebbe irreparabile. Si potrebbe obiettare che un giudice potrebbe affidarsi ad un’istituzione religiosa, ma in questo modo sorgerebbe il problema di quale istituzione preferire rispetto alle altre.

3. Tolleranza verso gli articoli di culto – Locke si chiede fino a che punto sia giusto tollerare: ogni chiesa deve essere libera di mettere in atto pratiche di culto, purché tali pratiche siano lecite secondo il diritto civile. Se i comportamenti prescritti dalla chiesa sono leciti per l’ordinamento civile, sono tollerabili. Ciò che è lecito per lo stato, non può comunque essere vietato per la chiesa. La discriminante è quindi il diritto vigente nello stato: questa impostazione è trapelata fino ai giorni nostri, rimanendo nelle maggiori costituzioni.

4. Tolleranza verso gli articoli di fede – ne esistono due tipi: di natura pratica, ossia riguardo la volontà; e di natura speculativa, ossia riguardo la conoscenza. Nel caso in cui una norma civile

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confligga con un credo religioso, secondo Locke il cittadino può individualmente opporsi, se disposto a subire l’eventuale sanzione prevista dall’ordinamento civile.

La lettera si chiude con una rilettura del significato delle guerre religiose, derivate dalla strumentalizzazione della religione stessa per fini politici, e che si traduce in una commistione tra sfera civile e religiosa.

Charles – Louis Montesquieu (1689 – 1755)

Montesquieu nasce a Bordeaux nel 1689, da una famiglia benestante. Studia diritto, e, nel 1714, entra come consigliere nel parlamento della sua città natale. Due anni più tardi eredita dallo zio, oltre ai beni e al titolo di Barone di Montequieu, la carica di presidente di sezione del parlamento. In questo periodo scrive dei trattati di argomento scientifico. Risale al 1721 la pubblicazione delle “Lettere Persiane”, romanzo epistolare, che ebbe un grande successo. L’anno successivo si trasferisce a Parigi, dove compone alcune opere minori, e viene eletto, nel 1728, all’ Académie française. In seguito intraprende numerosi viaggi per l’Europa; nel 1729 è in Inghilterra, dove ha modo di studiare e apprezzare l’ordinamento politico vigente. Dal 1731 inizia a comporre “Lo spirito delle leggi”, che verrà pubblicato solo nel 1748, in forma anonima. Quest’opera provocherà diverse polemiche, tanto che Montesquieu sarà costretto a scrivere anche una difesa alla sua opera. Muore nel 1755.

Le Lettere Persiane

Il personaggio principale di questo romanzo epistolare, Uzbek, è un sultano persiano in viaggio per l’Europa. Uzbek espone, tramite alcune lettere, le sue impressioni sul viaggio, i costumi e le culture che incontra. I suoi interlocutori sono il suo compagno Rica, e le mogli, lasciate nell’harem. Il periodo di riferimento è risalente circa al 1711, periodo in cui la Francia riacquista il fasto e il lusso che aveva perduto precedentemente. Uzbek constata la relatività delle credenze religiose e la loro indipendenza dagli oggetti, concetto del tutto assente nell’islamismo. Altra esperienza che colpisce i viaggiatori è la considerazione delle donne: è del tutto assente la ritualizzazione nel rapporto con l’altro sesso propria della cultura islamica. Tutto questo è il pretesto per una riflessione sulla cultura e sugli usi dell’epoca, visti da personaggi esterni.

Lo spirito delle leggi

Opera che, per buona parte, raccoglie riflessioni basate sui viaggi di Montesquieu. È possibile distinguere tre grandi blocchi tematici: la teoria di tre tipi di governo; la teoria delle cause naturali che influenzano i costumi e la cultura; la teoria delle cause sociali che influenzano i costumi e la cultura.

Tre tipi di governo – Montesquieu riprende la tripartizione già presente in Aristotele e Platone, identificando tre tipi di governo: la repubblica, che si presenta in due forme diverse, quella più aristocratica e quella più democratica; la monarchia, governo di una sola persona; e il dispotismo o tirannia, regime in cui governa sempre una persona, ma nella totale assenza di leggi. In questo contesto, le differenze sono meno rigide che in passato, mentre ad assumere più importanza è il modo in cui viene esercitato il potere. A trovare particolare rilevanza è anche il principio sotteso ai vari tipi di regime, ossia il sentimento politico, fondamentale per la stabilità del regime. Anche per Montesquieu è centrale, infatti, il problema della conservazione del regime, che dipenderebbe dal contesto in cui esso si svolge. In questo senso, è decisivo

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un sentimento politico giusto, per permettere la nascita di un regime e garantirne la conservazione. Ad ogni tipo di regime corrisponde un diverso sentimento politico: per la repubblica è necessario il sentimento della virtù, ossia, la propensione a dare la priorità al bene comune rispetto al bene particolare dell’individuo, e la creazione di un clima politico ospitale; per la monarchia, invece, non è essenziale un senso del bene comune, quanto invece lo è quello dell’onore, vale a dire la comprensione e il rispetto delle gerarchie sociali; nel dispotismo è dominante il sentimento della paura.

Cause naturali delle diversità di regime – un primo fattore è la dimensione geografica su cui si estende il regime; per Montesquieu, è proprio della repubblica avere un territorio limitato, mentre uno stato monarchico deve avere una grandezza media. L’esempio è quello dei grandi regni europei dell’epoca. Per quanto riguarda il dispotismo, esso sarebbe adatto ai grandi imperi, come quelli orientali. Montesquieu prende in considerazione anche l’aspetto climatico: nei paesi caldi, infatti, la schiavitù sarebbe in qualche modo meno “pesante” da sopportare. Influiscono anche la fertilità e l’accessibilità del territorio.

Cause sociali delle diversità di regime – la prima di queste cause è la religione, che determina la diffusione di alcuni valori morali e l’accantonamento di altri, legittimando così alcuni comportamenti sociali piuttosto che altri. Qui Montesquieu parla anche dello spirito generale di una nazione, una sorta di identità nazionale.

A Montesquieu si deve la teoria della tripartizione dei poteri (potere legislativo, esecutivo e giudiziario) arrivata fino ai giorni nostri.

Jean – Jacques Rousseau (1712 – 1778)

Rousseau nasce a Ginevra, città all’epoca fortemente protestante, orfano di madre; il padre è un orologiaio, la madre muore a causa del parto. Nel 1740 lavora a Lione come precettore, tre anni dopo è a Venezia, dove lavora come segretario di ambasciata. Si trasferisce a Parigi l’anno seguente; nel 1749 partecipa alla stesura dell’Enciclopedia, occupandosi di alcuni lemmi di argomento musicale. Nel 1750 compone il “Discorso sulle scienze e le arti”, mentre è di cinque anni più tardi il “Discorso sull’origine della diseguaglianza”. Fino al 1762 è impegnato nella composizione di altre sue opere importanti, come il “Contratto sociale”, l’”Emilio” e “Giulia o la nuova Eloisa”. Il “Contratto sociale”, pubblicato nel 1762, viene immediatamente messo al rogo, in quanto giudicato come “opera tesa a distruggere la religione cristiana”. In seguito, Rousseau intraprende altri viaggi: in Inghilterra è ospite di David Hume, ed è in questo periodo che compone le “Confessioni”, che verranno successivamente (1767) completate a Parigi, per essere poi pubblicate postume. Muore nel 1778.

Lo stato di natura di Rousseau

Nello stato di natura teorizzato da Rousseau, gli individui non sono naturalmente propensi alla società, e l’aggregazione avviene fortuitamente. Gli individui sono caratterizzati da due istinti naturali: l’ “amour de soi” (amore di sé), ossia lo spirito di conservazione, che non è esclusivamente umano, ma è presente anche negli animali; e la “pitié” (pietà, compassione), ossia il provare compassione di fronte alla sofferenza altrui. Accanto a questi due istinti ci sono delle potenzialità: l’autodeterminazione (l’uomo non è governato dagli istinti, ma è autonomo, e può quindi reagire in modo diverso) e la perfettibilità (una sorta di capacità di apprendimento, particolarmente sviluppata negli uomini). Lo stato di natura di Rousseau è in

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contrapposizione con quello di Hobbes, nel quale sono già radicati delle passioni, come l’odio e l’invidia, che vanno oltre i semplici bisogni primari. Queste passioni, secondo Rousseau, implicano una considerazione sviluppata dell’”altro”, che viene così riconosciuto già alla stregua di un proprio simile; tali passioni sarebbero quindi già successive ad uno stato di natura. Nello schema proposto da Rousseau, gli individui arrivano alla cooperazione in modo fortuito e casuale, scoprendone poi l’effettiva efficacia. La cooperazione porta al confronto tra gli individui e quindi alla scoperta delle diversità, della diseguaglianza, assolutamente naturale, tra gli individui. In questa fase, la cooperazione diviene volontaria, finalizzata alla spartizione del prodotto; c’è già un primo abbozzo di società, ma non emergono lati negativi. La divisione del lavoro produce una forma di proprietà personale, e la famiglia diviene il nucleo basilare della società. Questo stato di cose è reso instabile dal diffondersi di sentimenti come l’invidia e il sospetto, e l’amor proprio, la motivazione personale a proteggere se stessi e rendersi migliori degli altri. L’evolversi del lavoro porta a problemi di divisione e proprietà del prodotto, come nel caso dell’istituto dell’eredità, che tramanda la proprietà per via familiare, creando ulteriore disparità. Tale assetto corrode la soggettività, ponendo gli individui in competizione tra loro per onore, potere e ricchezza; in una società di questo tipo, diviene più importante apparire piuttosto che essere, e quindi perde di valore la sincerità, divenendo uso mentire agli altri (e a se stessi). Il male si trova quindi nei rapporti sociali; il rimedio a questa situazione è un ordinamento politico giusto, che non azzera le diseguaglianze, ma distingue quelle sociali da quelle politiche.

Nel contratto sociale teorizzato da Rousseau, gli uomini in principio sono liberi e tutti sullo stesso piano; la posizione di autorità è data dall’approvazione degli altri, senza la quale non c’è vero potere. Rousseau in un certo senso si pone contro l’idea dominante di uno stato organizzato come una grande famiglia, in quanto nell’organizzazione familiare vige uno schema gerarchico, mantenuto volontariamente da chi ne fa parte; il sistema previsto da Rousseau pone invece come condizione l’eguaglianza degli uomini.

Forza e diritto

Forza e diritto sono contrapposti l’uno all’altro: non può considerarsi un’idea del diritto come imposizione del più forte, e, conseguentemente, un’obbedienza derivante da un’imposizione. L’obbedienza deriva da necessità, dalla quale si giunge ad una convenzione giusta, che legittima il potere; a quel punto si può parlare di obbligo degli individui nei confronti del diritto. Non è configurabile una convenzione che riguardi generazioni future: ogni generazione nasce di per sé libera. Il patto deve essere rinnovato da ogni generazione, e questo rende il governo sottomesso non ad un potere imposto, ma ad un sistema normativo.

Il patto sociale

Un popolo acquisisce il suo valore collettivo tramite un atto, vero fondamento della società, finalizzato a liberarsi dallo stato di natura, formato dall’incontro delle diverse volontà, che confluiscono per formare un unico soggetto politico. Il patto è quindi teso a migliorare la condizione degli individui. La forma di associazione deve far sì che, pur formando un unico soggetto politico, gli individui al suo interno restino liberi, e che le persone stesse e i loro beni vengano protetti. Nel patto ogni volontà rimane indipendente,

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ma tutti aderiscono alla volontà generale: mentre le volontà personale, per quanto possa essere condivisa, non è finalizzata ad un bene di carattere generale, la volontà frutto del patto è volta alla realizzazione del bene comune. In Rousseau è forte l’idea che il popolo debba essere sovrano; si va oltre un semplice consenso, l’azione del governo è l’espressione di una volontà generale. Questo principio sarà fondamentale nella costituzione francese.

Il contrattualismo democratico

Il popolo è il corpo deliberante, il soggetto politico titolare della sovranità, che è indivisibile. Il sovrano-popolo non ha vincoli, ad esclusione delle leggi da sé emanate. Anche in Hobbes il sovrano non è limitato, ma l’esito è un governo di tipo assolutista; in Rousseau esistono dei limiti di principio all’esercizio del potere: il primo è la distinzione tra volontà generale e volontà di tutti. A rendere generale la volontà non è la semplice quantità dei voti, ma l’interesse perseguito. Secondo questo schema, si configura un’obbedienza a leggi create dal popolo stesso, che perseguono gli interessi di coloro da cui sono state emanate. Quella teorizzata da Rousseau è una democrazia anti-rappresentativa, in cui fazioni e partiti sono deleteri, non esiste il concetto di opinione pubblica, e addirittura c’è l’idea che una scarsa comunicazione tra gli individui sia migliore per perseguire lo scopo. Il secondo limite è il carattere formale assunto dalle decisioni del popolo: la legge deve comprendere solo aspetti generali, e non regolare particolarismi. Il terzo limite riguarda le condizioni sociali che caratterizzano il corpo deliberante, nel quale deve vigere un regime di eguaglianza. Il quarto limite è di carattere motivazionale: per ogni decisione si deve valutare se la proposta si adegua al bisogno generale piuttosto che a quello particolare. Tali limiti non sono esterni o preesistenti, ma sono interni e posti dallo stesso corpo deliberante.

Il legislatore

Il legislatore si rende necessario a causa della distinzione tra volontà generale e volontà di tutti. Per determinare quale sia il bene comune, entra in gioco un elemento di conoscenza, grazie al quale il legislatore deve essere in grado di rivolgere la volontà del popolo al bene comune, in quanto il popolo, pur volendo raggiungerlo, non è in grado di stabilire in cosa esso consista. Di fatto, il compito del legislatore è quello di spiegare la via per il bene comune, e non decretare quale esso sia, dato che il bene comune diventa tale solo quando viene così designato dal popolo stesso. Il legislatore non è quindi il capo del governo, ma solo colui al quale il popolo delega l’interpretazione della volontà generale; non può imporre la sua visione del bene comune, né con la forza né con il ragionamento. Deve ricorrere ad un tipo di autorità diversa, che gli permetta di persuadere senza il bisogno di convincere. Spesso ricorre a simboli trascendenti, come nel caso della religione, ma dietro i simboli deve comunque esserci vera sapienza. Il legislatore non fornisce volontà generali, ma elabora leggi su misura per il popolo a cui sono rivolte, indicando i principi di convivenza che esso deve rispettare.

Varie forme di governo; conservazione e dissoluzione del sistema

Per Rousseau non esiste un regime astrattamente migliore dell’altro: sarà migliore quello che si adatta al contesto in cui si sviluppa. L’indicatore della bontà di un sistema di governo, in questo caso, è la conservazione e la prosperità dei membri, anche in termini di aumento demografico. Un corpo politico si erode per due principali forze distruttive: l’influenza delle volontà particolari e la tendenza del governo a delegare i propri compiti a qualcuno che finisce per divenire autonomo e contrapporsi, tentando di far prevalere la propria volontà. Lo stato si dissolve quando il principe non governa più secondo legge, e

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diviene un tiranno; secondo Rousseau, per prevenire tale eventualità, le assemblee devono avere una convocazione periodica e automatica, non convocabile a discrezione del potere esecutivo. Le assemblee devono inoltre avere un ordine del giorno fisso, che preveda, tra i punti, la riconferma del sistema e delle persone che lo amministrano.

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