Documento politico di LINK - Coordinamento universitario

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documento politico della III Assemblea nazionale di Link - Coordinamento universitario svoltasi a Riot Village @Lamaforca 3/4 agosto 2012

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Tesi 0 - Brevi spunti sugli accadimenti degli ultimi mesi - Analisi della fase politica.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi ci costringono a fare i conti con la realtà: la crisi non è finita, l’uscita dalla crisi è in fondo a destra. Come organizzazione non possiamo, a 4 mesi dall'assemblea della Rete della Conoscenza, non analizzare le evoluzioni che si sono determinate nel quadro politico.

Il quadro economico europeo è in continua evoluzione, le oscillazioni dello spread non accennano a terminare ed il quadro politico che si prefigura per il continente europeo è di totale instabilità da un punto di vista economico, con il rischio reale che l'euro termini la sua breve storia, rischio concreto, che alimenta le preoccupazioni di molti stati, sarebbe invece salutata da altri quasi con un sospiro di sollievo.L'Europa è al centro di una grande speculazione internazionale, la Germania non accenna a cedere alle richieste degli altri stati e prosegue sulla linea del rigore. Questa situazione di instabilità economica genera processi di elevata confusione politica che determinano radicali cambi di governo ed notevoli elementi di conflittualità negli stati.

Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 28-29 giugno viene presentato come un punto di svolta nella lunga serie di vertici europei degli ultimi mesi: Monti ritorna in Italia soddisfatto di quanto ottenuto, in primis lo scudo anti-spread, ma malgrado i proclami televisivi la realtà è molto differente.Infatti lo scenario europeo non sembra mutare: la Germania continua ad opporsi agli eurobond, il Parlamento approva il Fiscal Compact, che prevede fra le sue “regole auree” l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza ogni anno.Siamo di fronte a circa 20 anni di rigore, aumenti tasse e/o tagli alle spese ogni anno quasi pari a 50 miliardi di euro solo per noi cittadini italiani.

Le democrazie parlamentari sono svilite del loro ruolo mentre la Troika continua ad imporre scelte durissime agli stati europei: prestiti forzosi al solo scopo di garantire il pagamento di debiti contratti con le banche stesse seguiti però da durissime ricette imposte agli stati stessi, costretti a ridurre la spesa pubblica e a mantenere gli impegni presi con l'Europa anche a costo di pesantissime ripercussioni sociali represse con la forza.

L'Italia non è ovviamente immune da queste ricette recessive, collocandosi in questo quadro socio-politico. Nel mese di marzo il tasso di disoccupazione in Italia è salito al 9,8%, ancora peggiori sono i dati della disoccupazione giovanile (15-24 anni) che a marzo è salita a quota 35,9%, in aumento di due punti percentuali su febbraio. Su base mensile si tratta anche in questo caso del dato più elevato dal gennaio 2004.

Nel frattempo R&S Mediobanca pubblica un rapporto secondo il quale i contribuenti dei diversi Stati hanno versato nell’arco di quattro anni 4.700 miliardi di euro per il salvataggio delle banche europee e degli Stati Uniti, se con quei soldi avessimo ripubblicizzato queste banche, ora i loro BOT e BTP sarebbero proprietà dello stato. In Europa gli interventi pubblici sono stati pari al 37% del Pil, in Italia arrivano al 5,5% della ricchezza nazionale.

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Nel nostro paese, nonostante la riforma delle pensioni e la riforma del mercato del lavoro, si discute e si prosegue verso l’approvazione della spending review, una manovra da 4,5 miliardi per il 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014.

Il dramma della situazione sociale del paese rischia di aggravarsi anche a seguito delle recenti riforme del mercato del lavoro approvate dal governo, con un consenso parlamentare molto ampio, che precarizzano ulteriormente il futuro di una generazione e che - per quanto non vengano introdotte particolari novità negative o positive - determina però un'accettazione dell'esistente e quindi della precarietà come dato esistenziale non modificabile.

Allo stesso modo la Spagna di Rajoy continua a scendere in piazza contro i tagli alla spesa pubblica e al welfare, suscitando ondate di repressione violenta da parte delle forze dell’ordine, nel frattempo il Fondo Monetario sarebbe pronto a bloccare gli aiuti alla Grecia perchè inadempiente. E’ l’ennesimo schiaffo alla democrazia greca: dopo aver convinto l’opinione pubblica della necessità di votare Nea Dimokratia (lo stesso partito che ha condotto la Grecia in crisi) per poter rimanere all’interno dell’UE. Dopo aver tuonato contro la minaccia di Syriza, adesso l’Europa è pronta a tagliare nuovamente fuori la Grecia.

Per quanto le elezioni francesi abbiano determinato un cambiamento nello scenario politico europeo, ad oggi non pare che la spinta di partecipazione e le volontà di costruire una discontinuità con le politiche liberali di Sarkozy da parte di Hollande in Francia e in Europa si sia realizzato malgrado qualcuno lo ritenesse possibile. Emerge oggi l'incapacità da parte delle forza socialdemocratiche europee di porsi in discontinuità con il pensiero neoliberista che governa l'Europa.

Per quanto nel nostro paese alcune forze politiche rivendichino un’affinità inesistente da un punto di vista contenutistico con il progetto di Hollande e la sinistra extraparlamentare un’affinità con il progetto di Syriza è evidente come nessuno di questi esempi rispecchi la realtà italiana.

Il dibattito dei prossimi mesi rischia ancora una volta di appiattirsi sulle strategie elettorali se i movimenti sociali non saranno in grado nuovamente di imporre nel dibattito politico i temi fondamentali sui quali creare discrimine: da una parte chi ritiene che questo sistema economico vada salvato, dall’altra parte chi ritiene che vada costruita un’alternativa al sistema.

E’ evidente che sarebbe necessaria la costruzione di un movimento globale e certamente di un movimento europeo, è altrettanto evidente che però i tentativi messi in campo finora non sono stati sufficienti: dal 15 ottobre a Blockupy Francoforte non si è riusciti a costruire delle coalizioni sociali all’interno dei paesi europei in grado di creare connessioni virtuose tra le varie lotte che si esprimono in giro per l’Europa. La creazione di ampie coalizioni sociali e di movimento in Europa in grado di incidere politicamente in Europa rimane, però, un obiettivo da perseguire nonostante le difficoltà.

Necessitiamo oggi di una coalizione europea delle lotte che sappia parlare un linguaggio anti-austerity comprensibile anche a chi vive una condizione di benessere maggiore in Europa proprio a seguito dell’imposizione di determinate politiche di subordinazione e sfruttamento da parte dei

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governi di alcuni stati su altri e che riesca a ricomporre il frammentato quadro europeo dei conflitti, coordinandoli e costruendo grandi mobilitazioni europee.

Vediamo manifestarsi in Italia un dibattito di posizionamento politico e di divisioni tutto interno al centro-sinistra che non farà emergere nessun contenuto.Allo stesso tempo viviamo nel rischio reale che un sentimento anti-politico diffuso nel paese acquisisca maggiore consenso e determini di fatto la creazione di aree politiche stabili nel tempo e non sintomatiche, con le quali dover fare necessariamente i conti nel futuro.

Questo impone una riflessione laica all’interno delle strutture sociali e di movimento: come ripartire? In che modo evitare che i movimenti muoiano sul nascere perchè spazzati via da un dibattito meramente incentrato sulle alleanze elettorali? In che modo si può influenzare il dibattito pubblico costruito dalle forze politiche sfidandole tramite l’organizzazione del conflitto e della costruzione di contenuti realmente alternativi a quelli imposti dal Governo Monti come uniche ricette possibili? In che modo si costruisce un quadro d’opposizione complessivo a livello europeo?

E’ evidente che ancora una volta spetta ai soggetti sociali che in questi anni sono stati protagonisti dei movimenti di protesta provare a rispondere: noi studenti, i lavoratori, i precari, a partire dalle battaglie locali e nazionali messe, in campo abbiamo il compito di dare risposte, provando a costruire un salto di qualità nell’analisi e nelle pratiche che è richiesto per non lasciare lo spazio a chi coprirà ugualmente questo vuoto: l’antipolitica, la violenza privata, le organizzazioni criminali, i movimenti neofascisti.

Per fare questo la nostra organizzazione ha la necessità di riportare questo dibattito nei luoghi della formazione per trasformarli nuovamente in luoghi di resistenza e, al contempo, deve ripensare all’interno della Rete della Conoscenza come moltiplicare, organizzare e migliorare ogni luogo di partecipazione politica e sociale territoriale e nazionale.

Tesi 1 - L'attacco alla conoscenza in Europa e nel mondo.

Questi anni saranno ricordati senza ombra di dubbio per lo spettro della crisi economica e sociale che coinvolge mezzo mondo. L'Europa, come noto, non ne è immune: la crisi del debito sovrano che attanaglia i paesi mediterranei che potrebbe affossare l'intero progetto di un'Europa unita, è ormai percepibile in tutti i settori della società. I saperi e la conoscenza sono stati tra i settori più lacerati e depauperati da una strategia che affonda le sue radici negli anni precedenti alla crisi economica.

L’inizio può essere collocato nel giugno 1999, quando i Ministri dell'Istruzione dell'U.E. si riunirono a Bologna per sancire la nascita del c.d. “Spazio Europeo per l'Istruzione” che avrebbe dovuto portare entro il 2010 ad importanti risultati: internazionalizzazione tra gli atenei, aumento dell’occupazione per i laureati, perequazione tra i sistemi formativi dei paesi dell'Unione, etc...

Per quanto questi fossero gli obiettivi di facciata, la realtà che ha preso forma negli anni seguenti è diversa. In questi anni abbiamo infatti assistito ad una sfrenata corsa verso la competizione tra atenei, con la scusa dell'eccellenza, che ha determinato conseguenze catastrofiche per gli universitari, che in molti paesi hanno risposto con lunghe mobilitazioni di piazza.

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I processi di parcellizzazione del sapere, iniziati con il Bologna process e proseguiti negli anni, hanno dato l'avvio in tutta Europa ad un profondo mutamento dell'università che ha visto aumentare in modo massiccio il numero dei suoi iscritti ma diminuire la qualità dell'offerta formativa ed ha precarizzato i percorsi di formazione interni ed esterni all'università.

La messa in competizione tra gli atenei ha portato le università non a coltivare le proprie specificità nella didattica e nella ricerca, ma piuttosto sui servizi offerti e sulle possibilità reali o teoriche che le facoltà offrono per l'ingresso nel mondo del lavoro.

Alla competizione ha fatto seguito l'abbandono della filiera della conoscenza da parte del sistema pubblico: lo stato, non più in grado di sostenere economicamente l'impianto sociale costruito a partire dal dopoguerra, diminuisce i finanziamenti e cede di fronte all'avanzata delle politiche neo-liberiste. La conoscenza, come tutto l'impianto pubblico, subisce un pesante attacco ideologico ed economico che la vede trasformarsi da strumento di diffusione delle conoscenze e di miglioramento delle condizioni sociali dei singoli individui a spreco da tagliare oppure a oggetto da privatizzare con un conseguente aumento spropositato delle tasse universitarie in molti stati europei.

Desiderosi di arricchirsi grazie alle privatizzazione dei saperi e ai debiti che gli studenti contraggono per accedere ad un sapere sempre più ristretto e costoso, enti e privati decidono di investire in alcuni settori redditizzi, scaricando i saperi improduttivi ad un sistema pubblico non più in grado di sostenere i costi derivanti della richiesta di conoscenza proveniente dalla società.

In Europa questo fenomeno si è reso visibile in molti paesi. In Inghilterra la scintilla si è avuta con l'aumento, voluto dal Governo Cameron, che ha triplicato l’importo delle tasse universitarie dei College pubblici, già terzi nella classifica europea dei più costosi; le proteste si sono caratterizzate per i violenti scontri a Londra ed in altre città del Paese, invase da centinaia di studentesse e studenti costretti a pagare circa 9.000 sterline l'anno successivo per la propria formazione universitaria. Siffatto provvedimento ha già ottenuto un primo risultato: il numero degli studenti britannici che ha fatto domanda di iscrizione a uno degli atenei del paese è diminuito dell'8% (fonte: Universities and Colleges Admissions Services).

Stessa sorte in termini di aumento sostanziale della tassazione si sta verificando in Spagna, dove il sistema delle borse di studio è molto debole e in molte università non esistono esenzioni totali per i redditi minimi. L'”Osservatorio per l'Università” ha calcolato che gli incrementi saranno molto elevati: dovendosi versare una somma calcolata in base al "costo del servizio” le iscrizione al primo anno potranno pesare sugli studenti tra il 15 e il 25% del totale, mentre negli anni seguenti potranno giungere al 50%. per gli studenti spagnoli e addirittura al 100% per gli studenti stranieri extracomunitari. In Catalogna (fonte: Sindacato Studentesco Aep) la contribuzione studentesca aumenterà complessivamente addirittura del 66%.

La Spagna è divenuto recentemente un laboratorio in cui sperimentare le fallimentari ricette neo-liberiste in campo accademico: il “sistema del 3+2” (che in realtà nella penisola iberica somiglia più ad un 4+1 - 4+2) è giunto da meno di un lustro, ma ha già creato molti problemi. I 4 anni configurano una sorta di laurea di primo livello all'italiana, l'anno o il biennio rimanente una sorta

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di master senza del quale risulta praticamente impossibile trovare un'occupazione; i master sono in genere molto costosi e quindi accessibili solo per quei pochi facoltosi che non hanno deciso di frequentare Atenei privati.

La stessa privatizzazione dei saperi che vediamo realizzarsi in Europa coinvolge sotto forme diverse gli Stati Uniti, dove si è sviluppato il movimento “Occupy student debt” che ha l'obiettivo di denunciare i drammatici indebitamenti di migliaia di persone in America, contratti per poter aver accesso all'università (le università più prestigiose e quelle di qualità media hanno delle rette molto elevate).A seguito della crisi economica e per il mutamento delle condizioni sociali molti debitori si sono ritrovati a dover restituire alle banche migliaia di dollari, non riuscendo però spesso a far fronte agli interessi e ad estinguere i debiti. Molti analisti ritengono che la bolla speculativa del debito studentesco americano sarà la prossima a scoppiare a livello mondiale con conseguenze paragonabili a quelle della bolla immobiliare.Allo stesso modo oltreoceano si è concretizzata una situazione di conflitto impetuosa ed inaspettata in un altro paese storicamente restio alle proteste di massa: il Quebec, Canada.A marzo scorso un grandissimo movimento studentesco ha portato in piazza, a più riprese, oltre 300.000 studenti, sindacati e società civile dapprima contro l'aumento del 75% delle rette universitarie (per degli studenti già imprigionati nelle bolle debitorie dei prestiti d'onore), poi contro la “Ley 78” provvedimento legislativo liberticida e totalmente anti-democratico approvato per soffocare le lunghe proteste degli studenti (già represse da forti violenze della polizia) che hanno anche portato alle dimissioni della Ministra dell’Educazione Line Beauchamp.

Oggi ad 11 anni dal Processo di Bologna, la sentenza e le motivazioni del suo fallimento appaiono impietosi. Gli scopi non sono stati minimamente conseguiti: i programmi Erasmus sono sotto-finanziati e quindi elitari, la precarizzazione è una condizione generazionale lontanissima dall’impiego a tempo indeterminato per cui il laureato ha studiato ed i sistemi universitari sono rimasti ancorati a schemi nazionali, le carriere universitarie sostenute all'estero non sempre sono riconosciute.Davanti ad un fallimento annunciato e ad oggi accettato da molti in Europa, si continua però sulla strada della privatizzazione e della costruzione di legami tra saperi e mercato, legando la conoscenza a logiche efficientiste ed aziendalistiche tanto da sottomettere il ruolo dell'Università e della Ricerca a quello dei mercati finanziari.

Tesi 2 - La privatizzazione dei saperi in Italia.

L'attacco più forte all'università pubblica italiana è sicuramente rappresentato dal processo di privatizzazione dei saperi che, iniziato ormai un ventennio fa, sembra essere giunto negli ultimi anni al suo atto finale. Tale processo, pur essendo composto da diversi “sottoprocessi”, deve essere analizzato nel suo complesso, come paradigma interpretativo dello smantellamento del sistema universitario pubblico. Per questa ragione solo una ripubblicizzazione complessiva dei saperi risulta essere oggi l'unica strada per la loro liberazione e per la riappropriazione della formazione e della conoscenza da parte della collettività.

Su questo tema è in corso da anni una campagna di propaganda dell'establishment, indirizzata ad affermare il principio per cui tutto ciò che è pubblico è inefficiente, corrotto, vecchio, clientelare, paternalista e non premia il merito, mentre tutto ciò che è privato è efficiente, meritocratico,

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capace di generare innovazione. Difendere la vecchia istituzione dell'univesità pubblica dai processi di privatizzazione risulta quindi essere difficile, se non impossibile. Non si può negare che ci siano degli elementi di verità nelle critiche che si rivolgono al sistema pubblico, ma allo stesso tempo non è accettabile che l’unica alternativa possibile sia tra un pubblico inefficiente e un privato efficiente. Dobbiamo provare a ribaltare il dibattito, cercando di andare alle vere radici del problema.

La privatizzazione non consiste semplicemente nell'ingresso dei privati in Cda (stabilito dalla legge Gelmini) o nel finanziamento delle scuole e delle università private. Non si tratta semplicemente di preferire il “privato” al “pubblico” o solamente di voler trasformare il “pubblico” sempre più in “privato”. Si tratta di una diversa concezione di cosa devono essere il sapere, la formazione, la conoscenza. Una concezione possibile è quella di che ha governato in Italia e in Europa negli ultimi vent'anni ed è quella ormai egemone in gran parte dell'establishment: il sapere dev'essere di qualità solo per pochi che possono permetterselo, la sua trasmissione dev'essere governata da meccanismi di efficienza e risparmio, la sua ricerca dev'essere controllata e diretta da interessi aziendali, non accademici o scientifici. Ma soprattutto il sapere dev'essere una risorsa scarsa e, come tale, deve rispondere a criteri di competitività e generare profitto.Una concezione totalmente antitetica è invece quella di cui invece il movimento studentesco si è fatto portatore da sempre in Italia: il sapere deve essere libero, accessibile a tutti, indipendentemente dalla condizione economica di partenza o dal luogo di nascita.Tra le due concezioni esiste una differenza fondamentale: quella tra università d’elité per pochi e università di massa per tutti.

E' evidente a tutti che se il sapere diventa qualcosa con cui e su cui generare profitto, i criteri che guidano la sua produzione e la sua elaborazione devono essere quelli che massimizzano il profitto e minimizzano i costi, non certamente quelli che producono sapere libero, di qualità e per tutti.Diverso è il fine che si vuole attribuire al sapere: dev'essere pubblico perché deve rispondere ad un interessa pubblico, cioè di tutti, della collettività, oppure dev'essere privatizzato perché deve rispondere all'interesse di pochi? Privatizzazione significa quindi ideologia del mercato e del profitto a tutti i costi all'interno del mondo della formazione e trasformazione del sapere in merce.

La privatizzazione dei saperi non un atto indipendente dal quadro politico-ideologico oggi dominante, anzi è funzionale al sistema stesso: privatizzare i saperi significa creare profitto partendo dall'accumulazione nelle mani di pochi di conoscenza, utilizzata come strumento di divisione sociale, ma significa anche lucrare sui profitti derivanti dalla privatizzazione stessa.

Nell'ultimo ventennio abbiamo assistito all'attuazione di tale processo grazie all’utilizzo di vari strumenti: l'introduzione di meccanismi per rendere il sapere meno accessibile a tutti (come i tagli al DSU e l’introduzione del numero chiuso un po’ dovunque), la riduzione dei finanziamenti pubblici agli atenei, che in diversi casi sopravvivono grazie a quelli dei privati, l’ingresso dei privati direttamente nei consigli d'amministrazione degli atenei. La privatizzazione non è quindi stata un processo settoriale, ma ha coinvolto tutti gli ambiti della formazione, dal diritto allo studio, alla condizione economica degli studenti, alla didattica, dalla ricerca alla governance degli atenei.

Possiamo individuare l'inizio del processo in Italia con la riforma Ruperti del 1990, che introducendo la possibilità per i privati di finanziare l'università e l'autonomia finanziaria degli atenei, ha dato avvio alla competizione nel settore della formazione. Il vero momento di svolta si è avuto però nel 2000 con la riforma Zecchino-Berlinguer, declinazione italiana del processo di Bologna, che, attraverso il 3+2 e il sistema dei crediti, ha introdotto di fatto un sistema di

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quantificazione del sapere, che avrebbe dovuto renderlo più spendibile sul mercato del lavoro. Il non raggiungimento degli obiettivi e il fallimento del sistema 3+2 è evidente e ormai riconosciuto un po’ da tutti: gli unici effetti ottenuti sono stati una maggiore frammentazione della didattità, l’impoverimento in termini di qualità, all'iperspecializzazione di corsi di laurea.

Tra il 2008 e il 2010 il governo di centrodestra ha sferrato un attacco senza precedenti all'università pubblica. Con la legge 133/08 vengono tagliati 1,5 miliardi di euro in 4 anni al fondo di finanziamento ordinario degli atenei, che, messi in ginocchio dai tagli, reagiscono aumentando in modo vertiginoso le tasse. Nel 2010 la legge Gelmini, tra le altre cose, modifica i sistemi di governance degli atenei, leggittimando e istituzionalizzando i meccanismi di lobby da parte dei finanziatori privati degli atenei, sempre meno democratici e totalmente nelle mani di baroni e rettori.Sommando a tutto ciò i pesanti tagli al diritto a livello nazionale e regionale, emerge un netto peggioramento tanto della condizione studentesca, quanto della situazione dell’università pubblica.

Con gli ultimi decreti, il ministro Profumo sceglie di porsi in continuità con i suoi predecessori prevedendo aumenti delle tasse regionali per il diritto allo studio, l’eliminazione di fatto del limite del 20% della contribuzione studentesca rispetto all'FFO, creazione dell'ANVUR e inizio del processo di valutazione dei corsi di studio e degli atenei. Il progetto è chiaro: la ristrutturazione del sistema universitario italiano, che dovrà essere composto da pochi atenei finanziati in maniera adeguata, con investimenti adeguati per ricerca e didattica, con tasse molto alte e una formazione di qualità, e tanti atenei, sottofinanziati, rivolti solo alla didattica, più accessibili dal punto di vista economico per le classi lavoratrici.Il processo di privatizzazione dei saperi che è in atto in Italia da alcuni anni non è dissimile da quello che si sta sviluppando o che è già arrivato a compimento in altri paesi, perciò lottare contro la privatizzazione dei saperi non può avvenire solo in quadro locale ma deve avere un respiro internazionale.

Tesi 3 - Dalla non-università all’università del profitto.

Analizzando gli effetti che avrebbe avuto la legge Gelmini, prima ancora dell'approvazione, denunciavamo il rischio reale che i nostri atenei si trasformassero in una non-università, luoghi vuoti senza studenti né docenti, grandi scatole vuote senza un ruolo reale nella società. Sembrava che si volesse salvare il contenitore eliminando il contenuto.

Oggi assistiamo al processo conclusivo di un percorso di privatizzazione dei saperi iniziato 20 anni fa ed è tempo, a conclusione di numerose contro-riforme, di tracciare un bilancio del ruolo e della funzione dell'università.

L'università rischia di perdere il suo ruolo di motore di cambiamento e sviluppo sociale e di essere relegata ad uno dei tanti strumenti di profitto nelle mani del sistema capitalistico. L'università non è mai stata esterna al sistema produttivo, anzi spesso attraverso lo sviluppo del sapere ha determinato la creazione di innovazione tecniche o teoriche che hanno permesso miglioramenti per l'intera società; inoltre l'università ha sempre provato ad essere uno strumento di emancipazione sociale: studiare serviva a migliorare la propria condizione economica e sociale e ad accrescere le proprie competenze.

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A cosa serve l'università oggi? Dal punto di vista del singolo studente, la risposta è semplice: permettere l'accesso alla conoscenze. Ma per il mondo economico o per quello della ricerca? Per quale ragione è utile oggi mantenere in piedi questa struttura?

L'università ha subito una serie di processi di privatizzazione che l'hanno resa sempre meno libera, democratica ed inclusiva, allo stesso tempo il capitale ha investito sull'università e sui saperi non tanto come strumento per produrre conoscenze da sfruttare ma piuttosto come enti in grado di generare profitto.

Il taglio del finanziamento pubblico alle università e alle scuole ha permesso al privato di acquisirle a bassi costi: gli atenei hanno dovuto essere gestiti dall'esterno e procacciarsi una quota sempre maggiori di finanziamenti privati, difficilmente concessi senza contropartite. La classe baronale, compiacente pur non perdere nessun privilegio, ha deciso di accettare supinamente questa situazione svendendo le università ai privati, fossero essi piccole aziende locali o grandi banche internazionali.

Ma cosa si guadagna ad investire nell'università? Una parte di mondo capitalista sicuramente necessita di alti livelli di formazione professionale e preferisce risparmiare investendo nella formazione generale e comprandosi materialmente dei corsi di studio, piuttosto che su percorsi di formazione interna negli stessi enti privati successivi al percorso di studio. Così aziende o grandi istituti di credito hanno acquistato dei corsi di studio o dei dipartimenti, indirizzandone la didattica e la ricerca, riuscendo così da un lato a garantirsi professionalità elevate a spese del sistema pubblico e dall'altro ad orientare lo sviluppo della conoscenza verso settori utili all'accumulazione di capitale.

Tutto ciò non basta da solo, i prodotti della ricerca e l'indotto non sono fonti di guadagno sufficienti, né lo sono i profitti derivanti ad esempio dalla creazione di sedi o poli decentrati, è necessario guadagnare sullo studente stesso, sul singolo individuo e sulla sua volontà di accedere alla conoscenza.

Non sarebbe utile privatizzare l'istruzione se poi questa potesse essere patrimonio di tutti, è necessario quindi che la conoscenza diventi irregimentata ed elitaria, ovvero una risorsa scarsa. La conoscenza è diventata così uno strumento di divisione e non più di inclusione sociale.

In questo modo è iniziato un processo, che in Italia è recente ma in altri paesi dura da anni, finalizzato a guadagnare sul desiderio di accedere alla conoscenza, diventata sempre più costosa.Lucrare sui saperi significava rendere la conoscenza fintamente accessibile a tutti ma di fatto permetterne l'utilizzo a pochi e guadagnare sulla volontà di tutti potervi accedere, incrementando il sogno di migliorare le proprie condizioni personali attraverso lo studio.

Lo strumento del prestito studentesco è assolutamente funzionale a questo scopo: come si guadagna sull'indebitamento degli stati si può guadagnare anche sul debito individuale, generando profitto per pochi a partire dal desiderio di molti.

Anche le misure che mirano a limitare l'accesso alla conoscenza concorrono a questo scopo, per incrementare però la volontà del singolo di accedere al sapere e per guadagnare sul suo debito serve comunque evitare che gli spazi di accesso siano troppo ristretti. Tutto ciò risponde inoltre alla duplice esigenza del capitale di produrre cervelli e innovazione in poche università iper-finanziate e iper-specializzate e nello stesso tempo creare grossi parcheggi sociali, grandi atenei

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utili solo ad una distribuzione generica della conoscenza e sui quali poter guadagnare attraverso lo strumento del debito.

Anche espellere dai processi formativi centinaia di persone e svilire altri processi esistenti di formazione serve al capitale: differenziare le università e creare una serie di parcheggi sociali è utile poiché oggi servono poche conoscenza ma un grande esercito di sotto-proletariato di riserva su cui potersi arricchire guadagnando sulle loro aspettative e da poter sfruttare per i propri scopi.

Ecco quindi creata l'università del profitto, un luogo che guadagna sull'occupazione degli spazi pubblici e sui sogni delle persone e che riesce a garantirsi una grande massa di lavoratori da sfruttare.

Esiste alla base un conflitto apparente, che non sappiamo se si scioglierà in futuro, tra due diversi impostazioni che sono in realtà la faccia dello stesso sistema: quella che necessita solo di una massa da sfruttare e quella che ha bisogno di guadagnare sui sogni e sulle competenze.

Tesi 4 - Il nostro ruolo come organizzazione sociale nell'università del profitto.

Nell’università del profitto non è semplice comprendere che ruolo deve assumere la nostra organizzazione. Se l'università in cui studieremo e vivremo non sarà maggiormente asservita alle logiche capitalistiche, noi dobbiamo necessariamente ripensare alla radice il nostro ruolo.

Link è un'organizzazione nazionale di ispirazione sindacale che nasce con la volontà di praticare un forte conflitto nei luoghi della formazione. L’ispirazione sindacale ci porta a lavorare negli organi degli atenei, accettando la rappresentanza come strumento e non come fine per cambiare la condizione degli studenti e per difenderne i diritti. Negli anni abbiamo analizzato la condizione dei soggetti in formazione non solamente all’interno delle università, ma abbiamo preso in considerazione le problematiche complessive che uno studente vive.

In un'università radicalmente diversa sarà ancora possibile mantenere inalterato questo modello? In che modo ripensiamo il nostro modello sindacale? Come possiamo pensare di agire nell’università del profitto?

E’ fondamentale lottare per evitare che l'università venga completamente asservita al potere, continuare - attraverso la pratica continua del conflitto - a difendere i diritti degli studenti, lottare per una ripubblicizzazione dei saperi che probabilmente sarà un processo di lunga durata, evitare di arrendersi all'esistente. Ma tutto deve essere riadattato ad un’università diversa.

Diversa poiché muteranno i tempi di vita: già il 3+2 aveva accelerato profondamente la vita universitaria e non l'ingresso nel mondo del lavoro, velocizzando i tempi di studio, ora l'aumento delle tasse universitarie, la continua retorica del merito che bolla i fuoricorso come parassiti della società e li mettono ai margini dei processi formativi creano un’ulteriore accelerazione. I continui blocchi all'accesso rischiano di portare ad una diminuzione notevole del numero degli studenti. Coloro che si iscriveranno o si potranno permettere i costi crescenti dell’università, si indebiteranno per farlo e proveranno a massimizzare i profitti e minimizzare i costi, uscendo dall'università nel più breve tempo possibile. L'università del profitto da un lato accelera i tempi e dall'altro guadagna sulle aspettative e sulle volontà dei singoli.

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Dove si collocherà quindi il tempo dell’attività politica? Dove il tempo delle rivendicazioni?Per comprendere questo serve da un lato analizzare a chi si rivolge l'azione e dall'altro capire qual è il suo obiettivo.

La nostra organizzazione dovrà sempre rivolgersi agli studenti, facendo bene attenzione alla trasformazione degli studenti in utenti passivi. Per evitare di trasformarsi da associazione di stampo sindacale ad organizzazione in difesa dei consumatori serve lottare per mantenere l'università aperta e soprattutto creare coscienza studentesca sia tra coloro che entreranno all'università e saranno costretti a vivere un percorso di studio sottoposto a centinaia di pressioni economiche e sociali, sia tra coloro che non entreranno o verranno espulsi dai processi di formazione.

Per rivolgersi ad entrambi i soggetti e quindi evitare di soccombere a causa del venire meno del nostro ruolo sociale, serve intensificare la nostra azione comunicativa e sindacale anche attraverso la relazione con l'UdS e la creazione di nodi della Rete della conoscenza. Occorre evitare la scomparsa dei soggetti in formazione e riuscire a costruire una coscienza studentesca anche in chi rischia di non potersi permettere di fare parte della stessa categoria di studenti , a causa dei processi di sfruttamento del capitale che determinano processi di esclusione sociale. Sarà probabilmente necessario aprire una riflessione all'interno della nostra organizzazione su come coinvolgere ed interpretare le istanze di coloro che non sono studenti ma che vorrebbero esserlo.

Tutto ciò serve anche ad evitare che la politica universitaria diventi appannaggio di pochi e che quindi Link si limiti a difendere l'esistente perché ancorata ad un vecchio schema di ragionamento e incapace di confrontarsi appieno con i cambiamenti. Cosa rischia di diventare la nostra organizzazione quando chi frequenterà l’università non vivrà, e quindi di non potrà rappresentare, la materialità dei problemi, in quanto parte di una classe iper-privilegiata?

Analizzato e sciolto il nodo del soggetto a cui si rivolge l'azione serve concentrarsi sull'azione da svolgere: come riuscire a difendere i diritti degli studenti con il rischio reale che non vi siano spazi per farlo? Davanti a questa prospettiva serve inventare gli spazi stessi, serve creare una nuova coscienza di classe nel soggetto studentesco, per fargli esprimere le sue potenzialità e per dare una risposta alle esigenze stesse degli studenti. Se l'obiettivo finale diventa quindi quello di liberare i saperi, l'obiettivo intermedio può essere la creazione di micro-spazi di conflitto nelle università contro ogni processo di privatizzazione, che garantiscano e provino ad ampliare dei diritti e gettino i semi per un percorso rivendicativo e politico più ampio di ripubblicizzazione.

Ovviamente non dobbiamo cadere nel tranello di puntare alla conservazione di noi stessi, proprio per questo deve essere chiaro che l'obiettivo primario resta quello di lottare per un'università pubblica e democratica all'interno della quale gli studenti saranno in grado di darsi forme organizzative e di riconoscersi non esclusivamente nella pratica e nell'azione sindacale un modo per difendere i loro diritti e lottare per cambiare le università e la società all'interno della quale gli studenti saranno in grado di darsi forme organizzate e di riconoscersi nella pratica e nell'azione e non solo sindacale, ma anche di movimento e di cittadinanza e rappresentanza attiva per difendere i loro diritti e lottare per cambiare le università e la società tutta.

Tesi 5 - Il ruolo della conoscenza oggi, i saperi come strumento di uscita dalla crisi.

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All'interno di un sistema che sta privatizzando i saperi e che sta limitando sempre di più l'accesso alla conoscenza, la domanda “Che ruolo deve giocare la conoscenza nella società?” diventa estremamente importante.

Rispondere a questa domanda, che affonda le sue radici agli albori della società e dello sviluppo del pensiero, non è di certo semplice, comprendere quale sia il ruolo della conoscenza oggi dovrebbe però riuscire a darci una strategia di azione e degli obiettivi a cui tendere.

Nel tempo si è cercato di asservire la conoscenza a necessità specifiche, come la produzione di beni materiali, oppure si sono indirizzate la didattica e la ricerca verso determinati settori utili alla classe dirigente del momento e quindi allo sviluppo di un pensiero dominante, e verso la produzione in settori maggiormente redditizi.Occorre riconoscere che in nessuna epoca si è mai riusciti ad imbrigliare completamente i saperi, tanto che oggi possiamo vantare conoscenze in ambiti e settori differenti e un reale sviluppo di un pensiero critico in numerose epoche storiche.

Negli ultimi anni abbiamo però assistito ad una continua privatizzazione dei saperi e all'asservimento della conoscenza alle logiche dello sfruttamento e del profitto capitalistico, dobbiamo quindi ragionare su come liberare i saperi e allo stesso tempo immaginare un ruolo diverso per la conoscenza rispetto a quello in cui l'hanno costretta.

La conoscenza deve essere uno strumento per cambiare alla radice la società. E’ evidente che all'interno di una società capitalistica ci sia la volontà di asservire la conoscenza alle logiche della classe dominante e di utilizzarla come strumento per il mantenimento dello status quo, serve però comprendere come, utilizzandola in un modo differente, essa possa essere uno strumento in grado di mettere in crisi il sistema stesso.

Di certo non possiamo cambiare il ruolo della conoscenza senza cambiare la società, però possiamo partire da un pensiero e da un'elaborazione alternativa e da tutti quei pensieri critici esistenti contro il modello dominante per metterlo in discussione e per costruire un modello di società differente.

La crisi economica che stiamo vivendo è frutto soprattutto di un’ideologia economica dominante di stampo neo-liberista che viene diffusa e propagandata anche e soprattutto nei luoghi di trasmissione del sapere, per quanto i suoi fallimenti siano sotto gli occhi di tutti.Per rovesciare il pensiero dominante serve immaginare un mondo diverso e diffondere le basi attraverso l'utilizzo tanto di sistemi di conoscenza alternativi, tanto di quelli più classici.La conoscenza oggi non è uno strumento per il miglioramento delle condizioni sociali dell'individuo: oltre a non essere più accessibile a tutti, oggi studiare ed acquisire sapere non significa necessariamente migliorare la propria condizione sociale di partenza.

Dobbiamo inoltre esplicitare come ad oggi la conoscenza non sia patrimonio solamente di vecchie istituzioni ma come esista un sapere diffuso e non facilmente controllabile, che può diffondersi attraverso nuovi strumenti di comunicazione. Internet consente di avere accesso gratuitamente a molte informazioni e, entro certi limiti, anche di diffondere gratuitamente o a basso costo idee, informazioni, materiali. Troppo spesso però in questi anni si è esaltato il potere rivoluzionario della rete, ignorando come essa sia uno strumento e non un contenuto e come sia di fatto sottoposta agli stessi interessi del mercato. I principali strumenti della rete (google, facebook, hotmail) sono in

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primo luogo aziende che devono fare profitto, per nulla eterogenee rispetto al potere capitalistico. Negli ultimi anni il processo di accumulazione nel settore è stato tale da generare una ricomposizione del potere capitalistico che fa sentire, anche se in modo debole, la sua presenza e costruisce una minaccia evidente alla tanto decantata libertà della rete, molto più dei tentativi messi in campo dai vari stati negli ultimi decenni.

Serve quindi liberare i saperi, solo così si potrà immaginare un ruolo diverso per la conoscenza, che dovrà essere interpretata non in modo utilitaristico ma allo stesso tempo possibile strumento di uscita dalla crisi.

Infatti liberare la conoscenza significa non soltanto renderla libera dall'asservimento alle logiche del potere ma anche renderla diffusa e quindi patrimonio comune della società, solo eliminando i poteri che bloccano e controllano la conoscenza - siano essi di natura politica, economica o religiosa - possiamo provare ad immaginare un mondo diverso.

Liberando la conoscenza e rendendola patrimonio comune, essa può diventare uno strumento nelle mani della società per il cambiamento degli stili di vita, dei modelli di produzione, dei rapporti di lavoro, … I saperi possono e devono essere uno strumento di cambiamento: pensare a cosa e come produrre, rispettando l'ambiente, evitando il consumo del territorio, riducendo al minimo gli sprechi. Tutti questi possono essere dei piccoli passi per un miglioramento della società.

Ad oggi serve, inoltre, che il sapere sia utilizzato per ripensare i meccanismi che governano la società: non è possibile uscire dalla crisi economica in cui versiamo senza costruire un pensiero alternativo sia teorico che pratico. Si può cambiare il paradigma dominante presente solo liberando i saperi e quindi individuandoli come strumento necessario al ripensamento della società nel suo insieme.

Se non si andrà in una direzione simile si rischia non soltanto di restare ancorati a vecchi schemi fallimentari ma anche di non riuscire a costruire un'uscita dalla crisi che sia in grado di liberare gli individui dallo sfruttamento e di costruire una società più equa e sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale.

Tesi 6 - Il ruolo dell'università nella società che vogliamo.

Ma a cosa serve studiare? Domanda indubbiamente non originale, ma che riteniamo utile porre anche a noi stessi per continuare a riflettere e individuare quale sia il ruolo dell'università nella società attuale e quale in quella che vogliamo costruire. Il dibattito classico sul ruolo e sulla funzione dell'università e dei saperi nella società ruota attorno ad una scissione che pone in contrapposizione due diverse visioni di università apparentemente inconciliabili: da un lato l'università come luogo di elaborazione e di trasmissione di un sapere finalizzato all'accrescimento culturale del singolo e della società intera, dall'altro l'università come luogo di formazione dei futuri lavoratori, dei futuri professionisti e della futura classe dirigente. Entrambe le visioni sono estremamente schematiche e distorcono in parte la realtà e non aiutano a immaginare quale ruolo debba avere nella società radicalmente diversa dall'attuale che ci impegniamo a costruire proprio a partire dalla trasformazione dell'università.

E' evidente che il ruolo dell'università del 2012 non può che essere diverso da quello che l'unversità poteva avere un secolo fa o anche solo 50 anni fa. Abbiamo assistito a diverse

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evoluzioni, a diverse trasformazioni: da sacro luogo, unica e indiscussa fonte del sapere, a luogo di formazione della futura classe dirigente, fino all'università di massa, quella attuale. Trasformazioni frutto da un lato di grandi movimenti di protesta come quello del '68, che rivendicava un'università accessibile a tutti, ma anche della necessità di una maggiore quantità di manodopera qualificata per la produzione economica.

L'università in diversi momenti ha dovuto “seguire” le esigenze di mercato, formando di volta in volta forza lavoro più o meno qualificata, più o meno specializzata. Anche l'introduzione del 3+2, con l'introduzione della cosiddetta “laurea breve”, rispondeva all'esigenza di avere una formazione di livello intermedio (più del semplice perito o del diplomato in generale, ma meno di un laureato a livello specialistico), più spendibile sul mercato. Il fallimento di questo tentativo è - tra l'altro - sotto gli occhi di tutti.

Se da un lato l'università deve continuare ad avere quella funzione di “organo costituzionale” come la definì Piero Calamandrei, di formazione di cittadini consapevoli, di accrescimento culturale della società, è innegabile che ora l'università abbia assunto anche il compito di formare i futuri lavoratori, i futuri professionisti, i futuri dirigenti, compito che in altri paesi europei viene in parte svolte da altri luoghi di formazione professionale, che non esistono in Italia.

Negli ultimi anni però si è arrivati a degenerazioni nel rapporto università-mondo del lavoro, come il fatto che in molti casi siano le aziende o le banche (magari le stesse che finanziano gli atenei) a “ordinare” i lavoratori che desiderano, determinando le caratteristiche, le competenze, la formazione che i laureati devono avere per poter avere un posto nell'attuale mondo del lavoro. E' chiaro come questo sistema, oltre che da rifiutare da un punto di vista politico, risulta essere a dir poco miope per lo stesso sistema economico del paese.

Non ci può essere innovazione o cambiamento se il principale luogo di elaborazione e trasmissione del sapere viene soggiogato alle regole del mercato, del profitto, dell'efficienza e del risparmio, se si sceglie di formare laureati che non sono in grado di pensare e innovare, ma solo di ripetere meccanicamente ciò che già avviene, di ideare e produrre ciò che già si produce nel modo in cui già lo si produce. Dal nostro punto di vista, l'università non deve essere legata per forza al dogma della produzione, e quindi rimanere compatibile con l'attuale sistema economico, ma deve essere prima di tutto centro propulsivo del cambiamento radicale del modello di sviluppo. Se l'università e il sapere sono pubblici, sono cioè non solo amministrati da enti pubblici, ma rispondono alle esigenze di tutti e non di pochi, allora non ci si può non porre il tema della responsabilità sociale che essa deve avere, soprattutto a partire dalla formazione professionale.

L'istituzione universitaria deve porsi il problema di quale sapere venga trasmesso, se esso sia finalizzato al benessere di tutti o al profitto di pochi, se il laureato che essa ha formato utilizzerà quel sapere tenendo conto dell'interesse pubblico. Ciò non significa “limitare” la ricerca o censurare la didattica, ma dare un ruolo diverso all'università all'interno della società e dell'economia. Il rapporto dell'università con il territorio e con la società dev'essere rideclinato nel senso di fare dei luoghi della formazione motori di cambiamento del modello di sviluppo, di riconversione ambientale e sostenibile dell'economia, di tracciare direzioni nuove per l'economia e per la società. In questo senso l'università come luogo di formazione di lavoratori e professionisti potrebbe risultare un'occasione invece che un problema.

Non crediamo che immaginare un'università con questo ruolo sia per forza in contrapposizione con le motivazioni individuale che spingono ad iscriversi all'università, che sono nella maggior parte dei

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casi l’aspirazione ad un lavoro migliore di quello dei propri genitori, retribuito abbastanza per poter condurre una vita autonoma dalla propria famiglia; non va infatti negata la funzione di università come strumento di emancipazione sociale.

Si tratta però di prendere atto che questo strumento non funziona più e che perché funzioni occorre ripensare totalmente il rapporto università-mondo del lavoro, rifiutando spiegazioni semplicistiche o false, della serie “abbiamo troppi laureati”, “i nostri laureati sono troppo formati” o “si studiano cose inutili”, rifiutando la logica per cui è l'università che si deve adattare alle aziende che esistono e fornire loro i lavoratori di cui hanno bisogno. Occorre piuttosto che il mondo del lavoro si deve adattare alle esigenze della società libera e democratica, che - attraverso un utilizzo positivo dell'università e dei saperi - dovrebbe liberare il lavoro e indirizzare la produzione al benessere generale.

In Italia il numero dei laureati è ancora troppo basso rispetto agli altri paesi del mondo occidentale. Di fatto, siamo alla crisi dell'università di massa, sospesa a metà tra accademia e grande liceo, crisi a cui sono giunti anche altri paesi, senza però aver raggiunto il loro stesso livello d'istruzione generale della società.

Dobbiamo, proprio nel momento in cui si cerca di risolvere questa crisi nel peggiore dei modi -cioè riducendo l'accesso e il diritto allo studio - continuare a porre il tema dell'innalzamento dell'istruzione generale di un paese.

Inoltre è necessario fare i conti con una realtà in veloce cambiamento, in cui la divisione temporale tra “in formazione” e “formato”, tra “studente” e “lavoratore” è più sfumata che in passato. Non siamo più di fronte allo studente che passivamente apprende fino alla fine del suo percorso di studi e poi comincia a “produrre” dopo averlo concluso. Nel contesto della formazione permanente, l'università come mondo separato dalla società in cui ci si prepara e ci si forma per entrare in essa non ha più senso. Alla condizione di studente-lavoratore si deve aggiungere dunque quella del lavoratore-studente, ovvero di un lavoratore impiegato in questo nuovo sistema produttivo che gli richiede, da una parte una formazione in costante aggiornamento in merito alle competenze già acquisite, dall’altra la possibilità di poter accedere per tutto l’arco della vita a processi anche differenti di formazione tali da consentire la sua mobilità lavorativa. Si pone dunque la questione delle modalità con cui si possa accedere a tale opportunità di formazione e di come lo Stato si faccia garante di come queste possibilità siano garantite a tutti.Occorre che il mondo della formazione, sia in costante evoluzione, più connesso con la società, in grado di aggiornarsi più in fretta, senza però correre dietro alle esigenze di breve periodo del sistema capitalistico.

Esiste quindi oggi dal nostro punto di vista una mediazione tra le due funzioni primarie dell'università che abbiamo provato ad analizzare: i saperi devono essere liberi e la conoscenza deve servire al miglioramento generale della società, slegata da qualsiasi logica di profitto, ma lo studio deve poter garantire al singolo un accrescimento delle proprie conoscenza personali che devono essere riconosciute e spendibili all'interno di un mercato del lavoro funzionale non all'arricchimento del capitale ma improntato al miglioramento della società e alla liberazione dell'individuo.

Tesi 7 - La ripubblicizzazione dell'università.

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Il lungo processo di privatizzazione che ha attraversato tutti i sistemi di formazione europei, tra cui il nostro, sta giungendo alla fine e i suoi risultati finali iniziano a delinearsi in questi anni. Oggi non ha più senso una battaglia che si limiti a difendere l’università pubblica, in quanto questa di fatto ha subito numerosi processi di privatizzazione, ammesso e non concesso sia mai esistita con un'accezione di pubblico che vada oltre alla semplice gestione statale di un bene, elemento per noi non sufficiente né in passato né oggi.

Negli ultimi anni abbiamo lottato contro la privatizzazione dell'università, sapendo però benissimo che l'università in cui studiavamo era da modificare e cambiare radicalmente. Abbiamo sempre evitato di difendere un feticcio, lottando all'interno del sistema universitario esistente e provando a cambiarlo, evitando di attestarci su posizioni di difesa dell'esistente e scrivendo l'AltraRiforma proprio per chiarire che se anche avessero eliminato tutti i tagli o cancellato la legge Gelmini non avrebbero risolto la totalità dei problemi dell'università e che l'università che sognavamo era radicalmente diversa da quella esistente.

Oggi che una serie di contro-riforme sono state approvate dobbiamo confrontarci con la situazione esistente e renderci conto che l'università in cui viviamo è già stata radicalmente mutata dal processo di privatizzazione che l'ha attraversata: la diminuzione degli spazi di democrazia e l’accentramento del potere nelle mani di pochi rettori-monarca, i CdA influenzato da componenti esterne spesso private, la riduzione dei diritti e l'aumento delle tasse, il blocco del turn-over, la riduzione dei finanziamenti, la cessione di immobili pubblici ad enti privati sono tutti strumenti che sono stati utilizzati per costruire una privatizzazione sostanziale dell'università.

Dobbiamo quindi porci il tema di come vivere all'interno di quest’università privatizzata, non accettando supinamente le trasformazioni negative già avvenute né limitandoci a lottare per difendere qualcosa di non più esistente, ma provando a modificare alla radice anche il nostro linguaggio, smettendo di parlare della difesa della mera di un'università pubblica e reclamando la ripubblicizzazione dell'università.

Il processo di ripubblicizzazione che dobbiamo avviare, attraverso il Manifesto per la Ripubblicizzazione e la Liberazione dei Saperi, sarà sicuramente lungo e dovrà coinvolgere tutte le componenti del mondo dei saperi. Dovremmo lottare in un campo teorico di analisi dell'esistente, riuscendo a teorizzare un futuro alternativo ma lavorando nella pratica e attraverso gli strumenti esistenti, come l'AltraRiforma, non solamente per immaginare un'università ripubblicizzata ma per praticare realmente tutti i giorni questo cambiamento.

Il processo che dobbiamo mettere in campo deve partire dall'università stessa e da noi che la viviamo tutti i giorni, traendo spunto dai movimenti per la difesa dei beni comuni, come il movimento per l'acqua che non ha lottato solamente contro un singolo decreto ma contro dei processi di privatizzazione dell'acqua che in alcuni comuni erano già in atto da anni. Allo stesso tempo dobbiamo riuscire ad imparare dai movimenti sud-americani e in particolare dal movimento cileno che è riuscito a portare avanti una grande battaglia per la ripubblicizzazione dell'università in un paese dove gli atenei erano stati privatizzati anni fa.

Traendo spunto da esperienze simili dobbiamo capire e analizzare partendo dalle nostre conoscenze come disegnare un'università diversa, realmente pubblica, intendendo per pubblico non più solo un bene statalizzato, di per sé condizione non sufficiente a garantire un'università democratica, laica e libera dalle logiche del profitto ma un qualcosa che possa vedere i soggetti che

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la vivono partecipi dei processi della gestione della stessa, con la possibilità reale di incidere sulle scelte di carattere sia didattico che economico e di operare un fondamentale ruolo di controllo.

Comprendere oggi come gestire un bene pubblico è una sfida complessa, lo è ancora di più capire come lottare contro la privatizzazione in atto e da un lato arginarla prima che compia disastri: come l'allontanamento di tanti giovani dai percorsi formativi, il licenziamento di centinaia di precari... e dall'altro è necessario costruire un grande movimento in grado di ripubblicizzare alla radice i saperi e l'università.

La ripubblicizzazione dell'università non potrà che partire da un processo partecipato e collettivo, da una pratica costante all'interno delle singole università grazie a tutti gli strumenti in nostro possesso ma riuscendo a parlare una lingua comprensibile all'intera società, perché ripubblicizzare i saperi oggi è un obiettivo generale che deve coinvolgere la società intera e non solamente gli studenti.

La ripubblicizzazione dei saperi deve essere l'obiettivo di lungo termine dei movimenti nei prossimi anni, dobbiamo coinvolgere gli studenti e la società in una battaglia di ampio respiro che sappia consegnare alle future generazioni un saper liberato da ogni sfruttamento capitalistico e un università aperta, democratica e funzionale all'obiettivo di trasmettere conoscenza a tutti senza restrizioni e impedimenti di ogni sorta.

Tesi 8 – L'Altrariforma dell'università come alternativa e strumento di ripubblicizzazione dei saperi.

Il progetto AltraRiforma dell'università, promosso dalla nostra organizzazione, è un percorso inaugurato nel 2009 attraverso un appello firmato da tutte le realtà aderenti a Link, da Ateneo Controverso di Cosenza, Sinistra Per di Pisa e Studenti di Sinistra di Firenze, e da dottorandi (ADI), precari (Coordinamento Precari dell'Università), ricercatori (Rete 29 aprile) e la FLC.

L’AltraRiforma è una piattaforma ampia e strutturata sull’università che mira a migliorare il sistema pubblico d’istruzione, sintesi di esperienze differenti, di chi vive l’università come studente e di chi come lavoratore. Ha rappresentato per noi la bussola del nostro lavoro quotidiano all’interno delle facoltà e degli atenei, con l’obiettivo - attraverso il conflitto e la rappresentanza - di costruire un’università migliore, aperta, laica, di massa e rispettosa del suo carattere pubblico.

In questo ragionamento vanno inserite anche le nostre lotte per una maggiore democrazia interna agli atenei, all’interno e all’esterno della Commissione Statuto. In risposta alla Riforma Gelmini, che ha ridotto gli spazi di democrazia e rappresentanza, occorre formulare proposte innovative e dirompenti come l’istituzione dei referendum studenteschi e altre forme di democrazia diretta.

A due anni dalla prima stesura del progetto di AltraRiforma dell'università ci pare giusto ricordare come questa non sia un percorso prettamente universitario, ma esista anche un testo sulla scuola e come sia frutto di un percorso collettivo aperto a continue modificazioni derivanti dal costante cambiamento della società e del mondo della formazione.

La costruzione di questa piattaforma sull’Università è frutto di numerosi dibattiti e di tanti momenti di proposta nei territori, ha rappresentato per noi un’alternativa aperta ed in continuo allargamento, che si è nutrita dell’esperienze territoriali di conquista e proposta. Grazie ad essa

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abbiamo potuto criticare i governi di questi ultimi anni senza cadere nella trappola della pura difesa del sistema universitario attuale, che sempre abbiamo combattuto in quanto luogo di baronie, di clientele e sistemi di potere, interessati a difendere i diritti di milioni di studenti evitando il corporativismo e proponendo un’idea lungimirante di alternativa universitaria.

Non crediamo che l'AltraRiforma abbia esaurito la sua spinta propulsiva, anzi riteniamo che essendo un processo in continuo cambiamento e che vive di una pratica quotidiana esso sia da aggiornare, anche alle luce dei recenti cambiamenti che il nuovo governo ha introdotto all'università, sapendo che l'AltraRiforma non è solamente un testo utile in un determinato momento storico ma rappresenta per noi sia un elenco di obiettivi concreti per il cambiamento reale dell'università sia una guida per un cambiamento generale dell'università.

Fino ad ora abbiamo posto l’AltraRiforma come alternativa pratica ai soprusi che gli studenti subiscono, all’attacco all’accesso all’università, al continuo tentativo di distruggere il diritto allo studio nel nostro paese; oggi dobbiamo avere la capacità di riprendere i fili delle alleanze con tutte le altre componenti dei nostri atenei per andare verso la costruzione di una proposta complessiva, organica ed unitaria di riforma dell’Università.

È necessario ampliare l’AltraRiforma, per costruire una proposta complessiva assieme a tutti quei soggetti che tutti i giorni vivono l’università e in particolare assieme all’ADI, ai sindacati dei lavoratori, ai precari e a tutte le organizzazioni dei ricercatori, con cui si deve costruire, mantenere e ampliare un rapporto politico che ci permetta di migliorare il testo attuale per modificare alla radice il sistema universitario: uno strumento di azione pratica che possa incidere nel dibattito pubblico e politico di questo paese. Per fare ciò dobbiamo riuscire nella promozione di iniziative locali e nazionali con tutti gli altri soggetti sociali che agiscono nel mondo dell’università e che hanno condiviso con noi il percorso dell’AltraRiforma. Ciò può essere fatto attraverso le mobilitazioni autunnali, orientate alla costruzione di proposte di cambiamento, poiché sul tema dell’università, come sugli altri temi affrontati dalla nostra organizzazione, dobbiamo riuscire ad incidere.

Ad oggi riteniamo necessario fare un passaggio di elaborazione ulteriore, ripensando al sistema dei saperi nel suo complesso e provando a costruire, a fianco della proposta organica di pratica del cambiamento universitario - l'AltraRiforma appunto - un manifesto per la ripubblicizzazione e la liberazione dei saperi che sappia tenere insieme le esigenze generali del mondo della conoscenza e che dare una risposta teorica e di sistema alla privatizzazione, in parte già compiuta, dell'università e dei saperi nel loro complesso.

A tal fine serve adoperarsi per una ricomposizione del mondo dei soggetti universitari, ad esempio attraverso a piattaforme fluide come quella di Università Bene Comune che possano servire a produrre dibattito politico ed essere utilizzate per costruire spazi di movimento e discussione al fine di ripubblicizzare l’università.

Tesi 9 - Un diritto allo studio per tutti e non un privilegio per pochi.

Il diritto allo studio universitario dovrebbe rappresentare un capitolo fondamentale di investimento, per l'accrescimento culturale dei cittadini e quindi per l'avanzamento della società. E' un diritto tutelato dalla Costituzione, pensato per garantire l'accesso ai gradi più alti dell'istruzione anche ai privi di mezzi ed assicurare così un'istruzione sempre più diffusa.

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Negli ultimi anni invece assistiamo a politiche che mirano a distruggere il diritto allo studio per rendere sempre di più l'istruzione come un bene accessibile a pochi.

Con il governo Berlusconi, la linea politica sul diritto allo studio universitario è stata disastrosa, con una riduzione dei finanziamenti del 94% in tre anni (dai 246 milioni del 2009 ai 13 milioni previsti per il 2012). Nonostante sia stata recuperata una parte dei tagli operati dalla sforbiciata di Tremonti, al momento dell'approvazione della legge di stabilità del 2011 la situazione complessiva resta tragica.Come immaginavamo le politiche in tema di università e di diritto allo studio portate avanti da Monti e Profumo non si stanno discostando affatto da quelle dei loro predecessori.

Attualmente, tenuto conto dei fondi stanziati dalla spending review, i finanziamenti previsti per il diritto allo studio universitario per il 2013 ammontano a 103 milioni di euro, una cifra più consistente rispetto a quella stanziata dal governo Berlusconi, ma comunque estremamente ridotta rispetto alle necessità. Questo governo, continuando l'operato del precedente esecutivo, ha approvato il decreto legislativo n. 68 del 29 marzo 2012, che abroga la Legge 390/1991 (ad eccezione dell’art. 21). Il decreto 68 rivede la normativa in tema di dsu e prevede l'aumento della tassa regionale per il diritto allo studio: verrà istituità una tassazione unica, uguale in tutte le regioni con 3 scaglioni in base al reddito e delle cifre variabili tra i 120, 140 e 160 euro aumentabili fino a 200 in fascia massima.

L'aumento della tassa regionale, accompagnato dalla costante e progressiva riduzione dei finanziamenti statali e regionali, fa sì che complessivamente in Italia siano gli studenti i principali finanziatori del sistema di diritto allo studio.Per queste motivazioni, contestiamo questo aumento, che si inserisce tra l'altro in un momento come quello attuale di pesante crisi economica, in cui le famiglie italiane risultano sempre più impoverite. Proprio in ragione della precaria situazione economica, riteniamo che invece sia fondamentale ed indispensabile rilanciare per un diritto allo studio universale e di qualità, che restituisca dignità alle persone, senza scaricare attraverso un inasprimento delle tasse, i pesanti tagli imposti dal governo.

Queste politiche governative offrono poi spazio a tentativi, purtroppo spesso riusciti, da parte delle Regioni, di ridurre l'accesso alle borse di studio inasprendo i requisiti di merito, per ridurre la platea degli "idonei" (caso emblematico è quello del Piemonte). Tali misure rappresentano un vero e proprio attaccco ideologico al diritto allo studio, da parte di chi cerca di occultare i tagli dietro la retorica del merito.Inoltre bisogna ricordare che sebbene le Regioni che assicurano il diritto alla fruizione della borsa per tutti gli idonei siano considerate "esempi virtuosi", esse in realtà non fanno altro che garantire la soglia minima di dignità al sistema del diritto allo studio.

Riteniamo indispensabile confrontare il nostro sistema di diritto allo studio con i sistemi delle altre nazioni europee, crediamo sia imprescindibile confrontarsi con gli altri paesi non soltanto quando si parla di tagli alla spesa pubblica ma anche quando ci si confronta in merito agli investimenti in istruzione.Obiettivi a cui tendere sono quelli di paesi come la Francia o la Germania che investono in media 1 miliardo e 400 milioni di euro sul diritto allo studio e sono in grado di garantire una borsa di studio ad uno studente ogni quatto (In Italia uno ogni dieci)

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Per questo motivo rifiutiamo l'arretramento che il pubblico ha avuto in questi anni rispetto alla garanzia del diritto allo studio per tutte e tutti, richiediamo, prima di tutto, un aumento dei finanziamenti statali per garantire la copertura totale delle borse di studio.Richiediamo che vengano rialzati i requisiti economici per l'accesso alle borse, uniformandoli su tutto il territorio nazionale, che la soglia ISEEU per l'eleggibilità venga indicizzata all'inflazione e che il governo non cambi i parametri di calcolo dell'ISEEU, modificando l'indice ISPE, cioè adeguandolo alle rivalutazioni catastali seguenti all'introduzione dell'Imu ed evitando che siano calcolate all'interno del computo del ISEEU le rendite che vi erano precedentemente escluse.

Crediamo sia necessario definire al meglio i LEP (livelli essenziali di prestazione) basandoli su valutazioni reali dei costi della vita nelle diverse regioni e nelle diverse macroaree urbane, calcolandoli in base alle spese di affitto allogio, trasporto, vitto, acquisto libri e testi scolastici, assistenza sanitaria, accesso ai consumi culturali, internazionalizzazione.

La definizione di una legge quadro nazionale e di un bando unico per tutte le regioni.Inoltre riteniamo sia necessario che lo stato investa pesantemente sul sistema di diritto allo studio in modo da coprire tutte le spese necessarie per garantire a tutti l’accesso all’istruzione: lo stato deve coprire almeno il 50% del finanziamento totale del sistema di diritto allo studio lasciando il restante finanziamento da suddividersi in parti uguali tra regioni e tasse studentesche.In questo modo si eviterebbe il fenomeno che ha portato gli studenti ad essere essi stessi i primi finanziatori del diritto allo studio.

Crediamo che sia imprescindibile aumentare i fondi per l'edilizia universitaria per incrementare il numero delle residenze universitarie e dei posti letto, in modo da coprire non solo le graduatorie dei vincitori di borsa di studio, ma allargare progressivamente la platea dei beneficiari a tutti gli studenti universitari. È necessario che vengano portati avanti interventi mirati ad aumentare l'edilizia pubblica in modo assolutamente trasparente e in maniera tale da poter ottenere un effetto calmierante del mercato privato degli affitti, frenando così l'aumento dei canoni di locazione.Serve inoltre ripensare all'utilizzo dei tanti spazi inutilizzati nelle città capendo come riutilizzare gli appartamenti sfitti, gli alloggi lasciati vuoti e le case o i palazzi in stato di non utilizzo garantendone una ristrutturazione ove necessario e mettendoli a disposizione di un uso comune.

Allo stesso tempo riteniamo cruciale fare una battaglia contro gli “affitti in nero” che, oltre a non garantire i diritti previsti per legge agli affittuari, provocano un danno economico agli studenti e alle loro famiglie che in questo modo non riescono ad usufruire delle detrazioni economiche che avrebbero con un normale contratto regolarmente registrato. Uno strumento utile potrebbe essere il censimento degli studenti fuorisede e degli immobili inutilizzati di proprietà delle amministrazioni locali, organizzando in questo modo un controllo sulle abitazioni non occupate, con la possibilità di requisire gli alloggi sfitti. Servono inoltre contributi pubblici per gli affitti, sul modello francese, e iniziative, come lo sportello casa gestito da Università e Comune, in grado di favorire la lotta al sommerso, attraverso l' incrocio dei database tra agenzie regionali per il DSU, enti locali ed Università.

Attraverso, poi, convenzioni con la Guardia di Finanza, si potrebbe contrastare l’evasione fiscale e la speculazione a danno degli studenti evitando la costruzione di uno stato di polizia.Serve inoltre che la nostra organizzazione lavori per la realizzazione di sportelli cerca alloggio o di assistenza per gli studenti in tutte le città in collaborazione ove possibile con le numerose organizzazioni esistenti come l'unione degli inquilini o il Sunia.

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Un altro settore in cui sono necessari interventi incisivi a favore degli studenti è quello della mobilità. A tal proposito, richiediamo che vengano istituite delle carte per gli studenti, similmente a quanto già avviene in altri paesi europei, che prevedano convenzioni per il trasporto urbano nelle città universitarie e riduzioni delle tariffe del 50 % per gli spostamenti extra-urbani ed extra-regionali.Inoltre è necessario ipotizzare sconti sull'acquisto dei libri di testo, la possibilità per tutti gli studenti di accedere gratuitamete e online alle dispense dei professori e agevolare infine l'accesso alla cultura, prevendendo convenzioni e riduzioni per cinema, teatri e musei.

L'attacco e lo smantellamento del sistema di diritto allo studio si inserisce all'interno di un più grande attacco al sistema di welfare europeo e allo smantellamento dello stesso in Europa, pensiamo ai recenti tagli alla spesa pubblica in Grecia o in Spagna o alla spending review in Italia, la battaglia per la difesa del diritto allo studio deve quindi essere pensata non solo nella difesa dell'esistente ma anche in maniera espansiva nella rivendicazione di nuovi diritti e quindi come una battaglia collettiva da portare avanti in alleanza con tutte le categorie sociali che subiscono i danni derivanti dallo smantellamento del welfare state, pensando delle campagne e delle rivendicazioni inserite in un contesto di difesa del sistema pubblico e del welfare generale e non ristrette ai soli studenti, rivendicando un reddito in grado di garantire l'autonomia sociale dell'individuo.

Tesi 10 - La riapertura di spazi di democrazia negli atenei, difendere la rappresentanza inventando nuove forme di partecipazione.

Durante la mobilitazione contro la riforma Gelmini dicevamo che l'Università era come la Francia prima della Rivoluzione Francese per testimoniare il bassissimo livello di democrazia negli organi di autogoverno e l’accentramento del potere nella mani di pochi baroni.Ad oltre un anno di distanza dall'approvazione di quella legge dobbiamo notare il peggioramento della situazione: molti Rettori sono diventati monarchi assoluti supportati da Consigli d'Amministrazione spesso nominati dai rettori stessi, i meccanismi di cooptazione si sono rafforzati, mentre le rappresentanze di studenti e ricercatori si sono profondamente ridotte.

La battaglia campale degli statuti è stata condotta in condizioni di disparità incredibili, con commissioni nominate dai Rettori e coinvolte in subdoli giochi di potere tendenti solo a conservare o ampliare rendite di posizioni ormai consolidate.In questo quadro, non è stata vana l'esperienza della nostra organizzazione che si è mostrata pronta a formulare proposte intelligenti e di contenuto, senza corporativismo (un vizio troppo diffuso tra alcune componenti accademiche), ed anzi provando a depotenziare il più possibile le norme contenute nella “riforma” così da renderla inoffensiva e allo stesso tempo a giocare una partita di rilancio all'interno delle commissioni statuto.

I risultati sono stati diversi a seconda degli atenei: non si è riusciti ad arginare l'effettiva realizzazione dei meccanismi della legge Gelmini e in molte università abbiamo assitito ad una riduzione degli spazi di democrazia, si sono però ottenute delle vittorie che devono essere rivendicate con forza per quanto concerne la rappresentatività delle componenti negli organi, l'utilizzo di strumenti di democrazia diretta.... Inoltre appare sempre più in crisi la capacità del Miur di dare una lettura univoca della legge, pur avendo il ministro Profumo fatto ricorso contro lo statuto che lui stesso aveva scritto come Rettore del Politecnico di Torino, non è riuscito a

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determinare un arretramento delle richieste di una serie di atenei, in particolare sul tema del Cda elettivo. Risulta infatti interessante notare come molti atenei abbiano fatto numerosi ricorsi al Tar chiedendo di poter aver un Cda elettivo e che il Miur rischi di perderli determinando così un elettività piena dei membri del Cda. L'utilizzo dello strumento del ricorso e il sostegno a queste operazioni, seppur fatte a volte dai Rettori come operazioni di facciata, deve essere messo in campo per provare a limitare i danni della legge Gelmini.

Chiusa la partita degli Statuti, non sono affatto archiviate le rivendicazioni sulla democrazia nel mondo accademico, la quale dovrà semplicemente essere spostata (ed in alcuni atenei lo ha già fatto) sul terreno dei Regolamenti, provando ad incidere il quel contesto per limitare ulteriormente i danni della legge Gelmini e provare a conquistare nuovi spazi di democrazia.

Incidere pesantemente sui meccanismi di applicazione della normativa all'interno degli atenei vuol dire calmierarne gli effetti distorsivi dei processi democratici ed è per questo che i Regolamenti potranno essere sfruttati per limitare il meccanismo della nomina da parte dei Rettori dei membri esterni nel Consiglio di Amministrazione, si potrà inoltre proporre anche la partecipazione (afferenza) temporanea di alcune figure (Assegnisti di ricerca, borsisti post-doc, specializzandi) nei Consigli di Dipartimento e nel Senato Accademico; laddove siano costituite, anche le Giunte Esecutive dovranno prevedere una sorta di rappresentanza studentesca.

La battaglia per una reale democrazia negli atenei non può però passare esclusivamente per una campagna di resistenza alle modifiche statutarie della legge Gelmini o per delle azioni interne ai luoghi di rappresentanza.Serve continuare a chiedere con forza l'abrogazione della legge Gelmini, contrastare il potere del baronato universitario, che deve essere sconfitto ampliando la partecipazione alle scelte e alle decisioni interne all'ateneo e rovesciando la piramide sociale interna all'università attraverso la partecipazione alle decisioni di tutte le componenti sociali dell'università.

Serve difendere gli spazi della rappresentanza studentesca, troppo spesso denigrata e a volte asservita agli stessi poteri baronali, rivendicando nuove forme di democrazia come quella del referendum studentesco, che permettano agli studenti di essere realmente partecipi dei cambiamenti e della vità degli atenei, di partecipare alle decisioni e non solo esprimersi una volta ogni due anni, limite massimo per la durata del mandato dei rappresentanti, limite non troppo rispettato in molte università.

E ' pur vero che non essendo riusciti, se non in pochissimi atenei, a far inserire i referendum, ossia la pratica dalla portata più vasta e dirompente, negli Statuti, gli stessi dovranno essere posti in essere con maggiore frequenza rispetto al passato, un passato in cui ci eravamo già ripromessi di costruire consultazioni studentesche auto-convocate all'interno di tutti gli atenei sia come micro consultazioni relativi alle scelte dei singoli corsi di laurea sia in forma più ampia per le decisioni più importanti delle università.

Lottare per una reale democrazia significa pretendere una trasparenza sostanziale dell'attività degli organi accademici, spesso luoghi chiusi ed inaccessibili, le cui decisioni restano confinate negli archivi di ateneo difficilmente reperibili anche con richieste di accesso agli atti.Serve richiedere quindi la più totale trasparenza nell'attività degli organi e la possibilità di trasmissione pubblica delle sedute come la pubblicazione e la più ampia accessibilità agli atti degli stessi.

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Tesi 11 - Per un'università pubblica e finanziata.

Oggi il sistema universitario è finanziato prevalentemente dalla fiscalità generale, dalla contribuzione studentesca e dagli investimenti privati.

Nel corso degli ultimi anni, con il susseguirsi dei governi, l’investimento statale sull’università è andato via via diminuendo, a partire dalla legge 133 del 2008 che tagliava di 1,5 miliardi in 5 anni il FFO degli atenei.Negli anni immediatamente successivi al taglio della legge 133 l'università beneficiava ancora del patto Mussi-Padoa Schioppa che garantiva 550 milioni all'anno all'università, esauriti quei fondi nel 2011, nel 2012 il governo Berlusconi con misure straordinarie rifinanziò il FFO. Questi fondi aggiuntivi vengono stanziati con l'obiettivo di legittimare dei privilegi eliminando dei diritti che venivano finanaziati dal sistema pubblico. Per l'anno prossimo il FFO previsto per l'università è di 6,45 mld, erano 7,4 nel 2009, assolutamente insufficienti per svolgere le normali funzioni assegnate all’università.

Il taglio al finanziamento pubblico all'università è un dato comune anche agli altri paesi europei e deriva da una visione liberista dell'economia che vede il pubblico come uno spreco e che mira a ridurre l'impegno dello stato nella gestione dei servizi per far spazio ad investimenti e guadagni privati, a questo serviva anche la legge Gelmini che permette ai privati di entrare nei Cda degli atenei e che rende sostanziale la loro aziendalizzazione.

Negli ultimi anni abbiamo quindi assistito ad una diminuzione del finanziamento pubblico all'università, sostituito da investimenti privati spesso derivanti da accordi di programma con grandi banche oppure da fondi di grandi aziende che mirano ad investire in determinati settori dell'università o nel peggiore dei casi ad acquistare direttamente singoli corsi di laurea assumendone di fatto la proprietà e la gestione.

Gli atenei italiani sono ricorsi, come misura aggiuntiva o alternativa, all’innalzamento della contribuzione studentesca: 36 università su 62 superano attualmente il tetto del 20% sull’FFO, prima delle modifiche della spending review. A questa tendenza si aggiunge la volontà (continua tra i governi) di mantenere il sistema universitario in una situazione di sottofinanziamento generale mascherandola con la retorica del merito. Per questo l’FFO è stato suddiviso in una parte fissa, assegnata in base alle dimensioni dell’ateneo e soggetta a continue riduzioni, e una quota “premiale” che, tramite il meccanismo della concorrenza, ha amplificato ancora di più il divario fra atenei.

Gli studenti però non pagano una tassa bensì un contributo per coprire i costi dei servizi offerti dalle università, quindi la contribuzione studentesca non dovrebbe essere la principale voce di entrata degli atenei come non dovrebbe essere lo strumento per far ricadere i tagli del governo sugli studenti. L’attacco finale della Spending Review attualizza un modello neoliberista basato su progressivo passaggio dal finanziamento tramite fiscalità generale ad un finanziamento basato sul contributo - corposo - di coloro che partecipano direttamente ai sistemi formativi. Tale modello, attuato di recente nel Regno Unito con il Rapporto Brown - che ha portato ad aumenti vertiginosi delle tasse universitarie, liberalizzate e finanziate tramite il sistema dei prestiti d’onore - ha determinato i suoi effetti più perversi ed elitari conducendo, in meno di un anno,ad una forte

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riduzione del numero delle immatricolazioni/iscrizioni ed alla migrazione degli studenti inglesi verso mete più appetibili sul piano del diritto allo studio e del welfare studentesco e universale.

Utile a questa direzione sarà lo strumento del “costo standard per studente”, un indicatore facilmente strumentalizzabile da parte dei neoliberisti per sostenere l'eccessiva spesa dello Stato rispetto a quella individuale sulla singola laurea, strumento quindi da rigettare se si vuole ancora sostenere un sistema universitario pubblico, utile alla collettività, finanziato dalla fiscalità generale e non mero investimento individuale.

Uno degli obiettivi prioritari deve essere quello di raggiungere i livelli di finanziamento europei per l'università (1,5% del PIL media EU, 0,9% Italia) rifinanziando il FFO.

Lottare per un'università pubblica significa, in primo luogo, lottare per un'università finanziata dallo stato e dalla fiscalità generale e non basata su contributi di enti o soggetti privati e contributi studenteschi.Serve anche che lo Stato vigili sull'utilizzo dei fondi pubblici, controllando come e in che settori gli atenei investono le risorse statali, ripensando completamente l'autonomia degli atenei che non può essere esclusivamente economica e non può prescindere da controlli adeguati.

Lo stato deve necessariamente eliminare i contributi pubblici ad atenei privati e rafforzare il limite di contribuzione studentesca ripensandolo radicalmente e definendo pene concrete per gli atenei che non mettono in campo politiche di riduzione della pressione contributiva sugli studenti.

Tesi 12 - Per un'università aperta e accessibile a tutti senza barriere in ingresso.

Le battaglie del '68 hanno sancito un dato storico importante aprendo l'accesso al mondo dell'Università, che non sarebbe più dovuta essere appannaggio di pochi, ma per tutta la popolazione attraverso l’abolizione dei limiti di ingresso ai corsi di laurea sulla base del diploma conseguito. Il principale ostacolo alla realizzazione dell’università di massa, nei decenni successivi, sono state le difficoltà economiche delle famiglie che, senza un sostegno adeguato dello Stato, non avrebbero mai potuto garantire ai figli il supporto necessario per il completamento degli studi.

Purtroppo però in Italia la legge 264/1999, realizzata sotto il Governo di centro-sinistra D’Alema con Zecchino Ministro dell’Università, introduce il numero chiuso per le professioni sanitarie, Medicina e Chirurgia e per altri corsi di laurea: accedere all'università non è più solamente un problema economico e di risorse necessarie per l'iscrizione, ma per alcuni corsi di laurea diventa un problema di natura giuridico-politica.Questa legge, basata su direttive europee, obbliga gli atenei ad inserire il numero chiuso per l’accesso ai corsi di laurea e di specializzazione e offre ad ogni ateneo la possibilità di introdurlo in altri casi.

Se inizialmente la limitazione era stata prevista a livello nazionale solamente per pochi corsi di laurea, principalmente quelli preparatori alle professioni sanitarie, ben presto si è avuto un effetto domino. In tutta Italia, le diverse facoltà scientifiche hanno programmato il numero di accesso nei diversi corsi di laurea, giustificando questa scelta con motivazioni varie: necessità logistiche e di mantenimento della qualità, insufficienza delle strutture laboratoriali esistenti e impossibilità di costruirne delle nuove, ecc... Lo stato di fatto ha permesso a tante università di introdurre il

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numero programmato nel caso in cui fosse documentata carenza di aule e laboratori adatti a ricevere tutti gli studenti iscritti.

Per i teorici del Miur la qualità deve essere garantita dalla numerosità della docenza in rapporto alla numerosità degli studenti, per cui nel corso degli anni si è iniziato ad introdurre il numero programmato per evitare di uscire dai limiti previsti dai decreti ministeriali.

Ad anni di distanza dall'introduzione del numero chiuso in molti corsi di laurea siamo oggi in grado di darne una valutazione realistica. La selezione degli studenti avviene in molti casi attraverso un test, che si è spesso dimostrato inaffidabile e incapace di valutare le reali competenze di uno studente. In molti casi ci sono stati errori nella formulazione delle domande e troppo spesso i test richiedono conoscenze che si suppone lo studente dovrebbe acquisire durante il percorso di studi.

Riteniamo che sia prioritaria la totale eliminazione di ogni tipo di barriera all'accesso di natura giuridica, per permettere a tutti di poter frequentare determinati corsi di laurea procedendo ad una selezione delle competenze in itinere e adeguando le strutture alle necessità della popolazione studentesca.

Le recenti modifiche introdotte per la selezione degli studenti che si iscrivono ai testi per i corsi di laurea di medicina e chirurugia che prevederanno graduatorie pluriregionali non sono per noi una modifica sufficiente.Inoltre oggi assitiamo a tutti i danni portati dall'introduzione dei numeri chiusi per l'accesso a determinati corsi di laurea: l’Italia rischia nei prossimi anni di essere sprovvista di personale sufficiente in alcuni settori rispetto alle esigenze della società, emblematico in tal senso è il caso del settore medico-ospedaliero. Risulta perciò indispensabile lottare contro gli ordini professionali che troppo spesso bloccano i processi di eliminazione delle barriere in ingresso per gli studenti, interessati non tanto a garantire una selezione basata su delle reali competenze ma piuttosto a limitare il numero di persone con una determinata professionalità per tutelare i loro interessi economici.

Un ulteriore forma di sbarramento all'accesso al mondo della formazione è costituito dai cosiddetti “Corsi di Laurea Magistrale a libero accesso con verifica della preparazione” (introdotti dal D.M. 270/2004). Diversamente dai corsi a numero chiuso, questi non hanno un limite massimo di studenti che possono iscriversi, ma le commissioni esaminatrici hanno una forte discrezionalità nella scelta di chi ammettere o meno all'interno dei corsi. Alcuni atenei li hanno introdotti come forma di selezione all'ingresso, al fine di costituire dei “poli d'eccellenza”, il cui accesso non fosse reso disponibile a tutti gli studenti che avessero terminato il percorso di studi triennale nello stesso ambito disciplinare di questi corsi. Il ragionamento errato, che si ritrova nuovamente alla base di questa decisione, è la scarsità di risorse economiche, che si vorrebbero concentrate sul minor numero di studenti possibile per innalzare il livello di qualità.

Tale ragionamento è sbagliato innanzitutto perchè è incongruente con il concetto di valore legale del titolo di studio, che dobbiamo difendere con forza, e perchè mette in dubbio l'equipollenza dei certificati rilasciati dagli altri atenei. Ed inoltre è estremamente discutibile in alcune sue forme, soprattutto quando il punteggio ottenibile durante la verifica non verte sulla valutazione dei titoli o del curriculum studiorum degli applicanti, ma su altri fattori di dubbio valore scientifico, come la valutazione di lettere motivazionali o colloqui orali a porte chiuse tenuti dalle commissioni.

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Appare chiaro come le barriere all'accesso non siano solo di natura giuridica, molte sono infatti determinate dall'impossibilità economica di iscriversi all'università, a causa delle tasse in continuo aumento e dall'inadeguatezza dei sistemi di diritto allo studio o da altre limitazioni di natura economica che lo stato dovrebbe eliminare.

Altre sono invece determinate da volontà e scelte politiche e di sistema, come il taglio ai finanziamenti all'università, il DM 17 che inasprisce duramente i requisiti minimi per l'apertura di un corso di laurea e il blocco del turn-over che limita le assunzioni negli atenei impedendo quindi di raggiungere i livelli minimi per tenere aperti i corsi, i nuovi criteri Anvur di accreditamento dei corsi di laurea... Sono tutti strumenti che mirano a ridurre l'offerta formativa e conseguetemente a il numero di studenti iscritti e quindi ad introdurre nuovi e più rigidi strumenti di selezione in ingresso.

Serve lottare contro ogni forma di limitazione all’accesso che è negazione della libertà dello studente di formarsi e di godere del diritto allo studio, a tal proposito risultano fondamentali i finanziamenti all'edilizia e al personale universitario. I saperi devono essere liberi, non vi deve essere posto alcun ostacolo, né di natura economica, né sociale, né logistica. è obbligo del legislatore rimuoverli e adoperarsi affinché non vengano introdotte forme di limitazione delle libertà dell’individuo.

Tesi 13 - Una contribuzione equa e progressiva per permettere a tutti di accedere all'università.

L'autonomia degli atenei ha permesso lo sviluppo di sistemi di contribuzione non omogeneisul territorio, le università negli anni hanno preferito competere non sulla qualità della didattica e della ricerca, ma sulla base dei costi e sugli importi delle tasse studentesche in relazione ai servizi offerti.

I sistemi di contribuzione delle università, esclusi rari casi, sono antiquati e si basano su vecchi sistemi di fasciazione che in percentuale fanno pagare di più chi ha un ISEEU basso rispetto a chi ne ha uno alto.

Negli ultimi anni abbiamo poi assistito ad una forte diminuzione del finanziamento statale agli atenei, che ha comportato aumenti delle tasse universitarie in molti atenei. I soldi degli studenti e delle loro famiglie sono stati utilizzati per coprire i tagli del finanziamento pubblico, usando come paravento una retorica liberista che spinge ad introdurre strumenti di indebitamento studentesco e dimenticando che in Italia le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa (siamo il terzo paese in EU per importi di contribuzione).

A questa tendenza nelle ultime settimane ha fatto seguito un provvidimento contenuto nella spending review che modifica il limite del 20% nel rapporto tra contribuzione studentesca e FFO.Questo limite già non veniva rispettato da oltre 36 atenei su 62, tanto che la Crui, per paura di perdere i ricorsi al TAR che gli studenti in tanti atenei avevano presentato contro lo sforamento e che avrebbe quindi costretto gli atenei a risarcire gli studenti, aveva richiesto al ministro che questo limite fosse cancellato.La modifica del limite del 20% non soltanto rende inutili i ricorsi ma di fatto liberalizza le tasse universitarie, perseguendo un modello di stampo neoliberista di accesso alla formazione.

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La nostra organizzazione ha sempre ritenuto non sufficiente lo strumento del ricorso, in quanto non andava ad attaccare frontalmente il ministero e la riduzione dei fondi da esso operata, ma spostava la battaglia nelle università , che pur essendo colpevoli di aumentare le tasse agli studenti e di non opporsi al disegno di smantellamento del sistema pubblico della formazione, non erano sicuramente l'obiettivo principale.Inoltre anche in caso di vittoria, i soldi prelevati in eccesso venivano restituiti agli studenti ma non venivano messi in discussione gli antiquati sistemi contributivo degli atenei, contro i quali abbiamo condotto delle grandi battaglie.

La modifica del limite del 20% permetterà agli atenei di aumentare le tasse ai fuoricorso e agli studenti extra-comunitari senza nessun limite e per gli studenti in corso (il 60% del totale degli universitari) le tasse potranno raddoppiare.

Il recente provvedimento sulla spending review nasconde dietro i tecnicismi un modello ideologico, da raggiungere non con provvedimenti di sistema e onnicomprensivi, bensì attraverso un processo di progressivo smantellamento di ciò che ancora rimane di pubblico e di qualità all’interno del nostro paese. Così si determina il cambiamento di numeratore (ridotto notevolmente, scorporando la quota dei fuoricorso che nel nostro paese è pari a poco meno della metà) e denominatore (incrementandolo poichè si terrà conto di tutti i trasferimenti statali e non solo dell’FFO) e la quasi impossibilità di superare il limite del 20% per gli studenti in corso.

Queste recenti misure,giustificate dalla retorica del costo dei fuoricorso, della competizione a prescindere dalle condizioni di partenza, del merito al posto del diritto universale, aumenteranno a tal punto il gettito ricavato da trasformare una contribuzione in una vera e propria tassazione. Qualora anche questo tetto venisse sforato l’unica sanzione sarebbe quella di convertire il surplus in borse di studio andando così a sopperire al nuovo taglio sul dsu ormai in ginocchio nel nostro paese, non tenendo conto che già ora alcune università finanziano integrazioni alle borse di studio e, dunque, si determinerebbe semplicemente uno spostamento di risorse da un capitolo all’altro attraverso il classico “gioco delle tre carte”.

Per la nostra organizzazione diventa fondamentale costruire una grande battaglia contro la liberalizzazione delle tasse universitarie, perché così deve essere chiamata.Serve richiedere l'eliminazione della norma contenuta nella spending review e il rifinanziamento dell'università, poichè non possono essere coperti i tagli all'istruzione aumentando le tasse agli studenti.

Riteniamo che in prospettiva serva adottare un modello presente in altri stati europei che non prevede nessuna contribuzione universitaria a carico degli studenti e delle famiglie, perchè il peso del finanziamento dell'istruzione deve ricadere esclusivamente sulla fiscalità generale.

Dobbiamo però lottare al momento per la ridefinizione dei sistemi di contribuzione universitaria creando un modello progressivo e maggiormente equo di tassazione su scala nazionale. Pur tenendo conto del differente costo della vita nelle varie regioni, serve ipotizzare un sistema unico che non permetta agli atenei di competere sui costi dei servizi e sul livello delle tasse ma solo sulla qualità della didattica.

Nella costruzione di una proposta nazionale di contribuzione studentesca serve però rimodulare e ripensare i sistemi di tassazione esistenti, adottando l'ISEEU come indicatore unico della situazione economica degli studenti. Nelle università italiane devono poi essere eliminati contributi specifici

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per corsi di studi che non permettono una scelta del proprio percorso formativo indipendentemente dalla propria condizione economica.Inoltre non devono essere presenti contribuzioni differenziate per i fuoricorso, in quanto non si può poi ragionare in base a sistemi punitivi per chi non rispetta i tempi regolari di un corso di laurea in quanto la formazione è un diritto di tutti e non può basarsi su differenziazioni ideologiche. Inoltre a fronte di una retorica che li identifica come un costo superiore per l'università in realtà essi utilizzando meno le strutture e pagando spesso cifre più elevate sono tra i migliori finanziatori dell'università. Non si può poi ragionare in base a sistemi punitivi per chi non rispetta i tempi regolari di un corso di laurea in quanto la formazione è un diritto di tutti e non può basarsi su differenziazioni ideologiche.

Esistono poi una serie ulteriore di tasse che devono essere eliminate come quelle per partecipazione a concorsi, borse o test di ingresso in università (es. tasse per accesso a concorsi di dottorato).

Tesi 14 - I prestiti d'onore come strumenti di indebitamento studentesco.

Le politiche di contenimento della spesa pubblica, operate negli ultimi anni dai Governi europei hanno prodotto, per quanto riguarda l’Università, una situazione per la quale gli Atenei, a causa della riduzione dei finanziamenti statali sono stati costretti ad aumentare le tasse e hanno prodotto anche una situazione per cui il sistema pubblico del diritto allo studio rischia di essere totalmente smantellato.

La quasi totalità delle forze politiche sono state sicuramente complici di questo smantellamento, infatti, anziché opporsi fermamente al suddetto processo hanno diverse volte sostenuto il modello anglosassone: un modello per cui l’ammontare di tasse e contributi a carico degli studenti risulta liberalizzato e gli universitari hanno diritto, non ad una borsa di studio concessa dagli enti pubblici che svolgono questo compito, ma ad un prestito d’onore.

Questo modello non è solamente sostitutivo del sistema classico europeo di welfare state e di diritto allo studio ma in realtà si basa su un modello capitalistico finanziario che mira a guadagnare non sulla produzione di beni di consumo o di conoscenza, ma a ricavare profitto attraverso la finanziarizzazione dell'economia dal indebitamento dei singoli.

Il prestito d'onore è frutto di uno schema capitalitisco-liberale che non prevede l'investimento pubblico sulla conoscenza o la cooperazione tra gli individui all'interno dei percorsi di formazione, ma arriva ad esasperare una competizione tra singoli. Infatti si basa su una concezione di investimento personale sulla formazione per ricavarne profitto: io studente mi indebito perché devo pagarmi gli studi che mi permetteranno di trovare un lavoro fortemente remunerativo, attraverso il quale ripagherò il mio debito e avrò un futuro economico prospero.Lo stato non viene più contemplato come soggetto in grado di investire sulla formazione e sul futuro di una generazione, ma all'interno di processi formativi ormai privatizzati, il singolo studente fa un investimento su se stesso e la banca scommette sulle sue possibilità di realizzazione nel mercato del lavoro.

Lo stato in questo modo abdica al suo ruolo e viene sostituito da enti e soggetti privati che hanno acquistato o costruito le presunte migliori scuole e università, le uniche in grado di competere sul

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mercato e di garantire un futuro lavorativo ad uno studente. La finanza, come accade per i debiti degli stati, specula sui debiti studenteschi arricchendosi e guadagna sulla contrazzione dei debiti stessi e sugli interessi.

Uno degli esempi peggiori della realizzazione del sistema del prestito d’onore, è quello del modello dei “college loan” americani , dipinto come un sistema che garantisce un’elevata mobilità sociale e la possibilità per gli studenti americani di qualsiasi estrazione di accedere ai livelli più alti d’istruzione, ma in realtà ha prodotto un debito studentesco che nel 2011 ha superato il debito associato alle carte di credito e che, secondo il Financial Times, è proiettato verso i mille miliardi di dollari, una cifra equivalente al 40% del debito associato ai mutui subprime”.

A differenza di quanto si pensa, negli USA, il finanziamento a debito, anche con garanzie federali, ha determinato un aumento enorme del costo della formazione universitaria senza un corrispondente incremento del valore dell’istruzione. Dal 1978 al 2011 le rette dei college sono aumentate di oltre il 900 per cento, 650 punti più dell’inflazione, favorendo soprattutto le cosiddette “for profit schools”, a gestione privata, che hanno come target proprio i ceti più deboli, che solitamente non riescono a ripagare il debito.E' importante sottolineare come il ricatto economico cui gli studenti sono sottoposti li obblighi a dover ricercare una fonte di reddito (qualunque essa sia), che gli permetta di ripagare il debito anche a scapito delle loro condizioni di vita, creando dunque una generazione già indebitata ed in grado di essere controllata.

In definitiva quindi le tasse sono aumentate vertiginosamente e la quota spesa per i docenti e iservizi agli studenti è diminuita, il valore di mercato di una laurea è calato e la maggior parte degli studenti non può più permettersi di godersi gli anni del college come esperienza intellettuale. In più, i debiti per l’istruzione sono diventati eccezionalmente punitivi: non solo gli studenti non possono dichiarare bancarotta, ma i loro prestiti non hanno una scadenza e i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione.

In Europa sistemi simili esistono già in alcuni paesi e l'Unione Europea nei suoi scritti sulla conoscenza mira ad ampliare l'utilizzo di sistemi di indebitamento studentesco.In Italia assistiamo di fatto ad un'operazione preliminare per l'introduzione del sistema dei prestiti su larga scala, i primi accenni li abbiamo identificati nel taglio dei fondi al diritto allo studio e nella recente proposta di eliminare il limite del 20% del rapporto contribuzione studentesca-FFO, liberalizzando le tasse.

Quindi, in maniera graduale, tagliando sempre di più i fondi per il diritto allo studio prima eintroducendo il prestito d’onore poi, i governi distruggono il sistema classico di diritto allo studio, riparandosi dietro alla retorica del merito e vi sostituiscono i prestiti d’onore. Senza tenere per nulla conto degli effetti negativi che questo tipo di sistema ha portato al mondo della formazione universitaria nei paesi in cui è stato adottato.

L'Italia non è immune all'avanzata di un pensiero liberista che si pone l'obiettivo di ridurre la spesa pubblica per sostituirla con investimenti privati, eliminando un sistema di welfare per sostituirlo con la competizione più sfrenata tra i singoli. Si aprono così le porte anche nel nostro paese ad un sistema di prestito d'onore che farà arricchire gli istituti di credito, speculando sul futuro dei giovani.

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A questo modello la nostra organizzazione deve essere in grado di contrapporre un modello cooperativo tra gli studenti e basato su un forte investimento pubblico dello stato sulla conoscenza e sul diritto allo studio, rifiutando lo strumento del prestito e lottando perché questo non venga utilizzato da nessuna regione e università e richiedendo con forza che i soldi stanziati sul fondo per il merito, strumento che dovrebbe garantire i prestiti d'onore, siano reinvestiti sul diritto allo studio.

Tesi 15 - Contro, dentro e oltre l’ideologia della meritocrazia

Ad oggi il tema del merito è uno dei più chiacchierati nel nostro paese sia in ambito pubblico che privato, nostro compito deve essere quello di analizzare la complessità dei termini ma anche la cruda realtà di un paese dove il “merito” raramente è sinonimo di una reale valutazione delle capacità degli individui, a cui dovrebbe seguire un riconoscimento delle loro competenze attraverso la valorizzazione sociale dei loro studi, come delle loro capacità innate o acquisite. Purtroppo a questa impostazione si è preferito l'utilizzo del termine “merito” con un accezione profondamente selettiva e basata sul confronto tra classi e soggetti differenti, si è lasciato spazio ad una retorica della meritocrazia basata sulla competizione e sulla necessità di identificare all'interno di una complessa cerchia di individui chi era “meritevole” e quindi degno di compensi e chi non lo era e a cui si dovevano imporre elementi punitivi.

Questa retorica della meritocrazia e l’ideologia della competizione che vi è sottesa, lungi dal costituire un elemento rivoluzionario, rappresentano una delle più potenti armi comunicative impiegate dai governi per legittimare lo status quo ed esacerbare le differenze di classe: spesso tagli e norme affossanti vengono somministrati rivestendoli dalla patina tecnica della valutazione, per cui chi viene ostacolato non era “meritevole” e al contempo onori e risorse sono attribuiti a coloro che vengono designati come “meritevoli” e trasmettendo nella società una logica di competizione da legge della giungla.

Le stesse politiche pubbliche di istruzione negli ultimi anni sono state caratterizzate da questi elementi retorici che si sono presto trasformati in pesanti strumenti pratici di selezione. Il merito è stato utilizzato nel pubblico non per valutare e riconoscere le competenze ma piuttosto per installarvi un sistema di gestione aziendale attraverso premi di produzione, e valutazioni premiali sulla base di criteri basati non tanto sul conseguimento di risultati che portino ad un qualche miglioramento sociale quanto piuttosto ad un risparmio della spesa.

Lo stesso è accaduto nel sistema universitario: abbiamo assistito ad un accavallarsi di circoli viziosi, di misure che portano sempre più a galla i forti e affossano i deboli: gli atenei “migliori” guadagnano di più dalla quota premiale del FFO, quindi la quota del 20% di contribuzione imponibile agli studenti si innalza, possono procedere a un turnover maggiore e quindi offrire una didattica migliore e non essere obbligati dalle severe norme sui requisiti minimi a chiudere corsi o intere sedi.

Se fosse passato nella sua forma originaria, il DL Profumo sul merito avrebbe comportato una serie di incentivi agli studenti “migliori” quali sgravi fiscali al momento dell’assunzione, cariche onorifiche, borse di studio e avrebbe comportato un aumento di tasse per i fuoricorso, presentati come bersaglio polemico ideale anzichè contestualizzati in un clima di tagli generalizzati all'università e al diritto allo studio e quindi anche alla qualità e quantità della didattica e dell'apprendimento.

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Inoltre oggi emerge con molta forza per tanti studenti il problema dell'ingresso nel mondo del lavoro, una volta usciti dai percorsi di formazioni tanti giovani si ritrovano disoccupati (disoccupazione giovanile al 36% in Italia) o subiscono il ricatto del precariato. I recenti dati pubblicati da Almalurea dimostrano poi come la disoccupazione giovanile sia più alta per coloro che sono in possesso di una laurea specialisti rispetto a coloro che hanno conseguito solamente una triennale e di come il salario medio sia più basso per i laureati di specialistica rispetto ai laureati di triennale.

Sotto la bandiera della meritocrazia si radunano oggi modelli e visioni della societàmolto variegate: da un lato l’ideologia neoliberista che vede nel modello di gestionedi tipo privatistico-aziendale, basato sul premio produttività, dall’altro lo stato eticopaternalista che giudica i cittadini ed elargisce premi e punizioni secondo il principiodel bastone e della carota. Entrambi questi modelli o la combinazione dei due chespesso si ottiene cercando di importare il modello anglosassone in ambito italianosono ovviamente da rigettare. Se è vero che in natura il più forte prevale sul più debole, questo non comporta però che lo Stato debba affiancarsi ad essa schierandosi dalla parte dei forti. Anziché accentuare il principio naturale di competizione potrebbe e dovrebbe opporvisi facendo valere il principio di cooperazione.

Dobbiamo quindi renderci conto di come l'utilizzo della parola “merito” faccia presa perchè presentata come unica soluzione alla corruzione e alle raccomandazioni: vengono introdotti concetti di natura aziendale-capitalistica all'interno del sistema pubblico, lo strumento del “merito” viene spesso evidenziato per ribadire l'idea del conflitto pubblico-privato all'interno del quale il pubblico sarebbe solo fonte di sprechi e il privato il luogo della meritocrazia.Queste costruzioni non sono altro che elementi ideologici che si inseriscono nel quadro capitalistico esistente: privatizzare beni comuni e servizi necessità che la gestione sia forma aziendalistico.

Se nella società oggi assistiamo ad un conflitto pubblico-privato nel quale il pubblico risulta perdente e purtroppo gestito in forma aziendale, lo strumento del merito risulta essere un grimaldello per la privatizzazione stessa dei beni comuni ma allo stesso tempo legittimato e propagando a seguito della privatizzazione. Un azienda, diversamente da un servizio pubblico, necessità per sua stessa natura di strumenti di selezione su base di premi ed incentivi.

Lo stato non può avere l’obiettivo di selezionare una parte della società in base a criteri che incitano alla competizione tra individui, il primo compito del sistema statale oggi deve essere permettere a tutte le persone di partire dalle stesse condizioni di partenza rimuovendo gli ostacoli di ogni ordine e grado ed ogni tipo di differenze sociali e culturali tra gli individui.Per quanto concerne il sistema universitario è evidente che se lo stato deve rimuovere gli ostacoli di ogni ordine e grado deve prioritariamente finanziare il diritto allo studio in modo da permettere a tutti gli studenti di accedere alla formazione, senza queste basi il dibattito sul merito non può neanche iniziare.

Per questo serve ripubblicizzare la società in modo tale che lo stato possa assolvere il suo compito storico di eliminazione delle disuguaglianze sociali: nell'università non possiamo accettare che al diritto allo studio siano sostituiti prestiti d'onore o strumenti simili che contrappongono ai diritti degli strumenti basati sull'indebitamento e la competizione.Lo stesso vale per il sistema pubblico: non possiamo accettare che le risorse siano distribuite sulla base della competizione, così come che i salari siano vincolati a premi di produttività.

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Lottare oggi contro la retorica del merito e contro l'utilizzo che il sistema economico dominante impone alla società di questo concetto, significa provare a scardinare alla base alcuni elementi su cui si basa il sistema stesso, opporre ad un sistema premiale competitivo un pensiero cooperativo ci potrà far sconfiggere uno dei paradigmi dominanti oggi.Per far questo però non possiamo non affrontare una serie di temi che riguardano la sfera pubblica, il tema del “merito” come competizione ha fatto presa in ambienti di sinistra in quanto è stato visto come unica soluzione al clientelismo e alla corruzione.

Crediamo che non sia possibile far finta di non vedere i drammatici problemi di nepotismo che attanagliano il nostro paese, essi stessi spesso figli dello stesso sistema capitalistico che, nascondendosi dietro alla retorica del “merito”, poi nella realtà punta a preservare se stesso, utilizzando lo strumento della coptazione.

Serve però comprendere attentamente come evitare di semplificare i temi per riuscire ad affrontare al meglio la realtà in cui viviamo. Non possiamo infatti non vedere come il nostro paese abbia un problema di riconoscimento reale delle competenze nel sistema pubblico: esiste un problema di “merito” quando la selezione delle persone per ricoprire un determinato ruolo non avviene attraverso dei processi trasparenti, spesso clientelari e comunque non in grado di attestare le reali capacità di un individuo.

Che senso avrebbe studiare e migliorare il proprio bagaglio di conoscenza individuali se poi queste non venissero riconosciute dalla collettività ed il singolo che ne è in possesso non venisse messo in condizione di poterle esprimere al meglio.

Negli anni si è purtroppo lasciato troppo spesso valutare le competenze esclusivamente al settore privato, che come abbiamo già scritto ha usato la retorica del merito contro il pubblico e per preservare se stesso, senza riuscire ad eliminare i fenomeni clientelari. Per fare questo serve però aggredire il tema del “merito”, senza rifiutarlo a priori, riuscendo a darne una lettura differente e utile al miglioramento della società.Dobbiamo pretendere che le selezioni del personale, gli avanzamenti di carriera, la selezione dei docenti si basino su una valutazione reale e trasparente delle competenze e basata su principi stabiliti in modo democratico e conosciuti da tutti in partenza, in modo che i migliori siano messi in grado di svolgere le loro attività, in quanto solo liberando il pubblico dai suoi problemi e da meccanismi clientelari possiamo pensare di migliorare la società e solo così possiamo permettere un'emancipazione reale degli individui.

Per fare questo serve anche rendersi conto come spesso si sia preferito accettare supinamente situazioni esistenti, in quanto permettevano di coprire i limiti del sistema pubblico e come spesso si sia accettato di non ricorrere a valutazioni e selezioni trasparenti in quanto veniva socialmente condiviso che il pubblico potesse essere uno strumento alternativo di welfare a danno del buon funzionamento del sistema.

Va quindi promossa l'idea di valutazione come processo cooperativo di miglioramento collettivo, un processo che deve partire dal basso fin dalla scelta dei parametri che dipendono dagli obiettivi che la collettività si dà. In sostanza decidendo cosa va incentivato si decide qual è la direzione che si vuole intraprendere, questa scelta politica deve essere democratica e deve coinvolgere tutta la società.

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Serve assolutamente alla nostra organizzazione porsi il tema della valutazione e della selezione del personale docente all'interno dell'università. Dobbiamo però porci anche il problema degli strumenti correttivi delle situazioni “non meritevoli”, come evitare che persone incapaci assumano ruoli di rilievo? Come selezionare all'entrata docenti e ricercatori senza che prevalgano le logiche baronali?E' chiaro che per evitare questi meccanismi il primo obiettivo è quello di scardinare il sistema feudale universitario, riformando in senso democratico e orizzontale il suo sistema di governo. Tuttavia non possiamo sottrarci al dibattito sulla valutazione del merito in fase di chiamata dei docenti, ma anche in quella distribuzione dei fondi di ricerca. In altre parole la nostra proposta non può essere che tutti abbiano diritto agli stessi finanziamenti al di là delle capacità personali. Il sistema pubblico non deve rinunciare ad orientare gli obiettivi della ricerca e promuovere i più capaci nei ruoli più importanti, inoltre deve riuscire a definire degli obiettivi strategici di investimento per il bene della società.

Tesi 16 - Per un'università con un sistema di accesso ruolo chiaro e trasparente.

Uno degli aspetti chiave più controversi del sistema universitario è quello della selezione dei docenti e del meccanismo di accesso al ruolo all'interno dell'università.Molte sono le proposte in campo, il problema principale però oggi esistente risulta essere il blocco del turnover che impedisce l'assunzione di nuovi docenti.

La nostra università era già in passato quella con il rapporto docenti-studenti tra i più bassi d'Europa, avevamo quindi troppi pochi docenti per le necessità del nostro sistema universitario, questo in parte era reso palese dalla situazione di sovraffollamento delle aule e dall'obbligo per i docenti di seguire un numero enorme di studenti.

A peggiorare la situazione ci pensò il governo Berlusconi che con una norma contenuta nella legge 133 del 2008 bloccò il turn-over universitario, impedendo di fatto agli atenei di sostituire i docenti che andavano in pensione.Questo blocco era basato su una precisa scelta politica, all'interno della stessa legge infatti venivano ridotti i finanziamenti all'università pubblica: si procedeva quindi a ridurre l'investimento dello stato nella formazione, dietro alla retorica dell'evitare gli sprechi si pensava invece semplicemente a ridurre il personale per ridurre la spesa pubblica.

Il governo Monti ha proseguito su questa strada, con il d.lgs. 49 vengono infatti riviste le norme sul reclutamento, introdotte dalla legge 133 e dalla legge 1/2009; il vincolo del 90% tra spese di personale e FFO viene sostituito da un nuovo indicatore che include gli introiti della contribuzione studentesca. Viene ulteriormente inasprito il blocco del turn-over: in base al nuovo indicatore infatti gli atenei verranno divisi in tre fasce con la possibilità di sostituire rispettivamente il 50%, il 25% ed il 10% dei pensionamenti. È evidente che il corpo docenti diminuirà, numerosi insegnamenti resteranno scoperti ed inevitabilmente i corsi di laurea si chiuderanno e aumenteranno i numeri programmati.

L’ultimo provvedimento del Governo Monti, la “Spending Review”, incentiva la possibilità di reclutare, e quindi di avere una maggiore sostenibilità dei corsi, attraverso l’unico fattore disponibile agli atenei, cioè quello dell’aggravare la contribuzione studentesca, rischiando così di generare una guerra fra poveri, tra precari che vogliono essere assunti e studenti che non vogliono

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l’aumento delle tasse o, in una prospettiva ulteriormente drammatica, una condizione nella quale lo studente diviene consapevole della necessità di un aumento della tassazione al fine di avere un gettito maggiore che permette il reclutamento agli atenei così da garantire l’apertura dei corsi.

La strada tracciata dagli ultimi due governi è chiara: ridurre la spesa pubblica, tagliando le spese di personale in tutta la pubblica amministrazione e quindi anche all'interno dell'università, sostituire ordinari e associati che percepiscono stipendi molto elevati con un esercito di precari e assegnisti, pronti ad essere ricattati e a subire tutte le modifiche normative introdotte di anno in anno.

Un'università senza docenti non è in grado di funzionare, per questo dietro alle limitazioni del turnover come alla volontà di legare le assunzioni agli aumenti della contribuzione studentesca c'è una precisa scelta politica, quella di costruire università di serie A e di serie B e di diminuire il numero degli studenti così come del personale docente. Ad un'università piccola e di eccellenza non servono troppi studenti ne troppi professori.

Dobbiamo pretendere che il rapporto docente-studente sia almeno pari a quello degli altri paesi europei, adeguando le strutture e ripensando programmi e metodi di insegnamento, evitando in ogni modo che le assunzioni siano legate agli aumenti della contribuzione studentesca e lottando quindi contro i recenti provvedimenti del governo.

Serve costruire un sistema di accesso al ruolo che si basi sulle reali necessità dell'università e che permetta di dare un futuro ai tanti precari che sono stati cacciati dall'università italiana negli ultimi anni e a quelli che in futuro saranno espulsi dagli atenei dopo aveglie permesso di funzionare. Serve inoltre porre un freno alle centinaia di forme subordinate della docenza in università: non possono infatti esistere nella stessa misura in cui esistono oggi contratti d'insegnamento, co.co.pro, assegni, che di fatto sono forme sostitutive di altri modelli contrattuali. Bisogna garantire assunzioni basate una seria e reale tenure track.

Dobbiamo inoltre ricordare che purtroppo nel nostro paese spesso i meccanismi di selezione dei docenti come quelli dei dottorandi sono poco trasparenti. Occorre rivendicare con forza una selezione non clientelare diversa da quella proposta dagli ultimi due ministri dell'istruzione.

Tesi 17 - Ripensare la didattica per poter scegliere come e cosa imparare.

Il processo di Bologna, che ha portato al meccanismo 3+2, ha comportato una frammentazione del sapere. Il tentativo di quantificare il sapere, attraverso il sistema dei crediti formativi, appare arbitrario e poco rispondente al reale peso di un insegnamento. Sempre più spesso insegnamenti con lo stesso numero di crediti richiedono quantità e qualità di studio molto diverse. Abbiamo inoltre assistito alla divisione degli insegnamenti in moduli e al loro accorpamento in corsi integrati che spesso, in realtà nascondo micro-corsi con poca attinenza l’uno con l’altro. Ciò ha generato un peggioramento qualitativo della didattica che va a interessare ambiti diversi a scapito dell’approfondimento. Lo studente finisce col sapere un po' di tutto e niente in maniera adeguata. Inoltre a volte le cosiddette lauree "magistrali" altro non sono che la ripetizione di esami già sostenuti nella triennale; ciò comporta lo spreco di una potenziale possibilità di arricchimento e specializzazione da parte dello studente e in questi casi disincentiva al proseguimento degli studi dopo la prima laurea o un dirottamento verso università estere.

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Nella gran parte dei corsi di studio la laurea triennale non è riconosciuta con il dovuto peso nel mondo del lavoro ed il laureato triennale molto spesso svolge le stesse mansioni di un diplomato o di un perito, con la differenza che all’azienda il perito costa meno. Questa realtà costringe per motivi legati alla scarsa spendibilità del titolo triennale, anche la gran parte degli studenti ad andare avanti con gli studi fino al completamento della laurea magistrale anche per motivi legai alla scarsa spendibilità del titolo triennale.In quest’ottica il conseguimento della laurea triennale, che richiede comunque la preparazione di una tesina, spezza il percorso formativo, causando molto spesso ritardi nel percorso di studi, causati non tanto da mancanza di preparazione dello studente, quanto da inutili e macchiavellici meccanismi burocratici.

Possiamo dire che il processo di Bologna, che aveva come obiettivo l’uniformazione delle università europee, è fallito, e di questo non possiamo che essere felici, serve però oggi ripensare completamente il sistema didattico dei nostri atenei sia in merito agli strumenti di apprendimento utilizzati che alle forme con cui si trasmette il sapere.

Ad oggi serve ripensare ai contenuti che vengono insegnati. Ad Harvard gli studenti hanno rifiutato di seguire la lezione di Mankiw, in quanto basata su conoscenze fortemente connottate ideologicamente in un'unica direzione e vendute come certezze, oggi più che mai dobbiamo mettere in discussione i contenuti del sapere, mettendo in discussione gli insegnamenti dannosi, nella misura in cui non ammettono visioni storiche differenti rispetto al paradigma dominante, per la società, in particolare quelli che non ammettono visioni differenti dal pensiero del docente.Serve ripensare la didattica per comprendere oggi come mettere in crisi alcuni fondamenti della società, capire cosa insegnare, ampliando lo spettro dei saperi trasmessi negli atenei significa capire come ripensare la società.

Oggi più che mai è necessario liberare i saperi ,slegando la didattica dalla sua funzione strettamente produttiva o succube del pensiero dominante e provando ad immaginare nuovi percorsi e nuovi contenuti, legando ovviamente i saperi ad un utilizzo pratico e di cambiamento delsistema esistente.

La didattica deve avere un collegamento con il mondo del lavoro e deve servire a fornire allo studente competenze specifiche utilizzabili nella vita lavorativa, ma non può esserne succube né privilegiare solo alcuni saperi e scartarne altri.

Per fare questo serve ripensare radicalmente anche i metodi della didattica che nelle università italiane è basata prevalentemente sulla lezione frontale, statica e di vecchio stampo, spesso in aule sovraffollate con conseguente crollo della qualità della lezione; infatti negli atenei italiani è presente mediamente un docente ogni settanta studenti, contro il rapporto tedesco di uno su trenta. Purtroppo il limitato finanziamento statale riduce nei fatti la possibilità di attuare attività formative alternative più stimolanti, innovative ed efficaci.

Noi crediamo in una forma di insegnamento più dinamica e che non possano essere trascurate altre forme di trasmissione del sapere quali esercitazioni pratiche, seminari, lavori di gruppo, approfondimenti scelti dallo studente - tutte modalità non ancora sufficientemente valorizzate. Riteniamo inoltre necessario ampliare l'offerta formativa attraverso la fornitura di materiale didattico, trasformando le pagine dei docenti in vere e proprie piattaforme e-learning.

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Nelle università italiane i corsi comprendenti laboratori sono inferiori numericamente rispetto a quelli degli altri atenei europei e la cronica carenza di fondi ne limita fortemente la qualità. Crediamo che i seminari, pur perseguendo la logica dei crediti che noi critichiamo, permettano agli studenti di confrontarsi con tematiche specifiche e all’avanguardia, siano per la formazione universitaria uno strumento importante al momento non considerato con la dovuta attenzione e spesso purtroppo sottovalutato dagli stessi studenti.L' incentivazione dei lavori di gruppo permetterebbe allo studente di acquisire competenze fondamentali per lo sviluppo e la formazione professionali. Tali attività, da non considerarsi integrative bensì componente necessarie del corso, dovrebbero essere quanto più possibile orientate a percorsi di progetto che viaggino parallelamente alla trattazione teorica, formando in questo modo percorsi completi, in cui poter attuare sul campo le competenze e le abilità acquisite durante le lezioni frontali. Le relazioni sui lavori costituirebbero inoltre una solida esperienza in vista del lavoro che verrà svolto per la tesi finale.

In questo senso deve essere garantita flessibilità nella scelta dei corsi, compatibilmente con il tipo di studi intrapresi, con la garanzia di un’offerta formativa ampia e plurale. Un aspetto critico in questo senso è l’organizzazione degli orari che devono permettere allo studente un'effettiva libertà di scelta che non lo costringa a limitare i corsi che intende seguire.

Riteniamo inoltre necessario ampliare l'offerta formativa attraverso la fornitura di materiale didattico, trasformando le pagine dei docenti in vere e proprie piattaforme e-learning. Fondamentale anche l'istituzione di un sistema mutualistico e di confronto fruibile da tutti gli studenti per lo scambio libero di saperi e materiale, che possa quindi favorire un approccio cooperativo agli studi.

Riscontriamo spesso, nell'ambito degli esami da sostenere, l'eccessiva carenza di appelli, che dovrebbero essere calibrati alle caratteristiche di ogni singolo corso di laurea. Chiediamo pertanto un numero minimo di appelli adeguato alle esigenze di ogni organo di raccordo, che può essere individuato consultando gli studenti sull'argomento, e appelli intercorso per gli studenti fuoricorso o che devono sostenere un esame dell'anno precedente.

L’importanza dell’università non si gioca solo sul piano della trasmissione di un bagaglio di conoscenze puramente teoriche, ma anche nell’approccio al mondo del lavoro e nella formazione di professionalità spendibili in esso. Ad oggi, le forme di stage o tirocini messe in campo dagli atenei per favorire l’incontro tra il mondo accademico e quello del lavoro non hanno, nella gran parte dei casi, raggiunto l’obiettivo prefissato; anzi, molto spesso, si sono trasformate in occasioni di vero e proprio sfruttamento della manovalanza studentesca. Un miglioramento qualitativo di questo aspetto della formazione deve passare attraverso una completa revisione dello strumento degli stage e tirocini, controllando l’effettiva portata formativa dell’esperienza, che deve essere attinente al percorso di studio scelto e non deve in alcun modo assumere le caratteristiche di un contratto di apprendistato o di lavoro. A tal proposito risulta necessario un maggior controllo e selezione degli enti accreditati per queste tipologie di attività, di modo che si assicuri un effettivo contesto di formazione e crescita personale dello studente. Inoltre riteniamo importante la scrittura di uno statuto degli studenti e delle studentesse in stage al fine di regolamentare tali strumenti di formazione

Riteniamo necessario migliorare i processi di internazionalizzazione esistenti che purtroppo non sono sufficientemente favoriti dal progetto Erasmus, in quanto sono il 5% degli studenti italiani ne usufruiscono e le borse di studio per la mobilità internazionale, di valore molto diverso a seconda

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dei singoli atenei, sono gravemente insufficienti per la copertura delle spese che lo studente deve affrontare e dovrebbero essere, oltre che aumentate, calibrate alle spese che comporta lo specifico paese di destinazione. Inoltre si riscontrano seri problemi per la convalida degli esami sostenuti nelle università estere, fattore che danneggia lo studente Erasmus al ritorno nella sua università e disincentiva gli altri studenti a compiere quest'esperienza molto importante dal punto di vista formativo e culturale. Analoghi discorsi si possono fare sulle altre esperienze internazionali , come la tesi all’estero o le lauree binazionali.

Tesi 17.1 Il ruolo sociale dell'insegnante e l'accesso alla professione: il tfa e le lauree magistrali abilitanti.

In un periodo storico in cui è in atto un diffuso attacco rivolto al mondo della cultura e dei saperi, si collocano le recenti riforme che riguardano la formazione e l'accesso alla professione dell'insegnante. I continui interventi legislativi non hanno fatto altro che svilire il valore sociale del ruolo dell'insegnante. Anziché fare leva su quelle peculiarità della figura dell'insegnante che si declinano nell'ambito pedagogico e dell'educazione, si sceglie di valutare il fenomeno solo dal punto di vista quantitativo della logica del mercato. Si ripetono così delle dinamiche già viste nel mondo del lavoro in cui, a causa della mancanza di lungimiranza delle scelte politiche passate, si è scaricato sulle spalle delle nuove generazioni il peso di problematiche trascurate troppo a lungo. Si viene così a creare una sorta di “guerra tra poveri”, che vede coinvolti da una parte i precari storici della scuola e dall'altra coloro che si affacciano per la prima volta su quest'ambito professionale. Le questioni dei Tirocini Formativi Attivi e delle lauree magistrali abilitanti sono emblematiche di tutto ciò: a chi volesse intraprendere il percorso per l'abilitazione si prospetta almeno un anno di tirocinio a pagamento, senza alcuna garanzia di ottenere l'agognato incarico.

Non di secondaria importanza è l'aspetto economico della vicenda: non solo il tirocinio è a pagamento, ma prevede una mole di impegno e di tempo da investire tale da escludere la possibilità di potersi sostentare autonomamente. In questa maniera l'accesso a questo tipo di formazione è possibile solo per coloro che possono permetterselo: con delle tasse che vanno dai 2200 ai 3000 euro, torna ad affacciarsi lo spettro dell'elitarietà dell'accesso ai saperi, sempre meno libero e sempre più condizionato da logiche economiche, che favoriscono solamente coloro che provengono dalle classi più abbienti. Come se tutto ciò non fosse sufficiente, anche i costi dei test d'ingresso sono particolarmente onerosi (dai 60 ai 140 euro circa per ogni classe di insegnamento): una sorta di “tassa sulla speranza” che ricade su migliaia di aspiranti docenti. Considerando l'assurda difficoltà e il becero nozionismo ostentato dai test in questione, è facile individuare in queste pratiche la volontà da parte degli Atenei di speculare sui sogni dei soggetti in formazione.

A questo punto è per noi fondamentale costruire un percorso che parta dalla presa di coscienza della situazione da parte di tutti coloro che la subiranno. Sulla base della partecipazione degli studenti coinvolti si potrà costruire un' alternativa concreta a quella che ci propongono. E' ora importante garantire, attraverso il mezzo della rappresentanza, a tutti coloro che vorranno intraprendere questa strada, la possibilità di sostenere quegli esami che consentiranno di acquisire il numero di crediti formativi necessario a sostenere il test. Inoltre sarebbe opportuno, laddove ciò sia possibile, condurre una battaglia negli organi centrali dell'Ateneo, finalizzata all'introduzione di un sistema di tassazione più equo, mediante l'applicazione di un sistema di fasciazione a modello isee con tanto di una “no tax area”.

Tesi 18 - La necessità di una valutazione della didattica e dei docenti.

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La valutazione della didattica è uno strumento attraverso cui agire per il miglioramento della formazione universitaria. Un ruolo primario nella valutazione della qualità della didattica dei nostri atenei non può che spettare a chi li vive quotidianamente ed è destinatario degli insegnamenti: gli studenti.

La prima questione che si pone è il modo in cui gli studenti possano esprimere il loro giudizio in modo che risulti il più oggettivo e reale possibile. Una valutazione accettabile può essere raggiunta elaborando un buon metodo di raccolta dei dati e attraverso la presenza degli studenti negli organi che si occupano di didattica.

Indubbiamente il questionario è la forma di valutazione che permette la raccolta del maggior numero di giudizi, sia per la semplicità della formula che per la rapidità del suo completamento, incoraggiando anche gli studenti meno interessati a compilarlo. Nella formulazione di questionari di valutazione bisogna considerare due aspetti: la tempistica e la qualità delle domande. Riteniamo opportuno attuare la divisione in due tempi la valutazione: pre- e post-esame. Questo per due motivi: per non escludere nessun aspetto del percorso formativo dall’insegnamento fino alla valutazione ma per distinguere il giudizio sul corso da quello sull’esame.

Il questionario deve essere formulato con attenzione in modo che le domande siano corrispondenti alle effettive esigenze degli studenti. Per questa ragione è bene che siano differenziati sulla base dei corsi e che sia svolto un controllo costante volto al loro continuo miglioramento e aggiornamento. I risultati del questionario devono essere resi pubblici, dopo essere stati discussi in commissione, di modo che ogni studente possa consultarli per tempo.

Oltre al questionario è obbligatoria la consegna alla classe da parte di ogni docente di un modulo dove indicare suggerimenti e consigli indirizzati al docente stesso, affinché si possano ottenere un eventuale miglioramento del suo specifico insegnamento.

Una valutazione di tipo numerico come quella di un questionario è per sua definizione asettica e può spesso indurre in errore se non affiancata da un confronto tra la componente studentesca e quella accademica. Il luogo dove questo confronto si deve realizzare sono gli organi che si occupano di didattica all’interno degli organismi di raccordo, dei dipartimenti e dei corsi di laurea. Crediamo che più l’organo che interviene sulla didattica è vicino allo studente più abbia la possibilità di intervenire con cognizione sui problemi. Per questa ragione pretendiamo che vengono istituite le commissioni paritetiche di corso di studio per la didattica composte dai rappresentanti degli studenti nei Consigli di Corso di Studio.

La commissione didattica di corso di studio si occuperà innanzitutto della discussione degli esiti dei questionari di valutazione in merito ai singoli insegnamenti proponendo soluzioni ad eventuali problemi emersi, che verranno quindi consegnate agli opportuni organi deliberanti delle scuole e dei singoli dipartimenti interessati. Questi saranno tenuti a discutere tali proposte durante le rispettive sedute e a deliberare sulle stesse. In questo processo è essenziale che i rappresentanti degli studenti vengano coinvolti come parte attiva nella discussione, nonché vengano forniti loro tutti i dati necessari per un completo svolgimento delle loro funzioni.

Alla commissione di corso di studio spetterà la discussione dei casi critici e di formulare suggerimenti ai professori per il miglioramento della didattica.

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Se nonostante i suggerimenti della commissione didattica permanessero nel corso degli anni valutazioni negative queste devono essere considerate ai fini anche dell’utilizzo di strumenti di natura sanzionatoria verso i docenti stessi.

Viceversa la presenza di persistenti valutazioni positive o con significativi incrementi ripetuti nel tempo costituirà, per il docente interessato, titolo preferenziale nelle graduatorie per l'assegnazione di incarichi retribuiti all'interno.

Con il recente decreto legislativo per l’accreditamento dei corsi e delle sedi universitarie il governo è intervenuto prepotentemente nella valutazione dei corsi di studio e degli atenei. Crediamo che sia effettivamente necessaria una valutazione nazionale dei corsi di laurea e delle università tesa a ridurre le differenze qualitative presenti sul territorio nazionale.

Tuttavia nei criteri di valutazione dei corsi di studio recentemente pubblicati dall’ANVUR non è considerata la valutazione da parte degli studenti stessi. Ciò è assurdo visto che proprio loro testano quotidianamente la bontà o meno dei propri corsi e ne usufruiscono come servizio. E’ inoltre molto discutibile il legame che viene proposto nel documento tra qualità della didattica e della ricerca, dove la quantità massima della didattica erogabile è modificata da un coefficiente riferito alla qualità della ricerca. Per quanto sia innegabile che l’università sia e debba rimanere un connubio tra ricerca e didattica,modificare il numeromassimo di ore erogabili su questo principio appare arbitrario, una buona didattica può esistere anche laddove la ricerca non sia di alta qualità e viceversa.

Non può comunque che permanere la nostra contrarietà verso un sistema che non si configura come un sostegno al miglioramento della didattica ma solamente come una valutazione punitiva, i criteri presentati dall'Anvur, molto criticati anche dalla compenente docente, che devono essere completamente ripensati.

L'Anvur stesso va ripensato, non può essere un organismo i cui 7 membri sono nominati per mano divina dal ministro dell'istruzione e che rispondono solamente a loro stessi e dotati di un potere enorme che gli permette di chiudere senza appello corsi di laurea ed atenei.

Questa situazione è tanto più preoccupante considerando l’attuale situazione di blocco del turnover (il numero dei docenti è un criterio essenziale per la quantità della didattica che può essere erogata da un ateneo) e di riduzione costante dei finanziamenti all’università. Situazione che per quanto possa essere fatto per la valutazione della didattica costituisce un limite a qualsiasi tentativo di miglioramento.

Tesi 19 - Come rilanciare il movimento studentesco in Italia.

Il movimento studentesco ha rappresentato negli ultimi anni la principale opposizione ai governi che si sono succeduti, sostituendo in molti casi l'opposizione politica e sociale del paese.

Le mobilitazioni degli studenti, pur partendo da temi prettamente universitari, come i tagli della 133 o la riforma Gelmini, hanno saputo aggregare migliaia di persone attorno alla propria causa, arrivando in diversi casi a “risvegliare” l'opposizione sociale e riuscendo a non farsi strumentalizzare da partiti politici. Dobbiamo però ammettere che sia nel 2008 che nel 2010, il

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movimento studentesco è stato sicuramente favorito dall’anti -berlusconismo, aggregando, anche in ragione di questo, moltissime persone altrimenti non inclini a mobilitarsi e scendere in piazza.

Nel contesto del governo Monti, sostenuto - oltre che dalle principali lobby italiane e europee,- da una maggioranza politica senza precedenti nella storia del Parlamento italiano, fare opposizione risulta essere estremamente difficile. Quando la quasi totalità dei media ogni giorno è responsabile di campagne propagandistiche martellanti a sostegno dell'operato del governo, e quando anche gran parte dei partiti è ormai lanciata verso una campagna elettorale all'insegna del “non ci sono alternative”, si capisce come il movimento studentesco potrebbe veramente essere l'elemento non previsto di quest'autunno.

Serve oggi rilanciare un forte movimento studentesco per lottare contro le politiche di Profumo sull’università che sono in continuità con quelle del governo precedente e che mirano alla definitiva privatizzazione dei saperi. Opporsi a ciò diventa per noi un elemento prioritario e necessario per evitare un peggioramento delle condizioni materiali di vita degli studenti. Inoltre vista la nuova fase politica, che prelude ad una campagna elettorale, dobbiamo riuscire ad evitare che venga eliminato ogni dibattito politico di contenuto dalla scena pubblica. Il dissenso verso il governo Monti sarebbe facilmente identificabile come estremista e minoritario, estraneo alla retorica del sacrificio della responsabilità che sarebbe egemone. Noi dobbiamo contrastare il suo operato sia per i suoi contenuti che per l'ideologia sottostante cercando di sovvertire questo pensiero comune, proprio per questo dobbiamo provare a essere appunto l'elemento non previsto, che scompagina il quadro politico, mettendo al centro i contenuti.

La nostra organizzazione deve riuscire a spiegare al meglio la situazione drammatica che vive l’università oggi, provando a lavorare per ricompattare le forze di movimento presenti all’università oggi attorno a contenuti comuni e ad una diversa idea di università, in modo che si renda possibile la costruzione di un grande autunno di lotta per la ripubblicizzazione dell’università.

Oggi dobbiamo riuscire ad organizzare momenti di confronto e assemblee che da una parte creino coscienza all’interno della componente studentesca e dall’altra riescano a far emergere i problemi e ad organizzare il conflitto sociale che emergerà e che dobbiamo provare ad indirizzare verso obiettivi rivendicativi di sistema .

Allo stesso tempo è necessario rivedere le forme di lotta e di partecipazione interne ed esterne all’università e riuscire ad immaginare nuove forme di espressione e di conflitto del movimento studentesco.Inoltre dobbiamo porci il tema di ricompattare un fronte comune sia interno alle organizzazioni universitarie di movimento sia tra gli studenti e le altre componenti di movimento organizzate del mondo universitario.

Ma su quali contenuti oggi possiamo riuscire a mobilitare gli studenti? su quali vertenze possiamo riuscire a scendere in piazza? su che basi teoriche?

Risulta chiaro che la strada maestra su cui costruire l’impianto teorico su cui si dovrà basare il movimento studentesco dei prossimi anni è quello tracciato dal manifesto per la ripubblicizzazione e liberazione dei saperi, allo stesso tempo è necessario partire oggi dalle condizioni materiali drammatiche degli studenti, colpiti in questi anni da aumenti delle tasse, borse di studio inesistenti, in un'università sempre più a numero chiuso, con una didattica sempre più scarsa e corsi di laurea sempre più privi di senso. Il diritto allo studio è destinato nel progetto del governo

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ad essere praticamente sostituito dai prestiti d'onore e da altre forme di indebitamento, inoltre la questione delle tasse universitarie deve diventare per noi il cardine su cui costruire una grande mobilitazione

Nel giro di pochi anni, il sistema universitario italiano rischia di assomigliare a quello inglese, con tasse altissime, e, in ragione di ciò, con pesanti cali degli iscritti; un sistema composto di fatto da università di serie A e di serie B.

A questo attacco dobbiamo rispondere con una campagna comunicativa massiccia che sia in grado di essere capillare da settembre nelle università, ponendo il tema della liberalizzazione delle tasse tra i temi centrali su cui convocare assemblee insieme a ricercatori, precari e le altre componenti universitarie. Dobbiamo riuscire a parlare di tasse, senza cadere in facili populismi, ma anzi allontanandoci da questi ponendo il tema della liberalizzazione prima di tutto come un tema sociale, come un attacco di classe. Riuscire a fare questo, porre il tema della condizione economica degli studenti, senza cadere in facili pietismi, ma riuscendo ad aggregare migliaia di studenti.

Questa è la vera sfida che il movimento studentesco ha davanti a sé; quella di riuscire a incrinare il consenso di Monti e del suo governo, partendo proprio da bisogni immediati, reali, concreti degli studenti, rivendicando una tassazione equa, tutele per gli studenti-lavoratori, un diritto allo studio che sia veramente in grado di permettere a tutti di accedere all'istruzione universitaria ma mantenendo sempre fermo un forte impianto teorico.

L'attacco ai fuoricorso che il governo ha messo in atto, ben conscio che la loro difesa è mediaticamente molto meno efficace della retorica del merito, è senza precedenti: anche su questo dobbiamo essere in grado di rispondere con una campagna che scardini la propaganda del governo e che metta al centro la libertà del singolo studente di scegliere i tempi e i contenuti del proprio percorso di studi.

Esattamente come abbiamo fatto nel 2010 quando, davanti alla proposta di riforma Gelmini, abbiamo risposto non solo con la contestazione, ma con la costruzione dell'Altrariforma, così, davanti ai decreti di Profumo, che aggiungono un altro tassello al processo di privatizzazione dell'università, dobbiamo essere in grado di rilanciare verso la ripubblicizzazione dei saperi come principale strumento per la liberazione degli individui; lottando, come abbiamo sempre fatto, non in difesa dell'attuale università, ma per una sua radicale trasformazione, sottraendo i settori del mondo della conoscenza che sono già di fatto privatizzati, già di fatto sottostanti a logiche di profitto. Il manifesto della ripubblicizzazione dei saperi e ciò che impegniamo a costruire attorno ad esso insieme a studenti medi, dottorandi, ricercatori, precari, potrà costituire un utile strumento per il movimento; come Link, dobbiamo essere pronti a essere anche, come siamo stati negli ultimi anni, una piattaforma al servizio di esso.

Serve poi ricollegare le battaglie condotte nell’università ad un contesto più generale per allargare il campo dell’azione e per far si che il movimento studetensco si faccia interprete di una vasta insofferenza sociale riuscendo ad indirizzarla verso un conflitto capace di costruire un cambiamento radicale della società.

Dobbiamo rimettere al centro delle mobilitazioni la questione generazionale come questione sociale, che è oggi ancora tutta irrisolta, anzi per molti aspetti peggiorata: il futuro continuano a rubarcelo ogni giorno, ma in più, in nostro nome, distruggono i diritti di chi ha il posto fisso. Su questo, è necessario, come Rete della Conoscenza, essere punti di riferimento per migliaia di

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giovani, studenti, lavoratori, precari, disoccupati, non lasciando solo all’iniziativa singola il compito di “trovare un futuro”, ma mostrando come un’alternativa possibile esista e possa essere costruita insieme: la legge sul futuro che ci impegniamo a lanciare e promuovere dentro le università potrà rappresentare questo e potrà inoltre rappresentare, insieme al tema della ripubblicizzazione, un valido strumento per rilanciare una mobilitazione sui temi del sapere, del welfare, del lavoro, anche oltre la fase autunnale e invernale.

Non saremo in grado di ottenere il ritiro della proposta di liberalizzazione delle tasse e l’avvio di un percorso di ripubblicizzazione dei saperi se saremo soli; è prioritario costruire fin da settembre assemblee insieme a ricercatori, precari, dottorandi, docenti, lavoratori dell’università, che sappiano ribadire una presa di posizione unitaria contro le politiche di Profumo e Monti e si pongano come obiettivo la costruzione di un movimento universitario ampio, radicale, di massa. Su questo, la nascita di un percorso come quello dell’Università Bene Comune, iniziato in occasione della battaglia contro l’abolizione del valore legale del titolo di studio e del lancio del controsondaggio sull’università, ci vede impegnati in prima linea.

Nella costruzione dell’autunno universitario, sarà centrale saper sfruttare il mese di settembre e i primi giorni di ottobre per cominciare a informare e sensibilizzare riguardo alle principali questioni su cui intendiamo costruire mobilitazione. La prima data di mobilitazione nazionale degli studenti medi lanciata dall’Unione degli Studenti rappresenta per noi un’ottima occasione per riportare gli studenti in piazza fin da subito.

Tesi 20 - Il ruolo dei soggetti in formazione nella società e nell'opposizione sociale.

Il ruolo centrale dei soggetti in formazione all’interno dalla costruzione dell’opposizione socialedegli ultimi dieci anni appare evidente, lo dimostra il fatto che i movimenti più partecipati e larghidella storia degli ultimi anni siano stati spesso trascinati dalle proteste di scuola e università, nonsolo in Italia ma anche in altri paesi d’Europa e del mondo.

Per un’organizzazione come la nostra il movimento studentesco non nasce soltanto dalla necessità di costruire un’università diversa, di qualità e accessibile a tutti, ma dalla convinzione che i luoghi della formazione, attraverso luoghi di discussione politica, debbano essere dei laboratori di rilettura complessiva della società, a partire dall’uso e la finalità della produzione cognitiva che in essi si svolge. Per questo l’intreccio tra le battaglie della formazione e i diversi movimenti di lotta sociale non possono basarsi su una giustapposizione delle lotte, ma dalla costruzione di uno stesso orizzonte di cambiamento politico, economico, sociale e culturale.

Pertanto non siamo d’accordo con chi ritiene che la battaglia sull’università sia persa e che siastudentista ripartire dalle università per ricostruire un’opposizione sociale, quell’opposizione che,guarda caso, è stato proprio il movimento studentesco a costruire. Al contempo siamo convinti che il movimento studentesco possa generare cambiamento proprio partendo dalla consapevolezza che potrà mai esistere un’università pubblica realmente pubblica, di massa e di qualità all’interno di una società diseguale, ingiusta e sotto scacco del potere dei mercati.

I contenuti del movimento studentesco si sono sempre intrecciati a quelli di battaglie più larghe:dai beni comuni alla riforma del lavoro, dalla crisi globale alla precarietà, dai diritti sociali allediscriminazioni. In particolare dal 2005 in poi il tema della riappropriazione del futuro è stato

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imposto con forza dagli studenti nel dibattito politico fino a fare della “questione generazionale”una “questione sociale”.

Il tema della precarietà e del futuro hanno assunto centralità nelle rivendicazioni del movimento ,suscitando talmente consenso, al punto da richiamare l’attenzione della nostra controparte: Il paternalismo del governo Monti si esplica nel fatto chese giovani chiedono futuro e questo genera un elemento di conflitto aggregante, è necessariosfidarli su questo terreno, provando ad espropriarli di rivendicazioni complessive e facendodelle rivendicazioni più specifiche oggetto scambio. Il dibattito sulla Riforma Fornero in questosenso ne è l’esempio lampante: una riforma per i giovani contro i lavoratori garantiti vissutinella “bambagia” , la retorica dei bamboccioni, il paternalismo che ben si prestava a questa fasepolitica: se a governare sono “i professori” , gli studenti possono solo prendere appunti.I giovani devono abdicare la partecipazione e le loro richieste a qualcuno più saggio edesperto di loro. L’espropriazione e l’attacco alla questione generazionale è un po’ il riflessodell’espropriazione della democrazia da parte dei potere dei mercati, un potere unilaterale contro cui non è possibile confrontarsi. E’ il riflesso di una politica europea che abdica ancora una volta alle ricette fallimentari dell’austerity per uscire dalla crisi, è il riflesso delle politiche locali impotenti di fronte alle decisioni di un governo non votato dai cittadini.

Per questo motivo la riappropriazione del tema del futuro gioca un ruolo fondamentale solo seriesce a smarcarsi dalla banalizzazione del tema anche da parte dei movimenti stessi: il tema del futuro non deve essere auto rappresentazione di una categoria variegata e composita come quella giovanile , all’interno della quale è necessario riconoscere delle differenze sociali, politiche, economiche, ma deve essere un piano di rivendicazione chiaro per tutti coloro che vogliono costruire un’alternativa politica economica sociale e culturale per uscire dalla crisi, un discrimine tra chi dice che questo sistema economico ha fallito ed è insostenibile e chi decide di salvarlo.

In questo i luoghi della formazione,unici luoghi collettivi ancora esistenti oltre alle fabbriche, come detto più volte, devono tornare ad essere dei luoghi di aggregazione collettiva di pensiero critico e alternativo e di organizzazione di proteste di carattere generale, in questo senso le battaglie che conduciamo all’interno dei nostri atenei sono fondamentali per riaprire degli spazi di confronto.

Gli studenti sono gli unici oggi in grado di mobilitarsi per riaprire una stagione di conflitto e di opposizione sociale.Serve che il movimento studentesco si rimetta in connessioni con gli altri soggetti sociali contrari alla distruzione del pubblico e in lotta contro le politiche di austerity che sono portate avanti da questo governo come da quello precedente per volere della Troika. Ragionando attorno alla costruzione di coalizione sociali larghe non intese solamente come strumento di confronto tra soggettività diverse o come utili solo alla realizzazione di scopi specifici ma come luoghi in cui realmente si riconnettono le lotte e chi le pratica per poter incidere in maniera collettiva nella società in un ambito esclusivamente di cambiamento sociale.

Oggi più che mai per uscire dall'angolo in cui si stanno provando a chiudere i percorsi di lotta collettivi, isolandoli e rendendoli incapaci di parlare alla complessità generali dei problemi serve che gli studenti riattivino dei percorsi di riaggregazione collettiva capaci di parlare una lingua comune con gli altri soggetti sociali per costruire un opposizione che coinvolga le organizzazioni sindacali e i soggetti di movimento in modo da poter resistere all'attacco lacerante del capitalismo di questi ultimi anni ma riuscendo anche a costruire delle proposte complessive e di sistema per una reale alternativa di società.

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Ma i soggetti in formazione devono provare a fare un ulteriore salto di qualità intrecciando diversi tipi di rivendicazione e mettendo a sistema diversi strumenti di partecipazione per moltiplicarne l’effetto: per questi motivi una proposta di legge d’iniziativa popolare, può essere uno degli strumenti per costruire sul tema del futuro una battaglia che intrecci la resistenza all’alternativa, che imponga nel dibattito pubblico dei temi che ribaldino la logica T.I.N.A e che provi a costruire dei luoghi fisici e non di discussione fra soggetti diversi, che abbia come piano di confronto non solo la costruzione di conflitto, ma anche contenuti , sui quali riaggregare tutti coloro che sono colpiti dai provvedimenti politici ed economici messi in campo dall’Europa e dal governo.

Solo provando a organizzare un’opposizione sociale su più livelli, facendo delle singole battaglie un effetto moltiplicativo e non sommatorio, potremmo riusicre a vincere una battaglia che è di sistema e non vincolata a singole rivendicazioni liberando la società dallo sfruttamento capitalistico che la opprime.

Tesi 21 - Il ruolo del conflitto e del consenso nelle pratiche del movimento studentesco

Il nodo conflitto-consenso è stato più volte dibattuto all’interno delle nostre assemblee, assume la sua centralità nella riflessione sulle pratiche del movimento studentesco del 2010 e coinvolge direttamente la riflessione interna ai movimenti che vi è stata successivamente al 15 ottobre (data che abbiamo già ampiamente analizzato all'interno del documento politico della Rete della Conoscenza).

Più volte abbiamo ribadito la necessità di concepire le pratiche del conflitto in un’ottica che si legasse all’obiettivo da raggiungere ed al messaggio da comunicare dentro e fuori il movimento stesso, sia esso la necessità di accerchiare i palazzi del potere durante l’approvazione di alcuni provvedimenti chiave, la necessità di presidiare un luogo di riferimento del potere economico, la necessità di invadere le periferie delle città piuttosto che occupare degli spazi urbani per restituire loro funzione sociale.

Costruire delle pratiche di movimento radicali non nasce dall’appagamento di un’estetica del conflitto fine a sé stessa, ma diventa sempre più la risposta ad una crescente restrizione degli spazi di democrazia e dissenso con cui è sempre più complesso confrontarsi.

In quest’ottica un’analisi della gestione del conflitto sociale, in un paese in cui la maggior parte dei soggetti sociali e politici rappresentativi si sottrae al ruolo di organizzare una insofferenza sociale sempre più crescente, lasciando spazio a chi la organizza attraverso l’antipolitica o peggio ancora attraverso i movimenti neofascisti, diventa una priorità che non può ridursi soltanto all’analisi e la valutazione ex post di singole giornate, singoli modelli e singole pratiche, ma deve ambire ad analizzare completamente quanto messo in campo finora provando sempre più a spostare il campo di osservazione dalla piazza al processo che ad essa conduce.

Questo perché le difficoltà riscontrate dai movimenti nella fase successiva al 15 ottobre, ed all’insediamento del governo tecnico e l’aggravarsi della situazione sociale economica e politica in Italia ha in parte richiuso alcuni degli spazi di conflitto che i movimenti, ed in particolare il movimento studentesco, aveva aperto durante gli anni precedenti.

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In quest’ottica il tema della democrazia interna al movimento e dei luoghi di confronto e discussione diventa molto importante, ma al contempo non del tutto esaustiva.

Più volte abbiamo costruito una critica alla gestione assembleare dell’Onda, allo stesso modo abbiamo riscontrato e lamentato una scarsa partecipazione degli studenti all’interno delle assemblee dell’autunno 2010 e un’inefficacia del meccanismo assembleare dei movimenti occupy italiani.

Il ragionamento sul fallimento dei meccanismi di partecipazioni tradizionali in parte riflette l’eccessiva parcellizzazione e opportunismo che caratterizza le strutture sociali e politiche italiane, non a caso, le pratiche di conflitto più efficaci messe in campo in Italia negli ultimi anni e capaci di perdurare nel tempo, sono state espressione di percorsi politici che avevano come fine il miglioramento di una condizione particolare d’interesse generale, nati perciò da un confronto tra soggetti che si riconoscono nella stessa condizione di oppressione e non da soggetti che riconoscono soltanto la propria parzialità e i propri interessi, pensiamo ad esempio al movimento per l’acqua o al movimento No Tav , D’altro canto vi è una crisi delle forme tradizionali partecipative legate ad una crisi generale della rappresentanza politica e sociale che investe tutte le strutture in questa fase storica e che in parte investe anche i movimenti sociali. Rispetto a questo lo strumento dei social network negli ultimi anni ha spesso svolto un ruolo più suppletivo che complementare: nel 2008 facebook e twitter non erano considerati strumenti di “partecipazione politica” , il movimento dell’Onda riusciva perfettamente a non considerarli essenziali, ora invece è necessario confrontarsi con la capacità di questi strumenti di essere un canale di sfogo che non sempre si trasforma in partecipazione politica se non supportato da strumenti tradizionali.

Il tema della democrazia nel movimento, pertanto, passa sì da un aggiornamento di pratiche tradizionali, come l’assemblea, ma non soffermandosi soltanto su un dato estetico di democrazia, quanto sulle modalità con cui questi strumenti possano tornare a rispondere all’interesse dei soggetti da coinvolgere, favorendo la creazione di piani di confronti realmente produttivi e di una condivisione di pratiche di piazza conflittuali ed efficaci.

E’ evidente che la questione delle pratiche è legata però anche al tema della repressione dei movimenti da parte del potere politico, una repressione che spesso si manifesta non solo nella piazza, attraverso divieti e zone rosse, ma anche fuori, attraverso denunce ed arresti.

La repressione dei movimenti di protesta è uno degli strumenti con cui il potere politico delega alle forze dell’ordine pubblico la gestione del conflitto sociale, pertanto la costruzione di campagne, appelli e lettere pubbliche spesso hanno favorito una condanna parziale o totale della repressione agli occhi dell’opinione pubblica, altre volte questo non è bastato anche a causa del ruolo dei mass media.

E’ necessario pertanto avviare una fase di riflessione laica che provi ad aggiornare nuovamente anche le pratiche di piazza assunte finora dai movimenti: dal book block, diventato un simbolo di tutto il movimento studentesco, dalle accampade, alla clown army ai cortei selvaggi, provando non a creare una scala di valori, ma ripensandoli nuovamente, insieme a nuove pratiche che possano essere condivise e praticate dal maggior numero di manifestanti possibili.

E’evidente che alcuni nodi sono molto complessi da sciogliere, primo fra tutti come conciliare alcune pratiche come l’occupazione, il blitz , il blocco metropolitano con la piena democrazia

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all’interno dei movimenti è altrettanto evidente che pratiche di questo tipo spesso si sono rivelate necessarie per costruire delle proteste visibili o per raggiungere gli obiettivi preposti. In questo senso la chiarezza dei contenuti ex ante e la costruzione di una gestione pubblica ex post e di una comunicazione puntuale in piazza sono fondamentali per mantenere una gestione della radicalità che non sfoci in una sovra determinazione ed imposizione delle pratiche di piazza da parte di una specifica componente del movimento.

L’ispirazione a pratiche utilizzate in altri paesi può essere importante solo se non concepita come un prodotto di esportazione,un pacchetto da replicare per appagare i mass media, ma se può favorire e arricchire una riflessione che per forza di cose deve tener contro della storia e della cultura dei movimenti che hanno attraversato il nostro paese e delle storia attuale, provando a creare dei punti di avanzamento a partire dall’alternativa politica e sociale che i movimenti vogliono mettere in campo.

Tesi 22 - Dall'università alla società, cambiare i luoghi della formazione per cambiare il mondo.

Per un'organizzazione come la nostra che da anni ha deciso di analizzare lo studente nel suo complesso, ponendosi come obiettivo la difesa e la rivendicazione di diritti per i soggetti in formazione, non è sufficiente limitarsi ad analizzare il mondo della formazione costruendo proposte e lottando per il cambiamento del mondo dei saperi, senza comprendere come questi processi di mutamento del mondo cognitivo vadano inseriti all'interno del contesto più ampio costituito dall'intera società.

L'attacco ai saperi oggi è parte di un attacco complessivo ad un'idea di società, infatti le misure che provano a privatizzare i saperi e a rendere la conoscenza uno strumento di divisione della società devono essere lette in un quadro ampio di privatizzazione del pubblico, non possiamo pensare di salvare scuola e università senza pensare a come salvare la società.

Lo sfruttamento capitalistico, che negli ultimi anni ha attaccato l'intero sistema di welfare europeo e ha svuotato il pubblico di ogni sua funzione, non ha risparmiato l'università, in tal senso devono essere letti tutti i recenti provvedimenti che hanno caratterizzato il complesso sistema universitario italiano e contro i quali ci siamo mobilitati in questi anni.

Cambiare oggi i luoghi della formazione significa lottare per una ripubblicizzazione del sistema della conoscenza e di fatto porre un freno all'avanzata del privato. Allo stesso modo però dobbiamo pensare a come oggi si ripubblicizzano la totalità dei servizi: non possiamo non imparare dalle battaglie per la difesa dei beni comuni e farle nostre sia in termini di azione nell'università che come obiettivo da conseguire per l'intera società.

Sconfiggere oggi l'avanzata del capitalismo e la sua volontà di arricchirsi sullo sfruttamento individuale delle persone , sia nell'ambito materiale della produzione sia in quello immateriale, vuol dire resistere all'attacco portato ai luoghi della formazione, sapendolo calare in un contesto generale.

La battaglia per la difesa dell'acqua come bene comune deve farci comprendere come oggi non si possa costruire una lotta ampia in grado di attaccare le basi stesse su cui si fonda l'accumulazione capitalistica, senza riuscire a cambiare in profondità la coscienza delle persone: modificare quelle

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coscienze liberando i saperi e dotando tutti gli individui di spirito critico deve essere il nostro obiettivo principale.

Diventa necessario dotarsi di strumenti di analisi adeguati per leggere i cambiamenti in atto nella società e dare una risposta complessiva e di sistema, aggredendo a partire dalla condizione di studenti più temi, riuscendo a leggerli nella nostra parzialità sotto un cappello generale e costruendo insieme alle altre categorie sociali vittime del nostro stesso sfruttamento una lettura complessiva dei processi capitalistici esistenti per darne una risposta in grado di modificare non il particolare ma il generale.

Serve interrogarsi oggi a partire dalla crisi dei sistemi democratici per poter comprendere come serva riattivare i processi di partecipazione in grado di attaccare luoghi reali del potere, sapendo che solo ripensando radicalmente le forme di partecipazione democratica dentro l'università in primis, ma anche all'esterno dei luoghi della formazione, si possa provare ad invertire una tendenza che rischia di far prevalere un pensiero individualista.

Le difficoltà che abbiamo spesso incontrato nell’identificazione del nemico non ci devono impedire di comprendere come l'attacco che la maggioranza dei cittadini oggi subisce sia opera di un preciso pensiero politico e abbia attori specifici. Serve mobilitarsi contro di essi, legando le lotte per l'università in Italia alle lotte per l'università in Europa e nel mondo, legando insieme le centinaia di conflitti locali e pensando ad una risposta complessiva che viva nell'intreccio di esperienze diverse e tracci un'alternativa internazionale ai processi di privatizzazione e di sfruttamento individuale e collettivo oggi in campo ai danni dei beni comuni come dei singoli individui.

Dobbiamo sapere che le università possono essere, come lo sono state in passato, un luogo di elaborazione fondamentale per il cambiamento della società, all'interno dei luoghi della formazione possono nascere idee e proposte per costruire un diverso mondo possibile, senza un'elaborazione adeguata nessun cambiamento sarà mai possibile.

Le università devono essere modificate radicalmente e spetta a noi il compito di trasformarle dei luoghi liberi, accessibili e democratici; dobbiamo però comprendere come i processi di mutazione e cambiamento non siano mai unidirezionali: non possiamo ritenere sufficiente il solo cambiamento universitario e poi credere che esso determini, senza la collaborazione con gli altri soggetti sociali, il cambiamento della società.

Allo stesso modo dobbiamo evitare di rinchiuderci nelle università: bisogna partire da lì per sviluppare un processo di cambiamento generale, sapendosi confrontare con ciò che avviene all'esterno, abbattendo la distinzione tra il dentro e il fuori, comprendendo come i processi di mutamento e di lotta nella società si influenzino vicendevolmente e come solamente riuscendo, da un lato ad aprire le università al mondo esterno, dall'altro uscendo noi stessi a confrontarci con il mondo esterno rifiutando qualsiasi politica dei due tempi e mettendo in discussione le nostre certezze.

L’intuizione che abbiamo avuto anni fa creando la Rete della Conoscenza, soggetto di rappresentanza sociale dei soggetti in formazione è per noi lo strumento fondamentale per perseguire battaglie generali e non limitate al solo comparto universitario, uno dei nostri obiettivi deve quindi essere quello di creare la Rete della Conoscenza in tutti i territori dove oggi non è presente, con l’impegno di tutte le basi territoriali dell’organizzazione, che oltre a doversi rendere conto dell’insufficienza di Link, devono lavorare per la costruzione dei nodi di Rete e per riuscire

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poi anche attraverso la Rete stessa a costruire alleanze sociali sui territori in grado di aprire vertenze generali per cambiare la società.

Lo strumento della legge sul futuro può essere utile per mostrare nel pratico come gli studenti possano confrontarsi con tutti gli altri attori sociali e insieme ad essi siano in grado di dare prime e parziali risposte pratiche all'attacco subito in questi anni, facendosi capofila della costruzione di una coalizione sociale ampia, che includa tutti i settori della società e in grado di unire le lotte, per cambiare nel profondo la società.

Vogliono precarizzare il nostro futuro e impedirci di cambiare il mondo, ma mostreremo loro che la nostra generazione è in grado di riprendersi tutto, legando le lotte e costruendo un'alternativa di sistema.

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