Diritto Commerciale

123
Tomaso Ferrando - Diritto commerciale Diritto Commerciale Professore: Paolo Montalenti Testo: Galgano, Diritto Commerciale edizione compatta IL CONCETTO DI IMPRENDITORE Il concetto economico di imprenditore L’imprenditore è l’attivatore del sistema economico: egli svolge la funzione di intermediatore tra coloro che offrono capitale o domandano lavoro e quanti, all’opposto, chiedono beni o servizi. Accollandosi il rischio dell’attività sulla quale ha il potere di direzione, l’imprenditore trasforma il capitale ed il lavoro (fattori di produzione dei quali può anche non essere proprietario) in un prodotto idoneo a soddisfare le domande dei consumatori. Il rischio economico al quale egli si espone (infatti c’è il rischio che i profitti dell’impresa non siano tali da coprire il costo dei fattori produttivi impiegati –capitale e lavoro-) è però controbilanciato dal fatto che egli potrà, qualora la sua attività sia in utile, godere dei suoi profitti, e dal fatto che sarà a lui (e non i capitalisti o i lavoratori) ad avere il potere di controllo dell’attività imprenditoriale. Nell’economia moderna, a differenza di quanto avveniva con il capitalismo industriale, si assiste quindi, molto spesso, alla separazione tra colui che è proprietario del capitale e colui che, invece, organizza e dirige l’impresa: al primo spetterà un compenso, una rendita, per la fornitura degli strumenti di produzione, mentre al secondo, sul quale ricade il rischio d’impresa, spetta il compito di fare da intermediario tra capitalisti e consumatori e il privilegio di remunerare se stesso con i profitti dell’attività. Il concetto giuridico di imprenditore Se nel codice del 1865 tutti gli imprenditori erano considerati commercianti (e quindi questa seconda categoria era più ampia), nel codice vigente il loro rapporto è ribaltato, dato che il legislatore ha assunto la categoria di imprenditore come categoria generale determinando che i commercianti ne costituiscano una sottoclasse: solo alcuni imprenditori, come si vedrà in seguito, sono imprenditori commerciali. Il concetto di imprenditore è introdotto nel nostro codice dall’articolo 2082, che introduce la sua definizione: E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di serviziA differenza del vecchio codice, la figura di imprenditore che viene disciplinata non è più quella dell’uomo d’affari che compie professionalmente operazioni speculative, bensì colui che produce ricchezza o per mezzo di attività produttive in senso stretto (attività industriali) o attraverso la sua interposizione nella circolazione dei beni (attività commerciali). Perciò si capisce per quale ragione una figura come quella dello speculatore di borsa (ossia colui che non acquista titoli, non si interpone nella loro circolazione, ma scommette solamente sul loro andamento senza mai diventare proprietario, né tanto meno possessore), non viene considerata, a differenza di quanto accadeva con il codice previdente, svolgere un’attività commerciale e, quindi, non viene ritenuta essere imprenditore e, ancora, non sarà soggetta a fallimento. Imprenditore e professionista intellettuale Lo svolgimento professionale di un’attività definibile come produttiva di ricchezza (produzione o scambio di beni o servizi) è condizione necessaria per l’assunzione della qualità di imprenditore, ma non è ancora sufficiente: esistono infatti determinate attività che, pur consistendo nella produzione di beni o di servizi, e nonostante siano esercitate professionalmente, non danno luogo ad un’impresa. Se, infatti, l’articolo 2238.1 disciplina che “Se l’esercizio della professione (intellettuale) costituisce un elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II (ossia quelle relative al lavoro d’impresa)” ciò vuol dire che l’attività intellettuale, qualora non sia esercitata in forma organizzata, quantunque sia produttrice di ricchezza, non darà luogo ad attività imprenditoriale. Tale situazione non trova giustificazione nel fatto che l’attività intellettuale non fornisca un bene od un servizio in senso tecnico-economico (in quanto da questo punto di vista sono sicuramente un servizio), bensì in senso giuridico, in quanto squisitamente intellettuale. 1

description

Imprenditore, società, titoli di credito, procedure concorsuali.

Transcript of Diritto Commerciale

Page 1: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Diritto CommercialeProfessore: Paolo MontalentiTesto: Galgano, Diritto Commerciale edizione compatta

IL CONCETTO DI IMPRENDITOREIl concetto economico di imprenditore

L’imprenditore è l’attivatore del sistema economico: egli svolge la funzione di intermediatore tra coloro che offrono capitale o domandano lavoro e quanti, all’opposto, chiedono beni o servizi. Accollandosi il rischio dell’attività sulla quale ha il potere di direzione, l’imprenditore trasforma il capitale ed il lavoro (fattori di produzione dei quali può anche non essere proprietario) in un prodotto idoneo a soddisfare le domande dei consumatori. Il rischio economico al quale egli si espone (infatti c’è il rischio che i profitti dell’impresa non siano tali da coprire il costo dei fattori produttivi impiegati –capitale e lavoro-) è però controbilanciato dal fatto che egli potrà, qualora la sua attività sia in utile, godere dei suoi profitti, e dal fatto che sarà a lui (e non i capitalisti o i lavoratori) ad avere il potere di controllo dell’attività imprenditoriale.

Nell’economia moderna, a differenza di quanto avveniva con il capitalismo industriale, si assiste quindi, molto spesso, alla separazione tra colui che è proprietario del capitale e colui che, invece, organizza e dirige l’impresa: al primo spetterà un compenso, una rendita, per la fornitura degli strumenti di produzione, mentre al secondo, sul quale ricade il rischio d’impresa, spetta il compito di fare da intermediario tra capitalisti e consumatori e il privilegio di remunerare se stesso con i profitti dell’attività.

Il concetto giuridico di imprenditoreSe nel codice del 1865 tutti gli imprenditori erano considerati commercianti (e quindi questa seconda

categoria era più ampia), nel codice vigente il loro rapporto è ribaltato, dato che il legislatore ha assunto la categoria di imprenditore come categoria generale determinando che i commercianti ne costituiscano una sottoclasse: solo alcuni imprenditori, come si vedrà in seguito, sono imprenditori commerciali.

Il concetto di imprenditore è introdotto nel nostro codice dall’articolo 2082, che introduce la sua definizione:

“E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”

A differenza del vecchio codice, la figura di imprenditore che viene disciplinata non è più quella dell’uomo d’affari che compie professionalmente operazioni speculative, bensì colui che produce ricchezza o per mezzo di attività produttive in senso stretto (attività industriali) o attraverso la sua interposizione nella circolazione dei beni (attività commerciali).

Perciò si capisce per quale ragione una figura come quella dello speculatore di borsa (ossia colui che non acquista titoli, non si interpone nella loro circolazione, ma scommette solamente sul loro andamento senza mai diventare proprietario, né tanto meno possessore), non viene considerata, a differenza di quanto accadeva con il codice previdente, svolgere un’attività commerciale e, quindi, non viene ritenuta essere imprenditore e, ancora, non sarà soggetta a fallimento.

Imprenditore e professionista intellettualeLo svolgimento professionale di un’attività definibile come produttiva di ricchezza (produzione o

scambio di beni o servizi) è condizione necessaria per l’assunzione della qualità di imprenditore, ma non è ancora sufficiente: esistono infatti determinate attività che, pur consistendo nella produzione di beni o di servizi, e nonostante siano esercitate professionalmente, non danno luogo ad un’impresa. Se, infatti, l’articolo 2238.1 disciplina che “Se l’esercizio della professione (intellettuale) costituisce un elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II (ossia quelle relative al lavoro d’impresa)” ciò vuol dire che l’attività intellettuale, qualora non sia esercitata in forma organizzata, quantunque sia produttrice di ricchezza, non darà luogo ad attività imprenditoriale. Tale situazione non trova giustificazione nel fatto che l’attività intellettuale non fornisca un bene od un servizio in senso tecnico-economico (in quanto da questo punto di vista sono sicuramente un servizio), bensì in senso giuridico, in quanto squisitamente intellettuale.

1

Page 2: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Dal singolo che fornisce la propria opera intellettuale va però distinto il caso dell’imprenditore che, assumendo alcuni professionisti, ponga in essere un’attività di fornitura di servizi intellettuali (come ad esempio un istituto di riorganizzazione aziendale con il quale fa fornire alle imprese consulenze dai professionisti da lui stipendiati): in questo caso si è sicuramente di fronte ad un’attività imprenditoriale poiché il soggetto non offre la propria prestazione intellettuale, bensì quella di suoi lavoratori dipendenti.

Il fatto che il nostro legislatore abbia scelto la strada di non considerare i professionisti come esercenti attività d’impresa e, quindi, imprenditori, è da ricercare nel privilegio che nel nostro ordinamento è da sempre stato accordato a coloro che esercitano le c.d. attività liberali.

Un caso particolare è quello del farmacista, attività per la quale è necessaria l’iscrizione in apposito albo (come per le c.d. professioni protette di cui si parlerà tra poco), ma che il legislatore ha inequivocabilmente considerato svolgere attività d’impresa con un t.u. del 1934: tale decisione è stata presa per via del fatto che la maggior parte del lavoro del farmacista consiste, ormai, non nella preparazione di medicinali e nella loro commercializzazione, ma nella vendita di prodotti preparati dalle case farmaceutiche. Non si può quindi ritenere svolgere attività professionale un soggetto che per lo più svolge un ruolo di intermediatore commerciale tra le case farmaceutiche e i consumatori.

Tra coloro che esercitano professioni intellettuali bisogna poi attuare una distinzione tra coloro che appartengono alle c.d. professioni protette (individuate dalla legge stessa, ex. art. 2229 <la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi>) e coloro che, invece, non ne fanno parte.

I primi, che si caratterizzano per il fatto che la prestazione fornita ha carattere rigorosamente personale (art. 2232 c.c. <Il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto>), sono contemporaneamente tutelati, perché per svolgere la loro attività è necessario l’iscrizione ad un albo professionale (la quale presuppone determinate competenze e determinati titolo), e allo stesso tempo assoggettati agli ordini professionali che esercitano su di loro un potere a salvaguardia della dignità e del decoro della professione. Chi appartiene a queste categorie di professioni non può allontanarsi dallo schema dell’attività personalmente fornita e, quindi, non potrà mai essere considerato, a meno che si rientri nel caso dell’organizzazione imprenditoriale che fornisce prestazioni intellettuali, imprenditore.

Coloro che, invece, non appartengono alle categorie delle professioni protette, che costituiscono la regola (in quanto, come visto, è la legge che eccezionalmente determina i casi di professioni protette) si trovano a poter regolare il proprio rapporto con il cliente in maniera differente, ossia non hanno né l’obbligo di esecuzione personale della prestazione né di esercitare la propria attività sulla base del contratto d’opera intellettuale: essi hanno molta più libertà contrattuale, ma il loro allontanarsi dallo schema previsto per le professioni intellettuali protette (scegliendo ad esempio il contratto d’appalto e accollandosi il rischio del lavoro) determina il loro ricadere in attività d’impresa e, quindi, il passaggio a imprenditori.

I requisiti dell’attività d’impresaa) attività:Affinché si possa parlare di impresa è necessario che vi sia una pluralità di atti tra loro connessi e

convergenti verso un unico scopo. Non basta un singolo atto, e non basta nemmeno una serie slegata di atti.

b) professionalmente esercitata:In quest’ambito il concetto di professionalità non si riferisce ala competenza o alla capacità del

soggetto, ma indica la stabilità e la non occasionalità dell’attività esercitata. Il che non vuol dire che l’attività deve essere ininterrotta, ma solamente che sia svolta abitualmente, anche se ad intervalli imposti dalla intrinseca natura ciclica o stagionale dell’attività (si pensi ad esempio al titolare di uno stabilimento balneare). È necessario che vi sia sistematicità e continuità economico-temporale.

Esercitare professionalmente l’attività non vuol dire che questa deve essere l’unica attività svolta o quella svolta in maniera principale: è sufficiente che questa sia svolta abitualmente, indipendentemente dal rapporto con altre possibili attività del soggetto. Dovendo la definizione di imprenditore essere valida sia per le imprese private sia per quelle pubbliche, il concetto di professionalità non può quindi essere riferito

2

Page 3: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

ad uno stato personale, e per tale ragione individuare in esso il requisito di abitualità dell’esercizio si adatta perfettamente ad entrambi.

È quindi incompatibile con il concetto di professionalità l’esercizio di un affare isolato, a meno che questo sia tale da protrarsi a lungo nel tempo (come la costruzione di una diga o di un edificio), e allora si potrebbe rintracciare in esso gli estremi della professionalità: in questo caso si assisterebbe, infatti, alla trasformazione della quantità in qualità per via della grande rilevanza economica dell’attività svolta.

Secondo una convinzione largamente diffusa ed accolta dal Galgano, il requisito di professionalità non si esaurisce soltanto nella abitualità e non occasionalità dell’attività economica esercitata, ma si estende, richiedendo che l’attività sia esercitata a scopo di lucro. Si ha professionalità, quindi, solamente laddove l’attività sia sistematicamente eseguita e miri al conseguimento di un profitto. Non può quindi essere considerata professionalmente eseguita un’attività che faccia erogazione gratuita dei beni o dei servizi prodotti. Che professionalità non possa dire gratuità lo si evince dall’articolo 1767 sul deposito, nel quale il legislatore sostiene che “il deposito si presume gratuito salvo la qualità professionale del depositario”. Laddove c’è professionalità ci deve essere scopo di lucro.

Se un tempo si dava al concetto di scopo di lucro un carattere soggettivo, ritenendo che esso vi fosse in tanto in quanto l’imprenditore si proponesse effettivamente di realizzare utili con la sua attività, oggi si è passati ad una visione oggettiva di questo concetto: si ha scopo di lucro tutte le volte in cui l’attività esercitata sia astrattamente tale da generare profitto.

Tale idea di scopo di lucro è però messa in crisi qualora si pensi che sia le imprese mutualistiche sia le imprese pubbliche sono da considerare imprese: nelle prime non si può infatti rintracciare un’oggettiva predisposizione dell’attività a generare profitto, in quanto i soci delle cooperative non mirano alla realizzazione di un lucro, e non potrebbero neanche realizzarlo, ma solamente ad un risparmio grazie al fatto che facendone parte ottengono le materie prime a prezzo minore e riescono in questo modo ad evitare una riduzione patrimoniale. Le imprese pubbliche, invece, appaiono avere piuttosto uno scopo altruistico in quanto non si pongono come scopo la realizzazione di lucro, bensì il soddisfacimento di un interesse sociale.

c) economicità dell’attività imprenditoriale:Secondo la tesi più diffusa, il requisito di economicità dell’attività non starebbe ad indicare altro che

la predisposizione dell’attività a produrre ricchezza, il che appare pleonastico e ridondante osservando che il legislatore stesso ha richiesto che l’attività sia organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Economicità vuol però anche dire che l’attività svolta deve essere almeno astrattamente idonea a procurare il pareggio di bilancio, ossia a coprire con le entrate i costi di produzione. Tale requisito appare molto utile qualora si vada ad analizzare le categorie delle imprese pubbliche: laddove si osservi che un’impresa pubblica è, almeno astrattamente, organizzata in maniera tale da portare almeno al pareggio di bilancio (indipendentemente dal fatto che effettivamente lo raggiunga) si potrà parlare di impresa, altrimenti tale qualità imprenditoriale deve essere negata (si pensi ad esempio agli enti di protezione sociale che sono organizzate in maniera tale da non poter nemmeno in astratto raggiungere il pareggio di bilancio perché forniscono beni gratuitamente o ad un prezzo comunque insufficiente a permettere di coprire le spese).

Quindi si può dire che, dato che il legislatore ha previsto come attività d’impresa sia le cooperative sia le imprese pubbliche, lo scopo di lucro (individuato per alcuni dal requisito della professionalità) non costituisce un elemento essenziale della definizione di imprenditore (infatti neanche la concezione oggettiva dello scopo di lucro si sposa con questi due tipi di impresa), mentre è essenziale e necessario che l’attività sia esercitata secondo un principio di economicità (ossia che l’imprenditore non escluda a priori la possibilità di raggiungere almeno il pareggio di bilancio).

d) fine della produzione o dello scambio di beni o di serviziIl legislatore ha scelto di vincolare lo scopo dell’attività imprenditoriale: essa deve essere volta alla

produzione o allo scambio di beni o di servizi. Anche se il legislatore si è servito della proposizione disgiuntiva, si ritiene che affinché si possa parlare di attività d’impresa sia necessario che il bene sia

3

Page 4: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

destinato al mercato e, quindi, allo scambio. Non basta la produzione di un bene per definire l’attività come imprenditoriale se poi questo non viene destinato al mercato.

Quando si ha un soggetto che esercita un’attività producendo per sé o non per vendere o fornire ad altri, si parla di impresa per conto proprio, e le si nega i caratteri di imprenditorialità. Lo scopo privato e non di mercato comporta che non ci si trovi di fronte ad attività d’impresa. Ciò è principalmente dovuto al fatto che, di regola, se un’attività è esercitata per se stessi non si dà luogo alla remunerazione dei costi con i ricavi derivanti dalla vendita o dalla prestazione del servizio a terzi: viene così a mancare quel requisito di economicità che è, come detto, essenziale alla definizione di imprenditore.

e) organizzazioneSi è già visto che nella definizione contemporanea è imprenditore colui che organizza i fattori

produttivi in maniera da ottenere profitto. È quindi connaturata alla sua definizione l’esistenza di un apparato organizzativo. Tale concetto non indica che debba essere svolta un’attività di organizzazione intermediatrice, ma che vi sia almeno un’organizzazione di elementi reali, ossia che vi sia un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555, definizione di azienda). Secondo Galgano, però, tale requisito, se si ammette, come fa il legislatore, che l’artigiano sia sempre imprenditore, anche se piccolo, si trasforma in uno pseudorequisito, perché diviene possibile considerare imprenditore anche chi svolga il lavoro in casa e servendosi quasi esclusivamente della propria opera manuale.

LE CATEGORIE DELL’IMPRENDITOREL’imprenditore in genere e le specie dell’imprenditore agricolo

Il concetto di imprenditore è divisibile in due macro-categorie, quella di imprenditore commerciale e quella di imprenditore agricolo. A sua volta la prima categoria viene divisa, dallo stesso legislatore, in imprenditore commerciale ed in piccolo imprenditore.

Il nostro codice prevede delle norme generali che servono ad individuare in generale se un soggetto sia o meno imprenditore, e delle norme specifiche che consentono, una volta superato il primo gradino, di inserire il soggetto all’interno di una delle tre specifiche categorie. Non esiste un imprenditore che non appartenga ad una delle tre categorie, quindi non si può parlare, nella vita reale, di imprenditore in generale, e allo stesso tempo chiunque rientri in una delle tre categorie è sottoposto alle regole generali per l’imprenditore.

Alcuni interpreti si sono poi trovati, a volte, di fronte alla difficoltà di collocare una determinata attività d’impresa all’interno di una delle due macro-categorie. Per tale ragione è stato formulato il concetto di impresa civile, intesa come tertus genus nel quale ricadrebbero tutte quelle imprese che non siano identificabili né come impresa agricola (ex. 2135 c.c.) né come impresa commerciale (ex. 2195 c.c.). Per Galgano tale terza categoria appare avere molto poco spazio nel sistema del codice civile, e per tale ragione sostiene che siano sufficienti le due macr-categorie espressamente predisposte dal legislatore.

L’imprenditore agricoloL’articolo 2135 c.c. disciplina che “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:

coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. Mentre nel vecchio codice l’attività agricola era considerata solamente come un modo di esercitare il diritto, reale od obbligatorio, di cui un soggetto godeva sul fondo, una mera attività di godimento che non determinava la sua qualifica a commerciante nemmeno qualora avesse venduto i prodotti del fondo, attualmente l’agricoltura è, invece, considerata attività d’impresa. Essendo imprenditore chi esercita attività produttiva, ed essendo sicuramente l’agricoltura un’attività produttiva di beni, allora l’agricoltura, qualora svolta secondo i criteri richiesti dall’articolo 2082 (professionalità, economicità, organizzazione) è attività d’impresa. A differenza dell’imprenditore commerciale, di cui si dirà in seguito, l’imprenditore agricolo è stato assoggettato, da parte del legislatore, ad un insieme molto scarno di norme e ad una disciplina piuttosto semplice. Egli non ha infatti l’obbligo di scritture contabili, non deve iscrivere la propria impresa al registro delle imprese con finalità costitutive e non è nemmeno soggetto al fallimento.

Il legislatore ha quindi definito positivamente tre tipi di attività che, qualora siano svolte, diano vita ad impresa agricola: coltivazione, selvicoltura e allevamento di animali. Fino al 2001 le attività non erano espressamente definite, in quanto il legislatore del 1942 dava per scontato che tutti sapessero che cosa si

4

Page 5: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

intendeva per attività agricola. Inoltre sia la coltivazione sia l’allevamento di animali hanno, per il legislatore, un’estensione più ampia di quanto abbiano nella quotidianità: rientra infatti in una di queste due categorie qualunque riproduzione con apposite tecniche di un ciclo biologico a carattere vegetale o animale, il che indica che si possa anche prescindere dal rapporto con il fondo che, un tempo, era fondamentale per individuare un’attività agricola. Perché si possa parlare di coltivazione è necessario che vi sia un’attività umana tale da produrre beni, e, quindi, non basta che vengano raccolti i frutti del fondo senza intervenire attivamente per la loro produzione. Relativamente all’allevamento di animali bisogna invece dire che, fino al 2001, il legislatore parlava di allevamento di bestiame, escludendo quindi numerosi tipi di allevamento sempre più diffusi, come l’allevamento di animali da pelliccia o di cavalli da corsa. Con la riforma del 2001, così come avvenuto per la coltivazione, il legame con il fondo diviene solo eventuale, dato che si ha allevamento di animali anche nel caso in cui vi sia utilizzo “di acque dolci, salmastre o marine”.

Di particolare rilievo è la quarta categoria prevista dal legislatore nel 2135 c.c., ossia quella delle attività connesse. Con questa previsione, ampliata da quanto contenuto nel terzo comma “si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata […]”, si capisce quali siano i requisiti essenziali per poter definire un’attività come connessa ad un’impresa agricola.

Per prima cosa devono essere esercitate dallo stesso imprenditore agricolo (il che vuol dire che questo deve svolgere un’attività agricola tra le tre previste dal 2135 c.c.) che, con la sua attività, produce i beni che sono oggetto prevalente (il che vuol dire che un vignaiolo può produrre vino con la propria uva e anche con un po’ di uva proveniente da altri vigneti) dell’attività connessa, mentre il secondo requisito è che siano dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dell’oggetto, il che determina una categoria molto ampia di attività connesse, tanto da far rientrare tra queste anche l’attività di agriturismo e accoglienza ospiti, intese come attività di valorizzazione.

Vi è quindi un requisito soggettivo di connessione, il fatto che l’attività connessa sia svolta dallo stesso soggetto che svolge anche un’attività agricola principale (coltivazione, allevamento, selvicoltura), sia uno di tipo oggettivo, il quale richiede che oggetto prevalente dell’attività connessa siano prodotti ottenuti proprio dall’attività agricola principale esercitata.

Le ragioni della disciplina di favore riservata dal legislatore del ’42 all’impresa agricola (no fallimento (art. 2221 <gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento>), no obbligo registrazione (art. 2136 <le norme relative all’iscrizione nel registro delle imprese non si applicano agli imprenditori agricoli>) e no obbligo scritture contabili (art. 2214 <l’impresa che esercita attività commerciale deve tenere il libro giornale ed il libro degli inventari>) è dovuta sia al fatto che egli corre, oltre al rischio tipico del mercato anche il rischio legato alle condizioni atmosferiche, sia al fatto che nel ’42 il blocco storico di sostegno al regime mussoliniano era costituito proprio dal mondo agrario.

Il piccolo imprenditoreL’articolo 2083 c.c. distingue il piccolo imprenditore dall’imprenditore non piccolo, disciplinando

che: <sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia>.

Così come l’imprenditore agricolo, anche il piccolo imprenditore è sottoposto a tutte le norme dettate per l’imprenditore in generale, ma non è sottoposto all’obbligo di iscrizione al registro delle imprese (art. 2202 <non sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese i piccoli imprenditori>), è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214.3 <le disposizioni di questo paragrafo (libri obbligatori ed altre scritture contabili) non si applicano ai piccoli imprenditori>)e non è

5

Page 6: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

sottoposto, in caso di insolvenza, al fallimento ed alle altre procedure concorsuali (art. 2221 <gli imprenditori che esercitano attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento […]>.

Il legislatore ci dà, quindi, una definizione positiva delle categorie di imprenditori che sono considerati piccoli imprenditori e fornisce, poi, una definizione residuale con la quale vuole far rientrare in questa categoria tutti coloro che, seppur esercitino un’attività commerciale, la svolgano prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. A ben guardare, però, questi ultimi requisiti sono quelli che ritroviamo in ognuna delle categorie positive indicate dal legislatore: sia il coltivatore diretto, sia il piccolo commerciante sia l’artigiano, infatti, sono tali perché esercitano tale attività prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

Perché si possa parlare di piccolo imprenditore basta, quindi, che l’imprenditore stesso presti nell’ambito dell’impresa il proprio lavoro e che il suo lavoro, e quello eventuale dei suoi familiari, possano essere giudicati prevalenti rispetto non solo al lavoro di estranei, ma anche rispetto al capitale impiegato.

Qualora si ritenesse il termine prevalente riferirsi solamente al lavoro di estranei, si farebbe ricadere nella categorie del piccolo imprenditore anche colui che, servendosi solamente del proprio lavoro e di qualche familiare e di macchinari o materie prime molto costosi, producesse o scambiasse beni di lusso, come, ad esempio, il gioielliere.

Discorso particolare va fatto relativamente agli artigiani: per meglio definire quali attività potessero rientrare in questa categoria è intervenuto lo stesso legislatore con una serie di leggi, l’ultima del 1997 che modificava un decreto del 1985, con le quali ha delineato i requisiti ed i limiti per poter definire un’impresa come impresa artigiana. Il fine dell’impresa artigiana è “la produzione di beni, anche semilavorati, o la prestazione di servizi” il che la fa rientrare nell’ambito del 2082 c.c., ma il requisito sicuramente fondamentale è che l’artigiano eserciti l’impresa personalmente (ossia non mediante un institore o rappresentante) e che, inoltre, svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo: tali requisiti rispecchiano quasi alla lettera la previsione generale del 2083 c.c.

È poi ammesso il ricorso alla prestazione d’opera dipendente altrui, ma il numero dei lavoratori dipendenti non può superare soglie stabilite dallo stesso legislatore, che variano a seconda del fatto che l’impresa lavori in serie (max 9 dipendenti) o meno (max 19 dipendenti) compresi i familiari. Inoltre il lavoro personale dell’imprenditore, e dei dipendenti o familiari, deve prevalere rispetto al capitale investito nell’impresa. Un articolo dell’ultima legge emanata prevede , infatti, che un’impresa sociale può essere qualificata come artigiana se <la maggioranza dei soci, oppure uno nel caso di due soci, svolga con prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale>. La nuova legge prevede anche la funzione costitutiva dell’iscrizione all’albo degli artigiani, ma il giudice, ossia l’autorità giudiziaria, ha sempre il potere di non riconoscere come artigiana un’impresa iscritta all’albo o di riconoscere come tale un’impresa non iscritta, il che è fondamentale perché un impresa artigiana non fallisce, un’impresa commerciale si. Quindi il riconoscimento amministrativo può essere benissimo disatteso in sede di giudizio fallimentare da parte del giudice che non riscontri in una determinata impresa il lavoro proprio dell’imprenditore e la prevalenza del lavoro personale e familiare sul lavoro esterno e sul capitale.

L’IMPRENDITORE COMMERCIALEDefinizione in positivo dell’art. 2195 c.c.: <sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle

imprese (quindi sono imprenditori commerciali) gli imprenditori che esercitano: 1) attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un’attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un’attività bancaria o assicurativa; 5) le altre attività ausiliarie delle precedenti>

A differenza del 2135 e del 2083 non è utilizzato il termine imprenditore commerciale. Questi sono comunque gli unici tenuti all’iscrizione nel registro delle imprese. Per definirne i contorni viene utilizzato un elenco di attività:

6

Page 7: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

a) attività industriale diretta alla produzione di beni e di servizi: individua un’attività in negativo non riconducibile né all’attività agricola né a quella artigianale. Questa può essere tecnicamente definita coma attività produttrice di nuovi beni a partire da materie prime, in contrapposizione con l’attività commerciale che consiste nell’interposizione nella circolazione dei beni. Ma, a ben guardare, se si volesse dare del termine “industriale” una visione così tecnica, si arriverebbe alla conclusione di escludere dalle categorie di impresa commerciale moltissime attività d’impresa, in particolare le attività che forniscano servizi (si pensi alle case di cura o alle imprese di pubblici spettacoli). Esse sono sicuramente imprese, ma non rientrano nella categoria tecnica di impresa industriale né in nessun altra categoria del 2195 c.c. (non sono infatti attività di interposizione commerciale e nemmeno di trasporto o assicurative o bancarie). Alcuni ritengono allora che sia necessario la previsione di una terza categoria, quella dell’impresa civile, che si differenzia tanto dall’impresa commerciale quanto dall’impresa agricola, ma questo problema può essere facilmente risolto se si intende il termine “industriale” non più in maniera tecnica e restrittiva, bensì come mera contrapposizione al carattere agricolo dell’impresa agricola.

b) attività intermediaria nella circolazione dei beni: attività di acquisto e di rivendita di beni senza trasformarli. A differenza dell’articolo 2082, il 2195 sembra prevedere un quid pluris: esso individua come imprenditore commerciale non chi esercita solo lo scambio di beni o servizi, ma anche chi fa precedere a questo il acquisto. Questa lieve differenza non deve però trarre in inganno e non deve riaprire il dibattito sull’esistenza di un’impresa civile. Rientra nell’attività commerciale anche la negoziazione di prodotti agricoli da parte di soggetti diversi dal produttore qualora ciò non rientri nell’attività normale connessa alla produzione.

c) attività di trasporto per terra, acqua ed aria: è superfluo specificare il mezzo attraverso il quale avviene il trasporto. L’importante è che ci sia questa attività.

d) attività bancaria od assicurativa: in virtù della legge speciale l’attività bancaria non può essere svolta a livello familiare (il che vuol dire che non possono esistere né la piccola impresa bancaria né la piccola impresa assicurativa)

e) altre attività ausiliarie alle precedenti: sono queste le attività esercitate dall’imprenditore a vantaggio di altri imprenditori che svolgano o una delle attività rientranti nelle quattro categorie precedenti (su base di interpretazione letterale della norma) oppure anche attività agricola (sulla base di una lettura più estensiva della disposizione di legge). In generale chiunque svolga un’attività ausiliaria ad un’attività imprenditoriale svolge, di per sé, un’attività produttrice di servizi e potrebbe, quindi, essere considerato imprenditore solo per questo fatto (rientrerebbe nella prima categoria del 2195 c.c.) ma il legislatore ha voluto specificare meglio alcuni settori delle macro-categorie individuate dai punti 1 e 2 inserendo le attività ai punti 3, 4 e 5 (trasporto è infatti sicuramente attività di produzione di servizi, così come le attività connesse e l’attività assicuratrice, mentre le banche svolgono attività di intermediazione nella circolazione del denaro e, quindi, rientrano nella categoria del punto 2).

Esercizio diretto ed indiretto di attività commerciale: la società holdingIl fenomeno sempre più diffuso dell’impresa di gruppo nella quale un’impresa, holding, svolge la

sola attività di indirizzare e controllare le altre imprese che, traducendo le indicazioni, svolgono specifiche attività di produzione o di scambio di beni, ha determinato importanti dibattiti giurisprudenziali, in particolare relativamente all’importanza o meno di considerare il tutto come un unico elemento e, ancora, per rintracciare che cosa potesse qualificare l’impresa holding come impresa commerciale, svolgendo essa apparentemente una mera funzione di controllo e gestione di altre imprese.

Relativamente al primo punto si è quasi ovunque concordi nel sostenere che l’impresa di gruppo va considerata nella sua totalità sia a livello economico sia a livello di diritto.

Per quel che riguarda l’assegnazione all’impresa holding della qualifica di imprenditore si è in alcuni casi ritenuto di far rientrare la sua attività nel quinto punto dell’articolo 2195, ossia nelle c.d. attività connesse andando così a sovvertire l’ordine economico dei concetti sostenendo che l’impresa holding, seppur svolgendo un’attività di controllo, altro non faccia che agevolare singole imprese commerciali e, quindi, esercitare un’attività ausiliaria.

Una nuova interpretazione, sostenuta anche dalla Cassazione, ha riportato la pluralità di imprese all’unitarietà del gruppo sostenendo che la holding è impresa non per il solo fatto di esercitare una qualche

7

Page 8: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

fase di un’attività imprenditoriale (come il dirigere l’altrui attività), ma per il fatto di esercitare l’intera attività imprenditoriale, anche se è esercitata in parte in maniera diretta ed in parte in maniera indiretta..

LO STATUTO DELL’IMPRESA COMMERCIALENel nostro codice civile vi sono, come detto, delle norme destinate in modo esclusivo agli

imprenditori commerciali: tali norme vengono comunemente ricompresse sotto la denominazione di “statuto dell’imprenditore commerciale”. I tre aspetti tipici dell’impresa commerciale sono:

1) obbligo di iscrizione al registro delle imprese2) obbligo di tenuta dei libri contabili obbligatorie3) assoggettamento alle procedure concorsuali

1) obbligo di iscrizione al registro delle imprese per fini di opponibilità: sino al 1993 il registro presso la cancelleria del tribunale sostituiva quello delle imprese e l’obbligo gravava solo sulle società. Secondo l’articolo 7 del D.p.r. 581 del 1995 sono tenuti all’iscrizione, ai sensi del codice civile gli imprenditori di cui all’articolo 2195 (commerciali), le società di cui all’articolo 2200 c.c. (tutte tranne la s.s.) e, ai fini di pubblicità anagrafica e di pubblicità notizia gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori e le società semplici.

Secondo l’art. 2196 ogni imprenditore che esercita un’attività commerciale deve chiedere entro trenta giorni dall’inizio dell’impresa, la propria iscrizione nel registro delle imprese, indicando il cognome, il nome, la ditta, l’oggetto dell’impresa, la sede, le generalità degli eventuali procuratori ed institori; egli deve poi successivamente chiedere l’iscrizione delle modificazioni relative a tali elementi e della cessazione d’impresa.

L’articolo 2193 disciplina invece le conseguenze dell’iscrizione: <i fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza. L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta>.

Devono essere iscritti presso il registro delle imprese anche tutti gli atti di trasferimento dell’azienda commerciale, in modo da poter risolvere con essa il conflitto che si determina in caso di doppia alienazione della medesima azienda.

2) obbligo di tenuta delle scritture contabili obbligatorie: agli imprenditori commerciali, che non siano piccoli, è imposto di documentare, in modo continuativo, la propria attività mediante la tenuta di apposite scritture contabili. Tale attività ha la funzione di precostituire uno strumento di controllo sull’attività degli imprenditori commerciali nell’interesse di tutti coloro che entrino in rapporto con loro e acquistino, per tali rapporti, ragioni di credito. Le scritture contabili permettono, infatti, di accertare la consistenza del patrimonio dell’imprenditore fallito, di ricostruire il movimento dei suoi affari, di scoprire le eventuali sottrazioni di bene e, in generale, tutti gli atti eventualmente compiuti in pregiudizio dei creditori.

La documentazione dell’attività d’impresa è affidata allo stesso imprenditore, al di fuori di ogni controllo esterno. L’unico strumento di controllo da parte dell’ordinamento è la previsione di condanne penali nel caso in cui un imprenditore non abbia tenuto scritture contabili (o le abbia tenute in maniera erronea), e allora si parla di bancarotta, o nel caso in cui abbia volutamente distrutto o falsificato le scritture contabili in maniera tale da non rendere possibile la ricostruzione del suo patrimonio e dei suoi affari, e allora si parlerà di bancarotta fraudolenta.

La mancanza di controllo esterno è determinata dalla volontà del legislatore di garantire l’interesse dell’imprenditore al segreto.

Ogni imprenditore commerciale deve tenere il libro giornale ed il libro degli inventari (art. 2214.1) più eventuali altre scritture contabili qualora siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa (2214.2). Le scritture, e i documenti a loro sostegno, devono essere conservate per dieci anni dall’ultima registrazione.

8

Page 9: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il libro giornale deve contenere al suo interno l’indicazione, giorno per giorno, delle operazioni relative all’esercizio dell’impresa. L’indicazione delle operazioni deve quindi seguire l’andamento cronologico, ma non è necessario che le annotazioni vengano fatte quotidianamente, così come non è necessario che ogni singolo movimento sia indicato, rendendo possibile raggruppare movimenti analoghi in uniche voci (nei negozi di vendita al minuto ci si limita a registrare l’incasso).

Il libro degli inventari va invece redatto all’inizio dell’attività d’impresa e al termine di ogni esercizio: in esso devono essere contenute le indicazioni di tutte le attività e passività dell’impresa e dell’imprenditore, anche estranee all’impresa: tale requisito è dettato dal fatto che l’imprenditore risponde personalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali, quindi si vuol rendere noto ai creditori quale sia il suo stato patrimoniale.

Le ulteriori scritture contabili che l’imprenditore, per via della natura e della dimensioni della sua impresa, può essere obbligato a tenere sono il libro cassa (per annotare le entrate e le uscite in contanti), il libro magazzino (relativo alle merci a disposizione) e il libro mastro (nel quale le operazioni non vengono annotate sulla base di un criterio cronologico, bensì per categorie).

Regolarità intrinseca ed estrinseca: si parla di regolarità intrinseca delle scritture contabili quando queste vengono tenute, ex art. 2219, <secondo un’ordinata contabilità, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti di margine>. Si parla invece di regolarità estrinseca quando i libri contabili (il che già indica la necessità che i fogli siano tra loro saldi uno con l’altro) hanno i requisiti di forma necessari imposti dagli articoli 2215 e ss. ossia la sottoscrizione del libro giornale da parte dell’imprenditore entro tre mesi dalla presentazione, l’eventuale bollatura e vidimatura (necessarie per far sì che le scritture contabili possano costituire prova a favore dell’imprenditore contro un altro imprenditore) etc.

Relativamente al valore di prova delle scritture contabili bisogna dire che nessun imprenditore ha l’obbligo di rendere pubbliche la documentazione contabile della propria impresa (ad esclusione delle società di capitali e delle società cooperative), ma durante un processo civile contro di essi, qualora le scritture contabili costituiscano un mezzo di prova specifica per la pretesa dei terzi o per una loro specifica eccezione nei confronti dell’imprenditore, essi acquistano il preciso diritto di conoscere i fatti interni all’impresa. In questo caso le scritture contabili (ex. art. 2711) fanno prova contro l’imprenditore. La comunicazione integrale delle scritture può essere ordinata solo dal giudice e solo in tre specifici casi di controversie (per scioglimento di società, comunione dei beni e successione per causa di morte), mentre nel caso di controversie relative a oggetti differenti il giudice può ordinare, anche d’ufficio, che si esibiscano i libri per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso.

In questo modo le scritture contabili si rivelano come un modo per sollevare i terzi dall’onere della prova contro l’imprenditore stesso. È comunque lasciata all’imprenditore la possibilità di fornire prova contraria o la prova di fatti idonei a neutralizzare l’altrui pretesa.

Nel caso di controversia tra imprenditori, invece, l’art. 2710 c.c. prevede che <i libri bollati e vidimati nelle forme di legge (dall’ufficio delle imposte o da un notaio), quando sono regolarmente tenuti, possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa>. In questo modo l’imprenditore contro il quale siano state prodotte delle scritture contabili è in condizione di controbattere l’altrui pretesa sulla base delle proprie scritture contabili.

3) Rappresentanza dell’imprenditore commerciale Fenomeno di diritto civile della rappresentanza applicato all’impresa commerciale con

l’introduzione di norme differenti da quelle della rappresentanza tradizionale. Il diritto commerciale contiene norme derogatorie a quelle del diritto civile a causa dei differenti interessi che il legislatore protegge: mentre nel diritto commerciale è tutelato il sistema, nel diritto civile sono tutelati i privati.

L’imprenditore deve servirsi di collaboratori per compiere tutti gli atti della sua attività, e tali collaboratori possono essere di tre tipi: institore, procuratore e commessi. Tutti questi soggetti sono dotati, con intensità decrescente, di potere di rappresentanza, cioè del potere di agire in nome e per conto dell’imprenditore.

L’institore è colui che è preposto ad un’attività commerciale da parte dell’imprenditore stesso, dotato di poteri di rappresentanza, ex 2204 c.c. <l’institore può compiere tutti gli atti pertinenti

9

Page 10: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

all’esercizio dell’impresa a cui è preposto, salvo le limitazioni contenute nella procura. Tuttavia non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato a ciò espressamente autorizzato>, in sostituzione dell’imprenditore medesimo, senza distinzione tra società e imprenditore individuale, essendo sufficiente che sia imprenditore commerciale. In entrambi i casi è lecito, anzi necessario, che l’imprenditore decentri la sua autorità decisionale. Nell’attività commerciale non vi sono obblighi di nominare collaboratori, ma questa rappresenta solamente un’opportunità.

La rappresentanza in generale è regolata con le norme del codice in materia di rapporti tra privati: l’unica differenza è che, in assenza di procura, il soggetto ottiene i poteri generici che ne deriverebbero per il solo fatto di essere preposto all’attività: può in questo modo validamente porre in essere tutte le attività pertinenti all’oggetto dell’impresa cui è preposto.

10

Page 11: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

I poteri di cui dispone dipendono quindi dall’attività a cui si è messi a capo e che la procura potrebbe anche non sussistere. Tale disposizione è stata introdotta dal legislatore principalmente per una questione di tutela dei terzi, perché in questo modo gli atti posti in essere da chi svolge l’attività d’impresa anche senza procura possano essere riferiti all’impresa stessa; in secondo luogo il legislatore ha protetto l’interesse alla moltiplicazione dei traffici commerciali, cioè allo sviluppo economico, facilitandoli.

L’articolo 2206 c.c. pone delle limitazioni alla tutela degli imprenditori a favore della tutela dei terzi: se una procura non viene iscritta, e questa contiene delle limitazioni ai poteri del procuratore che egli supera, queste non sono opponibili dal rappresentato al terzo che ha contrattato con il procuratore, a meno che si provi che questo le conoscesse.

L’iscrizione della procura crea quindi una presunzione di conoscenza in capo ai terzi, in modo da facilitare le contrattazioni

La mancata iscrizione implica poteri generici, sempre in modo da facilitare la contrattazioneL’imprenditore può opporre i limiti o la revoca alla rappresentanza solo qualora abbia iscritto

le modifiche della procura presso il registro delle imprese oppure, in assenza di ciò, provi che la controparte era a conoscenza di tali limitazioni.

Nel caso in cui la procura o le sue limitazioni non siano iscritte, il terzo contraente non potrà quindi mai correre il rischio derivante dall’aver contrattato con un falsus procurator o con un institore che è andato al di là dei suoi poteri di rappresentanza (a meno che si provi che fosse a conoscenza delle limitazioni o della revoca della procura e non ne abbia tenuto conto).

2207 c.c.: se la revoca è depositata nel registro delle imprese (iscritta) è opponibile ai terzi. Questa è una norma che tutela l’imprenditore. Ma se la revoca non è iscritta, il terzo non è tenuto a conoscerla, e quindi non gli può essere opposta.

2208 c.c.: se ad agire è un soggetto diverso dall’imprenditore questo deve far conoscere al terzo che egli tratta per il proponente, oppure dovrà pagarne il prezzo, ossia rispondere personalmente. Tuttavia il terzo può, anche se non informato, agire anche contro l’imprenditore per gli atti compiuti dall’institore qualora i suoi atti siano correlati all’attività d’impresa. Questa norma è molto importante e peculiare della preposizione institoria: mentre secondo i principi dell’ordinamento civile il terzo, nel caso in cui il procuratore abbia agito al di là dei limiti della procura, può agire esclusivamente nei confronti del procuratore, in diritto commerciale si presume che l’imprenditore, preponendo un soggetto ad institore, ne abbia sempre il controllo e quindi si dà la possibilità al terzo di agire sempre nei confronti dell’imprenditore. In questo modo se non c’è contemplatio domini espressa, ossia spendita del nome dell’imprenditore, si dice che sussiste una contemplatio domini presunta, che consente di agire ugualmente contro l’imprenditore.

Questa peculiarità dell’institore non è espressamente estesa dal legislatore al procuratore, quindi è dibattuto in giurisprudenza ed in dottrina se anche il terzo che contratta con un procuratore che non spende il nome dell’imprenditore possa agire direttamente nei confronti dell’imprenditore.

Il procuratore è invece colui che, pur non stato preposto ad un’attività commerciale da parte dell’imprenditore, <in base ad un rapporto continuativo abbia il potere di compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa>. Hanno, in pratica, gli stessi poteri degli institori, ma, a differenza loro, non sono preposti all’attività commerciale, non sono, cioè, al vertice della gerarchia dei dipendenti, ma solamente legati all’imprenditore da un rapporto continuativo.

Così come per l’institore, se non è previsto diversamente, a determinati poteri relativi all’impresa corrispondono altrettanti poteri di rappresentanza verso i terzi. In mancanza di limitazioni, che devono anch’esse essere isc4ritte nel registro delle imprese, la rappresentanza si ritiene generale.

I commessi sono, invece, i dipendenti dell’imprenditore, privi di funzioni direttive, i quali sono però adibiti a mansioni che li mettono in contatto con l’ordinaria clientela dell’impresa e che, per tale ragione, devono avere determinati poteri di rappresentanza. Ognuno di loro può, ex. art. 2210, <compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni cui è incaricato, salve le limitazioni contenute nell’atto di conferimento della rappresentanza>, ma queste devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.

L’AZIENDA

11

Page 12: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Se l’imprenditore è colui che svolge un’attività economica organizzata, l’azienda è l’insieme dei beni, degli strumenti, che l’imprenditore organizza per svolgere l’attività d’impresa.

2555 c.c.: <L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa>.

Per complesso il legislatore intende l’insieme delle pluralità di cose, con indirizzo comune. Il singolo bene non può considerarsi un’azienda perché è un’entità singola e perché i beni oltre che plurimi devono essere teleologicamente univoci.

In particolare la loro direzione deve essere quella dell’attività a cui l’imprenditore indirizza i beni. Tutti questi beni univocamente diretti all’attività svolta dal medesimo imprenditore sono detti beni aziendali. Il legislatore non specifica però a quale titolo l’imprenditore debba detenere tali beni, se in qualità di proprietario o anche solo di locatario, usufruttuario o altro. Titolarità dell’azienda non vuol quindi dire proprietà dell’azienda. L’imprenditore non è, infatti, necessariamente proprietario dei beni: l’importante è che sia lui ad organizzarli e ad avere il potere di controllo su di essi (quindi che ne abbia almeno il godimento).

Il concetto d’azienda espresso nel 2555 c.c. è quindi parimenti riferibile alle imprese agricole e alle imprese commerciali, ma, come si vedrà, alcune norme, richiedendo l’iscrizione nel registro delle imprese dell’impresa cui azienda viene ceduta, possono essere riferite soltanto alle imprese commerciali e non alle piccole imprese o alle imprese agricole.

La circolazione d’aziendaL’aspetto relativo all’azienda che viene maggiormente preso in considerazione dal legislatore è

quello della circolazione d’azienda, ossia della cessione da parte di un imprenditore della propria azienda ad altro imprenditore (o concessione in godimento della stessa –usufrutto o affitto).

L’articolo 2556 c.c. dispone che <per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto, salva l’osservanza elle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto>. La forma scritta è quindi, a meno che l’oggetto del trasferimento la richieda di per sé (nel caso sia immobile), necessaria solamente nel caso di impresa registrata (quindi no impresa agricola e no piccola impresa) e solamente per provare l’avvenuta cessione della proprietà o istituzione del godimento a favore del terzo.

Affinché il contratto sia valido non è poi necessario specificare tutti gli elementi che compongono l’azienda, ma basta qualificare tale negozio come “trasferimento d’azienda” in maniera tale da comprendere tutto il complesso di beni che possa, di per sé, dirsi idoneo all’esercizio della medesima impresa svolta dal cedente.

La differenza più grande è, però, data dal fatto che una legge del 1945 vieta, a pena di nullità, <ogni forma di contratto di cessione d’affitto, di subaffitto, di sublocazione e comunque di subconcessione di fondi rustici> determinando l’impossibilità di cedere un’azienda agricola qualora non si sia il proprietario del fondo ma solo colui che ne ha il godimento. Gli atti di disposizione dell’azienda agricola sono quindi ammissibili solamente nel caso in cui a disporne sia il proprietario del fondo: egli potrà allora trasferire la proprietà dell’azienda oppure creare su di questa un diritto reale o di godimento a favore del secondo imprenditore.

La successione nei contrattiOltre che il trasferimento dei diritti sull’azienda, la cessione d’azienda determina una successione nei

rapporti giuridici che si accompagnano all’esercizio dell’attività d’impresa.L’articolo 2558 c.c. dispone, infatti, che <se non è diversamente pattuito, l’acquirente dell’azienda

subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale>. Tale principio vale sia nel caso in cui i beni ceduti fossero di proprietà dell’alienante sia nel caso in cui, invece, egli avesse solamente il godimento dei beni stessi. Si ha sempre successione nei contratti. Bisogna però distinguere tra i c.d. contratti d’impresa e i c.d. contratti d’azienda.

Un imprenditore nell’esercizio della sua attività pone in essere numerosi contratti con i quali, ad esempio, si garantisce la fornitura di materie prime, o la prestazione lavorativa di lavoratori dipendenti o,

12

Page 13: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

ancora, la locazione dell’immobile che costituisca solamente l’involucro dell’attività e non sia ad essa funzionale. Come si nota tutti questi contratti, chiamati contratti d’impresa, hanno la caratteristica comune di non riferirsi a beni di proprietà dell’imprenditore, ma sono comunque necessari per l’esercizio dell’impresa stessa.

I contratti attraverso i quali, invece, l’imprenditore ottiene la disponibilità immediata e diretta di determinati beni, garantendosene il godimento, sono denominati contratti aziendali.

Essere titolare di azienda vuol dire essere il soggetto cui sono imputati tutti i titoli che gli consentono di organizzare i beni che costituiscono l’azienda stessa (sia a titolo di proprietà sia a titolo differente).

Riprendendo l’articolo 2558 c.c. si nota come questo conceda alle parti la possibilità di pattuire diversamente, ossia di prevedere che non vi sia automatica successione nei contratti: dato che, però, la cessione d’azienda deve permettere all’acquirente di svolgere un’attività corrispondente a quella che svolgeva l’imprenditore cedente, si ritiene che le parti non possano derogare la successione nei contratti d’azienda (il godimento dei beni d’azienda è infatti necessario per poter esercitare l’attività), ma solamente ai contratti d’impresa.

Il terzo che aveva stipulato il contratto con il cedente non ha, a differenza di quanto previsto dalle regole generali del diritto privato (art. 1406 c.c., cessione del contratto che richiede il consenso della parte ceduta), la possibilità di opporsi alla successione dei contratti da parte del nuovo imprenditore, a meno che sussista una giusta causa di recesso. Il 2558.2 infatti dice: <il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante>. È quindi chiaro come le ragioni della proprietà e della tutela individuale cedano il posto alle ragioni dell’impresa e dell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Sempre l’articolo 2558 c.c. dispone, infine, che l’acquirente dell’azienda non subentri nei contratti che abbiano carattere personale. Anche se si fa fatica ad individuare contratti d’azienda, quindi stipulati per l’esercizio dell’impresa, che abbiano carattere personale, si è da più parti giunti alla conclusione che possano essere ritenuti tali i contratti comunemente definiti contratti intuitu personae, ossia contratti cui conclusione è dipesa dalla particolare fiducia nutrita da un soggetto nei confronti dell’altro (si pensi all’imprenditore che assume al suo psicologo di fiducia per sottoporre gli aspiranti lavoratori ad un test attitudinale.

Crediti e debiti relativi all’azienda2559: cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta: <le cessioni dei crediti relativi all’azienda

ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese.>

A differenza del diritto privato non è quindi necessaria né la notifica né l’accettazione da parte del debitore affinché l’opponibilità del trasferimento del credito abbia effetto. Tutto questo per salvaguardia dell’impresa commerciale e della sua attività.

2560 c.c. debiti relativi all’azienda ceduta: <l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori.>

Con questa previsione normativa il legislatore ha voluto contemporaneamente tutelare i creditori, in quanto si dà loro la possibilità di non liberare l’alienante e di far sì che questo continui a rispondere, in solido, con l’acquirente, sia l’acquirente stesso, il quale si accollerà i debiti dell’impresa acquistata solamente qualora essi risultassero dalle scritture contabili obbligatorie.

Norme su divieto di concorrenza: 2257 ss. Tali norme impongono il divieto di concorrenza, favorendo lo sviluppo dell’attività d’impresa: <chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanza, sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta>. È inoltre valido il patto eventualmente stipulato dalle parti per prevedere un più ampio divieto di concorrenza, ma solamente se questo non è tale da impedire ogni attività professionale all’alienante.

13

Page 14: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Tale divieto viene esteso a colui che cede un’azienda agricola solamente per le attività ad essa connesse, qualora possano essere tali da sviare la concorrenza.

IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ D’IMPRESAL’imprenditore e il rischio d’impresa: l’imprenditore occulto

Si è detto che è impresa l’attività descritta dall’articolo 2082 del codice, e che è imprenditore colui che esercita tale attività. A questo punto sorge il problema di determinare chi, tra i vari soggetti che intervengono nel processo produttivo, possa dirsi esercitare l’impresa e quindi essere chiamato imprenditore. Sappiamo che è imprenditore colui sul quale ricade il rischio d’impresa, ossia colui che potrebbe essere chiamato, in caso dell’insufficienza dei proventi per colmare le perdite, a rispondere personalmente delle obbligazioni sociali con il proprio patrimonio (art. 2740 responsabilità patrimoniale). Dato che, però, la maggior parte delle volte ci si interroga su chi sia imprenditore proprio per sapere su chi ricade questa responsabilità, non si può partire da chi subisce il rischio d’impresa per definirlo come imprenditore. È dunque necessario percorrere un’altra strada.

È imprenditore colui che l’articolo 2086 c.c. definisce come <capo dell’impresa da cui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori>. Tale articolo definisce come imprenditore, quindi, colui che ha il potere di gestire, amministrare ed indirizzare l’attività d’impresa non avendo nessuno al di sopra di se stesso ad impartire gli ordini.

In sede giuridica, però, la maggior parte delle volte si tende ad individuare come imprenditore colui nel nome del quale l’impresa è esercitata: non è detto che questo soggetto corrisponda effettivamente con colui che dirige l’impresa e ne fa propri i guadagni.

È infatti possibile che l’impresa venga gestita da un prestanome, il quale nei confronti dei terzi appare come imprenditore, ma che in realtà riceve gli ordini da un altro soggetto, il c.d. imprenditore occulto, al quale darà poi i proventi dell’impresa stessa. I terzi ignorano l’esistenza e l’identità di questo soggetto formalmente esterno all’impresa e ritengono che sia il prestanome il vero imprenditore.

In questo modo il rischio d’impresa ricade interamente sui creditori: la maggior parte delle volte, infatti, il prestanome è un nullatenente che riceve, per l’esercizio dell’impresa, finanziamenti dall’imprenditore occulto (quasi sempre molto facoltoso): fino a quando l’impresa va bene l’imprenditore occulto la finanzia, ma appena questa incomincia ad andare male smette di erogare denaro e lascia che fallisca. In questo modo fallisce anche il prestanome che, però, essendo nullatenente, non è assolutamente in grado di pagare i debiti sociali. In questo modo i creditori non ricevono i loro corrispettivi.

La giurisprudenza e la dottrina si sono allora interrogati sulla possibilità di dichiarare il fallimento, qualora si abbiano prove della sua esistenza, dell’imprenditore occulto: la risposta è però sempre negativa, perché si dice che tra imprenditore occulto e prestanome non vi sia altro che un contratto di mandato senza rappresentanza (esercizio in nome proprio e per conto altrui dell’attività d’impresa, art. 1705), il quale determina l’assunzione di diritti ed obblighi solamente in capo al mandatario.

Un altro motivo per il quale si sostiene che solamente colui in nome del quale l’impresa è esercitata possa fallire è dettato dalla volontà di tutelare gli eventuali creditori particolari dell’imprenditore occulto: se ad un certo momento l’imprenditore occulto fosse dichiarato fallito per via dell’esercizio di un’impresa che era ignoto a tutti, compresi i suoi creditori particolari, questi si troverebbero a concorrere con i creditori dell’impresa, dei quali ignoravano del tutto l’esistenza quando hanno fatto affidamento sullo stato patrimoniale dell’imprenditore occulto.

Diversa disciplina è invece dettata nel caso di socio occulto di società di persone: se nel momento in cui fallisce una società si viene a scoprire che esistono altri soci rispetto a quelli che risultavano al momento della dichiarazione di fallimento, allora anch’essi saranno dichiarati falliti. E lo stesso vale nel caso di socio occulto di società occulta: se un soggetto agisce come se fosse un imprenditore individuale, ma in realtà è socio di una società di persone, per tale ragione definita occulta, se l’imprenditore fallisce, allora fallisce anche la società occulta e con essa i soci occulti: in questo caso, quindi, la spendita del nome è requisito superfluo per imputare ad un soggetto un’attività d’impresa e renderlo responsabile dei relativi debiti.

14

Page 15: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’imprenditore incapace di agireL’impresa è un’attività e, come tutte le attività, richiede la conclusione di numerosi atti giuridici e, in

particolare, di contratti. Chi non ha la capacità di agire si trova, quindi, nella giuridica impossibilità di esercitare un’impresa.

I minori non possono, quindi, acquistare la qualità di imprenditore, ma è data la possibilità ai loro genitori di rappresentarli in tutti gli atti civili e di amministrarne i beni, godendo, tra l’altro, dell’usufrutto su di essi. L’articolo 320.5 c.c. prevede che per la continuazione di un’impresa commerciale da parte di un minore sia necessaria l’autorizzazione del tribunale, il che esclude che un minore possa dar vita ad un’impresa. I genitori saranno allora suoi rappresentanti, eserciteranno le prerogative del capo d’impresa e saranno loro a percepire i profitti: sarà invece il figlio ad avere la qualifica di imprenditore, e ad assumersi i rischi che ciò comporta (fallimento e perdite). È chiaro, però, che la legge fallimentare, prevedendo conseguenze patrimoniali e personali nei confronti dell’imprenditore fallito non aveva tenuto conto dell’eventualità di una dissociazione tra titolare del potere d’impresa e qualità dell’imprenditore: per mitigare questo problema si può allora affermare che le conseguenze patrimoniali del fallimento ricadranno sul minore mentre gli effetti personali (iscrizione all’albo dei falliti) si applicheranno al capo dell’impresa (ossia ai genitori).

I minori emancipati possono ottenere dal tribunale l’autorizzazione ad esercitare un’impresa commerciale, ossia a continuarla o ad iniziarla ex novo, mentre gli inabilitati possono solamente continuare un’attività d’impresa già avviata (da altri o da se stessi quando erano pienamente capaci di agire). Sia l’emancipato sia l’inabilitato che abbiano ottenuto l’autorizzazione del tribunale possono compiere atti di amministrazione ordinaria e straordinaria. Gli atti compiuti da inabilitato relativamente ad attività d’impresa senza aver ricevuto l’autorizzazione da parte del tribunale sono invalidi solo qualora eccedano la normale amministrazione.

L’interdetto, invece, può essere solamente autorizzato a continuare un’impresa, e la sua posizione è molto simile a quella del minore non emancipato: l’imputazione dell’attività imprenditoriale è l’interdetto, ma colui che detiene il potere di controllo è il tutore. In difetto di autorizzazione del tutore all’esercizio dell’impresa, i singoli atti di impresa compiuti dall’interdetto saranno annullabili; il tutore potrà, per i rischi cui ha sottoposto il patrimonio dell’interdetto, essere chiamato a risarcire i danni ad esso cagionati e, eventualmente, ai terzi.

Il codice civile tace, invece, relativamente a quanto avvenga nel caso in cui soggetti con limitata capacità d’agire si trovino ad esercitare un’impresa agricola o una piccola impresa: si sostiene, allora, che relativamente all’impresa agricola valgano i principi generali, secondo i quali l’esercizio di tale attività sarà considerata come amministrazione dei beni dell’incapace, e qualunque atto eccedente l’ordinaria amministrazione compiuto dal curatore dell’inabilitato, dal tutore dell’interdetto o dal genitore di un minore richiederà l’autorizzazione del tribunale, il quale la concederà solamente nel caso in cui riscontri necessità ed utilità evidente dell’atto.

Diversamente si ritiene che la piccola impresa non possa prevedere un regime di dissociazione tra titolare dell’impresa e colui che detiene il potere di amministrazione, in quanto il primo dovrebbe essere colui che partecipa con il proprio lavoro all’attività stessa. In questo modo il tutore dell’interdetto potrà chiedere di continuare l’impresa, ma solamente se questa non verrà più ritenuta piccola. L’inabilitato può, invece, continuare personalmente l’esercizio della piccola impresa, assistito dal curatore, e con l’obbligo di richiedere l’autorizzazione del tribunale per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.

Altri casi di sostituzione nell’esercizio dell’impresaVi sono altri casi, oltre a quelli appena esaminati, nei quali l’esercizio dell’attività d’impresa non è

più riferibile al soggetto imprenditore: uno di questi casi, il più diffuso, è quello che prevede l’amministrazione dell’impresa da parte del curatore fallimentare dell’impresa del fallito. Vi è poi il sequestro giudiziario di azienda quando ne è controversa la proprietà o il possesso, l’amministratore giudiziario di società di capitali nominato dal tribunale nel caso di gravi irregolarità da parte degli amministratori o dei sindaci, e il commissario governativo nominato, in altre circostanza, per cooperative e consorzi.

15

Page 16: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Nel caso di curatore fallimentare, le attività e le passività dell’impresa gestita dal curatore andranno direttamente a ricadere sul fallito (ovviamente le attività andranno a soddisfare i creditori). Anche in questo caso, come in quello del custode di azienda sequestrata (il quale gestirà l’impresa fino alla sentenza, per poi far ricadere tutte le attività e le passività su colui che sarà riconosciuto avere diritti su di essa), assistiamo ad una dissociazione tra la qualità di imprenditore e la qualità di effettivo esercente l’attività d’impresa. Ciò non avviene, invece, nel caso di institore, procuratore e commesso, in quanto essi sono dipendenti dell’imprenditore tenuti ad osservarne le direttive, che non sottraggono potere all’imprenditore, ma lo esercitano su sua volontà. Ciò è sottolineato anche dalla previsione legislativa di invalidità di patti con i quali l’imprenditore si spogli dei suoi poteri direttivi a favore di un soggetto diverso da lui preposto a capo dell’impresa. Non è infatti prevista la possibilità che colui che gestisce ed esercita l’impresa non sia anche il soggetto su cui ricade il rischio d’impresa. In questo modo l’imprenditore non si troverà ad essere vincolato da nessun patto nei confronti dell’institore, il quale agirà come rappresentante senza averne i poteri e risponderà personalmente delle obbligazioni contratte.

L’inizio e la fine dell’impresaSi è detto che è imprenditore, ex art.2082 chi esercita professionalmente un’attività economica

organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi: bisogna adesso chiedersi da che momento in poi si può dire che l’attività economica si esercitata.

Secondo il pensiero generale, è sufficiente che venga posto in essere un unico atto d’impresa il quale non lasci dubbi sul fatto che esso sia il primo di una lunga serie di atti collegati e univocamente diretti all’esercizio di un’attività d’impresa.

Maggiore è lo spettro di azioni che possono essere considerate rientranti nell’attività d’impresa e maggiore sarà la tutela dei consumatori.

In generale si sostiene che si possa parlare di atti d’impresa quando un soggetto compia anche solo uno dei c.d. atti dell’organizzazione, ossia di quagli atti che denotino in maniera incontrovertibile la sua volontà di porre in essere un’attività d’impresa. Il primo atto compiuto da colui che voglia esercitare un’attività d’impresa sarà sicuramente l’acquisto delle materie prime o dei beni da commerciare: non appena questo verrà compiuto, il soggetto sarà suscettibile di fallimento e la sua attività considerata d’impresa.

Diversi sono, invece, i c.d. atti di organizzazione: tutti gli atti che vengono compiuti al fine di organizzare la futura impresa (come assumere i futuri commessi o comprare gli scaffali sui quali saranno esposti i prodotti) non vengono considerati atti d’impresa e, quindi, chi pone in essere solo questi atti preliminari non sarà assoggettabile a fallimento.

La cessazione dell’attività d’impresa viene invece generalmente individuata nel momento in cui il soggetto esercente l’attività ha definito tutti i rapporti che intratteneva in qualità di imprenditore. Anche se un imprenditore decide di smettere di esercitare l’attività in una certa data, fino a quando saranno ancora pendenti rapporti negoziali non si potrà dire che l’attività è cessata. Si dice, quindi, che per cessazione d’impresa non si intende la cessazione della fase produttiva, bensì la cessazione della liquidazione. Una volta che l’imprenditore ha venduto le rimanenze del magazzino, gli impianti, le attrezzature e tutti gli elementi che componevano la sua azienda si avrà allora la fine dell’attività d’impresa: tutti gli atti compiuti in fase di liquidazione sono, infatti, considerati operazioni economiche, anche se sono volte alla disgregazione dell’azienda. La mera esistenza di crediti o debiti non determina, invece, la possibilità, una volta liquidata l’azienda, di connotare il soggetto come imprenditore e la sua attività come attività d’impresa, ma egli potrà comunque essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o nell’anno successivo.

L’impresa familiareSecondo l’articolo 230 bis quando si ha impresa familiare <salvo che sia configurabile un diverso

rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

16

Page 17: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione d’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa>.

Tale articolo, introdotto con la riforma del 1975, ha predisposto un radicale mutamento del rapporto tra imprenditore e familiari che lavorano all’interno della sua impresa. In precedenza il titolare dell’impresa faceva proprio il prodotto del lavoro dei familiari senza corrispondere loro null’altro che il mantenimento, sul presupposto che la prestazione lavorativa fosse dovuta in conseguenza della loro soggezione alla potestà maritale o alla patria potestà. La riforma del 1975 ha invece introdotto un regime a metà strada tra i rapporti all’interno di una società ed i rapporti di lavoro subordinato. Le parti possono sempre configurare un rapporto diverso, ma, in assenza di questo, si ritiene che un familiare che lavora per l’impresa di un suo parente non solo abbia diritto al mantenimento, ma possa anche partecipare agli utili e agli incrementi in proporzione del lavoro prestato. I familiari dell’imprenditore hanno quindi diritti patrimoniali che prima non avevano, e in più è stato riconosciuto loro il diritto amministrativo di votare a maggioranza nel caso di decisioni cardine, come l’impiego degli utili (invece che la loro divisione), la cessazione d’impresa o la gestione straordinaria.

L’impresa familiare rimane, in ogni caso, un’impresa individuale: l’unico titolare è l’imprenditore, e l’unico a fallire in caso d’insolvenza sarà lui. Inoltre i diritti partecipativi dei familiari non sono opponibili ai terzi: una decisione relativa all’impiego degli utili presa solamente dall’imprenditore senza far votare i familiari non determina la nullità della decisione, ma solamente una responsabilità dell’imprenditore nei confronti dei suoi familiari.

LE SOCIETA’

La tipicità delle societàIl nostro codice civile predispone un sistema composto da una pluralità di tipi contrattuali destinati,

dando vita a diversi modelli di società, ad assolvere un diverso compito all’interno del sistema economico. Il legislatore ha quindi predisposto per ognuno di questi tipi sociali delle norme imperative inderogabili che ne connotano le peculiarità e le differenziano le une dalle altre. Alla base di queste precise connotazioni vi è una norma, quella dell’articolo 2247, che si applica a tutte le società perché ne indica gli elementi, comuni a tutte, che devono essere necessariamente presenti affinché si possa parlare di società.

Art. 2247 c.c.: il contratto di società: <con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili>. Tale articolo va però integrato con la possibilità per il singolo di costituire sia una società a responsabilità limitata sia una società per azioni.

Una volta che le parti si sono accordate per dar vita ad una società dovranno poi scegliere uno dei 6 modelli proposti dal legislatore, con l’unico limite imposto dall’articolo 2249 <le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo (ossia tutti i tipi sociali meno la società semplice).>

Le parti del contratto di società potranno poi decidere di inserire clausole atipiche al fianco di quanto previsto dal legislatore, ma queste non potranno mai essere in contrasto con le norme a carattere imperativo né essere tali da modificare l’essenza del tipo sociale prescelto (ad esempio una clausola in un contratto di società di capitali che prevedesse l’obbligo per i soci di versare, nel corso dell’attività sociale, tutte le somme necessarie alla gestione dell’azienda sociale determinerà il cambio del nomen iuris dato dalle parti e la sua qualificazione come società in nome collettivo, e quindi personale).

Esistono principalmente due classi di società:• le società di persone, nelle quali prevale l’aspetto personalistico e nelle quali i soci

rispondono, di norma, illimitatamente per le obbligazioni sociali, potendo fallire essi stessi qualora si verifichi il fallimento della società;

• le società di capitali, all’interno delle quali prevale l’aspetto economico-finanziario e delle cui obbligazioni risponde solo la società con il suo patrimonio, e, quindi, i soci alla peggio perderanno quanto hanno conferito nel capitale sociale.

17

Page 18: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La scelta ricadrà su un tipo di società rispetto che su di un altro in base all’oggetto sociale e al rischio (soprattutto di insolvenza) che tale attività comporta. Il legislatore non ha voluto determinare limiti alla autonomia dei privati, se non il limite per il quale una società semplice non può avere come oggetto sociale l’esercizio di un’attività commerciale.

La società come contratto e come impresa collettivaRiprendendo in esame l’articolo 2247 c.c., l’articolo base per tutta la disciplina societaria, se ne

possono allora analizzare i termini chiave:1. bilateralità: il legislatore del 1942, vedendo nella società lo strumento attraverso il quale

esercitare collettivamente un’attività d’impresa, determinò la pluralità di individui come requisito necessario per la sua costituzione. Una riforma del 1993 ha invece reso possibile che la società a responsabilità limitata sia costituita da un unico socio. Ugualmente una direttiva comunitaria del 2003 ha determinato che anche la società per azioni sia costituibile da un solo socio. È sufficiente che il capitale sottoscritto sia interamente versato e che il carattere di socio unico e tutti i suoi dati siano iscritti presso il registro delle imprese: in questo modo non viene meno la responsabilità limitata (come invece accadeva prima della riforma quando veniva meno la pluralità di soci). Nelle società di persone, invece, la pluralità di soci è elemento fondamentale, sia al momento della loro costituzione sia durante la loro vita: per questo il legislatore ha previsto, come si vedrà, norme specifiche che intervengono nel caso di unicità dei soci sopravvenuta.

2. conferimento di beni: i conferimenti sono le prestazioni alle quali le parti del contratto si obbligano in modo da consentire lo svolgimento dell’attività in questione. Si possono quindi conferire beni (prestazioni di dare), ma anche servizi (prestazione di fare che determina la connotazione del socio come socio d’opera), e comunque, in generale, ogni entità economica suscettibile di valutazione economica (esprimibile in denaro), conferita sia in proprietà sia in godimento. I conferimenti di beni vanno a formare un fondo comune tra i soci, il cui impiego è vincolato all’esercizio in comune tra i soci dell’attività economica. I beni conferiti non saranno più utilizzabili dal singolo socio, ma solamente dalla collettività della società: fino a quando la società dura, i beni conferiti formeranno il capitale sociale (che si distingue, solamente nelle società di capitali, dal patrimonio sociale). Secondo l’articolo 2253 c.c. <il socio è obbligato a eseguire i conferimenti determinati (sottoscritti) nel contratto sociale. Se i conferimenti non sono determinati si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale>. Inoltre ex art. 2255 è anche possibile che un socio conferisca un proprio credito personale, ma ricadrà in questo caso su di lui l’insolvenza del debitore. Nelle società per azioni il capitale sociale rappresenta sia gli strumenti necessari per la società per operare sia la garanzia per i creditori sociali e per i terzi in generale: tale garanzia non è data dal fatto che esso rappresenti la liquidità a disposizione della società, ma dal fatto che il legislatore impone che tra capitale sociale e patrimonio (che indica la disponibilità economica in quel momento) ci debba essere correlazione, ossia che il patrimonio non sia mai eccessivamente inferiore al capitale: ex. 2446 <quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori devono, senza indugio, convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. Se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate>. In questo modo i creditori sapranno sempre qual è lo stato di solvibilità della società e sapranno sempre che il patrimonio sociale non si differenzia eccessivamente dal capitale iniziale sottoscritto. Il capitale sociale può aumentare solamente con nuovi conferimenti, che devono essere deliberati dall’assemblea e versati dai soci. Incrementi del patrimonio non determinano incremento del capitale sociale, ma solamente utili che saranno reinvestiti o distribuiti ai soci.

3. esercizio in comune di un’attività economica: il contratto di società si presenta quindi come un vincolo contrattuale che unisce fra loro più persone in modo che esse esercitino

18

Page 19: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

collettivamente una medesima attività d’impresa. Con il contratto di società un’attività imprenditoriale non viene più svolta da un unico imprenditore, ma da più soggetti imprenditori tra loro uniti. In questo modo sia il potere amministrativo che di partecipazione agli utili (che costituiscono l’elemento attivo della figura di imprenditore), sia il rischio d’impresa (che è invece l’elemento passivo), ricadranno su più soggetti.

4. scopo di dividerne gli utili: non si può avere società se questa non nasce con l’intento dei soci di partecipare agli utili prodotti dalla società nell’esercizio dell’attività d’impresa. Non basta l’esercizio di un’attività d’impresa, ma è necessario che questa sia rivolta alla realizzazione di utili (che a loro volta andranno divisi). Un requisito, quello dello scopo di lucro, che è stato definito come superfluo per la qualificazione di un’attività come attività d’impresa (infatti si è detto che è sufficiente l’astratta economicità), diviene fondamentale per far sì che si abbia una società. A proposito si parla di lucro oggettivo e lucro soggettivo: si ha lucro oggettivo quando l’attività d’impresa genera profitti; si ha lucro soggettivo quando l’impresa è esercitata con l’obiettivo di dividere gli utili tra i soci. Organizzazioni collettive che non hanno scopo di lucro o che nascono già da subito con l’idea di non dividere gli utili, non sono società, ma, ad esempio associazioni. Il concetto di associazione è molto simile a quello di società, perché in entrambi i casi abbiamo la pluralità di soggetti, un contratto multilaterale, delle regole organizzative, un atto costitutivo ed uno statuto e l’esercizio di un’attività: ciò che differenzia l’una dall’altra è, allora, il fatto che le associazioni non rispondano ai due requisiti del 2247, ossia non nascano per l’esercizio di un’attività economica e non siano rivolte allo scopo di lucro. Bisogna poi ulteriormente distinguere tra le associazioni riconosciute, che godranno della personalità giuridica e risponderanno per le obbligazioni dell’associazione solamente con il proprio patrimonio (non risponderanno i soci) e le associazioni non riconosciute, nelle quali saranno sia il patrimonio dell’associazione sia i soci che hanno agito in suo nome e per suo conto a rispondere per le obbligazioni contratte in nome dell’associazione.Relativamente alla divisione degli utili bisogna poi effettuare una differenza tra quanto avviene nelle società di capitali e quanto, invece, è stato predisposto per le società di persone. Nelle società di persone, ex, art. 2262 <salvo patto contrario ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del bilancio> e quindi alla conclusione di ogni esercizio, a meno di patto contrario (che non può però essere un patto leonino con cui alcuni soci vengono esentati dalla partecipazione agli utili o dalle perdite), ogni socio ha diritto di vedersi divisa una parte di utili proporzionale ai conferimenti o, in mancanza di definizione dei conferimenti all’interno del contratto sociale, in parte uguale a tutti gli altri (art. 2263 c.c.). Nelle società di capitali, nelle quali prevale l’interesse alla massimizzazione del profitto rispetto all’interesse individuale di ottenere una parte di utili, a norma dell’articolo 2433 c.c. <l’assemblea che approva il bilancio delibera sulla distribuzione di utili ai soci>, il che vuol dire che la decisione di assegnare utili o di reinvestire i profitti di quell’esercizio spetta alla deliberazione dell’assemblea sociale che vota a maggioranza. La partecipazione dei soci agli utili può quindi essere definita dall’assemblea, ma non può essere esclusa a priori dal contratto sociale.

Le società occasionaliCosì come affinché si abbia società è necessario lo scopo di lucro (ininfluente per avere un’impresa),

è invece ininfluente che vi sia professionalità, ossia sistematicità e non occasionalità dell’attività svolta (il che è requisito fondamentale per l’esercizio di un’attività definibile come attività d’impresa). L’articolo 2247 c.c. ammette, quindi, che siano società anche le società occasionali, ossia quelle costituite per l’esercizio occasionale di attività economica. Alcuni autori sostengono, però, che una società, per il solo fatto di essere tale e di esercitare un’attività economica, la svolga in maniera professionale anche se occasionalmente. Quindi una società, per il solo fatto di essere tale, sarebbe soggetta a fallimento. Per Galgano, invece, una società non fallisce solo perché tale, ma esclusivamente in quanto esercitante un’attività d’impresa commerciale; per essere qualificati come imprenditori commerciali è quindi

19

Page 20: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

necessario rispecchiare i requisiti del 2082 e, quindi, anche il carattere di professionalità dell’attività economica svolta.

Le società immobiliari di comodoL’articolo 2248 determina che <la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento di

una o più cose è regolata dalle norme sulla comunione>. Affinché si possa parlare di società è quindi necessario che i conferimenti siano rivolti all’esercizio di un’attività economica, e che l’oggetto della società non sia il mero godimento di quanto apportato dai soci.

Tale articolo è stato introdotto dal legislatore per evitare che soggetti potessero alienare da se stessi dei beni, conferendoli ad una società, con il solo intento di sottrarli ai creditori personali e non per esercitare un’attività economica comportante rischio d’impresa (era questo il caso delle società immobiliari di comodo, con le quali un soggetto apparentemente alienava e trasferiva i beni immobili, ma solamente come protezione per il vero oggetto sociale, che era il godimento dei beni conferiti).

Tale contratto di società sarà allora nullo per via del fatto che il si presenta come un contratto indiretto (si utilizza uno strumento lecito per eludere la legge) determinando causa di scioglimento della società stessa: può però questo tipo di società essere sottoposto a procedure fallimentari? Secondo la maggior parte della dottrina no, perché una società commerciale non fallisce in quanto tale, m solamente in quanto imprenditore commerciale.

Nel caso di comunione a rispondere saranno i proprietari dei beni con tutti i loro averi presenti e futuri (2740 c.c.), ma non potranno fallire in quanto non esercitano attività imprenditoriale.

Le società fra professionisti intellettualiSi è visto in precedenza che l’attività dei professionisti intellettuali, in particolare di coloro che

appartengono alle c.d. professioni protette, non è considerata attività imprenditoriale. Può allora essere costituita tra di essi una società per l’esercizio in comune della loro professione? Alcuni lo negano mentre altri ritengono sia possibile. I primi, riferendosi in particolare alle categorie delle professioni protette, negavano che vi potesse essere una società per l’esercizio di tali professioni, in quanto ciò avrebbe determinato il venire meno del carattere personale della prestazione. A riguardo vi era anche una norma del 1939 che vietava espressamente società che avessero come scopo il fornire a terzi, o agli stessi consociati, prestazioni di tipo intellettuale. Nel 1997 tale divieto di legge è venuto meno e si è cercato di disciplinare l’istituto della società di professionisti sulla base dell’idea di associazione professionale, già prevista dalla legge del 39.

Nel 2001 il nostro legislatore, adottando una direttiva europea, ha introdotto l’istituto della società tra avvocati, vista come strumento alternativo alla associazione tra professionisti. Le norme della società tra professionisti (s.t.p.) sono in parte quelle della società in nome collettivo, con alcune peculiarità: oggetto esclusivo può infatti essere il solo esercizio dell’attività professionale da parte dei soci, i quali devono tutti essere in possesso del titolo di avvocato e non partecipare ad altra società tra avvocati. La società non può essere irregolare (non essere iscritta e non nascere per atto pubblico o scrittura privata autenticata) e ogni cliente dovrà essere informato che l’incarico professionale potrà essere eseguito da ciascun socio in possesso dei requisiti per l’esercizio dell’attività professionale richiesta (questo per ovviare alla spersonalizzazione del rapporto tra cliente ed avvocato). La s.t.p. non è assoggettata a fallimento.

Relativamente alle professioni intellettuali non protette vale quanto detto a riguardo della loro possibilità di essere considerate attività imprenditoriali: chi esercita questo tipo di professioni ha molta più libertà contrattuale e quindi potrà, senza problemi, dar vita ad un’attività imprenditoriale e, allo stesso modo, ad una società commerciale che abbia come oggetto la prestazione di servizi.

Società di fatto e irregolariAffinché una società acquisti personalità giuridica è necessario che un contratto sociale redatto in

forma pubblica o mediante scrittura privata autenticata sia iscritto presso il registro delle imprese. Mentre per le società di capitali l’iscrizione ha anche funzione costitutiva, ossia senza di essa non si può avere

20

Page 21: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

società, nel caso delle società di persone l’iscrizione ha solamente funzione dichiarativa e determina un diverso rapporto tra società e terzi.

È infatti prevista dal nostro codice sia la possibilità di una società di persone nata senza atto pubblico o scrittura privata autenticata, e quindi tacitamente costituita (e si chiama società di fatto), sia una società che, regolarmente costituita, non viene inscritta nel registro delle imprese, divenendo in questo modo una c.d. società irregolare, che mantiene il suo nomen iuris, ma relativamente alla quale si applicano norme differenti in particolare per i rapporti con i terzi.

Le società di fatto si hanno tutte quelle volte in cui due o più soggetti si trovano a comportarsi con l’intento di esercitare un’impresa, anche in mancanza di un esplicito accordo a riguardo. Secondo il legislatore i fatti concludenti determinano la nascita di una società. C’è società tutte le volte che due o più persone esercitano in comune un’attività economica al fine di dividerne gli utili: tale previsione va a tutela dei terzi i quali potrebbero pensare, dato il comportamento dei soggetti, di trovarsi di fronte ad una società, con le conseguenze di responsabilità e garanzia, ma potrebbero sentirsi opporre l’inesistenza di un contratto di società. Tale discorso ricomprende anche quanto detto relativamente al socio occulto di società occulta: qualora in sede fallimentare venga rintracciata la presenza di una società e di altri soci precedentemente occulti, vi sarà il fallimento di tutti. Le società di fatto sono, per definizione, società irregolari.

La società irregolare più diffusa è la s.n.c. irregolare: in questo caso ad essa, pur rimanendo configurata come s.n.c., non saranno più applicate le norme sulla società in nome collettivo, bensì quelle relative alla società semplice (almeno per tutte le obbligazioni contratte prima dell’iscrizione al registro delle imprese). Tale disposizione è contenuta nell’articolo 2297 c.c. e determina la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci di una s.n.c. non registrata.

La giurisprudenza ha poi considerato che sia assoggettabile alle norme che regolano le società anche la c.d. società apparente: se due o più soggetti ingenerano nei terzi l’inconsapevole convincimento di operare come una società pur non esistendo tra loro un accordo societario, saranno considerati come soci di una società di fatto.

I SINGOLI TIPI SOCIALI

Il legislatore ha previsto un elenco tipico di società. Per ognuno di questi modelli ha poi determinato delle norme di fattispecie, inderogabili, che individuano i caratteri fondamentali di quel tipo sociale. Al loro fianco sono poi state inserite delle norme di disciplina, in parte derogabili dall’autonomia privata e in parte no. Il motivo di questa legislazione di default, di base normativa, è dovuta alla volontà del legislatore di colmare eventuali lacune lasciate dai privati, dal tentativo di ridurre i costi operazionali (se non ci fosse disciplina generale, ogni volta i soci dovrebbero inventare il patto costitutivo della società), di favorire l’uniformità, e di dare ai terzi e al commercio in generale una più facile ed immediata identificabilità dello schema sociale. Il fatto che il legislatore per ogni tipo sociale abbi determinato l’inderogabilità delle norme relativa alla responsabilità e ai poteri di rappresentanza e abbia voluto uniformarli al resto d’Europa favorisce gli scambi a livello internazionale.

SOCIETA’ DI PERSONE SOCIETA’ DI CAPITALIS.S. – S.N.C. – S.A.S. S.P.A. – S.R.L. – S.A.P.A.

Responsabilità illimitata (art. 2740) e solidale (art. 1292) dei soci per le obbligazioni sociali. Possibilità di patto contrario con efficacia verso terzi nella s.s. (art. 2267) qualora portato a conoscenza con mezzi idonei o nel caso in cui si dimostri la conoscenza.Responsabilità limitata, per definizione, dei soci accomandanti (art. 2313) in s.a.s. qualora non pongano in essere attività di amministrazione, non vi partecipino in alcun modo e non

Responsabilità limitata dei soci, tranne che nel caso dei soci accomandatari nella s.a.p.a. che rispondono illimitatamente. La qualità di socio responsabile limitatamente non può essere attribuita se non nei casi previsti dalla legge (art. 2740.2 <le limitazioni della responsabilità personale non sono ammesse se non nei casi previsti dalla legge>)

21

Page 22: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

compaiano nella ragione sociale.Possibilità di patto contrario, ma con sola rilevanza interna (diritto di regresso verso altri soci ex. art. 2291) per la s.n.c.Attribuzione dei poteri di amministrazione per il solo fatto di essere socio illimitatamente responsabile (quindi non chi gode di patto di limitazione di responsabilità in s.s. e non soci accomandanti) a meno che non sia previsto di attribuire solo ad alcuni soci la qualifica di socio-amministratore nella s.n.c. Ogni socio illimitatamente responsabile è, in quanto tale, rappresentante della società. I soci, nell’atto costitutivo, sono poi sempre liberi di attribuire la rappresentanza solamente ad uno o più soci amministratori.

C’è dissociazione tra la qualità di socio ed amministratore. Il socio, in quanto tale, può concorrere solamente alle deliberazioni dell’assemblea dei soci (che ha il potere di nominare e revocare gli amministratori, di esercitare un’azione di responsabilità nei loro confronti, di approvare il bilancio e di modificare l’atto costitutivo). Il potere di controllo è nelle mani degli amministratori. Il potere di rappresentanza è attribuito dagli amministratori stessi a tutti o solo ad alcuni di se stessi.

Se fallisce la società fallisce, in proprio, ciascun socio illimitatamente responsabile

La qualità di imprenditore è spersonalizzata e attribuita alla società. Chi fallisce è esclusivamente la società

Intrasferibilità, neanche mortis causa, della qualità di socio senza consenso degli altri soci perché il contratto di società si presenta come un contratto intuitu personae per il quale le qualità dei soci sono elementi fondamentali. Inoltre il trasferimento determina necessità di modificare il contratto sociale (voto unanime dei soci).

La qualità di socio è liberamente trasferibile senza necessità di ottenere il consenso degli altri soci. La qualità di socio è un valore di scambio nato per circolare liberamente. Non è quindi necessario neanche modificare l’atto costitutivo.

La personalità giuridica delle societàIl nostro codice civile oltre alla distinzione tra società di persone e società di capitali pone la

distinzione tra società che hanno personalità giuridica e società a cui, invece, non è attribuita. Questa distinzione, giuridica, a prima vista appare decisamente marcata, ma, se analizzata nella pratica e nei suoi effetti, risulta essere molto meno significativa di quanto ci si aspetterebbe. Dire che una società ha personalità giuridica indica che una società è terza rispetto ai soci che la compongono: vuol dire che ha autonomia patrimoniale, che sta in giudizio (anche se nella persona dei soci che la rappresentano), e che delle obbligazioni sociali risponde la società in prima persona.

Tutte le società di persone non hanno, secondo previsione del legislatore del 42, personalità giuridica, mentre tutte le società di capitali si. Tale previsione non è però rispettata se si vanno ad analizzare alcune norme contenute nello stesso codice. Ad una società di persone l’articolo 2266.1 consente infatti di stare in giudizio nella persona dei soci che la rappresentano, mentre l’articolo 2305 esclude per la s.n.c. regolare, che un creditore particolare possa chiedere anche solo la liquidazione della quota del socio (il che può avvenire nella s.s.), senza mai poter essere soddisfatto direttamente dal patrimonio sociale (e lo steso accade nella s.s. o nella s.a.s..

Tali situazioni determinano, in pratica, che anche le società di persone, prive di personalità giuridica, alla fine godano di una situazione, relativamente alla terzietà in giudizio e all’autonomia patrimoniale, per molti aspetti simile a quella delle società di capitali.

Società civili e società commercialiL’articolo 2249 obbligando chiunque voglia esercitare un’attività commerciale in forma di società a

scegliere un tipo sociale diverso da quello della società semplice ha determinato la divisione tra le c.d. società commerciali (s.n.c., s.a.s., s.p.a., s.r.l. ed s.a.p.a.) e la sola società semplice, che viene così ad essere chiamata società civile.

22

Page 23: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

È comunque possibile fare ricorso ad uno dei tipi di società commerciale anche per svolgere un’attività che commerciale non è, ad esempio per esercitare un’attività agricola.

In questo caso alla società si applicheranno tutte le norme relative a quel tipo sociale, ma non si applicheranno le norme inerenti l’esercizio di attività commerciale (fallimento e rappresentanza nelle società commerciali –dove i poteri di rappresentanza sono dati dal solo fatto che un soggetto occupa una determinata posizione-).

Dovranno essere invece tenuti i libri e le altre scritture contabili, non tanto per via dell’oggetto commerciale della società, ma per il solo fatto di essere società di natura commerciale.

Attraverso la costituzione di una società semplice si può, invece, esercitare un’attività che non rientri nel 2195 c.c., ossia principalmente attività agricola.

Non ci sarà mai società se l’oggetto dell’attività non è economico (produttore di ricchezza, ossia produzione o scambio di beni o servizi che miri almeno all’economicità)

Società di artigianiMentre gli artigiani sono inseriti nella categoria dei piccoli imprenditori, le società commerciali non

potranno mai esserlo, quindi le società di artigiani saranno sicuramente società commerciali a tutti gli effetti. Per legge fallimentare è quindi inammissibile una società a cui si applichino le norme del piccolo imprenditore: il concetto di piccolo imprenditore è applicabile solamente all’imprenditore individuale, mai ad una società.

Secondo una legge più recente, è invece possibile che si abbia una società di artigiani, ma solamente qualora vi sia la prevalenza del lavoro personale, anche manuale, della maggioranza dei soci (o di un socio in caso di due soci), che contemporaneamente detenga la maggioranza del capitale sociale e rappresenti la maggioranza negli organi deliberanti della società. Dato che gli artigiani sono piccoli imprenditori, se sussistono tali circostanza allora la qualità di piccolo imprenditore viene automaticamente estesa alla società da loro composta.

Quindi la società di artigiani non fallisce.

Società di capitali socia di società di personeMentre la dottrina non aveva mai posto vincoli alla partecipazione di società di capitali in veste di

soci di società di persone, sia in qualità di soci accomandanti sia di soci illimitatamente responsabili, la giurisprudenza ne ha sempre dichiarato l’incompatibilità. Una società con il beneficio della responsabilità limitata, anche qualora avesse assunto responsabilità illimitata per le obbligazioni della società di persone, non avrebbe mai pagato in misura superiore rispetto al capitale sociale, eludendo, quindi, l’illimitatezza della responsabilità nelle società di persone.

La giurisprudenza riteneva tale situazione un tentativo di frode alla legge e puniva, indipendentemente dalle reali intenzioni, tutti i casi di società di persone che avevano come soci delle società di capitali.

Dopo la riforma del 2003 la partecipazione è ammessa, solo in qualità di soci illimitatamente responsabili (e non di soci accomandanti), e solamente a seguito di deliberazione delle assemblee dei soci di entrambe le società: non ci potrà quindi mai essere una società di fatto tra società di capitali.

La società sempliceLa società semplice è disciplinata dagli articoli dal 2251 al 2290. Questi articoli oltre che la

disciplina tipica della società semplice costituiscono la base per tutte le altre società. Essa, infatti, non rappresenta nessun elemento in più di quanto previsto dall’articolo 2247 per le società in genere. Attraverso lo strumento della s.s. si possono esercitare tutte quelle attività economiche (altrimenti non si avrebbe società) che non siano attività commerciali secondo quanto predisposto dall’articolo 2195 c.c.

Il contratto di società sempliceL’art. 2251 disciplina che <nella società semplice il contratto non è soggetto a forme speciali, salve

quelle richieste dalla natura dei beni conferiti>. Se il tipo di bene conferito richiede la forma scritta, ex. art. 1350, allora la mancanza di tale forma determinerà la nullità del trasferimento. In generale, però, il

23

Page 24: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

contratto di s.s. può essere concluso anche per via orale o essere addirittura tacito, ossia determinato solamente dal comportamento delle parti.

Si può quindi avere una s.s. di fatto, occulta (che si differenzia da quella di fatto perché le parti hanno deciso di costituire una società ma il loro accordo non viene esplicitato e reso noto ai terzi, con la conseguenza che se i terzi non avranno prove a carico dell’esistenza di soci occulti non potranno chiedere il fallimento della società e dei soci ma solo del singolo che ha contrattato con loro) o anche apparente (due o più soggetti non legati da nessun tipo di contratto, né dall’intenzione di esercitare di fatto una società, determinano l’ingenerarsi nel terzi dell’opinione che essi agiscano come soci, dando possibilità a questi di azionare contro di loro le azioni che esperirebbero contro una società di fatto, senza che possa essere loro opposta l’inesistenza della società).

La disciplina dei conferimenti, dettata all’articolo 2253, dispone che <il socio è obbligato ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale. Se i conferimenti non sono determinati si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale>. Nelle società di persone, quindi, i conferimenti non devono essere necessariamente determinati nel contratto sociale, e non è neanche necessario che si costituisca un patrimonio sociale prima dell’inizio dell’attività sociale.

I soci avranno, però, l’obbligo di effettuare, durante la vita della società, tutti i conferimenti necessari per il conseguimento dello scopo sociale, il che vuol dire, principalmente, acquisto beni e saldo dei debiti: una volta conferiti i beni in società, il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società (art. 2256 c.c.). Ciò avviene nelle società di persone, mentre sarebbe del tutto inconcepibile in rapporto alle società di capitali.

Ciò è dovuto al fatto che il patrimonio sociale non costituisce l’unica garanzia per i terzi creditori, coma avviene invece nelle società di capitali, perché ad esso si sommano le garanzie costituite dai singoli patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili.

I conferimenti possono poi essere suddivisi tra conferimenti di beni o di servizi, in proprietà o in godimento. Chi conferisce beni in proprietà rischia che, con l’insolvenza della società e il suo fallimento, il bene non gli sia più restituito, mentre chi conferisce in godimento dovrà invece solamente rinunciare alla rendita del bene per tutti il tempo in cui è stato conferito alla società. D’altra parte, ex. art. 2254, una volta che il bene è conferito in proprietà alla società, il rischio di suo perimento ricade immediatamente sulla società stessa (sulla base delle norme che regolano la vendita), mentre nel caso di conferimento in godimento, il rischio di perimento, anche fortuito, ricade sul socio (secondo la disciplina della locazione): una volta perito il bene, il socio che l’abbia conferito in godimento perde inoltre il diritto di rimanere in società e può essere escluso dagli altri soci (art. 2286.2 <il socio che ha conferito nella società la propria opera o il godimento di una cosa può altresì essere escluso… per il perimento della cosa dovuto a causa non imputabile agli amministratori>.

Il conferimento può anche essere (fino al 2003 solo nelle società di persone, dal 2003 in avanti anche nella s.r.l.) , come detto, di servizi, ossia di opera lavorativa: chi apporta alla società la propria opera lavorativa in qualità di socio d’opera non è da considerare lavoratore dipendente (non avrà diritto, a meno di specifica previsione, ad uno stipendio e nemmeno alla tredicesima: egli infatti svolge la propria opera al di fuori della gerarchia societaria)..

Esistono quindi sia soci capitalisti sia soci d’opera e non è detto che debbano necessariamente essere presenti entrambi (molto diffusa la società di soli soci capitalisti, mentre è possibile anche la società di soli soci d’opera, come la società di artigiani).

Importanti distinzioni tra soci capitalisti e soci d’opera sono legate alla divisione dei guadagni e delle perdite, alla ripartizione dell’attivo a seguito di liquidazione della società e alle cause di esclusione dalla società.

L’articolo 2263 c.c. stabilisce infatti che, mentre <le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti, la parte spettante al socio che ha conferito la propria opera, se non è determinata dal contratto (il che vuol dire che può anche essergli attribuito di più), è fissata dal giudice> il che vuol dire che egli non partecipa agli utili ed alle perdite in maniera proporzionale ai suoi conferimenti (come avviene per i soci capitalisti ex. 2262), e quindi in maniera certa,

24

Page 25: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

ma sulla base di una previsione del contratto o per giudizio del giudice, il quale deciderà sulla base di criteri equitativi.

Relativamente alla ripartizione dell’attivo residuo a seguito di liquidazione, l’articolo 2282 stabilisce, inoltre, che <estinti i debiti sociali, l’attivo residuo è destinato al rimborso dei conferimenti. L’eventuale eccedenza è ripartita tra i soci in proporzione della parte di ciascuno nei guadagni>. In questo modo il socio avrà solamente il diritto di partecipare alla ripartizione dell’eventuale eccedenza attiva, e non avrà, a differenza dei soci capitalisti, la reintegrazione di tutti i conferimenti.

Per i soci d’opera è poi prevista una causa di esclusione ulteriore rispetto a quelle previste per il socio capitalista: secondo l’articolo 2286, infatti, <il socio che ha conferito nella società la propria opera può altresì essere escluso per la sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita>.

Si deve poi aggiungere, sulla base dell’articolo 2289, che <nei casi in cui il rapporto sociale si sciolga limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota>: anche in questo caso gli interessi del commercio e della continuazione dell’attività d’impresa hanno il sopravvento rispetto agli interessi del privato. La liquidazione della quota del singolo socio (in seguito a recesso, a morte o anche ad esclusione) non determina, quindi, la restituzione dei conferimenti: ciò avviene solamente quando si scioglie l’intero contratto sociale e tutte le quote vengono liquidate.

Le modificazioni del contratto socialeSecondo l’articolo 2252 c.c. <il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di

tutti i soci, se non è convenuto diversamente>. I patti tra soci che hanno dato vita alla società possono, quindi, essere modificati durante la vita della società stessa per volontà di tutti coloro che concorsero a stipularli o, se così è stato deciso dagli stessi al momento della redazione del contratto sociale (e quindi all’unanimità), a loro maggioranza. Le modificazioni possono avere carattere soggettivo, ossia determinare l’ammissione di nuovi soci in società, la loro sostituzione o la loro esclusione, oppure carattere oggettivo, ossia inerire il regolamento contrattuale voluto dai soci al momento della costituzione della società.

Nel caso in cui sia richiesta l’unanimità, i voti saranno quindi calcolati per teste, mentre, nel caso di maggioranza, secondo quanto previsto dall’articolo 2257, essa si determina sulla base della parte attribuita a ciascun socio negli utili, il che vuol dire, di norma, in base ai conferimenti apportati (a meno che questi non siano determinati nel contratto sociale e allora a tutti i soci spetti la stessa parte degli utili).

Una così rigorosa previsione delle modificazioni del contratto sociale non è invece presente nelle società di capitali, nelle quali la necessità di adeguare continuamente il contratto sociale alle esigenze della produzione è molto più forte rispetto alle esigenze di tutela del singolo socio.

Invalidità del contratto di società di personeIl contratto di società è nullo e annullabile in tutti i casi in cui è nullo o annullabile ogni altro

contratto (anche se nel caso del contratto di società di capitali vi è il requisito dell’avvenuta iscrizione nel registro delle imprese e del verificarsi di una delle otto cause di nullità previste dal legislatore in seguito all’attuazione di una direttiva comunitaria)

Non sorgono quindi problemi relativamente all’individuazione delle cause di invalidità, bensì in merito alle conseguenze dell’invalidità di un contratto sociale. Mentre per la società per azioni il legislatore ha predisposto un’apposita disciplina in ambito di nullità della società, individuando le cause specifiche di nullità e determinando che i soci non sono liberati dall’obbligo dei conferimenti sino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali, andando quindi contro la normale disciplina della nullità, che generalmente ha effetti ex tunc e determina l’indebito di tutte le prestazioni ricevute, nel caso di società di persone vale, almeno per la maggioranza della dottrina, la disciplina generale dei contratti.

In questo modo nelle società di persone un contratto nullo non produce effetti di sorta, né in campo reale né obbligatorio, determinando la possibilità per ciascun socio di rifiutare il conferimento promesso ed a richiederlo indietro qualora l’abbia già eseguito.

25

Page 26: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Qualora la nullità sia relativa esclusivamente al vincolo di un solo socio, se la società si compone di più soci, troveranno applicazione le regole generali sul contratto plurilaterale (art. 1420), che fanno salvo il contratto a meno che la partecipazione del socio escluso sia da ritenere essenziale.

L’amministrazione della società: i sistemi di amministrazione disgiuntiva e congiuntivaL’articolo 2257 c.c. disciplina che <salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società

spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri. Se l’amministrazione spetta disgiuntamente a più soci, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta. La maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili, decide sull’opposizione>.

L’amministrazione è ciò che consente lo svolgimento quotidiano dell’attività che costituisce l’oggetto sociale: chi amministra prende decisioni sia relativamente alla singola azione sia a lungo termine, ossia strategiche.

Nelle società di persone non vi è l’obbligo di suddivisione in organi, come invece c’è nelle società di capitali, ma è data comunque la possibilità di effettuare tale scelta. Di norma, quindi, non esiste un’assemblea dei soci che prenda decisioni unitarie sotto il profilo temporale e contingente.

Per tale ragione il modello di base predisposto dal legislatore è quello della c.d. amministrazione disgiuntiva, nella quale il potere decisionale spetta ad ogni socio amministratore, (il che indica, di norma, ogni socio illimitatamente responsabile -sono quindi esclusi i soci che godano di patto di limitazione della responsabilità nelle società semplici e i soci accomandanti nella società in accomandita semplice-) disgiuntamente dagli altri.

Ogni socio-amministratore è autonomamente in grado di intraprendere e concludere ogni operazione che rientri nell’oggetto della società, senza dover richiedere l’approvazione degli altri soci. Agli altri amministratori è però concesso di opporsi ad un’operazione che sta per essere intrapresa da uno dei soci amministratori, ma solo prima che questa sia compiuta. A giudicare sulla opposizione sarà la totalità dei soci che stabilirà, a maggioranza calcolata sulla base della partecipazione agli utili, se accogliere o respingere l’opposizione (in quest’ultimo caso lo stesso amministratore, o un altro, potrà in seguito riproporre la medesima azione rischiando, al massimo, una nuova opposizione).

L’articolo successivo, il 2258, introduce invece un’alternativa al sistema di amministrazione disgiuntiva, che non costituisce previsione legale, ma una possibilità data a coloro che non vogliano dare ad ogni socio amministratore la possibilità di agire autonomamente potendo essere bloccati solo prima di aver già intrapreso un’azione. In tale articolo, infatti, il legislatore introduce il modello della c.d. amministrazione congiuntiva, secondo il quale <1. se l’amministrazione spetta congiuntamente a più soci, è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento di operazioni sociali. 2. Se è convenuto che per l’amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza, questa si determina sulla base della partecipazione agli utili. 3. Nei casi preveduti da questo articolo, i singoli amministratori non possono compiere da soli alcun atto, salvo che vi sia urgenza di evitare un danno alla società>

Con questo secondo modello ci sia avvicina di molto allo schema previsto per le deliberazioni dell’assemblea dei soci: ogni operazione sociale deve essere deliberata dal gruppo dei soci amministratori, all’unanimità o, se previsto, a maggioranza calcolata sulla base delle loro partecipazioni agli utili.

La volontà del legislatore, prevedendo questo secondo tipo di amministrazione, era quella di tutelare maggiormente i soci da possibili colpi di mano degli amministratori: è pur vero che i soci nel caso di amministrazione disgiuntiva possono opporsi, ma non essendo previsto l’obbligo dell’amministratore di dare loro preventivo avviso delle sue intenzioni si ha un forte rischio di intervento tardivo da parte degli altri soci amministratori che determinerebbe l’impossibilità di opporsi a quanto già iniziato. Nel caso di amministrazione congiuntiva, invece, il controllo è ancora anteriore, perché ogni azione, a meno di quelle urgenti, deve essere deliberata dall’assemblea dei soci amministratori. Se nel primo caso abbiamo meno tutela ma più velocità e semplicità, nel secondo caso si hanno sicuramente più tutela e più garanzie per i soci, ma anche una maggiore complessità.

26

Page 27: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Amministrazione affidata a uno o più soci soltanto: la figura del socio amministratoreDi norma, come detto, sono soci-amministratori tutti i soci illimitatamente responsabili, ma

anche nelle società di persone può accadere che nell’atto costitutivo si decida di investire solo alcuni di questi (non dei soci limitatamente responsabili) del potere di amministrazione.

Tale nomina può avvenire sia nell’atto costitutivo sia con atto separato, con la differenza che l’amministratore nominato nell’atto costitutivo potrà essere revocato solo per giusta causa, mentre chi è nominato con atto separato può essere revocato all’unanimità degli altri soci o a maggioranza di essi in caso di giusta causa (secondo le regole del mandato).

Nel caso in cui gli amministratori nominati siano più di uno, di regola vigerà tra di loro un sistema di amministrazione disgiuntiva, ma sarà possibile prevedere, sempre nell’atto costitutivo, il modello di amministrazione congiuntiva.

Relativamente al rapporto tra soci e amministratori si è a lungo discusso sul tipo di diritti e di obblighi che li leghino reciprocamente: analizzando l’articolo 2260, rubricato “Diritti e obblighi degli amministratori”, vediamo che esso predispone che si debba guardare alle regole del mandato, ma, analizzando meglio il rapporto tra soci e soci-amministratori, notiamo che sicuramente non si può dire che si applicano tutte le regola del mandato, ma solamente alcune.

Tra gli obblighi degli amministratori non rientra, infatti, quello di attenersi alle direttive del mandante, mentre gli amministratori, come visto, sono pienamente liberi di agire potendo al massimo subire opposizione da parte degli altri soci amministratori, e non da parte dei singoli soci non amministratori (i quali al massimo interverranno per votare sull’opposizione in caso di amministrazione disgiuntiva, ex. art. 2257.3).

Tra le norme del mandato si applicheranno, invece, l’art. 1709 relativo all’onerosità del mandato, il 1710 sull’obbligo di diligenza del mandatario e il 1711 che obbliga il mandatario a rimanere entro i limiti fissati nel mandato.

I soci non amministratori hanno il potere di nomina e di revoca degli amministratori: in particolare solo il secondo è espressamente disciplinato dell’articolo 2259 del codice che richiede, riprendendo le norme sul mandato, l’unanimità dei soci, ma introduce distinzioni a seconda che si tratti di amministratori nominati nell’atto costitutivo o con atto separato. L’amministratore nominato nell’atto costitutivo potrà essere revocato solo all’unanimità (salvo che nel contratto sociale sia stato introdotto il principio di maggioranza ex. 2257.3) e solo in presenza di giusta causa (violazioni o ogni evento che renda impossibile l’assolvimento dei compiti che l’amministrazione comporta), mentre colui che è stato nominato con atto separato potrà essere revocato indipendentemente dalla presenza di una giusta causa, ma sempre all’unanimità (salvo patto contrario).

In ogni caso, secondo il terzo comma dell’articolo 2259, la revoca degli amministratori per giusta causa può essere chiesta giudizialmente da ciascun socio.

La disciplina della nomina dei soci-amministratori non è invece espressamente prevista dal legislatore, ma si ricava da quella dettata per la loro revoca: per tali ragioni si ritiene che sia nel caso di nomina nell’atto costitutivo sia nel caso di nomina in atto separato sia necessario il consenso di tutti i soci, sempre fatte salve le possibilità di un atto costitutivo che preveda la maggioranza o di patto contrario tra i soci nel caso di atto separato.

Al rapporto tra soci e amministratori sono poi dedicati ulteriori specifici articoli del codice che determinano con maggior precisione quali siano i diritti dei primi rispettivamente ai secondi: essi hanno il diritto (ex. art. 2261) di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali, di consultare documenti relativi all’amministrazione e di ottenere ogni anno il rendiconto degli affari compiuti, il quale consta di un vero e proprio bilancio dell’esercizio in quanto deve servire per determinare l’utile da distribuire ai soci. Essi potranno inoltre sindacarne la politica di bilancio o, in caso di inadempimento degli obblighi del contratto sociale, agire in responsabilità nei loro confronti (che rispondono solidalmente anche nel caso di amministrazione disgiuntiva a meno che provino di aver diligentemente vigilato) per ottenere il risarcimento del danno provocato dalla loro condotta: non potranno mai, però, impartire loro istruzioni su atti di gestione, né sostituirsi ad essi nell’esercizio di operazioni sociali.

27

Page 28: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Le deliberazioni nelle società di persone e l’approvazione del bilancioDi regola, il rischio determinato dalla responsabilità illimitata dei soci viene controbilanciato dal

fatto che tutti i soci illimitatamente responsabili abbiano l’amministrazione della società: si potrebbe pensare, allora, che nel caso di amministrazione affidata solo ad alcuni dei soci illimitatamente responsabili, gli altri siano privati di un loro diritto in maniera ingiusta. Bisogna però pensare che, per nominare un amministratore, sia nell’atto costitutivo sia con atto separato, è necessaria la maggioranza di tutti i soci: nessuno potrà essere amministrato da un socio al quale non vuole affidare l’amministrazione della società (almeno nelle società di persone). E anche qualora l’atto costitutivo abbia previsto la nomina degli amministratori a maggioranza, questa disposizione sarà stata presa all’unanimità dei soci che hanno sottoscritto l’atto costitutivo.

Altre volte è però possibile, a seguito di espressa previsione nell’atto costitutivo (che quindi va adottata all’unanimità dei soci), che le decisioni amministrative vengano adottate a maggioranza dei soci sulla base del principio espresso dal terzo comma dell’articolo 2257 (ossia una maggioranza calcolata sulla base della partecipazione agli utili). Quando ciò avviene, non essendo previsto nelle società di persone un organo assembleare dei soci, è possibile che il voto di ogni socio sia acquisito dagli amministratori anche separatamente da quello degli altri soci: in questo modo una volta che si sia ottenuto il voto favorevole della maggioranza non è necessario sentire gli altri soci, determinando così la possibilità che una decisione della maggioranza venga assunta a totale insaputa della minoranza.

Tra i casi in cui è sicuramente necessaria l’unanimità dei soci non amministratori quello certamente più importante è rappresentato dall’approvazione del bilancio: gli amministratori, al termine di ogni esercizio, hanno infatti l’obbligo di redigere il bilancio della società e di portarlo a conoscenza dei soci in modo tale che essi possano approvarlo e trasformarlo in atto giuridicamente vincolante. L’unanimità di tutti i soci (amministratori e non) è richiesta per evitare che si presentino casi in cui i soci amministratori, avendo allo stesso tempo diritto ad una partecipazione alla maggioranza degli utili, possano frustrare il diritto dei soci all’approvazione del rendiconto, o, contrariamente, per evitare di porre i soci amministratori, che sono soci illimitatamente responsabili, nella condizione di poter solamente redigere e presentare il bilancio senza poterlo però votare.

Caratteristica delle società di persone rispetto a quella di capitali è che dopo la sola approvazione del rendiconto (bilancio) si determina il diritto di ciascun socio di percepire la sua parte di utili (art. 2262 <salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto>). Lo scopo di divisione degli utili previsto dall’articolo 2247 c.c. ottiene così la sua immediata e massima espressione nelle società di persone. Nelle società di capitali, invece, il diritto di ciascun socio alla divisione degli utili viene scavalcato dall’interesse della produzione, e in questo modo sarà <l’assemblea che approva il bilancio a deliberare sulla distribuzione degli utili ai soci>. Non ci sarà quindi un diritto immediato, ma questo verrà esclusivamente attribuito dalla stessa assemblea che delibera l’approvazione del bilancio.

Secondo l’articolo 2263 <le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. Se il valore dei conferimenti non è determinato dal contratto, esse si presumono eguali>. In questo modo il legislatore ha stabilito un principio di assoluta proporzionalità tra valore del conferimento e misura della partecipazione, sia all’attivo sia alle perdite della società.

L’articolo 2262 appare inoltre importante perché stabilisce la possibilità contrattuale di determinare diverse partecipazioni agli utili o alle perdite: ciò che è però vietato dalla legge, ex art. 2265, è il patto leonino: nessun socio può, infatti, partecipare esclusivamente ai guadagni o alle perdite della società. Tale patto è nullo ma non determina la nullità dell’intero contratto sociale, che sarà quindi regolato dalla disposizione che prevede partecipazioni uguali per tutti (Art. 2263).

La rappresentanza della societàL’articolo 2266 c.c. determina che <la società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei

soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi. In mancanza di diversa disposizione del contratto sociale, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore, e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale>.

28

Page 29: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Mentre amministrare vuol dire prendere le decisioni, decidere la strada da percorrere, avere la rappresentanza vuol dire poter operare, poter compiere efficacemente gli atti giuridici necessari alla realizzazione dell’oggetto sociale e all’attuazione delle decisioni amministrative.

Di norma, quindi, nelle società di persone un socio illimitatamente responsabile è per ciò solo anche amministratore della società e, di conseguenza, suo rappresentante. Si è già visto, però, che con il contratto sociale o con atto separato si può attribuire il potere di amministrazione soltanto ad alcuni dei soci illimitatamente responsabili, e lo stesso vale per la rappresentanza: è infatti possibile prevedere nel contratto sociale una diversa disciplina, con la quale si attribuisca soltanto ad alcuni dei soci amministratori (o anche non amministratori con procure ad hoc per singoli atti) la rappresentanza della società.

Il contratto sociale può quindi separare amministrazione e rappresentanza, oltre che prevedere un regime congiunto di rappresentanza (di norma è disgiunto) o ancora imporre particolari limitazioni ai rappresentanti (come l’obbligo di firma congiunta di tutti gli amministratori per un determinato tipo di atti o di obbligazioni).

Qualunque modificazione o l’estinzione dei poteri di rappresentanza viene regolata dall’articolo 1396 c.c. sulla procura che impone alla società l’onere di portare tali situazioni a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, pena la loro inopponibilità se non si prova che questi le conoscevano al momento della conclusione del contratto.

Le limitazioni originarie del potere di rappresentanza, contenute nel contratto sociale, non devono invece essere sottoposte ad alcun provvedimento ulteriore: per garantire la loro opponibilità ai terzi è infatti sufficiente che siano contenute nel contratto sociale, indipendentemente dalla conoscenza o meno del terzo.

Le obbligazioni sociali: responsabilità della società e dei sociPer prima cosa bisogna dire che con la locuzione “obbligazione sociale” si intendono sia le

obbligazioni che nascono da contratto, sia tutte le obbligazioni nate da fatto illecito o da qualunque altro fatto idoneo a produrlo qualora siano imputabili ai singoli rappresentanti o alla società stessa (come accadeva per i debiti d’imposta prima del 1971, che ricadevano non sui singoli soci ma sull’intera società).

L’articolo 2267 in materia di “Responsabilità per le obbligazioni sociali” dispone che <i creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente (illimitatamente) e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci. 2. Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza>.

Il creditore sociale può quindi agire direttamente sul patrimonio sociale o sul patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili, tranne che su quelli di coloro che godano di patto di limitazione di responsabilità e che, contemporaneamente, non abbiano agito in nome e per conto della società: chiunque abbia agito in nome e per conto della società (il che indica, data l’indissolubilità del carattere di capo d’impresa con il concetto di rischio d’impresa, sia gli amministratori sia i rappresentanti che hanno rapporti con i terzi) non potrà mai opporre ai terzi un eventuale patto di limitazione della responsabilità.

A favore di tutti coloro che non possano avvalersi di un patto di limitazione di responsabilità, e nei confronti dei quali ogni debitore sociale potrebbe direttamente rivolgersi senza nemmeno dover provare l’insufficienza del patrimonio sociale, interviene, però, l’articolo 2268 c.c. che consente l’esercizio del beneficio di escussione preventiva: <il socio richiesto del pagamento di debiti sociali può domandare, anche se la società è in liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi>. Unico limite è che i beni indicati dal socio devono essere tali da consentire un’agevole soddisfazione, ossia da essere prontamente e facilmente convertibili in una somma di denaro.

Il socio nuovo è solidalmente e illimitatamente responsabili, salvo patto contrario, di tutte le obbligazioni cui pagamento viene richiesto mentre lui è socio, indipendentemente da quando siano sorte

29

Page 30: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

(art. 2269 <chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all’acquisto della qualità di socio>). Il socio che ha sciolto il suo rapporto sociale, invece, risponde, sempre salvo patto contrario, di tutte le obbligazioni sorte mentre era socio, indipendentemente dal fatto che il pagamento sia richiesto quando ormai non ricopre più questa posizione.

Il creditore particolare del socio di fronte alla societàGli articoli 2270 e 2271 c.c. disciplinano il rapporto tra il creditore particolare del socio e il

patrimonio sociale. Se in precedenza si è visto come i singoli soci possano rispondere personalmente e solidalmente delle obbligazioni sociali, al contrario la società non risponderà mai direttamente delle obbligazioni personali di uno dei suoi soci.

In questo ambito si può tranquillamente dire che il patrimonio della società, anche se si tratta di società semplice, gode di una forte autonomia, tanto da essere insensibile alle pretese dei creditori particolari.

Le pretese dei singoli creditori personali dei soci hanno ripercussioni solamente sul singolo socio: l’articolo 2270 dispone, infatti, che <il creditore particolare del socio, finchè dura la società, può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e compiere atti conservativi sulla quota spettante a ques’ultimo nella liquidazione. Se gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, il creditore particolare del socio può inoltre chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del suo debitore>.

Il creditore particolare del socio può, quindi:1. incamerare gli utili spettanti al socio suo debitore al posto di quest’ultimo2. compiere atti conservativi, come ad esempio il sequestro conservativo, sulla quota spettante

al suo debitore nella liquidazione3. chiedere, qualora gli altri beni del debitore siano insufficienti, la liquidazione della

quota del debitore, che deve avvenire entro tre mesi: tale previsione determina una minore autonomia patrimoniale della società semplice rispetto a quella della s.n.c., ma si ha comunque la preclusione per il creditore particolare di agire direttamente sui beni della società. Infatti, a norma dell’articolo 2289, la liquidazione della quota del socio determinerà soltanto il diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota: il creditore non potrà intaccare il patrimonio immobiliare della società o incepparne i meccanismi, ma solamente ottenere una somma di denaro. In più, affinché ciò sia possibile, è necessario che il patrimonio del debitore sia insufficiente, il che non significa che non consente un’agevole soddisfazione del creditore, ma che è incapiente. Ex. art 2288 <Il socio cui creditore ha ottenuto la liquidazione della quota è escluso di diritto dalla società>, anche se bisognerebbe dire che il creditore particolare domanda e ottiene l’esclusione del socio e quindi la liquidazione della sua quota.

L’articolo 2271 vieta la compensazione di debiti personali del socio con crediti della società: in questo modo si andrebbe infatti a far pagare alla società i debiti personali dei soci. È invece ammesso il caso contrario.

Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socioUn rapporto di sociale di un singolo socio si può sciogliere per la morte del socio (art.2248), il suo

recesso (art. 2285) o la sua esclusione per via del verificarsi di una delle c.d. cause di esclusione (art. 2286). Nessuno di questi eventi è di per sé tale da determinare lo scioglimento della società, a meno che, come si vedrà, si determinino situazioni particolari.

Tutte le volte che si ha scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio si passa alla liquidazione della sua quota, a favore dello stesso o dei suoi eredi, secondo quanto predisposto dall’articolo 2289 c.c.: l’ex socio o i suoi eredi <hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota>. In questo modo, a seconda dell’andamento della società e del suo stato patrimoniale nel momento in cui avviene lo scioglimento, la liquidazione determinerà l’attribuzione di una somma di denaro più o meno elevata, che potrebbe essere anche inferiore ai conferimenti apportati dall’ex socio nel momento del suo i ingresso in società.

30

Page 31: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Secondo l’articolo 2284, alla morte del socio <salva contraria disposizione del contratto sociale, gli altri soci devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano>.

Di regola, quindi, si ha la liquidazione della quota del de cuius, secondo quanto previsto dall’articolo 2289, ma può anche succedere che i soci, all’unanimità, decidano di sciogliere la società, oppure, sempre all’unanimità, in quanto deve essere effettuata una modificazione del contratto sociale, decidano di proseguire la società con gli eredi, sempre che questi accettino. In tal caso gli eredi subentreranno nella quota del defunto, senza obbligo di nessun ulteriore conferimento e dividendosi la quota in base alle disposizioni successorie, ma rappresentando sempre un unico socio (questo per via del conteggio per teste delle votazioni all’unanimità).

Lo stesso articolo 2284 dispone la possibilità per le parti di predisporre diversamente all’interno del contratto sociale: potranno quindi introdurre una clausola di continuazione facoltativa (i soci sono obbligati a proseguire con gli eredi, ma questi si possono rifiutare), una clausola di continuazione obbligatoria (con la quale gli eredi avranno l’obbligo di aderire al contratto di società e quindi di proseguire la società) o una clausola di successione (con la quale gli eredi non sono obbligati ad aderire al contratto sociale, bensì diventano immediatamente soci al momento della morte del de cuius).

Relativamente al recesso, l’articolo 2285 disciplina che <1. ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci. 2. Può inoltre recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa. 3. Nei casi previsti dal primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi>. Attraverso l’attribuzione ad ogni singolo socio della facoltà unilaterale di recesso senza che vi sia il mutuo consenso, il legislatore ha derogato i principi generali dell’ordinamento, scegliendo di seguire la strada della tutela dell’esercizio dell’attività economica, vista anche nella sua componente negativa di potervi rinunciare.

La differenza fondamentale tra il recesso ad nutum (quello che si verifica nel caso di recesso da società a tempo indeterminato senza che vi sia una giusta causa) e il recesso con giusta causa è dettato dal fatto che nel secondo caso esso è immediatamente efficace, non richiedendo tre mesi di preavviso per divenire valido. Allora il socio di società a tempo indeterminato che possa far valere una giusta causa (il che generalmente viene inteso come una violazione di obblighi contrattuali o di doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza), avrà interesse a farlo anche se non è necessario.

Un socio può anche essere escluso dalla società qualora si verifichi una delle cause di esclusione previste dagli articolo 2286 e 2288: sono cause di esclusione <le gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale, nonché l’interdizione, l’inabilitazione del socio o la sua condanna a pena che importa interdizione, anche temporanea, da pubblici uffici>. Nel caso di socio che ha conferito la sua opera vi sarà inoltre esclusione qualora esso risulti inidoneo a svolgere l’opera conferita, mentre il socio che ha conferito un bene in godimento sarà escluso nel caso in cui esso perisca, anche per caso fortuito.

L’esclusione è votata a maggioranza dei soci, non computandosi tra questi il socio da escludere (il che indica che sia una maggioranza calcolata per teste e non per partecipazione agli utili come previsto dall’art. 2257), e ha effetto a partire da 30 giorni dopo la comunicazione al socio escluso.

Se i soci della società di persone sono solamente due, allora il socio che voglia l’esclusione dell’altro si dovrà rivolgere al presidente del tribunale per ottenere tale provvedimento.

Il socio escluso, nel decorrere dei trenta giorni, avrà però la possibilità di ricorrere presso il tribunale il quale potrà sospendere l’esecuzione della delibera di esclusione.

Vi è poi esclusione di diritto (ex. art. 2288) quando un socio sia dichiarato fallito o quando un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota a norma dell’art. 2270.

Secondo l’articolo 2290 il socio che abbia sciolto il proprio rapporto sociale, o i suoi eredi, risponderanno comunque di tutte le obbligazioni sorte fino al momento dello scioglimento e anche delle obbligazioni sorte successivamente qualora non abbiano portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei lo scioglimento del loro rapporto sociale (altrimenti non è opponibile ai terzi che l’abbiano ignorato senza colpa).

31

Page 32: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Scioglimento della società (art. 2272)Una società si scioglie qualora si verifichi una delle seguenti cinque cause:

1. decorso del termine, sempre che i soci non abbiano deliberato la proroga della società (determinata o indeterminata) o che non vi sia stata proroga tacita risultante dal comportamento dei soci (che è sempre a tempo indeterminato, ex 2273)

2. conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo: questa seconda evenienza può essere determinata sia da eventi esterni alla società (perimento del bene cui acquisto e ristrutturazione la società mirava) sia interni ad essa (insanabile discordia tra i soci che determina un’impossibilità di esercizio)

3. volontà di tutti i soci o della maggioranza qualora sia così previsto nel contratto sociale4. venire a mancare della pluralità dei soci se questa non è ricostituita entro sei mesi: se dal

momento in cui un socio rimane socio unico trascorrono sei mesi senza che la pluralità venga ricostituita, allora si avrà scioglimento della società stessa. Se invece il socio rimasto trova un nuovo socio, esso non dovrà eseguire nuovi conferimenti ma risponderà anche delle obbligazioni sorte prima del suo ingresso in società.

5. altre cause previste dal contratto socialeLo scioglimento della società non deve essere deliberato: ciascun socio può, qualora si presenti

una delle cause di scioglimento, rivolgersi ad un giudice per ottenere sentenza di scioglimento della società.

Dopo la sentenza di scioglimento la società viene immediatamente posta in liquidazione. I soci sono ancora vincolati dal contratto sociale, ma l’unico oggetto dell’attività della società sarà la definizione di tutti i rapporti sociali ancora pendenti.

Se i soci non trovano un accordo su come determinare il modo di liquidare, allora si passerà alla procedura legale: essi nomineranno all’unanimità uno o più liquidatori (o lo farà il tribunale in caso di dissenso), in modo che questi, avendo gli stessi obblighi e gli stessi diritti degli amministratori, provvedano a compiere gli atti necessari per la liquidazione (compresa, a meno di diversa previsione dei soci, la possibilità di vendere in blocco i beni sociali e di fare transazioni, ma esclusa la possibilità di pregiudicare i beni sociali intraprendendo nuove operazioni).

Per prima cosa andranno pagati i creditori sociali, o accantonate le somme necessarie a pagarli. Se i fondi disponibili, il patrimonio sociale, risulta insufficiente al pagamento dei debiti sociali, allora i liquidatori potranno chiedere a ciascun socio i versamenti ancora dovuti sulle rispettive quote o, ancora, ulteriori somme sulla base della responsabilità di ciascuno e della sua partecipazione alle perdite (che, va ricordato, può anche essere resa contrattualmente inferiore alla partecipazione agli utili). Nel caso di socio insolvente, il suo debito viene ripartito tra tutti gli altri soci sempre in proporzione alla loro partecipazione alle perdite.

A questo punto coloro che hanno conferito beni in godimento hanno diritto di riprenderli nello stato in cui si trovano: se tali beni sono periti o deteriorati per cause imputabili agli amministratori, allora i soci avranno la possibilità di esercitare contro di loro un’azione per responsabilità e di rifarsi, contemporaneamente, sul patrimonio sociale.

Pagati tutti i debiti, compresi quelli nei confronti dei soci che hanno conferito beni in godimento, l’attivo residuo non costituisce più patrimonio sociale, ma comunione di beni tra tutti i soci e la società è finalmente estinta. Tale comunione di beni è destinata al rimborso dei conferimenti (di beni).

Qualora avanzino ancora delle somme di denaro, esse sono ripartite tra i soci in maniera proporzionale alla loro partecipazione nei guadagni (art. 2282)

Le società in nome collettivo

La società in nome collettivo come tipo generico di società commerciale

32

Page 33: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Se abbiamo detto che la società semplice rappresenta il punto di partenza per tutti gli altri tipi di società, la società in nome collettivo occupa, nel sistema delle società, la posizione di tipo generico di società commerciali: se due o più persone esercitano in comune un’attività commerciale con lo scopo di dividerne gli utili, se non hanno previsto di adottare una specifica forma di società, il loro rapporto sarà senz’altro qualificato come società in nome collettivo.

Le parti possono, qualora vi sia un patto espresso, scegliere il modello della s.n.c. (o di un’altra società commerciale) anche per svolgere un’attività non commerciale, e, allo stesso modo, se lo prevedono espressamente, possono esercitare un’attività commerciale scegliendo uno degli altri tipi di società commerciale: ma se non prevedono nulla e svolgono attività commerciale, allora sicuramente ci sarà una s.n.c.

L’elemento di maggior differenza tra s.s. e s.n.c. è dato dal tipo di responsabilità di ogni socio: l’articolo 2291 infatti stabilisce che <nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali. 2. Il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi>

Qualunque socio potrà quindi essere personalmente chiamato a rispondere delle obbligazioni sociali, anche coloro a favore dei quali sia presente un patto di limitazione della responsabilità: a differenza che nella s.s. questo patto non ha effetti verso i terzi, ma solo effetti tra i soci. Qualora chi gode di un patto di limitazione della responsabilità venga escusso dai creditori sociali, egli sarà tenuto a pagare, potendo poi rifarsi su ogni altro socio per tutto ciò che ha pagato oltre il limite della sua responsabilità.

Essendo una società commerciale, la s.n.c. è soggetta, ex art. 2296, all’iscrizione nel registro delle imprese: tale iscrizione non ha, come è invece per le s.p.a., funzione costitutiva, ma solamente dichiarativa. Se una s.n.c. sarà registrata, sarà considerata regolare e ad essa si applicheranno le norme del codice relative alla s.n.c.; fino a quando non sarà registrata, sarà invece chiamata irregolare, e, pur conservando il nomen iuris, ai rapporti tra la società e i terzi si applicheranno le regole della s.s (art. 2297 <fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, i rapporti tra la società e i terzi, ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice>).

Società irregolare: nel caso di società irregolare, quindi, i rapporti tra società e terzi sono regolati dalle norme della s.s., fatta eccezione per la norma relativa alla validità del patto di esclusione della responsabilità (che rimane invalido nei confronti dei terzi) e per una questione relativa all’opponibilità dei patti di limitazione o attribuzione della rappresentanza: mentre nella s.s. è sufficiente che tali patti siano portati a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, determinando una presunzione di conoscenza da parte dei terzi qualora ciò sia stato fatto, nel caso di s.n.c. irregolare è necessario, affinché tali patti possano essere opposti ai terzi, che si provi che essi ne erano a conoscenza nel momento in cui hanno stipulato il contratto con il rappresentante (Art. 2297.2). Se ciò non avviene si presume che la rappresentanza spetterà a tutti.

Tra le norme della s.s. che si applicheranno vi saranno tutte quelle relative al rapporto tra creditore particolare del socio e socio stesso: un creditore particolare di socio di s.n.c. irregolare avrà quindi la possibilità di chiedere la sua esclusione per rifarsi sulla liquidazione della quota.

Le s.n.c. irregolari sono molto diffuse perché in tale categoria rientrano tutte le società di fatto od occulte che abbiano oggetto commerciale.

Società regolare: se una s.n.c. viene iscritta nel registro delle imprese diviene regolare, e ad essa si applicheranno, anche nei rapporti tra società e terzi, le norme della s.n.c. In questo modo la società godrà di una maggiore autonomia patrimoniale

Secondo l’articolo 2305 <il creditore particolare del socio, finchè dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore>. Potrà quindi rifarsi sugli utili ed esercitare atti conservativi sulla quota del socio debitore, ma non potrà mai ottenere l’esclusione del socio e la liquidazione della sua quota.

Secondariamente, ex. art. 2304 <i creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale>. A differenza della s.s. i soci godono del diritto di escussione in maniera automatica, ossia senza doverlo chiedere, e non è neanche necessario che indichino i beni della società sui quali i creditori sociali si possano rifare e neppure che questi siano tali da determinare un’agevole soddisfazione.

33

Page 34: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Un creditore sociale potrà agire nei confronti dei singoli soci solamente dopo aver infruttuosamente tentato di soddisfarsi con il patrimonio sociale: ciò non vuol dire che se i beni non sono di facile e pronta convertibilità in denaro egli possa andare dai soci, ma che egli lo possa fare solo se il patrimonio sociale è insufficiente per la sua soddisfazione (La giurisprudenza ha però dato dell’articolo 2304 una lettura più ampia: secondo alcune recenti sentenze il creditore sociale potrebbe agire direttamente contro il patrimonio del singolo socio qualora l’escussione del patrimonio sociale sia manifestamente inutile per evidente e percepibile incapienza della società).

Tale differenza tra s.s. e s.n.c. è data dal fatto che nella società semplice non vi è pubblicità del contratto sociale e delle sue modificazioni tale da rendere conoscibile al creditore lo stato patrimoniale della società, quindi sarà onere del socio indicare al creditore la presenza di beni convertibili sui quali egli potrà agevolmente rifarsi.

Un ulteriore differenza rispetto alla s.n.c. riguarda l’opponibilità delle limitazioni dei poteri di rappresentanza degli amministratori: essi saranno infatti opponibili solamente qualora siano stati iscritti nel registro delle imprese o se si prova che i terzi ne abbiano avuta conoscenza: se c’è iscrizione nel registro delle imprese, dunque, le limitazioni si presumono conosciute dai terzi, senza necessità (come invece avviene nella s.n.c. irregolare e nella s.s.) di provare la conoscenza di queste da parte dei terzi.

Le limitazioni originarie non vanno rese ulteriormente note: per il solo fatto che siano contenute nell’atto costitutivo della società e iscritte nel registro delle imprese si presumono, sia nella s.s. sia nella s.n.c. regolari conosciute dai terzi.

S.n.c. irregolare e regolare sono due varianti dello stesso tipo sociale, non due differenti tipi di società: è infatti data ad ogni socio di s.n.c. irregolare la possibilità di provvedere, qualora gli amministratori non depositino l’atto costitutivo presso il registro delle imprese, a farlo a spese della società oppure di far condannare gli amministratori a provvedervi.

In quanto società commerciale, gli amministratori di s.n.c. regolare devono tenere le scritture ed i libri contabili ex. 2214 (libro giornale e libro degli inventari).

L’atto costitutivo della s.n.c. regolareA differenza della s.s., l’atto costitutivo della s.n.c. regolare richiede particolari requisiti di

forma e anche il deposito presso il registro delle imprese, ossia la sua pubblicazione.L’articolo 2295 disciplina che <l’atto costitutivo deve indicare: dati anagrafici dei soci, ragione

sociale, soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società, sede sociale ed eventuali sedi secondarie, oggetto sociale, conferimenti di ciascun socio e loro valore, prestazioni cui sono obbligati i soci d’opera, norme per la ripartizione degli utili e quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite, durata della società>. Una volta compilato questo documento, a norma dell’articolo 2296 <l’atto costitutivo, con sottoscrizione autenticata dei contraenti, deve entro trenta giorni essere depositato per l’iscrizione, a cura degli amministratori, presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale>

Tra i vari elementi richiesti dal 2295 c.c. quelli che meritano maggior attenzione sono:• la ragione sociale: è il nome della società. Essa deve contenere almeno l’indicazione del

nome di un socio e l’indicazione del fatto che si tratta di una società in nome collettivo• l’indicazione dei soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza sociale: va

inserita solamente se tali poteri sono stati riservati solo ad alcuni soci e non, come previsto di norma, a tutti

• la sede sociale: è importante perché determina quale sia l’ufficio del registro delle imprese presso il quale deve essere effettuata la registrazione, a quale tribunale rivolgersi ad esempio per ottenere la condanna degli amministratori a depositare l’atto costitutivo o per la procedura fallimentare, quale l’ufficio delle entrate, etc.

• conferimenti di ciascun socio: nelle società di persone non è necessario che vi siano conferimenti iniziali, ma se vi sono devono essere indicati nell’atto costitutivo

• durata della società: si pensa che questo requisito indichi la necessità di avere una società a tempo determinato, ma contemporaneamente si dà la possibilità ai soci di s.n.c. regolare di prorogare tacitamente il termine della società (il che vuol dire renderla a tempo

34

Page 35: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

indeterminato). Vi è, però, una peculiarità rispetto alla s.s.: dato che il creditore particolare del socio debitore non può chiedere liquidazione della quota sino a quando la società esiste, ad egli è data la possibilità di opporsi alla proroga, espressa o tacita, della società e ricorrere davanti al tribunale. Se il tribunale ritiene che la proroga arrechi pregiudizio al creditore particolare, la società sarà tenuta ad escludere il socio e a liquidare la sua quota, ex 2289.

Tutte le modificazioni dell’atto costitutivo vanno iscritte nel registro delle imprese. Nessuna modificazione non iscritta nel registro delle imprese può essere opposta ai terzi a meno che non si provi che questi ne erano a conoscenza.

Il capitale sociale Il capitale sociale è il valore in denaro dei conferimenti di beni eseguiti o promessi dai soci

all’interno dell’atto costitutivo.Il capitale sociale è quindi il valore storico dei conferimenti, dal quale si distingue il patrimonio

sociale, che è l’insieme di tutti i beni e di tutti i rapporti giuridici attivi facente capo alla società stessa durante il suo esercizio. All’inizio i due valori sono eguali, perché il patrimonio è costituito dai conferimenti dei soci (che costituiscono a loro volta il capitale sociale), ma poi i conferimenti verranno impiegati nell’esercizio dell’attività sociale determinando o un aumento del patrimonio rispetto al capitale o una sua riduzione (se il valore dei beni detenuti dalla società è inferiore al valore dei conferimenti iniziali).

Il capitale sociale rappresenta quindi una garanzia per i soci, perché essi sapranno, a norma dell’articolo 2303.2 c.c., che nessuna distribuzione di utili (ossia di patrimonio sociale) verrà effettuata a favore dei soci fino a quando non sarà reintegrato il capitale sociale, o ridotto. In questo modo i creditori sanno che se la società in un esercizio ha avuto utili, questi usciranno dalla società, e quindi saranno sottratti alla loro garanzia, soltanto se il patrimonio sociale sarà superiore al capitale.

Se poi la società vorrà restituire ai soci parte dei loro conferimenti, non potrà farlo liberamente, ma dovrà essere deliberata la riduzione del capitale e iscritta nel registro delle imprese: in questo modo sarà reso pubblico che la garanzia per i creditori, il capitale sociale, è stato ridotto. A tale riduzione un creditore sociale che vanti un credito anteriore all’iscrizione della riduzione di capitale si può opporre entro lo scadere di tre mesi, ma il tribunale può disporre che essa sia egualmente eseguita qualora la società abbia prestato idonee garanzie (riducendo il capitale sociale, o restituendo parte dei conferimenti o liberando i soci da apportare i conferimenti promessi non ancora eseguiti, viene infatti ridotta la garanzia patrimoniale dei creditori).

Divieto di concorrenza del socioSecondo l’articolo 2301 <il socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto

proprio o altrui un’attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente. 2. Il consenso si presume, se l’esercizio dell’attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto sociale, e gli altri soci ne erano a conoscenza. 3. In caso di inosservanza delle disposizioni del primo comma la società ha diritto al risarcimento del danno>.

Agli ex soci, ossia a coloro che abbiano sciolto il proprio rapporto sociale, non si estende questa norma, bensì, a detta della giurisprudenza, la norma secondo la quale chi aliena l’azienda si deve astenere per cinque anni dall’esercizio di una nuova impresa che possa sviare la clientela dell’azienda ceduta.

Scioglimento ed estinzione della societàLe cause di scioglimento della società in nome collettivo sono le stesse della società semplice

(decorso del termine, conseguimento oggetto sociale o impossibilità di conseguirlo, volontà di tutti i soci, se manca la pluralità di soci e non è ristabilita entro sei mesi, altre cause previste dal contratto sociale), con l’aggiunta del provvedimento dell’autorità governativa che ordina la liquidazione coatta e, a meno che non abbia come oggetto un’attività commerciale, la dichiarazione di fallimento della società.

35

Page 36: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La dichiarazione di fallimento non determina l’estinzione della società, ma solamente l’inizio della procedura fallimentare (così come le altre cause di scioglimento determinano l’inizio della fase di liquidazione).

Le uniche differenza tra il processo di liquidazione nella s.s. e nella s.n.c. è che nel secondo caso si ha iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori e che si ha l’obbligo, così come nella s.a.s., di seguire la procedura legale di liquidazione (i soci non possono autonomamente determinare la procedura di liquidazione).

Una volta conclusa la liquidazione (inventario, pagamento debiti, etc.) i liquidatori redigono il rendiconto finale del loro operato e lo comunicano ai soci: se essi non lo impugnano entro due mesi, si ritiene approvato.

Se nessun socio si oppone al rendiconto esso diviene inimpugnabile e i liquidatori sono liberati dal loro incarico e devono solo più chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.

La recente giurisprudenza si è però opposta a questa previsione normativa, perché ritiene pericoloso che un’operazione lasciata solamente ai soci ed ai liquidatori possa determinare l’estinzione della società e il fatto che gli eventuali creditori non soddisfatti non possano più agire sul suo patrimonio ma solamente nei confronti dei singoli soci, agendo quindi sullo stesso piano dei creditori particolari(questo è quanto espressamente previsto dall’articolo 2312.2 del c.c. <dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e, se il mancato pagamento è dipeso per colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi>). Allora ha previsto che i creditori non soddisfatti possano ottenere la ricostituzione del patrimonio sociale sulla base del fatto che la cancellazione dal registro delle imprese determina solo una presunzione di estinzione della società, suscettibile quindi di prova contraria.

Nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, la società non si estingue fino a quando non abbia soddisfatto tutti gli eventuali creditori o fino a quando sia decorso il termine di prescrizione tale da rendere inesigibili i debiti sociali.

Solo a questo punto ci sarà la definitiva cancellazione della società dai registri delle imprese.

Fallimento della società, fallimento dei sociIn quanto società commerciale, come detto, la s.n.c. può, in quanto insolvente, essere soggetta a

procedura fallimentare. Essa è infatti considerata dall’ordinamento come un’impresa commerciale e quindi, a norma dell’articolo 1 della legge fallimentare, è suscettibile di fallimento.

Allo stesso modo, però, possono fallire tutti i soci illimitatamente responsabili della società.Il fallimento della società avrà come oggetto il patrimonio sociale, mentre il fallimento dei soci avrà

come oggetto il loro patrimonio personale: mentre però, i creditori sociali potranno rifarsi sia nei confronti del patrimonio sociale sia nei confronti del patrimonio personale dei singoli soci, i creditori dei soci falliti potranno rifarsi solamente sul loro patrimonio personale.

Il fallimento dei soci illimitatamente responsabili è automatico: essi sono dichiarati falliti indipendentemente dal fatto che sussistano, in capo a ciascuno di essi, i presupposti per dichiararli falliti: in particolare non si andrà a vedere se siano, o meno, personalmente insolventi.

Lo stesso discorso vale per gli eventuali soci occulti: essi falliranno per il solo fatto di essere soci di una società fallita.

Tale regola, molto severa, non vige in altri paesi come Germania o Gran Bretagna: in Italia è stata adottata perché si è voluto far sì che un socio qualora abbia la possibilità di pagare i debiti sociali e di evitare il fallimento della società sia spinto a farlo per evitare il suo stesso fallimento.

Molto spesso accade, però, che soci occulti di società commerciali non si preoccupino di pagare i debiti della società qualora questa inizi ad andare male, lasciando che fallisca e confidando di non essere rintracciati. Ma anche quando vengono individuati la giurisprudenza è restia ad applicare l’articolo 147 della legge fallimentare (che ne determinerebbe l’automatico fallimento) per via del fatto che non individua un effettivo rapporto sociale, ma piuttosto un contratto di diritto privato che non può determinare l’automatico fallimento.

Va infine analizzato il caso del fallimento del socio cessato: secondo l’articolo 10 della legge fallimentare, l’imprenditore che abbia cessato la sua attività può fallire nel caso in cui l’insolvenza sia

36

Page 37: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

anteriore alla cessazione o si verifichi entro un anno da questa. Tale norma è stata estesa anche alle società commerciali, intendendo come momento della cessazione dell’attività l’approvazione del bilancio di liquidazione.

Ci si chiede, però, se tale principio possa essere anche applicato al socio che abbia sciolto il proprio rapporto di società: secondo parte della dottrina i soci di società in nome collettivo non venivano riconosciuti imprenditori, e quindi a loro non si sarebbe potuto applicare l’articolo 10 della legge fallimentare. Attualmente è però intervenuta la Corte Costituzionale che ha sentenziato che al socio cessato si applicano gli articolo 10 e 11 (relativo all’imprenditore defunto), sicchè egli potrà essere dichiarato fallito sia nel caso di insolvenza anteriore allo scioglimento del suo rapporto sia intercorsa entro un anno da questo.

La società in accomandita sempliceNozione generale

Art. 2313 <nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita. 2. Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni>.

All’interno di questa società rinveniamo, quindi, sia soggetti che hanno gli stessi obblighi e gli stessi diritti dei soci di una s.n.c, i soci accomandatari (Art. 2318.1 <i soci accomandatari hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo>), sia soci che, al contrario, godono della limitazione della responsabilità, i soci accomandanti: sulla base del principio per il quale alla limitazione della responsabilità non può, almeno nelle società di persone, corrispondere né il potere di amministrazione né la rappresentanza della società, i soci accomandanti non possono per legge partecipare all’amministrazione della società (art. 2318 <l’amministrazione della società può essere conferita soltanto ai soci accomandatari>), né <possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari>.

I soci accomandanti sono quindi, a tutti gli effetti, soci capitalisti: esercitano in comune l’attività economica solo in quanto conferiscono beni che vanno a formare il patrimonio autonomo della società. E per tale ragione egli risponderà solamente dei conferimenti apportati alla società, ma non gli sarà data la possibilità di intervenire sull’amministrazione della società né di rappresentarla (a meno di procura speciale per un singolo affare).

Soci accomandanti e perdita del beneficio della responsabilità limitata: la ragione sociale e il divieto di immistione nell’amministrazione

L’articolo 2314 c.c. dispone che <la società agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di almeno uno dei soci accomandatari, con l’indicazione di società in accomandita semplice. 2. l’accomandante il quale consente che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali>.

Analizzando questo articolo si evince che la ragione sociale, il nome della società, deve comprendere almeno l’indicazione di uno dei soci accomandatari: i creditori sociali sapranno, in questo modo, di potersi rifare almeno sul patrimonio di questo soggetto illimitatamente responsabile. Contemporaneamente, sapendo che si tratta di una s.a.s. sapranno che non tutti i soci sono illimitatamente responsabili e che, quindi, prima di fare affidamento sul patrimonio di uno dei soci non inseriti nella ragione sociale dovranno controllare.

Per tali ragioni l’inserimento del nome di un socio accomandante nella ragione sociale viene punita dal legislatore facendo ad esso perdere il beneficio della responsabilità limitata: tale decisione è quindi determinata dalla volontà di tutelare i terzi creditori, in maniera che essi non si trovino a confidare nel patrimonio di un socio che poi si dimostri limitatamente responsabile.

Dato che, però, al socio accomandante inserito nella ragione sociale sono, solo per questo motivo, imputabili tutti i tipi di obbligazioni (anche da fatto illecito), in molti hanno sostenuto che l’articolo 2314.2 non abbia come finalità solamente la tutela dei terzi, ma anche la preventiva repressione di qualunque tentativo di un socio accomandante di porsi in una posizione tale da controllare e gestire la società godendo, contemporaneamente, del beneficio della responsabilità limitata. Tale finalità è

37

Page 38: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

rafforzata dal fatto che non sia necessario provare l’effettiva amministrazione da parte del socio accomandante e che esso non possa riacquistare la responsabilità limitata se dimostra che al nome nella ragione sociale non corrisponde nessun potere ulteriore rispetto a quello di accomandante: per il solo fatto che egli sia inserito nella ragione sociale decadrà dal beneficio della responsabilità limitata.

L’articolo richiede il consenso del socio accomandante, ma questo viene assimilato alla tolleranza da parte sua dell’essere inserito nella ragione sociale. In questo modo decade dal beneficio della responsabilità limitata, ma rimane comunque un socio accomandante: ciò determina, nel caso in cui egli sia l’unico socio accomandante, che si garantita la compresenza di soci accomandanti e di soci accomandatari, anche se tutti risponderanno illimitatamente per le obbligazioni sociali.

L’articolo 2320 dispone che <i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di una procura speciale per i singoli affari. Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell’art. 2286. 2. i soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori e, se l’atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e di sorveglianza>

Questo articolo presenta, quindi, un altro caso in cui i soci accomandanti possono essere esclusi dal beneficio della responsabilità limitata. In questo modo vengono tutelati più interessi: l’interesse dei soci (accomandatari e non) di vedere amministrata la società solamente da chi risponda illimitatamente delle sue obbligazioni, sulla base del presupposto che egli farà sicuramente del suo meglio; l’interesse dei soci accomandatari affinché sia rispettato il loro diritto di amministrare la società (art. 2218 <l’amministrazione della società può essere conferita soltanto ai soci accomandatari>), l’interesse dei creditori della società affinché non facciano affidamento su chi, dato il suo atteggiamento all’interno della società e all’esterno, ritengono essere illimitatamente responsabile quando invece non lo è (infatti è richiesta una procura speciale, e per i singoli affari, per consentire ai soci accomandanti di trattare o concludere affari, ossia di avere la rappresentanza, in maniera tale che sia ben chiaro ai terzi con chi hanno a che fare), sia l’interesse generale della collettività a vedere un’attività economica assegnata non a chi risponde limitatamente delle obbligazioni, ma solamente a chi risponde illimitatamente (e per questa ragione si capisce perché il socio accomandante che si ingerisca nell’amministrazione non risponde solo delle obbligazioni concluse in tali circostanze ma di tutte le obbligazioni sociali, anche non contrattuali).

Per determinare la decadenza dell’accomandante dalla sua posizione di privilegio è sufficiente che egli compia anche solo un singolo atto di amministrazione, indipendentemente dall’importanza di tale atto (qualunque tipo di immistione viene punito con la decadenza).

Basta che egli partecipi alla vita amministrativa della società e immediatamente perderà il suo beneficio, ma non la qualifica di socio accomandante.

Se, però, la sua posizione all’interno della società sarà tale da denotare un vero e proprio controllo della società, in modo che la sua posizione appaia molto vicina, se non identica, a quella di un socio accomandatario, allora si dovrà procedere ad un’interpretazione del contratto tenendo conto delle intenzioni dei contraenti (1362) e si arriverà a modificare anche il nomen iuris del soggetto. Se poi esso sarà anche l’unico socio accomandante della società, si dovrà dire che il contratto sociale si sarà trasformato e si sia data vita ad una società in nome collettivo.

Il fatto che il codice prevede responsabilità illimitata dell’accomandante decaduto nei confronti dei terzi non implica la possibilità per i soci di stipulare un patto di limitazione della responsabilità, nemmeno con valenza esclusivamente interna (come avviene nella s.n.c.): responsabilità verso i terzi infatti non vuol dire altro che responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, che non può essere esclusa da un patto tra soci.

La violazione del divieto di immistione rappresenta una giusta causa di esclusione del socio accomandante che abbia commesso tali atti a norma dell’articolo 2286 (voto a maggioranza di tutti i soci escluso il socio in questione). Secondo Montalenti, non prevedendo questa operazione una modificazione del contratto sociale è plausibile che vi partecipino anche i soci accomandanti, e che si proceda con un voto per teste e non per partecipazione agli utili

38

Page 39: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Diritti di controllo del socio accomandanteIl secondo comma dell’articolo 2320 dà però ai soci accomandanti la possibilità di essere

lavoratori dipendenti della società, prestatori d’opera sotto la direzione degli amministratori: in questo modo non sarà solo socio capitalista, ma parteciperà anche attivamente alla vita della società, ma sempre in maniera subordinata agli amministratori. Per le stesse ragioni egli non potrà essere posto come institore o procuratore della società (in quanto sarebbe a capo della gerarchia e avrebbe potere di amministrazione e di rappresentanza) e potrà agire in qualità di mandatario solo in forza di una procura speciale: qualora agisca con procura generale infatti risponderanno sia la società, sia i soci accomandatari sia lui; nel caso in cui, invece, abbia agito senza procura, l’atto sarà considerato nullo (a meno di ratifica) ed egli, oltre a doverne risponderne a titolo di risarcimento del danno, perderà il beneficio della responsabilità limitata per essersi ingerito nell’amministrazione della società.

Qualora l’atto costitutivo lo preveda, ai soci accomandanti è poi data la possibilità di <dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e sorveglianza>: d’altra parte essi hanno investito parte del loro capitale personale nella società, e per questo motivo i soci possono decidere di dar loro maggiori poteri di controllo rispetto a quelli garantiti per legge.

Il terzo comma dell’articolo 2320 dota infatti ogni socio accomandante del <diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società>. Ai soci accomandanti è quindi precluso quel controllo sociale continuativo che è invece attribuito ai soci che non partecipino all’amministrazione sia nella s.s. sia nella s.n.c. Essi hanno diritto, a meno di espressa previsione nel contratto sociale, solamente ad un tipo di controllo annuale e, secondo Galgano ma non secondo Montalenti, non partecipano neppure alla deliberazione di approvazione del bilancio: secondo il primo, infatti, tale attività può essere considerata come un atto di amministrazione; secondo Montalenti, invece, partecipare alla deliberazione del bilancio non è atto amministrativo, ma solamente di approvazione o meno di un precedente atto amministrativo.

Di sicuro i soci accomandanti hanno, relativamente al bilancio, il potere, una volta ricevuta comunicazione da parte degli amministratori, di impugnarlo per falsità o per violazione.

Ma proprio per il fatto che non partecipino all’approvazione del bilancio, essi non saranno tenuti a restituire gli utili riscossi in buona fede secondo quanto stabilito dal bilancio regolarmente approvato (art. 2321). Se il bilancio è stato regolarmente approvato ed essi si sono comportati in buona fede riscuotendo quanto stabilito che ottenessero, se poi tale bilancio risulta viziato essi non potranno subire nessun tipo di azione di ripetizione.

Deroghe al divieto di immistione dei soci accomandantiIl codice stabilisce il divieto per i soci accomandanti di ingerirsi nell’amministrazione della società:

bisogna però intendere questo termine non come comprensivo di tutti i possibili atti che avvengono all’interno della società: sicuramente essi non possono partecipare alle deliberazioni che determinano modificazioni dell’atto costitutivo o che intervengono nei rapporti tra gli stessi soci (esclusione di un socio a maggioranza, ex. 2287), ma oltre questo limite non sono più discriminati rispetto ai soci accomandatari.

In particolare bisogna dire che essi, per legge, partecipano alla deliberazione con la quale si decide se accettare o meno la cessione della quota di un accomandante. Secondo l’articolo 2322, infatti, la <quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile a causa di morte e, salvo diversa disposizione, la quota può essere ceduta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale>. Dato che la quota del socio accomandante viene intesa più come un bene di scambio che come una partecipazione personale di un determinato socio nella società, la cessione di questa o il suo trasferimento possono avvenire in maniera molto più semplice rispetto alle quote dei soci accomandatari o dei soci delle altre due società di persone. L’ingresso di un nuovo socio accomandatario (quindi anche la cessione della quota o la trasmissione mortis causa) richiede, infatti, modificazione dell’atto costitutivo e, quindi, consenso di tutti i soci accomandatari (a meno che sia stata previsto il requisito della maggioranza). Sempre per volontà dei soci può essere stato stabilito di rendere

39

Page 40: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

intrasmissibile la quota di socio accomandante, di permettere la trasmissione volontaria della stessa senza necessità di alcun tipo di deliberazione o di inserire un diritto di prelazione a favore degli altri soci accomandanti.

Allo stesso modo, ex. art. 2319, <se l’atto costitutivo non dispone diversamente, per la nomina degli amministratori e per la loro revoca (qualora siano stati nominati con atto separato) sono necessari il consenso dei soci accomandatari e l’approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto>. La revoca degli amministratori nominati nell’atto costitutivo, implicando una modificazione dell’atto stesso, è invece affidati ai soli soci accomandatari i quali dovranno deliberare, a meno di giusta causa, all’unanimità.

È sempre fatto salvo il diritto di ciascun socio, anche accomandante, di chiedere giudizialmente la revoca dell’amministratore per giusta causa.

Società in accomandita semplice irregolareSecondo l’articolo 2317 <fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, ai

rapporti fra la società e i terzi si applicano le disposizioni relative alla s.n.c. irregolare. 2. tuttavia per le obbligazioni sociali i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato alle operazioni sociali>.

La s.a.s. irregolare viene quindi appaiata alla s.n.c. irregolare, ma con una fondamentale differenza che consente a questo tipo sociale di conservare il suo tipico dualismo: i soci accomandanti, a meno che siano decaduti dal beneficio della responsabilità limitata per uno dei motivi visti in precedenza (ragione sociale o ingerenza nell’amministrazione), continueranno a rispondere delle obbligazioni sociali limitatamente alla loro quota. Ciò che cambia è, quindi, il rapporto tra i soci accomandatari e i terzi (che potranno agire direttamente sul patrimonio personale a meno di esercizio del diritto di escussione preventiva da parte del socio che indichi i singoli beni sociali su cui il creditore può agevolmente soddisfarsi) e nei confronti dei creditori personali (che avranno la facoltà di chiedere l’esclusione e la liquidazione della quota del socio accomandatario debitore).

Scioglimento e liquidazione della società in accomandita sempliceSecondo l’articolo 2323 <la società si scioglie oltre che per le cause previste nell’articolo 2308

(termine, raggiungimento o impossibilità oggetto sociale, volontà delle parti, pluralità non ristabilita, altre cause previste dal contratto, fallimento e liquidazione coatta), quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempre chè nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno. 2. se vengono a mancare tutti gli accomandatari per il periodo di sei mesi gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. 3. l’amministratore non assume la qualità di socio accomandatario>. L’unica cosa da aggiungere a questo articolo è che l’amministratore provvisorio potrà essere un estraneo o uno dei soci accomandanti della società.

Se rimangono solo soci accomandatari non vi sono problemi relativamente all’amministrazione della società, ma dopo sei mesi, nel caso di mancato ristabilimento della pluralità di tipi soci, questa si dovrà sciogliere oppure si potrà trasformare in una società in nome collettivo irregolare.

Il procedimento di liquidazione è lo stesso della s.n.c. ma, a differenza dei creditori sociali della società in nome collettivo, i creditori sociali della società in accomandita semplice non soddisfatti a seguito della liquidazione potranno, oltre che rifarsi sui liquidatori in caso di loro responsabilità, far valere i loro crediti sia nei confronti dei soci accomandatari sia, a norma dell’articolo 2324, sui soci accomandanti, ma solo entro i limiti della quota di liquidazione e senza che sia obbligatorio escutere prima i soci accomandatari.

LA SOCIETA’ PER AZIONI

NOZIONE DI SOCIETA’ PER AZIONILa società di capitali come tipo di società e come prototipo delle società di capitali

40

Page 41: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La s.p.a. è al tempo stesso un tipo di società, ai sensi dell’art. 2249 c.c., e il prototipo di una serie di tipi societari, ossia delle società di capitali, cui appartengono anche la società in accomandita per azioni e la società a responsabilità limitata; si vedrà in oltre come la disciplina dettata per la s.p.a. costituisca anche il punto di partenza per la regolamentazione delle società cooperative.

Caratteristica della s.p.a. è la limitazione della responsabilità dei soci alla somma o al bene conferito e che è andato a costituire il patrimonio sociale: l’articolo 2325 infatti dispone che <nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio>.

Secondo elemento tipico di questo modello societario è che, ai sensi dell’art. 2426 c.c. <la partecipazione sociale è rappresentata da azioni>

I caratteri della società per azioni: la responsabilità limitataLa società limitata, prevista nella s.p.a. dall’articolo 2325 c.c., comporta che il socio non è

obbligato, patrimonialmente, se non ad eseguire il conferimento determinato nel contratto sociale, e vi è obbligato solamente nei confronti della società. I creditori sociali possono, infatti, rivolgersi solamente alla società e non individualmente verso i singoli soci. L’unica deroga è prevista nel caso in cui i soci siano inadempienti della loro obbligazione nei confronti della società: in questo caso i creditori sociali potranno agire, ai sensi dell’art. 2900, in via surrogatoria nei confronti di essi per assicurare che siano soddisfatte le loro ragioni.

La responsabilità limitata dei soci, conseguenza del fatto che per lo obbligazioni sociali risponda solamente la società, è, rispetto all’intero ordinamento, un beneficio eccezionale: l’articolo 2740.2 infatti sancisce che <le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge>.

A garanzia dei creditori sociali opera, in linea di principio, un correttivo della responsabilità limitata, costituito dalla previsione di un capitale sociale minimo obbligatorio. Una società, per essere tale, dovrà quindi avere un capitale sociale almeno pari a tale somma (attualmente individuata in centoventimila euro) e, qualora esso si riduca, nel corso dell’attività, al di sotto del minimo legale, la società è destinata allo scioglimento a meno che non riesca, come si vedrà, a ristabilirlo. La previsione di un capitale sociale minimo è sempre stata una componente della disciplina delle società di capitali (anche della s.r.l. e della s.a.p.a.), ma il rapporto tra la somma minima richiesta e il volume d’affari medio delle imprese è variato sensibilmente con il trascorrere del tempo. Se nel 1942 il limite minimo di capitale era individuato a un milione di lire, il che corrispondeva a dimensioni che quasi 4/5 delle società a quel tempo non avevano, con il passare del tempo ci si è sempre più avvicinati alle esigenze della media impresa, cui sono stati lentamente estesi, riducendo il minimo di capitale richiesto, tutti i benefici tipici della s.p.a. e della grande impresa.

La traslazione del rischio d’impresa e le società con capitale irrisorioIl beneficio della responsabilità limitata determina un parziale trasferimento del rischio delle

attività economiche da coloro che le svolgono (soci), a coloro che si trovano ad avere rapporti con essi (creditori). Dato che i soci risponderanno solo nei limiti dei loro conferimenti, e la società solamente nei limiti del proprio patrimonio, tutto il credito eccedente tali limiti rimarrà insoddisfatto, indipendentemente dalle disponibilità personali dei soci. Unico modo per ovviare al trasferimento di rischio è ottenere da parte della società adeguate forme di garanzia, come può essere una fideiussione: molto spesso, però, tali garanzie vengono fornite solamente ai creditori economicamente più forti a scapito di tutti gli altri.

Un'altra situazione particolare è quella delle società che si costituiscono con un capitale irrisorio, decisamente sproporzionato rispetto all’attività economica svolta: ciò è possibile per via del fatto che i soci continuano a conferire denaro alle casse della società e che, a favore dei creditori economicamente più forti, vengono riservate garanzia personali da parte dei singoli soci: in questo modo nelle società con capitale irrisorio i soci si trovano molto spesso, almeno nei confronti dei creditori maggiori, nella stessa condizione dei soci illimitatamente responsabili, in quanto garantiscono con il proprio patrimonio personale l’obbligazione societaria. In America le corti federali relativamente alle società con capitale irrisorio hanno da tempo consolidato il principio sulla base del quale il giudice può pronunciare la decadenza dal beneficio della responsabilità limitata.

41

Page 42: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La riforma del 2003 ha affrontato il problema delle società con capitale irrisorio e, in particolare, le situazioni nelle quali il finanziamento da parte dei soci, o della capogruppo, oppure da parte di istituti di credito, determinano gravi danni ai creditori sociali: per ovviare a questo pregiudizio il legislatore della riforma ha disposto, all’articolo 2467 c.c. che <il rimborso del finanziamento dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. […] si considerano finanziamenti dei soci a favore della società quelli che sono stati concessi in un momento in cui risulti un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento>. In questo modo i soci che hanno arrecato pregiudizio ai creditori scegliendo la strada del finanziamento invece che del conferimento, saranno rimborsati solamente dopo che siano stati soddisfatti tutti i creditori sociali.

Il capitale e il patrimonio della societàIl patrimonio sociale, un complesso di beni, è costituito, nel momento della nascita della società,

dall’insieme dei conferimenti eseguiti dai soci; successivamente esso potrà aumentare o diminuire grazie al conseguimento di utili non distribuiti ai soci o di perdite.

Il valore monetario storico costituito dal valore complessivo dei conferimenti promessi (sottoscritti) od eseguiti dai soci è denominato, invece, capitale sociale: ad esso l’art. 2328 n. 4 assegna un ruolo essenziale in quanto prevede che nell’atto costitutivo sia indicato <l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato>. A differenza del patrimonio, il capitale è un’entità rigida: occorre, per modificarlo, una deliberazione assembleare che riformi lo statuto (assemblea straordinaria).

Capitale sociale e patrimonio devono, per legge, tendere a coincidere. Il capitale sociale deve essere, per previsione di legge, interamente sottoscritto da parte dei soci: non è però necessario che essi provvedano immediatamente a liberare tutte le azioni, ossia a versare tutto il conferimento che ci si è obbligati a versare. Il legislatore obbliga infatti i soci a versare, nel momento della sottoscrizione del capitale, almeno il 25% del capitale rappresentato dalle azioni sottoscritte. La parte di capitale sottoscritta ma non versata costituirà quindi un credito della società nei confronti dei soci: il patrimonio sociale sarà quindi costituito, al momento della nascita della società, dai conferimenti eseguiti più un diritto di credito nei confronti dei soci per la parte di conferimento che devono ancora versare. Per fare in modo che i soci provvedano all’adempimento dell’obbligazione assunta con la sottoscrizione del capitale sociale, la società, nelle vesti degli amministratori, dovrà provvedere al c.d. richiamo dei centesimi, ingiungendo ai soci di eseguire la restante parte del conferimento. Tale operazione è di norma facoltativa, ma può divenire inadempimento dell’obbligo di buona amministrazione per gli amministratori qualora la società abbia contratto obbligazioni attingendo e depauperando il patrimonio sociale invece che esigere l’adempimento da parte dei soci. Nel caso in cui un socio ingiunto di conferire quanto sottoscritto non adempia, neppure a seguito di diffida pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, gli amministratori effettueranno la cosiddetta vendita in danno, ossia faranno vendere le azioni del socio inadempiente: e qualora non trovino nessun compratore, dichiareranno il socio moroso decaduto e dovranno procedere alla riduzione del capitale (autonomamente, se previsto, o attraverso una delibera dell’assemblea straordinaria).

Il patrimonio sociale rappresenta, quindi, una garanzia per tutti i creditori della società: in particolare costituisce una garanzia il rapporto che il legislatore prevede tra il capitale sociale e il valore patrimonio sociale: secondo l’articolo 2446 c.c., infatti, <quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenze di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. […] se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio, deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate>.

Se il patrimonio sociale risulta essere per due esercizi successivi inferiore ai 2/3 del capitale sociale, vi è l’obbligo per la società di provvedere alla riduzione del capitale sociale stesso attraverso delibera dell’assemblea ordinaria (e non straordinaria come richiesto di norma per le modifiche dell’atto costitutivo) o del consiglio di sorveglianza (nel caso di regime dualistico). In caso di loro inerzia gli

42

Page 43: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

amministratori e i sindaci, o il consiglio di sorveglianza, devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio.

Il capitale sociale costituisce, infatti, l’espressione monetaria del patrimonio sociale, dell’insieme di beni (mobili, immobili, crediti, etc.) che fanno capo alla società e che, per tale ragione, potranno essere aggrediti dai creditori sociali: sapendo che il patrimonio sociale non potrà mai essere inferiore a meno di un terzo del capitale sociale, che è obbligatorio indicare nell’atto costitutivo, allora i creditori sanno quale sia la garanzia minima su cui possono contare.

Il capitale è, inoltre, il punto di riferimento della partecipazione dei soci alla società: esso è, infatti, suddiviso in azioni: ogni socio ha sottoscritto una quota di capitale e, di conseguenza, un numero di azioni, ed è proprio il numero di azioni sottoscritte, o acquistate, che determinerà l’entità dei diritti patrimoniali (partecipazione agli utili) e amministrativi (voto in assemblea) di ogni socio.

Le azioni come titoli di credito causaliL’articolo 2346. come detto, dispone che <la partecipazione sociale è rappresentata da azioni>.

L’azione è un bene materiale che può formare oggetto di diritti e del quale si può disporre come di qualsiasi altro bene mobile: delle azioni si potrà essere proprietari o possessori, si potranno vendere o acquistare, si potranno donare, permutare e anche costituire in pegno o in usufrutto (art. 2347). L’azione è un bene a se stante, distinto dai beni che formano il patrimonio sociale, ma che rappresenta una porzione del capitale sociale, una sua frazione. Secondo l’articolo 2346 l’azione potrà avere un valore nominale determinato dallo statuto: in assenza di tale indicazione il valore di ogni azione, che dovrà riportare scritto il numero totale delle azioni e il valore del capitale sociale, sarà eguale al quoziente della divisione del capitale sociale per il numero di azioni.

Diverso è il valore reale dell’azione, che essa può assumere nel corso della vita sociale, e che può essere maggiore o minore di quello nominale, in base al rapporto tra patrimonio sociale e capitale.

Nella sua funzione rappresentativa di quote di partecipazione alla società, l’azione è un titolo di credito che differisce dai tradizionali titoli di credito quali l’assegno o la cambiale: l’azione non incorpora solamente un credito, ma anche un fascio di diritti, partecipativi e patrimoniali, ed una serie di obbligazioni che vanno al di là di quanto possa comparire sul documento. Per tale ragione la dottrina parla delle azioni come di titoli di credito causali, e non letterali: la posizione del socio non è limitata a quanto indicato sul titolo stesso, bensì si estende a tutto quanto previsto dallo statuto societario, che è il contratto sottostante all’emissione del titolo stesso. L’azione non è, quindi, un titolo di credito autosufficiente, letterale, come l’assegno o la cambiale, ma sussiste in quanto sussiste la sua causa, ossia il contratto di società in base al quale sono state emesse le azioni.

La totalità delle azioni rappresenta il valore del capitale sociale: è però possibile, come visto, che le azioni sottoscritte non siano interamente pagate: in questo caso si parla di azioni non liberate e tale situazione deve essere riportata sull’azione stessa, in modo da far sapere all’eventuale compratore qual è la condizione del titolo di credito che si appresta a comprare. È però giurisprudenza consolidata che al compratore di un’azione possa essere chiesto di liberare l’azione qualora su di essa non fosse riportato che l’azione non era stata interamente liberata e che nei suoi confronti possa essere dichiarata la decadenza qualora non vi provveda.

I diritti derivanti dal contratto di società sono quindi interamente incorporati dall’azione: il titolare anche solo di un’azione avrà quindi i diritti che spettano, ai sensi dello statuto della società, ad ogni socio. L’art. 2350 disciplina che <l’azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione> mentre per l’art. 2351 <attribuisce il diritto di voto>.

Essendo considerata come bene mobile, l’azione circolerà allora sulla base del principio “possesso vale titolo” espresso dell’articolo 1153 c.c.: chiunque si trovi ad acquistare in buona fede di un’azione e ne diventi possessore potrà dirsene proprietario.

L’ultimo comma dell’art. 2346 ha inoltre introdotto la possibilità per le società di emettere strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o di diritti amministrativi (escluso il diritto di voto in assemblea) che però non sono collegati al capitale sociale e quindi non sono azioni. Esso infatti disciplina che <resta salva la possibilità che la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o di diritti amministrativi, escluso il

43

Page 44: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

voto nell’assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo statuto ne disciplina modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione>

I patrimoni destinati ad uno specifico affareLa riforma del 2003 ha assecondato, in parte, le esigenze della classe imprenditoriale di ottenere che

la responsabilità sia limitata, per ogni singolo affare intrapreso, allo specifico patrimonio ad esso destinato, e di poter più facilmente accedere ai finanziamenti senza che i soci debbano costituire garanzie personali.

Rimedi tradizionali sono rappresentati, nel caso in cui si voglia avere una responsabilità limitata per il singolo affare, nella costituzione di un’apposita società controllata che abbia quello specifico obiettivo e che sia responsabile per le obbligazioni assunte solo nei limiti del suo patrimonio, mentre, nel caso di necessità di ingenti finanziamenti, si ricorre a finanziamenti di terzi garantiti con ipoteche o pegni sui beni sociali.

Per meglio regolare entrambe le situazioni è allora intervenuto il legislatore e sono stati introdotti gli articoli dal 2447-bis al 2447-decies che le rendono possibili anche con strumenti alternativi e meno complessi, ma sempre in presenza di determinati requisiti.

Secondo l’art. 2447-bis <La società può a) costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare; b) convenire che nel contratto relativa al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento siano destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi […] ai sensi della lettera a) non possono essere costituiti patrimoni destinati per un valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società>. In base a questa nuova norma, <delle obbligazioni contratte per realizzare lo specifico affare risponde, in linea di principio, solo il patrimonio ad esso destinato, con esclusione del residuo patrimonio della società>, mentre per quel che riguarda la garanzia dei finanziamenti <il patrimonio destinato allo specifico affare e i frutti o i proventi da esso derivanti non rispondono delle obbligazioni della società>.

Requisito necessario per godere della limitazione della responsabilità nel caso di patrimonio destinato è che <gli atti compiuti in relazione allo specifico affare rechino espressa menzione del vincolo di destinazione, pena, altrimenti, la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti>

Il patrimonio separato, ai sensi dell’art. 2447-ter, si costituisce con apposita deliberazione che deve essere iscritta nel registro delle imprese e produce effetto se, entro sessanta giorni dall’iscrizione, i creditori sociali anteriori non si sono opposti. Per ogni patrimonio di destinazione dovranno essere tenuti separatamente i libri e le scritture contabili. L’articolo 2447-novies dispone, poi che <Quando si realizza ovvero è divenuto impossibile l’affare cui è stato destinato un patrimonio, gli amministratori o il consiglio di gestione redigono un rendiconto finale che, accompagnato da una relazione dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile, deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese>

Nel caso di finanziamento destinato ad uno specifico affare, il patrimonio di destinazione è costituito da tutti, o da parte, dei proventi dell’affare, i quali sono destinati al rimborso del finanziamento stesso: è però necessario che il contratto di garanzia sia depositato in copia presso l’ufficio del registro delle imprese e che i suoi termini essenziali siano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. In base a tale contratto tra finanziatore e società, i creditori sociali non potranno rifarsi sui proventi o sugli utili destinati, e, allo stesso modo, il finanziatore non potrà rifarsi sui beni della società non a lui desinati.

Le società per azioni di diritto speciale: in particolare le società consortiliLa società per azioni rientra sicuramente nel novero delle società, e delle società si applicano tutte i

principi, come quello relativa all’esercizio dell’attività economica. Relativamente alle società per azioni, però, si assiste sempre più alla nascita di contratti indiretti di società con i quali le parti proseguono in forma societaria la realizzazione di interessi estranei alla causa del contratto di società, o perché non intendono esercitare alcuna attività economica o perché non sono mossi dallo scopo di lucro.

44

Page 45: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Se uno di questi casi può essere rappresentato dalla già analizzata società immobiliare di comodo, alla quale, si è visto, viene applicata la disciplina della comunione, vi sono altri casi da analizzare, tra i quali spicca sicuramente quello costituito dalle società consortili: attraverso società costituite a norma del codice civile, più imprenditori istituiscono una organizzazione comune per la disciplina e per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. E tali consorzi, seppur costituiti in forma di società, possono escludere ogni divisione di utili fra i soci. Ci si trova quindi di fronte ad una profonda spaccatura tra forma (società di capitali) e causa della società, ed è lo stesso codice a disporla, all’articolo 2615 ter. In generale si può quindi sostenere che la regola generale, quella espressa dall’art. 2447 c.c. relativa all’esercizio di un’attività economica e allo scopo di lucro, andrà applicata tutte le volte nelle quali il legislatore non abbia ragioni per apportarvi modifiche. E lo stesso, analizzando l’articolo 2615.2 si può dire per quel che riguarda la responsabilità limitata: tale articolo infatti disciplina che <per le obbligazioni assunte da organi del consorzio per conto dei singoli consorziati rispondono questi ultimi solidalmente con il fondo consortile>

L’IMPRESA IN FORMA DI SOCIETA’ PER AZIONILa funzione imprenditoriale nella società per azioni

Se nella figura del socio di società di persone si riproduce la figura classica dell’imprenditore, illimitatamente responsabile per le obbligazioni assunte all’interno dell’esercizio dell’attività economica organizzata e amministratore della società per il solo fatto di essere socio, nel caso delle società per azioni, e in generale per le società di capitali (ad eccezione del socio accomandatario nelle s.a.p.a), si ha non solo il beneficio della responsabilità limitata, ma anche una dissociazione, per legge, tra la qualità di socio e il potere di amministrazione: è amministratore della società solo chi viene nominato tale, socio o non socio, mentre l’unico potere amministrativo sicuramente attribuito ad ogni socio titolare di azioni ordinarie è quello di partecipare alle assemblee e, di conseguenza, anche di nominare o revocare gli amministratori (o del consiglio di sorveglianza se viene adottato il sistema dualistico).

La divisione interna della società fa quindi in modo che la prerogativa di capo dell’impresa non spetti più a ciascun socio, né a tutti i soci: essa è ripartita fra l’assemblea dei soci e l’organo amministrativo (amministratore unico, consiglio di amministrazione, consiglio di sorveglianza).

I soci, quindi, partecipano all’assemblea: la regola base dell’assemblea dei soci è il principio maggioritario: i soci, a norma degli articoli 2368-2369, deliberano non all’unanimità (come di regola previsto per le società di persone), ma a maggioranza dei voti, e le deliberazioni della maggioranza vincolano tutti i soci, anche se non intervenuti o dissenzienti. I voti nell’assemblea sono attribuiti in base al numero di azioni possedute.

Relativamente ai quorum costitutivi e deliberativi delle varie assemblee, ordinarie o straordinarie, si dirà poi in seguito: al momento basta ricordare che il principio generale, nei casi di assemblee ordinarie, prevede che le deliberazioni siano prese a maggioranza del capitale rappresentato in assemblea, il che è determinato da necessità di funzionalità: si vuole infatti evitare che l’assenteismo dei soci possa bloccare il funzionamento dell’assemblea e, conseguentemente, della società.

In questo modo anche in caso di capitale “polverizzato” in migliaia di piccoli azionisti (che formano il c.d. capitale flottante), coloro che hanno invece interesse al buon funzionamento dell’assemblea poiché detengono consistenti quote di azioni, anche non la maggioranza assoluta, possono arrivare a deliberare quanto necessario per la società.

Sempre nel caso di capitale “polverizzato” ci si trova quindi di fronte a due blocchi, maggioranza e minoranza, che non rappresentano solamente delle entità numericamente, ma anche qualitativamente differenti: da un lato infatti vi è il c.d. capitale di controllo, formato dai possessori dei c.d. pacchetti di controllo, che sono tali da assicurare di per se stessi, o in concorso con altri pacchetti azionari, la maggioranza dei voti in assemblea, e, quindi, il comando della società, mentre dall’altro lato si trova il c.d. capitale monetario (di risparmio, flottante..) costituito da una molteplicità di piccoli azionisti che hanno acquistato azioni non per poter controllare la società, quanto come forma di investimento.

La distinzione tra azionisti imprenditori e azionisti risparmiatori non ha una base legislativa, in quanto il codice disciplina che le azioni sono <di ugual valore e conferiscono ai loro possessori eguali diritti>, ma ha particolare importanza quando si analizza la situazione azionaria di una società: non si può

45

Page 46: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

comprendere la realtà di una società per azioni, né la sua disciplina legislativa, se non si guarda a come sono distribuite le azioni.

Una condizione differenziata per la società che fa ricorso al mercato del capitale di rischioLe società per azioni che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio hanno ricevuto, nel corso

degli anni, una disciplina parzialmente differente che ha mirato ad una maggior tutela del risparmiatore. Una prima regolamentazione è stata predisposta dal legislatore nel 1974, ma riguardava solamente il caso di società quotate in una o più borse, e tra le disposizioni principali vi era l’istituzione della Commissione nazionale per le società e la borsa, Consob, con compiti di vigilanza, controllo e informazione.

La riforma del 2003 ha poi ulteriormente ampliato tale disciplina particolare introducendo all’articolo 2325 bis la più vasta categoria delle <società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio>, denominate anche “società aperte”, la quale comprende le società con azioni quotate in mercati regolamentati, ma anche le società cui azioni, sebbene non quotate, sono <diffuse tra il pubblico in misura rilevante> ossia quelle che hanno un patrimonio netto non inferiore a dieci miliardi di lire e con un numero di azionisti superiore a duecento.

Con questa nuova disciplina vengono tutelati sia l’interesse dei risparmiatori-azionisti, sia l’interesse delle grandi imprese ad attingere direttamente al capitale di risparmio senza dover necessariamente ricorrere all’intermediazione bancaria, sia l’interesse generale all’accumulazione, ossia alla trasformazione del risparmio in ricchezza prodotta.

I cardini di questa disciplina specifica sono costituiti da una maggior imperatività delle norme regolatrici, da una più estesa protezione del diritto dell’azionista all’informazione, dalla previsione di una maggior garanzia di veridicità dei bilanci e di più rigorosi controlli sulla regolarità della gestione (necessariamente affidati ad una società di revisione), dall’introduzione di specifici strumenti di tutela delle minoranze (come la legittimazione di appena 1/20 del capitale sociale di esercitare un’azione sociale di responsabilità) e dall’adozione di una serie di correttivi atti a garantire la funzionalità dell’attività sociale, la certezza e la stabilità delle decisioni nonostante l’elevato numero di soci (si pensi alla previsione di una soglia minima di capitale per impugnare la deliberazione e alla conversione del diritto di impugnare, in assenza di tale requisito, nel diritto al risarcimento dei danni).

La società per azioni come contratto e come istituzioneAlcune norme del c.c. regolando il rapporto tra soci e società fanno riferimento al concetto di

“interesse della società”: tra le altre si pensi all’articolo 2373 relativo al conflitto d’interesse tra soci e società o all’articolo 2441 che permette l’esclusione del diritto di opzione per i vecchi soci, oltre ad altri casi specifici, solo quando l’interesse della società lo esige.

Da tempo due orientamenti contrapposti si fronteggiano per dare contenuto al concetto di “interesse della società”. Troviamo quindi la teoria istituzionalisitica alla quale si contrappone la teoria contrattualistica della società per azioni.

Secondo la teoria istituzionalistica l’interesse della società sarebbe qualcosa che trascende l’interesse personale di ciascun socio e si identifica nell’interesse dell’impresa in sé. Per questo motivo una società per azioni dovrebbe essere dotata di un organo direttivo, gestionale, molto forte, capace di perseguire gli interessi della società e non dei soci, i quali mirerebbero esclusivamente alla distribuzione degli utili. Contemporaneamente la teoria in questione sostiene l’esistenza di un interesse proprio dell’intera collettività nazionale, interesse di fronte al quale ogni particolarismo deve soccombere, e che deve essere controllato, almeno per quel che riguarda il rispetto delle regole di funzionamento del sistema, in maniera rigida dallo stato, senza lasciar spazio al libero e incontrollato gioco delle parti.

All’opposto la teoria contrattualistica della s.p.a. sostiene che, in quanto frutto di un contratto tra i soci, non vi possa essere altro interesse al di là di quello “tipico” del socio “medio”. L’interesse sociale non potrebbe quindi essere riferito ad altri che ai componenti della società stessa (per alcuni anche dei soci futuri): i soci di maggioranza potranno quindi liberamente determinare l’interesse sociale, ma nei limiti della causa del contratto di società.

Nessuna delle due teorie sembra poter essere in grado di dare adeguata ragione all’attuale realtà delle società per azioni: ognuna delle due infatti è tale da giustificare alcuni degli elementi e degli

46

Page 47: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

istituti che attualmente le caratterizzano, ma non tutti. La teoria contrattualistica, che all’apparenza sembra quella in grado di spiegare meglio la società in quanto nascente da un contratto, non è infatti in grado di spiegare alcuni fenomeni recenti quali il consiglio di sorveglianza che, a metà strada tra il consiglio di gestione e l’assemblea dei soci, deve contemperare le esigenze dei primi con quelle dei secondi, e viceversa, rifacendosi, secondo alcuni, ad un interesse della società che trascende quello di entrambi gli organi societari.

Allo stesso modo sembra sintomo di una concezione istituzionalistica il riconoscimento del potere di iniziativa al pubblico ministero di fronte alle “gravi irregolarità” commesse, nell’adempimento dei loro doveri, dagli amministratori di società per azioni: ciò dimostrerebbe l’esistenza di un interesse ulteriore rispetto a quello dei soci.

Un’altra manifestazione del carattere istituzionalistico della società appare essere il riconoscimento della legittimazione ad impugnare le deliberazioni invalide, oltre che ai soci assenti e dissenzienti, anche agli amministratori e ai sindaci: quindi l’interesse alla legalità delle deliberazioni non sarebbe un interesse del quale i soci possono liberamente disporre. Qualora essi approvino all’unanimità una delibera contraria alla legge, o nel caso in cui nessuno di loro la impugni, gli amministratori e i sindaci hanno infatti l’obbligo, e non solo la facoltà, di impugnarla.

Escluso dal controllo degli amministratori, dei sindaci e anche del pubblico ministero è però il contenuto della deliberazione e la libertà di voto di ogni singolo socio: essi sono legittimati a dare alla società l’indirizzo che vogliono, in quanto la legge pone solamente dei vincoli di forma e non di contenuto.

La società d’azioni unipersonaleLa riforma del 2003, al fine di incentivare le iniziative imprenditoriali, ha assecondato la crescente

aspirazione alla responsabilità limitata, giungendo sino ad ammettere la possibilità che una società di capitali (s.p.a. o s.r.l.) non debba necessariamente nascere da contratto plurilaterale, ma possa anche essere fondata con atto unilaterale. Inoltre, sempre il legislatore ha previsto, a differenza di quanto disposto in ambito di società di persone, che nel caso in cui venga meno la pluralità dei soci, essa non debba essere necessariamente ricostituita, potendo una società plurilaterale trasformarsi, nel corso della sua vita, in società unilaterale.

Ai sensi dell’articolo 2328 l’unico socio può quindi essere il fondatore della società, la quale si costituirà, come detto, per atto unilaterale. L’articolo 2362 invece stabilisce che l’unico socio possa essere colui nelle cui mani si concentra, in un momento successivo alla nascita della società la totalità delle azioni.

In ogni caso si applicano le norme sui contratti in generale, tra le quali quella che obbliga all’esecuzione in buona fede del contratto.

Perché l’unico azionista possa fruire del beneficio della responsabilità limitata occorre, però:• Che siano stati eseguiti per intero i conferimenti in danaro, o alla sottoscrizione dell’atto

costitutivo (nel caso di unico socio fondatore, ex. art. 2342.2) oppure, nel caso di successiva concentrazione delle azioni in unica mano, entro 90 giorni (art. 2342.4);

• Che gli amministratori della società, o lo stesso socio unico, abbiano depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese una dichiarazione contenente le generalità dell’unico socio (fondatore o sopravvenuto). Stesso provvedimento deve essere preso nel caso in cui muti la persona dell’unico socio (ex. art. 2362.1). Se l’unico socio è una persona fisica la dichiarazione deve contenere l’indicazione di nome, cognome, data e luogo di nascita, domicilio e cittadinanza, mentre se si tratta di una persona giuridica devono essere indicati la denominazione, la data e lo Stato di costituzione e la sede.

Tutto ciò, insieme all’obbligo di indicare il carattere unipersonale anche nella corrispondenza (quindi da s.p.a. si passerà alla denominazione s.p.a. unipersonale), risponde alla necessità di informare i terzi sia di ciò sia dell’identità dell’unico socio (il che avvicina la società di capitali ad una società di persone nella quale prevale l’elemento dell’intuitu personae).

Se tutte queste condizioni non vengono adempiute, il singolo socio non godrà del beneficio della responsabilità limitata per tutte le obbligazioni assunte dal momento del passaggio a società

47

Page 48: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

unipersonale (o della sua costituzione) sino al momento del loro adempimento: ciò vuol dire che per le azioni assunte a seguito dell’adempimento delle condizioni richieste dal codice, o a seguito della ricostituzione della pluralità dei soci, ogni socio risponderà solo nei limiti dei conferimenti, mentre chi è stato socio unico continuerà a rispondere illimitatamente per le obbligazioni assunte nel periodo precedente. La responsabilità illimitata dell’unico azionista non viene ovviamente presa in considerazione nel caso in cui il patrimonio sociale sia sufficiente per soddisfare i creditori.

Una peculiarità delle società di capitali con un unico socio è che i contratti stipulati tra la società e l’unico socio non sono opponibili ai creditori sociali se non sono trascritti nel libro delle adunanze del consiglio di amministrazione o, nel caso di amministratore unico, se non risultano da atto avente data certa antecedente al pignoramento. Ciò perché in queste situazioni ci si trova di fronte a veri e propri contratti con se stesso ed il legislatore ha voluto evitare che, attraverso questo escamotage, l’unico socio potesse creare pregiudizi ai creditori sociali.

COSTITUZIONE DELLA SOCIETA’L’atto costitutivo e il suo contenuto

Secondo un’antica, e tuttora diffusa, prassi, il contratto, o l’atto unilaterale, di società per azioni risulta da due separati documenti: l’atto costitutivo, nel quale è manifestata la volontà di dare vita al rapporto sociale, e lo statuto, contenente le norme di funzionamento della società.

Secondo l’articolo 2328.3, le disposizioni dell’uno e dell’altro documento compongono, tuttavia, un unitario atto giuridico: è infatti sancito che <lo statuto contenente le norme relative al funzionamento della società, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo>. Ciò che conta, indipendentemente dall’unicità o molteplicità degli atti, è che essi contengano il contenuto essenziale previsto dal secondo comma dell’articolo 2328 c.c., e comprendente:

1. le generalità dei soci e degli eventuali promotori, il luogo di nascita dei soci persone fisiche o il luogo di costituzione per i soci persone giuridiche, il loro domicilio o la sede e la loro cittadinanza, il numero di azioni assegnate a ciascuno di essi;

2. la denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie: a differenza delle società di persone, la denominazione sociale trova l’unico limite nel rispetto dell’ordine pubblico e del buon costume, senza obbligo di indicare il nome di uno dei soci. L’indicazione della sede sociale e delle eventuali sedi secondarie ha la funzione di indicare presso quale registro delle imprese debba essere iscritta la società, quale sia il tribunale competente per le controversie in cui la società sia parte e, inoltre, per determinare gli usi applicabili nell’interpretazione dei contratti;

3. l’attività che costituisce l’oggetto sociale: ossia la specie di attività economica chi ci si propone di esercitare. Tale indicazione non può essere generica od omnicomprensiva, in quanto la sua indicazione vale a limitare la sfera dei poteri degli organi sociali e, in particolare, degli amministratori, i quali possono compiere, ai sensi dell’art. 2380-bis <le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale>, e dell’assemblea, che non potrà mai deliberare una singola operazione estranea all’oggetto sociale senza aver prima provveduto alla modifica dell’atto costitutivo;

4. l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato: per costituire validamente una società per azioni occorre che sia stato sottoscritto per intero il capitale sociale, mentre è sufficiente che sia stato versato presso una banca il venticinque per cento dei conferimenti in danaro. Le azioni per le quali non sia stato interamente versato quanto sottoscritto si dicono “non interamente liberate” e debbono recare menzione dell’ammontare dei versamenti parziali in modo tale che l’acquirente ne sia a conoscenza. Infatti, essendo l’azione un titolo causale e non letterale, la società potrà chiedere all’acquirente i versamenti ancora dovuti anche qualora il titolo non rechi menzione del fatto che si tratta di azione non liberata e potrà, in caso di mancato adempimento, dichiararne la decadenza dalla qualità di socio;

5. il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di emissione e circolazione: le azioni rappresentano la più piccola parte del capitale sociale. La somma di tutte le azioni non potrà mai superare il capitale sociale, ma è possibile che le

48

Page 49: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

azioni vengano emesse con un sovrapprezzo che andrà prima a colmare la riserva legale e poi, eventualmente, potrà essere distribuito come utile;

6. il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura: l’articolo 2342 disciplina che <se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in denaro>, lasciando aperta la possibilità per i soci di conferire anche beni diversi dal denaro qualora ciò sia previsto. Ogni conferimento di crediti o di beni in natura deve però essere accompagnato da una stima giurata di un esperto designato dal tribunale, tale da attestare che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale. Se in sede di stima il valore risulterà inferiore di oltre un quinto a quello risultante dalla stima, allora dovrà essere proporzionalmente ridotto il capitale sociale e dovranno essere annullate le azioni che risultino scoperte. Le azioni corrispondenti a conferimenti in natura o di crediti devono essere interamente liberate al momento della sottoscrizione (art. 2342.3) e, fino al controllo della stima, tali azioni sono inalienabili e devono restare depositate presso la società (art. 2343.3). Il passaggio dei rischi relativi ai beni in natura conferiti alla società viene regolato dalla stessa disciplina che regola i conferimenti in natura nelle società di persone (artt. 2254-2255). Il socio che conferisce un credito risponde della insolvenza del debitore solo qualora abbia assunto tale garanzia e solo nei limiti di quanto ha ricevuto: tale garanzia cessa, in ogni caso, qualora l’inadempimento sia dipeso da negligenza del cessionario. L’atto costitutivo può anche prevedere che i soci, o alcuni di essi, eseguano delle prestazioni accessorie, ulteriori rispetto al conferimento in denaro: tali prestazioni, di cui deve essere determinato il contenuto, la durata, le modalità, il compenso e le sanzioni in caso di inadempimento, non sono legate al socio, bensì alle azioni che egli detiene, quindi l’obbligazione di prestazioni accessorie deve essere menzionata nelle azioni alle quali è connessa. Vi è quindi un rapporto tra prestazione e atto costitutivo, di modo che le modifiche di tali obbligazioni devono essere deliberate dall’assemblea all’unanimità (in quanto è un rapporto inerente alla realizzazione della causa del contratto). In più, sempre per tali ragioni, si ritiene che l’inadempimento sia giusta causa di esclusione dalla società. La previsione di prestazioni accessorie connesse ad azioni sociali avvicina notevolmente il socio di società di capitali al socio d’opera della società di persone.

7. le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti: in realtà l’articolo 2433 stabilisce che sia l’assemblea che approva il bilancio a determinare se ed in che misura gli utili siano distribuiti: ci si chiede allora se si possa preventivamente derogare alla competenza dell’assemblea attribuendo tale potere all’atto costitutivo.

8. i benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori: l’atto costitutivo può prevedere particolari benefici a coloro che abbiano dato vita al contratto di società, sottoscrivendolo, o ai promotori: sono considerati promotori coloro che, senza essere parte del contratto sociale, hanno agito in maniera tale da favorire la costituzione della società stessa. A loro può essere riservata una privilegiata partecipazione agli utili, ma non superiore ad 1/10 degli utili netti risultanti dal bilancio e per non più di cinque anni. Nessun altro beneficio può essere dai soci fondatori attribuito a se stessi od ai promotori;

9. il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e il loro poteri, indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società;

10. il numero e i componenti del collegio sindacale;11. la nomina dei primi amministratori e sindaci e, quando previsto, del soggetto al quale è

demandato il controllo contabile;12. l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico

della società;13. la durata della società, ovvero, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo

di tempo, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio potrà recedere.

I modi di formazione del contratto

49

Page 50: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La formazione dell’atto costitutivo può avvenire contemporaneamente con la dichiarazione di volontà dei singoli contraenti oppure può essere il punto di arrivo di una fattispecie a formazione progressiva nella quale dei soggetti, i c.d. promotori, raccolgono una dopo l’altra le sottoscrizioni dei futuri soci, fino ad arrivare al raggiungimento del capitale indicato.

Secondo l’articolo 2333 c.c. <la società può essere costituita anche per mezzo di pubblica sottoscrizione sulla base di un programma che ne indichi l’oggetto e il capitale, le principali disposizioni dell’atto costitutivo e dello statuto, l’eventuale partecipazione che i promotori si riservano agli utili e il termine entro il quale deve essere stipulato l’atto costitutivo>. Ottenute le sottoscrizioni, che devono risultare da atto pubblico, i promotori, secondo quanto disposto dall’art. 2334 <con raccomandata o nella forma prevista dal programma, devono assegnare ai sottoscrittori un termine non superiore ad un mese per fare il versamento prescritto. Decorso inutilmente questo termine è in facoltà dei promotori di agire contro i sottoscrittori morosi o di scioglierli dall’obbligazione assunta. Qualora i promotori si avvalgano di questa facoltà, non può essere costituita la società prima che siano collocate le azioni che quelli avevano sottoscritte. Salvo che il programma stabilisca un termine diverso, i promotori, nei venti giorni successivi al termine fissato per il versamento predetto dal primo comma del presente articolo, devono convocare l’assemblea dei sottoscrittori mediante raccomandata>. A questo punto convocheranno la c.d. assemblea costituente, la quale, secondo la disciplina dell’art. 2335 <accerta l’esistenza delle condizioni richieste per la costituzione della società; delibera sul contenuto dell’atto costitutivo e dello statuto; delibera sulla riserva di partecipazione agli utili fatta a proprio favore dai promotori; nomina gli amministratori, i membri del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto cui è demandato il controllo contabile>. Il voto sarà preso a maggioranza, e non all’unanimità altrimenti l’adesione all’offerta pubblica fatta dai promotori (la sottoscrizione) risulterebbe essere un contratto cui contenuto deve essere determinato da un successivo accordo tra le parti, il che ne determinerebbe l’impossibilità di venire ad esistenza. Per lo stesso motivo l’assemblea costituente non può modificare il contenuto del programma sottoscritto, in quanto su di esso si è già formato l’accordo delle parti.

A norma dell’art. 2328.2 la società per azioni deve costituirsi per atto pubblico, a pena di nullità (ex. 1325.4). Dato lo stretto legame legislativo che si instaura tra atto costitutivo è statuto, anche per il secondo è richiesta la forma di atto pubblico.

Le ulteriori fasi del procedimento costitutivo della società per azioniUna volta formato l’atto costitutivo al cospetto di un notaio, lo stesso deve procedere, entro venti

giorni, al deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, allegando i documenti che comprovano l’avvenuto versamento del 25% dei conferimenti in danaro, la stima dei valori dei beni conferiti in natura o dei crediti e le eventuali autorizzazioni amministrative che in alcuni casi sono richieste per via della natura dell’oggetto sociale.

L’articolo 2330.2 dispone che <se il notaio o gli amministratori non provvedono al deposito nel termine di venti giorni, ciascun socio può provvedervi a spese della società>.

L’ufficio del registro delle imprese ha il solo compito di controllare la regolarità formale della documentazione, mentre starà al notaio rogante effettuare il controllo della regolarità sostanziale. Una volta passato il vaglio di regolarità formale, l’ufficio del registro delle imprese provvederà ad iscrivere la società nel registro.

L’iscrizione nel registro delle imprese pone fine al procedimento di costituzione della società: per legge quest’ultimo adempimento non può avvenire dopo 90 giorni dalla stipulazione dell’atto costitutivo.

Ma l’iscrizione nel registro delle imprese non ha per le società di capitali la stessa funzione dichiarativa che aveva nelle società di persone: essa infatti ha, per la società per azioni, efficacia costitutiva. Senza iscrizione nel registro delle imprese, la società non viene ad esistenza. Contro tale tesi c’è chi ha sostenuto, seguendo il dettato normativo dell’art.2331, che la società per azioni acquisterebbe, con l’iscrizione, soltanto la personalità giuridica e che, quindi, potrebbe esistere anche senza di essa. Ma il fatto che il secondo comma dello stesso articolo disponga che per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito, chiarisce il fatto che non si può parlare di società per azioni prima della sua iscrizione: mancano infatti sia il beneficio della responsabilità limitata sia la divisione del

50

Page 51: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

capitale sociale in azioni. Manca inoltre un carattere tipico di qualunque società, anche della società semplice, ossia il patrimonio sociale.

Tale conclusione determina, tra le altre conseguenze, che il perimento del bene in natura conferito ricadrà sul socio conferente fino al momento dell’iscrizione della società nel registro delle imprese e che, allo stesso modo, i creditori personali potranno rifarsi su di esso senza che possa essere opposto l’avvenuto conferimento, qualora manchi l’iscrizione.

Nel caso quindi di sopraggiunta perdita del bene originariamente conferito, prima dell’iscrizione della società, il rischio ricadrà esclusivamente sul socio: non si dovrà mutare il capitale sociale, bensì il socio in questione sarà tenuto ad effettuare un versamento in denaro pari al valore del bene andato perduto.

L’efficacia dello statuto: i patti parasocialiIl contratto di società per azioni non crea un vincolo dotato di efficacia puramente interna: esso

infatti rientra tra quei contratti cui la legge, ex. art. 1372.2 c.c., attribuisce efficacia anche nei confronti dei terzi. Secondo la legge sono quindi opponibili ai terzi tutte le pattuizioni tra i soci tali da formare l’atto costitutivo o lo statuto della società: tutte le altre pattuizioni, che non siano tali da rientrare nella previsione dell’art. 2328 c.c., non avranno efficacia esterna, ma vincoleranno solamente i soci che li abbiano contratte. Tali accordi con efficacia obbligatoria solamente interna ai soci sono chiamati patti parasociali: essi non vincolano né i successivi acquirenti delle azioni, né gli eredi del socio, né tanto meno i sottoscrittori di nuove azioni, i terzi e la società. Le azioni in violazione di un sindacato di blocco da parte di un suo aderente saranno perfettamente valide nei confronti della società, e potranno portare esclusivamente all’eventuale risarcimento del danno nei confronti delle altre parti del patto parasociale.

Il contratto sociale, e lo statuto societario, sono quindi opponibili ai terzi che siano entrati in contatto con gli amministratori della società, ai terzi acquirenti delle azioni, in quanto aventi causa dei soci (quindi subentra alle stesse condizioni del dante causa e gli potrà essere opposta una clausola di gradimento o una clausola di prelazione), ma anche nei confronti dei nuovi soci: in particolare in quest’ultimo caso ci si è interrogati sull’opponibilità al terzo nuovo socio di un contratto che egli non abbia sottoscritto e si è giunti alla conclusione in base alla quale la delibera di aumento di capitale formulata dall’assemblea vale come proposta contrattuale e, in particolare, come offerta al pubblico contenente tutte le clausole dello statuto e dell’atto costitutivo: la sottoscrizione dell’aumento di capitale equivarrebbe quindi all’accettazione dell’offerta e di tali atti.

Alcuni hanno opposto a tale affermazione l’articolo 1341.1 relativo alle condizioni generali predisposte da uno dei contraenti, il quale ne subordina la validità alla conoscenza o quantomeno alla conoscibilità da parte dell’avente causa, e l’articolo 1341.2 il quale subordina la validità delle c.d. clausole onerose alla specifica approvazione: si deve però ritenere che entrambi i commi dell’articolo 1341 non siano applicabili relativamente all’atto costitutivo e allo statuto sociale. Nel primo caso infatti si sostiene che, essendo le clausole contenute all’interno dell’atto costitutivo della società, l’acquirente non possa addurre di averle ignorate, in quanto avrebbe dovuto, in base alla normale diligenza, provvedere a visionare lo statuto; nel caso di clausole onerose, invece, la giurisprudenza ha affermato, relativamente alla validità della clausola compromissoria contenuta nello statuto (clausola che determina la sottoposizione ad arbitri delle liti endosocietarie), che essa sia valida anche per i nuovi soci indipendentemente dalla sua specifica sottoscrizione.

Tornando ai patti parasociali si deve dire che non necessariamente devono essere stipulati tra tutti i soci, ma possono intercorrere anche da gruppi e sono destinati a regolare il successivo comportamento di soci della società. Contenuti tipici dei patti parasociali sono, tra gli altri, l’assunzione da parte dei soci dell’impegno di deliberare, a scadenze prestabilite, aumenti di capitale di prestabilito ammontare, oppure di ripartire utili con criteri diversi dal criterio legislativo o ancora l’impegno di riconfermare nella carica di amministratore, allo scadere del triennio, la medesima persona.

Le ipotesi più importanti di patti parasociali sono quelle che rientrano sotto il nome di sindacati sociali: la riforma del 2003, e in particolare l’articolo 2341-bis, hanno delineato le caratteristiche di tre differenti tipi di sindacati, a) il sindacato di voto, b) il sindacato di blocco e c) il sindacato di concertazione.

51

Page 52: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

a) Si parla di sindacato di voto quando i <patti hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nella società per azioni o nelle società che le controllano>. Attraverso tali patti i componenti del sindacato si possono impegnare o a consultarsi prima di ogni assemblea oppure a votare in assemblea in modo conforme a ciò che è stato preventivamente determinato dalla maggioranza dei componenti il sindacato

b) I patti parasociali che creano un sindacato di blocco <pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano>: attraverso di essi si mira quindi alla stabilizzazione degli assetti proprietari cercando di impedire l’entrata in società o l’avverarsi di scalate ostili da parte di azionisti non sgraditi.

c) Il patti di concertazione <hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società>: per mezzo di tali accordi più soggetti si accordano per compiere azioni tali da ottenere od esercitare congiuntamente il controllo, di fatto, sulla società. Si parla di patto di concertazione quando più imprenditori si accordano per acquistare un pacchetto di controllo della società in modo da poterla dirigere, senza però arrivare al controllo di diritto.

L’articolo 2341-bis pone però anche dei limiti alla validità dei patti parasociali: esso infatti sancisce che <non possono avere durata superiore a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore; i patti sono rinnovabili alla scadenza>. Attraverso tale disposizione il legislatore ha cercato di trovare il punto di equilibrio tra l’interesse alla stabilità sociale e il diritto alla libertà di voto o alla libera negoziazione delle azioni che vengono sacrificati da tali patti. In questo modo un socio non potrà impegnarsi per più di cinque anni e allo scadere di tale periodo potrà sempre decidere di non rinnovare la sua partecipazione. Inoltre, a maggior tutela della libertà di ciascun socio, è stabilito che <qualora il patto non preveda un termine di durata, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di sei mesi>.

Sono poi esclusi dall’ambito di applicazione del 2341 <i patti strumentali ad accordi di collaborazione nella produzione o nello scambi di beni o servizi e relativi a società interamente possedute dai partecipanti all’accordo>. Non sono quindi considerati patti parasociali, e a loro non si applicheranno le suddette limitazioni, gli accordi di joint venture stipulati tra la società e un’altra società interamente posseduta dai partecipanti all’accordo.

L’articolo 2341-ter impone poi la pubblicità dei patti parasociali nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: essi dovranno infatti <essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea con dichiarazione che deve essere trascritta nel verbale>. La sanzione prevista in caso di mancata dichiarazione è molto forte, infatti il secondo comma dello stesso articolo sancisce che <in caso di mancanza di dichiarazione prevista dal comma precedente i possessori delle azioni cui si riferisce il patto parasociale non possono esercitare il diritto di voto e le deliberazioni assembleari adottate con il loro voto determinante sono impugnabili ai sensi dell’art. 2377>.

Il potere di impugnazione spetta, in questo caso, anche alla Consob (in quanto deve essere avvisata entro 5 giorni dalla stipulazione del patto parasociale), ed è esperibile indipendentemente dal fatto che i componenti del patto parasociale non dichiarato abbiano votato secondo quanto previsto dall’accordo interno o in contrasto con esso: ciò che conta è, infatti, che abbiano esercitato il loro diritto al voto e che esso sia stato determinante, sia esso stato espresso in conformità con il patto o meno.

Per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio non c’è l’obbligo di pubblicità, ma questo non vuol dire che siano validi i patti parasociali segreti: essi saranno infatti nulli perché diretti ad occultare le situazioni di controllo azionario. Il socio parte di un patto parasociale nullo potrà quindi esercitare il proprio diritto (di voto o di alienazione) liberamente, senza rischiare di incorrere in nessun tipo di risarcimento per danni.

Sono in ogni caso nulli i patti parasociali che impegnano i soci a votare per arrecare nocumento all’interesse sociale e i patti parasociali che attribuiscono, indirettamente, efficacia esterna al vincolo di voto (come ad esempio il patto che prevede, nel caso di suo inadempimento, l’acquisto dea parte del socio maggioritario, per un prezzo predeterminato, delle azioni del socio di minoranza).

La nullità dell’atto costitutivo

52

Page 53: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’articolo 2332 c.c., rubricato “Nullità della società” pone norme particolari che derogano ai principi generali sui contratti, in quanto limita a tre il numero dei casi nei quali può essere dichiarata la nullità del contratto sociale. Come ulteriore deroga dei principi comuni, il codice dispone che le cause di nullità si trasformino in altrettante cause di scioglimento della società (infatti ai sensi del quarto comma, <la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori>), con efficacia ex nunc e non ex tunc, non andando quindi a pregiudicare l’efficacia degli atti compiuti medio tempore in nome della società (art. 2332.2), e non facendo venir meno, ai sensi del 3° comma, l’obbligo dei soci di conferire quanto sottoscritto fino a quando non siano soddisfatti i creditori sociali. Non sarà poi possibile dichiarare la nullità <quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con l’iscrizione nel registro delle imprese>: i principi generali, invece, escludono che la nullità di un contratto possa essere sanata.

Tale conversione delle cause di nullità dell’atto costitutivo in cause di scioglimento della società trova sicuramente le sue ragioni nella preferenza del legislatore nei confronti degli interessi dei creditori sociali rispetto agli interessi dei soci: viene infatti meno una possibile remora per i terzi, i quali, contrattando con la società, non devono temere di perdere le proprie garanzie nel caso in cui il suo atto costitutivo venga dichiarato nullo.

Per tali motivi la possibilità di pronunciare la nullità della società in epoca successiva all’iscrizione nel registro delle imprese viene limitata a tre soli casi:

a) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblicob) illiceità dell’oggetto socialec) mancanza nell’atto costitutivo o nello statuto di ogni indicazione riguardante la

denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale, o l’oggetto sociale.

Ogni altra possibile anomalia dell’atto costitutivo, anche se consistente nella violazione di norme imperative, è definitivamente sanata con l’iscrizione della società nel registro delle imprese (si ricordi che prima di questa ci sarà il vaglio sostanziale da parte del notaio rogante ed il vaglio formale da parte dell’ufficio dei registro delle imprese)

Relativamente all’oggetto sociale, menzionato sia al secondo sia al terzo punto, si deve dire che vi potrà essere impugnazione per nullità solamente qualora l’illiceità risulti dallo statuto e non solamente dall’esercizio di fatto da parte della società, a meno che l’oggetto riportato nello statuto non sia indicato esclusivamente per dissimulare un diverso ed illecito oggetto ab origine voluto dai soci.

Come anche in altri casi precedentemente analizzati, le ragioni di tutela dei terzi alla certezza giuridica dei rapporti stretti con la società si aggiunge la volontà di tutelare l’interesse della società per azioni (o della società di capitali in generale) e dei ceti imprenditoriali che normalmente operano attraverso di essa: grazie alla tipicità dei casi di nullità del contratto sociale si dà infatti una maggior certezza al mercato e si tutela l’interesse a stipulare il maggior numero possibile di contratti.

SOCIETA’ DI CAPITALI E PERSONALITA’ GIURIDICALa società e lo schermo della personalità giuridica

L’articolo 2331 dispone che <con l’iscrizione nel registro delle imprese la società acquista la personalità giuridica>: a ben vedere, come detto anche in precedenza, tale articolo si esprime però erroneamente. Prima dell’iscrizione nel registro delle imprese non si può infatti parlare di società. Dire che la società per azioni acquista la personalità giuridica con l’iscrizione vuole in realtà dire che da quel momento in avanti si applicherà la disciplina della s.p.a., in quanto essa assume efficacia costitutiva.

Particolarmente rilevanti sono i dibatti relativi all’utilizzazione della società di capitale come mero schermo di copertura dell’attività di un’attività imprenditoriale in proprio di un socio e il concetto di abuso della personalità giuridica.

Relativamente al primo ambito è stato più volte sentenziato dalle corti di legittimità che, qualora un socio usi la società come una cosa propria, degradando la società a mero strumento e perpetrando anche la confusione dei patrimoni, si dovranno allora applicare le norme relative alla società di persone, condannando, in caso di fallimento della società, anche il socio in questione.

53

Page 54: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’abuso della personalità giuridicaUna fattispecie particolarmente diffusa è la finzione di gruppo: essa consiste nel dar vita ad una

pluralità di società di capitali, le cui azioni o quote appartengono ai medesimi soggetti, al solo scopo di eludere l’applicazione di norme imperative di legge, come ad esempio le norme sul licenziamento dei dipendenti.

Avere più società separate, una per ogni singolo affare, è lecito ed è uno dei mezzi utilizzati per cercare di limitare che l’andamento negativo di un affare influisca su tutti gli altri: qualora l’autonomia soggettiva della singola impresa sia stata creata artificialmente, allo scopo fraudolento di fare apparire frazionata una situazione in realtà unitaria, non si dovrà più parlare di soci, ma di imprenditori individuali (in questo modo chi, essendo socio unico di più società a responsabilità limitata, provveda ai pagamenti di una con denaro prelevato dai conti correnti delle altre, sarà allora considerato imprenditore individuale e fallirà anch’egli nel caso di fallimento delle società –caso del signor Faccenda-).

La repressione dell’abusoChi abusi della personalità giuridica e dei suoi benefici, in realtà non fa altro che abusare dei diritti

che da essa conseguono: reprimere l’abuso della personalità giuridica allora vorrà dire punire l’abuso di un diritto, disconoscendolo. Secondo i giudici di common law, società e soci andranno tenuti separati e distinti fino a quando non vi sia un ragionevole motivo per fare il contrario e squarciare il velo della società di capitali.

Anche nel nostro ordinamento si assiste frequentemente all’elusione di norme imperative attraverso la costituzione di società di capitali che esercitino attività altrimenti vietate al singolo: in tutti questi casi bisognerà cercare di eliminare l’abuso del diritto, anche a costo di vedere nella società un mero schermo a tutela di soci che, nella pratica, hanno agito come soci di società di persone.

LE AZIONIAzioni al portatore e azioni nominali

L’azione è un titolo di credito causale che incorpora la partecipazione sociale, ossia le qualità di socio. Non essendo un titolo letterale, all’emittente spetteranno, anche nei confronti dei successivi acquirenti, le azioni e le eccezioni nascenti dal contratto sociale, quantunque non riportate sull’azione stessa. Il capitale sociale deve essere necessariamente rappresentato da azioni, ma l’articolo 2346 riconosce la facoltà di disporre, per clausola dello statuto, che non si attribuiscano materialmente ai soci i titoli delle azioni.

L’azione è la frazione minima del capitale sociale ed è perciò indivisibile.Possono essere emesse azioni con indicazione del valore nominale determinato dallo statuto: in tal

caso tutte le azioni debbono, senza eccezioni, essere emesse per il medesimo valore.Possono essere emesse, a seguito della riforma del 2003, anche azioni senza indicazione del

valore nominale, recanti l’indicazione del numero complessivo delle azioni emesse e del capitale sociale, in modo che il valore nominale di ciascuna azione si ricava dividendo il capitale sociale per il numero di azioni emesse (art. 2346.3).

L’emissione di azioni senza indicazione del valore nominale rende più facile il procedimento di aumento di capitale mediante imputazione a capitale di riserve: in questo modo infatti si aumenta il capitale senza dover emettere nuove azioni da assegnare gratuitamente agli azionisti e senza dover aumentare il valore nominale delle singole azioni

A ciascun socio è assegnato, salva diversa disposizione statutaria, un numero di azioni proporzionale alla parte di capitale sottoscritta e per un valore non superiore al valore del suo conferimento. Il capitale sociale, espresso in azioni, non potrà infatti mai essere superiore al valore dei conferimenti.

L’articolo 2354.3 dispone che l’azione deve necessariamente contenere: denominazione e sede della società; data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e indicazione dell’ufficio del registro delle imprese ove è avvenuta; valore nominale o numero complessivo di azioni emesse e ammontare del capitale sociale; ammontare dei versamenti parziali eseguiti, se si tratta di azione non interamente liberata; diritti ed obblighi particolari ad essa inerenti, quali possono essere quelli determinati dall’appartenenza dell’azione a categorie speciali o di azioni cui è connesso l’obbligo di

54

Page 55: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

prestazioni accessorie; sottoscrizione di almeno uno degli amministratori, anche riprodotta meccanicamente.

Nel sistema predisposto dal nostro legislatore, le azioni possono essere nominative oppure al portatore a scelta dell’azionista, salvo che lo statuto o le leggi speciali non ne esigano la nominatività: le azioni devono essere necessariamente nominali quando non sono interamente liberate.

Leggi successive all’entrata in vigore del codice del 1942, animate da ragioni di ordine fiscale, hanno però predisposto la nominatività obbligatoria delle azioni delle società aventi sede nello Stato.

La nominatività obbligatoria non è però prevista nel caso delle azioni di risparmio, prive del diritto di voto, che la società con azioni quotate può emettere indifferentemente come azioni nominative o come azioni al portatore (il che amplifica il richiamo degli investimenti, in quanto consente al sottoscrittore di rimanere anonimo).

Proprietà dell’azione e legittimazione all’esercizio dei diritti socialiL’articolo 1992.1 stabilisce che <il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in

esso indicata verso presentazione del titolo, purchè sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge>: per esercitare i diritti relativi all’azione bisogna quindi esserne possessore e contemporaneamente essere legittimati ad esercitarli. Sarà legittimato ad esercitare i diritti di un titolo al portatore colui che presenti il titolo, mentre nel caso di titoli nominativi sarà <legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato per effetto dell’intestazione a suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente>, ossia nel registro dei soci.

Per i titoli nominativi la legittimazione si può conseguire, in genere, in un triplice modo. L’articolo 2022 indica il primo nell’annotazione da parte dell’emittente del nome dell’acquirente dell’azione sul titolo stesso e nel registro dei soci, mentre un secondo è individuato nel rilascio da parte dell’emittente di un nuovo titolo intestato all’acquirente e nella successiva annotazione nel registro dei soci.

Il terzo metodo, quello più frequentemente utilizzato, è invece disciplinato dall’articolo 2023 ed è quello della girata (necessariamente “in pieno” e non “in bianco”): l’avente causa, che si dimostri possessore sulla base di una serie continua di girate, potrà rivolgersi alla società per ottenere l’iscrizione nel registro dei soci: la società potrà però eccepire al possessore giratario il difetto di titolarità, ad esempio per via della nullità del contratto traslativo.

Per le azioni al portatore, invece, basta la mera consegna del titolo per il loro trasferimento: l’iscrizione nel registro dei soci, necessaria nel caso di azioni nominative, sarebbe infatti in contrasto con esse.

L’articolo 2355, derogando a quanto si potrebbe pensare, dispone però che il giratario che si dimostri possessore a seguito di una serie continua di girate possa esercitare i diritti sociali prima di essere iscritto nel registro dei soci, ma solo per il suo primo atto in qualità di socio: egli dovrà infat6ti presentare o consegnare, temporaneamente, le azioni, e starà allora alla società emittente di rilevare le generalità dei giratari e, quindi, aggiornare il libro dei soci entro 90 giorni dalla data in cui il titolo è stato esibito.

Attraverso questa innovazione il legislatore ha cercato di ovviare all’inconveniente in base al quale l’esercizio dei diritti sociali rimaneva sospeso nell’intervallo di tempo tra la girata e l’iscrizione nel registro dei soci: per evitare “manovre dell’ultima ora” lo statuto può però richiedere il preventivo deposito delle azioni presso la sede sociale o presso determinate banche entro alcuni giorni prima dell’assemblea: in questo modo il giratario non iscritto che non abbia depositato in tempo le sue azioni non sarà legittimato.

La riforma del 2003, cercando di venire incontro alla sempre più crescente dematerializzazione delle azioni ha introdotto un articolo, il 2346, in base al quale lo statuto può prevedere diverse tecniche di legittimazione dell’azionista e di circolazione delle azioni.

La circolazione dei titoli azionati e la clausole che limitano la circolazioneL’articolo 2003 c.c. stabilisce che <il trasferimento dei titoli al portatore si opera con la consegna

del titolo. Il possessore del titolo al portatore è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato in

55

Page 56: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

base alla presentazione del titolo>, mentre il trasferimento del titolo nominativo si produce con la girata autenticata.

Il solo consenso, quindi, non produce alcun effetto traslativo.Il trasferimento a causa di morte, nel caso di azioni nominative, viene completato dalla società

emittente che, a seguito della presentazione del certificato di morte, annoterà sul titolo e sul libro dei soci il nominativo dell’erede.

Il trasferimento inter vivos si attua, di regola, indipendentemente dal consenso della società: una volta accertato il trasferimento delle azioni, l’annotazione nel libro dei soci, nel caso di azioni nominative, è un atto dovuto da parte della società.

L’articolo 2355-bis dispone, però, che lo statuto possa <sottoporre a particolari condizioni> il trasferimento delle azioni nominative: esso potrà infatti prevedere determinate condizioni personali per l’appartenenza alla società (clausola di gradimento), o prevedere una clausola di intrasferibilità o di prelazione.

a) Relativamente alla clausola di gradimento bisogna dire che essa ha trovato un assetto definitivo solamente con la riforma del 2003: fino ad allora, infatti, la clausola, che era posta a tutela di una possibile scalata al comando della società da parte di altre società o singoli uomini d’affari, era stata spesso criticata in quanto costituiva un ostacolo alla libera disponibilità elle proprie azioni da parte dei singoli azionisti, indipendentemente dal fatto che fossero di minoranza o di maggioranza: esse infatti per lo più condizionavano il trasferimento al consenso degli amministratori. La giurisprudenza, dapprima pronunciatasi per la piena validità, in un secondo momento aveva sentenziato che fossero nulle le clausole statutarie che sottoponessero il trasferimento delle azioni, anziché alla ricorrenza nell’acquirente di specifiche condizioni oggettive, al gradimento discrezionale degli organi sociali, in quanto la legge prevede che possano essere previste particolari condizioni oggettive, non che il trasferimento dipenda dalla volontà degli organi sociali. Unico caso in cui si poteva predisporre una clausola di mero gradimento da parte degli amministratori era quello nel quale vi fosse la contemporanea designazione di altra persona gradita disposta all’acquisto. Nel 1985 le clausola di mero gradimento degli organi sociali sono state definitivamente dichiarate nulle dal legislatore. Nel 2003, come detto, c’è stato un ulteriore intervento legislativo a riguardo, che ha disposto tale situazione (art. 2355-bis.2): <le clausole di mero gradimento sono in linea di principio inefficaci; tuttavia sono efficaci se prevedono, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante; lo stesso vale nel caso in cui il trasferimento a causa di morte di azioni nominative sia sottoposto a particolari condizioni>. È opinione diffusa che la mancanza nell’acquirente delle particolari condizioni richieste dallo statuto, quelle valide perché non di mero gradimento, non sia tale da rendere inefficace il trasferimento, ma solo tale da impedirne l’iscrizione nel registro dei soci: in questo modo l’avente causa sarà titolare delle azioni, ma non sarà legittimato ad esercitare i diritti ad esse collegati. Particolari condizioni per il trasferimento possono essere previste dallo statuto sia originariamente sia a seguito di sua modificazione per effetto di deliberazione dell’assemblea straordinaria, salvo il diritto dei non consenzienti al recesso. In questo modo è superata l’antica teoria che richiedeva l’unanimità dei soci: coloro che non siano d’accordo con l’introduzione, la modificazione o la soppressione di tali condizioni per il trasferimento sono però tutelati dal diritto di recesso, sempre che lo statuto non lo escluda (infatti questa non rientra tra le cause di recesso indisponibili da parte dell’autonomia statutaria ex. 2347)

b) Con il termine clausola di intrasferibilità si intende la clausola statutaria che impedisca ad un socio di disporre del proprio titolo. Mentre tale previsione è legittima per la quota di s.r.l. essa è in linea di principio inammissibile, perché inconciliabile, con riguardo alle azioni di s.p.a. E’ tuttavia ammessa una clausola statutaria di temporanea intrasferibilità delle azioni, ma solo nominative: l’articolo 2355-bis c.c. infatti prevede la possibilità di vietare il trasferimento per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dall’introduzione della clausola medesima. La giustificazione, così come

56

Page 57: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

quella del patto parasociale di blocco, risiede nella volontà di stabilizzare gli assetti proprietari e di evitare scalate ostili al controllo della società. A differenza dei patti parasociali di blocco, però, la clausola statutaria di intrasferibilità sarà opponibile ai terzi, quindi la società potrà ottenere, in caso di violazione, una sentenza che dichiari l’inefficacia del trasferimento. Però il patto parasociale, a differenza della clausola, è rinnovabile. Come per la clausola di gradimento, qualora essa sia introdotta successivamente, ai soci dissenzienti è dato diritto di recesso, salvo che lo statuto disponga diversamente.

c) Un terzo tipo di clausola statutaria che limita la trasferibilità delle azioni nominative è la clausola di prelazione: attraverso questa si obbliga il socio che voglia vendere le proprie azioni di offrirle prima in vendita agli altri soci, indicando le condizioni di vendita e, se l’atto costitutivo lo richiede, il nome del terzo disposto ad acquistarle a quelle condizioni. A differenza della prelazione contrattuale, la clausola di prelazione, si ritiene essere prelazione legale, e quindi ha efficacia reale, ossia è opponibile ai terzi così come la clausola di intrasferibilità. A volte la clausola di prelazione è strutturata in maniera tale che gli altri soci possano acquistare le azioni di chi intende venderle non allo stesso prezzo cui un terzo le comprerebbe, ma offrendo un prezzo congruo, intendendo come tale o il prezzo fissato dagli amministratori o da eventuali arbitratori o, ancora, il prezzo corrispondente al valore di libro, ossia la frazione del patrimonio netto corrispondente alla quota. Mentre il primo caso è detto di prelazione alla pari, e tutela maggiormente il socio che intenda cedere le sue azioni, il secondo caso, la c.d. prelazione impropria, fa prevalere l’interesse dei soci al controllo della società evitando scalate ostili: è per questo motivo che, a detta di alcuni autori, la clausola di prelazione impropria sarebbe addirittura invalida, in quanto sacrifica il diritto del socio ad alienare al prezzo di mercato.

I diritti e gli obblighi inerenti all’azioneSolitamente si distingue tra diritti patrimoniali e diritti amministrativi dell’azionista.

a) Rientrano tra i diritti patrimoniali il diritto agli utili e alla quota di liquidazione in caso di scioglimento della società, il diritto di opzione e il diritto di recesso;

b) Sono invece diritti amministrativi il diritto di intervento in assemblea e di voto, il diritto, per gli azionisti assenti o dissenzienti, di impugnare le deliberazioni assembleari invalide, il diritto di denuncia al collegio sindacale di fatti censurabili, il diritto di consultare il libro dei soci e il libro delle adunanze delle deliberazioni assembleari e il diritto di prendere visione del progetto di bilancio. La riforma del 2003 ha poi introdotto il diritto dell’azionista, in quanto rappresenti almeno una certa percentuale del capitale sociale (da solo o con altri azionisti), di convocare l’assemblea, di ottenere che il collegio sindacale indaghi su fatti denunciati e il diritto di denuncia al tribunale delle gravi irregolarità commesse dagli amministratori e dai sindaci.

Vi è poi l’ulteriore categoria di diritti legati alla facoltà di disporre dell’azione stessa: l’azionista potrà quindi alienare l’azione e darla in pegno o in usufrutto. Queste ultime due ipotesi sono espressamente previste dall’art. 2352 che stabilisce a chi spetti il diritto di voto nel caso di azioni date in pegno o in usufrutto: il diritto di voto spetta, salva convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre il diritto di opzione spetta al socio, in seconda battuta ai soci e per ultima ad una banca o ad un intermediario autorizzato.

Nel caso di aumento di capitale con imputazione di riserve a capitale, il pegno e l’usufrutto si estendono alle azioni di nuova emissione. Il diritto agli utili spetta al creditore pignoratizio e all’usufruttuario.

Unico obbligo dell’azionista è, salva la previsione statutaria di prestazioni accessorie, quello di eseguire il conferimento nei modi, nei tempi e nei luoghi descritti.

Secondo l’opinione maggioritaria alcuni dei diritti sopra elencati sono tali da essere indisponibili da parte dell’assemblea, o disponibili fino ad un certo punto. Per tale ragione le deliberazioni assembleari che superino tale limite dovrebbero essere considerate non solamente invalide, ma addirittura inefficaci, in

57

Page 58: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

quanto la società non sarebbe legittimata a disporre di tali diritti (si pensi ad esempio ad una modificazione statutaria che escluda la ripartizione degli utili).

Le speciali categorie di azioniSecondo l’articolo 2348 <le azioni devono essere di eguale valore e conferiscono ai loro possessori

uguali diritti>, anche se, come si è visto, l’uguaglianza formale non corrisponde poi ad un’uguaglianza sostanziale, in quanto il detentore del controllo di diritto, o di fatto, avrà sicuramente un potere e diritti superiori rispetto agli azionisti di minoranza: contro tale situazione di supremazia incontrollata della maggioranza è intervenuto il legislatore del 2003 che, tra le varie innovazioni, ha previsto una più profonda tutela delle minoranze.

Oltre alla disuguaglianza sostanziale è poi prevista dal codice anche la possibilità di <creare categorie di azioni fornite di diritti diversi>, con il solo vincolo costituito dal fatto che <tutte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti>, sulla base del principio di atipicità introdotto nel 2003. Unico limite all’autonomia statutaria è costituito dal divieto di emettere azioni plurime, ossia tali da attribuire ciascuna più di un voto.

Anche le azioni ordinarie, quelle tradizionali che attribuiscono il diritto di partecipazione e di voto in assemblea e il diritto agli utili e ad una parte del patrimonio netto in sede di liquidazione, vengono così a formare una categoria di azioni.

Al fianco di queste troviamo azioni privilegiate dal punto di vista patrimoniale: ai loro possessori è infatti riconosciuta una più elevata partecipazione agli utili annuali risultanti dal bilancio e alla ripartizione del patrimonio netto nel caso di liquidazione; o possono essere riconosciuti diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un particolare settore; oppure possono essere caratterizzate da una minor incidenza delle perdite (azioni postergate, che vengono interamente rimborsate nel caso di scioglimento della società e che, qualora venga ridotto il capitale sociale, saranno ridotte solo dopo il totale annullamento delle azioni ordinarie, che sono espressamente previste dal secondo comma dell’art. 2348)

Vi possono poi essere azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato a particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni (non meramente potestative). Queste azioni non possono complessivamente superare la metà del capitale sociale.

Vi possono poi essere azioni che combinino caratteristiche di entrambe le categorie sopra elencate, come azioni con privilegi patrimoniali ma senza diritto di voto.

Un ulteriore categoria di azioni, prevista dall’art. 2349, è quella delle azioni a favore dei prestatori di lavoro, ossia dei dipendenti. A riguardo sono previste particolari norme per quel che riguarda la forma, il modo di trasferimento e i diritti spettanti agli azionisti, che mira a favorire il c.d. azionariato operaio o dei dipendenti. Per gratificare i lavoratori dipendenti si attribuiscono loro delle azioni emesse imputando a capitale utili prodotti: tali azioni potranno essere ordinarie o speciali. Secondo l’ottavo comma dell’art. 2441 la destinazione delle nuove azioni ordinarie alla sottoscrizione da parte dipendenti è una delle cause che permettono alla maggioranza di escludere il diritto di opzione a favore dei vecchi azionisti: in questo secondo caso le azioni saranno però solamente offerte ai lavoratori che potranno sottoscriverle o meno, mentre nel primo caso esse sono assegnate come premio, indipendentemente dalla loro sottoscrizione.

Ulteriore speciale categoria di azioni è quella delle azioni di godimento: esse non hanno diritto di voto e possono essere emesse nel caso di riduzione del capitale per esubero a favore dei possessori di azioni rimborsate. Parteciperanno dunque agli utili solo sulla base della percentuale degli interessi legali e alla divisione del patrimonio netto solo dopo che le altre azioni siano state rimborsate al valore nominale.

L’eventuale esistenza di speciali categorie di azioni o strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi determina una modificazione interna dell’organizzazione della società: la legge infatti riconosce agli azionisti di tali categorie il diritto di riunirsi in assemblee speciali per approvare eventuali deliberazioni dell’assemblea ordinaria che pregiudichino i loro diritti. Nel caso in cui esista una categoria speciale di azioni, anche gli azionisti ordinari avranno diritto di riunirsi nella loro assemblea speciale nel caso di delibera che riduca i loro privilegi o aumenti quelli di un’altra categoria di azionisti.

58

Page 59: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Ci si rende quindi conto di come la distinzione tra socio e non socio abbia ormai solo più valore formale, in quanto, sostanzialmente, entrambi possono essere titolari di diritti di credito, e non solo, nei confronti della società: cambia solo il fatto che il conferimento del socio sia andato a formare capitale sociale, mentre quanto sborsato dal non socio è soltanto un finanziamento.

Altri strumenti finanziariTutte le azioni, a qualunque categoria appartengano, rappresentano una frazione del capitale sociale

e ad esso sono strettamente vincolate: se il capitale sociale è perduto, il valore delle azioni è azzerato.La società può quindi emettere altri strumenti finanziari, ai sensi dell’art. 2346.6, diversi dalle

azioni, a fronte di un determinato apporto di danaro, opere o servizi e che attribuiscono ai loro possessori diritti patrimoniali o anche diritti amministrativi, ma che sono slegati da ogni rapporto con il capitale sociale.

Il possessore di tali strumenti finanziari non acquisterà la qualità di socio, bensì quella di associato in partecipazione della società e potrà godere di diversi diritti patrimoniali (partecipare agli utili di bilancio, agli utili di un particolare affare) e amministrativi (diritto di controllo, diritto di voto per particolari questioni, eventualmente il voto per la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione).

Tutto ciò viene regolato nello statuto: sia i diritti sia le modalità con le quali possono esercitarli. Anche i portatori di strumenti finanziari dotati di diritti amministrativi debbono, nel caso di deliberazione che ne pregiudichi i diritti, riunirsi e deliberare.

Rientrano tra questi strumenti finanziari le stock option.

LE PARTECIPAZIONI AZIONARIE E I GRUPPI DI SOCIETA’L’acquisto delle proprie azioni; le anticipazioni e i prestiti; il riscatto

L’articolo 2357 c.c. prevede che la società possa, a determinate condizioni, provvedere all’acquisto delle proprie azioni: si legge, infatti, che <la società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Possono essere acquistate solamente azioni interamente liberate. L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea, la quale ne fissa le modalità, e in modo particolare il numero massimo di azioni da acquistare, la durata, non superiore ai diciotto mesi, per la quale l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo ed il corrispettivo massimo. In nessun caso il valore nominale delle azioni acquistate può eccedere la decima parte del capitale sociale, tenendosi conto a tal fine anche delle azioni possedute da società controllate>. L’acquisto di azioni proprie è uno degli strumenti attraverso il quale le società per azioni quotate in borsa possono esercitare una funzione di sostegno e di stabilizzazione delle quotazioni.

L’acquisto è, come visto, vincolato da un limite quantitativo e da una triplice condizione: il valore nominale delle azioni non potrà infatti superare 1/10 del capitale sociale e dovrà essere autorizzato dall’assemblea, fatto impiegando utili distribuibili o riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato e riguardare azioni interamente liberate.

L’acquisto di per sé è atto degli amministratori, anche se deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria, che ne fissa modalità, numero massimo e minimo, prezzo massimo e minimo: questo è uno dei casi eccezionali nei quali l’assemblea delibera su atti di gestione, anche se non delibera l’acquisto, ma autorizza solamente gli amministratori ad eseguirlo: essi non saranno quindi vincolati.

Gli ultimi commi del 2357 c.c. prevedono invece una ferrea disciplina nel caso di azioni acquistate in violazione della disciplina appena esposta, dovuta alla volontà di evitare che gli amministratori possano abusare di tale strumento. Si legge, infatti, che <le azioni acquistate in violazione dei commi precedenti devono essere alienate secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un anno dal loro acquisto. In mancanza, deve procedersi senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale>.

Dato che le azioni proprie sono formalmente acquistate dagli amministratori, il legislatore si è premunito prevedendo una stretta disciplina relativa ai diritti che tali azioni attribuiscono. L’articolo 2357-ter infatti dispone che <gli amministratori non possono disporre delle azioni acquistate a norma dei due

59

Page 60: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

articoli precedenti se non previa autorizzazione dell’assemblea, la quale deve stabilire le relative modalità. Finché le azioni restano in proprietà della società, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni; l’assemblea può tuttavia, alle condizioni previste dal primo comma dell’art. 2357, autorizzare l’esercizio totale o parziale del diritto di opzione. Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni assembleari>. Il diritto agli utili e di opzione è attribuito alle altre azioni, gli amministratori non possono disporre dei titoli acquistati senza autorizzazione dell’assemblea (in modo che non possano darle in pegno o in usufrutto o cederle a propri fiduciari in modo da esercitare il voto tramite loro), ma soprattutto non possono esercitare il diritto di voto che questi incorporano: il legislatore ha voluto evitare che gli amministratori, acquistando azioni proprie con gli utili societari, potessero acquistare una propria posizione di potere all’interno dell’assemblea e, al limite, affrancarsi dal suo controllo.

Inoltre, sempre per evitare una sottrazione degli amministratori dal controllo assembleare, è fatto divieto per la società di prendere in pegno o in usufrutto azioni proprie: in questi due casi, infatti, il voto sarebbe esercitato dagli amministratori.

A differenza del 2357 ult., il 2357-ter non prevede una conseguenza specifica nel caso di iniziativa degli amministratori non autorizzata dall’assemblea o eccedente i limiti dell’autorizzazione assembleare o assunta in forza di un’autorizzazione mancante: si può allora estendere la norma relativa alla responsabilità penale degli amministratori (2632 c.c. relativo all’aumento fittizio di capitale punito con la reclusione fino ad un anno), e ritenere che gli atti dispositivi siano comunque validi.

Inoltre l’ultimo comma dell’art. 2357-ter prevede che <una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni proprie iscritte all’attivo del bilancio deve essere costituita e mantenuta finchè le azioni non siano trasferite o annullate>, ad assoluta tutela dei creditori sociali.

L’articolo 2357-bis prevede, invece, ulteriori casi di acquisto delle proprie azioni, definiti casi speciali: <le limitazioni contenute nell’art. 2357 non si applicano quando l’acquisto di azioni proprie avvenga: in esecuzione di una deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuare mediante riscatto e annullamento di azioni; a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate; per effetto di successione universale o di fusione o scissione; in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società, sempre che si tratti di azioni interamente liberate>. Si veda in particolare il primo caso nel quale l’acquisto di azioni proprie non è soggetto a particolari vincoli: questo è uno dei modi mediante i quali attuare la riduzione facoltativa del capitale sociale e consiste nel riscatto di azioni proprie e nel loro annullamento a seguito di rimborso del loro valore. È quindi un atto unilaterale della società che viene compiuto al prezzo fissato dall’assemblea dei soci. Un problema si pone relativamente al criterio di individuazione delle azioni da riscattare: quello più equo è sicuramente quello che prevede un riscatto nei confronti di ciascun socio in misura proporzionale alla sua quota, ma altre volte si è proceduto con il metodo del sorteggio. Caso diverso è quello del riscatto delle azioni cui sia collegata una prestazione accessoria in caso di inadempimento, in quanto in questo caso il contratto sociale è a causa mista, in quanto partecipa sia di elementi propri della società di persone sia di quella di capitali: il riscatto per inadempimento o impossibilità sopravvenuta determina infatti l’esclusione del socio e l’acquisto delle azioni da parte della società, che non vengono annullate.

L’articolo 2357-quater invece vieta la sottoscrizione di azioni proprie, a meno che tale azione sia conseguenza dell’attribuzione agli amministratori da parte della società del diritto di opzione inerente alle azioni proprie in portafoglio: la sottoscrizione effettuata in violazione di tale previsione non è però invalida, bensì le azioni si ritengono sottoscritte dai soci fondatori o dai promotori se ciò avviene all’atto costitutivo, o, nel caso di aumento di capitale, dagli amministratori: coloro ai quali la sottoscrizione sia imputata dovranno provvedere a liberare interamente le azioni.

Nel caso, invece, di sottoscrizione in nome proprio, ma per conto della società, colui che l’ha effettuata sarà considerato sottoscrittore per conto proprio, e come tale obbligato a liberare le azioni sottoscritte (e con lui risponderanno in solido i soci fondatori e i promotori o gli amministratori).

60

Page 61: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’articolo 2358 prevede, oltre al divieto di prendere azioni proprie in pegno o in usufrutto, il divieto per la società di accordare prestiti o fornire garanzie per acquistare o sottoscrivere azioni proprie: senza tale divieto si pregiudicherebbe l’integrità sociale, in quanto il conferimento in danaro garantito o oggetto di mutuo si trasformerebbe in un credito della società di incerta realizzazione.

Le partecipazioni in altre società; la nozione di controllo; le partecipazioni reciprocheL’acquisto di azioni di altre società è, in linea generale, ammesso: è anzi fenomeno in costante

aumento nell’economia contemporanea.L’articolo 2360 c.c. prevede però il divieto per le società <di costituire o di aumentare il capitale

mediante sottoscrizione reciproca di azioni, anche per tramite di società fiduciaria o per interposta persona>: viene così sancito il divieto di sottoscrizione reciproca delle azioni. Tale vincolo è determinato dalla volontà di tutelare i terzi creditori della società di fronte alla possibilità di un capitale nullificato: se una società B potesse investire il proprio capitale in azioni della società controllante A, che quindi ha a sua volta investito il proprio capitale per acquistare azioni della società B, ci si troverebbe in una situazione nella quale in fronte al capitale di A figurerebbero le azioni di B, e a fronte del capitale di B le azioni di A: la stessa somma di denaro impiegata per costituire il capitale di una società sarebbe infatti impiegata per costituire il capitale dell’altra, e così via.

Unico caso nel quale la società controllata può acquistare azioni della società controllante è quello, previsto dall’art. 2359-bis, dell’acquisto di azioni interamente liberate con utili distribuibili o riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato, e comunque non in misura superiore ad un decimo del capitale sociale della società cui azioni sono acquistate: in pratica è ripresa la disciplina dell’acquisto di azioni proprie. Rimane fermo l’obbligo di essere autorizzati da delibera assembleare e di costituire e mantenere una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni o quote della società controllante iscritto all’attivo del bilancio fino a quando le azioni siano annullate o alienate.

La <società controllata da altra società>, dispone il quinto comma dell’art. 2359-bis , <non può esercitare il diritto di voto nelle assemblee di questa>, il che equivale al divieto imposto agli amministratori di esercitare il voto legato alle azioni proprie acquistate: in questo modo si evita che chi è controllato controlli, o concorra a controllare, se stesso.

Sempre in riferimento all’assimilazione con l’acquisto di azioni proprie, è fatto divieto alla controllata di sottoscrivere azioni della controllante (2359-quinquies), è previsto l’obbligo di alienare le azioni o le quote acquistate in violazione delle disposizioni appena viste, in mancanza del quale la società controllante deve provvedere al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale con rimborso (2359-ter).

L’articolo 2359 c.c. disciplina, invece, le tre diverse situazioni che si possono verificare quando una società holding controlli un’altra società: si parlerà infatti o di a) controllo di diritto, o di b) controllo di fatto o di c) controllo in virtù di particolari vincoli contrattuali.

a) si ha controllo di diritto quando una società <dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria di una o più società>. Di norma tale posizione di controllo è determinata dalla titolarità di azioni, ma è sufficiente disporre del diritto di voto, che può derivare dall’avere le azioni in pegno o in usufrutto. Controllo di diritto si ha anche nel caso di patto parasociale di sindacato che attribuisca ad un socio, da solo, la maggioranza dei voti in assemblea.

b) si parla invece di controllo di fatto quando una <società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria> di una o più società>. In questo caso si avrà un controllo minoritario reso possibile dall’assenteismo degli azionisti.

c) il controllo in virtù di particolari vincoli contrattuali si realizza, invece, quando una o più società sono <sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa>. Questo tipo di controllo, esterno, si realizza quando una società sia vincolata ad un’altra da contratti quali il contratto di agenzia, di commissione, di concessione, che la pongono in una condizione di dipendenza e ne fanno una società satellite della proponente o concedente. È però necessario, affinché si possa parlare di

61

Page 62: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

controllo esterno, che tali contratti attribuiscano alla controllante il potere di approvare gli atti fondamentali della società controllata o di designarne gli amministratori.

Alle prime due ipotesi il secondo comma dell’art. 2359 equipara il controllo indiretto esercitato da una società per mezzo di una terza società fiduciaria o di una persona interposta: in questo modo si ritiene che il terzo interposto sia solo un mezzo per il controllo, in modo da evitare una facile elusione del divieto di partecipazioni reciproche.

Per stabilire di quale percentuale di voti la controllante indiretta abbia bisogna applicare il demoltiplicatore, ossia tener conto dell’effetto telescopico: se la società A detiene l’80% dei voti nell’assemblea ordinaria della società B, che a sua volta è titolare del 70% dei diritti di voto della società C, la società A avrà diritti pari al 56% della società C (voto e utili).

Un secondo ordine di limiti alle partecipazioni azionarie, oltre al divieto di partecipazione e sottoscrizione reciproca, consiste nel divieto di assumere partecipazioni in altre imprese se per la misura e per l’oggetto della partecipazione risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto (ex. art. 2361.1). In questo modo si vuole evitare che gli amministratori possano attuare, mediante le partecipazioni azionarie in altre società aventi un oggetto diverso, una modificazione di fatto dell’oggetto sociale, eludendo le competenze dell’assemblea in ambito di modificazioni statutarie. Affinché tale limite possa operare è però necessario che sia riconosciuta l’inammissibilità di un oggetto sociale determinato in termini eccessivamente ampli.

Un ulteriore limite, questa volta di tipo quantitativo, vieta ad una società di possedere azioni di altre società per un valore superiore a quello del proprio capitale, in modo da evitare una facile elusione fiscale: costituendo società con capitale modesto e facendo ad essa acquistare partecipazioni in altre società per somme molto superiori si ottiene di nascondere la consistenza dei pacchetti azionari così detenuti, mentre le rendite sarebbero state percepite.

Le società di investimentoSono chiamate società di investimento <le società per azioni e in accomandita per azioni che

hanno per oggetto esclusivamente l’investimento in titoli pubblici e privati secondo i criteri di scelta e di ripartizione stabiliti nell’atto costitutivo>: tali tipi di società godono della generica possibilità di assumere partecipazioni in altre imprese (art. 2361) e ne fanno il proprio oggetto sociale in modo da assegnare utili ai propri soci. Alcuni hanno rinvenuto in tale attività una semplice attività di gestione del patrimonio sociale e, cioè, una semplice attività di amministrazione di beni sociali, cui si sarebbero dovute applicare le norme sulla comunione di godimento e non quelle relative alle società. Bisogna però dire che la teoria più diffusa è quella che vede nell’attività svolta da tali società un’attività d’impresa in quanto svolge un’attività di interposizione nella circolazione dei beni, ossia di scambio di beni.

I fondi comuni di investimentoI caratteri che appaiono ricorrenti nel fenomeno cui si dà il nome di fondi di investimento sono:

l’attuazione della concentrazione dei risparmi di una pluralità di investitori che li affidano ad un gestore per ridurre al più possibile il rischio e garantirsi un utile stabile e costante; la separazione tra il fondo e il patrimonio del gestore in modo che il primo non possa essere aggredito dai creditori del secondo.

Si parla invece di fondi comuni di investimento quando oltre agli investitori e al gestore entra in gioco anche una banca depositaria presso la quale i primi depositano i soldi che saranno gestiti dal secondo, cui viene affidato un mandato. La differenza ulteriore consiste nel fatto che il gestore si rivolge al pubblico, con un’offerta pubblica, indicando la banca e la denominazione del fondo: starà poi agli investitori aderire all’offerta versando somme sotto la denominazione del fondo, in modo da divenire comproprietari dei titoli acquistati con esse. La società di gestione deve essere necessariamente una società per azioni con capitale versato non inferiore a quanto disposto dalla Banca d’Italia, dimostrare la specifica professionalità dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo ed essere autorizzata alla gestione dalla stessa Banca d’Italia, previa consultazione della Consob.

Molto importante è la distinzione tra il fondo e il patrimonio sia del gestore sia degli investitori.

62

Page 63: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Le quote di partecipazione al fondo sono tutte di eguale valore ed attribuiscono uguali diritti. Ogni partecipante ha diritti di natura patrimoniale, mentre è escluso ogni diritto di tipo amministrativo: essi potranno esaminare il rendiconto annuale della gestione del fondo, ottenere i proventi di gestione secondo i criteri stabiliti dal regolamento e di essere rimborsati delle quote al momento dello scioglimento del vincolo.

I gruppi di societàIl gruppo di società è la forma di organizzazione caratteristica della grande o medio-grande impresa

del nostro tempo. Quando essa raggiunge determinate dimensioni aziendali è inevitabile che assuma la configurazione di una pluralità di società operanti sotto la direzione unificante di una società capogruppo, od holding.

Ad una siffata organizzazione corrispondono infatti numerosi vantaggi per la holding: per prima cosa essa è, in linea di principio, terza rispetto ai rapporti giuridici che le società controllate abbiano posto in essere, sicché, di norma, coloro che abbiano acquistato diritti di credito nei confronti di una controllata non potranno invocare la responsabilità patrimoniale della holding. Infatti il gruppo di società si colloca in rapporto di continuità storica con il conseguimento del beneficio della responsabilità limitata, consentendo di fruirne più intensamente: la suddivisione in più società permette infatti di attuare la c.d. diversificazione dei rischi, impedendo che le avverse vicende di un settore si comunichino al patrimonio destinato agli altri settori o al patrimonio della holding.

Il punto più estremo del gruppo di società è rappresentato dalla situazione nella quale funzione direzionale e attività di produzione o di scambio sono separate: la prima attribuita esclusivamente alla società holding, la secondo invece in capo alle singole società controllate.

Un ulteriore vantaggio del frazionamento dell’attività imprenditoriale in più società minori è sicuramente costituito dalla maggior efficienza rispetto a quanto accadrebbe se una unica enorme società dovesse gestire tutti i singoli settori che la compongono, dovendo gli amministratori provvedere alla gestione globale e non limitandosi, come avviene nei gruppi, ad indicare le direttive che devono essere recepite e sviluppate dagli amministratori delle singole società.

L’impresa di gruppoFino al 2003 il codice civile prendeva in considerazione i gruppi di società solamente per

disciplinare il rapporto tra controllata e controllante e il divieto di partecipazioni reciproche. La riforma ha invece dato rilievo, con gli articoli dal 2497 al 2497 sexies, al nuovo concetto di “attività di direzione e coordinamento di società” in modo da regolare più dettagliatamente il rapporto, che si ritiene esistente fino a prova contraria, tra controllante e controllata, anche per aumentare la tutela dei soci e dei creditori della seconda.

Ai sensi dell’art. 2497 sexies si presume, quindi, che gli amministratori della capogruppo impartiscano direttive agli amministratori delle controllate e che costoro, anche se formalmente abilitati a disattenderle, di fatto le eseguiranno, dato che la loro nomina e la loro conferma, oltre che la provvista dei mezzi finanziari per gestire l’impresa a loro affidata, sono nelle mani della controllante. È però ammessa prova contraria, la quale si ritiene possa anche essere precostituita dalla controllante: essa potrà infatti prevedere una clausola statutaria la quale disponga che eventuali partecipazioni in società non possano essere utilizzate per esercitare su di esse alcuna attività di direzione e coordinamento, in modo da invertire l’onere della prova, e porlo a carico degli amministratori della controllata.

Si può parlare di holding, nella normalità delle ipotesi, quando ci si trovi di fronte ad una società (anche di persone) o ad un qualsiasi altro ente, che detenga il controllo, di diritto, di fatto o in forza di particolari vincoli contrattuali, su una o più società, esercitando effettivamente su di esse un’attività di direzione e di controllo. Non si potrà invece parlare di holding quando la partecipazione in altre società sia dovuta esclusivamente a finalità di investimento e non di controllo.

Per quel che riguarda l’oggetto sociale della holding bisogna rilevare che l’articolo 2361 c.c. vieta le partecipazioni in altre società che siano tali da determinare un cambiamento di fatto dell’oggetto sociale. Analizzando tale articolo si giunge alla considerazione che la realizzazione dell’oggetto sociale possa avvenire sia in maniera immediata, da parte della stessa società, sia in maniera mediata, ossia tramite

63

Page 64: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

società controllate: quindi la partecipazione in un’altra società non deve essere tale da alterare l’oggetto sociale della holding, e il carattere imprenditoriale della holding deriva dall’attività di produzione o di scambio di beni che viene svolta dalle società operanti.

Ne deriva il corollario che la conversione di una società operante in società holding non ne muta l’oggetto sociale, ma solamente la modalità attraverso la quale esso viene perseguito.

La fonte del potere di direzione e coordinamentoLa riforma del 2003 ha introdotto, come si è detto, il concetto di “attività di direzione e

coordinamento” che si presume legare, a meno di prova contraria, la società controllante alle società controllate. Tale funzione si attua per mezzo del controllo di cui si dispone nell’assemblea ordinaria delle società controllate (controllo di diritto, di fatto o tramite vincoli contrattuali) e, per le materie che eccedono la competenza dell’assemblea, facendo valere l’interno rapporto fiduciario che lega gli amministratori all’azionista di controllo: è infatti ormai stata accolta anche dal legislatore l’idea che decisioni prese all’interno della holding vengano trasposte all’interno della controllata, sia a livello di organo assembleare sia di organo amministrativo.

Gli amministratori della controllata non sono, come del resto tutti gli amministratori, mandatari dell’assemblea e quindi dispongono di una propria autonomia, di una esclusiva competenza nell’amministrazione della società e rispondono personalmente verso la società, verso i soci e verso i creditori nel caso in cui essi ritengano di essere stati danneggiati.

A differenza di quanto avviene all’interno delle singole società, nelle quali gli amministratori non potranno mai esonerarsi da responsabilità verso i creditori sociali, verso i singoli soci (dissenzienti o assenti), o verso i terzi, adducendo a propria discolpa di aver ubbidito ad ordini o a direttive dell’assemblea, nel caso di gruppi di società il rapporto fiduciario esistente tra assemblea e amministratori può assumere esterno rilievo giuridico quando ci si trovi di fronte a direttive della controllante pregiudizievoli per la controllata, potendo esporre la controllante a responsabilità per i danni che abbia cagionato alla società controllata, ai suoi soci e ai suoi creditori.

Tale responsabilità a carico della controllante non esclude però la responsabilità degli amministratori della controllata che le abbiano seguite, in quanto essi sono in ogni caso ritenuti liberi di agire nella gestione della società: la controllante infatti non dispone del potere di imporre direttive vincolanti per le controllate, ma solo su una forza persuasiva nei confronti degli amministratori della controllata, in quanto ha il controllo dell’assemblea e, quindi, della loro nomina, rielezione o revoca.

L’interesse di gruppoGià prima del 2003 la Corte di Cassazione si era resa conto della differenza che intercorre tra la

condizione giuridica di una società isolata e una società appartenente ad un gruppo.Più volte infatti è stata sottolineata l’unità delle società che fanno parte di un gruppo, sostenendo,

ad esempio, che la remissione del debito da parte della holding a favore di una controllata o la cessione gratuita di crediti infragruppo non fossero atti di liberalità, che le fideiussioni rilasciate a favore di un’altra società del gruppo non fossero atti estranei all’oggetto sociale, o ancora che il fatto di ubbidire alle direttive della holding non potesse essere considerato come subordinazione degli interessi della società ad interessi estranei.

Allo stesso tempo erano stati individuati dei limiti ai poteri della controllante e, di conseguenza, alla validità delle delibere assembleari della controllata: si era infatti sentenziato che le deliberazioni della controllata attuative di direttive della holding non dovessero essere tali da arrecare pregiudizio alla società stessa, imponendo l’obbligo per gli amministratori della controllata di astenersi dall’eseguire delibere e indirizzi che potessero danneggiare la società stessa, a meno che il sacrificio non fosse giustificato da un interesse, anche se mediato o indiretto, o non fosse oggetto di compensazione.

In pratica si era sostenuto, e si è sostenuto anche nella riforma del 2003, che l’entrata all’interno di un gruppo muta le condizioni di esercizio dell’impresa sociale, nel senso che non si debba guardare solamente alla singola società e al suo interesse, ma alla totalità del gruppo e all’interesse del gruppo. I costi ed i benefici di ogni singola operazione non andranno allora calcolati unicamente nei confronti della società, ma dell’intera impresa di gruppo.

64

Page 65: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Proprio per far sì che appaia chiaro l’interesse di gruppo sottostante alle deliberazioni della società controllata, l’articolo 2497 ter dispone che <le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e di coordinamento, quando da questa influenzate, debbono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione>: la norma rende quindi possibile la trasposizione all’interno della controllata di decisioni assunte dalla controllante al fine di realizzare l’interesse di gruppo, ma esige che questi interessi, determinanti la decisione, siano puntualmente indicati, per consentire un sindacato sulla loro effettiva rispondenza all’interesse di gruppo (e quindi anche della controllata).

Al di là delle situazioni prese espressamente in considerazione dalla legge relative al rapporto tra controllata e controllante, e al maggior favore per le operazioni tra esse intercorrenti (come il caso del 2358 c.c. che consente alle società di accordare prestiti per favorire l’acquisto di azioni da parte dei dipendenti anche di società controllate o controllanti), in tutti gli altri casi interviene l’art. 2497 ter e impone che l’interesse di gruppo che viene paventato sia anche analiticamente indicato.

Inoltre l’articolo 2497.1, in riferimento al fatto che l’interesse di gruppo può pregiudicare l’interesse della singola società, dispone che la holding non possa essere ritenuta responsabile per lesione dei diritti di soci o creditori della controllata <quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette>: non si può quindi parlare di pregiudizio per la controllata se esso è controbilanciato dalla realizzazione dell’interesse di gruppo

La responsabilità della holdingCome detto in precedenza, le società di un gruppo, nonostante siano coordinate e dirette al fine del

raggiungimento dello stesso interesse, sono ritenute soggetti giuridicamente separati: il legislatore si è però posto il problema di evitare che tale separazione si potesse tradurre in un pregiudizio per i creditori delle singole società, per i loro azionisti di minoranza e, più in generale, per il pubblico degli investitori.

L’ordinamento tedesco è stato sicuramente il più sensibile rispetto a tali problematiche, disponendo che l’impresa dominante (la holding) <non possa disporre della sua influenza per indurre una società per azioni dipendente a concludere negozi ad essa dannosi o a prendere o a omettere provvedimenti con suo pregiudizio, a meno che i danni non vengano compensati> a pena dell’obbligo di risarcimento del danno.

Sulla scia della legislazione tedesca, risalente al 1965, si è mosso anche il legislatore della riforma del 2003. Conviene allora leggere ed analizzare gli articoli del Capo IX del libro V, intitolato “Direzione e coordinamento di società”.

L’art. 2497 recita <le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento>: qualunque società od ente che eserciti a qualunque titolo (controllo di diritto, di fatto, o anche per via di contratti o clausole statutarie) attività di direzione e coordinamento di una società è quindi tenuta ad un obbligo di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nei confronti della società controllata la cui violazione determina una responsabilità nei confronti dei soci o dei creditori. Relativamente al rapporto con soci e creditori viene quindi ripreso lo schema della responsabilità da fatto illecito, ex. 2043: ci si deve infatti trovare di fronte ad un fatto colposo posto in essere dalla holding che crea un danno ingiusto, ossia crea

65

Page 66: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

pregiudizio alla redditività o al valore delle partecipazioni sociali (e quindi lederà i diritti dei soci della controllata) o leda l’integrità del patrimonio (e quindi i diritti dei creditori sociali).

L’articolo 2497 non prende invece in considerazione la possibilità di una responsabilità nei confronti della società controllata, in quanto molto difficilmente questa, controllata dalla holding, lamenterà un danno cagionatole da quest’ultima.

Il socio della controllata viene protetto per quel che riguarda il suo diritto agli utili, comportando per la holding il divieto di attuare una gestione che escluda il conseguimento di utili, e il diritto al valore della partecipazione, ossia al mantenimento del valore di scambio della sua partecipazione nel caso in cui intenda venderla: la società holding sarà quindi ritenuta responsabile nel caso di un crollo improvviso della quotazione delle azioni della controllata dovuta alla notizia di scandali finanziari che hanno investito la holding del gruppo. Analizzando quest’ultimo caso ci si accorge di come i soci delle società controllate abbiano una tutela, quella al mantenimento del valore di scambio, che non è invece accordata ai soci di società isolate i cui amministratori abbiano, con la propria cattiva gestione, deprezzato il valore di mercato dell’azione: ciò si spiega però facilmente pensando che non è giusto che sul socio di una controllata ricada il rischio della mala gestione di una società nei confronti della quale non ha alcun potere amministrativo e che, contemporaneamente, appare coerente che la controllante subisca le svantaggiose conseguenze della sua posizione così come ne ricava i legittimi vantaggi.

La responsabilità quindi nasce dalla mala gestio della holding, ma può essere esclusa nel caso in cui la holding dimostri che l’interesse perseguito non è il proprio o quello di un terzo, bensì l’interesse del gruppo destinato a tradursi in un vantaggio indiretto per tutte le società che al gruppo appartengono. Non ci sarà nemmeno danno risarcibile quando, a fronte del pregiudizio subito dalla controllata, sia a questa offerta una specifica compensazione.

Il problema è che, trattandosi di responsabilità per illecito, chi agisce deve provare la colpa della controllante, il che non è quasi mai semplice: la maggior parte delle volte, infatti, le operazioni poste in essere dagli amministratori della controllata sono sì il frutto di direttive impartite dalla società holding, ma quasi sempre impartite in forma confidenziale. È pur vero che l’azione di direzione e coordinamento si presume, ma non si può sostenere che gli amministratori della holding, per il solo fatto di essere tali, siano artefici di qualsiasi operazione posta in essere dalla controllata.

Al massimo, riprendendo l’art. 2392 si potrà sostenere che la holding, consentendo che la controllata ponesse in essere operazioni pregiudizievoli, abbia violato il generico dovere di vigilanza previsti.

In solido con la holding rispondono, sempre ex. 2497, coloro che abbiano comunque preso parte al fatto lesivo, quindi gli amministratori e i direttori generali della holding, in qualità di emissari della direttiva pregiudizievole, e gli amministratori della controllata, in qualità di esecutori della stessa, più chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio (come la società sorella a favore della quale siano state arbitrariamente trasferite le risorse spettanti ad un’altra società del gruppo).

I soci e i creditori sociali della controllata che vogliano agire contro la holding devono però, ai sensi del 2497.3, preventivamente escutere la controllata stessa e solo in un secondo momento, in caso di mancato soddisfacimento, potranno rivolgersi alla holding (la quale quindi gode del beneficio di preventiva escussione a livello patrimoniale). A livello giudiziario, invece, sia la holding sia la società controllata potranno essere convenute in giudizio in prima battuta, senza alcun tipo di beneficio di preventiva escussione. Nel caso di condanna al risarcimento dei danni, però, gli attori dovranno necessariamente escutere preventivamente la società controllata.

L’art. 2497 quater dispone inoltre un ulteriore rimedio per il socio danneggiato dalla scorretta direzione esercitata dalla holding, egli infatti potrà recedere quando <la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento ha deliberato una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, ovvero ha deliberato una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società controllata; quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art.2497, ma solamente per l’intera partecipazione del socio>.

66

Page 67: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il legislatore ha inoltre previsto per la holding la possibilità di precostituirsi la prova della sua estraneità all’operato della controllata, dimostrando di aver adottato, prima della commissione dell’illecito, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire illeciti, e che le persone che li hanno commessi hanno eluso fraudolentemente tali modelli di organizzazione e di gestione.

L’unità dell’impresa di gruppoIl gruppo è formato da una pluralità di società: sotto alcuni aspetti, però, emerge il suo carattere

unitario.La controllante deve infatti redigere il bilancio consolidato di gruppo; la circolazione endogruppo

delle partecipazioni azionarie non vale, agli effetti delle norme sull’offerta pubblica di acquisto, come negoziazione di mercato ed è sottratta all’obbligo di offerta pubblica; il gruppo si presenta come un’unica impresa e, in particolare, come unica unità concorrenziale: ciò vuol dire che se più imprese appartenenti allo stesso gruppo e con sede in stati diversi si accordano, non c’è violazione delle norme antitrust; il marchio del quale sia titolare la società holding può essere liberamente utilizzato dalle controllate.

La riforma del 2003 ha inoltre imposto obblighi di pubblicità: l’art. 2497 bis esige che la società di gruppo rilevi negli atti e nella corrispondenza, nonché mediante apposita iscrizione nel registro delle imprese a cura degli amministratori, la propria natura di società di gruppo. Il secondo comma del medesimo articolo impone invece alla holding di iscrivere in un’apposita sezione del registro delle imprese l’elenco di tutte le società controllate.

La violazione di questi obblighi è fonte di responsabilità per gli amministratori, anche se non è previsto un vero e proprio termine per l’adempimento, ma si ritiene che esso debba essere tempestivo.

Non sussiste obbligo di pubblicità, perché non ci si trova nel caso di impresa di gruppo, quando la partecipazione in un’altra società non sia motivata dall’intento di esercitare attività di direzione e coordinamento, ma solo da intenti reddituali.

L’ASSEMBLEALa competenza dell’assemblea

Come detto, la società per azioni si articola in una pluralità di organi sociali: i soci in quanto tali compongono solamente uno di questi organi, l’assemblea.

L’assemblea è ordinaria o straordinaria a seconda della materia da trattare: se gli oggetti posti in deliberazione rientrano tra quelli indicati agli articoli 2364 e 2364 bis ci si trova di fronte ad un’assemblea ordinaria, mentre se appartengono all’elenco dell’art. 2365 allora ci troviamo di fronte ad un’assemblea straordinaria: la differenza di materia, e la diversa rilevanza sulla vita della società stessa, determina diversi quorum costitutivi e deliberativi a seconda che l’assemblea sia ordinaria o straordinaria.

Inoltre il verbale di assemblea straordinaria deve essere necessariamente redatto da un notaio (art. 2375.2), dato che tutte le deliberazioni prese in tale sede sono destinate all’iscrizione nel registro delle imprese e, quindi, necessitano di un titolo per l’iscrizione particolarmente qualificato.

La competenza dell’assemblea ordinaria varia a seconda che si sia in presenza del sistema ordinario (e allora varrà quanto contenuto all’art. 2364) oppure sia stato adottato dallo statuto un sistema diverso, cosiddetto dualistico, che tra assemblea e amministratori interpone il consiglio di sorveglianza (e allora ci si rifarà al 2364 bis).

L’articolo 2364 c.c., rubricato “Assemblea ordinaria nelle società prive di consiglio di sorveglianza”, individua le seguenti competenze dell’assemblea ordinaria:

1. approva il progetto di bilancio redatto dagli amministratori2. nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio

sindacale e, quando previsto, il soggetto al quale è demandato il controllo contabile;3. determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito dallo statuto;4. delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;5. delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché

sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli

67

Page 68: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti (come la deliberazione di autorizzazione all’acquisto delle proprie azioni o di distribuzione degli utili);

6. approva l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.L’articolo 2364-bis, rubricato “Assemblea ordinaria nelle società con consiglio di sorveglianza”,

prevede invece un più ristretto numero di competenze dell’assemblea ordinaria, ed in particolare:1. nomina e revoca dei consiglieri di sorveglianza;2. determina il compenso ad essi spettanti, se non è stabilito nello statuto;3. delibera sulla responsabilità dei consiglieri di sorveglianza;4. delibera sulla distribuzione degli utili;5. nomina il revisore.

L’assemblea straordinaria, secondo quanto disposto dall’art. 2365 c.c., a sua volta delibera <sulle modificazioni dello statuto, sulla nomina, sulla sostituzione e sui poteri dei liquidatori e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza. Fermo restando quanto disposto dagli art. 2420 ter (delega statutaria agli amministratori di emettere obbligazioni convertibili) e 2443 (delega statutaria agli amministratori per deliberare l’aumento di capitale), lo statuto può attribuire alla competenza dell’organo amministrativo o del consiglio di sorveglianza o del consiglio di gestione le deliberazioni concernenti la fusione, l’istituzione o la soppressione di sedi secondarie, l’indicazione di quali tra gli amministratori hanno la rappresentanza della società, la riduzione del capitale in caso di recesso del socio, gli adeguamenti dello statuto a disposizioni normative, il trasferimento di sede sociale nel territorio nazionale. In ogni caso tali decisioni devono essere iscritte nel registro delle imprese>.

A ben vedere le competenze dell’assemblea, sia ordinaria sia straordinaria, ci si accorge di come essa non abbia più, com’era in passato, competenza generale: essa può validamente deliberare solo nelle materie che siano espressamente attribuite alla sua competenza dai due elenchi tassativi appena elencati.

Ogni materia che non rientri entro questi due elenchi sarà di competenza dell’organo amministrativo, che viene così ad avere competenza generale (ad eccezione di quanto sia espressamente attribuito al collegio sindacale).

Analizzando la natura delle materie di competenza dell’assemblea ci si rende poi conto di come ad essa spettino solo i supremi atti di governo della società: nomina, per un periodo non superiore ai tre esercizi, gli amministratori e li può revocare, in qualunque tempo, approva o disapprova il progetto di bilancio annuale predisposto dagli amministratori, decide sulla distribuzione degli utili e ha la possibilità di deliberare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci.

Tutto ciò che riguarda la gestione della società è invece di competenza esclusiva degli amministratori. L’assemblea non può nemmeno impartire direttive generali, né tanto meno dare specifici ordini agli amministratori circa il compimento degli atti d’impresa, né può sostituirsi ad essi per deliberarli. Gli amministratori sono legittimati a respingere ogni ingerenza dell’assemblea per quel che riguarda la propria sfera di competenza, tanto che secondo opinione diffusa, le deliberazioni assembleari che eccedano la competenza assembleare e invadano la sfera di competenza degli amministratori sono inefficaci.

Le autorizzazioni dell’assemblea agli amministratoriL’articolo 2364.1 al n.5 prevede tra le competenze dell’assemblea ordinaria quella di deliberare

<sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori>: per mantenere l’autonomia e la separazione dei poteri è però subito precisato <ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti>.

Tale disposizione ha preso il posto del vecchio punto 4 dell’articolo 2364, il quale prevedeva che lo statuto potesse riservare alla competenza dell’assemblea ordinaria anche oggetti attinenti alla gestione della società: in questo modo si assisteva al trasferimento di qualunque tipo di competenza gestionale dalla competenza degli amministratori a quella assembleare, in modo che l’operato dei primi fosse inevitabilmente determinato dalla volontà dell’assemblea.

Il fatto che alcune competenze degli amministratori fossero nelle mani dell’assemblea e che fosse questa a deliberare, magari in pregiudizio del patrimonio sociale e dei creditori, poneva però il problema se coloro che risultassero pregiudicati potevano, o meno, agire in responsabilità contro gli amministratori:

68

Page 69: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

se da un lato c’era chi sosteneva che gli amministratori, avendo agito in conformità di una delibera assembleare, non potessero risultare responsabili, d’altro lato c’era chi sosteneva che gli amministratori avessero in ogni caso l’obbligo di diligenza e di attuare una bona gestio, e che quindi fossero da ritenere responsabili.

La riforma del 2003 ha risolto ogni tipo di equivoco in quanto ha espressamente previsto che <la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori>, lasciando che lo statuto possa, al massimo, richiedere la previa autorizzazione dell’assemblea, fatta in ogni caso salva la responsabilità degli amministratori.

L’autorizzazione rimuove un ostacolo al compimento di un atto, ma non obbliga gli amministratori a compierlo: senza autorizzazione gli amministratori non possono porre in essere quella determinata operazione, ma nel caso in cui essa risulti pregiudizievole per il patrimonio sociale, e quindi per i creditori, essi si dovranno astenere dall’eseguirla.

Le regole di funzionamento dell’assemblea: la convocazione, quando e comeL’articolo 2366 disciplina che <l’assemblea è convocata dagli amministratori o dal consiglio di

gestione mediante avviso contenente l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo dell’adunanza e l’elenco delle materie da trattare>. Gli amministratori hanno poi l’obbligo di convocare l’assemblea almeno una volta all’anno entro al massimo 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale: ma essi dovranno anche convocare l’assemblea quando sia venuta a mancare la maggioranza degli amministratori, o debba essere integrato il collegio sindacale, quando debba essere deliberata la riduzione obbligatoria del capitale sociale e quando si è verificato un fatto che determina lo scioglimento della società.

Fuori da questi casi la convocazione dell’assemblea è rimessa alla discrezione degli amministratori, ma si ritiene che la mancata convocazione laddove a posteriori appaia che sarebbe stata opportuna, costituisca violazione del generale dovere di diligenza.

Ma gli amministratori possono anche aver omesso o essere in ingiustificato ritardo, e allora spetterà al collegio sindacale convocare l’assemblea ed eseguire le pubblicazioni prescritte dalla legge (art. 2367 e 2406).

Vi può poi essere il caso in cui tutti gli amministratori siano venuti a cessare, e allora, ai sensi dell’art. 2386 ult, <l’assemblea deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione>.

Nel caso in cui il collegio sindacale abbia ravvisato (ex. art. 2406) o in cui gli siano stati denunciati dai soci fatti censurabili (ex. art 2408) allora esso dovrà convocare l’assemblea previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione.

Nel 2003 è stata poi introdotta la legittimazione delle minoranze sociali: ai sensi dell’articolo 2367, infatti, <gli amministratori o il consiglio di gestione devono convocare senza ritardo l’assemblea, quando ne è fatta domanda da tanti soci che rappresentino almeno il decimo del capitale sociale o la minore percentuale prevista nello statuto, e nella domanda sono indicati gli argomenti da trattare. Se gli amministratori o il consiglio di gestione, oppure in loro vece i sindaci o il consiglio di sorveglianza o il comitato per il controllo sulla gestione, non provvedono, il tribunale, sentiti i componenti degli organi amministrativi e di controllo, ove il rifiuto di provvedere risulti ingiustificato, ordina con decreto la convocazione dell’assemblea>.

Tale disposizione non può essere invocata, però, nelle materie per le quali l’iniziativa della convocazione non può essere assunta che dall’organo amministrativo: così per l’approvazione del bilancio, per le delibere sulla fusione o sull’aumento di capitale da liberare con conferimenti in natura e da eseguire con l’esclusione del diritto di opzione, ossia in tutti i casi in cui l’assemblea non può deliberare se non su proposta illustrata dall’organo amministrativo con apposita relazione.

Molto spesso l’assemblea in prima convocazione non raggiunge i quorum costitutivi necessari, e si deve ricorrere ad una seconda convocazione, per la quale sono richiesti, come si vedrà, diversi quorum costitutivi e deliberativi.

La convocazione dell’assemblea è fatta mediante avviso pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica o in almeno un quotidiano indicato nello Statuto con almeno quindici giorni di anticipo:

69

Page 70: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

esso deve contenere l’indicazione del giorno, dell’ora, del luogo dell’adunanza e l’elenco delle materie da trattare.

Per le società che non fanno riscorso al mercato del capitale di rischio è ammessa la possibilità che la convocazione non sia pubblicata su un quotidiano, ma che sia effettuata mediante avviso comunicato ai soci con mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento, almeno otto giorni prima dell’assemblea.

Il fatto che tali formalità non siano state correttamente adempiute non rileva qualora in assemblea sia ugualmente rappresentata la totalità del capitale sociale e sia intervenuta la maggioranza dei sindaci e degli amministratori.

In ogni caso ciascun partecipante può opporre di non essere stato sufficientemente informato su di un argomento.

L’assemblea può invece essere rinviata a non oltre cinque giorni nel caso in cui almeno un terzo del capitale sociale dichiari di non essere sufficientemente informato sugli oggetti posti in deliberazione.

A volte l’ordine del giorno contiene la formula “e provvedimenti consequenziali”, il che può apparire alquanto vago e imprecisato: la giurisprudenza però ritiene valide le deliberazioni assunte sulla base di tale formula, ma solo qualora siano effettivamente consequenziali ad altri argomenti e ad altre delibere adottate sulla base dell’ordine del giorno.

Come detto in precedenza, molto spesso è necessario ricorrere ad una seconda convocazione dell’assemblea: per questo motivo è consentito che nell’avviso di prima convocazione sia indicato anche il giorno della seconda convocazione, la quale, però, non potrà essere fissata nello stesso giorno della prima.

Intervento in assemblea e rappresentanza dei soci Secondo il disposto dell’art 2370, possono intervenire in assemblea solo gli azionisti cui spetti il

diritto di voto, o comunque tutti coloro cui spetti il diritto di voto inerente alle azioni (quindi anche l’usufruttuario e il creditore pignoratizio).

Gli aventi diritto al voto devono dimostrarsi possessori del titolo e, se lo statuto lo richiede, devono previamente depositare presso la sede o presso le banche indicate nell’avviso di convocazione, i propri titoli entro un termine (non superiore ai due giorni nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) fissato, ricevendo in cambio il c.d. biglietto di ammissione.

Gli azionisti possono intervenire in assemblea di persone, o farvi intervenire dei propri rappresentanti cui abbiano rilasciato procura scritta.

Prima delle riforme del 1974 e del 2003 accadeva che alcune banche ricevessero numerose procure generali in modo da rappresentare in sede di assemblea percentuali elevatissime del capitale sociale: formalmente sembrava che all’assemblea avessero partecipato e votato numerosi soci, in realtà si trattava di un solo soggetto dotato di migliaia di procure.

Per tali motivi sono stati introdotti dei correttivi che hanno dapprima vietato la possibilità di procure generali senza limiti di tempo e valide per tutte le assemblee: è stato infatti stabilito che la rappresentanza può essere conferita soltanto per le singole assemblee, a meno che si tratti di procura generale relativa a tutti gli affari del socio.

È in secondo luogo vietata la procura in bianco, ossia non attribuita ad un soggetto specifico (nel caso di persona giuridica essa potrà incaricare soltanto un dipendente o un collaboratore).

Sono poi stati posti dei limiti quantitativi: secondo l’articolo 2372 <la stessa persona non può rappresentare in assemblea più di venti soci o, se si tratta di società che ricorre al mercato del capitale di rischio, più di cinquanta soci se la società ha capitale compreso tra i 5 e i 25 mln di euro, e più di duecento se la società ha capitale superiore ai 25 mln di euro>.

In ogni caso la rappresentanza non può essere conferita agli amministratori, ai sindaci e ai dipendenti della società o di società controllate o controllanti: si è voluto quindi evitare che gli amministratori, facendo incetta di procure, potessero affrancarsi dal controllo dell’assemblea.

Il presidente dell’assembleaA norma dell’art. 2371 <l’assemblea è presieduta dalla persona indicata nello statuto o, in

mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti>. Il presidente inoltre è assistito da

70

Page 71: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

un segretario designato nello stesso modo. La presidenza dell’assemblea è superflua quando il verbale è redatto da un notaio.

Ma quali sono i poteri del presidente? Sicuramente egli ha il potere di dichiarare aperta e chiusa la seduta, di porre in discussione le materie all’ordine del giorno, di dare la parola, di moderare, di assicurare l’ordinato svolgimento dei lavori assembleari e di proclamare il risultato delle votazioni.

Ci si chiedeva, però, se a tali poteri se ne potessero aggiungere altri, quali il potere di impedire l’intervento in assemblea a chi non ne abbia diritto (socio apparente) o quello di impedire l’esercizio del voto agli intervenuti che non possono validamente votare (incapaci di agire, socio in conflitto d’interessi).

La riforma del 2003 ha riformulato l’articolo 2371 precisando che <il presidente verifica la regolarità della costituzione, accerta l’identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento ed accerta il risultato delle votazioni>: egli si trova quindi ad avere poteri alquanto estesi.

a) Verifica qual è la quota di capitale presente o rappresentata: si tenga presente che nel calcolo del quorum costitutivo si tiene anche conto delle azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto (2368.3)

b) Accerta l’identità dei presenti e la loro legittimazione all’intervento, escludendo quindi i non soci o i soci privi del diritto di intervento (nudi proprietari o soggetti privi di idonea procura)

c) Regola lo svolgimento dell’assemblead) Accerta il risultato delle votazioni, ossia il raggiungimento del quorum deliberativo,

escludendo da esso le azioni per le quali non poteva essere esercitato il diritto di voto e dei soci che abbiano dichiarato di astenersi in quanto in conflitto d’interessi. Tale indagine non deve però essere approfondita: il presidente infatti avrà il dovere di rilevare solo quelle azioni per le quali, prima facie, il voto è escluso.

La nuova formulazione del 2371 sembra inoltre essere tale da risolvere il dibattito relativo alla natura dei poteri del presidente: se prima del 2003 si riteneva che i suoi poteri fossero derivati dall’assemblea, perché essa è libera di determinare lo svolgimento dei propri lavori, oggi si deve dire, data la rilevanza dei poteri e la funzione di controllo sull’assemblea che gli sono stati attribuiti, che la carica di presidente ha natura autonoma.

Il voto e la deliberazioneIl voto è atto unilaterale fra vivi avente contenuto patrimoniale.Gli articoli 2368-2369 pongono le regole che governano il calcolo della maggioranza: si deve

innanzitutto distinguere tra quorum costitutivo e quorum deliberativo: il primo indica la quota di capitale che deve essere presente perché l’assemblea possa ritenersi validamente formata; il secondo è la quota di capitale rispetto alla quale calcolare la maggioranza o la minore quota di capitale richiesta per deliberare.

Mentre nel determinare il quorum costitutivo si tiene anche conto delle azioni il cui diritto di voto non può essere esercitato, come le azioni proprie acquistate dalla società, nel determinare il quorum deliberativo si può tener conto solamente delle azioni per le quali tale diritto può essere validamente esercitato (quindi non si tiene conto della presenza del socio in conflitto d’interessi che abbia deciso di astenersi, delle azioni prive del diritto di voto e si dovranno escludere i voti successivamente annullati in quanto espressi da chi non poteva votare, come gli incapaci di agire).

Lo statuto può prevedere maggioranze più elevate di quelle disposte dal codice civile, ma non nel caso di approvazione del bilancio o revoca degli amministratori: non può, invece, rendere sufficienti maggioranze meno elevate, e comunque in nessun caso può essere richiesta l’unanimità o maggioranze tali da equivalere, sostanzialmente, ad essa.

Si passi ora ad analizzare nel dettaglio quali sono i quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea a seconda dell’oggetto e della convocazione:

Assemblea ordinaria1°conv QC: ½ capitale sociale presente (escluse le

azioni prive del diritto di voto)QD: maggioranza assoluta (a meno di diversa previsione statutaria)

2°conv QC: qualunque quota di capitale sociale QD: maggioranza assoluta (a meno di

71

Page 72: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

presente diversa previsione statutaria)Conv. Ulteriori

QC: qualunque quota di capitale sociale presente

QD: maggioranza assoluta (a meno di diversa previsione statutaria)

Assemblea straordinariaSocietà ordinaria Società che ricorre al mercato del

capitale di rischio1° conv QC: non è richiesto QD: più di ½

del capitale sociale

QC: ½ del capitale sociale

QD: almeno 2/3 del capitale presente

2° conv QC: oltre 1/3 del capitale sociale

QD: almeno 2/3 del capitale presente

QC: oltre 1/3 del capitale sociale

QD: almeno 2/3 del capitale presente

Conv ulteriori

QC: oltre 1/3 del capitale sociale

QD: almeno 2/3 del capitale presente

QC: almeno 1/5 del capitale sociale

QD: almeno 2/3 del capitale presente

Tutte le deliberazioni riguardanti il cambiamento dell’oggetto sociale, la trasformazione della società, lo scioglimento anticipato o la proroga della società, la revoca dello stato di liquidazione, il trasferimento della sede e l’emissione di azioni privilegiate richiedono, nelle convocazioni successive alla prima richiedono comunque il voto favorevole di almeno un terzo del capitale sociale.

Le deliberazioni assembleari devono poi “constare da verbale”, ossia risultare da un documento scritto che deve essere sottoscritto dal presidente e dal segretario e che, se si tratta di assemblea straordinaria, deve essere redatto da un notaio.

La riforma del 2003 ha determinato l’assunzione da parte del legislatore di una posizione molto rigorosa: infatti ha disposto che in caso di mancanza del verbale vi sia nullità della deliberazione, precisando, però, che non si può dire mancante il verbale se contiene, quantomeno la data della deliberazione, il suo oggetto, la sottoscrizione del presidente dell’assemblea o del cda o del consiglio di sorveglianza, e del segretario o del notaio, e che tale nullità è sanata se la verbalizzazione originariamente mancante viene eseguita prima dell’assemblea successiva.

Il verbale deve essere, inoltre, analitico e non sintetico: tale requisito è però posto a pena di annullabilità.

Invalidità delle deliberazioni assembleari: annullabilità e nullitàA differenza di quanto si rinviene tradizionalmente nei principi generali dell’ordinamento,

relativamente alle deliberazioni assembleari si assiste ad un ribaltamento dei concetti di nullità e di annullabilità: se, di norma, la prima è azione generale con legittimazione assoluta dato che è determinata da violazione di norme imperative, mentre la seconda spetta solo in casi espressamente previsti e solamente ad alcuni soggetti legittimati, nel caso delle delibere l’azione di annullamento è generale mentre quella di nullità è speciale.

La deliberazione è nulla solo nei casi tassativamente indicati dall’art. 2372, mentre è annullabile, ex art 2377 c.c. in ogni altro caso in cui risulti presa “non in conformità della legge o dello statuto”.

Il carattere generale dell’azione di annullamento, però, non determina il fatto che chiunque abbia interesse possa farla valere: essa infatti è riconosciuta soltanto agli amministratori, al consiglio di sorveglianza, al collegio sindacale, ai soci assenti, dissenzienti o astenuti e al rappresentante comune degli azionisti di risparmio.

In particolare l’art. 2377 stabilisce che <l’impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre; lo statuto può ridurre od escludere questo requisito>: i soci sono quindi legittimati all’azione di impugnazione per contrarietà della deliberazione

72

Page 73: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

allo statuto od alla legge solamente in quanto soci qualificati. A favore dei soci che non raggiungano queste percentuali o che non abbiano diritto di voto ma siano pregiudicati dalla deliberazione si assiste però alla trasformazione del diritto di impugnazione in un diritto al risarcimento: sempre l’art. 2377 infatti dispone che <i soci che non rappresentano la parte di capitale indicata nel comma precedente e quelli che, privi di voto, non sono legittimati a proporre l’impugnativa, hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto>: in questo modo si è voluto minimizzare l’incertezza ed evitare che la società si trovi esposta ad estese incertezze di ordine giuridico costituita da una facile impugnabilità delle deliberazioni assembleari. Allo stesso tempo è poi protetto l’interesse dei terzi che vogliano concludere affari con la società, venendo ridotto il rischio di vedersi opporre l’annullamento di una delibera ad affare ormai concluso.

L’azione di impugnazione deve essere esercitata con atto di citazione al tribunale del luogo ove la società ha sede entro 90 giorni dalla data della deliberazione o, se questa è sottoposta ad iscrizione o a deposito nel registro delle imprese, dalla data di iscrizione o di deposito.

Non può impugnare chi abbia ceduto le proprie azioni prima della deliberazione, mentre può impugnare chi le abbia acquistate in seguito, ma entro i suddetti termini.

L’impugnazione non sospende, in linea di principio, l’esecuzione della deliberazione impugnata. Un siffatto provvedimento cautelare può essere concesso solo in caso di eccezionale e motivata urgenza da parte del presidente del tribunale, per poi essere confermata entro 15 giorni.

La sospensione è però tale da interrompere l’efficacia della deliberazione, e non solo la sua esecuzione, quindi anche di sospendere deliberazioni come quella di revoca degli amministratori che sono immediatamente esecutive.

Secondo il 5° comma dell’art. 2377, <la deliberazione non può essere annullata: per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea; per l’invalidità dei singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto errato o l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; per l’incompletezza o inesattezza del verbale, salvo che impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione>.

Nel caso di annullamento per invalidità dei singoli voti bisogna dire che questa può consistere nella nullità dovuta a violenza fisica o nell’inefficacia dovuta alla mancanza di procura o all’eccesso di potere del rappresentante o per conflitto d’interessi tra socio e società: non ci sarà annullamento della deliberazione se i voti invalidi non risulteranno determinanti. Questo comma dell’articolo 2377 è stato introdotto anche per ovviare alla querelle relativa alla possibilità di ritenere inesistenti le deliberazioni prese con il voto di chi non fosse socio o che fosse stata approvata in base ad un errore di calcolo: la riforma ha quindi escluso la possibilità di un’inesistenza delle deliberazioni, e anzi ha introdotto una riserva di legge volta proprio ad escludere altri casi al di fuori dell’annullabilità e della nullità.

Inoltre l’annullamento della deliberazione non può avere luogo se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto o se è revocata dall’assemblea con altra deliberazione che ne cancella gli effetti, anche i diritti attribuiti ai soci.

Dei tassativi casi di nullità si occupa l’articolo 2379 c.c., che ne individua solo tre, e precisamente: a) Mancata convocazione dell’assemblea, a meno che ci si trovi di fronte ad assemblea

totalitaria. Non si ha comunque mancanza della convocazione quando questa, seppur irregolare, proviene da un componente dell’organo amministrativo o di controllo della società ed è idonea a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti. Non può far valere tale causa di nullità chi, anche successivamente all’assemblea, abbia espresso il proprio consenso allo svolgimento della stessa.

b) Mancanza del verbale: il verbale non si considera mancante se contiene la data, il suo oggetto ed è sottoscritto dal presidente dell’assemblea o dal presidente del cda o del consiglio di sorveglianza, e dal segretario o dal notaio. Tale vizio può essere sanato da una successiva verbalizzazione entro l’assemblea successiva e non può in ogni caso essere fatto valere da chi abbia espresso il proprio assenso allo svolgimento dell’assemblea stessa.

c) L’impossibilità o l’illiceità dell’oggetto: si tratta sia di impossibilità materiale sia di impossibilità giuridica, mentre per illiceità si intende l’illegalità dell’oggetto, vietato dalla

73

Page 74: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

legge. È illecito l’oggetto della deliberazione che modifichi lo statuto in modo da escludere la distribuzione degli utili ai soci, o che escluda o renda più gravoso l’esercizio del recesso o che escluda il diritto di opzione dei soci per i futuri aumenti di capitale. Si ha oggetto illecito anche quando l’assemblea approva un bilancio falso.

Le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità richiesta, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza.

L’azione di nullità si prescrive, e questa è una deroga rispetto ai principi generali che la vogliono imprescrittibile, in tre anni che decorrono dalla data di deliberazione o dalla data del deposito o dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Nel caso di deliberazioni aventi per oggetto l’aumento o la riduzione del capitale o l’emissione di obbligazioni non possono essere impugnate per annullabilità dopo che siano trascorsi 180 giorni dalla iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o, nel caso di nullità per mancata convocazione, novanta giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio nel corso del quale la deliberazione è stata anche parzialmente eseguita. In questi casi anche l’azione di nullità per illiceità dell’oggetto è sottoposta a termini di decadenza brevi.

Addirittura nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la deliberazione che aumenta il capitale non può essere impugnata dopo che sia stata iscritta nel registro delle imprese, mentre l’invalidità delle deliberazioni di riduzione del capitale o di emissione delle obbligazioni non può essere pronunciata dopo che la deliberazione sia stata anche parzialmente eseguita.L’abuso del diritto di voto: il conflitto di interessi

L’impugnazione delle deliberazioni assembleari può avvenire, come visto, solamente per via del fatto che non siano prese in conformità della legge o dello statuto: in nessun modo vi può essere un sindacato sulla convenienza o l’opportunità della deliberazione, a meno che questo non sia funzionale a riscontrare un vizio di legittimità formale.

Un controllo del merito della deliberazione sarà allora consentito quando la sua scarsa ragionevolezza faccia presumere che, in realtà, vi sia stato un abuso da parte della maggioranza per ottenere vantaggi esterni alla società: in questo caso ci si trova nella situazione di impugnare nel merito la deliberazione perché essa è frutto di una violazione della legge, ossia del divieto di deliberare in conflitto di interessi con la società.

Un ulteriore caso è quello del singolo voto espresso in conflitto di interessi con la società, che può essere, come detto, invalidato, portando, nel caso in cui fosse determinante per il quorum deliberativo, anche all’annullamento della deliberazione. Si avrà conflitto di interessi non per il solo fatto che egli sia titolare di interessi contrapposti a quello sociale, ma tutte le volte nelle quali il voto del socio in conflitto d’interessi sia tale da poter creare danni alla società, ossia sia pericoloso per essa e determinante ai fini dell’approvazione della deliberazione.

In entrambi i casi, sia quello di abuso della posizione di maggioranza sia di conflitto di interessi, il giudice al cui cospetto la deliberazione sarà impugnata, non provvederà ad un sindacato di merito della deliberazione, ossia non ne valuterà l’opportunità o la convenienza, ma si limiterà a constatare che il diritto di voto è stato esercitato per realizzare interessi estranei alla causa del contratto di società, nel primo caso, o in maniera tale da arrecare pericolo alla società stessa, nel secondo caso.

L’articolo 2373 inoltre prevede che vi sia conflitto di interessi in re ipsa qualora gli amministratori o i sindaci votino nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità, e che, quindi, tali voti siano in ogni caso invalidi.

Abuso del voto positivo e abuso del voto negativoCosì come si è parlato di abuso del voto in senso positivo, esercitato tramite il voto favorevole su

deliberazioni ai danni della società (perseguendo interessi ad essa estranei) o ai danni dei soci di minoranza (ad esempio deliberando lo scioglimento della società per liberarsi di un socio poco gradito), ci si chiede se allo stesso modo si possa parlare di abuso del voto negativo, esercitato, invece, votando sistematicamente contro l’approvazione del bilancio senza per altro lamentare alcuno specifico vizio del bilancio stesso.

74

Page 75: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’articolo 1375 relativo all’obbligo di buona fede nell’esecuzione dei contratti, nascendo la società da contratto, può essere invocato anche in questa situazione? Se si seguisse la strada dell’ordinamento francese, che ha introdotto il concetto di minoranza di blocco, bisognerebbe rispondere positivamente, e sembra che su questa strada si stia incamminando anche il nostro ordinamento.

GLI AMMINISTRATORICompetenza e composizione dell’organo amministrativo

La riforma del 2003 ha introdotto anche nel nostro ordinamento la possibilità per le società di scegliere tra un sistema ordinario di amministrazione e di controllo della società, che vale qualora non lo statuto non preveda diversamente, un sistema dualistico (di importazione germanica) e un sistema monistico, di radice anglosassone.

In ogni caso gli amministratori sono gli unici detentori del potere di gestione della società: a loro soli spetta prendere le decisioni sulla vita della società ed eseguirle in base alla rappresentanza loro attribuita.

Il potere decisionale, ai sensi dell’articolo 2380 bis, spetta esclusivamente a loro ed ha carattere generale, estendendosi a tutto ciò che non sia dalla legge attribuito all’assemblea. In particolare la riforma del 2003 ha attribuito agli amministratori competenze, come l’emissione di obbligazioni, che prima erano nelle mani dell’assemblea, ed ha dato anche la possibilità allo statuto di estendere ancor più il raggio di azione dell’organo decisionale.

Oltre ai poteri decisionali essi hanno, come già detto, potere di iniziativa dell’attività dell’assemblea, spettando primariamente a loro il potere di convocarla e di redigere l’ordine del giorno.

Essi dovranno, inoltre, predisporre il progetto di bilancio annuale e avranno il potere di dare esecuzione alle deliberazioni dell’assemblea, dato che essa, organo esclusivamente deliberativo, non vi può provvedere autonomamente.

L’organo amministrativo può essere formato da una sola persona, l’amministratore unico o, come più solitamente accade, essere formato da una pluralità di persone, che compongono il consiglio di amministrazione.

Ai sensi del secondo comma dell’art. 2380-bis, gli amministratori possono essere soci o non soci, ma devono in ogni caso essere persone fisiche, per evitare che l’indicazione dell’amministratore spetti ad altri rispetto all’assemblea.

Nomina, revoca e compenso degli amministratoriLa nomina degli amministratori spetta, inderogabilmente, all’assemblea, fatta eccezione per i primi

amministratori che sono nominati nell’atto costitutivo.La nomina degli amministratori avviene con deliberazione assunta dall’assemblea ordinaria.Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono

alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica; sono però rieleggibili.

L’assemblea può sempre revocarli, anche prima della scadenza del termine, senza alcuna necessità di motivare le ragioni della revoca: se però la revoca avviene senza giusta causa, l’amministratore revocato ha diritto al risarcimento del danno. È espressamente prevista dal codice come giusta causa di revoca l’assunzione da parte degli amministratori della qualità di soci illimitatamente responsabili, di amministratori o direttori generali in società concorrenti, salva autorizzazione dell’assemblea.

Una volta nominato l’amministratore deve chiedere l’iscrizione nel registro delle imprese.L’amministratore può in qualunque momento rinunciare all’ufficio, dandone comunicazione

scritta al consiglio di amministrazione e al presidente del collegio sindacale: se però la rinuncia determina il venir meno della maggioranza degli amministratori essa non ha efficacia fino a quando la maggioranza sarà ricostituita.

La sostituzione degli amministratori che vengano eventualmente meno durante l’esercizio, senza che venga meno la maggioranza degli stessi, avviene per mezzo di cooptazione eseguita dagli amministratori rimasti, i quali provvedono, con propria deliberazione, a sostituirli. Gli amministratori cooptati decadranno nel momento in cui l’assemblea provvederà alla nomina dei nuovi amministratori, senza necessità di revocarli. Se invece viene meno la maggioranza degli

75

Page 76: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

amministratori, quelli rimanenti non possono procedere alla cooptazione, ma devono convocare l’assemblea perché provveda alla sostituzione di quelli mancanti (o di tutto il consiglio se è prevista la clausola simul stabunt simul cadent, ossia, coloro che stanno insieme decadono insieme).

Nel caso in cui vengano meno tutti gli amministratori, o l’amministratore unico, spetterà al collegio sindacale di convocare d’urgenza l’assemblea e di compiere, nel frattempo, gli atti di ordinaria amministrazione.

Il compenso spettante agli amministratori, se non è stabilito dallo statuto, sarà determinato dall’assemblea o all’atto della nomina: se ciò non avviene, sarà fissato dal giudice su azione degli amministratori stessi.

La fonte dei poteri e dei doveri degli amministratoriGli amministratori, si ha avuto più volte l’opportunità di sottolinearlo, non sono mandatari

dell’assemblea: essi non sono in alcun modo vincolati, nemmeno da un contratto atipico. I poteri degli amministratori non sono, infatti, derivati, bensì originari: essi nascono direttamente dal contratto di società poiché esso prevede necessariamente un organo amministrativo.

I soci, in esecuzione del contratto di società, non si possono astenere dal nominare gli amministratori e questi ricevono i propri poteri dallo stesso contratto di società che sancisce l’acquisizione di potere da parte dell’assemblea.

La collegialità dell’organo amministrativoIl numero dei componenti del consiglio di amministrazione è determinato dallo statuto o, nel caso in

cui esso preveda solo un numero minimo e un numero massimo, dall’assemblea.Il cda avrà un presidente nominato dal consiglio stesso, o in mancanza di tale nomina,

dall’assemblea.Il consiglio di amministrazione agisce collegialmente, ossia è validamente costituito con la

presenza della maggioranza degli amministratori in carica, a meno che lo statuto non richieda un quorum più elevato: le deliberazioni sono prese a maggioranza assoluta dei presenti (art. 2388).

Mentre l’esercizio dei poteri di gestione si ritiene essere attribuiti alla collegialità degli amministratori per via della necessaria ponderazione data la sua rilevanza (e tra questi anche l’impugnazione delle deliberazioni assembleari ai sensi dell’art. 2377 dato che ne consegue l’automatica sospensione dell’esecuzione), altri poteri sono, invece, individuali.

In capo ad ogni singolo amministratore vi è sicuramente l’obbligo di agire informato, che si trasforma nel potere di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società; un altro obbligo è sicuramente quello di vigilanza sulla gestione sociale, che comporta responsabilità per gli amministratori qualora, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto potevano per impedirne il compimento, ossia riferire al consiglio affinché esso prendesse i provvedimenti del caso.

Invalidità delle deliberazioni consiliariMentre in passato la violazione ad opera del cda di norme di legge o dello statuto non dava, in

linea di principio, la possibilità di esperire azioni di nullità o annullamento delle deliberazioni consiliari, né ad opera degli amministratori dissenzienti o assenti né tanto meno da parte dei soci (a meno di lesione dei loro diritti soggettivi), ma apriva solamente le porte dell’azione di responsabilità nei loro confronti, alla possibilità di revoca per giusta causa o anche a conseguenze penali nel caso di gravi irregolarità nella gestione, la riforma del 2003 ha colmato tale lacuna.

L’articolo 2388 c.c. infatti dispone, al quarto comma, che le deliberazioni consiliari che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro 90 giorni dalla data della deliberazione. Inoltre le deliberazioni consiliari lesive dei diritti dei soci possono essere impugnate da costoro secondo lo stesso schema predisposto per l’impugnazione delle deliberazioni assembleari (2377 e 2378), ma solo qualora siano direttamente lesive dei loro diritti soggettivi (utili, diritto di opzione o prelazione…).

76

Page 77: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’impugnazione accolta determina l’annullamento delle delibere consiliari e determina la venuta meno dei diritti acquistati dai terzi di mala fede, ossia consapevoli della loro invalidità.

Un caso specificamente analizzato dall’art. 2391 è quello delle deliberazioni consiliari adottate con il voto di un amministratore che abbia un interesse nell’operazione all’ordine del giorno: affinché la deliberazione non sia impugnabile è necessario che l’amministratore dia notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale dell’interesse nell’operazione, precisandolo e che il cda motivi adeguatamente la deliberazione in questione. Se uno di queste due condizioni non è stata rispettata, o se il voto dell’amministratore portatore di interessi personali è risultato determinante per la deliberazione, allora questa sarà impugnabile qualora possa recare danno alla società.

Presidente, comitato esecutivo e consiglieri delegatiIl consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato

dall’assemblea.Salva diversa disposizione il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa

l’ordine del giorno ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri.

Ma lo statuto può attribuirgli poteri e compiti ulteriori, come ad esempio la rappresentanza della società in modo che sia lui a dare rilevanza esterna alle decisioni internamente prese dal cda.

Nelle società di capitali è poi possibile, e molto frequente nel caso di imprese di medio-grandi dimensioni, che alcune competenze vengano dallo stesso cda delegate ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti (sempre che lo statuto o l’assemblea, in caso di silenzio dello statuto, lo consentano). Nel primo caso si avrà il comitato esecutivo, organo collegiale che prenderà le decisioni in forma assembleare, mentre nel secondo caso si avranno uno o più amministratori delegati ai quali il cda potrà attribuire amministrazione congiuntiva o disgiuntiva.

Il terzo comma dell’articolo 2381 infatti stabilisce che <il consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega>.

Il consiglio di amministrazione quindi non è esautorato, in quanto può in ogni momento rimpossessarsi dei poteri delegati. Inoltre lo stesso articolo dispone che spetti al cda <valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della società e valutare il generale andamento della gestione>. In ogni caso non potranno essere delegati attribuzioni dettate dallo statuto quali il potere di emettere obbligazioni convertibili e di aumentare il capitale sociale o dalla legge, quali la redazione del progetto di bilancio. L’attribuzione al cda del compito di valutare l’andamento in base ai dati informativi che vengono ricevuti non può però limitarsi ad una mera ricezione passiva: i membri del consiglio di amministrazione dovranno in ogni caso esaminare le informazioni in modo da rappresentarsi la realtà della società e valutare. Secondo la giurisprudenza americana, gli amministratori possono, fino a quando non hanno motivo di valutare dell’attendibilità delle informazioni, legittimamente fare ragionevole affidamento su suddette informazioni che ricevono dall’organo delegato. Ma se l’informazione è poco chiara, essi hanno il dovere di richiedere informazioni ulteriori.

A loro volta gli organi delegati hanno il compito di riferire al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto, ed in ogni caso almeno ogni centottanta giorni, sul generale andamento della gestione e sulla prevedibile evoluzione delle operazioni di maggior rilievo.

Il fatto che una competenza sia propria del comitato esecutivo o di soli alcuni amministratori delegati determina il venir meno della responsabilità solidale degli altri i componenti del cda in caso di danni derivanti dall’inosservanza da parte dei primi dell’obbligo di diligenza (a meno che non ne fossero a conoscenza e non abbiano fatto quanto potevano per impedirne le conseguenze). Gli altri amministratori potranno inoltre essere chiamati a rispondere per non aver vigilato sull’operato dell’organo delegato.

77

Page 78: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il fatto che l’organo delegato agisca seguendo le direttive del cda non lo sottrae da responsabilità, in quanto esso non è vincolato ad adeguarsi e deve in ogni caso agire secondo la diligenza richiesta dalla natura dell’attività.

Potendo il cda revocare le deliberazioni dell’organo delegato, in caso di conflitto d’interessi, non si pone il problema dell’impugnazione delle delibere prese in contrasto con la legge, lo statuto o nel caso di interesse di uno degli amministratori delegati: gli altri amministratori delegati, dissenzienti o assenti, potranno infatti rivolgersi al cda per ottenere la revoca di tale deliberazione.

I direttori generaliL’articolo 2396 c.c. menziona e regola la figura dei direttori generale. Essi, a differenza degli

amministratori, sono dipendenti della società, investiti di mansioni di alta gestione, in quanto vertici dell’assetto organizzativo, subordinati solo all’organo amministrativo.

Essi ricoprono all’incirca la stessa posizione occupata dagli institori nelle imprese, e sono obbligati nei confronti della società dallo stesse norme che regolano la responsabilità degli amministratori.

Essi hanno un potere di rappresentanza inerente alla natura stessa dei compiti affidati e perciò commisurato all’estensione di questi. A differenza degli institori, però, non necessariamente tutti i direttori generali hanno contatti con i terzi: in tali situazioni è quindi corretto ritenere che essi non abbiano potere rappresentativo.

I loro poteri, a differenza di quelli degli amministratori, sono poteri derivati da un contratto di lavoro: a volte, però, si trovano ad occupare una posizione molto vicina a quella di amministratori delegati. A riguardo basti pensare che i direttori generali possono formare un organo collegiale proprio, la direzione generale o comitato di direzione, con poteri sia decisionali sia esecutivi molto forti.

Come detto essi saranno responsabili nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi così come lo sono gli amministratori. Allo stesso modo degli amministratori e degli amministratori delegati, i direttori generali dovranno in ogni caso disattendere le istruzioni impartite dal cda la cui esecuzione potrebbe arrecare alla società, ai creditori sociali, ai soci o ai terzi danni: altrimenti essi saranno chiamati a risponderne.

La rappresentanza della societàLa rappresentanza generale della società spetta, istituzionalmente, agli amministratori e, in

particolare, a quelli fra essi cui lo statuto la conferisce (art. 2328 n.9) o cui la conferisce la deliberazione assembleare di nomina (art. 2384.1).

Oltre agli amministratori, la rappresentanza della società può spettare, come visto, ai direttori generali oppure a dipendenti e mandatari in funzione di una procura ad hoc per singoli affari.

La rappresentanza in giudizio non spetterà a colui che versi in una situazione di conflitto di interessi con la società: un amministratore in tale condizione dovrà essere sostituito da un curatore speciale.

Quando la rappresentanza spetta a più amministratori, così come l’amministrazione, starà allo statuto o ad una deliberazione dello stesso consiglio a determinare se godranno del potere di agire disgiuntamente oppure congiuntamente.

Essendo la rappresentanza degli amministratori generale, qualunque atto da essi posto in essere vincola la società anche se estraneo all’oggetto sociale: tale eccesso di potere potrà infatti esclusivamente esporre l’amministratore ad un’interna responsabilità verso i soci, mentre i terzi creditori sono tutelati.

Nel caso di limitazioni statutarie o consiliari della rappresentanza degli amministratori, esse potranno essere opposte ai terzi solamente nel caso in cui venga provata la loro mala fede, ossia che abbiano, ai sensi del 2384.2, <intenzionalmente agito ai danni della società>. Non basta, quindi, la registrazione nel registro delle imprese per potere opporre le limitazioni ed ottenere una dichiarazione di inefficacia dell’operazione. È necessario che la società sia in una posizione tale da eccepire un’eccezione di dolo, come nel caso di terzo che si è fatto rilasciare dall’amministratore compiacente una fideiussione espressamente vietata dallo statuto. In tutti gli altri casi, gli atti compiuti dagli amministratori violando i limiti alla loro rappresentanza non pregiudicano la validità degli atti compiuti, ma li rendono solamente responsabili nei confronti della società per il risarcimento dei danni.

78

Page 79: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Amministrazione e rappresentanzaIl potere di rappresentanza è, di regola, dissociato da quello di amministrazione: mentre il

secondo spetta generalmente al consiglio di amministrazione, il primo compete per lo più al presidente del consiglio di amministrazione ed, eventualmente, ad uno o più consiglieri delegati.

Per questo motivo ci si domanda se l’esercizio del potere di rappresentanza, ossia la conclusione di contratti vincolanti la società nei confronti di terzi, debba sempre avvenire previo conforme esercizio del potere di deliberazione o se, invece, la mancanza di una deliberazione incida solo sul rapporto interno, rendendo l’atto del rappresentante valido ma comportando per lui una responsabilità verso la società.

Dato che, come si è detto, l’annullamento delle deliberazioni consiliari non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede allora si può dire che l’atto compiuto dal rappresentante in esecuzione di una delibera invalida o addirittura inesistente è sicuramente invalido, ma che la sua invalidità non è opponibile ai terzi in buona fede.

Affinché vi sia valido esercizio del potere di rappresentanza è quindi necessario che vi sia una valida deliberazione alle spalle, ma ciò comunque determina, al massimo, l’opponibilità ai terzi in mala fede.

Mancanza, eccesso e abuso di potere rappresentativoRelativamente alla mancanza di potere rappresentativo, l’articolo 2383.5 stabilisce che le cause di

nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi, dopo l’adempimento della prescritta pubblicità, slavo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza. A differenza del caso di limiti alla rappresentanza, nel quale è necessario provare il dolo del terzo, nel caso di cause di nullità o annullabilità della rappresentanza è sufficiente che la società provi che il terzo ne era a conoscenza o le ignorava per colpa grave.

Nel caso di eccesso di potere rappresentativo, ossia del superamento dei limiti statutari o consiliari al potere di rappresentanza vale, come detto, la regola dell’inopponibilità ai terzi, salva la possibilità di ricorrere all’exceptio doli.

Si ha abuso di potere rappresentativo quando gli atti posti in essere dal rappresentante mirano a realizzare un interesse extrasociale: in altri termini, il rappresentante è in conflitto di interessi con la società. La deliberazione consiliare adottata con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi o che non abbia dichiarato di esserlo è, come detto, annullabile: secondo alcuni, quindi, si dovrebbe procedere come per l’eccesso di rappresentanza, opponendo l’invalidità della deliberazione a tutti coloro che in mala fede, con dolo, abbiano concluso accordi con il rappresentante. Per altri, invece, l’abuso deve essere equiparato alla mancanza di potere rappresentativo e, quindi, tali atti saranno di per loro opponibili ai terzi che fossero a conoscenza del conflitto d’interessi del rappresentante.

Responsabilità degli amministratori: responsabilità verso la societàGli amministratori sono responsabili del loro operato in una triplice direzione: nei confronti

della società, nei confronti dei creditori sociali e nei confronti dei singoli soci o dei singoli terzi.L’art. 2392, relativo alla responsabilità verso la società, stabilisce che <gli amministratori devono

adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori. In ogni caso gli amministratori (salvo il loro obbligo di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società), sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze. La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto senza ritardo annotare il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale>.

Gli amministratori devono quindi agire con diligenza, prudenza e perizia, da valutare in base alla natura del loro incarico e alla loro specifiche competenze: essi potranno quindi essere chiamati a

79

Page 80: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

rispondere per gli errori commessi a causa di una carente professionalità, non per il contenuto della propria gestione. Lo standard qui indicato è, quindi, quello della diligenza del professionista: non si può pretendere che gli amministratori non tentino mai operazioni rischiose, in quanto ciò provocherebbe la paralisi del mercato, ma allo stesso tempo (nonostante qualche stato americano lo consenta) non si può consentire l’esonero della responsabilità degli amministratori. All’amministratore non possono quindi essere imputati i risultati negativi per il solo fatto di essere tali: l’economia di impresa è, infatti, economia di rischio e il mero rischio d’impresa non può ricadere su di loro. Il giudice investito della questione non potrà giudicare il merito delle scelte, a meno che esse appaiano manifestamente ed evidentemente irrazionali, o dettate da interessi extrasociali.

Gli amministratori sono solidalmente responsabili, ma non per il fatto di essere amministratori, quanto per avere colpa: ad essi infatti sarà imputato o di aver concorso alla realizzazione dell’evento dannoso per la società o di non averlo impedito o attenuato pur essendone a conoscenza, violando il suo generale dovere di diligenza. Per tali ragioni sono esenti da responsabilità gli amministratori che provino di essersi distaccati dal resto del consiglio o di aver fatto tutto quanto in proprio potere per impedire il compimento di fatti pregiudizievoli.

L’azione sociale di responsabilità, disciplinata all’art. 2393, <è promossa in seguito a deliberazione dell’assemblea, anche se la società è in liquidazione. La deliberazione concernente la responsabilità degli amministratori può essere presa in occasione della discussione del bilancio, anche se non è indicata nell’elenco delle materie da trattare, quando si tratta di fatti di competenza dell’esercizio cui si riferisce il bilancio>.

L’azione si prescrive in cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica e importa le revoca dall’incarico solamente se è votata da almeno un quinto del capitale sociale. L’azione di responsabilità può essere oggetto di transazione o di rinunzia da parte dell’assemblea, che deve deliberarle.

Essendo la responsabilità degli amministratori una responsabilità di tipo contrattuale, in quanto sorge dalla violazione del contratto sociale, all’assemblea starà provare esclusivamente la violazione dei doveri di diligenza, perizia e prudenza e il danno che ne è conseguenza immediata e diretta: incombe sugli amministratori provare la mancanza di colpa o eventuali cause di non imputabilità.

La riforma del 2003 ha poi introdotto l’articolo 2393-bis, rubricato “Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci”, che rientra nel più vasto progetto di tutela delle minoranze societarie. Secondo il disposto di detto articolo, <l’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l’azione può essere esercitata dai soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale, o la minore misura prevista dallo statuto. I soci che intendono promuovere l’azione nominano, a maggioranza del capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l’esercizio dell’azione e per il compimento degli atti conseguenti>. Si noti che la tutela delle minoranze nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio è ancora maggiore, non potendo lo statuto prevedere limiti alla legittimazione superiori ad 1/20, mentre nel caso delle società ordinarie lo statuto potrà prevedere la legittimazione, invece che di 1/5 del capitale sociale, di 1/3.

Tale azione può essere esercitata contro gli amministratori, i sindaci e i direttori generali e trova la sua ratio nel fatto che tutte queste cariche sono nominate dall’assemblea e, quindi, dalla maggioranza sociale: se si desse solamente all’assemblea il potere di agire contro di loro, equivarrebbe dare alla stessa maggioranza che li nomina il potere di agire contro coloro che sono da essa stati nominati e che hanno con essa un rapporto fiduciario e confidenziale.

Responsabilità degli amministratori: responsabilità verso i creditoriGli amministratori sono anche responsabili verso i creditori sociali, ex. art. 2394, per

<l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale>: questa responsabilità non è più di natura contrattuale, ma deriva da fatto illecito.

Pregiudicando la garanzia patrimoniale su cui fanno affidamento i creditori, gli amministratori commettono, nei loro confronti, un danno ingiusto, e quindi dovranno risponderne.

80

Page 81: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il secondo comma dello stesso articolo dispone che <l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti> il che vuol dire che i creditori potranno agire contro la società solo quando il loro diritto di credito sia stato effettivamente pregiudicato: essi dovranno inoltre provare la colpa o il dolo degli amministratori stessi.

Tale azione di responsabilità, anche se parte dalla stessa violazione degli obblighi di diligenza e perizia che determinano l’azione sociale di responsabilità, è però da essa separata. Il terzo comma dell’art. 2394 infatti statuisce che <la rinunzia dell’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi>. In questo modo è possibile che le due azioni corrano in parallelo, o che solo una delle due venga esercitata: per quel che riguarda la transazione e la sua impugnabilità, il legislatore ha voluto prevedere che i creditori non potessero impugnarla quando attraverso di essa i soci abbia ottenuto la reintegrazione del patrimonio da parte degli amministratori.

Il termine di prescrizione è sempre quello quinquennale.

Responsabilità degli amministratori: responsabilità verso i singoli soci o terziLa terza ed ultima azione cui sono esposti gli amministratori è prevista dall’art. 2395 e consta nella

“azione individuale del socio e del terzo”. Secondo il dettato del codice, <le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori. L’azione può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo>: se il socio direttamente danneggiato da atto doloso o colposo degli amministratori non riesce ad arrivare alla quantità di capitale sociale necessaria per esperire l’azione sociale di responsabilità (neanche di minoranza) oppure il terzo ugualmente pregiudicato non è creditore, a loro il codice riserva ugualmente la possibilità di agire per ottenere il risarcimento del danno.

Il danno non può quindi essere danno da inadempimento della società per via di dolo degli amministratori, ma solamente un danno diretto: in questo modo saranno responsabili in solido la società e gli amministratori colpevoli dell’atto medesimo. La società potrà però precostituirsi esimenti della responsabilità civile dimostrando di aver adottato, ed effettivamente attuato prima della commissione degli illeciti, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire gli illeciti, e che li ha commessi ha agito fraudolentemente.

SINDACI, REVISORE CONTABILE E SISTEMI ALTERNATIVI DI AMMINISTRAZIONEImparzialità, professionalità e indipendenza dei sindaci, effettività delle loro funzioni

Il modello ordinario di società per azioni prevede in funzione di controllo il collegio sindacale, organo collegiale i cui membri sono nominati dall’assemblea ordinaria: l’articolo 2403.1 prevede come specifica competenza la vigilanza <sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e del suo concreto funzionamento>. L’organo si compone di tre o cinque membri effettivi, soci o non soci, e di due membri supplenti e di norma le decisioni vengono prese collegialmente con deliberazioni a maggioranza assoluta.

La riforma del 2003 ha cercato di rendere l’organo di controllo il più possibile imparziale ed esterno rispetto all’organo da esso controllato, ossia il consiglio di amministrazione: per tale ragione il legislatore ha previsto l’ineleggibilità di coniugi, parenti e affini degli amministratori (anche di società controllate o controllanti), di coloro che sono legati o interessati alla società o a società controllanti e anche di coloro che siano parte di un rapporto continuativo di consulenza con la società.

Non è invece preclusa la possibilità di ricoprire contemporaneamente la carica di sindaco di più società del medesimo gruppo: lo statuto può comunque prevedere cause ulteriori di incompatibilità e limiti per il cumulo degli incarichi.

L’articolo 2397 per assicurare la preparazione tecnica dei sindaci dispone inoltre che almeno uno dei sindaci effettivi e uno dei supplenti debbano essere scelti fra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della giustizia.

81

Page 82: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Allo stesso tempo si è cercato di realizzare una certa indipendenza tra i sindaci e la maggioranza azionaria, determinando che i sindaci debbano rimanere in carica almeno tre anni, che non possano essere revocati dall’assemblea se non per giusta causa e che la stessa deliberazione di revoca debba essere approvata con decreto dal tribunale, sentito l’interessato.

A garanzia dell’effettività della funzione sindacale provvede poi l’obbligo di riunione almeno ogni novanta giorni e la decadenza d’ufficio per il sindaco che non partecipi a due riunioni senza giustificato motivo.

Le funzioni del collegio sindacale e dei singoli sindaciOltre a garantire l’imparzialità del collegio sindacale nei confronti della maggioranza azionaria

e degli amministratori e l’effettività della loro funzione, il codice civile si occupa di delineare il contenuto della predetta funzione di vigilanza sull’osservanza della legge e dello statuto da parte degli amministratori e della assemblea.

I sindaci devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione ed alle assemblee, nonché alle riunioni del comitato esecutivo.

Essi hanno il diritto di ricevere, almeno trenta giorni prima della discussione in assemblea, il progetto di bilancio redatto dagli amministratori, accompagnato dalla loro relazione e dai documenti giustificativi.

Essi hanno il potere di procedere individualmente ad atti di ispezione e di controllo, mentre in qualità di organo collegiale (a meno che si tratti di società che ricorrere al mercato del capitale di rischio, e allora questa facoltà è anch’essa individuale), il collegio può chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento alle società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari.

Essi possono anche prendere diretto contatto con i corrispondenti collegi sindacali delle società controllate.

Il collegio può inoltre convocare l’assemblea, il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo: per farlo è necessaria una deliberazione del collegio su iniziativa di almeno due sindaci.

Essi possono, a seguito dei loro poteri di vigilanza e controllo, impugnare le deliberazioni assembleari e consiliari contrarie alla legge o allo statuto.

Possono, ove abbiano scoperto fatti censurabili di rilevante gravità, farne denuncia al tribunale per ottenere la revoca dell’amministratore.

Durante l’assemblea annuale per l’approvazione del bilancio hanno il compito di riferire sui risultati dell’esercizio sociale e sull’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri, e fare le osservazioni e le proposte in ordine al bilancio e alla sua approvazione.

In caso di inadempimento od omissione del consiglio di amministrazione nella convocazione dell’assemblea, tocca al collegio sindacale esercitare tale funzione.

Funzione preminente del collegio sindacale è, tra quelle elencate, sicuramente quella consultiva esercitata sul bilancio predisposto dagli amministratori e resa con la relazione che esso presenta in assemblea: esso infatti controlla, formula giudizi anche nel merito del progetto di bilancio, esprime osservazioni e proposte e fornisce all’assemblea tutte le informazioni e le valutazioni necessarie per la discussione di approvazione.

Tutto il lavoro del collegio sindacale dovrebbe quindi andare a vantaggio della minoranza assembrare, quella priva di rapporto con gli amministratori, in quanto ai singoli soci non è dato alcun potere di informazione e di diretto controllo sull’operato degli amministratori (per via della volontà di tutelare il segreto aziendale): tale mancanza viene allora sopperita dalla presenza del collegio sindacale.

La responsabilità dei sindaciCosì come gli amministratori, anche i sindaci saranno tenuti alla diligenza richiesta dalla natura

dell’incarico: essi sono responsabili dell’adempimento dei propri doveri sia nei confronti della società sia verso i creditori sociali, tanto che l’azione di responsabilità nei loro confronti è regolata dalle stesse norme che regolano quella diretta contro gli amministratori.

82

Page 83: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Inoltre il secondo comma dell’art. 2407 rende i sindaci <responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica>: nel caso in cui gli amministratori siano chiamati a rispondere nei confronti della società, dei creditori, dei terzi o dei singoli soci, i sindaci risponderanno in solido con essi, ma solo nel caso in cui sia configurabile, a loro carico, la violazione di un obbligo inerente alla loro funzione e, in particolare, dell’obbligo di vigilare sull’amministrazione della società con la dovuta diligenza.

Essi quindi risponderanno solo in caso di proprio fatto doloso o colposo e solo se è riscontrabile un nesso di causalità tra violazione dei loro doveri di vigilanza e danno. Tra di loro i sindaci risponderanno in solido.

Il controllo contabileFino al 2003 il collegio sindacale riuniva sia il controllo contabile sia il controllo di legalità ed

efficienza: a seguito della riforma, invece, il controllo contabile è esercitato da un revisore contabile singolo, che non sia membro del collegio sindacale, oppure da una società di revisione, iscritta nell’apposito registro.

La funzione di controllo contabile può essere attribuita al collegio sindacale solamente da una società che non faccia ricorso al mercato del capitale di rischio e che non sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato.

Elezione, cause di ineleggibilità e revoca del revisore sono disciplinate allo stesso modo dei sindaci, ma in più la legge ha aggiunto la condizione per cui non può essere revisore contabile il sindaco della società o di società controllate o controllanti.

Il controllo contabile consiste di una triplice funzione:1. verifica nel corso dell’esercizio e con periodicità almeno trimestrale, della regolare

tenuta della contabilità sociale e della corretta rilevazione nelle scritture dei fatti di gestione;

2. la verifica della corrispondenza del bilancio di esercizio e, dove redatto, del bilancio consolidato;

3. la formulazione, con apposita relazione da depositare in assemblea, di un giudizio sul bilancio di esercizio e sul bilancio consolidato, ove redatto.

Il revisore ha diritto di chiedere agli amministratori notizie e documenti, e ha la stessa responsabilità dei sindaci.

I sistemi alternativi di governance: il sistema dualisticoLa riforma del 2003 ha previsto, come detto, una più ampia possibilità di scelta sul modo di governo

e gestione della società per azioni, prendendo spunto dai modelli nati in diversi paesi ad economia di mercato. Sono così stati introdotti il sistema monistico e dualistico, che hanno in comune il fatto che venga meno il collegio sindacale il controllo contabile rimane affidato ad un revisore o ad una società di revisione.

Gli articoli dal 2409-octies a 2409-quinquiesdecies disciplinano il c.d. modello dualistico.Esso prende spunto da un modello introdotto in Germania per via della volontà di far partecipare e

cooperare i lavoratori alla gestione della società in cui essi stessi lavoravano: non potendo essere ad essi attribuita la gestione diretta della società, si pensò di farli partecipare ad essa indirettamente. Per questa ragione consiste nell’interposizione fra assemblea e organo amministrativo, denominato consiglio di gestione, di un organo intermedio, di nomina assembleare, il consiglio di sorveglianza, che riunisce in sé alcune attribuzioni proprie dell’assemblea dei soci (nomina e revoca dei membri del consiglio di gestione, approvazione del bilancio di esercizio, potere di promuovere l’azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio di gestione) e funzioni proprie del collegio sindacale (controllo di legalità e di efficienza, denuncia al tribunale delle gravi irregolarità, relazioni all’assemblea sull’attività di vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società).

Esso è formato da un numero di membri, anche non soci, non inferiore a tre, che restano in carica per tre esercizi e scadono con l’approvazione del bilancio dell’ultimo esercizio. Essi sono revocabili da parte

83

Page 84: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

dell’assemblea, che li nomina, anche senza giusta causa con la maggioranza di almeno un quinto del capitale. Nulla è previsto relativamente al fatto che esso operi collegialmente o disgiuntamente, ma si ritiene che la prima opzione sia quella da seguire in tutti i casi che non riguardino la richiesta di informazioni o la convocazione dell’organo stesso, che potranno avvenire anche per atto unilaterale di un membro del collegio di sorveglianza.

Altre funzioni spettano sia al consiglio di sorveglianza sia all’assemblea, come il potere di proporre l’azione di responsabilità nei confronti dei membri del consiglio di gestione.

Altre funzioni invece sono peculiari del consiglio di sorveglianza, ossia non sono rintracciabili, nel sistema ordinario, né nell’assemblea né nel collegio sindacale: si tratta del potere di approvazione del bilancio consolidato e, se previsto dallo statuto, del potere di deliberazione sui piani strategici, industriali e finanziari della società. Il consiglio di sorveglianza può quindi assumere una funzione di indirizzo della gestione della società, salva in ogni caso la responsabilità dei membri del consiglio di gestione.

A differenza dei sindaci, che devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, i membri del consiglio di sorveglianza vi possono non assistere: l’obbligo è previsto solo per almeno un membro nel caso di società che ricorrono al mercato del capitale di rischio.

Il consiglio di gestione, formato almeno da due membri, è invece investito in modo esclusivo della gestione dell’impresa: esso potrà poi delegare le proprie attribuzioni ad uno o più suoi componenti, così come avviene nel caso degli organi delegati del cda nel sistema ordinario.

Essi hanno, così come i consiglieri, rappresentanza generale attribuita dallo statuto o all’atto della nomina e le limitazioni di tale potere non sono opponibili se non in caso di mala fede del terzo.

L’opzione per il sistema dualistico trova terreno florido nel caso di società per azioni senza un azionariato di dirigenza, o perché si tratta di public company o perché il capitale è polverizzato tra numerosissimi azionisti risparmiatori: in questi casi il sistema dualistico dispensa l’assemblea da attribuzioni quali la scelta degli amministratori e l’approvazione del bilancio che presuppongono nei soci la capacità e la volontà di soffermarsi su valutazioni e scelte di natura tecnico-imprenditoriale.

In ogni caso all’assemblea spetta di deliberare sulla distribuzione degli utili, da effettuare in base al bilancio che viene invece approvato dal consiglio di sorveglianza: l’assemblea, nel caso in cui il bilancio non la convinca, potrà sempre deliberare l’azione di responsabilità nei confronti dei consiglieri di gestione.

Il sistema monisticoIl modello monistico si ispira, invece, ad un modello sperimentato negli Stati Uniti. La sua essenza

risiede nella concentrazione all’interno dello stesso organo dei poteri di gestione e di controllo: questo organo unitario è il consiglio di amministrazione, cui componenti sono eletti dall’assemblea.

All’interno dell’organo stesso, in cui almeno 1/3 dei componenti deve possedere i rigorosi requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci, il consiglio di amministrazione sceglie i componenti del comitato per il controllo, che opera come organo collegiale a sé stante, analogo al collegio sindacale, le cui norme regolatrici sono riprese o richiamate.

In linea di principio nemmeno i componenti del comitato per il controllo sono dotati degli stessi poteri individuali dei sindaci e dovrebbero sempre agire collegialmente, tuttavia nelle società quotate, i singoli membri del comitato per il controllo possono esercitare i poteri di vigilanza tipici del consiglio di sorveglianza all’interno del sistema dualistico.

Rendendo gli addetti al controllo parte delle decisioni gestionali, facendo in modo che siedano nel consiglio di amministrazione e votino nelle deliberazioni consiliari, si ritiene di dotare tali soggetti di una più approfondita conoscenza dei meccanismi gestionali della società in modo da svolgere con maggior efficienza la loro funzione.

Controllo giudiziario e tutela delle minoranzeAl di là della tutela dei soci attuata per il tramite del collegio sindacale (o del consiglio di

sorveglianza o del comitato per il controllo) il legislatore ha previsto a tutela delle minoranze sociali la possibilità di esercitare direttamente un’azione contro l’illecito operato dagli amministratori.

84

Page 85: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Una prima, più blanda, forma di autotutela consiste nel potere di ciascun socio di sollecitare l’attività di controllo del collegio sindacale su specifici fatti dei quali egli è a conoscenza e che ritiene censurabili, in modo che esso ne tenga conto nella relazione all’assemblea.

Nel caso di denuncia proveniente da uno o più soci che rappresentino almeno 1/20 del capitale (o 1/50 nel caso di società quotate) allora il collegio sindacale sarà tenuto ad indagare senza indugio sui fatti denunciati e presentare le sue conclusioni all’assemblea.

Una seconda, e più energica, forma di autotutela consta nella denunzia al tribunale da parte di soci che rappresentino almeno un decimo del capitale sociale (o 1/20) se vi è il fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano commesso gravi irregolarità nella gestione, tali da poter arrecare danno alla società o alle sue controllate. I soci dovranno quindi dimostrare l’esistenza di un fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione della società (quindi censura di legittimità e non di merito), in modo che il tribunale disponga l’ispezione dell’amministrazione a spese dei soci richiedenti, a meno che rigetti la denuncia o che, nel frattempo, gli amministratori siano stati sostituiti.

Nel caso in cui i sospetti vengano confermati e le irregolarità non vengano eliminate, il tribunale può disporre gli opportuni provvedimenti cautelari e convocare l’assemblea per le conseguenti deliberazioni (revoca degli amministratori, azione di responsabilità), o, nei casi più gravi, procedere egli stesso alla revoca degli amministratori e dei sindaci (indipendentemente dall’accertamento di una loro complicità con gli amministratori) e nominare un amministratore giudiziario. Secondo giurisprudenza consolidata, gli estremi della particolare gravità si avranno nel caso in cui si provi l’esistenza di una collusione della maggioranza assembleare con gli amministratori.

Il ricorso al tribunale, ai sensi dell’art. 2409, è poi consentito anche su richiesta del collegio sindacale, del consiglio di sorveglianza o del comitato per il controllo della gestione, nonché, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, del pubblico ministero. Essi potranno quindi ottenere l’ispezione dell’amministrazione (questa volta a carico della società), eventuali provvedimenti cautelari e convocazione dell’assemblea, sino ad arrivare, nei casi più gravi, alla revoca di amministratori e sindaci da parte del tribunale e alla nomina di un amministratore giudiziario.

IL BILANCIOIl bilancio e i principi della sua redazione

Il bilancio di esercizio si compone dello stato patrimoniale, del conto economico e della nota integrativa.

Esso deve essere redatto al termine di ogni esercizio annuale ed ha la funzione di rappresentare sia lo situazione finanziaria e patrimoniale della società, sia l’andamento economico dell’esercizio e il suo risultato, di attivo o di perdita.

Se lo stato patrimoniale mira ad individuare la consistenza del patrimonio e, di conseguenza, l’entità della garanzia a favore dei creditori, il conto economico invece determina se sia stato o meno prodotto utile distribuibile.

Dato che l’interesse dei soci di ottenere i più alti utili possibili è decisamente in contrasto con l’interesse dei creditori, che invece vogliono che le poste attive siano iscritte a livelli i più bassi possibili in modo da creare meno utile e da mantenere il alto il patrimonio sociale, il legislatore si è trovato costretto a prevedere criteri tassativi per la redazione del bilancio.

Tali criteri, contenuti all’articolo 2423.2, sono quelli di chiarezza, verità e correttezza, ai quali si aggiunge anche il criterio di prudenza nella valutazione. Secondo il codice, infatti, il bilancio <deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio>: esso deve quindi essere redatto in modo intelligibile, secondo verità (e quindi non essere falso) e in modo corretto (ossia la valutazione delle poste deve essere eseguita in conformità con i principi contabili predisposti dal legislatore stesso).

Sennonché gli stessi criteri di valutazione predisposti dal legislatore sono tali da determinare che nel redigere il bilancio gli amministratori debbano derogare ai principi di veridicità: essi infatti pongono delle limitazioni alla valutazione degli elementi dell’attivo tali da far sì che le poste

85

Page 86: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

dell’attivo non siano quasi mai imputate al loro valore effettivo e reale. Ciò è dovuto all’adesione del legislatore al principio di prudenza, in base al quale si vuole evitare una sopravvalutazione delle poste attive: così gli immobili, gli impianti e i macchinari non possono essere iscritti per un valore superiore al prezzo o al costo di produzione, il quale può facilmente essere inferiore al valore effettivo. Viceversa, se il valore attuale è inferiore al prezzo o al costo di produzione di tali beni, essi dovranno essere imputati al valore effettivo. Ancora, i crediti dovranno essere iscritti in base al valore presumibile di realizzazione e non al loro valore effettivo qualora esso risulti superiore. Il valore dei beni in bilancio non è, quindi, il valore di stima o di mercato.

Unica situazione nella quale si possono derogare i criteri di valutazione, per riprendere il principio di veridicità del bilancio, è quello di <casi eccezionali nei quali l’applicazione di una disposizione degli articoli seguenti è incompatibile con la rappresentazioni veritiera e corretta>: il fatto che debbano essere casi eccezionali vuol dire che, di norma, si debbano seguire i criteri di valutazione disposti dal legislatore, a meno che fatti particolari, come sopravvenienze straordinarie (come il caso del terreno agricolo divenuto edificabile), rendano necessario il ritorno alla totale veridicità del bilancio e l’abbandono del criterio di prudenza. Tale deroga deve essere motivata nella nota integrativa.

Il principio di prudenza, oltre che determinare i criteri di valutazione al ribasso disposti dal legislatore, è inoltre tale da determinare, quando una voce appaia suscettibile di valutazioni diverse, la sua iscrizione per la valutazione più bassa, nel caso di voci dell’attivo, o per la valutazione più alta se si tratta di voci del passivo (il che mitiga il principio di veridicità).

Vi è poi il principio di competenza, in base al quale al bilancio deve essere riferito tutto ciò che sia avvenuto durante l’esercizio appena chiuso, senza poter tener conto di utili o perdite realizzate dopo la sua chiusura.

Vi deve poi essere chiarezza nella redazione, il che determina che elementi eterogenei non possano essere accomunati entro la stessa voce.

La coerenza, richiesta sempre dal codice, impone poi che i criteri di valutazione non possano essere modificati da un esercizio all’altro.

Riserve occulte e riserve taciteLe ampie deroghe al principio di verità denotano come il legislatore abbai preferito tutelare gli

interessi dei creditori rispetto a quello degli azionisti al dividendo.Il fatto che i criteri di valutazione impongano di imputare a bilancio somme molto spesso

inferiori rispetto all’effettivo valore del bene consente di accantonare grandi somme di utili in maniera tacita, in quanto la differenza tra il valore iscritto e il valore effettivo non risulta dal bilancio. Tali somme sono quelle che permettono un autofinanziamento della società e non richiedono, per il loro impiego, alcuna deliberazione assembleare. Inoltre le riserve tacite sono tali da non rendere nota al pubblico la reale situazione di prosperità nella quale gode la società, ma nemmeno agli azionisti e al loro diritto ai dividendi, cosicché gli amministratori se ne potranno servire liberamente.

A volte, però, la creazione di riserve può avvenire attraverso un’operazione illecita degli amministratori: ciò si realizza quando nel bilancio vengono iscritte fittizie poste passive od omesse poste attive (o imputate a livelli inferiori a quanto si dovrebbe): in questo caso gli amministratori incorrono nel reato di false comunicazioni sociali.

Lo stato patrimonialeLo stato patrimoniale è la rappresentazione della situazione economica e finanziaria della società al

termine dell’esercizio annuale.In esso sono contenute le indicazioni di tutto l’attivo e il passivo che fa capo alla società,

differenziando in una serie molto dettagliata di voci: mentre l’attivo è costituito dal credito verso i soci, dalle immobilizzazioni (divise in immateriali, materiali e finanziarie), dall’attivo circolante (rimanenze, crediti, attività finanziarie e disponibilità liquide) dai ratei e dai risconti, il passivo è, invece, espresso dal patrimonio netto (comprendente il capitale e tutte le riserve), dai fondi per rischi ed oneri e dai debiti che gravano sulla società.

86

Page 87: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Relativamente all’attivo bisogna solo dire che esso rappresenta tutti i diritti che la società detiene: essi sono poi divisi tra diritti di credito verso i soci, ossia le quote sottoscritte ma ancora da versare, in diritti sulle immobilizzazioni, ossia sui beni destinati a lunga durata (sia di carattere materiale –immobili- sia immateriale –marchi e brevetti – sia finanziarie –partecipazioni azionarie in società controllate) e dall’attivo circolante (ossia la liquidità, le partecipazioni societarie possedute a titolo di investimento e le eventuali rimanenze di magazzino).

Il passivo, invece, è costituito dai debiti della società: al primo posto troviamo il patrimonio netto, comprendente il capitale sociale (ossia tutti i conferimenti iniziali) e tutte le varie riserve (legali, facoltative, di rivalutazione, statutarie, etc.). La ragione per cui il capitale si trova al passivo, nonostante rappresenti il valore dei beni che i soci le hanno conferito, sta nel fatto che esso svolge funzione di garanzia per i creditori, ma più che altro per il fatto che la società è debitrice nei confronti dei soci per quanto da loro versato (e infatti dovrà liquidare ogni socio nel caso di scioglimento o recesso). Più facilmente si sostiene che il capitale sia imputato al passivo per una questione ragionieristica, ossia per consentire di pareggiare il totale dell’attivo con il totale del passivo, ossia chiudere il bilancio.

Oltre al capitale nel passivo rientrano le riserve (obbligatorie, facoltative, disponibili, indisponibili, vincolate o meno), parti degli utili che la legge o lo statuto obbligano a mettere da parte per coprire eventuali debiti futuri, che la società dovrà comunque distribuire ai soci in caso di scioglimento della società.

Dalle riserve si distinguono però i fondi per rischi e oneri: mentre le riserve sono utili non distribuiti e accantonati, che formano il patrimonio netto, i secondi sono accantonamenti destinati a coprire perdite o deviti di determinata natura, che sono certi o probabili, ma dei quali, alla data dell’esercizio, non è ancora possibile determinare l’ammontare: è come se fossero somme già uscite dal patrimonio della società, e per questo le si mette da parte.

Il conto economicoA differenza dello stato patrimoniale, che indica la situazione sociale alla fine dell’esercizio, il conto

economico ne indica l’andamento, distinguendo tra valore della produzione e costi della stessa: in questo modo si saprà se durante l’esercizio è stato prodotto un utile distribuibile o se la società sia in pareggio di bilancio o in perdita.

Da un lato si pongono infatti i valori della produzione (ricavi, variazioni delle rimanenze –che se diminuiscono determinano spese inferiori- e altri incrementi patrimoniali), e ad essi si sottraggono i vari costi della produzione (che non sono solo le spese, ma anche la svalutazione di crediti, gli accantonamenti per rischi).

Bilancio in forma abbreviataLa società che non abbia emesso titoli negoziati in mercati regolamentati può redigere il bilancio in

forma abbreviata quando, per due esercizi consecutivi, non abbia superato determinati requisiti imposti dal legislatore, ossia: non abbia un totale dell’attivo dello stato patrimoniale superiore a 3 mln di euro; non abbia avuto ricavi superiori ai 6 mln di euro; abbia avuto una media di dipendenti inferiore alle 50 unità.

Nel bilancio in forma abbreviata lo stato patrimoniale comprende solo alcune voci principali.

La nota integrativa e la relazioneTale documento, predisposto dagli amministratori della società, ha la duplice funzione di offrire le

chiavi di lettura dei documenti contabili che formano il bilancio di esercizio (in quanto illustra i criteri applicati nella valutazione delle voci di bilancio) e di fornire informazioni ulteriori rispetto a quelle desumibili dallo stato patrimoniale e dal conto economico.

Non si può invece ritenere che la nota integrativa possa essere utilizzata per correggere, integrare o rettificare le poste dello stato patrimoniale: il suo unico compito è, infatti, quello di chiarire e illustrare quanto risulta dai documenti contabili, non di variarli o correggerli. Consentire che ciò avvenga sarebbe uguale a consentire agli amministratori di predisporre una doppia verità, una nelle scritture contabili ed una nella nota integrativa.

87

Page 88: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Gli amministratori hanno, inoltre, il compito di relazionare di fronte all’assemblea sulla loro gestione nell’esercizio: tale compito assume tutt’oggi una portata inferiore rispetto al passato, in quanto i criteri di valutazione delle poste del bilancio, l’elenco delle partecipazioni ed altre notizie rilevanti sono già contenute nella nota integrativa.

Essi nella loro relazione dovranno in ogni caso illustrare analiticamente l’andamento della gestione nei vari settori in cui la società ha operato, anche attraverso le società controllate. In più il secondo comma dell’art. 2428 al numero 6 dispone che la relazione debba contenere l’indicazione <dell’evoluzione prevedibile della gestione> il che vuol dire che gli amministratori devono informare, oltre che sul passato, anche sul prevedibile futuro dell’impresa sociale.

Dalla relazione devono poi in ogni caso risultare alcune specifiche indicazioni predisposte dal legislatore all’art. 2428, tra cui spuntano l’indicazione <delle attività di ricerca e di sviluppo; i rapporti con imprese collegate, controllate e controllanti; il numero e il valore nominale delle azioni proprie o delle azioni di società controllanti possedute dalla società; gli obiettivi e le politiche della società in materia di gestione del rischio>

L’approvazione del bilancioGli amministratori ogni anno devono redigere un progetto di bilancio che acquista efficacia a

seguito di deliberazione da parte dell’assemblea (o del consiglio di sorveglianza). Almeno 30 giorni prima della data per la discussione in assemblea, il progetto dovrà essere comunicato al collegio sindacale, con annessa la relazione e i documenti giustificativi al fine di permettere al collegio sindacale di riferire all’assemblea e di fare le proprie osservazioni e proposte.

L’assemblea può approvare o disapprovare il progetto di bilancio: in questa seconda opportunità gli amministratori dovranno riformarlo e, quindi, ripresentarlo all’assemblea per l’approvazione. Si dubita sul fatto che l’assemblea possa essa stessa provvedere alla modifica del bilancio, anche se molti autori le riconoscono tale potere.

Il progetto di bilancio redatto dagli amministratori può essere invalido, perché falso o irregolare: nel primo caso gli amministratori avranno introdotto poste fittizie o ne avranno omesse, nel secondo caso, invece, avranno violato i principi che presiedono alla formazione del bilancio o i criteri di valutazione previsti per i singoli cespiti.

Mentre in passato la Corte di Cassazione distingueva tra i due casi, giudicando nulla la deliberazione assembleare che approvasse un bilancio falso e solamente annullabile quella che approvasse un bilancio irregolare, la riforma del 2003 ha cercato di dare certezza e stabilità alla deliberazione del bilancio, prevedendo, nell’art. 2434-bis che tanto la deliberazione di approvazione di un bilancio falso (e quindi nullo ai sessi dell’art. 2379 per illiceità dell’oggetto della deliberazione) quanto di un bilancio irregolare (e quindi annullabile ai sensi del 2377 perché presa non in conformità con la legge o lo statuto) non sono impugnabili dopo che sia avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo.

In ogni caso gli amministratori che abbiano redatto un bilancio falso, ossia non veritiero, incorreranno in sanzioni penali.

È fatta comunque salva la possibilità di esperire l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, che si prescrive in cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica: ciò perché il legislatore ha voluto dare certezza ai terzi che facessero affidamento sul bilancio, senza però voler pregiudicare la società, i soci o i terzi.

La distribuzione degli utili ai sociL’assemblea dei soci, sia che si tratti di sistema ordinario, sia di uno degli altri due modelli di

governance, ha inoltre il compito di determinare la distribuzione degli utili ai soci.Vi sarà utile distribuibile quando vi sia eccedenza attiva risultante dal conto economico, ma non

necessariamente il fatto che si sia realizzato utile di bilancio determina che nelle casse della società sia presente una tale quantità di liquidità: per questo motivo molto spesso le società dovranno procurarsi le somme occorrenti per eseguire la deliberazione facendo ricorso al credito.

L’utile ripartibile non è, però, solamente l’utile d’impresa (ossia ciò che viene guadagnato attraverso l’esercizio dell’attività economica), ma, più in generale, l’utile di bilancio: se dal bilancio, che tiene conto

88

Page 89: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

sia dell’attività d’impresa sia di altri elementi (come i sovrapprezzi azionari) risulta un utile, allora questo sarà distribuibile.

Affinché vi sia distribuzione degli utili è quindi necessaria la deliberazione da parte dell’assemblea, ma questa non è sufficiente: infatti è richiesto che l’utile sia realmente conseguito, altrimenti coloro che abbiano riscosso dividendi in mala fede (ossia sapendo che i dati contenuti nel bilancio regolarmente approvato non corrispondevano ad utili effettivamente realizzati dalla società) dovranno restituirli e gli amministratori che li hanno erogati risponderanno penalmente per il reato di illegale ripartizione degli utili.

L’utile di bilancio diviene utile distribuibile solo se la maggioranza assembleare decide in questo senso: al singolo socio non è riconosciuto, prima della deliberazione di distribuzione, un diritto individuale alla percezione dell’utile di bilancio.

Le decisioni spetteranno quindi alla maggioranza dell’assemblea, che non è tenuta a motivare le ragioni della mancata, o solo parziale, distribuzione degli utili di bilancio: essa infatti si limiterà a deliberare che gli utili, o parte di essi, siano “riportati a nuovo”: sarà al massimo la minoranza, impugnando la deliberazione, a dover dimostrare che questa era ispirata ad un intento extrasociale e quindi che c’era conflitto di interessi e annullabilità.

Degli utili non distribuiti disporranno poi gli amministratori a proprio piacimento, al di fuori di ogni dibattito assembleare e, quindi, di ogni possibile ingerenza della minoranza: non spetta infatti all’assemblea dettare la programmazione economica della società.

Vi sarà per gli amministratori la possibilità di distribuire acconti sul dividendo, prima della deliberazione assembleare, solo nel caso in cui siano presenti particolari condizioni: il bilancio della società deve essere assoggettato al controllo di un revisore; la distribuzione degli acconti deve essere consentita dallo statuto e deliberata dagli amministratori; il bilancio dell’esercizio precedente deve aver ricevuto giudizio positivo dalla società di revisione.

Le clausole statutarie sulla ripartizione degli utiliL’articolo 2328.2 n.7 dispone che l’atto costitutivo deve indicare le norme secondo le quali gli utili

devono essere ripartiti, mentre l’art. 2433 affida all’assemblea il compito di deliberare sulla distribuzione degli utili ai soci. Quindi da un lato si riconosce la piena autonomia statutaria nel disporre la disciplina di distribuzione degli utili, mentre dall’altro lato si attribuisce esplicitamente tale competenza all’assemblea.

Ci si chiede allora fino a che punto l’atto costitutivo possa limitare e regolare il potere assembleare di deliberare sulla distribuzione degli utili? Sicuramente tale potere non può essere escluso, poiché una clausola statutaria che sarebbe sicuramente nulla una clausola che privasse l’art. 2433 del suo contenuto.

In generale si può dire che lo statuto possa prevedere criteri fissi di distribuzione dell’utile, ma sicuramente dovrà prevedere la possibilità per l’assemblea di derogare ad essi nel caso di particolari condizioni economiche della società.

I libri sociali obbligatori e le regole di trasparenzaGli amministratori della s.p.a. devono tenere i libri e le altre scritture contabili prescritti dall’art.

2214 per ogni imprenditore commerciale (libro giornale e libro degli inventari). La s.p.a. in quanto tale deve poi tenere (a volte per mezzo degli amministratori, altre volte ad opera del collegio sindacale), a norma dell’art. 2421: il libro dei soci; il libro delle obbligazioni; il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee; il libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione; il libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale ovvero del consiglio di sorveglianza o del comitato per il controllo della gestione; il libro delle adunanze e delle deliberazioni del comitato esecutivo; il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee degli obbligazionisti; il libro degli strumenti finanziari emessi.

Di tutti questi libri sociali, agli azionisti è data la possibilità di ispezionare soltanto estratti del libro dei soci e del libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee. Il legislatore ha infatti preferito tutelare il segreto aziendale, precludendo agli azionisti la possibilità di consultare libri che potrebbero essere utili alla concorrenza.

89

Page 90: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Tale divieto si estende ancor più in relazione ai terzi: essi potranno attingere a notizie relative alla società solo accedendo al registro delle imprese: se in passato nel registro delle imprese compariva solamente il nome dei soci fondatori e non di chi fosse divenuto socio in un secondo momento (acquistando azioni o sottoscrivendo un aumento di capitale a pagamento), a seguito di una legge sulla “trasparenza” emanata nel 1993, <entro trenta giorni dall’approvazione del bilancio le società non aventi azioni quotate nei mercati regolamentati sono tenute altresì a depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese l’elenco dei soci riferito alla data di approvazione del bilancio, con l’indicazione del numero delle azioni possedute, nonché dei soggetti diversi dai soci che sono titolari di diritti o beneficiari di vincoli sulle azioni medesime>

Sui diritti di informazione e di ispezione degli azionistiMentre nelle società di persone i soci hanno diritto ad avere notizia dello svolgimento degli affari

sociali, nel caso di società per azioni essi potranno, per lo più, accedere al libro dei soci e al libro delle adunanze e delle deliberazioni dell’assemblea. Essi potranno quindi, al massimo, venire a conoscenza dei nomi dei co-azionisti (in modo da sapere a chi potersi rivolgere nel caso in cui si voglia raggiungere una minoranza qualificata per esercitare un’azione di responsabilità, o convocare l’assemblea o per impugnare le deliberazioni assembleari) e di quanto deliberato dall’assemblea alla quale eventualmente non hanno partecipato, in modo da poterle eventualmente impugnare nel caso di non conformità alla legge o allo statuto o di oggetto illecito o impossibile.

Tutte le informazioni che il socio singolo non può ottenere dovrebbero essere a lui comunicate dal collegio sindacale, che ha proprio la funzione di rendere noti all’assemblea tutti quegli eventi della gestione, del bilancio e dell’amministrazione sociale che i singoli soci non potrebbero altrimenti conoscere.

Vi sarà poi una tutela relativa al diritto al corretto svolgimento dell’assemblea: ogni socio potrà infatti chiedere al presidente dell’assemblea di verificare sulle condizioni di legittimazione degli intervenuti, ma non potrà egli stesso verificare di persona.

Il bilancio consolidato di gruppoLe società di capitali e le società cooperative, nonché gli enti pubblici economici, che abbiano il

controllo di almeno una società sono tenute a redigere, oltre al bilancio di esercizio, anche il bilancio consolidato di gruppo: unico requisito è che le partecipazioni nella società costituiscano immobilizzazioni finanziarie, ossia siano detenute allo scopo di esercitare attraverso la controllata l’oggetto sociale, e non al solo scopo della successiva alienazione.

A differenza dei tre casi di controllo precedentemente analizzati parlando di gruppo di società, il legislatore ha previsto che il bilancio consolidato di gruppo vada redatto in una più ampia gamma di situazioni: non solo quando c’è controllo di diritto, di fatto o sulla base di contratti vincolanti, ma anche di sindacato di voto che consenta di controllare la maggioranza dei diritti di voto in base ad accordi con altri soci.

Il bilancio consolidato è redatto dagli amministratori della holding secondo gli stessi principi che regolano la redazione del bilancio di esercizio, ma con alcuni accorgimenti determinati dalla riduzione ad un unicum di tutti i bilanci delle società del gruppo: non saranno infatti calcolate le partecipazioni nelle società incluse nel consolidamento, i crediti ed i debiti intercorrenti fra di esse, i proventi e gli oneri relativi ad operazioni effettuate fra esse, gli utili e le perdite conseguenti.

Esso sarà redatto dagli amministratori della holding e sottoposto al controllo dello stesso revisore che controlla il bilancio di esercizio della holding stessa.

Bilancio di esercizio della holding e bilancio consolidato di gruppoLo scopo della consolidazione, che consiste nel non tener conto nel bilancio di tutti i rapporti che

intercorrono tra le società del consolidato, consta nel dare un’immagine più veritiera delle società rispetto a quanto appaia da ogni singolo bilancio di esercizio: ogni società del gruppo, infatti, nel proprio bilancio iscrive sia le partecipazioni nelle altre società del gruppo, sia i crediti o i debiti che con esse intercorrono e gli utili ed i proventi derivanti da rapporti con esse. Tali indicazioni, però, vengono

90

Page 91: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

escluse nel bilancio consolidato, in quanto esso parte dal presupposto che il gruppo sia un’entità unitaria e che, quindi, gli scambi e le relazioni al suo interno non siano da considerare, in quanto il vantaggio di una società è controbilanciato dallo svantaggio di un’altra e così via. Solo in questo modo si riesce a dare la vera immagine della situazione del gruppo.

Il bilancio consolidato di gruppo viene redatto dagli amministratori della holding sulla base dei singoli bilanci di esercizio che vengono ad essi comunicati: è escluso che insieme alla redazione essi abbiano un obbligo di controllo della verità del bilancio delle controllate. La holding non potrà, nel formulare il bilancio consolidato, riformulare i bilanci delle controllate.

LE MODIFICAZIONI DELLO STATUTOLe deliberazioni che modificano lo statuto

Lo statuto della società può essere modificato dall’assemblea straordinaria durante tutto il periodo successivo alla costituzione della società.

Le modificazioni potranno consistere nella sostituzione delle originali pattuizioni con nuove clausole statutarie, oppure nell’introduzione ex novo di clausole destinate ad aggiungersi alle pattuizioni originarie, derogando alle norme dispositive che la legge prevede in assenza di previsione delle parti.

Non sono in ogni caso ammissibili modificazioni di fatto dello statuto, ossia risultanti per implicito comportamento degli organi sociali: emblematico è l’articolo 2361 che vieta l’assunzione di partecipazioni in altre società se <per la misura e per l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato nello statuto>.

Non sono ugualmente consentite deroghe eccezionali allo statuto: l’assemblea può apportare modificazioni ad esso, ma non può derogarvi per singoli casi e lasciare operante la clausola originaria per ogni altro caso futuro, pena l’invalidità di tale deliberazione.

Non sono considerate modificazioni statutarie le modificazioni della titolarità delle partecipazioni sociali: esse nascono, infatti, come valore di scambio: la sostituzione della persona del socio non richiede, nelle s.p.a. a differenza delle società di persone, alcuna modificazione del contratto di società e si attua esclusivamente per volontà del cedente e del cessionario (salvo le eventuali clausole di gradimento di cui si è già parlato).

Prima della riforma del 2000, le modificazioni statutarie erano sottoposte ad omologazione da parte del tribunale, che ne valutava la legittimità prima di consentirne l’iscrizione nel registro delle imprese: a seguito della riforma, l’omologazione è divenuta una fase solo eventuale. Il notaio che ha verbalizzato la deliberazione dell’assemblea (il che è necessario nel caso di assemblea straordinaria), deve, entro trenta giorni, depositare il verbale e chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese. L’ufficio del registro delle imprese ne valuterà allora la regolarità formale e, riscontrata, la iscriverà nel registro.

Mentre, di norma, il deposito di una deliberazione assembleare ha soltanto funzione dichiarativa, assumendo essa validità sin dalla sua approvazione, nel caso di modiche dello statuto, soltanto con il deposito delle deliberazioni esse acquistano validità: per questo si parla di efficacia costitutiva del deposito.

Il diritto di recesso del non consenzienteLo statuto è, come detto, modificabile a maggioranza, anche se con maggioranze particolarmente

qualificate: non è comunque richiesta l’unanimità così come avviene nelle società di persone.Per questo motivo il legislatore ha ritenuto necessario tutelare le minoranze di azionisti che

fossero, relativamente alla deliberazione modificativa dello statuto, dissenzienti, assenti o astenuti: ad essi è infatti riconosciuto il diritto di recesso dalla società per tutte o per parte delle azioni.

La riforma del 2003 ha poi distinto tra le cause di recesso indisponibili e cause di recesso disponibili, ossia eliminabili per clausola statutaria.

Ai sensi dell’art. 2437 hanno diritto di recedere, senza che lo statuto possa prevedere il contrario, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti: <la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società; la trasformazione della società; il trasferimento della sede sociale all’estero; la revoca dello stato di

91

Page 92: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

liquidazione; l’eliminazione di una o più cause di recesso disponibili; la modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso; le modificazioni statutarie concernenti il diritto di voto o i diritti patrimoniali>.

Secondo il secondo comma dello stesso articolo, <salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso all’approvazione delle deliberazioni riguardanti: la proroga del termine; l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari>.

Il terzo comma prevede poi un diritto di recesso ad nutum del socio nel caso di società a tempo indeterminato, ma solo a seguito di un preavviso di almeno centottanta giorni (o maggiore, ma non superiore ad un anno) previsto dallo statuto.

Da notare che le modificazioni dell’attività sociale a seguito di cambiamento dell’oggetto tali da permettere il recesso del socio debbono essere significative: occorre, quindi, che la maggioranza sociale abbia deliberato di sostituire all’oggetto originario un oggetto del tutto diverso, tale da modificare radicalmente le condizioni di rischio in presenza delle quali l’azionista aveva aderito alla società.

Il recesso è atto unilaterale del socio che non richiede alcuna accettazione da parte della società: deve essere spedita alla società, per lettera raccomandata, entro quindici giorni dalla data di iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o entro trenta giorni dalla conoscenza del fatto che lo legittima, con l’indicazione del numero e della categoria di azioni per le quali il recesso, che ha efficacia immediata a meno che sia ad nutum, è esercitato.

L’ultimo comma dell’art. 2347 dispone poi che sia <nullo ogni patto volto ad escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi del primo comma del presente articolo> ossia nel caso di cause indisponibili di recesso.

Il recesso del socio comporta la liquidazione delle azioni per le quali è esercitato il diritto di recesso è esercitato, ossia il loro rimborso. Il venir meno del socio può mettere a repentaglio il raggiungimento dell’oggetto sociale, in quanto inevitabilmente depaupera il patrimonio: per tali ragioni nel diritto previdente il diritto di recesso era limitato a poche ipotesi molto tassative.

Il legislatore del 2003 ha scelto invece una nuova strada, aumentando (a favore delle minoranze) i casi in cui il recesso è consentito, ma prevedendo un meccanismo a tutela del patrimonio sociale, quali:

a) l’inefficacia del recesso nel caso in cui l’assemblea revochi la deliberazione che lo legittima;

b) l’offerta in opzione delle azioni del socio recedente agli altri soci, in proporzione del numero di azioni possedute, o ai possessori di azioni convertibili, in concorso con i soci, con prelazione a favore dei soci che esercitano l’opzione, e ne fanno richiesta, relativamente all’acquisto delle azioni non optate dagli altri soci;

c) il collocamento presso terzi, ad opera dell’organo amministrativo, delle azioni non optate o non acquistate dai soci;

d) il rimborso delle azioni, se né i soci né i terzi le acquistano, mediante l’acquisto da parte della società a fronte di riserve disponibili, anche in deroga ai limiti sull’acquisto delle azioni proprie (che possono essere acquistate solo nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio e solo a seguito di autorizzazione e non in misura superiore ad 1/10 del capitale sociale) se le azioni del recedente non sono state collocate ai sensi delle disposizioni precedenti entro 180 giorni dal recesso;

e) come extrema ratio, se mancano utili o riserve disponibili per l’acquisto da parte della società, la convocazione dell’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale, oppure lo scioglimento della società nel caso in cui la riduzione del capitale sociale non sia possibile (perché andrebbe al di sotto del minimo legale o perché vi è opposizione dei creditori sociali accolta) in modo da rimborsare il recedente in misura del capitale ridotto.

Determinato come avviene il rimborso delle azioni del recedente, è necessario stabilire come avvenga la determinazione del valore di tali azioni: l’articolo 2437-ter dispone che il valore sia stabilito dall’organo amministrativo, sentito il collegio sindacale e il revisore contabile, sulla base della

92

Page 93: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

situazione patrimoniale della società, ma tenendo anche conto della consistenza patrimoniale e delle prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni, salvo che lo statuto non abbia stabilito criteri diversi.

I criteri di valutazione tendono, quindi, ad accertare il valore reale: in questo modo se la società sarà in un buon momento economico, al socio recedente andrà probabilmente una quota di liquidazione superiore al valore nominale delle azioni. Al socio recedente è comunque concesso di contestare la valutazione effettuata dall’organo amministrativo: su tale contestazione si pronuncia, entro novanta gironi, il presidente del tribunale.

L’aumento del capitale: aumento gratuitoFra le modificazioni dello statuto occupano sicuramente una posizione particolare quelle che

consistono nelle variazioni in aumento o in diminuzione del capitale sociale indicato nell’atto costitutivo.In particolare l’aumento di capitale può essere gratuito o a pagamento.L’aumento gratuito di capitale (ex. art. 2442) si attua senza un corrispondente aumento del

patrimonio sociale, ossia senza che ai soci sia chiesto di effettuare nuovi conferimenti, e si basa sugli utili prodotti dalla società.

Per attuare un aumento di capitale gratuito, infatti, risorse di cui l’assemblea può liberamente disporre, come gli utili o le riserve e i fondi disponibili iscritti in bilancio, vengono immobilizzate, ossia imputate a capitale sociale.

Una volta che il capitale sociale è aumentato, la società avrà la possibilità di emettere nuove azioni di valore nominale pari a quelle già in circolazione, da assegnare proporzionalmente e gratuitamente ad ogni singolo azionista, oppure di aumentare il valore nominale di ogni singola azione già emessa.

All’aumento di capitale gratuito la giurisprudenza equipara il caso di aumento di capitale attuato con l’imputazione a capitale dei c.d. fondi per futuro aumento che vengono costituiti con conferimenti dei soci: a differenza dell’aumento a pagamento, infatti, i conferimenti sono antecedenti alla deliberazione di aumento del capitale, e vengono trasformati da fondo a capitale proprio come avviene nel caso di aumento gratuito.

Quando i soci conferiscono somme di denaro alla società in casi diversi dall’aumento di capitale a pagamento bisogna però sempre fare attenzione e distinguere se si tratti effettivamente di conferimenti (magari proprio per fondi per futuro aumento di capitale) oppure di finanziamento (magari di un mutuo senza interessi). La distinzione è essenziale per determinare la possibilità dei soci di ottenere la restituzione ad nutum.

L’aumento del capitale aumento a pagamentoL’aumento di capitale a pagamento è l’ordinario strumento, il solo previsto dalla legge, per

l’acquisizione di nuovo capitale di rischio: consentendo alla società di ricevere nuovi conferimenti si crea un aumento del capitale sociale e, con esso, del patrimonio sociale.

L’articolo 2438 dispone che <un aumento di capitale non può essere eseguito fino a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate. In caso di violazione del precedente comma, gli amministratori sono solidalmente responsabili per i danni arrecati ai soci ed ai terzi. Restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma>: l’unico limite consiste, quindi, nel fatto che tutte le azioni precedentemente emesse e sottoscritte siano state interamente pagate: in questo modo il legislatore vuole evitare che la società possa ostentare un vistoso capitale sociale costituito, però, quasi interamente da crediti verso i soci.

La deliberazione dell’assemblea straordinaria deve essere iscritta, come tutte le modificazioni dello statuto, nel registro delle imprese. L’articolo 2443 consente però allo statuto di attribuire agli amministratori la facoltà di aumentare in una o più volte il capitale sociale fino ad un ammontare determinato e per il periodo massimo di cinque anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese (lo statuto può anche prevedere di attribuire la stessa facoltà agli amministratori relativamente all’esclusione del diritto di opzione per aumento di capitale con conferimenti in natura): in

93

Page 94: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

questo caso il verbale di deliberazione degli amministratori deve essere redatto da un notaio, depositato e iscritto.

Una volta deliberato l’aumento di capitale, esso verrà eseguito attraverso l’emissione di nuove azioni ordinarie o di azioni di speciali categorie: coloro che sottoscriveranno le nuove azioni dovranno versare immediatamente il 25% del valore nominale delle azioni sottoscritte più l’eventuale soprapprezzo: esse possono infatti essere emesse ad un valore superiore al loro valore nominale, e le somme così percepite dalla società andranno prima imputate a riserva legale (cui limite minimo aumenta con l’aumento del capitale sociale) e poi potranno essere distribuite tra i soci. Nel caso, che si vedrà tra poco, di aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione per i vecchi soci vi è l’obbligo di emettere le azioni con un soprapprezzo che va a compensare l’avviamento e il generale plusvalore del patrimonio sociale rispetto al capitale sociale, venutosi a creare grazie all’opera dei vecchi soci, e da cui i nuovi soci, senza pagare un soprapprezzo, trarrebbero solamente i benefici.

Una caratteristica delle deliberazioni di aumento di capitale è che esse producono il loro effetto modificativo solamente nel caso in cui vi sia concorso della volontà della società e della volontà dei sottoscrittori delle azioni di nuova emissione: non basta infatti la deliberazione, assembleare o consiliare, per determinare la modificazione dello statuto. Come previsto in generale per l’offerta al pubblico, essa non ha effetti fino a quando non è accettata.

Aumento di capitale scindibile ed inscindibileLa deliberazione di aumento del capitale deve determinare l’ammontare del capitale in aumento ed il

termine entro il quale l’aumento deve essere eseguito.La stessa deliberazione può prevedere che l’aumento di capitale sia efficace solamente qualora

entro detto termine sia interamente sottoscritto oppure stabilire che sia in ogni caso aumentato il capitale sottoscritto, indipendentemente dal raggiungimento della quota fissata. Nel primo caso si parla di aumento di capitale inscindibile, mentre nel secondo caso è detto scindibile.

Nel primo caso se l’aumento è stato solo parzialmente sottoscritto la deliberazione verrà revocata ed esso perderà efficacia: i sottoscrittori non riceveranno le azioni sottoscritte; nel secondo caso, invece, la deliberazione di aumento di capitale solo parzialmente sottoscritto verrà modificata in maniera tale da riportare l’aumento già deliberato al più limitato ammontare delle azioni sottoscritte. La deliberazione di modifica della precedente deliberazione dovrà quindi essere adottata dall’assemblea, ma non dall’assemblea straordinaria, in quanto non si tratta di modificare lo statuto, la solamente di accertare una modificazione già avvenuta e di creare il titolo necessario per l’iscrizione della modificazione statutaria nel registro delle imprese.

È opinione diffusa che, in caso di mancata previsione esplicita, l’aumento di capitale debba ritenersi inscindibile: la scindibilità dell’aumento di capitale deve quindi essere espressamente prevista.

A differenza dei sottoscrittori di un aumento di capitale inscindibile, i sottoscrittori di aumento di capitale scindibile sono soci dal momento stesso della loro sottoscrizione, in quanto esso è efficace indipendentemente dal raggiungimento della totalità delle sottoscrizioni. Essi potranno quindi già da subito esercitare i diritti patrimoniali e amministrativi tipici dei soci.

Il diritto di opzione dei vecchi azionistiIn caso di aumento di capitale a pagamento e di emissione di obbligazioni convertibili (che si

vedrà in seguito cosa sono), spetta ai vecchi azionisti, in proporzione al numero di azioni da essi posseduti, il diritto di opzione sulle nuove azioni o sulle obbligazioni convertibili emesse: tali titoli di credito debbono essere offerti in opzione ai soci (e ai possessori di obbligazioni convertibili), direttamente dalla società o per il tramite di banche o società finanziarie autorizzate.

Gli estranei potranno sottoscrivere le azioni o le obbligazioni solo dopo che sia inutilmente trascorso il termine, non inferiore a trenta giorni dalla data di deposito della deliberazione di aumento di capitale, indicato nell’offerta di opzione (15 giorni nel caso di società che ricorrono al mercato del capitale di rischio).

Viene in questo modo tutelato l’interesse dell’azionista a conservare inalterata la sua quota di partecipazione, la percentuale, al capitale sociale: l’esercizio del diritto di opzione gli consente,

94

Page 95: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

infatti, di continuare ad avere lo stesso peso nelle deliberazioni assembleari e nella distribuzione degli utili nonostante siano state emesse nuove azioni od obbligazioni convertibili

Inoltre il terzo comma dell’articolo 2441 sancisce a favore dei vecchi azionisti che <coloro che esercitano il diritto di opzione, purché ne facciano contestuale richiesta, hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azione che siano rimaste non optate>.

Esclusione del diritto di opzioneIl codice civile disciplina tre casi specifici, tipici e tassativi, nei quali il diritto di opzione può o

deve essere limitato o escluso: a) l’aumento di capitale con conferimenti in natura, b) l’aumento di capitale a favore dei dipendenti e c) la presenza di un interesse sociale che richieda tale limitazione. In tutte queste circostanze il legislatore ha previsto che <l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione devono essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione, dalla quale devono risultare le ragioni dell’esclusione o della limitazione, ovvero, qualora l’esclusione derivi da un conferimento in natura, le ragioni di questo e in ogni caso i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione>

a) L’articolo 2441.4 prevede che <il diritto di opzione non spetta per le azioni di nuova emissione che, secondo la deliberazione di aumento del capitale devono essere liberate mediante conferimenti in natura>: in questo caso, quindi, sia ha esclusione necessaria del diritto d’opzione. La ragione dell’esclusione del diritto di opzione è evidente: solo chi è proprietario del bene da conferire in natura potrà sottoscrivere le azioni di nuova emissione e, anzi, l’aumento di capitale è esclusivamente finalizzato a procurare alla società quel determinato bene che la maggioranza assembleare ritiene opportuno acquistare. Le azioni di nuova emissione saranno quindi offerte esclusivamente al proprietario del bene che le otterrà in cambio del conferimento in natura. I vecchi azionisti vengono in questo modo pregiudicati, ma ad avviso del legislatore è un sacrificio giustificato dall’interesse della società nei confronti di quel determinato bene.

b) L’ultimo comma dell’art. 2441 dispone che <con deliberazione dell’assemblea presa con la maggioranza richiesta per le assemblee straordinarie può essere escluso il diritto di opzione limitatamente ad un quarto delle azioni di nuova emissione, se queste sono offerte in sottoscrizione ai dipendenti della società o di società controllante o controllata. L’esclusione dell’opzione in misura superiore al quarto deve essere approvata con la maggioranza di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale>: l’interesse dei vecchi azionisti è in questo caso pregiudicato dalle esigenze di avere un azionariato di dipendenti.

c) L’ipotesi generica nella quale il diritto di opzione può essere escluso è prevista al 5° comma dell’art. 2441: <quando l’interesse della società lo esige, il diritto di opzione può essere escluso o limitato con la deliberazione di aumento di capitale, approvata da tanti soci che rappresentino oltre la metà del capitale sociale, anche se la deliberazione è presa in assemblea di convocazione successiva alla prima>. L’esclusione per interesse sociale deve quindi essere contestuale alla deliberazione di aumento di capitale, il che vuol dire che non vi può essere un’esclusione statutaria del diritto di opzione, ma che esso può essere escluso o limitato solo di volta in volta: esso infatti costituisce un diritto degli azionisti ineliminabile per clausola statutaria ma, come il diritto agli utili, eliminabile o riducibile in rapporto al singolo esercizio sociale. Bisogna poi chiedersi che cosa si intenda per interesse della società: mentre solitamente ogni deliberazione assembleare si ritiene essere adottata nell’interesse della società facendo ricadere su chi la impugni l’onere di provare il contrario, in questo caso specifico si assiste ad un ribaltamento delle parti. La maggioranza che delibera la limitazione del diritto di opzione dovrà contestualmente dimostrare la presenza di un interesse sociale, fornendo essa stessa la prova che la deliberazione non è ispirata ad un interesse extrasociale. È infatti richiesta, come visto, una relazione degli amministratori che spieghi dettagliatamente le ragioni dell’esclusione o della limitazione, e in più è necessario il parere del collegio sindacale. L’esistenza o meno di

95

Page 96: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

un interesse sociale può poi assumere, in alcuni casi, connotazioni molto soggettive: si pensi ad esempio ad una delibera con la quale una società, ritenendo che l’interesse sociale perseguito fosse quello dell’azionariato popolare, deliberò un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione: ebbene una sentenza del tribunale dichiarò invalida tale deliberazione e la annullò perché, a suo avviso, il 5° comma dell’art. 2441 entra in gioco solamente qualora vi sia lo stato di necessità della società. Gli ultimi orientamenti vanno, invece, nel senso di consentire l’esclusione del diritto d’opzione anche in assenza di uno stato di necessità della società, ritenendo che basti che l’obiettivo perseguito appaia definibile come corrispondente all’interesse della società.

Ai sensi dell’articolo 2443, lo statuto può attribuire agli amministratori la facoltà di adottare le deliberazioni di cui al quarto e al quinto comma dell’articolo 2441, ossia l’esclusione del diritto di opzione nel caso di aumento di capitale con conferimenti in natura e la sua esclusione o riduzione nel caso in cui l’interesse della società lo richieda: anche in questi casi gli amministratori dovranno illustrare con apposita relazione, motivata, le ragioni della loro deliberazione.

La riduzione del capitale socialeL’articolo 2446 regola l’azione di riduzione del capitale sociale: tale provvedimento può essere

obbligatorio oppure facoltativamente adottato dall’assemblea.La riduzione del capitale è obbligatoria a seguito di esclusione dell’azionista moroso (qualora

non vada a buon fine la vendita coattiva delle azioni non liberate), di recesso dell’azionista (come estrema ratio) e nell’ipotesi in cui il capitale sociale risulti diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite per due esercizi consecutivi.

In particolare in quest’ultimo caso, l’art. 2446 stabilisce che quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione o, in caso di loro inerzia, il collegio sindacale o il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti; e, se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea che approva il bilancio (dunque l’assemblea ordinaria e non quella straordinaria, trattandosi di atto obbligatorio), deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate, con conseguente riduzione del valore nominale delle azioni. Altrimenti la diminuzione è disposta con decreto del tribunale, sentito il pubblico ministero, su istanza degli amministratori e dei sindaci o del consiglio di sorveglianza.

La deliberazione di riduzione del capitale, nel caso di emissione di azioni senza valore nominale, può essere attribuita dallo statuto al consiglio di amministrazione.

Nel caso in cui la riduzione obbligatoria del capitale sociale determini la riduzione dello stesso al di sotto del minimo legale, gli amministratori o il consiglio di gestione, o in caso di loro inerzia, il collegio sindacale o il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione di capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo di legge oppure la trasformazione del tipo di società o lo scioglimento della stessa.

Un caso di riduzione facoltativa del capitale sociale è quella prevista dall’art. 2445, <la riduzione del capitale sociale può aver luogo sia mediante liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti, sia mediante rimborso del capitale ai soci> fatto salvo l’obbligo di rimanere al di sopra del minimo legale di capitale sociale e di rispettare il rapporto con le eventuali obbligazioni emesse, il cui valore non potrà superare il doppio del capitale sociale rimanente. Inoltre <la riduzione deve comunque effettuarsi con modalità tali che le azioni proprie eventualmente possedute dopo la riduzione non eccedano la decima parte del capitale sociale> e <la deliberazione può essere eseguita soltanto dopo tre mesi dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione non abbia fatto opposizione>. Vi sono quindi dei limiti alla riduzione del capitale in esubero, ed è anche prevista una forte tutela dei creditori, in quanto essi potrebbero essere facilmente pregiudicati da una diminuzione della loro unica garanzia sociale: per tale ragione una delibera di riduzione del capitale sarà efficace solo trascorsi tre mesi dalla data della sua iscrizione, e sempre a meno che nessun creditore si sia opposto (a meno che il tribunale ritenga infondata l’opposizione).

96

Page 97: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La riduzione del capitale mediante rimborso delle azioni avviene, ai sensi dell’art. 2357 bis, mediante riscatto ed annullamento delle azioni stesse. Un altro metodo è quello della riduzione del valore nominale di ogni azione con conseguente rimborso ai soci della differenza.

Azzeramento e ricostituzione del capitale perdutoSi è appena analizzato il caso di capitale ridotto al di sotto del limite legale e la possibilità per

l’assemblea di deliberare il contemporaneo aumento di capitale, la trasformazione della società o lo scioglimento della stessa.

Un’ipotesi non ancora presa in considerazione è quella della perdita totale del capitale sociale: secondo giurisprudenza ormai consolidata, l’assemblea può azzerare il capitale sociale e, contestualmente, deliberare la sua ricostituzione. Tale tesi è stata da alcuni criticata sostenendo che l’azzeramento del capitale sociale porterebbe automaticamente allo scioglimento della società o, ancora, che i soci di minoranza sarebbero pregiudicati in quanto si troverebbero a scegliere tra concorrere nell’aumento del capitale sociale oppure trovarsi esclusi dalla società stessa.

Per altri il socio di minoranza non sarebbe pregiudicato, in quanto andrebbe incontro ad un rischio che è connaturato alla partecipazione in società per azioni, quella di azzeramento del capitale. E, sempre secondo questo orientamento, l’assemblea avrebbe contemporaneamente la possibilità di escludere il diritto di opzione del socio in quanto, mai come in questa situazione, vi sarebbe un interesse della società, legato alla volontà di evitare lo scioglimento della società stessa.

IL PRESTITO OBBLIGAZIONARIOLe obbligazioni

Le obbligazioni sono, come le azioni, titoli di credito: anch’esse potranno essere, come le azioni, titoli nominativi o al portatore. Esse sono, come le azioni, titoli di massa, emessi in serie, identici tra loro e destinati al grande pubblico degli investitori.

Dalle azioni, le obbligazioni differiscono per il fatto che non rappresentano quote di partecipazione al capitale e non attribuiscono ai possessori la qualità di soci: essi sono semplici creditori della società, privi di diritti di voto e di diritti patrimoniali sugli utili, ma contemporaneamente liberati dal rischio di un cattivo andamento della società (fatta eccezione per il suo fallimento), in quanto il loro diritto è indipendente dalla consistenza del patrimonio sociale.

Essi non sono altro che mutuanti della società che apportano ad essa capitale di debito e non, come nel caso di azioni, di rischio. Gli obbligazionisti avranno, quindi, diritto al rimborso e agli interessi periodici nella misura stabilita, anche se la situazione economica della società non è tale da permettere alcuna distribuzione di dividendi ai soci.

L’obbligazione presenta, inoltre, il vantaggio della maggior stabilità della quotazione di borsa, soddisfacendo per tale ragione le propensioni di quanti non amano correre il rischio delle forti oscillazioni, in ribasso o in rialzo, caratteristiche delle azioni.

Una figura intermedia tra azioni e titoli obbligazionari sono le obbligazioni convertibili in azioni: attraverso una deliberazione assembleare, la società delibera contemporaneamente emissione di obbligazioni e un aumento di capitale per un ammontare corrispondente al debito obbligazionario. Qualora gli obbligazionisti volessero trasformare le loro obbligazioni in azioni, ecco allora che sarà sottoscritto anche l’aumento di capitale sociale.

Le modalità del prestito obbligazionarioLa possibilità di emettere obbligazioni riservata alle società per azioni e alle società in accomandita

per azioni: un passato tale privilegio spettava, invece, esclusivamente allo Stato attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico.

La loro emissione è subordinata ad una serie di condizioni:a) Le obbligazioni non possono essere emesse per somma complessiva superiore al doppio

del capitale sociale, la riserva legale e le riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio. Come visto, il capitale sociale non potrà essere volontariamente ridotto nel caso in cui ciò determini il venir meno di questa condizione. Nel caso in cui la riduzione

97

Page 98: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

del capitale sia obbligata dalle perdite, allora non potranno essere distribuiti utili fino a quando l’ammontare del capitale, della riserva obbligatoria e delle riserve disponibili non abbia eguagliato la metà dell’ammontare delle obbligazioni in circolazione.

b) Potranno essere emesse obbligazioni in misura superiore al predetto limite qualora esse siano destinate alla sottoscrizione da parte di investitori qualificati che risponderanno in prima persona della solvenza della società nei confronti dei successivi acquirenti che non siano investitori qualificati

c) Non vi è limite all’emissione di obbligazioni se queste sono garantite da ipoteca di primo grado su beni immobili di proprietà sociale

d) Non vi è limite nel caso di emissione di obbligazioni se queste sono quotate nello stesso mercato regolamentato in cui sono quotate le azioni della società

L’emissione di obbligazioni è deliberata dagli amministratori e non più dall’assemblea straordinaria. Il verbale, redatto dal notaio, andrà depositato entro trenta giorni presso l’ufficio del registro delle imprese ai fini dell’iscrizione.

Ciascuna obbligazione deve indicare: denominazione, oggetto e sede della società; capitale sociale e riserve esistenti al momento dell’emissione; data della deliberazione di emissione e della sua iscrizione nel registro; ammontare complessivo delle obbligazioni emesse e valore nominale di ciascuna, diritti con essa attribuiti, rendimento e modo di pagamento e di rimborso; garanzia da cui sono eventualmente assistite; data di rimborso del prestito.

Il rimborso non deve essere necessariamente contemporaneo per tutte le obbligazioni, anche perché ciò potrebbe essere molto gravoso per la società.

L’organizzazione degli obbligazionistiA differenza dei titoli del debito pubblico, l’obbligazione di società rende automaticamente il suo

titolare membro di un’organizzazione collettiva, la cui disciplina è imperativamente determinata dal codice civile. Tutti gli obbligazionisti fanno infatti parte dell’assemblea degli obbligazionisti che nomina un rappresentante comune, anche non obbligazionista, per un periodo non superiore a tre esercizi.

Tutto ciò avviene sulla base di un interesse comune degli obbligazionisti, tale da fare in modo che il singolo obbligazionista non possa agire se non in qualità di membro del gruppo di creditori, deliberante a maggioranza del capitale.

All’assemblea degli obbligazionisti spetta deliberare sulla nomina e la revoca del rappresentante comune, sulle modificazioni delle condizioni di prestito, sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato, sulla costituzione di un fondo spese e sugli altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti: al singolo obbligazionista spetta un’azione individuale in tutti i casi che non rientrino in questo elenco.

Le regole costitutive e deliberative dell’assemblea degli obbligazionisti sono le stesse dell’assemblea straordinaria della società per azioni, con l’unica prescrizione che se si tratta di accettare modificazioni delle condizioni di prestito, è necessario anche in seconda convocazione il voto favorevole degli obbligazionisti che rappresentino la metà delle obbligazioni emesse e non estinte.

All’assemblea possono assistere, con la sola facoltà di parola, sia gli amministratori sia i sindaci della società.

Le obbligazioni convertibili in azioniA differenza delle obbligazioni comuni, le obbligazioni convertibili non riconoscono solo il diritto

al rimborso, con i relativi interessi, del valore nominale del titolo, ma un ulteriore diritto esercitatile, a discrezione del possessore, in via alternativa al rimborso: egli può infatti decidere di rinunciare al rimborso a favore della sottoscrizione di azioni, da liberare con la somma già versata all’atto della sottoscrizione delle obbligazioni, secondo il rapporto di cambio stabilito dalla deliberazione di emissione, e risultante dal titolo. Quindi egli otterrà un forte guadagno nel caso in cui tra il momento dell’emissione delle obbligazioni e il giorno in cui esercita il suo diritto di conversione, le azioni abbiano decisamente aumentato di valore.

98

Page 99: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

L’emissione di obbligazioni convertibili è deliberata non dagli amministratori, ma dall’assemblea straordinaria: essa dovrà quindi deliberare l’emissione delle obbligazioni e determinare il rapporto di cambio con le azioni e il periodo nel quale è esperibile il diritto di conversione, ma soprattutto dovrà contestualmente deliberare un aumento di capitale per un ammontare corrispondente al valore nominale delle obbligazioni convertibili, con contemporanea esclusione del diritto d’opzione per i vecchi soci, che altrimenti potrebbero impedire la conversione.

Mentre la deliberazione di emissione è immediatamente eseguibile, la seconda lo sarà solamente a partire dal momento in cui verranno esercitati le varie facoltà di conversione.

L’obbligazionista sarà allora vincolato alla società da un mutuo (tipico dell’obbligazione) e da un patto d’opzione a suo favore che ha per oggetto la novazione del rapporto di mutuo in rapporto di società. Se la società, proponente, è immediatamente ed irrevocabilmente vincolata dalla sua proposta di novazione, l’obbligazionista avrà la possibilità di accettare o meno.

Verranno qui applicate tutte le norme relative al prestito obbligazionario, ma anche alcune norme in materia di azioni, quali l’impossibilità di emettere nuove azioni se il capitale sociale non sia stato interamente versato.

La facoltà di emettere obbligazioni convertibili può essere anch’essa attribuita dallo statuto agli amministratori per un periodo non più lungo di cinque anni dall’iscrizione della società o dall’iscrizione della modifica statutaria.

Ai possessori di obbligazioni convertibili è, come detto in precedenza, riconosciuto anche un diritto di opzione nel caso di eventuali e successivi aumenti di capitale a pagamento, ovviamente in proporzione al numero di azioni in cui essi possono convertire le proprie obbligazioni, poiché l’aumento di capitale è di per sé tale da pregiudicare il rapporto di cambio che sta alla base dell’obbligazione convertibile, in quanto ogni azione perderebbe di valore intrinseco.

Per evitare che la società alletti gli investitori con obbligazioni convertibili e poi ne pregiudichi gli interessi con modificazioni del capitale viene quindi dato loro diritto di opzione nel caso di successivi aumenti, ma anche il diritto di essere tempestivamente avvisati nel caso di riduzione del capitale per esuberi, in modo da poter esercitare il proprio diritto di conversione in tempo e di concorrere ad esso in qualità di azionisti e non di obbligazionisti (cui non spetterebbe nulla).

Nell’ulteriore caso di aumento di capitale gratuito, con imputazione di riserve o fondi disponibili, il codice prevede che il rapporto di cambio sia automaticamente modificato in proporzione alla misura dell’aumento.

Le obbligazioni convertibili con procedimento indirettoSi parla di obbligazioni convertibili con procedimento indiretto quando le obbligazioni convertibili

siano emesse da una società o da un ente diverso dalla società le cui azioni sono destinate alla conversione: ciò accade per lo più nei gruppi di società, con la holding che emette obbligazioni convertibili in azioni di una società controllata o nel caso di banche che emettono obbligazioni convertibili in azioni di società da esse finanziate. In quest’ultimo caso la banca finanzia con un mutuo la società, ma fa in modo che tali somme siano prestate da propri obbligazionisti cui promette azioni della società stessa: il finanziatore lucra poi sulla differenza tra il tasso che esige dalle banche e il tasso che corrisponde agli obbligazionisti, mentre la società spera si recuperare i fondi necessari per adempiere al mutuo attraverso la conversione delle obbligazioni in conferimenti.

Il problema è che il finanziatore non può obbligare la società a deliberare un aumento di capitale con esclusione del diritto d’opzione per i vecchi azionisti, il che richiede voto favorevole di oltre la metà del capitale sociale, anche in seconda convocazione.

Per questo motivo molto spesso ai vecchi azionisti si offre la possibilità di scegliere tra sottoscrizione diretta delle azioni di nuova emissione, sulla base del loro diritto d’opzione, e sottoscrizione delle altrui obbligazioni convertibili in azioni, lasciando che le azioni non sottoscritte restino destinate alla conversione.

LO SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETA’Le cause di scioglimento ed i loro effetti

99

Page 100: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

A seguito della riforma del 2003 lo scioglimento della s.p.a. non è più regolato da norme specifiche, bensì da norme generali valide per tutte le società di capitali.

Per prima cosa occorre distinguere tra scioglimento ed estinzione della società: il verificarsi di una causa di scioglimento, infatti, non determina automaticamente la cessazione del rapporto sociale, bensì apre alla fase di liquidazione, al termine della quale la società potrà dirsi estinta.

Il codice, all’art. 2484 prevede sette cause di scioglimento della società, cui se ne aggiungono altre previste da leggi speciali. Esse sono:

1. il decorso del termine di durata, sempre che l’assemblea non avesse deliberato la modifica dello statuto e la proroga della società stessa;

2. il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, salvo che l’assemblea non deliberi, tempestivamente, la modificazione dell’oggetto sociale;

3. l’impossibilità di funzionamento o la continua inattività dell’assemblea;4. la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, slavo che l’assemblea non abbia

contestualmente deliberato l’aumento del capitale fino al raggiungimento di tale soglia;5. l’incapacità patrimoniale della società di procedere alla liquidazione della quota del

socio recedente;6. la deliberazione dell’assemblea di scioglimento anticipato della società;7. altre cause previste dallo statuto, unitamente alle modalità del relativo accertamento.

Una volta che si è verificata una delle cause di scioglimento dai numeri 1-5 starà agli amministratori l’obbligo di accertarla e di iscrivere nel registro delle imprese una dichiarazione che la attesti. In caso di loro omissione, l’accertamento sarà eseguito dal tribunale su istanza di singoli soci, amministratori o collegio sindacale.

Le cause di scioglimento non operano, quindi, ipso iure, ma solo a seguito del loro accertamento, e questa è una modifica introdotta nel 2003.

Lo scioglimento della società determina l’apertura della fase di liquidazione: ma l’accertamento da parte degli amministratori o il decreto del tribunale non producono effetti irreversibili.

Una volta che la società è in liquidazione, gli amministratori dovranno astenersi dall’intraprendere nuove operazioni, limitandosi alla gestione sociale ai soli fini della <conservazione dell’integrità e del valore patrimoniale sociale>. Dopo lo scioglimento il patrimonio sociale non è più destinato alla realizzazione dell’oggetto sociale: esso va esclusivamente conservato in modo da non pregiudicare il diritto degli azionisti ad una parte proporzionale del patrimonio netto risultante dalla liquidazione.

Gli amministratori risponderanno personalmente e solidalmente di tutti i danni ai soci, ai creditori e alla società derivanti da atti posti in essere in violazione di quest’obbligo.

La liquidazione della societàContestualmente all’accertamento di una causa di scioglimento, gli amministratori devono

convocare l’assemblea per i provvedimenti relativi alla liquidazione, salvo che sia stata la stessa assemblea a deliberarne lo scioglimento.

L’assemblea straordinaria nomina i liquidatori, provvedendo anche a determinare i poteri e le modalità di esercizio. In caso di omissione della convocazione da parte degli amministratori o della nomina dei liquidatori da parte dell’assemblea stessa, la convocazione o la nomina è fatta con decreto del presidente del tribunale, su istanza dei singoli soci, degli amministratori o dei sindaci.

I liquidatori sono in ogni momento revocabili con deliberazione di assemblea straordinaria o, in caso di giusta causa, con provvedimento del tribunale.

Gli estremi dei liquidatori nominati vanno iscritti nel registro delle imprese, e ciò determina la cessazione della carica da parte degli amministratori, i quali dovranno consegnare ai primi i beni sociali: assemblea e collegio sindacale, invece, sopravvivono all’entrata nella fase di liquidazione, ma con funzioni ridotte. L’assemblea potrà esclusivamente nominare o revocare i liquidatori, nonché modificarne i poteri e approvare il bilancio annuale, mentre i sindaci, anch’essi ancora revocabili e sostituibili da parte dell’assemblea, eserciteranno sui liquidatori le funzioni di controllo loro spettanti sugli amministratori.

100

Page 101: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

I criteri di liquidazione non sono rimessi alla discrezionalità dei liquidatori, ma devono essere fissati dalla deliberazione assembleare o dal provvedimento giudiziario che li nomina. Entro i limiti così fissati, i liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società, e rispondono per il loro operato secondo le norme sulla responsabilità degli amministratori, e perciò verso la società, verso i creditori sociali, verso i singoli soci e verso i terzi direttamente danneggiati da loro atti dolosi o colposi.

Essi hanno il compito di trovare i fondi necessari per il pagamento dei debiti della società e per farlo possono alienare tutti i beni sociali. Se però dalla vendita non ricavano denaro a sufficienza, possono chiedere proporzionalmente ai soci i versamenti ancora dovuti sulle azioni non liberate. Se la società si rivela insolvente, toccherà allora ai liquidatori chiedere al tribunale la dichiarazione di fallimento, pena la loro responsabilità penale per bancarotta semplice, ove la mancata richiesta abbia aggravato il dissesto.

Rimanendo in carica fino al momento della nomina dei liquidatori, gli amministratori possono senz’altro essere soggetti al controllo giudiziario per iniziativa della minoranza, dell’assemblea, del consiglio di sorveglianza e del collegio sindacale che denuncino gravi irregolarità al tribunale.

Conclusa la liquidazione, i liquidatori redigono il bilancio finale di liquidazione, nel quale è indicata la parte spettante a ciascuna azione nella divisione dell’attivo. Esso viene depositato, insieme alla relazione dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile, presso l’ufficio del registro delle imprese: si dà per tacitamente approvato se entro 90 giorni dal suo deposito nessun socio abbia proposto reclami davanti al tribunale. Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori sono liberati di fronte ai soci.

Ultimo adempimento che grava sui liquidatori è la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese: l’attuale articolo 2495 c.c. è dovuto intervenire a sgomberare il campo da un’interpretazione correttiva della giurisprudenza. Fino al 2003 infatti essa ha adottato un’interpretazione di detto articolo volta ad una maggior tutela dei creditori. Mentre una lettura testuale dell’antico 2495 faceva pensare che dopo la cancellazione non esistesse più un patrimonio sociale, dovendo ciascun creditore rivolgersi a ciascun socio per ottenere soddisfazione del proprio credito non liquidato, la giurisprudenza introdusse il principio secondo il quale la cancellazione della società dal registro delle imprese determina solo una presunzione di estinzione della società, suscettibile come tale di prova contraria. Il fatto che un creditore lamentasse di non essere stato pagato determinava prova contraria e, quindi, che la società non si estingueva.

L’attuale 2495, invece, dispone irrevocabilmente che <ferma restando l’estinzione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi>. Una società cancellata dal registro delle imprese, quindi, si estingue: prova ne sia che la Corte di Cassazione ha dichiarato che il fallimento della società non possa essere dichiarato dopo che sia trascorso un anno dalla sua cancellazione.

Si avrà inoltre cancellazione d’ufficio quando, in fase di liquidazione, non venga depositato il bilancio di esercizio per tre esercizi successivi.

La revoca dello stato di liquidazioneDall’apertura della liquidazione sino alla cancellazione della società dal registro delle imprese il

rapporto di società, anche se mutato nel contenuto, perdura. Può quindi succedere, e accade non di rado, che i soci decidano di “riattivare” la società prendendo una deliberazione con la quale revocano lo stato di liquidazione: ci si chiedeva, prima del 2003, se tale delibera fosse legittima e se fosse tale da ripristinare l’originario contratto di società o, piuttosto, da costituire una nuova società.

Prima della riforma, che ha chiarito il problema a favore della revocabilità in ogni momento (art. 2487 ter <la società può in ogni momento revocare lo stato di liquidazione, occorrendo previa eliminazione della causa di scioglimento, con deliberazione dell’assemblea straordinaria con le maggioranze qualificate disposte all’art. 2369> ossia con il voto necessario di oltre un terzo del capitale sociale anche in seconda convocazione) si soleva appoggiare la revocabilità dello stato di liquidazione sulla base della possibilità di proroga tacita della società di persone, sostenendo che se era consentita una

101

Page 102: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

proroga tacita non sarebbe potuta essere vietata una riattivazione esplicita della società, dato che, in ogni caso, il rapporto di società non era ancora venuto meno.

SOCIETA’ PER AZIONI QUOTATE IN BORSAL’informazione societaria e la funzione della Consob

I soggetti sottoposti ai poteri della ConsobLa Consob, Commissione Nazionale Società e Borsa, è organo dotato di poteri finalizzati alla

tutela degli investitori, ma anche all’efficienza ed alla trasparenza del mercato dei capitali.Tutti i soggetti che ricorrano al mercato del capitale di rischio hanno, per legge, obblighi di

comunicazione nei confronti del pubblico e della Consob: sono considerati ricorrere al mercato del capitale di rischio tutti gli emittenti quotati e i soggetti che li controllano, ma anche gli emittenti titoli che, sebbene non quotati nei mercati regolamentati italiani, siano diffusi fra il pubblico.

Le funzioni della Consob: i contenuti del prospetto di quotazione Prima di essere quotata, l’emittente deve pubblicare un prospetto di quotazione, contenente le

informazioni necessarie affinché gli investitori possano formarsi un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’emittente e sull’evoluzione della attività.

Spetta alla Consob determinare con proprio regolamento i contenuti del prospetto e le modalità della sua pubblicazione.

Le comunicazioni al pubblico e alla ConsobOgni emittente ed i soggetti che li controllano, devono informare il pubblico sui fatti che

accadono nella loro sfera di attività e in quella delle società controllate, che, senza essere di pubblico dominio, sono idonei ad influenzare sensibilmente il prezzo dei titoli.

La Consob determina, con proprio regolamento, le modalità di informazione al pubblico, ma può anche richiedere la pubblicazione di specifiche notizie necessarie per l’informazione del pubblico, cui la società si può opporre sostenendo che la pubblicazione di certi dati determinerebbe per essa grave danno.

La Consob ha, inoltre, compito di vigilare sulla correttezza delle informazioni fornite al pubblico: per far ciò può richiedere agli emittenti quotati, ai soggetti che li controllano e direttamente alle loro controllate la comunicazione di notizie e documenti, può assumere notizie da amministratori, sindaci, dirigenti e revisore e può eseguire ispezione presso emittenti, controllante e controllate.

Partecipazioni sociali, partecipazioni reciprocheAlle norme del codice civile relative alle partecipazioni sociali e alle partecipazioni reciproche tra

società di capitali, se ne aggiungono di specifiche nel caso di società non quotate che partecipino in società quotate e viceversa.

Le comuni norme del codice civile sono infatti inidonee per sventare il fenomeno della “nullificazione” del capitale sociale: tale situazioni infatti non si verifica solamente nel caso di investimento di capitale della controllata per l’acquisto di azioni della controllante o di sottoscrizione reciproca di azioni (previsti rispettivamente dagli art. 2359-bis e 2360 c.c.), ma si determina anche quando, indipendentemente da una preesistente situazione di controllo azionario, due società effettuino, direttamente o per il tramite di un’altra, partecipazioni azionarie reciproche.

In particolare sono presi in considerazione i casi di società o ente non quotati che partecipano in una società per azioni in percentuale superiore al 2% del capitale di questa e quello della società con azioni quotate in borsa che partecipa in una società per azioni non quotata o a responsabilità limitata in misura superiore del 10% del capitale di quest’ultima.

Entrambe queste situazioni infatti determinano che la società che ha acquistato partecipazione in misura superiore a quanto indicato deve darne comunicazione alla Consob: se ciò non avviene, il diritto di voto legato alla partecipazione in eccedenza non può essere esercitato, e se viene esercitato e risulta essere determinante, la deliberazione potrà essere annullata ai sensi dell’art. 2377.ò

102

Page 103: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La revisione contabile

L’incarico della società di revisioneAlle funzioni della Consob, che sono pubbliche ed esercitate da un ente pubblico, si contrappongono

quelle esercitate dalle società di revisione, soggetti privati, abilitati a svolgere le proprie funzioni in ragione della loro specifica qualificazione professionale e delle particolari garanzie di “idoneità tecnica” e di “indipendenza” che la stessa legge appresta.

Il fatto che l’attività societaria sia controllata sia da un ente pubblico sia da un soggetto privato vuol proprio sottolineare il bilanciamento tra gli interessi del mercato e la libertà privata delle società per azioni: ogni società può, infatti, scegliere il proprio revisore.

La scelta della società viene effettuata con deliberazione dell’assemblea, la quale ricerca liberamente fra le società di revisione iscritte nell’apposito albo speciale tenuto dalla Consob e soggette alla vigilanza di questa. L’incarico ha durata di tre esercizi e può essere rinnovato per non più di due volte. L’incarico è in ogni momento revocabile dall’assemblea, ma solo per giusta causa. La Consob stessa potrà però intimare alla società di non avvalersi del responsabile della revisione contabile al quale sono ascrivibili gravi irregolarità, e addirittura cancellare la società di revisione dall’albo quando le irregolarità siano particolarmente gravi.

Funzioni della società di revisioneLa società di revisione è chiamata a svolgere funzioni di controllo contabile e di informazione sia

relativamente a società con azioni quotate sia alle società da queste controllate, anche se non quotate.

Relativamente alle funzioni di controllo le sono attribuiti poteri che appaiono concepiti come sostitutivi delle funzioni già spettanti al collegio sindacale ed ora assegnate, nel caso di società non quotate, al revisore: controllo della regolare tenuta della contabilità sociale, della corrispondenza dello stato patrimoniale e del conto economico alle risultanze delle scritture contabili e dell’osservanza delle norme stabilite per la valutazione del patrimonio sociale. Da tutte queste funzioni i collegio sindacale è dispensato. Insieme ai sindaci hanno il diritto di ottenere dagli amministratori della società documenti e notizie utili alla revisione e di procedere ad accertamenti, ispezioni e controlli.

Per quel che riguarda le funzioni referenti, esse si svolgono in quattro direzioni:1. nei confronti degli azionisti, con il deposito di relazioni o di pareri presso la sede della

società, affinché gli azionisti possano prenderne visione prima di partecipare alle assemblee (ad esempio devono depositare la relazione sul bilancio, pareri sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni in caso di proposta di aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione, sulla congruità del rapporto di cambio in caso di proposta di fusione, etc.)

2. nei confronti del pubblico, con il deposito non più presso la sede ma presso il registro delle imprese, delle stesse relazioni e dei medesimi pareri emessi a favore degli azionisti

3. nei confronti del collegio sindacale, dovendo ad esso riferire su fatti che ritiene censurabili, affinché il collegio indaghi senza indugio e presenti conclusioni ed eventuali proposte all’assemblea

4. nei confronti della Consob, la cui società di revisione deve riferire immediatamente, ove abbia ritenuto di dover esprimere un giudizio negativo sul bilancio o abbia dichiarato l’impossibilità di esprimere un giudizio.

Responsabilità verso la società e i terzi; controllo giudiziarioA seguito della deliberazione assembleare di conferimento dell’incarico, la società di revisione viene

a trovarsi in una posizione che è, per qualche aspetto, corrispondente a quella dei sindaci, in particolare per quel che riguarda la diligenza e la responsabilità.

La società di revisione deve adempiere i propri doveri con la diligenza del mandatario ed è responsabile della verità delle sue attestazioni e deve conservare il segreto sui fatti e sui documenti

103

Page 104: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

di cui ha conoscenza per ragione del suo ufficio. Le persone che hanno effettuato la revisione ed i dipendenti che abbiano effettuato le operazioni di controllo contabile sono responsabili, in solido con la società di revisione, per i danni conseguenti ai propri inadempimenti o fatti illeciti nei confronti della società assoggettata a revisione e dei terzi.

A differenza dei sindaci, però, in caso di responsabilità degli amministratori la società di revisione non è solidalmente responsabile.

Non è ben indicato a chi spetti promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti della società di revisione, ma si pensa che ciò tocchi all’assemblea, in quanto detentrice del potere di nomina e di revoca della società stessa. Vi sarà poi la possibilità per i soci, i creditori ed i terzi (anche se la norma parla solo dei terzi) di un’azione di responsabilità individuale nel caso di diretta violazione dei loro diritti.

Giudizio sul bilancio e suoi effettiSi è visto che la società di revisione deve esprimersi sul bilancio di esercizio e sul bilancio

consolidato. Essa accerta che a) il bilancio ed il conto economico corrispondano alle risultanze delle scritture contabili e degli accertamenti eseguiti; b) gli stessi sono conformi alle norme sulla redazione e sul contenuto del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite; c) i fatti di gestione sono esattamente rilevati dalle scritture contabili, secondo corretti principi di contabilità.

La relazione è sottoscritta dagli amministratori della società di revisione o dai suoi soci, che sono responsabili della revisione e resta depositata nella sede sociale insieme al bilancio, da almeno quindici giorni prima della data fissata per l’approvazione del bilancio.

La società di revisione, nel esprimere il giudizio sul bilancio, può: esprimere un giudizio positivo senza rilievi, esprimere un giudizio positivo con rilievi, esprimere un giudizio negativo o dichiarare l’impossibilità di esprimere un giudizio.

Le azioni di risparmio

I caratteri delle azioni di risparmioLe azioni di risparmio al portatore possono essere emesse solo da società con azioni ordinarie

quotate nei mercati regolamentati: in particolare società i cui titoli siano già largamente negoziati, e quindi società già operanti (il che impedisce la costituzione originaria del capitale sociale con emissione di azioni di risparmio).

Le azioni di risparmio nominative possono invece essere emesse anche da società per azioni, ma con azioni non quotate.

Le azioni di risparmio possono essere emesse per un ammontare che non superi, in concorso con le eventuali azioni a voto limitato, la metà del capitale sociale. La loro emissione potrà avvenire o in sede di aumento del capitale o di conversione di azioni ordinarie o di altra categoria a seguito di delibera assembleare, lasciando poi agli azionisti la scelta.

Esse sono, come le più antiche azioni privilegiate, favorite nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale, ma del tutto prive di diritto di voto, e, anzi, dello stesso diritto di intervenire in assemblea e di chiederne la convocazione: in più le azioni di risparmio non possono essere prese in considerazione per il raggiungimento del quorum costitutivo delle assemblee.

Il privilegio delle azioni di risparmio non è più disposto dalla legge, come accadeva in passato, ma esclusivamente dallo statuto.

Funzione delle azioni di risparmio è il reperimento di capitale di rischio senza compromettere la posizione di potere del capitale di comando all’interno della società, in quanto non viene in nessun modo alterato l’assetto all’interno delle assemblee.

Se a seguito di riduzione del capitale sociale per perdite (perché quella facoltativa in questo caso non è concessa), l’ammontare delle azioni di risparmio e delle azioni prive di diritto di voto supera la metà del capitale sociale, deve essere varato un aumento di capitale che riequilibri la situazione entro due anni, oppure la società si dovrà sciogliere.

Mentre alcuni sostengono che azionisti privi del diritto di voto non siano soci perché non parteciperebbero all’attività comune, altri hanno sostenuto che l’estremo dell’esercizio comune può essere

104

Page 105: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

integrato dalla partecipazione al rischio, che accomuna gli azionisti ordinari agli azionisti privi di diritto di voto.

L’organizzazione della categoria degli azionisti di risparmioLe azioni di risparmio formano una “categoria speciale di azioni”: qualunque deliberazione

assembleare che pregiudichi i diritti di tale categoria dovrà quindi essere approvata dall’assemblea speciale degli azionisti di risparmio. In mancanza di tale approvazione, la deliberazione dell’assemblea generale è invalida.

Oltre che essere organizzati in assemblea speciale, gli azionisti di risparmio devono, con deliberazione della loro assemblea, costituire un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi e provvedere alla nomina di un rappresentante comune con la funzione di tutelare degli interessi degli azionisti e di dare esecuzione alle deliberazioni dell’assemblea speciale.

Il singolo azionista di risparmio perde, quindi, il diritto all’azione individuale, anche quello di impugnare le deliberazioni delle adunanze assembleari.

LA SOCIETA’ PER AZIONI IN MANO PUBBLICAL’azionariato di Stato

È definita “in mano pubblica” la società per azioni della quale lo Stato o altri enti pubblici detengano la totalità o la maggioranza delle azioni o, comunque, un numero tale di azioni da assicurarsi il controllo di fatto della società.

All’azionariato pubblico il codice riserva solamente due articoli, il 2449 e il 2451, che denota la volontà del legislatore di assoggettare tali società alla stessa disciplina dettata per le società in mano privata, ma con alcuni aggiustamenti decisamente rilevanti.

Prima del 1992, anno nel quale è intervenuta una profonda riforma, lo Stato aveva costruito un assetto basato su vere e proprie holding pubbliche, gli enti di gestione delle partecipazioni statali: a capo vi era il Parlamento, il quale dotava ciascun ente di gestione di un fondo di dotazione, destinato a trasformarsi in partecipazioni azionarie di società operanti.

A partire dal 1992, intervenuta, come detto, una profonda riforma mirata alla privatizzazione, gli enti di gestione sono stati trasformati, da enti pubblici, in società per azioni le cui azioni sono state attribuite al ministero del tesoro.

Attraverso la privatizzazione è stato messo in atto un processo di riequilibrazione del mercato, in quanto la presenta di imprese pubbliche e società private nello stesso settore economico creava un notevole squilibrio concorrenziale, dato che le imprese in mano pubblica finivano inevitabilmente con il trovarsi in una condizione di vantaggio rispetto alle imprese private, alterando il gioco della concorrenza e determinando una conseguente depressione dell’economica di mercato.

Partecipazioni pubbliche e causa del contratto socialeDato che un contratto di società è, per definizione, preordinato al fine specifico di realizzare utili da

dividere tra i soci, ben si comprende come esso fosse incompatibile con l’interesse pubblico di cui lo Stato e gli enti pubblici si fanno portatori attraverso l’esercizio di società pubbliche.

Interesse pubblico ed interesse sociale non si trovano quasi mai a coincidere: l’unico caso può essere quello della partecipazione statale in una società per azioni finalizzata alla generazione di lucri destinati poi, una volta realizzati, a pubbliche finalità.

Come riescono allora a convivere questi due interessi contrapposti? Di sicuro non ci si pone problemi quando la partecipazione statale sia una partecipazione di minoranza, in quanto prevarrà senz’altro l’interesse della società, e nel caso in cui, invece, sia partecipazione alla totalità del capitale sociale, in quanto ciò determina l’annullamento dell’interesse all’utile.

Il problema si pone, invece, nel caso intermedio più frequente, ossia nella situazione in cui vi sia un azionariato misto con partecipazione pubblica di maggioranza. Secondo alcuni la scelta della forma della società per azioni da parte dello Stato comporta l’inevitabile conseguenza che l’interesse pubblico della essere qualificato come interesse esterno alla società, destinato a soccombere di fronte all’interesse sociale. Secondo una teoria opposta, invece, il pubblico fine rappresentato dalla partecipazione dello Stato

105

Page 106: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

o dell’ente nella società, determina che esso diventi lo scopo stesso della società: anche in caso di partecipazione pubblica lo scopo della società sarebbe, secondo questa teoria, lo scopo perseguito dalla maggioranza.

Norme speciali sulla nomina e sulla revoca di amministratori e sindaci; le società di interesse nazionale

Le citate norme dal 2449 al 2451 prevedono la possibilità per i pubblici poteri di acquistare e conservare posizioni di comando in società per azioni con modi differenti rispetto al diritto comune, ossia anche senza detenere il controllo di diritto o di fatto, o senza passare attraverso le deliberazioni assembleari.

L’art. 2449 infatti stabilisce che <se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza> e che <gli amministratori e i sindaci possono essere revocati solo dagli enti che li hanno nominati>: in questo modo nomina e revoca di uno o più amministratori possono essere sottratte alle deliberazioni dell’assemblea e riservate al soggetto pubblico, indipendentemente dalla partecipazione sociale che detenga. Ad essi però si applicherà la comune disciplina degli amministratori o dei sindaci: non dureranno più di tre anni, saranno assoggettabili alle medesime responsabilità civili e penali, e così via.

Unico limite all’acquisto di potere da parte del soggetto pubblico è dato dal fatto che deve essere lo statuto della società a prevedere tali privilegi.

Secondo l’articolo 2450, però, le <disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso in cui la legge o lo statuto attribuisca allo Stato o a enti pubblici, anche in mancanza di partecipazione azionaria, la nomina di uno o più amministratori o sindaci o componenti del consiglio di sorveglianza, salvo che la legge disponga diversamente>, il che determina la deroga di uno dei principi fondamentali della società per azioni, secondo il quale il diritto amministrativo spetta solo a chi sia socio. Ma a ciò si aggiunge il fatto che possa essere la legge a prevedere tale facoltà per lo Stato o un ente pubblico: i pubblici poteri possono acquistare una posizione di potere sopra le società indipendentemente dal consenso del privato e dallo statuto della società, basta che siano loro stessi a prevederlo in una legge.

L’articolo 2451 va poi ancora oltre, prevedendo che le disposizioni appena illustrate possano essere applicate in tutti i casi di società di interesse generale: non è quindi necessario, in tali condizioni, che lo Stato disponga una legge speciale, ma sarà sufficiente che dimostri il pubblico interesse della società per poter nominare amministratori, sindaci e membri del consiglio di sorveglianza.

LA SOCIETA’ IN ACCOMANDITA PER AZIONILa società in accomandita per azioni come tipo di società

La s.a.p.a. è una s.p.a. modificata dalla presenza di uno o più soci accomandatari, illimitatamente e solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali.

Bisogna da subito chiarire, però, che essa non si presenta come una s.a.s. modificata, bensì come una società per azioni modificata: per questo, in quanto compatibili, si applicheranno le norme relative alla società per azioni.

La qualità di socio accomandatario è, nell’accomandita per azioni, strettamente collegata alla carica di amministratore: non si può essere amministratori senza essere soci accomandatari, né si può essere soci accomandatari senza essere amministratori.

Tutti i soci accomandatari, e solo loro, sono amministratori della s.a.p.a.: a differenza che nella s.p.a. la loro carica di amministratori è permanente, senza prefissati limiti di tempo.

Per tali ragioni lo statuto deve indicare le persone dei soci accomandatari, i quali assumono di diritto, ossia indipendentemente dalla nomina assembleare, la carica di amministratore e la conservano fino a quando l’assemblea straordinaria non ne abbia deliberato la revoca o abbiano essi stessi rinunciato all’incarico oppure abbiano cessato di appartenere alla società.

La nomina dei nuovi amministratori, destinati a sostituire quelli venuti meno, sono nominati dall’assemblea straordinaria in quanto è necessaria una modifica statutaria, alla quale si deve aggiungere

106

Page 107: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

l’approvazione degli amministratori ancora in carica: dal momento dell’accettazione della nomina, i nuovi amministratori assumono la qualità di soci accomandatari.

La posizione di socio accomandatario, in quanto illimitatamente responsabile, va però al di là della semplice amministrazione: ogni socio accomandatario ha infatti diritto di veto sulle modificazioni statutarie, in quanto esse debbono essere deliberate dall’assemblea straordinaria e approvate da tutti i soci accomandatari.

Essi non hanno, però, diritto di voto nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità, in quanto vi è un palese conflitto d’interessi, e la nomina di sindaci, in quanto soggetti destinati a controllarne l’operato.

Tutto il capitale della società è diviso in azioni, anche quello conferito dai soci accomandatari: le azioni dei soci accomandatari sono considerate alla stessa stregua delle azioni ordinarie, non andando a comporre una categoria speciale. Le qualità di socio accomandatario e di amministratore non sono infatti connesse alle azioni da esso possedute, ma si collegano esclusivamente alla previsione statutaria: se esso aliena parte delle sue azioni, non per questo l’acquirente diviene socio accomandatario e amministratore.

L’accomandatario che rinuncia o viene revocato diviene automaticamente socio accomandante, rispondendo, per le obbligazioni sorte di lì in avanti, limitatamente al proprio conferimento.

L’accomandita per azioni si scioglie in caso di cessazione dall’ufficio di tutti gli amministratori, se nel termine di 180 giorni non si è provveduto alla loro sostituzione. Per questo periodo la società è amministrata da un amministratore provvisorio, nominato dal collegio sindacale, che non assume la qualità di socio accomandatario e i cui poteri si limitano all’ordinaria amministrazione.

La responsabilità degli accomandatari come responsabilità illimitata in senso tecnicoDato che la s.a.p.a. è una delle società per le quali l’iscrizione nel registro delle imprese determina il

conseguimento della personalità giuridica, come si concilia la responsabilità limitata della società con la responsabilità illimitata dei soci accomandatari? Sembra che la posizione del socio accomandatario possa in questo caso essere avvicinata a quello dell’unico socio nel caso di s.p.a: quest’ultimo se non adempie a quanto richiesto dal codice, decade dal beneficio della responsabilità limitata rispondendo illimitatamente delle sole obbligazioni sorte nel periodo in cui risulta essere stato socio. Allo stesso modo il socio accomandatario sarà illimitatamente responsabile per le obbligazioni assunte nel periodo intercorso tra la sua accettazione e la cessazione della qualità di amministratore.

Essi potranno comunque in ogni caso godere del beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale: i soci accomandatari non potranno mai essere chiamati a rispondere personalmente qualora il patrimonio sociale sia tale da soddisfare i creditori.

Le norme applicabili alla società in accomandita per azioniL’articolo 2454, rubricato proprio “norme applicabili”, dispone che <alla società in accomandita

per azioni sono applicabili le norme relative alla società per azioni, in quanto compatibili con le disposizioni seguenti>. Nessun richiamo viene fatto alle norme relative alla società in accomandita semplice, ma si può tranquillamente sostenere che, in assenza di norme relative alla s.p.a. compatibili, si debba ricorrere a quanto disposto per la s.a.s., ovviamente con i dovuti correttivi.

Nessun dubbio sorge intorno alla compatibilità delle norme sulla società per azioni relative alla costituzione (anche per quel che riguarda il capitale minimo), all’integrità del capitale sociale, al funzionamento delle assemblee, al collegio sindacale o al consiglio di sorveglianza, al bilancio, alle obbligazioni, allo scioglimento, alla liquidazione e all’estinzione della società.

Alcuni problemi sorgono, invece, relativamente all’amministrazione della società e, in particolare, al modo di formazione delle loro deliberazioni: se vi sono più amministratori, essi daranno vita ad un consiglio di amministrazione o amministreranno disgiuntamente, allo stesso modo degli amministratori di società di persone? Il problema sorge dal fatto che l’amministratore dissenziente rimarrebbe personalmente e illimitatamente obbligato per la deliberazione della maggioranza. Nonostante questo si deve ritenere che, in quanto non incompatibili con le norme specifiche della s.a.p.a. debbano essere

107

Page 108: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

riconosciute vigenti le disposizioni che dispongono la collegialità e la votazione a maggioranza degli amministratori, anche se le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere approvate dalla totalità dei soci accomandatari.

Non pare compatibile con la società in accomandita per azioni il modello monistico, in quanto esso prevede la compresenza entro l’organo di amministrazione di amministratori e controllori: l’accomandita per azioni, invece, presuppone la separazione fra gestione e controllo, anche perché non si può ritenere che i componenti del comitato di controllo, in quanto membri del consiglio di amministrazione, assumano la veste di accomandatari illimitatamente responsabili.

La posizione dei soci accomandanti risulta, per la mancanza di norme derogatorie rispetto alla disciplina della società per azioni, in tutto e per tutto equiparata a quella degli azionisti. Sembra invece escluso ogni riferimento al socio accomandante della società in accomandita semplice, compresa ogni possibilità di decadenza dal beneficio della responsabilità limitata. Unico caso è quello del socio accomandante che sistematicamente compia atti di amministrazione: in questo caso si potrà sostenere che sia un amministratore di fatto, quindi diverrà automaticamente socio accomandatario.

LA SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATAIl tipo di società a responsabilità limitataLa s.r.l. era, nell’originario disegno del codice civile, una sorta di società per azioni in miniatura, diversa da questa per la “struttura più intima”. La riforma del 2003 ha radicalmente modificato questa visione, rendendo la s.r.l. un tipo sociale alquanto più autonomo e distinto, a metà strada tra una società di persone ed una società di capitali. Se della prima ha infatti l’organizzazione interna, della seconda conserva il beneficio della responsabilità limitata e la disciplina dei rapporti esterni.

Delle obbligazioni sociali, ai sensi dell’art. 2642 risponde infatti soltanto la società con il suo patrimonio, quindi i soci risponderanno solo nel limite dei loro conferimenti.

Un ulteriore equiparazione con la società per azioni si ha nel caso di socio unico: prima ancora che tale ipotesi fosse applicata nella s.p.a. la medesima disciplina vigeva già per la s.r.l.: in questo modo sarà possibile la costituzione di una s.r.l. unipersonale in cui l’unico socio benefici della responsabilità limitata, e allo stesso tempo colui che si trovi ad essere in itinere l’unico socio potrà godere del beneficio della responsabilità limitata qualora abbia adempiuto a quanto richiesto dalla legge.

Altre norme della s.p.a. estese alla s.r.l. sono le disposizioni relative alla costituzione, all’efficacia costitutiva dell’iscrizione nel registro delle imprese e sui soci fondatori.

Il capitale minimo richiesto per la s.r.l. è però di gran lunga inferiore rispetto a quello richiesto per la s.p.a., solo 10.000 euro rispetto ai 120.000 richiesti per la s.p.a.

Inoltre le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di sollecitazione di investimento, ossia essere oggetto di frequenti scambi e di proposte di acquisto. Non potendo emettere azioni, la s.r.l. non potrà quindi fare ricorso al mercato del capitale di rischio.

È però ammesso, ove lo statuto lo consenta, che possa emettere titoli di debito analoghi alle obbligazioni, ma solo affinché siano sottoscritti da investitori qualificati, i quali, se li collocheranno presso il pubblico dei risparmiatori, risponderanno della solvenza della società.

Per evitare il fenomeno della sottocapitalizzazione, ossia di società con capitale sociale molto basso la cui attività era portata avanti grazie ai finanziamenti dei soci, il legislatore ha previsto che i prestiti dei soci siano rimborsabili ed il loro regresso quali fideiussori sia esercitatile solo dopo l’integrale soddisfacimento degli altri creditori.

Le quote sono, in linea di principio, liberamente trasferibili sia per atto fra vivi sia a causa di morte, al pari delle azioni. Qui è però ammessa una più vasta deroga al principio: l’atto costitutivo può vietare il trasferimento delle quote o subordinarlo al mero gradimento degli organi sociali, dei soci o di terzi, oppure alla presenza di determinate condizioni: è però fatto salvo il recesso del socio o dei suoi eredi dalla società.

L’organizzazione della società

108

Page 109: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Costituzione della società e conferimenti dei soci sono regolati come nella s.p.a. ad eccezione di due particolarità:

1. il versamento del venticinque percento del conferimento in denaro può essere sostituito da fideiussione bancaria o da polizza assicurativa;

2. il conferimento può consistere, come nelle società di persone, in una prestazione d’opera o di servizi: la relativa obbligazione deve però essere valutata e garantita per lo stesso valore da una fideiussione bancaria o da una polizza assicurativa.

Possono quindi essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica. Ma se l’atto costitutivo non predispone nulla, il conferimento deve farsi in danaro.

Anche in questo caso il socio che non esegue il conferimento nel termine prescritto viene diffidato dagli amministratori ad eseguirlo entro trenta giorni e, se non adempie, può essere soggetto ad azione per l’esecuzione dei conferimenti o a vendita della partecipazione agli altri soci, a suo rischio e pericolo per quanto riguarda la somma percepita. Se invece la vendita non può aver luogo, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse e ridurranno il capitale in misura corrispondente.

Per quel che riguarda l’amministrazione e l’interna organizzazione della società, la riforma ha dato allo statuto piena autonomia: se fino al 2003 il modello era quello della s.p.a., adesso spetta ai soci fondatori determinare se la s.r.l. debba avere un’organizzazione più vicina ad una società di persone o ad una società di capitali.

L’atto costitutivo quindi può:1. concentrare tutti i poteri in capo ai soci e attribuire ad essi anche l’amministrazione

della società, proprio come nelle società di persone, da esercitare congiuntamente (e quindi formano il consiglio di amministrazione) o disgiuntamente, in richiamo delle norme sulla s.n.c. (2257-2258). Nel silenzio dell’atto costitutivo si presume che l’amministrazione sia congiunta. In ogni caso le decisioni relative alla redazione del progetto di bilancio, di fusione o scissione e di aumento di capitale debbono essere prese collegialmente;

2. dissociare il potere di amministrazione dalla qualità di socio e attribuire l’amministrazione ad uno o più soci soltanto (è quindi esclusa l’ammissibilità di amministratori non soci), nominati con decisione collettiva dei soci.

3. prevedere che le decisioni dei soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto (anche per quel che riguarda le deliberazioni consiliari)

4. disporre che le decisioni dei soci non siano prese con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno la metà del capitale sociale

<Gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società. Le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società>. La qualità di rappresentante è quindi connaturata a quella di amministratore è non è necessaria, come nel caso della s.p.a. una specifica previsione.

<Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società. Tuttavia la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a cognizione che l’atto si stava per compiere, abbiano fatto constare il proprio dissenso>.

<L’azione di responsabilità è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi>. Tale azione, anche se non espressamente previsto dal codice, si ritiene però estesa a tutti i creditori sociali.

<Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi>.

Inoltre <i contratti conclusi dagli amministratori che hanno la rappresentanza della società in conflitto di interessi con la medesima possono essere annullati su domanda della società se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Inoltre le decisioni adottate dal consiglio di amministrazione

109

Page 110: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi con la società, qualora le cagionino un danno patrimoniale (e non solo un pericolo di danno), possono essere impugnate entro tre mesi dagli amministratori e, ove esistenti, dal collegio sindacale o dal revisore>

Il codice prevede che siano in ogni caso riservate ai soci la competenza relativamente agli atti di straordinaria amministrazione, a quanto attribuito loro dall’atto costitutivo e a quanto espressamente previsto dal legislatore, ossia: approvazione del bilancio e distribuzione degli utili; nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori; nomina, nei casi previsti dall’art.2477, dei sindaci e del presidente del collegio sindacale o del revisore; modificazioni dell’atto costitutivo; deliberazioni su decisioni di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci.

Non necessariamente tali decisioni sono prese in modo assembleare: il metodo assembleare è infatti obbligatorio solamente per le deliberazioni relative alle modifiche dell’atto costitutivo e alle decisioni di compiere operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale, oppure quando lo richiedano uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale: altrimenti il voto dei soci può essere raccolto, proprio così come avviene nelle società di persone, attraverso la raccolta delle loro adesioni.

Se non è prevista un’assemblea, le deliberazioni sono prese con il voto favorevole di una maggioranza dei soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale (ricordando che il voto è proporzionale alla quota). Quando invece è l’assemblea a deliberare è previsto, salva diversa disposizione statutaria, un quorum costitutivo pari ad almeno la metà del capitale sociale e un quorum deliberativo della maggioranza assoluta (fatta eccezione per le modificazioni statutarie e le decisioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale che richiedono il voto favorevole di almeno la metà del capitale sociale)..

I soci non amministratori che intenzionalmente abbiano deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi possono essere oggetto di azione di responsabilità, proprio come gli amministratori: da questa norma si capisce come la legge abbia disposto che l’atto costitutivo possa prevedere che soci non amministratori deliberino atti di gestione. Ciò sarebbe inconcepibile nella società per azioni, ove l’intera gestione è attribuita esclusivamente agli amministratori.

I soci non amministratori hanno, relativamente all’informazione sociale, diritti analoghi ai soci non amministratori della società di persone, quindi molto superiori ai soci nelle s.p.a.: ciascuno di essi ha diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione. Non c’è infatti la ragione di cautela che vale per la s.p.a. in quanto non si può realizzare l’acquisto di una sola azione da parte di un concorrente.

Un collegio sindacale o un revisore possono essere previsti dallo statuto: l’articolo 2477 però prevede che quando il capitale della s.r.l. raggiunga o superi il capitale minimo previsto per una s.p.a o se la società non presenta i requisiti per poter redigere il bilancio in forma abbreviata, sia obbligatorio il collegio sindacale.

La quota socialeLa quota sociale indica la frazione di capitale sociale sottoscritta dal socio: non potendo essere

incorporata in azioni, la quota di s.r.l. appare a priva vista inidonea alla circolazione: con il trascorrere del tempo essa ha però subito un procedimento di reificazione che ha determinato la sua identificazione come cosa mobile. Il fatto che il legislatore del 2003 si sia pronunciato a favore della possibilità di costituire la quota sociale come oggetto di pegno, usufrutto o sequestro ha poi fugato ogni dubbio.

A differenza della s.p.a. ove ogni azione corrisponde ad una quota sociale, ed ogni azionista è titolare di più quote indivisibili, nel caso di s.r.l. ogni socio è necessariamente titolare di un’unica quota proporzionale al suo conferimento, ma essa è divisibile in caso di alienazione o di successione. Mentre un’azione rappresenta la minor frazione di capitale e non può essere ulteriormente ridotta, della quota di s.r.l. si può invece disporre anche parzialmente.

Inoltre, a differenza della s.p.a., l’atto costitutivo di una s.r.l. può attribuire al singolo socio, nominativamente ed indipendentemente dalla quota di cui dispone, diritti particolari come una

110

Page 111: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

maggior parte nella distribuzione degli utili oppure un voto plurimo in assemblea: essi, a differenza di quanto accade con i diritti e gli obblighi particolari inerenti alle azioni, sono tali da non trasferirsi con il trasferimento della quota.

Le quote sono, in linea di principio, trasferibili: l’atto costitutivo però può, a differenza di quanto disposto per la s.p.a. vietarne il trasferimento, anche per causa di morte, accentuando il carattere personalistico di questo tipo di società.

Tale formula era prevista già prima del 2003, ma fino ad allora il legislatore non si era soffermato sul fatto che una clausola di intrasferibilità determinasse un vincolo societario perpetuo per il socio con la conseguenza che egli veniva a trovarsi “prigioniero” per tutta la durata della società della sua quota sociale. Per tale ragione il legislatore del 2003 ha ritenuto necessario ampliare il numero delle cause di recesso, fino a quel momento ristrette ed eccezionali; ha così previsto all’art. 2473 che i soci abbiano in ogni caso il diritto di recedere se:

a) non hanno consentito al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società, alla fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione, al trasferimento di sede all’estero, all’eliminazione di una o più cause di recesso previste dall’atto costitutivo e al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto della società determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci relativamente alle partecipazioni;

b) sussistono le cause di recesso previste per i soci di società soggette ad attività di direzione e coordinamento ;

c) la società è a tempo indeterminato: in questo caso il diritto di recesso compete loro in ogni momento, ma con un preavviso di almeno sei mesi, o al massimo fino ad un anno qualora lo statuto lo preveda;

d) la società è a tempo determinato ed è prevista una clausola di intrasferibilità o una clausola di gradimento degli organi assembleari. Al massimo lo statuto può prevedere che il socio non possa recedere prima di due anni dalla costituzione della società.

Il recesso del socio determina, come anche per la s.p.a., la liquidazione della sua quota sociale. Anche in questo caso ci si trova, dato l’ampliamento delle cause di recesso previste dal legislatore, di fronte al problema di tutelare maggiormente il capitale sociale, in quanto costituisce l’unica garanzia per i creditori sociali. Per tali ragioni anche la disciplina della s.r.l. predispone un ordine nei modi attraverso i quali provvedere al rimborso della quota (che dee avvenire in proporzione al patrimonio sociale tenendo conto del valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso):

a) per prima cosa si deve cercare di provvedere all’acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure da parte di un terzo concordemente individuato dai soci medesimi;

b) qualora ciò non avvenga il rimborso è effettuato utilizzando riserve disponibili o, in mancanza, riducendo il capitale sociale;

c) nel caso in cui la riduzione sia tale da determinare una modificazione delle percentuali di quote di ogni socio, il rimborso del socio recedente non sarà possibile e la società verrà posta in liquidazione.

Un’ulteriore tutela del capitale sociale, proprio come nella s.p.a. è data dal fatto che il recesso non sia esercitatile, o sia inefficace, nel caso in cui la società revochi la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società.

Un particolarità della s.r.l. riformata è la previsione della possibilità di esclusione del socio: l’art. 2473-bis infatti dispone che <l’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio. In tal caso si applicano le disposizioni del precedente articolo, esclusa la possibilità del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale>.

Per quanto riguarda il trasferimento della quota, detto della possibilità di prevedere nell’atto costitutivo clausole di intrasferibilità o di trasferibilità a condizione del gradimento di organi sociali si deve dire che essa deve avvenire per atto scritto con firme autenticate dal notaio, il quale deve poi provvedere entro trenta giorni all’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese. La forma scritta è richiesta a pena di nullità, ma solo in quanto necessaria per l’iscrizione nel registro delle imprese: il trasferimento

111

Page 112: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

redatto in tale forma è quindi necessario affinché abbia efficacia nei confronti della società e sia opponibile ai terzi: in ogni caso l’alienante è responsabile in solido con l’acquirente per i versamenti ancora dovuti, ma la società non potrà chiederli all’alienante prima di averli infruttuosamente richiesti all’acquirente.

Nel caso di doppia alienazione della quota, l’articolo 2740.3 fa prevalere la posizione di chi abbia effettuato per primo, ed in buona fede, l’iscrizione del proprio acquisto nel registro delle imprese, anche se il titolo di acquisto è di data posteriore.

Mentre nei trasferimenti immobiliari prevale chi trascriva per primo, indipendentemente dalla buona fede, in questo caso a chi ha trascritto il proprio titolo nel registro delle imprese essendo a conoscenza del fatto che altro soggetto avesse acquistato in data anteriore la stessa quota societaria, potrà essere opposto l’acquisto non registrato.

La quota (e da questa norma appare chiaramente la sua reificazione) può essere espropriata dai creditori particolari del socio, con la conseguenza che essa viene sottoposta a vendita forzata o assegnata al creditore, il quale subentra all’espropriato nella qualità di socio, previa iscrizione del trasferimento forzato nel libro dei soci. Nel caso in cui, però, lo statuto preveda la non libera trasferibilità della quota, sottoponendola a gradimento della società o all’obbligo di prelazione agli altri soci, è necessario che il creditore, prima di espropriare, tenti un accordo con la società, oppure si andrà alla vendita all’incanto della quota. Sembra invece che non possa essere oggetto di espropriazione la quota di società in cui è prevista l’intrasferibilità delle quote.

In nessun caso la società a responsabilità limitata può acquistare le proprie quote, né può, al pari della società per azioni, riceverle in pegno o accordare prestiti o fornire garanzie per il loro acquisto o la loro sottoscrizione: l’acquisto delle proprie quote è qui vietato perché produrrebbe gli stessi effetti di un recesso del socio alienante, seguito da liquidazione della sua quota. L’acquisto da parte della società infatti determinerebbe l’estinzione del rapporto sociale relativo alle quote acquistate (mentre nella s.p.a., dato che le azioni incorporano un titolo di credito, esso non si estingue con l’acquisto da parte della società): inoltre il prezzo pagato dalla società al socio alienante equivarrebbe ad un rimborso del capitale in violazione della tassatività dei casi di recesso.

La società a responsabilità limitata unipersonaleÈ ammessa la società a responsabilità limitata con unico socio, sia originario sia sopravvenuto.La società può quindi anche essere costituita con atto unilaterale, e quindi avere un unico socio che è

anche il fondatore: unico socio può essere sia una persona fisica che una persona giuridica ed in entrambi i casi beneficia della responsabilità limitata.

A tutela dei terzi, però, sono previste particolari condizioni da rispettare:a) la generalità dell’unico socio, fondatore o meno, devono essere rese pubbliche mediante

iscrizione nel registro delle imprese con una apposita dichiarazione degli amministratori, oltre che risultare dalla corrispondenza;

b) i conferimenti in danaro dell’unico socio devono essere interamente versati sia in sede di costituzione della società sia in sede di aumento del capitale sociale.

Se queste condizioni non vengono soddisfatte, l’unico socio risponderà illimitatamente per le obbligazioni assunte dalla società in tale periodo.

Inoltre i contratti tra società e socio e, in genere, le operazioni che vanno a favore del secondo, non sono opponibili ai creditori della società se non sono trascritti nel libro delle adunanze del consiglio di amministrazione o se non risultano da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento.

ScioglimentoLo scioglimento è regolato con norme comuni a tutte le società di capitali, di cui si è già detto

relativamente alla s.pa.

LE SOCIETA’ COOPERATIVELo scopo mutualistico e il movimento cooperativo

112

Page 113: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Dalle società lucrative il codice civile distingue le società cooperative, che regola nel titolo VI del quinto libro: la loro caratteristica è, ex. art. 2511, lo “scopo mutualistico” e non lucrativo, perseguito dai soci.

Nonostante il codice non definisca positivamente che cosa sia lo scopo mutualistico, si deve intendere che esso sia l’antitesi dello scopo di lucro, ossia dei fini di speculazione privata.

Una prima approssimazione di cooperazione mutualistica può essere quella nella quale un gruppo di utenti o un gruppo di lavoratori di un determinato settore imprenditoriale si organizza in società per esercitare, esso stesso, l’attività d’impresa di quel determinato settore: se ad unirsi sarà un gruppo di utenti, si avranno allora cooperative di consumo, se ad unirsi saranno lavoratori, invece, ci si troverà di fronte a cooperative edilizie, di credito, di assicurazione, etc.

Alla gestione dell’impresa è sostituita l’autogestione dell’impresa da parte degli utenti o dei lavoratori: infatti il gruppo mira a <fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri della organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato>. Anziché un profitto si vuole realizzare un immediato vantaggio dei soci.

Nata come espressione delle classi economicamente subalterne, che trovavano nella cooperazione uno strumento per sottrarsi al controllo da parte dei proprietari capitalisti, tuttoggi la cooperazione ha assunto una portata più ampia, e ad essa fanno ricorso anche altri ceti sociali, in diverso modo ed in diversa misura subalterni alla classe dominante. Si assiste addirittura al caso di cooperative tra imprenditori, come quelle costituite tra imprenditori agricoli per la trasformazione o la alienazione dei loro prodotti.

La società cooperativa nel codice civileDopo la riforma del 2003 il codice civile detta una disciplina generale del fenomeno cooperativo,

destinata ad essere integrata da leggi speciali che regolano, più specificamente, le singole categorie di cooperative: attraverso la disciplina generale vengono in questo modo individuate le principali strutture formali ritenute idonee al perseguimento dello scopo mutualistico.

Innanzitutto bisogna dire che il codice intende le cooperative come società cooperative, ed estende ad esse molte delle norme dettate per le società lucrative e, in particolare, per la società per azioni. L’articolo 2519 c.c. dispone infatti che <alle società cooperative, per quanto non previsto nel presente titolo, si applicano in quanto compatibili le disposizioni sulla società per azioni>.

Elementi propri delle società cooperative che le distinguono dalle società lucrative sono, comunque:• il limite massimo alla partecipazione di ciascun socio al capitale della società, fissato a

100.000 euro. Tale limite non si applica nel caso di persone giuridiche socie, né ai soci persone fisiche che abbiano eseguito conferimenti in natura o di crediti

• il limite minimo posto, per converso, al numero di soci: perché possa essere validamente costituita una società cooperativa è necessario che vi siano almeno nove soci. È inoltre previsto che, in caso di diminuzione del numero di soci al di sotto del minimo, esso debba essere integrato entro un anno, pena lo scioglimento della società. Altri limiti numerici sono poi posti per poter procedere all’iscrizione di alcune cooperative nei registri prefettizi, come il minimo di cinquanta soci per le cooperative di consumo e di venticinque per quelle di produzione e lavoro

• la variabilità del capitale sociale, che non è determinato in un ammontare prestabilito e il cui aumento o diminuzione non importa modificazioni dell’atto costitutivo: si attua in questo modo il c.d. principio della. porta aperta: nuovi soci possono aggiungersi ai preesistenti senza alcun limite di numero, e senza ostacoli determinati dalla necessità di modificare l’atto costitutivo o di aspettare che qualche socio voglia vendere la propria quota.

• Il principio “una testa un voto”, per via del quale, a meno di diverse previsioni (valide solo nel caso di soci persone giuridiche e per un massimo di cinque voti a soggetto), ogni socio ha un solo voto, qualunque sia il valore della sua quota o il numero delle sue azioni.

L’attuazione dello scopo mutualistico

113

Page 114: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il fenomeno cooperativo si compone di una duplicità di rapporti: da un lato c’è il rapporto di società, caratterizzato dai conferimenti dei soci e dall’esercizio in comune dell’attività imprenditoriale, mentre dall’altra parte ci sono una molteplicità di rapporti di scambio, che si instaurano tra la cooperativa e i soci, che consentono di ottenere il vantaggio cui lo scopo mutualistico mira.

La fruizione, da parte dei soci, delle più favorevoli condizioni che il loro essersi uniti in una cooperativa determina, non avviene attraverso l’esercizio in comune dell’impresa, ma proprio attraverso la fitta rete di contratti ulteriori rispetto al contratto di società.

L’unica eccezione a questa dualità di rapporti è costituita dalle società di mutua assicurazione, in quanto è direttamente attraverso il rapporto di società che si realizza la finalità mutualistica: il contratto di assicurazione è infatti compenetrato nello stesso contratto di società e forma un unico contratto.

Il vantaggio mutualistico può però essere attribuito ai soci in un ulteriore modo: da un lato vi è l’attribuzione diretta, attraverso l’applicazione di prezzi più vantaggiosi, di salari più alti, e altri vantaggi del genere, mentre da un altro lato vi è l’attribuzione indiretta del vantaggio mutualistico, che si realizza praticando ai soci il prezzo corrente di mercato o corrispondendo ad essi un salario pari a quello corrisposto dalle imprese lucrative, per poi versare loro, a scadenze periodiche, somme di denaro, i c.d. ristorni, corrispondenti alla differenza fra prezzi praticati e costi o alla differenza fra ricavi netti e salari pagati.

I ristorni non vanno però confusi con gli utili: sono entrambe somme di denaro, ma il ristorno rappresenta l’equivalente monetario del vantaggio mutualistico. La quantità del ristorno è poi del tutto indipendente rispetto alla quantità di capitale conferito dal socio: la sua quantificazione infatti dipenderà dalla quantità e qualità degli scambi mutualistici. A differenza delle società lucrative, non conta quanta ricchezza i soci hanno conferito, e quanto potere economico hanno, conta quanto hanno sborsato per l’acquisto di beni o che salario hanno percepito.

Le cooperative a mutualità prevalenteData l’espansione del fenomeno mutualistico, la riforma del 2003 ha voluto distinguere due grandi

categorie di cooperative in modo da delimitare il campo di applicazione di tutta una serie di vantaggi fiscali disposti dalla legge. In questo modo le agevolazioni spetteranno solamente alle cooperative a mutualità prevalente, mentre tutte le altre cooperative si dovranno accontentare dei vantaggi, diretti ed indiretti, dello scopo mutualistico.

La distinzione tra cooperativa a mutualità prevalente e non dipende dalla quantità di rapporto che le cooperative hanno con i terzi: affinché la produzione sia efficiente e competitiva con le altre imprese, è infatti necessario che la cooperativa faccia affidamento anche al lavoro di non soci.

Non si poteva quindi limitare i vantaggi fiscali a chi non si servisse di lavoro di terzi, perché sarebbe stato come attribuire vantaggi fiscali e contemporaneamente impedire di essere competitivi: per questo motivo conta la prevalenza dell’apporto dei soci rispetto a quella dei non soci.

A norma dell’articolo 2512, sono a mutualità prevalente, a seconda del tipo di scambio mutualistico, le cooperative che:

a) Svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi

b) Si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento delle loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci;

c) Si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci.

L’accertamento della prevalenza viene riservato ad amministratori e sindaci, i quali nella nota integrativa al bilancio devono evidenziare quanto di ricavi, delle vendite, del costo di lavoro e della produzione sia riconducibile ai soci e quanto, invece, sia legato a terzi

Il fatto che la cooperativa possa offrire i propri prodotti anche ai terzi determina che essa consegua, al pari delle società lucrative, veri e propri utili. La legge prevede, a seconda che si tratti di cooperative a mutualità prevalente, o meno, diverse percentuali di utili distribuibili ai soci.

Per le prima vale la regola per la quale, lo statuto debba prevedere:

114

Page 115: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

a) Il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato (quindi la quantità di utili distribuibili dipende dal conferimento di ogni socio, non dagli utili di bilancio);

b) Il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi;

c) Il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori;d) L’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio

sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

Tutto l’utile che non può essere distribuito va a formare una riserva indisponibile che poi sarà devoluta, al momento dello scioglimento della società, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

Le altre cooperative hanno solamente un duplice limite alla divisione di utili:a) Un limite statutario, dato che lo statuto deve indicare, oltre che le modalità di

distribuzione, anche la percentuale massima dei dividendi ripartibili, fissabile senza nessun tipo di vincolo;

b) Un limite di legge, in quanto non vi può essere distribuzione di utile se l’indebitamento eccede un quarto del patrimonio netto della società.

Quindi una cooperativa ordinaria con indebitamento inferiore ad un quarto del patrimonio netto e con una clausola statutaria apposita può praticare una politica di dividendo non dissimile a quella di una società lucrativa: rimane però il limite massimo alla partecipazione di ogni socio, che può però essere aggirato dalle persone fisiche.

Un ulteriore limite, valido per tutte le cooperative, è costituito dalla previsione legale in base alla quale almeno il 30% dell’utile annuo deve essere destinato a riserva legale, che sarà poi devoluta ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, insieme ad una percentuale degli utili che deve essere necessariamente versata a tal fine ogni anno.

Il principio della “porta aperta”Come detto, è tipico della cooperativa la possibilità di avere un aumento del numero dei soci e del

capitale sociale senza necessità di modificazioni dell’atto costitutivo: è però possibile, anzi connaturato nelle cooperative (in quanto espressione di gruppi omogenei) che l’atto costitutivo preveda delle condizioni per l’ammissione dei soci, come l’appartenenza ad una determinata categoria lavorativa o ad un ceto sociale.

Sono invece nulle le clausole statutarie che vietino o consentano l’accesso a chiunque: la cooperativa nasce per essere estesa e raggruppare il più alto numero di soci possibile, ma sempre all’interno del gruppo cui interesse è portato avanti.

Ugualmente sono nulle le condizioni di mero gradimento degli amministratori, mentre non è fatto obbligo per gli amministratori accogliere tutte le domande di chi dimostri di avere i requisiti richiesti: sarà solo necessario che essi motivino il rigetto della domanda di ammissione loro proposta.

Il rigetto potrà poi essere motivato da ragioni di ordine soggettivo (perché l’aspirante socio non riveste le condizioni per l’ammissione previste dalla legge o dall’atto costitutivo, o indipendentemente da ciò, perché egli è persona la cui condotta sociale o politica la rende “poco gradita”) o di ordine oggettivo (perché le dimensioni dell’impresa o le condizioni del mercato sono tali da rendere sconsigliabile, in quel dato momento, l’aumento del numero di soci).

L’ingiustificato rigetto della domanda di ammissione è giudizialmente inattaccabile da chi l’ha subito, il quale non potrà ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento sostitutivo, ma solamente per denunciare la violazione dei doveri degli amministratori e agire contro di loro per i danni. Egli potrà però chiedere, dopo il rifiuto da parte degli amministratori, che sia l’assemblea a decidere sulla sua ammissione.

115

Page 116: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

La responsabilità dei soci; le quote e le azioniL’articolo 2518 dispone che nelle cooperative <delle obbligazioni sociali risponde soltanto la

società con il suo patrimonio>.Le quote di partecipazione dei soci possono essere rappresentate da azioni, la cui disciplina è

analoga a quella per le azioni delle s.p.a. ma esclusa la possibilità di emettere particolari categorie di azioni.

Ovviamente sulle azioni non può essere indicato l’ammontare del capitale sociale, in quanto questo è, come detto, variabile: il valore di ciascuna azione dovrà inoltre essere compreso tra i 25 euro e i 500.

Per quel che riguarda il trasferimento di quote o azioni, l’articolo 2530 sancisce che <la quota o le azioni non possono essere cedute con effetto verso la società, se la cessione non è autorizzata dagli amministratori>. Quella che per le s.p.a. è solo una delle possibili clausole statutarie, qui diviene regola imposta dall’esigenza di accertare la ricorrenza, nel cessionario del socio, dei requisiti di appartenenza alla cooperativa. Anche in questo caso l’eventuale diniego deve essere motivato, ma in questo caso è impugnabile davanti al tribunale.

La circolazione della partecipazione sociale può poi essere esclusa con clausola dello statuto, salvo in questo caso il diritto del socio di recedere in ogni momento dalla società (come avviene nella s.r.l.).

Vi può essere, come detto, esclusione del socio da parte della società per decisione presa

L’organizzazione interna della societàL’organizzazione interna della cooperativa è la stessa della società per azioni, modificata solo in

alcuni specifici caratteri regolati dagli art. 2538-2545-bis, ossia:a) Vige il principio “una testa un voto” e le maggioranze deliberative non sono fissate dalla

legge ma dall’atto costitutivo e calcolate non per quote ma per capi;b) Limitata ammissione del voto per rappresentanza: il socio può farsi rappresentare in

assemblea solo da un altro socio o dal coniuge o da parenti o affini del socio imprenditore che collaborino nella sua impresa individuale.

c) La necessità che almeno la maggioranza degli amministratori sia formata da soci cooperatori, in quanto portatori degli interessi di categoria di cui la cooperativa è espressione.

d) L’ammissibilità, previa clausola statutaria, del voto per corrispondenza o mediante mezzi di telecomunicazione e di assemblee separate (ma solo per le cooperative con almeno 3000 soci dislocati in più province): in questo modo ogni assemblea nomina il proprio delegato che partecipa all’assemblea generale con vincolo di mandato

e) L’organo di controllo può essere eletto dall’assemblea, se previsto dall’atto costitutivo, non sulla base del principio “una testa un voto” bensì in proporzione alla quota o alle azioni possedute oppure in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico.

Controlli governativi sulla cooperazioneLe cooperative sono sottoposte ad un complesso e penetrante controllo esterno, ben più esteso di

quello previsto per le società di capitali: vi è infatti il controllo giudiziario da parte del tribunale cui si possono rivolgere coloro che vogliano sollevare la responsabilità degli amministratori o della società, ma anche un controllo governativo esercitato dallo Stato.

Organi statali porteranno quindi avanti un controllo sul fenomeno cooperativo in generale, andando ad esaminare i registri prefettizi tenuti presso ogni provincia e nei quali devono essere iscritte tutte le cooperative, mentre dovranno eseguire anche controlli relativamente ad ogni singola cooperativa, avvalendosi dello strumento dell’ispezione, ordinaria (almeno una volta ogni due anni) o straordinaria (qualora se ne presenti l’opportunità), in modo da accertare l’esatta osservanza delle norme legislative, regolamentari e mutualistiche, la sussistenza dei requisiti richiesti dalle leggi etc.

Nel caso in cui vengano riscontrate gravi irregolarità, il ministero delle attività produttive potrà diffidare la cooperativa a provvedere alla regolarizzazione fino a giungere a decretarne la cancellazione dal registro prefettizio, con conseguente perdita dei benefici fiscali. Potrà, andando

116

Page 117: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

ancora oltre, revocarne gli amministratori e affidare la gestione ad un commissario governativo o addirittura decretarne lo scioglimento.

Controllo giudiziario e governativo sono tra loro in rapporto di reciproca esclusione: se è già in moto uno dei due procedimenti, l’altro deve dichiarare l’improcedibilità.

Scioglimento della società, scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socioLe cause di scioglimento della cooperativa sono le stesse della società per azioni con la sola

sostituzione della clausola concernente la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale con quella della totale perdita del capitale.

Liquidazione ed estinzione seguono poi lo stesso procedimento, con l’unico accorgimento dovuto al fatto che nelle cooperative a mutualità prevalente, il patrimonio netto risultante dalla liquidazione (quindi escluso quanto rimborsato e distribuito) è devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

Come si vedrà successivamente, le cooperative possono fondersi e scindersi, ed anche trasformarsi in società lucrative, ma non se si tratta di società a mutualità prevalente.

È poi stata espressamente prevista dalla riforma del 2003 la possibilità di trasformazione eterogenea, ossia da società di capitali in società cooperativa.

Lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio si verifica nel caso di morte del socio, salvo che l’atto costitutivo non disponga la continuazione della società con gli eredi, di recesso, ma solo nei casi previsti dalla legge o dallo statuto, e di esclusione, la quale avviene di diritto nel caso di socio fallito, mentre viene deliberata dall’assemblea o, se previsto, dagli amministratori, nei confronti del socio moroso o in presenza di cause di esclusione previste per la società di persone.

La delibera di esclusione è impugnabile.Al socio receduto o escluso o agli eredi del socio defunto spetta la liquidazione della quota o il

rimborso delle azioni secondo i criteri stabiliti nell’atto costitutivo e sulla base del bilancio dell’esercizio in corso. Nelle società cooperative a mutualità prevalente il rimborso consiste nella restituzione del valore nominale più i dividendi maturati.

I soci finanziatori e i sottoscrittori di titoli di debitoLe imprese, anche le imprese cooperative, con l’evolversi del sistema economico hanno sempre più

bisogno di disponibilità finanziarie: devono raggiungere le dimensioni aziendali ottimali, devono ammodernare la tecnologia, pubblicizzare i prodotti e così via. Fino al 2003, però, soltanto le imprese di mutua assicurazione potevano fare affidamento su capitali di investimento, quelli forniti dai soci sovventori: la riforma ha fatto in modo che qualunque impresa cooperativa abbia accresciuto la propria capacità di acquisire mezzi finanziari, sia sotto forma di capitale di debito, ossa emettendo obbligazioni, sia nella forma di capitale di rischio, introducendo la possibilità di una cooperativa a causa mista, allo stesso tempo mutualistica e lucrativa.

È stata infatti introdotta la figura dei soci finanziatori: l’atto costitutivo può prevedere emissione di strumenti finanziari partecipativi, ai cui possessori sono attribuiti diritti amministrativi e patrimoniali, però limitati.

Ai soci finanziatori non può essere distribuito più di un terzo dei voti spettanti all’insieme dei soci presenti o rappresentati in ciascuna assemblea; essi non possono eleggere più di un terzo degli amministratori e più di un terzo dei membri dell’organo di controllo o, nel caso di sistema monistico, dei componenti del consiglio di amministrazione. Nel caso di sistema dualistico, non potranno eleggere più di un terzo dei membri del consiglio di sorveglianza, il quale nominerà i componenti del consiglio di gestione scegliendo esclusivamente tra i soci cooperatori.

I diritti patrimoniali dei soci finanziatori sono stabiliti dall’atto costitutivo, ma il privilegio ad essi accordato non può toccare le riserve indivisibili.

Il gruppo cooperativo

117

Page 118: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Anche tra società cooperative può essere costituito un gruppo, ma solo nelle forme del gruppo orizzontale o paritetico: tra le varie componenti, poste tutte sullo stesso livello, ad una sarà attribuita la funzione di indirizzo e coordinamento delle altre.

Vigendo il principio “una testa un voto” appare infatti giuridicamente impossibile che una cooperativa detenga il controllo di un’altra: l’unico modo per dar vita ad un gruppo può essere quello della società cooperativa che controlla una società di capitali, facoltà che è stata espressamente prevista dal legislatore senza alcun limite.

C’era chi sosteneva che la possibilità della cooperativa di estrinsecare la propria attività per mezzo di una società di capitali potesse snaturarne la finalità mutualistica: a ben vedere ciò non può accadere poiché, almeno nel caso di società cooperative a mutualità prevalente, gli utili prodotti non potranno in ogni modo essere distribuiti in misura differente a quanto disposto dalla legge per lo scopo mutualistico.

L’unica differenza tra cooperativa singola e cooperativa holding è data quindi dal fatto che la seconda esercita la sua attività in modo indiretto e mediato, lasciando in ogni caso inalterato lo scopo mutualistico.

TRASFORMAZIONE, FUSIONE E SCISSIONE DELLA SOCIETA’La trasformazione omogenea

La trasformazione è, in linea generale, un fenomeno evolutivo del soggetto titolare dell’impresa: esso infatti conserva diritti ed obblighi e prosegue in tutti i rapporti, sostanziali e processuali, ad essa anteriori, ma dal momento della trasformazione in poi sarà soggetto ad una diversa disciplina.

Per prima cosa bisogna distinguere tra trasformazione omogenea ed eterogenea: è omogenea la trasformazione di una società di persone in una società di capitali o viceversa (e allora si parla di trasformazione omogenea regressiva), caratterizzata dal fatto che non si fuoriesca dalla causa del contratto, ossia dalla sua funzione economico-sociale, che è sempre quella di svolgere un’attività d’impresa e produrre utili.

La trasformazione eterogenea è invece caratterizzata, come si vedrà, dal mutamento della causa del contratto sociale.

La riforma del 2003 è stata ispirata dal favor per la trasformazione, in omaggio alla volontà di consentire alle imprese di ricercare la forma giuridica ad esse più congeniale nell’evolversi delle situazioni aziendali o di mercato. Proprio da questa ratio è stato ispirato il legislatore quando ha previsto che, per le società di persone, la trasformazione, la fusione e la scissione non debbano essere approvate all’unanimità, ma solamente dalla maggioranza dei soci in base alla loro partecipazione agli utili, a meno di diversa previsione statutaria: ha in questo modo ribaltato la norma, che consiste nell’unanimità salvo diversa previsione, in quanto ha voluto tutelare la volontà delle persone ed evitare che un solo socio disponesse di una sorta di diritto di voto (salvo il diritto di recesso per il socio dissenziente).

La trasformazione da società di persone a società per azioni si attua mediante deliberazione modificativa dell’atto costitutivo adottata, anche nelle società di persone, a maggioranza dei soci (e non all’unanimità); essa dovrà risultare da atto pubblico e contenere le indicazioni prescritte dalla legge per l’atto costitutivo della società per azioni e per la cessazioni della società che effettua la trasformazione. Accanto alla delibera deve esserci una relazione di stima del patrimonio sociale.

Il valore del patrimonio della società frutto della trasformazione deve però risultare non dai valori risultanti dal bilancio, ma dai valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo: nel caso di questa trasformazione si potrà avere il passaggio dei soci al beneficio della responsabilità limitata anche per le obbligazioni sociali anteriori solamente nel caso in cui i creditori sociali abbiano dato il loro consenso, anche tacito, alla trasformazione.

A ciascun socio viene assegnato un numero di azioni o una quota proporzionale alla sua partecipazione o, nel caso di socio d’opera, che non può persistere come tale nella s.p.a., un numero di azioni o una quota corrispondente alla partecipazione agli utili che l’atto costitutivo gli riconosceva prima della trasformazione.

Quando sia, invece, una società di capitali a trasformarsi in una società di persone, varranno le maggioranze previste per le modificazioni statutarie (assemblea straordinaria con voto favorevole di almeno metà del capitale sociale in prima convocazione, due terzi del capitale rappresentato in seconda

118

Page 119: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

convocazione –con quorum costitutivo a 1/3 del capitale-, oppure con voto favorevole di almeno 1/3 del capitale sociale nel caso di società che fa ricorso al mercato del capitale di rischio).

In ogni caso i soci che a seguito della trasformazione assumono responsabilità illimitata dovranno dare il loro personale consenso alla trasformazione: la loro responsabilità illimitata, ex. 2500-sexies, è infatti estesa anche alle obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione.

La trasformazione omogenea ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari richiesti dall’art. 2500.2, ossia la risultanza da atto pubblico e la pubblicità richiesta per la cessazione dell’ente che effettua la trasformazione.

La trasformazione eterogeneaIn origine il codice civile conosceva solamente la trasformazione omogenea, ossia quella tra un tipo

ad un altro di società lucrative. La trasformazione da società lucrativa in società cooperativa si riteneva inammissibile, valendo a precluderla la differenza di causa del contratto di società: basti pensare che una legge del 1971 vietava espressamente la trasformazione da società cooperativa a società ordinaria, anche se tale trasformazione fosse stata deliberata all’unanimità.

Ogni ostacolo è stato superato dalla riforma del 2003, che, in via di generalizzazione delle episodiche vicende evolutive che avevano caratterizzato il nostro ordinamento, ha introdotto la figura della trasformazione eterogenea: la finalità di tale istituto risiede, come anche quello della trasformazione omogenea, nella volontà di dare alle imprese la più ampia libertà di ricercare le forme giuridiche più congeniali al loro sviluppo o per la loro salvaguardia.

È stata così prevista la trasformazione eterogenea sia da società di capitali sia in società di capitali: in entrambi i casi si è voluta però ribadire la continuità dei rapporti giuridici sostanziali e processuali, che vengono proseguiti dall’ente che ha effettuato la trasformazione.

Una società di capitali può, con deliberazione assembleare, trasformarsi in un consorzio, in una società consortile, in una società cooperativa, in una comunione d’azienda, in un’associazione non riconosciuta (perché non è detto che la società di partenza disponga di un capitale sufficiente per ottenere il riconoscimento) e anche in una fondazione: è però richiesto il voto favorevole dei 2/3 degli aventi diritto, e comunque vi deve essere consenso dei soci che assumono responsabilità illimitata, la quale sarà estesa anche alle obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione.

È in ogni caso fatto salvo il diritto al recesso del dissenziente.Nel caso di trasformazione eterogenea in società di capitali, invece, va preliminarmente osservato

che tale facoltà è prevista solamente per le associazioni riconosciute, i consorzi, le comunioni di aziende e società consortili, ossia per quelle che offrono la garanzia di una certa consistenza patrimoniale. A seconda dell’ente di partenza sono richieste differenti maggioranze: nei consorzi è necessario il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consorziati, nelle comunioni di azienda l’unanimità, nelle società consortili e nelle associazioni la maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo per lo scioglimento anticipato. La necessità dell’unanimità nelle comunioni d’azienda è data dal fatto che non vi è la possibilità di tutelare il dissenziente con il recesso, in quanto ogni membro è parte fondamentale e necessaria della comunione e del processo produttivo.

La trasformazione delle associazioni può essere esclusa dall’atto costitutivo o anche dalla legge (come nel caso delle associazioni di volontariato), ed è comunque esclusa per le associazioni che abbiano ricevuto finanziamenti pubblici.

La trasformazione eterogenea ha effetto trascorsi sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti dalla legge, salvo che risulti il consenso dei creditori o il pagamento dei loro crediti: in caso contrario essi potranno, in questi sessanta giorni, fare opposizione.

La fusioneLa fusione tra società è il fenomeno per il quale una società prende vita da due o più preesistenti

società. L’articolo 2501 prevede sia la possibilità di una fusione mediante costituzione di una nuova società sia di fusione mediante incorporazione in una società (c.d. incorporante) di una o più altre società.

Il procedimento di fusione si attua, sulla base della disciplina comunitaria, attraverso una triplice fase:

119

Page 120: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

1. redazione del progetto di fusione da parte degli amministratori delle società che partecipano alla fusione: da esso deve risultare l’atto costitutivo della società frutto della fusione o della società incorporante e il rapporto di cambio delle azioni o quote (che viene stabilito non guardando al bilancio, ma guardando al valore effettivo del patrimonio e tenendo conto anche dell’avviamento). Essi debbono inoltre redigere la situazione patrimoniale della loro società e depositare presso la società una propria relazione che illustri e giustifichi il progetto di fusione e una relazione di esperti sulla congruità dei rapporti di cambio.

2. approvazione da parte delle assemblea di ciascuna delle società partecipanti alla fusione del progetto di fusione: sono in questo caso richieste per le società di capitali le maggioranze tipiche delle modificazioni statutarie, mentre per le società di persone sarò necessario il voto della maggioranza calcolata in base alla partecipazione agli utili. Le relative deliberazioni devono essere iscritte nel registro delle imprese ed in ogni caso la fusione non può essere attuata prima che siano trascorsi sessanta giorni dall’ultima iscrizione, al fine di consentire ai creditori un eventuale opposizione.

3. redazione dell’atto di fusione da parte degli amministratori delle società partecipanti alla fusione: tale atto deve essere redatto in forma pubblica ed essere iscritto nel registro delle imprese. Una volta eseguita l’iscrizione, l’invalidità dell’atto di fusione non può essere pronunciata, ed i soci o terzi danneggiati dalla fusione possono agire solo per il risarcimento del danno.

Diritti ed obblighi delle società partecipanti alla fusione non si estinguono, come non si estinguono quelli della società incorporata: ex art. 2504-bis <la società che risulta dalla fusione, o la società incorporante, assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione o incorporate, proseguendo tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione>.

La società risultante dalla fusione non è, quindi, qualcosa di diverso dalle società che la compongono, ed è destinata a succedere a titolo universale alle società fuse. Il modo migliore per definire la natura di tale società è quindi pensare che non si assista alla fine di determinate società ed alla nascita di una nuova, quanto alla modificazione dell’atto costitutivo di ogni società, in modo che tutti quanti coincidano. Ogni contratto sociale viene integrato e modificato in modo da essere identico agli altri, e la loro iscrizione nel registro delle imprese rende tali modifiche inattaccabili. Si assiste, quindi, ad una semplice modificazione dei contratti sociali a cui consegue una modificazione soggettiva di tutti i rapporti di partecipazione: ogni socio non cessa di essere socio di una società per divenire socio dell’altra, ma continuerà a conservare la qualità di socio sulla base di un contratto sociale che non è venuto meno, ma è stato solamente modificato.

Una procedura semplificata è prevista nel caso di società che abbia il controllo totalitario, o anche in misura superiore al 90%, di un’altra e decida di incorporarla: nel primo caso sarà superfluo che il progetto di fusione menzioni il rapporto di cambio e saranno superflue la relazione degli amministratori e quella degli esperti. Il codice prevede addirittura che, in caso di controllo totalitario, la fusione possa essere deliberata direttamente dagli amministratori, senza intervento delle assemblee (a meno che almeno il 5% del capitale sociale lo richieda).

La scissioneFenomeno inverso rispetto alla fusione è la scissione di società, previsto dall’art. 2506 e

disciplinato in base a direttive comunitarie.Essa può attuarsi in due forme: o mediante il trasferimento di tutto o di parte del patrimonio di una società ad una o più società preesistenti, o mediante il suo trasferimento a nuove società.

A sua volta la società che si scinde può deliberare la propria estinzione senza liquidazione oppure proseguire nell’attività.

Da un lato, oggettivo, la scissione scinde un patrimonio sociale in più patrimoni sociali; da un altro lato, soggettivo, moltiplica una società in due o più.

120

Page 121: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Le modalità della scissione sono le stesse della fusione, ma a tutela dei soci non solo è previsto che essi possano fare opposizione alla scissione, ma che le società siano responsabili in solido, nel limite del patrimonio netto ad esse trasferito o rimasto.

Il legislatore ha reso possibile attuare la scissione anche in fase di liquidazione, purchè non sia iniziata la fase di distribuzione degli utili.

Essa, come la fusione, non estingue l’originario contratto per dare vita a contratti di società nuovi, bensì modifica il primo, attuando una ramificazione in più rapporti contrattuali del rapporto contrattuale originariamente unitario.

Dato che lo scopo della fusione è quello di consentire una più razionale organizzazione aziendale per le società che esercitano una pluralità di attività economiche, si deve ritenere che il patrimonio trasferibile non possa consistere in un singolo bene di per sì inidoneo allo svolgimento di attività economica, ma deve consistere in un ramo d’azienda, idoneo a dar vita ad un’attività imprenditoriale. Si potrebbe altrimenti ricadere nel reato di scissione elusiva, colpito dalle norme sull’elusione fiscale.

L’INSIDER TRADINGIl concetto di insider trading

L’insider trading è, in prima approssimazione, la negoziazione di strumenti finanziari, e in particolare di azioni di società, da parte di chi si trova nella condizione di insider, ossia in situazione tale da possedere informazioni privilegiate sull’emittente degli strumenti finanziari stessi.

Chi compie tale attività compie un reato penalmente sanzionato: chi si trova nella condizione di insider non può acquistare o vendere o compiere altre operazioni su strumenti finanziari o sui relativi diritti di opzione avvalendosi di informazioni privilegiate.

La violazione di tale divieto comporta, infatti, una modificazione delle condizioni di mercato e il venir meno della parità di condizioni per gli investitori.

Bisogna a questo punto determinare cosa si intende con informazione privilegiata e cosa per insider.È privilegiata, per disposizione normativa, <una informazione specifica di contenuto determinato,

di cui il pubblico non dispone, concernente strumenti finanziari o emittenti di strumenti finanziari, che, se resa pubblica, sarebbe idonea a influenzarne sensibilmente il prezzo>.

Si ha informazione rilevante ai fini dell’insider trading quando essa riguarda un evento o un proposito altrui, non se si riferisce ad eventi che concernono il soggetto in questione: perché vi sia insider trading, la notizia deve riguardare qualcosa di esterno a colui che ne viene a conoscenza e se ne serve.

Vi deve essere insomma distinzione tra il creatore dell’evento, il proprietario dell’informazione, e colui che se ne serve..

È quindi insider chi possieda informazioni riservate in ragione della partecipazione al capitale di una società ovvero all’esercizio di una funzione, anche pubblica, di una professione o di un ufficio. Vi sarà poi l’insider che si serve in prima persona delle informazioni di cui è venuto a conoscenza, ma anche l’insider tippee, ossia colui che ribalta l’informazione su di un terzo, in modo che sia lui a servirsene.

La direttiva comunitaria sulla base della quale è stato disciplinato l’insider trading nel nostro ordinamento fa poi riferimento all’insider persona giuridica, disponendo che il divieto si applichi alle persone fisiche che partecipano alla decisione di procedere alla transazione per conto della persona giuridica in questione, ossia agli amministratori. Essi non potranno quindi sfruttare informazioni riservate relative a società controllate per contrattare in nome proprio, ma potranno farlo se contratteranno in nome della società gestita in modo da procurare ad essa vantaggi.

IL MERCATO FINANZIARIO E L’OPALa sollecitazione al pubblico risparmio

Il mercato finanziario è il mercato dei valori mobiliari o, secondo il Testo unico dell’intermediazione finanziaria, degli strumenti o prodotti finanziari. È, perciò, il mercato delle azioni e delle obbligazioni di società, dei titoli del debito pubblico, dei certificati di partecipazione e, più in generale, di ogni altra forma di investimento di natura finanziaria.

121

Page 122: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

Il prodotto finanziario può poi essere oggetto di sollecitazione all’investimento, ossia di <offerta, invito ad offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari>: il pubblico cui si fa riferimento è il pubblico dei risparmiatori. Chiunque intenda sollecitare il pubblico risparmio deve darne preventiva comunicazione alla Consob e deve accompagnare la sollecitazione con un prospetto informativo.

L’obbligo di offerta pubblica di acquistoOgni azione emessa da una società deve avere, come detto, eguale valore nominale: molto spesso,

però, il valore di mercato di un’azione è differente rispetto al valore nominale della stessa, perché dipende da quanto i potenziali compratori sono disposti ad offrire per procurarsi la proprietà delle azioni, e può dipendere da molteplici fattori.

Inoltre, a ben vedere, le azioni che compongono il pacchetto di maggioranza di una società avranno sicuramente un valore superiore rispetto a quello delle altre azioni. Ciò deriva dal fatto che il pacchetto di maggioranza attribuisce al compratore il controllo della società, ossia la maggioranza dei voti o, comunque, l’influenza dominante nell’assemblea ordinaria.

Il sovrapprezzo cui tali azioni sono sottoposte è detto premio di maggioranza. Si vengono così a creare tre fasce di azioni: le azioni che costituiscono il capitale di comando (corrispondenti al numero di azioni che assicurano il controllo della società); le azioni dei pacchetti azionari (che rappresentano una frazione apprezzabile del capitale sociale, ma sono estranei al capitale di comando); le azioni del capitale di risparmio, o flottante (che rappresentano quella frazione del capitale sociale che è suddivisa in una moltitudine di piccoli azionisti, ciascuno dei quali proprietario di una frazione insignificante ai fini della formazione della maggioranza in assemblea).

I pacchetti azionari sono molto importanti perché molto spesso sono oggetto di rastrellamento da parte di soggetti che vogliano attuare una scalata al comando della società: termine abituale per indicare tali azionisti detentori di pacchetti azionari è quello di “azionisti di riferimento”.

Mentre in passato si riteneva legittimo che i detentori gli azionisti di riferimento ottenessero dalla vendita delle proprie azioni più di quanto avrebbero potuto ottenere azionisti risparmiatori, da qualche tempo si è affermato il principio della totale uguaglianza degli azionisti, anche in sede di alienazione delle azioni stesse: per fare in modo che tutti possano ottenere i vantaggi derivanti dalla volontà di un soggetto di eseguire una scalata societaria nel 1992 è stato introdotto il sistema dell’offerta pubblica di acquisto.

Vi sarà il caso di Opa totalitaria e quello, secondario, di Opa residuale.Sarà costretto a ricorrere all’Opa totalitaria chi abbia conseguito, a seguito di acquisti onerosi, una

partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento: egli dovrà, entro trenta giorni, promuovere una Opa sulla totalità delle azioni con diritto di voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti la nomina o revoca degli amministratori o responsabilità degli amministratori o del consiglio di sorveglianza, che siano quotate in mercati regolamentati italiani, per un prezzo non inferiore alla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pattuito nello stesso periodo dall’offerente per azionisti di azioni della medesima categoria.

Tale obbligo non sussiste se la percentuale superiore al 30% è stata acquistata mediante un’offerta pubblica di acquisto diretta a conseguire la totalità delle azioni ordinarie.

Tutto ciò costituisce un incentivo per l’Opa preventiva: chi voglia acquistare una partecipazione rilevante in una società quotata effettuerà un’offerta pubblica di acquisto, e la effettuerà per la totalità delle azioni ordinarie (o per il 60%, dato che ciò è sufficiente per evitare di dover successivamente effettuare un’ulteriore Opa totalitaria). Altrimenti potrà trovarsi costretto, ad acquisto effettuato, ad effettuare ulteriori acquisti in sede di Opa obbligatoria.

Chi, a seguito di Opa totalitaria, si sia trovato a detenere più del 98% della società ha diritto di acquistare entro quattro mesi le azioni residue al prezzo fissato da un esperto nominato dal presidente del tribunale: i detentori di tali azioni dovranno quindi venderle coattivamente.

Si avrà Opa residuale quando chi abbia acquistato il controllo di una società con azioni quotate a seguito di Opa abbia provocato l’effetto di ridurre il flottante in misura inferiore del 10%: in tal caso si deve promuovere l’Opa sula totalità dei titoli al prezzo fissato dalla Consob, a meno che entro quattro mesi ripristini un flottante tale da assicurare il regolare andamento delle negoziazioni. Si

122

Page 123: Diritto Commerciale

Tomaso Ferrando - Diritto commerciale

rischierebbe, senza tale disposizione, di paralizzare il diritto dei piccoli azionisti di realizzare il controvalore delle loro azioni, in quanto esse diverrebbero praticamente non negoziabili.

La violazione di una di queste regole determina come sanzione la sospensione del diritto di voto per l’intera partecipazione detenuta e l’obbligo di alienazione entro 365 giorni.

Il meccanismo dell’Opa obbligatoria grava anche su chi abbia posto in essere un acquisto di concerto superando complessivamente le percentuali sopra indicate. Si ha acquisto di concerto quando è stato effettuato da uno dei partecipanti ad un sindacato di voto, anche nei dodici mesi prima di tale stipulazione, quando sia stato effettuato da società controllante e da una controllata o da più società sottoposte al medesimo controllo, o ancora quando sia stato effettuato da una società e dai suoi amministratori o direttori generali.

In tutti questi casi, coloro che hanno acquistato le partecipazioni rispondono in solido di eventuali violazioni.

123