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RIVISTA DI STORIA ECONOMICA, a. XVII, n. 3, dicembre 2001 PATRIZIA BATTILANI Decentramento o accentramento: obiettivi e limiti del sistema amministrativo locale scelto con l’Unità del paese 1. Introduzione Questo saggio è dedicato all’analisi dell’ordinamento del- l’amministrazione locale che venne adottato dal nuovo stato unitario negli anni Sessanta dell’Ottocento. I motivi di inte- resse sono molti, noi ci soffermeremo essenzialmente su due aspetti: in primo luogo, tale ordinamento rappresentò per buona parte del paese (ma si potrebbe dire per tutto lo sta- to) una innovazione istituzionale il cui esito dipendeva in modo cruciale dalla capacità delle forze politiche ed econo- miche degli ex stati preunitari; secondariamente, tale innova- zione interessò territori caratterizzati da profondissimi divari di reddito, che tra l’altro si ampliarono nei decenni successi- vi. 1 Pur senza instaurare rapporti di causa ed effetto, il lega- me tra i divari di reddito e l’ordinamento locale meritano di essere analizzati congiuntamente. Al momento dell’unificazione del paese uno dei principali problemi che il nuovo stato centrale si trovò ad affrontare fu la definizione dei rapporti fra i diversi livelli di governo. In- fatti, gli ex stati operavano con gradi di decentramento am- ministrativo molto differenti. Ad esempio, mentre nel Lom- bardo-Veneto ai comuni erano state attribuite numerose fun- zioni e un’elevata autonomia, nel Regno delle due Sicilie la centralizzazione amministrativa era pressoché totale. 2 In un primo tempo la scelta oscillò fra due modelli alter- nativi di ordinamento amministrativo: quello di una struttu- ra uniforme, come in Francia, e quello del riconoscimento della diversità esistente fra i comuni, sull’esempio austriaco. In una prima fase, quest’ultima soluzione venne sostenuta dallo stesso Cavour e dai suoi collaboratori, i quali si schie- rarono a favore dell’unione con la Lombardia sul piano poli-

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RIVISTA DI STORIA ECONOMICA, a. XVII, n. 3, dicembre 2001

PATRIZIA BATTILANI

Decentramento o accentramento:obiettivi e limiti del sistema amministrativo locale

scelto con l’Unità del paese

1. Introduzione

Questo saggio è dedicato all’analisi dell’ordinamento del-l’amministrazione locale che venne adottato dal nuovo statounitario negli anni Sessanta dell’Ottocento. I motivi di inte-resse sono molti, noi ci soffermeremo essenzialmente su dueaspetti: in primo luogo, tale ordinamento rappresentò perbuona parte del paese (ma si potrebbe dire per tutto lo sta-to) una innovazione istituzionale il cui esito dipendeva inmodo cruciale dalla capacità delle forze politiche ed econo-miche degli ex stati preunitari; secondariamente, tale innova-zione interessò territori caratterizzati da profondissimi divaridi reddito, che tra l’altro si ampliarono nei decenni successi-vi. 1 Pur senza instaurare rapporti di causa ed effetto, il lega-me tra i divari di reddito e l’ordinamento locale meritano diessere analizzati congiuntamente.

Al momento dell’unificazione del paese uno dei principaliproblemi che il nuovo stato centrale si trovò ad affrontare fula definizione dei rapporti fra i diversi livelli di governo. In-fatti, gli ex stati operavano con gradi di decentramento am-ministrativo molto differenti. Ad esempio, mentre nel Lom-bardo-Veneto ai comuni erano state attribuite numerose fun-zioni e un’elevata autonomia, nel Regno delle due Sicilie lacentralizzazione amministrativa era pressoché totale. 2

In un primo tempo la scelta oscillò fra due modelli alter-nativi di ordinamento amministrativo: quello di una struttu-ra uniforme, come in Francia, e quello del riconoscimentodella diversità esistente fra i comuni, sull’esempio austriaco.In una prima fase, quest’ultima soluzione venne sostenutadallo stesso Cavour e dai suoi collaboratori, i quali si schie-rarono a favore dell’unione con la Lombardia sul piano poli-

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tico-istituzionale, ma, contemporaneamente, per il manteni-mento degli apparati amministrativi originari. Tale scelta na-sceva sia dalla convinzione della superiorità dell’ordinamen-to lombardo rispetto a quello piemontese, sia dalla volontàdi salvaguardare gli equilibri preesistenti. In questo sensotrovava perfetta applicazione il principio liberista di lasciareampi margini di azione alle comunità locali, una volta salva-guardati gli interessi dello stato. 3

Nel volgere di pochi anni, di fronte al ritmo acceleratodelle annessioni, tale visione venne abbandonata a favore diquella rattazziana, poi fatta propria dallo stesso Cavour, con-vinta dell’opportunità di un ordinamento amministrativouniforme in tutti gli ex stati annessi. Tuttavia, ottenuto unprimo consolidamento dello stato unitario, i cavouriani ritor-narono alle convinzioni originarie di non turbare più del do-vuto le tradizioni amministrative preesistenti, intuizione cheMinghetti e Farini espressero con il desiderio di riconoscerele diversità fra le varie regioni italiane. Le opzioni possibilisi rivelarono due: il progetto Minghetti di costituzione delleregioni, oppure quello «centralista» di conservare l’ordina-mento amministrativo locale delineato nel 1859 dal decretoRattazzi. Tra le molteplici cause che portano alla sconfittadella riforma di Minghetti, vorremmo ricordare quella, sot-tolineata da Ruffilli, di una mancanza di appoggi validi daparte delle classi dirigenti degli stati preunitari. 4 Infatti, unsistema veramente decentrato non era presente in nessunostato preunitario. Così gli esponenti «autonomistici» napole-tani e siciliani che appoggiarono Minghetti non chiedevanotanto un maggiore decentramento quanto il poter conservarela diversità originaria che, aggiungiamo noi, tra le varie ca-ratteristiche annoverava anche una struttura amministrativamolto accentrata. A margine si deve pure ricordare che ilprogetto di Minghetti presentato al parlamento, probabil-mente nel vano tentativo di tranquillizzare una classe diri-gente avversa ad ogni ipotesi di federalismo, presentava mol-ti punti in comune con la tradizione amministrativa piemon-tese e in generale della penisola italiana. Per quanto riguardaprovince e comuni vi erano due importanti novità nel pro-getto Minghetti, vale a dire la nomina del sindaco da partedel consiglio comunale e l’autonomia della deputazione pro-vinciale dal prefetto. Ma per quanto riguarda le competenzee le fonti di finanziamento le novità non erano molte, fattaeccezione per l’attribuzione di parte delle entrate daziariealle province. In materia di controlli si confermava il ruolo

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sia del prefetto sia della giunta provinciale amministrativa.La grande novità dell’intero progetto ruotava attorno allacreazione delle regioni, pensate come consorzi obbligatori diprovince. Ora, per le regioni non valevano più i principi diautonomia che invece impregnavano le proposte relative alleamministrazioni comunali e provinciali. Gli organi della re-gione erano due: un governatore nominato dall’amministra-zione centrale, a cui spettava il potere esecutivo, e una com-missione deliberante i cui membri erano scelti dai consigliprovinciali nel loro seno. Non solo province e comuni nonpotevano influire sulla nomina del governatore, ma inoltre ledelibere della commissione erano sottoposte all’approvazio-ne del ministero degli interni. Le aree di intervento delle re-gioni venivano circoscritte all’istruzione superiore e alle ope-re pubbliche relative a fiumi, torrenti, strade che non fosse-ro già di competenza comunale. Ora, se tale progetto rap-presentava un aumento, seppur circospetto, del decentra-mento, spostando al nuovo livello di governo competenzeappartenenti al ministero dei lavori pubblici e dell’istruzio-ne, d’altro canto per molti aspetti rivelava una uniformità dicriteri con il decreto Rattazzi. In primo luogo, sia il progettoMinghetti che il decreto Rattazzi miravano a definire inmodo certo le competenze degli enti comunali e provincialie prevedevano una analoga autonomia impositiva. In secon-do luogo entrambi ampliarono le funzioni del consiglio dele-gato (che prese il nome di giunta municipale), a cui era pro-priamente affidata l’amministrazione esecutiva, a detrimentodi quelle del sindaco. 5

Ma prima di procedere all’ulteriore analisi del sistema am-ministrativo locale che effettivamente venne adottato, è im-portante introdurre alcune definizioni. Una prima importan-te distinzione è quella fra federalismo, regionalismo e auto-nomia fiscale. Per semplicità adottiamo la definizione di fe-deralismo proposta da Giorgio Brosio. 6 Un sistema federalesi caratterizza per una divisione delle competenze di gover-no fra il centro, vale a dire il governo federale, e le unità pe-riferiche, inoltre vi è una tutela di tipo costituzionale, realiz-zata a livello di corte suprema, di seconda camera o di refe-rendum popolare, delle competenze delle unità periferiche.Ciò che differenzia un sistema regionale è proprio la man-canza di tale tutela di tipo costituzionale al decentramentodelle competenze e delle entrate. Questa distinzione già cipermette di dire che un progetto di tipo federale non vennemai discusso nel parlamento del nuovo stato unitario, che ad

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onor del vero respinse anche la moderata proposta regionali-sta di Minghetti. In realtà, nei lavori degli economisti si usail termine federalismo fiscale in senso molto lato, come pre-cisa Wallace O. Oates: «The term federalism for the econo-mist is not to be understood in a narrow constitutional sen-se. In economic terms, all governmental systems are more orless federal; even in a formally unitary system, for example,there is typically a considerable extent of de facto fiscal di-scretion at decentralized levels». 7 Questa considerazione cipermette di arrivare all’ultima definizione che avevamo pro-messo, quella di autonomia impositiva. Con questo terminesi intende l’esistenza di gradi di libertà da parte dei governilocali nella scelta della tipologia della base imponibile o perlo meno nella determinazione delle aliquote. Di fatto la defi-nizione di Oates suggerisce che per avere federalismo fiscale(o autonomia fiscale) non c’è bisogno di invocare il federali-smo politico.

Questa lunga premessa è importante sia per presentareuna delle scelte fondamentali compiute al momento dell’uni-ficazione del nostro paese sia per capire quella che moltihanno considerato una contraddizione della classe politicadell’epoca, la quale pur essendo liberista decise di costruireuno stato accentrato. Le intenzioni di tale classe politica sipossono cogliere con chiarezza nelle parole di Cavour, quan-do afferma: «la centralizzazione amministrativa è una dellepiù funeste istituzioni dell’età moderna...» e, in un’altra oc-casione, «noi non siamo federalisti, né vogliamo essere ac-centratori». 8 Questa ultima affermazione è un vero e pro-prio leitmotiv, che ritroviamo anche nella relazione sul nuo-vo ordinamento comunale e provinciale di Rattazzi nel1859. 9 In altri termini se veniva rifiutato il progetto federali-sta e successivamente quello regionalista, non per questo sivoleva rinunciare ad un certo livello di decentramento dellecompetenze e di autonomia fiscale di comuni e province. Nétanto meno si voleva rinunciare al principio fiscale più caroai liberisti dell’epoca, vale a dire che ogni comunità territo-riale dovesse finanziare solamente le proprie opere o quelleche in qualche modo le giovassero. È su tale principio che sibasa il decentramento delle entrate che, già presente nellamaggior parte degli ex stati preunitari, fu la base dell’ordi-namento locale postunitario almeno sino alla fine del secolo.

Nonostante il decentramento delle entrate, gli storici, so-prattutto quelli dell’amministrazione, hanno in più ripresesottolineato le tendenze accentratrici della legislazione co-

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munale e provinciale del Regno d’Italia. 10 In verità tali giu-dizi, che nascevano soprattutto dall’analisi delle proceduredecisionali e dei meccanismi di controllo, mettevano in se-condo piano il fatto che con il decreto Rattazzi del 1859 lenumerose attribuzioni comunali previste nello stato sabaudoe nel Lombardo-Veneto venivano estese a tutto il territorionazionale. Tuttavia lo stesso M.S. Giannini, pur ritenendotali procedure fortemente lesive dell’autonomia dei comuni,riconobbe che «se si raffronta ciò che si faceva o poteva farenei primi decenni dell’unità con ciò che si può fare oggi[negli anni Settanta del Novecento, n.d.a.], si constata che ilcomune ha perduto una quantità di attribuzioni a favoredello stato e di enti pubblici diversi [...] Sino a quando si èavuta in Italia, la vigenza della costituzione liberale, lo statosi occupava di poche cose e lasciava all’iniziativa dei comunitutto ciò che non formasse oggetto di un proprio interessa-mento diretto». 11

Le rare volte in cui gli storici economici hanno tentatouna valutazione complessiva del sistema di autonomie localipostunitario sono pervenuti a giudizi meno radicali. Il lavoropionieristico di Volpi, pubblicato nell’Archivio storico del-l’unificazione, sposa, infatti, tutt’altra tesi: «un esame delleleggi che regolavano negli ex stati gli enti locali e un con-fronto tra le funzioni da questi svolte prima e dopo l’unità,come sono rispecchiate dai bilanci, permettono di ridurre apiù modeste proporzioni il richiamo polemico alle anticheautonomie che appaiono molto ridotte dal sovrapporsi dellalegislazione napoleonica e dalla Restaurazione». 12 Il lavorodi Volpi non fece però molti proseliti, se si esclude l’interes-sante studio di P. Frascani del 1981, che sottolineò l’impor-tante ruolo dei comuni in alcuni settori chiave della spesapubblica, come l’istruzione, l’igiene, la rete stradale, 13 sia intermini di competenze sia di livelli di spesa.

L’interesse dell’argomento ha spinto anche alcuni econo-misti a rapide ma comunque stimolanti incursioni, con risul-tati per certi aspetti sorprendenti. Nel 1967 F. Cavazzuti,sulla base del rapporto entrate locali sul totale, proponevaun’immagine dello stato italiano post unitario molto menoaccentrata di quella tradizionale. 14 Nel 1987, altri due eco-nomisti, Brosio e Marchese, presentando alcuni confronti in-ternazionali della spesa comunale in rapporto a quella totale,proponevano per il periodo 1860-1914 l’immagine di unpaese molto meno accentrato sia della Francia sia della Ger-mania: «l’accusa di centralismo [...] va letta più sotto il pro-

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filo politico, in termini di mancata realizzazione delle aspira-zioni al federalismo e di piemontizzazione degli apparatipubblici che non sul terreno economico, in cui importantiresponsabilità di spesa furono attribuite agli enti locali, inanalogia a quanto avveniva negli altri paesi». 15

Nei paragrafi che seguono porteremo l’attenzione sul con-creto operare dell’ordinamento postunitario, sia per quantoriguarda le competenze attribuite a comuni e province, siarelativamente al grado di autonomia nelle modalità di finan-ziamento.

La scelta del primo punto è facilmente intuibile. Comepotrebbe essere considerato decentrato uno stato in cui glienti territoriali, pur eletti in piena autonomia dalle comunitàlocali e in assenza di qualsiasi controllo che non sia quellodegli elettori, non hanno potere di decidere su nulla? Lospettro delle competenze attribuite a comuni e province èquindi una prima misura della potenzialità operativa deglienti decentrati. Le modalità di finanziamento sono inveceimportanti perché indicano l’effettiva autonomia dei comuninelle scelte di politica economica, o in altri termini l’esisten-za di una certa autonomia impositiva.

La domanda a cui cercheremo di rispondere è se la solu-zione scelta poteva reggere nel lungo periodo in uno statocaratterizzato da forti divari regionali. Infatti, fra i difetti diun federalismo puro (cioè privo di qualsiasi tipo di interven-to perequativo) vi è proprio quello di accentuare i divarieconomici fra le varie regioni. Ora, se l’ordinamento italianosicuramente non era federalista è pur vero che esso si basòper anni sul decentramento fiscale puro, secondo il quale icomuni dovevano provvedere con entrate proprie al finan-ziamento delle attività.

2. Diritti e doveri dei comuni:le competenze comunali negli ex stati

Fra le caratteristiche salienti della legge Rattazzi del 1859vi era quella di elencare con precisione le competenze deicomuni. La tendenza a meglio specificare le competenze de-gli enti territoriali si era manifestata nel corso degli anniQuaranta e Cinquanta dell’Ottocento in diversi stati preuni-tari e qualcosa di simile era stato introdotto nel Lombardo-Veneto già nel 1832. In tale anno un decreto aveva introdot-to la distinzione tra le funzioni relative all’amministrazione

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comunale e quelle riguardanti l’esecuzione degli ordini delgoverno. Le spese comunali venivano poi distinte fra ordina-rie e straordinarie. Le prime comprendevano quelle perl’istruzione pubblica (in particolare ci si riferiva alle scuoleelementari minori, istituite per l’istruzione di tutti i fanciullidi qualunque condizione, mentre per le scuole elementarimaggiori i comuni si limitavano a provvedere all’allestimentodei locali), le spese per la sanità pubblica (istituzione di con-dotte mediche e ostetriche, controllo delle epidemie, ecc.),per la manutenzione dei cimiteri, per lo spurgo delle nevi edel fango, ed infine quelle relative a prestazioni e congrue dibeneficenza. Nelle spese straordinarie rientrava invece la co-struzione di nuovi cimiteri, di opere di acqua e di strade.Nel Granducato di Toscana una legge di questo tipo era sta-ta approvata nel 1849. Essa distingueva fra spese obbligato-rie e spese utili. Nelle prime rientravano quelle per la sanità,per i cimiteri, per i dementi miserabili, per il trasporto deimalati poveri, per la pubblica istruzione primaria, per ilmantenimento delle strade, delle fabbriche e degli acquedot-ti comunali, per l’illuminazione notturna e l’elargizione disussidi di latte. Relativamente alle spese utili i comuni gode-vano di una certa autonomia, purché la sovrimposta sullacontribuzione diretta stanziata per coprire tali interventi nonsuperasse il 3% della rendita fondiaria imponibile di tutto ilcomune. Nello Stato pontificio una legge analoga risaliva al1850. In tale stato venivano affidati ai comuni le spese per lescuole municipali (esclusa l’Università), per la manutenzionedi strade interne comunali, ponti, acquedotti, teatri, luoghidi fiera e mercato, per l’illuminazione notturna e per le mi-sure sanitarie atte a combattere le epidemie. Invano si cer-cherebbe una attribuzione altrettanto precisa nelle legislazio-ni degli altri stati italiani. Nel Ducato di Modena una mag-giore specificazione dei compiti comunali venne introdottacon il nuovo regolamento organico del 1856, quando venne-ro esplicitamente poste a carico dei comuni le spese di cul-to, per la pubblica sanità (comprensive della cura gratuitaper i poveri), dell’istruzione elementare, della pubblica be-neficenza, dell’illuminazione notturna e della manutenzionedi strade, argini e fabbriche. Inoltre veniva resa obbligatorial’istituzione di un fondo di riserva per le spese impreviste.Nello stato sabaudo l’indicazione delle competenze comunalivenne proprio con il famoso decreto Rattazzi.

Al momento dell’unificazione del paese, di fatto, una leg-ge che specificasse le attribuzione dei comuni mancava sola-

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mente nel Regno delle Due Sicilie e nel Ducato di Parma. Inquest’ultimo stato comparivano accenni alle diverse speseobbligatorie dei comuni in diversi decreti. In particolare sitrattava delle scuole primarie gratuite (1831), dei cimiteri(1819) e della viabilità. Ancor meno definite risultavano lecompetenze degli enti territoriali nel Regno delle Due Sici-lie, dove invano si cercherebbe una legge che specificasse lespese facoltative o obbligatorie dei comuni. Le competenzecomunali possono in questo caso essere desunte dalle leggisugli impiegati e salariati comunali. In particolare i comunicoprivano, almeno in parte, le spese per l’istruzione elemen-tare, per il funzionamento delle chiese parrocchiali prive direndita, per il mantenimento degli esposti, per la cura gra-tuita dei poveri, per i cimiteri e per la manutenzione delleopere pubbliche comunali. In genere tali spese erano limita-te nel loro ammontare e alcune, come per esempio l’illumi-nazione notturna, erano addirittura vietate nei comuni dipiccola dimensione, salva apposita autorizzazione ministeria-le. Inoltre «le soprimposte provinciali e le contribuzioni par-ticolari di alcune province, e spesso di un certo numero dicomuni, o dei proprietari di alcuni luoghi per inalveazioni,sono riscosse e messe a disposizione del ministro, che le ad-dice a quei lavori, cui sopraintendono commissioni provin-ciali, distrettuali o speciali». 16

Complessivamente si può dire che dalla metà dell’Otto-cento si fece sempre più manifesta l’esigenza di separare lecompetenze comunali da quelle dello stato centrale. In gene-re i diversi stati preunitari ritennero di affidare ai comuni larealizzazione di alcune opere pubbliche (come acquedotti,strade, cimiteri), la gestione della sanità pubblica e dell’istru-zione elementare, anche se con livelli di competenze e di au-tonomia molto diversificati. A questo schema generale, fece-ro eccezione il Ducato di Parma e il Regno delle Due Sicilie,dove mancò l’elaborazione di una normativa organica cheseparasse le competenze comunali da quelle dello stato cen-trale. Pur tuttavia, anche in tali realtà i comuni provvedeva-no, o almeno avrebbero dovuto provvedere, alla istruzioneelementare e alla viabilità.

Dopo questa rassegna sul grado di decentramento degliordinamenti amministrativi preunitari basato esclusivamentesull’analisi delle leggi, ci sembra opportuno chiudere tale ca-pitolo facendo un po’ i conti in tasca ai vari stati preunitari.A livello aggregato, purtroppo, non sono disponibili chescarse informazioni sulle spese effettivamente sostenute dagli

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enti territoriali. 17 In particolare si dispone esclusivamente diun dato relativo alle spese e alle entrate comunali sostenutenel 1858, ripartite non per stati preunitari ma per regioni,(tab. 1). I dati relativi al 1858 ci dicono che le spese comu-nali erano particolarmente elevate nel Lombardo-veneto.Granducato di Toscana e Regno sabaudo (con esclusionedella Sardegna) si collocavano in seconda posizione, sor-prendentemente affiancati dai comuni siciliani. 18 Le spesecomunali pro capite più basse risultavano quelle del Regnodi Napoli, ma nemmeno lo stato pontificio e i ducati emilia-ni mostravano livelli particolarmente elevati.

Per il 1858 è possibile costruire il rapporto fra le entratecomunali e quelle statali risultante nei diversi stati preunita-

TAB. 1. Entrate e spese comunali ripartite per regioni, 1858, lire correnti

Popolazione 1861 1858 entrate 1858 spese 1858 entrate 1858 spese(000) (000 di lire) (000 di lire) pro capite, lire pro capite, lire

Piemonte 2.764 20.759 28.037 7,5 10,1Liguria 772 6.315 7.631 8,2 9,9Sardegna 588 1.946 3.398 3,3 5,8Lombardia 3.262 55.099 56.433 16,9 17,3Veneto 231 38.884 37.974 16,8 16,4Emilia 2.006 14.881 14.876 7,4 7,4Umbria 513 3.130 2.955 6,1 5,8Marche 883 6.057 5.935 6,9 6,7Toscane 1.967 21.649 21.647 11,0 11,0Abruzzi e Molise 1.213 4.105 4.105 3,4 3,4Campania 2.626 11.005 11.004 4,2 4,2Puglie 1.315 4.640 4.640 3,5 3,5Basilicata 493 1.622 1.622 3,3 3,3Calabrie 114 3.099 3.099 2,7 2,7Province napoletane 767 – – 3,2 –Sicilia 239 26.325 26.325 11,0 11,0

Fonte: nostre elaborazioni da Statistica del Regno d’Italia, bilanci comunali anno1866 e bilanci provinciali anni 1866-68, Firenze, 1868.

– Dato non disponibile.

Osservazioni: nel volume Statistica del Regno d’Italia, Amministrazione pubblica,bilanci comunali del 1866 e bilanci provinciali del 1866-68, Firenze, 1868, compareuna tabella che riporta le entrate e le spese comunali relative al 1858 aggregate perregioni. Purtroppo, sulla provenienza e sulla attendibilità di questi dati non si sanulla. Tra l’altro il confronto con i dati relativi al 1860 fa nascere alcune perplessitàsoprattutto per quanto riguarda le spese e le entrate dei comuni siciliani. Infatti,nonostante il decreto Rattazzi non fosse stato esteso alla Sicilia che negli ultimimesi del 1860, il confronto fra le spese comunali del 1858 e quelle del 1860 segnòin questa regione una repentina caduta, da 11 a 5,2 lire pro capite. Analogamentesi verificò per le entrate che passarono da 11 a 4 lire pro capite. I dati utilizzati inVolpe, Le finanze dei comuni, cit., 1962, pp. 5-9, provengono da tale fonte.

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ri. Tale indice è spesso utilizzato nella letteratura economicacome misura del decentramento, qualora le entrate comunalinon siano costituite da trasferimenti statali. Nel nostro casosignifica che dobbiamo escludere dal confronto il Ducato diParma, dove parte rilevante delle entrate comunali derivava-no da stanziamenti del governo centrale. Per gli altri stati ilrapporto fra le entrate comunali e quelle centrali ci dà unaprima misura di come l’intervento pubblico fosse ripartitofra i diversi livelli di governo (tab. 2). Si deve però sottoline-are che tale rapporto non comprende i livelli di governo digrado intermedio (distretti e province), tra l’altro presentisolamente in alcune realtà. Questo significa che mentre l’in-dice relativo al Granducato di Toscana è rappresentativo dellivello complessivo di decentramento (come lo sarebbe per iducati emiliani qualora fosse stato possibile reperire i dati),nel caso degli altri stati preunitari tale indice è sempre sotto-stimato in quanto una parte, non sappiamo quanto rilevante,di entrate risultava decentrata alle province.

In base all’indice costruito nella tabella 2 i due stati piùdecentrati risultavano il Lombardo-Veneto e il Granducatodi Toscana, dove i comuni gestivano un ammontare di risor-se pari rispettivamente ai 2/3 e alla metà di quelle statali.Molto più accentrate risultavano le entrate nelle antiche pro-vince, nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie,

TAB. 2. Entrate comunali e statali pro capite, ripartite per antichi stati, 1858, lire cor-renti

Entrate comunali 1858 Entrate statali 1858 % entrate comunalisu quelle statali 1858

Antiche province 7,0 26,3 27Lombardo-Veneto 16,9 27 63Toscana 11,0 19,1 58Regno Due Sicilie 5,0 17,2 32Stato pontificio* – 24 30

Umbria, Marche 6,6 – –Emilia Romagna 7,4 – –

– Dato non disponibile.* Per lo Stato pontificio la % delle entrate comunali su quelle statali è stata ot-

tenuta confrontando le entrate pro capite dei soli comuni umbri e marchigiani conle entrate pro capite dell’intero Stato pontificio ed è quindi sottovalutata.

Fonte: Per la popolazione cfr. Svimez, Un secolo di statistiche italiane: Nord eSud 1861-1961; per le entrate statali del 1858, Volpe, Le finanze dei comuni, cit.,eccetto che per lo Stato pontificio i cui dati sono tratti da Felisini, Le finanze ponti-ficie e i Rothschild 1830-1870, Napoli, 1990; per le entrate e le spese comunali veditabella 1.

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dove le risorse a disposizione dei comuni non raggiungevanonemmeno un terzo di quelle statali. Tra l’altro occorre sotto-lineare che mentre lo Stato sabaudo e lo stesso Stato pontifi-cio si caratterizzavano per una spesa pubblica centrale piut-tosto elevata, pari a quella del Lombardo-Veneto, nel Regnodelle Due Sicilie alle ridotte entrate comunali facevano ri-scontro entrate statali altrettanto contenute. La differenzafra le 26-27 lire di entrate statali pro capite del Lombardo-Veneto e dello Stato piemontese e le 17 lire del Regno delleDue Sicilie era abissale. Ma se tali dati vengono integraticon quelli relativi alla spesa comunale pro capite, che nel1858 risultava di circa 7 lire nello stato sabaudo, di quasi 17lire nel Lombardo-Veneto e di sole 5,0 lire nel Regno delleDue Sicilie, la diseguale dotazione di infrastrutture nei diver-si stati diventa non solo comprensibile, ma addirittura inevi-tabile.

3. Chi paga per i servizi comunali: dazi o sovrimposte?

In tutti gli stati preunitari le entrate comunali dipendeva-no dalle imposte indirette sul consumo o da sovrimposte va-rie. Solamente nel Ducato di Parma le disponibilità finanzia-rie dei comuni erano in gran parte fornite direttamente dallostato centrale. Secondo il decreto del 1820 era il presidentedell’interno a proporre i mezzi per sovvenire i comuni prividi entrate patrimoniali sufficienti. In altre parole, diversa-mente dagli altri stati italiani, in questo non esisteva alcunaforma di autonomia fiscale. Ciò che differiva erano i proven-ti legati ai due tipi di tributo.

Quasi ovunque le addizionali e le sovrimposte sui tributidiretti erariali costituivano una delle più importanti entratetributarie dei comuni, come si può vedere dalla tabella 3.Purtroppo, dati aggregati sulle entrate comunali di originefiscale sono disponibili solamente a partire dal 1860, anno incui il processo di unificazione del paese era già avanzato (ildecreto Rattazzi era stato applicato da subito in Lombardia,nel dicembre 1859 ai ducati emiliani e nelle Romagne, nel-l’agosto 1860 in Sicilia, nel settembre 1860 nelle Marche enell’Umbria, mentre nel napoletano esso entrerà in vigoresolamente nel gennaio 1861 e in Toscana qualche mese piùtardi). Tuttavia, restavano ancora in vigore i singoli tributiesistenti nei territori degli ex stati. Così i comuni continua-rono ad applicare in diversa misura i centesimi addizionali ai

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325Decentramento o accentramento

contingenti comunali d’imposta fondiaria e personale. L’uni-ca variazione di rilievo riguardò i dazi comunali, in quanto igoverni provvisori trattarono tali tributi in modo diverso. In-fatti, prima dell’unificazione tali tasse indirette esistevano intutti gli stati italiani, ma con una diversa ripartizione delleentrate tra stato e comuni. E fu proprio su tali percentualiche alcuni governi provvisori decisero di intervenire. Cosìnel Granducato di Toscana e nel Regno delle Due Sicilie iproventi del dazio al consumo vennero attribuiti con decretointeramente ai comuni.

In sintesi, mentre per quanto riguarda le sovrimposte e letasse comunali i dati relativi ai proventi del 1860 sono rap-presentativi della situazione esistente nel periodo preunita-rio, non altrettanto si può dire per i dazi al consumo, pro-prio per tale ragione esclusi dalla tabella 3.

Quello che emerge con chiarezza è che ovunque la so-vrimposizione fondiaria aveva un ruolo di primo piano, conla rilevante eccezione delle province napoletane e soprattut-to siciliane. In tale realtà le entrate comunali dipendevano inmodo quasi esclusivo dall’imposizione indiretta sui consumi.Si tratta di una particolarità estremamente significativa, dicui comprenderemo in pieno la portata nei capitoli successi-vi. In diverse regioni alla sovrimposta fondiaria si affiancavaquella sui fabbricati, la quale risultava particolarmente eleva-ta nelle province romagnole.

Molto più limitato era il ricorso alle sovrimposte sul red-dito mobiliare, che pure esistevano in gran parte degli stati enelle forme più disparate. Nello Stato sabaudo i comuni po-tevano introdurre sovrimposte sulla tassa di patente e sul-l’imposta mobiliare, in Lombardia sull’imposta sulla rendita,nel Granducato sull’imposta di famiglia, nel Ducato di Mo-dena sull’imposta per i capitali ipotecari e sull’imposta per-sonale, ecc. Come si può dedurre dalle poche note prece-denti, mentre la sovrimposizione fondiaria era assai simile intutti gli stati, poiché ovunque si basava sul catasto, quellamobiliare assumeva contorni assai vari.

In diversi stati, oltre ai vari tipi di sovrimposte, erano pre-senti imposte comunali, a volte anche molto importanti intermini di gettito, che insistevano o sul reddito prodotto osul reddito consumato. Per esempio l’imposizione comunalenello Stato pontificio aveva nella tassa sul bestiame e nel fo-catico due entrate fondamentali. Nelle antiche province eraprevista una imposta di patente, mentre in Lombardia uncontributo di arti e commercio, nei ducati un’imposta sul-

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327Decentramento o accentramento

l’industria e il commercio. Ancora una volta faceva eccezio-ne il Regno delle Due Sicilie, in cui non risultavano né so-vrimposte mobiliari, 19 né imposte sul reddito prodotto oconsumato.

In generale, nello Stato pontificio esisteva una maggiorediversificazione della imposizione comunale, che come ab-biamo visto recuperava gettiti importanti anche da tributidiversi dalle sovrimposte fondiarie. Tale risultato era in partel’effetto della graduatoria delle imposte a cui i comuni pote-vano ricorrere, graduatoria che, introdotta nel 1850, mettevaagli ultimi posti proprio le sovrimposte fondiarie. Tuttavia,l’effetto del decreto si era manifestato esclusivamente nelleprovince umbre e marchigiane, poiché in quelle romagnolela sovrimposta fondiaria pro capite risultava tra le più altedell’intera penisola. Vincoli analoghi, ma espressione di unapolitica fiscale opposta, esistevano anche nel Regno sabaudo.Qui le sovrimposte fondiarie avevano la precedenza su tuttigli altri tributi, i quali potevano essere introdotti solo qualo-ra l’ammontare di tali sovrimposte avesse superato la mediadel decennio precedente.

Altri limiti all’autonomia impositiva dei comuni si manife-stavano attraverso l’introduzione di massimali. Nel Lombar-do-Veneto, le sovrimposte fondiarie non dovevano superarei 4 centesimi per lira di estimo, nel Granducato di Toscanail limite era fissato al 3% della rendita imponibile.

Complessivamente, per quanto riguarda l’imposizione co-munale «diretta» (con questo termine indichiamo tutti i tipidi tributi che non riguardano il consumo) la tabella 3 mettein luce che la sovrimposizione fondiaria rivestiva un ruolocruciale per i bilanci comunali in tutti gli ex stati, fatta ecce-zione per il Regno delle Due Sicilie. L’altra considerazione èche solo nello Stato pontificio esisteva una certa diversifica-zione fra i tributi. Infatti, la sovrimposta fondiaria si colloca-va fra il 30% e il 50%, mentre un altro 30-50% era rappre-sentato dal focatico e dalle tasse sul bestiame. In termini diincidenza pro capite di tale tipo di tassazione emerge che learee del paese in cui i comuni raccoglievano più entrate tri-butarie erano le province romagnole e il Ducato di Parma(in genere quindi l’area che poi diventerà l’Emilia-Roma-gna), seguite dalla Lombardia e dallo Stato sabaudo. Taletipo di imposizione risultava praticamente inesistente a livel-lo comunale nel Regno delle Due Sicilie, ed era molto bassaanche in Umbria e in Sardegna.

A conclusione di tale paragrafo dedicato ai tributi comu-

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328 Patrizia Battilani

nali occorre prendere in considerazione l’imposizione indi-retta, che all’epoca si basava quasi esclusivamente sui daziinterni e su alcune imposte di fabbricazione. Abbiamo giàdetto che i dazi si ripartivano fra governo e comuni in per-centuali ineguali nei diversi stati preunitari e che tale diffe-renziazione venne accentuata dalle decisioni di alcuni gover-ni provvisori che attribuirono completamente ai comuni iproventi di tale tassa. In particolare prima dell’unificazionevigevano i seguenti regimi. Nel Regno di Sardegna dal 1853i comuni riscuotevano le gabelle e poi versavano un contin-gente allo stato; nel Lombardo-Veneto, nel Ducato modene-se e nelle province romagnole il dazio era una tassa erarialesulla quale i comuni potevano aggiungere addizionali; nelDucato di Parma i comuni imponevano i dazi e poi versava-no un canone all’erario sulla base del gettito delle annateprecedenti; nello Stato pontificio (escludendo la Romagna) idazi appartenevano ai comuni, ma il governo fissava le mercitassabili; in Toscana seppur riscosso dai comuni il dazio erauna tassa erariale sulla quale i comuni aggiungevano addizio-nali; infine nel Regno delle Due Sicilie i dazi erano in granparte a vantaggio dei comuni, mentre lo stato applicava unatassa sul macinato in Sicilia e una sulle nevi nel Napoletano.I governi provvisori trattarono diversamente questi tributi,per esempio abolirono la tassa erariale sul macinato in Sici-lia e cedettero tutti i dazi ai comuni nel Napoletano e in To-scana. 20

La tabella 5 ci fornisce per il 1861 la ripartizione delle en-trate daziarie fra stato e comuni che risultava nelle diverseregioni italiane sia per effetto della originaria ripartizione frastato e comuni sia come conseguenza delle decisioni presedai governi provvisori. In particolare in Toscana, nell’ex Re-gno delle Due Sicilie e in Umbria l’unico dazio applicato eraquello comunale. Anche nelle province parmensi e nelleMarche la quota che andava ai comuni era molto alta. Difatto solo in Lombardia, nelle province modenesi e in quelleromagnole la quasi totalità delle entrate daziarie andava allostato centrale, mentre nel Regno sabaudo i proventi veniva-no equamente divisi a metà. Tuttavia se si escludono i casiparticolari del Regno delle Due Sicilie e della Toscana la ri-partizione fra dazi e altre imposte risultante per il 1860 do-vrebbe essere del tutto corrispondente a quella esistente pri-ma delle annessioni.

Negli stati preunitari, relativamente alla fonte delle entratecomunali, emergono tradizioni profondamente diverse. Le

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329Decentramento o accentramento

sovrimposte rappresentavano oltre i 2/3 delle entrate tribu-tarie comunali nelle province lombarde e nei ducati emiliani,mentre si collocavano attorno alla metà nello Stato sabaudoe nelle province romagnole. Per quanto riguarda la Toscanail fatto che nel 1860 21 le sovrimposte coprissero ancora oltreil 60% delle entrate, indica come i comuni di tale stato ba-sassero le loro finanze prevalentemente su di esse. Di qual-che rilievo è il risultato per lo Stato pontificio, le cui regionisi comportavano in modo differenziato: in Romagna le so-vrimposte avevano un ruolo primario mentre in Umbria enelle Marche i proventi più importanti erano quelli daziari.Che dire, infine, del Regno delle Due Sicilie, se non che laproporzione fra dazi e altri tipi di imposte comunali era as-solutamente insolita? Pur concedendo che i dati a nostra di-sposizione siano parzialmente alterati dai decreti emessi daigoverni provvisori, occorre comunque sottolineare che lamancanza quasi assoluta di imposte o sovrimposte comunalifondiarie o personali rendeva i proventi daziari la fonteesclusiva di finanziamento delle spese comunali.

4. L’ordinamento amministrativo del nuovo stato unitariotra decentramento delle entrate e uniformità

La situazione degli ordinamenti locali in vigore negli statipreunitari, pur presentando elementi di novità rispetto al-

TAB. 5. Dazi sul consumo interno, valori espressi in lire correnti

Proventi erariali Proventi erariali Proventi comunali % dei proventipro capite periodo pro capite 1861 pro capite 1861 comunali su quelli

preunitario statali 1861

Antiche province 1,30 1,44 1,97 58Lombardia (no Mantovano) 2,97 2,58 0,61 19Province parmensi 0,85 0,36 2,45 87Province modenesi 0,83 0,88 0,20 18Province romagnole 2,86 2,29 0,87 28Marche 2,58 0,51 1,69 77Umbria 3,05 0,00 0,81 100Toscana 2,46 0,00 2,88 100Città di Napoli 1,05 0,05 1,12 96Sicilia 6,75 0,00 2,23 100

Fonte: nostre elaborazioni da Parravicini, «La politica fiscale», cit.

Osservazioni. I dati del periodo preunitario relativi a Marche, Umbria e Siciliasono comprensivi della tassa sul macinato.

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330 Patrizia Battilani

l’accentramento imposto durante la Restaurazione, non si ca-ratterizzava certo per un diffuso decentramento. Tra l’altromolti elementi che riducevano l’autonomia degli enti territo-riali erano comuni ai diversi stati preunitari, come l’ingeren-za del governo centrale nella nomina del sindaco.

Questo era il contesto in cui maturò l’unificazione dell’or-dinamento comunale e provinciale. Prima tappa di tale pro-cesso è il decreto Rattazzi del 1859, pensato e modellato sul-la base dei due ordinamenti da uniformare, quello piemon-tese e quello lombardo. Le esigenze a cui tale legge vuoledare risposta sono essenzialmente due, come lo stesso Rat-tazzi mette in luce in occasione della presentazione del suodecreto: unità politica e decentramento amministrativo.Questo ultimo aspetto segue due direttrici, da un lato mi-gliorare la legislazione vigente nel Regno sabaudo, intenzio-ne che il Rattazzi perseguiva almeno dal 1857, 22 dall’altroproporre una mediazione accettabile sia ai lombardi sia aipiemontesi. In tale ottica va letto l’accrescimento del ruolodelle province, a cui vengono tra l’altro affidati compiti im-portanti nel settore della beneficenza (tradizionalmente inLombardia di competenza comunale e nello Stato sabaudoattribuita al governo centrale). In genere si può dire chementre per quanto riguarda le procedure elettorali si man-tiene il modello piemontese (allargando però la base eletto-rale), per quanto riguarda competenze e fonti di finanzia-mento il decreto segue in parte il modello lombardo. Infatti,esso definisce con chiarezza le competenze di comuni e pro-vince, come era in Lombardia già dagli anni Trenta, ed inol-tre individua due fonti di finanziamento, i dazi sul modellolombardo e le sovrimposte fondiarie, sul modello piemonte-se. Per quanto riguarda la sorveglianza, elimina quella delgoverno centrale per affidarla in parte ai prefetti e in partealla deputazione provinciale. L’attenzione prestata dal Rat-tazzi alla realtà lombarda trova conferma anche nell’attenzio-ne alle conclusioni della Commissione Giulini. La Petracchiafferma che non solo il senso, ma spesso anche le parolecontenute negli schemi di decreto proposti da tale commis-sione vengono trasposti nel decreto Rattazzi. 23 Che si trattidi mediazioni e non semplicemente di piemontizzazione è inparte confermato dalla tabella 6, dove è calcolato una sortadi indice di decentramento delle entrate nel 1863 e nel1868. In particolare, si è fatto il rapporto fra le entrate me-die dello stato italiano e le entrate medie comunali nelle va-rie regioni della penisola (colonna A della tabella). Confron-

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331Decentramento o accentramento

tando tali risultati con quelli della tabella 2, relativa al 1858,si vede che la Lombardia vede diminuire il livello di decen-tramento, mentre il Piemonte lo aumenta. In generale, quin-di, la legislazione postunitaria sembra delinearsi come unamediazione fra livelli diversi di decentramento. 24

In conclusione si può dire che sia il decreto Rattazzi sia lalegge provinciale e comunale del 1865 non riuscirono a ri-durre in modo significativo le differenze esistenti fra gli exstati: per quanto riguarda le scelte fiscali, vennero uniforma-te le procedure di elezione e le competenze delle ammini-strazioni locali, ma non si cambiò il ruolo economico cheesse erano disposte a svolgere.

TAB. 6. Effetti del decreto Rattazzi e della legge del 1865

Regioni o stati preunitari 1863 1868 1863 1868A A B B

Piemonte 42 35 43 35Liguria 46 56 30 23Sardegna 28 32 52 48Regno sabaudo 41 38 41 33Lombardia 49 37 42 48Veneto – 34 – 72Lombardo-Veneto – 36 – 57Emilia 45 33 64 58

Umbria 34 32 17 39Marche 38 32 32 41Stato pontificio 37 32 27 40Toscana 36 47 40 41

Abruzzi e Molise 14 16 10 14Campania 21 35 4 13Puglie 18 26 14 20Basilicata 14 16 19 16Calabrie 11 15 15 29Regno di Napoli 17 25 9 16Sicilia 27 31 7 15

Media nazionale 33 33 35 37

Legenda:A = percentuale delle entrate comunali rispetto alle entrate statali dello stesso

anno.B = percentuale dei proventi delle sovrimposte sulle entrate ordinarie comunali

dello stesso anno.– Dato non disponibile.

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332 Patrizia Battilani

5. La capacità di finanziamento dei comuni italianiin base all’appartenenza ai diversi ex stati 25

Da quanto detto finora si deduce che il tipo di ordinamen-to locale adottato dal nuovo stato unitario, che si andò deli-neando con precisione solo dopo il 1864, quando vennerouniformate le entrate fiscali comunali e provinciali, portò deicambiamenti soprattutto per il Regno delle Due Sicilie, doveper la prima volta la carica di consigliere comunale divenneelettiva e ai comuni vennero attribuite funzioni ben precise.Per esempio nel campo dell’istruzione non si trattava più dipagare qualche maestra, bensì di organizzare la presenza dellescuole elementari pubbliche sul territorio. Altrettanto impor-tante fu il cambiamento nella politica fiscale. Infatti, la leggeprovinciale e comunale del 1865 dispose che i disavanzi co-munali venissero coperti con la sovrimposizione alle imposteerariali fondiarie e mobiliari. Per il Regno delle Due Sicilie sitrattava di far gravare per la prima volta sull’imposizione di-retta parte delle spese comunali e provinciali. 26

In altre parole l’estensione del decreto Rattazzi e poi lalegge comunale e provinciale del 1865, nonché la legge 3 lu-glio 1864, n. 1827 che regolamentava il dazio al consumo,rappresentarono una innovazione istituzionale, in quantomodificarono in molte aree del paese il rapporto fra governilocali e stato centrale (vale la pena tenere presente che il de-creto Rattazzi rappresentò l’occasione per introdurre moltenovità anche in Piemonte). Ma non è questo l’aspetto chepiù ci preme evidenziare. Vorremmo, invece, sottolineare ilfatto che tale modello di autonomia locale non era in gradodi reggere senza un crescente intervento del governo centra-le, qualora fosse stato applicato in uno stato caratterizzatoda elevati divari regionali, come era quello italiano. Il moti-vo di tale inadeguatezza non risiedeva nel mancato rispettodelle tradizioni locali o in una mancanza di autonomia, maesattamente nelle ragioni opposte. A comuni e province ven-nero affidati importanti compiti nei settori dei lavori pubbli-ci, della sanità e dell’educazione, nonché i proventi dei dazicomunali e delle sovrimposte fondiarie (e sino al 1870 anchele sovrimposte di ricchezza mobile) per potere finanziare lespese. Quello di cui non si tenne conto fu la diseguale di-stribuzione territoriale del reddito. Era chiaro che tale de-centramento delle entrate avrebbe permesso elevate spesenelle aree più ricche e investimenti molto più contenuti nelleregioni povere.

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333Decentramento o accentramento

Le figure 1 e 2 danno un quadro ben preciso della situa-zione che si creò e di quanto fosse elevata la differenza frale varie regioni nella capacità di spesa locale. In particolarele due figure citate evidenziano sia che nelle province e neicomuni del Regno delle Due Sicilie il gettito fiscale era infe-riore rispetto a quello delle altre aree del paese, sia che taledifferenza si mantenne nel corso degli anni. Poiché le entra-te tributarie provinciali rappresentavano appena il 12% nel1863 e il 28% nel 1884 delle entrate tributarie comunali, èevidente che la differenza di gettito fra le diverse aree geo-grafiche doveva originarsi a livello comunale.

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Lombardia

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Statopontificio

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FIG. 1. Proventi pro capite di tasse e sovrimposte comunali e provinciali nel 1863,distribuiti per province (lire correnti).

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Lombardia

Regno delleDue Sicilie

Ducato diParma

Ducatodi Modena

Stato pontificio Regnosabaudo

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FIG. 2. Proventi delle tasse e delle sovrimposte comunali e provinciali nel 1899, di-stribuiti per province (lire correnti).

Fonte: i dati relativi a tasse e sovrimposte comunali e provinciali sono tratti daMinistero dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, Statistica del Regno d’Ita-lia, Bilanci comunali e provinciali, anno 1863, Firenze, 1865, e Bilanci comunali1884, Roma, 1886. Per ottenere i valori pro capite si è utilizzata la popolazione ri-sultante al censimento del 1861 e la popolazione stimata per il 1884 e pubblicatasull’Annuario statistico italiano, anno 1886.

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334 Patrizia Battilani

TAB. 8. Entrate comunali pro capite dei comuni italiani raggruppati in base alla regio-ne di appartenenza, valori costanti 1890

Regione 1863 1884 1899 Var. % 1863-1899

Piemonte e Liguria 11,9 13,2 16,0 42Lombardia 14,5 12,1 14,2 5Veneto – 11,7 12,8 –Emilia 12,6 13,0 14,1 9Marche 10,7 11,9 14,5 35Toscana e Umbria 9,8 13,7 15,7 51Roma – 25,9 34,1 –Abruzzi e Molise 3,8 6,8 8,7 124Campania 5,8 13,0 15,4 138(senza Napoli) 4,2 7,9 9,4 117Puglia e Basilicata 4,7 9,8 11,2 136Calabria 3,1 7,1 8,4 171Isole 7,5 11,1 10,9 32

– Dato non disponibile.

Fonte: vedi tabella 7.

TAB. 7. Entrate comunali pro capite dei comuni italiani raggruppati in base allo statopreunitario di appartenenza, valori costanti 1890

Stati preunitari 1863 1865 1868 1884 1891 1895 1899 Var.%1863-99

Pr. Napoletane 4,6 9,6 8,4 10,3 10 10 12,7 176Pr. Siciliane 7,4 10,3 9,8 11,2 10,1 10,4 11,4 54Regno Due Sicilie 5,5 9,8 8,8 10,6 10,1 10,2 12,3 124Lombardia 14,5 23,9 13,0 12,2 12,3 11,2 14,4 0Duc. Modena 7,7 11,4 8,0 9,2 10,1 9,9 11,2 45Duc. Parma 9,3 13,0 10,1 11,1 11,7 12,3 13,2 42Stato pontificio – – – 15,2 17,4 17,5 18,5 –(senza Roma) 11,0 13,7 10,2 12,2 12,8 12,5 13,8 25Stato sabaudo 11,3 14,8 12,5 12,8 13,2 13,3 15,3 35Toscana 10,3 14,3 14,5 14,7 14,9 14,0 16,7 62Veneto – – 8,6 11,6 10,5 11,4 12,8 *49

Media nazionale 9,2 13,8 10,6 12,2 12,2 12,3 14,1 53

* Per il Veneto la variazione è relativa al periodo 1868-1899.– Dato non disponibile.

Fonte: per la popolazione, Annuario statistico italiano, anni vari (in particolaresono stati utilizzati i dati relativi ai seguenti anni: 1861, 1871, 1884, 1892, 1896,1898); per le entrate comunali, Maic, Bilanci comunali, anni 1863, 1868, 1884,1891,1895, 1899 e Annuario del Ministero delle finanze, 1867 (per i dati del 1865).

Dalle tabelle 7 e 8 dedicate alle entrate comunali pro ca-pite si vede chiaramente come nel 1863, anno in cui i comu-ni continuarono a imporre i tributi preunitari, le entrate procapite del Regno delle Due Sicilie risultavano pari alla metàdi quelle dello Stato pontificio, del Regno sabaudo e della

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335Decentramento o accentramento

Toscana, e di poco superiori ad un terzo di quelle dellaLombardia. La grande disparità iniziale venne parzialmenteriducendosi, tanto che nel 1899 a fronte di una media nazio-nale del 14,1 il Regno delle Due Sicilie vantava entrate co-munali pro capite pari a 12,3 lire. Per portarsi a livelli piùvicini alla media nazionale i territori un tempo appartenential Regno delle Due Sicilie aumentarono, nel corso di qua-rant’anni, del 124%. Nonostante il grande sforzo effettuato,pur raggiungendo il Veneto e l’ex Ducato di Modena, i co-muni dell’ex Regno delle Due Sicilie non poterono portarsiai livelli di Lombardia, Toscana, Piemonte e Stato pontificioin termini di capacità di prelievo fiscale. Tra l’altro, se i co-muni siciliani potevano vantare entrate certo più comparabi-li con quelle dei comuni settentrionali e centrali, le provincenapoletane si fermavano a livelli molto bassi. Regioni comeAbruzzo e Molise e Calabria, e la stessa Campania (se siesclude la città di Napoli), vantavano un vero e proprio re-cord negativo in termini di entrate pro capite, che conserve-ranno per tutti gli anni a venire. La tabella 8 dedicata allecomparazioni regionali permette di individuare con maggio-re precisione le aree in cui la maggior capacità di prelievo fi-scale rendeva possibile ai comuni un’attività più intensa: sitratta, in genere, di quelli del Nord-Ovest e del Centro.

In breve la situazione creatasi con l’unificazione può esse-re così riassunta. L’uniformazione delle competenze comu-nali produsse nel corso dei quarant’anni successivi all’unifi-cazione una certa convergenza fra le diverse aree geografi-che del paese, tanto che alcune regioni che partivano con li-velli di spesa molto bassi registrarono tassi di crescita eleva-ti (soprattutto le province napoletane), mentre altre, comela Lombardia e l’Emilia, che si caratterizzavano per un’ele-vata spesa comunale, si segnalarono per una crescita mode-stissima. Si trattò però di una convergenza assai lenta, chein trentasei anni non permise alle aree arretrate di portarsiai livelli di spesa delle aree più ricche o con una ammini-strazione locale tradizionalmente interventista. Tra l’altro, sesi considera la minore dotazione iniziale di beni pubblicidelle regioni meridionali e la conseguente necessità di soste-nere livelli di spesa superiore per recuperare il divario conle aree ricche, si capisce bene quale fosse il limite di un si-stema amministrativo basato sul decentramento puro delleentrate fiscali.

In complesso due sono gli elementi da ricordare. Da unlato l’esistenza di una ben diversa tradizione di protagoni-

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336 Patrizia Battilani

smo dei comuni nelle aree appartenenti ai vari stati preuni-tari, dall’altro il persistere di tale disomogeneità nel corsodei quaranta anni successivi. Non si tratta naturalmente dirisultati a sorpresa. Tanto più che il decentramento fiscaleha proprio nella disomogeneità sia la propria ragione di es-sere che il proprio obiettivo. Al contrario non è altrettantochiaro se tale obiettivo fosse stato consapevolmente perse-guito dalle forze politiche dell’epoca.

Tanto più che la disomogeneità nelle entrate viene causatada due tendenze fra loro non collegate. La ragione principa-le del decentramento è quella di permettere alle comunitàlocali di scegliere il paniere di tasse e beni pubblici piùadatto alla struttura delle loro preferenze. Questa motivazio-ne è quella che sta alla base della disomogeneità «buona»,che nasce da una diversa propensione all’intervento pubbli-co. Ma il differenziale delle entrate pro capite che si registrafra le regioni italiane nei primi cinquant’anni unitari nasceanche dalla loro diversa capacità impositiva e in ultima ana-lisi dal diverso livello di reddito. È questa una disomogenei-tà che si potrebbe definire «cattiva», poiché descrive una si-tuazione in cui al minore protagonismo pubblico non fa ri-scontro un maggiore livello di attività economiche private,quanto una spesa complessiva più bassa.

Ma anche all’interno del Regno delle Due Sicilie la diffe-renziazione fra le diverse regioni era marcata: il finanziamen-to della spesa pubblica locale risultava molto basso soprat-tutto in Abruzzo e Molise, in Calabria e in Campania, conl’eccezione della provincia di Napoli, nonostante l’elevatoincremento delle entrate, fatto registrato in queste aree tra il1863 e il 1899. Si pensi che la Calabria pur aumentando del171% l’ammontare dei tributi tra il 1863 e il 1899 restò laregione con le minori entrate, comunali pro capite. Il tassodi incremento dei proventi fiscali registrato dal Regno delleDue Sicilie con il nuovo ordinamento delle amministrazionilocali fanno comprendere perché, a fronte di un prelievo tri-butario inferiore al resto del paese, si levassero così fortiproteste per l’eccessiva tassazione.

6. La politica tributaria dei governi locali

La prima differenza che emerge dall’analisi delle entratetributarie comunali è la diversa incidenza delle sovrimpostesul complesso delle entrate ordinarie. Ancora una volta è

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337Decentramento o accentramento

l’ex Regno delle Due Sicilie a evidenziare un comportamen-to originale. Infatti, mentre per i comuni appartenenti aglialtri ex stati, pur essendoci differenze, le sovrimposte rap-presentavano quote attorno al 40% delle entrate ordinarie,per il Regno delle Due Sicilie tale voce si collocò attorno al25% (tab. 9). L’origine di tale divario è da individuarsi nelletradizioni fiscali degli ex stati. Come abbiamo già ricordato,nel Regno delle Due Sicilie le spese locali erano finanziatesolamente mediante l’imposizione indiretta. Con l’unificazio-ne dei tributi nel 1864-65, anche ai comuni siciliani venneconcesso di applicare sovrimposte all’imposizione direttaerariale. Tale possibilità teorica si trasformò rapidamente inuna entrata effettiva, tanto che tale voce passò dall’8% delleentrate nel 1863 al 21% nel 1865. Al contrario, negli annisuccessivi la quota delle sovrimposte crebbe molto lenta-mente, per portarsi nel 1899 al 24% delle entrate. A onordel vero si deve ricordare che nel corso dei quarant’annisuccessivi all’unificazione la sovrimposizione fondiaria andòprogressivamente perdendo di importanza in tutte le areegeografiche. Per esempio nello Stato sabaudo passò dal 41%del 1865 al 27% del 1899, nel Ducato di Modena dal 56%al 40%, e così via. Eppure il divario iniziale fra il Regnodelle Due Sicilie e il resto del paese era così marcato al mo-mento dell’unificazione che nonostante il trend crescente delprimo e la tendenza alla diminuzione negli altri, la quotadelle sovrimposte sulle entrate comunali risultava nel 1899assai più bassa nel Regno delle Due Sicilie che altrove.

Al contrario, i dazi comunali pro capite risultavano del

TAB. 9. Percentuale delle sovrimposte sulle entrate ordinarie dei comuni

Stati preunitari 1863 1865 1868 1884 1891 1895 1899

Regno Due Sicilie 8 21 16 24 22 26 24(senza Napoli) 10 – 17 25 22 28 25Lombardia 42 36 48 48 44 51 41Duc. Modena 56 59 60 46 40 42 40Duc. Parma 59 70 56 55 51 50 49Stato pontif. – – – – 29 31 30(senza Roma) 46 60 45 41 36 39 36Stato sabaudo 41 43 33 33 28 31 27(senza Torino) 46 – 40 35 29 34 29Toscana 40 37 36 41 38 42 39(senza Firenze) 34 – 43 43 40 44 41Veneto – – 74 55 50 51 46

– Dato non disponibile.

Fonte: vedi tabella 7.

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339Decentramento o accentramento

tutto in linea con le altre aree del paese (tabb. 5 e 10 e figg.5A e 5B). Naturalmente tale tassa consentiva introiti elevatisoprattutto nelle grandi città. Nel Regno delle Due Sicilieessa era molto elevata, soprattutto nella provincia di Napoli(ma sarebbe più corretto dire il comune), così come in To-scana colpiva in modo particolare la provincia di Firenze enello Stato pontificio quella di Roma.

La prima spiegazione che viene alla mente per il diversogettito prodotto nel Sud del paese dai dazi e dalle sovrimpo-ste fondiarie è naturalmente legata alle caratteristiche tecni-che dei due tributi. Essendo le imposte fondiarie proporzio-nali al reddito presunto su base catastale, esse erano inevita-bilmente destinate a realizzare un gettito minore nelle zonepiù povere, mentre il dazio al consumo, colpendo l’acquistodi certe merci (in genere i consumi alimentari di base), risul-tava spesso regressivo rispetto al reddito. Sicuramente que-sta può essere una prima spiegazione. Anche se molto ci sa-rebbe da dire e molto è stato detto sulla attendibilità dei ca-tasti, ma questo è un aspetto troppo complesso per esseretrattato ai margini della nostra ricerca. Tanto più che il no-stro obiettivo non è tanto di valutare l’effettivo carico fiscaledelle diverse aree geografiche del paese, quanto di capire seil sistema di imposizione locale consentisse ai comuni diauotofinanziarsi e se essi sfruttassero pienamente i marginidi libertà loro concessi dal decentramento delle entrate.

A tal fine proponiamo un’analisi più dettagliata delle so-vrimposte fondiarie e una rapida premessa. La sovrimposi-zione comunale venne esplicitamente introdotta nel 1865, 27

permettendo a comuni e province di sovrimporre sui tributidiretti (sia fondiari che di ricchezza mobile) per insufficienzadi rendita e senza porre alcuna limitazione. Ma già l’annosuccessivo venne emesso un decreto legislativo 28 che limita-va la libertà di scelta dei comuni prevedendo che la sommadelle sovrimposte fondiarie provinciali e comunali non supe-rasse l’ammontare di quelle erariali, mentre per le sovrimpo-ste alla ricchezza mobile il limite venne fissato al 50% del-l’imposta principale. I comuni avrebbero potuto eccedere ilimiti della sovrimposta fondiaria solo nel caso in cui avesse-ro introdotto la tassa sul valore locativo, previa autorizzazio-ne della giunta provinciale amministrativa. Nel 1868 29 lamateria venne ulteriormente regolamentata riducendo a 40centesimi il limite per le sovrimposte alla ricchezza mobile, eprescrivendo che il superamento dei limiti alla sovrimpostafondiaria venisse autorizzato per i soli comuni che avessero

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340 Patrizia Battilani

sperimentato o la tassa sul valore locativo o quella sul be-stiame o quella di famiglia. Contemporaneamente i comunivennero però autorizzati a costituire un fondo speciale perla costruzione o la sistemazione di strade, da finanziarsi con5 centesimi aggiuntivi di sovrimposta, eccedenti il limite pre-visto. Ma la materia era destinata a non conoscere tregua.Infatti, nel 1870 30 venne tolta ai comuni la possibilità di so-vrimporre sulla ricchezza mobile e contemporaneamente sistabilì che le giunte provinciali amministrative concedesseroai comuni l’autorizzazione al superamento del limite legalealla sovrimposta sui terreni e fabbricati solo se gli stessiavessero già introdotto tutte le seguenti tasse: dazio al con-sumo, tasse di esercizio, di licenza, sulle vetture e sui dome-stici e una delle tre tasse già richieste dalle leggi precedenti.

Nel 1874 31 si aggiunse un ulteriore vincolo, questo per laprima volta veramente lesivo dell’autonomia comunale. In-fatti, si stabilì che nel caso di superamento del limite alle so-vrimposte, i comuni mantenessero solo le spese obbligatorienecessarie e non introducessero nuove spese facoltative, aparte quelle già previste da impegni precedenti. Per la primavolta lo stato centrale interveniva nella destinazione dei fon-di comunali. Tutto questo non venne ritenuto sufficiente enel 1886 32 una nuova legge speciale cercò di prendere attodella situazione reale e porre un limite per il futuro. Fermerestando le disposizioni precedenti, si prese atto del conti-nuo superamento dei limiti alla sovrimposta e si decise difissare il nuovo limite pari alla media della sovrimposta ri-scossa 33 nel triennio 1884-1886 (il nuovo limite poteva esse-re superato solo con legge speciale). Era evidentemente unprovvedimento estremo, che cercava di rendere operativo ilrispetto dei limiti rendendo difficile e tortuosa la proceduradi autorizzazione. Come interpretare tale normativa? A no-stro parere essa non rappresentava tanto una riduzione dellalibertà dei comuni, in quanto il vincolo sui centesimi addi-zionali già esisteva da anni, quanto un tentativo di renderecredibile l’esistenza di tale vincolo in una situazione in cui icomuni lo disattendevano allegramente.

Nel 1894 le norme del 1886 vennero abolite 34 mentre re-stavano in rigore quelle del 1870. Onde evitare la competi-zione fra le province e i comuni, venne stabilito che i cente-simi addizionali fossero equamente ripartiti fra i due entiterritoriali. Il superamento di tale vincolo richiedeva l’auto-rizzazione della giunta provinciale amministrativa per i co-muni e l’emanazione di un decreto reale per le province. Ma

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341Decentramento o accentramento

la vera novità di tale provvedimento legislativo era rappre-sentata dal ricorso dei contribuenti. Al fine di costringere icomuni al rispetto dei limiti previsti dalla legge si concedevaai contribuenti di ricorrere alla giunta provinciale ammini-strativa contro le eccedenze dei comuni, e al Re contro quel-le delle province. Anche i comuni potevano ricorrere controil superamento dei limiti da parte delle province.

Complessivamente la normativa sulle sovrimposte seguìdue direzioni: da un lato distribuire il carico fiscale su tipidiversi di tributo in modo che esso gravasse su tutti i cittadi-ni e dall’altro proteggere, senza troppo successo, i proprieta-ri terrieri dal ricorso spregiudicato (?) alla sovrimposizionefondiaria da parte dei governi locali.

La tabella 11 evidenzia una notevole differenza fra i co-muni meridionali e quelli del Centro-Nord. La percentualedi quelli che eccedevano i centesimi addizionali erano so-prattutto localizzati nel Centro Italia e nel Nord-Est (Tosca-na, Veneto, Lombardia, parte dell’Emilia). Tra l’altro, a di-spetto delle continue modifiche normative, nei 15 anni chevanno dal 1884 al 1899 tali percentuali fanno registrare unaumento in tutto il paese, fatta eccezione per i territori ap-partenenti in passato al Regno delle Due Sicilie. Infatti, nel1899 praticamente tutti i comuni del Veneto e della Toscanaeccedevano i limiti legali, contro una percentuale del 47%dei comuni meridionali. Se poi prendiamo in considerazionei comuni che eccedevano di oltre il doppio il limite legaledella sovrimposizione, la presenza di comuni meridionali siassottiglia ulteriormente.

Come interpretare questo dato? Da un lato si sarebbeportati a esprimere un giudizio positivo sui comuni più ri-spettosi dei vincoli legali, fra i quali quello relativo alle so-vrimposte. D’altra parte non si può dimenticare il continuocoro di lamentele dei comuni italiani chiamati a svolgere unruolo ritenuto superiore alle loro forze finanziarie. Numero-se sono le testimonianze sulle difficoltà delle giunte comuna-li a chiudere i bilanci in pareggio. In tale contesto il supera-mento del limite legale di sovrimposizione, che per legge siaccompagnava alla applicazione obbligatoria di numerosi al-tri tributi comunali, assumeva il significato di una vera epropria scelta politica, quella di utilizzare tutti i margini dilibertà concessi dal decentramento fiscale, anzi di superarli,allo scopo di soddisfare una maggiore domanda di benipubblici. Che di scelta politica si tratti è in parte suggeritodal fatto che i comuni eccedenti i limiti legali erano più nu-

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344 Patrizia Battilani

merosi proprio là dove maggiori risultavano le entrate comu-nali pro capite. Per questo motivo il superamento di tali li-miti testimoniava a nostro parere non tanto una minore effi-cienza nella compilazione dei bilanci comunali, quanto lavolontà di un maggiore protagonismo dei governi territoriali.A tale proposito è illuminante il confronto fra il Regno delleDue Sicilie e il Veneto. In queste due aree geografiche il get-tito pro capite delle imposte fondiarie erariali era pressochéidentico sia nel 1884 che nel 1899. Molto simili risultavanoanche gli introiti pro capite delle sovrimposte provinciali. Inun contesto di apparente somiglianza per quanto riguarda leentrate fiscali risultava ancora più appariscente il contrastosui proventi comunali delle sovrimposte: i comuni venetiraccoglievano esattamente il doppio di quelli meridionali.

8

7

6

5

4

3

2

1

0

Lombardia

Regno delle Due Sicilie

Ducatodi Parma

Ducato di Modena

Stato pontificio

Regno sabaudo

Granducatodi Toscana

FIG. 3. Proventi pro capite delle sovrimposte comunali nel 1861 ripartiti per pro-vince, valori correnti.

9876543210

Lombardia

Regnodelle Due

Sicilie

Ducatodi Parma

Ducato diModena

Stato pontificio

Regno sabaudo

Granducato di Toscana

Veneto

FIG. 4. Proventi delle sovrimposte comunali pro capite nel 1899 ripartiti per pro-vince, valori correnti.

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345Decentramento o accentramento

È evidente allora che altre spiegazioni devono essere chia-mate in causa, oltre ai differenziali di reddito, per spiegarela disomogeneità nei proventi delle imposte.

Si potrebbe ipotizzare che parte del risultato fosse legatoad un atteggiamento più rigido degli organi di controllo am-ministrativi nelle aree meridionali, poiché per superare i li-miti legali occorrevano precise autorizzazioni. Tuttavia, nelcorso dei quaranta anni considerati il sistema dei controllivariò numerose volte, 35 mentre le percentuali dei comunieccedenti i limiti restò costante nelle diverse regioni.

La scarsa propensione per l’imposizione comunale fondia-ria riscontrabile nelle province meridionali è ulteriormenteevidenziata dall’esame dei proventi del dazio sul consumo.In questo caso la differenza fra le province meridionali e lealtre aree del paese quasi si annulla. Nel 1868, primo annoper il quale si dispone del dato sui proventi daziari comuna-li, il dazio pro capite riscosso nell’ex Regno delle Due Sicilie(anche escludendo la provincia di Napoli) è superiore aquello lombardo, a quello dei ducati emiliani, a quello deiterritori ex pontifici, ma risulta inferiore ai proventi pro ca-pite registrati nell’ex Stato sabaudo e in Toscana. Situazioneanaloga si presenta analizzando i dati del 1895. Il confrontosulle tariffe applicate ai principali generi offre ulteriori spun-ti di riflessione.

Per il 1895 disponiamo dei dati relativi alle tariffe daziarieper comune applicate sui generi principali. Limitando la no-stra analisi ai 14 comuni di prima classe (oltre i 50 mila abi-tanti) e ai 49 comuni di seconda classe (tra i 20 e i 50 milaabitanti) 36 e restringendo il campione all’esame su 25 pro-dotti, non emergono differenziazioni territoriali. Natural-mente vi sono città con tariffe più elevate, ma si distribui-scono in modo uniforme fra le diverse aree geografiche delpaese (vedi figg. 5A e 5B).

A conclusione di questo lungo paragrafo dedicato alle po-litiche tributarie dei comuni italiani possiamo offrire qualcheconsiderazione. In primo luogo il decentramento fiscaleadottato al momento dell’unità del paese portò a differenzenel complesso delle entrate comunali, e perciò si presumeanche nelle disponibilità di spesa. In particolare i comuniappartenenti in passato al Regno delle Due Sicilie operaronoper tutti i quaranta anni considerati con livelli di entrata procapite molto inferiori a quelli del resto del paese. Tuttaviatale differenza non è completamente imputabile al sistemafiscale adottato. Quello che emerge da questa breve analisi

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346 Patrizia Battilani

16

14

12

10

8

6

4

2

0

Lombardia

Regno delle Due Sicilie

Ducatodi Parma

Ducato diModena

Regnosabaudo

Granducatodi Toscana

Veneto

FIG. 5A. Media delle tariffe daziarie applicate nel 1895 dai comuni capoluoghi diprovincia classificati di seconda classe (cioè con popolazione legale com-presa fra 20 mila e 50 mila).

12

10

8

6

4

2

01 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14

Napoli

Palermo

Messina Catania

Milano

Bologna

Bari

Roma

TorinoFirenze

Genova

Venezia

Livorno

Verona

FIG. 5B. Media delle tariffe daziarie applicate sui principali generi dai 14 comunidi prima classe (cioè con popolazione legale superiore alle 50 mila unità).

Fonte (figg. 5A e 5B): nostre elaborazioni da Maic, Dir. Stat, Bilanci comunali etariffe daziarie dei comuni chiusi, 1895.

Note (figg. 5A e 5B):1) Le tariffe daziarie sono relative al seguente elenco di beni: farina di frumen-

to abburrata, pane di frumento, pasta di frumento, farina di granoturco, ghiaccio,pollastri, uova, formaggi esteri, formaggi nazionali di qualità superiore, formagginazionali di qualità inferiore, latte, caffè crudo, cicoria ed altri surrogati del caffè,pesce fresco di qualità superiore, pesce fresco di qualità inferiore, baccalà, fagiolisecchi, carbone di legna, carbon fossile, candele steariche, sapone da bucato, sale.

2) Poiché i pollastri in alcune città erano tassati a peso, in altre a numero, ab-biamo reso omogenee le tariffe ipotizzando che i pollastri avessero un peso mediodi 2 Kg.

3) Abbiamo scelto la media semplice delle tariffe in quanto a noi interessavaverificare con quale intensità le città utilizzassero tale strumento. Invece, volendovalutare gli effetti del dazio e fare un’analisi dettagliata della politica daziaria dellediverse città sarebbe più opportuno ricorrere alla media ponderata.

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347Decentramento o accentramento

aggregata è che molti comuni non cercarono nemmeno diutilizzare tutte le possibilità messe loro a disposizione perautofinanziarsi. In particolare nel Sud del paese la leva dellasovrimposta fondiaria fu utilizzata molto meno che nel Cen-tro e nel Nord Italia. 37

7. I meccanismi di perequazione

L’analisi svolta fino ad ora ci permette di confermarequanto già intuito da Frascani 38 sul decentramento delle en-trate che caratterizzò l’ordinamento amministrativo postuni-tario. A questa intuizione vorremmo però aggiungere qual-che altra considerazione di tipo economico. Infatti, il princi-pale limite che viene riconosciuto ai sistemi federali puri èproprio quello di fornire mezzi finanziari inadeguati allearee più povere. Ora, tale limite è tipico anche dei sistemidecentrati, qualora non siano predisposti interventi perequa-tivi automatici. Nel caso italiano tali meccanismi erano deltutto assenti. Infatti, se prendiamo in considerazione i sussi-di governativi che venivano concessi a comuni e province sideve concludere che non solo la loro dimensione era inade-guata a riequilibrare divari così profondi come quelli presen-ti nella penisola italiana, ma anche la loro distribuzione nonseguiva fini perequativi. Come si vede dalla tabella 13, i sus-sidi 39 ai comuni e alle province non superarono mai, sinoalla fine del secolo, il 2-3% delle entrate comunali e provin-ciali.

Ancora più significativo è lo studio della distribuzione ter-ritoriale di tali sussidi. Infatti, se essi avessero avuto finalitàperequative, i comuni con le entrate pro capite minori (ocon i minori livelli di spesa in opere pubbliche o in istruzio-ne) avrebbero dovuto raccogliere un ammontare di sussidipro capite maggiori. Ma le regressioni 40 che abbiamo fattoper il 1873, il 1884 e il 1899 hanno dato risultati sorpren-denti. Infatti, la regressione per il 1873 mostra coefficientipositivi per le entrate comunali pro capite. In altre parole, learee che disponevano delle entrate più elevate erano destina-tarie dei maggiori sussidi governativi. Quindi, almeno pertale periodo, la distribuzione dei sussidi portava ad una ac-centuazione dei divari territoriali. Tra l’altro occorre sottoli-neare che, diversamente dagli altri anni per cui si è fatta laregressione, i risultati del 1873 sono buoni, con un R2 del40%. Per il 1884 la regressione fallisce, in altri termini le va-

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348 Patrizia Battilani

TAB. 13. Sussidi governativi per l’istruzione e per le opere pubbliche concessi ai co-muni e alle province a prezzi costanti 1890 e loro percentuale sul totale del-le entrate comunali

Anni Comuni Alle province Comuni Province(000 di lire) (000 di lire) (% sulle entrate) (% sulle entrate)

1869 1.635 – 1 –1870 1.618 – 1 –1871 1.107 – 1 –1872 1.374 – 1 –1873 3.526 486 2 11874 2.167 446 1 11875 4.122 435 2 11876 7.764 709 3 11877 6.861 – 3 –1878 6.836 – 2 –1879 7.081 – 2 –1880 7.482 – 3 –1881 7.516 – 3 –1882 9.916 980 3 11883 8.975 1.061 3 11884 10.288 1.479 3 21885 9.329 2.688 3 31886 9.191 1.322 3 11887 9.049 – 3 –1888 6.487 – 2 –1889 9.913 2.044 3 21890 – 3.234 – 31891 10.092 2.276 3 21895 9.917 – 2 –1899 6.723 – 2 –

– Dato mancante.

Fonte: Statistica dei bilanci comunali e provinciali, anni vari.

riabili da noi prese in considerazione non sono in grado dispiegare la distribuzione territoriale dei sussidi, che eviden-temente venivano attribuiti in base a considerazioni diversedalla capacità di spesa e di prelievo delle diverse aree geo-grafiche. Anche i risultati per il 1899 non sono molto buoni,in quanto i test statistici hanno valori piuttosto bassi (tab.14). Tuttavia anche in questo caso il coefficiente delle entra-te comunali è positivo. Si deve quindi concludere che i po-chi sussidi concessi ai comuni non seguivano finalità pere-quative e che le diverse capacità di prelievo fiscale dei co-muni non venivano bilanciate attraverso tale strumento. 41

Prima di arrivare a conclusioni definitive sul sistema pere-quativo (o sulla sua assenza), occorre prendere in analisi unultimo elemento: il credito agevolato. Ci limitiamo per ora acenni molto brevi, in attesa di uno studio organico sul debi-

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349Decentramento o accentramento

to comunale. Nella tabella 15 abbiamo considerato due indi-catori: la percentuale di debito residuo nei confronti dellacassa depositi e prestiti sul totale dei debiti comunali e il de-bito pro capite maturato nei confronti della cassa depositi eprestiti, allo scopo di valutare la distribuzione regionale ditale tipo di finanziamento statale. Infatti, essendo i tassi diinteresse praticati dalla cassa depositi e prestiti inferiori aquelli di mercato di 2 o 3 punti, il debito pro capite neiconfronti di tale istituto può darci una indicazione approssi-mativa della dimensione del sussidio concesso.

La tabella 15 ci dice che nel 1877 la presenza di tale isti-tuto è ancora limitata. Le aree che più si giovano di tale in-tervento risultano: Sardegna, Sicilia e Marche. Tale distribu-zione fa pensare al funzionamento di un qualche meccani-smo perequativo, visto che almeno le due isole si caratteriz-zavano per entrate comunali più basse della media. Va peròosservato che, nell’ambito delle regioni meridionali, esse nonerano quelle con le minori entrate. Infatti, tale record nega-tivo apparteneva a Calabria e Abruzzi, che invece di debitinei confronti della cassa depositi e prestiti ne avevano assaipochi. Negli anni Ottanta e Novanta il peso di tale istitutonell’ambito del debito comunale aumenta vistosamente, tan-to da coprire nel 1900 oltre la metà dei debiti comunalicomplessivi. Se è evidente il frequente ricorso a tale fonte difinanziamento da parte delle regioni centrali e meridionalinon altrettanto chiaro è il disegno perequativo, in quanto frale maggiori destinatarie troviamo anche Liguria e Toscana

TAB. 14. Risultati delle regressioni sui sussidi governativi

Variabile dipendente cost Spesecom entcom Pop R2 F

Susgov 1873 –0,8 (–1,93) 0,139 (1,76) 0,11 (3,38) –0,002 (–3,04) 0,44 16,8Susgov 1873 –0,15 (–1,78) 0,15 (6,5) –0,002 (–2,87) 0,39Susgov 1884 –0,001 (–0,007) 0,07 (2,34) –0,0005 (–0,09) –0,00014 (–0,72) 0,08 2Susgov 1899 –0,11 (–0,99) –0,043 (–1,43) 0,03 (3,71) 0,19 6Susgov 1899 –0,17 (1,9) 0,03 (4,0) 0,18 16

Legenda:susgov = sussidi governativi pro capite.spesecom = spese comunali pro capite in istruzione e in opere pubbliche (al

netto dei sussidi governativi).entcom = entrate comunali complessive pro capite (al netto dei sussidi governa-

tivi).cost = costante.pop = popolazione.Tra parentesi il test t.

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350 Patrizia Battilani

(che non erano certo tra le aree con le entrate comunali piùbasse), mentre Calabria e Basilicata restarono ai margini.

In sintesi possiamo dire che gli interventi perequativi furo-no del tutto assenti in termini di sussidi concessi a comuni oprovince. Qualcosa di più si fece attraverso il credito agevola-to, di cui però usufruirono anche le aree ricche del paese.

La situazione che si presentava alla fine del secolo era per-tanto quella di un paese con profondi divari regionali e nelquale era stato applicato un ordinamento della finanza localeche di certo non poteva contribuire allo loro riduzione.

È questo il contesto in cui matura l’intervento speciale 42

che dalla fine del secolo in poi diverrà il principale strumen-to di perequazione. Ma si tratta di una storia completamentediversa, che non passa più attraverso le amministrazioni lo-cali, ma che usa come strumenti organi del governo centraleappositamente costituiti. Si tratta di una via alternativa aquella della riforma dell’ordinamento locale, la quale nono-stante le dichiarazioni d’intenti di tutte le forze politichenon venne mai attuata. Ad onor del vero i progetti discussi

TAB. 15. Debito comunale residuo pro capite nei confronti della cassa depositi e pre-stiti e sua percentuale sul totale dei debiti residui. Valori a prezzi costanti1890

1877% ddpp 1877 debito 1884% ddpp 1884 debito 1900 debito 1900% ddpppro capite pro capite pro capite

Piemonte 5 0,6 14 2,4 4,9 22Liguria 1 0,8 4 3,1 24,0 21Lombardia 4 1,1 4 1,2 2,0 5Veneto 2 0,2 9 1,1 3,1 22Emilia 8 0,9 18 2,4 6,4 29Toscana 1 1,4 20 42,7 20,5 40Marche 28 3,8 44 3,9 19,9 73Umbria 0 0,0 40 4,6 20,0 73Lazio 0 0,0 39 32,4 68,1 28Abruzzo 8 0,3 59 3,0 11,7 63Campania 4 1,5 28 33,4 26,8 33Puglia 5 0,7 18 7,8 10,2 47Basilicata 24 0,8 57 5,0 9,4 64Calabria 0 0,0 51 5,6 8,2 66Sicilia 27 2,6 24 3,7 11,7 56Sardegna 39 3,5 34 7,8 26,0 97

Fonte: nostre elaborazioni da Maic, Dir. stat., Debiti comunali e provinciali, annivari.

Osservazioni: limitatamente all’anno 1900 nella voce debito residuo con la cassadepositi e prestiti abbiamo conteggiato anche il debito nei confronti della sezionedi credito comunale e provinciale e della cassa di soccorso per le opere pubblichein Sicilia, in quanto si trattava comunque di credito agevolato.

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non affrontarono mai il problema perequativo ed è quindilecito dubitare che anche una riforma avrebbe portato novi-tà sotto questo particolare aspetto.

8. Conclusioni

Al termine della rassegna sulle caratteristiche dei sistemilocali degli stati preunitari, possiamo dire che la legge del1865 non provocò una diminuzione del decentramento pri-ma attuato nella penisola. Non rappresentò un’inversione ditendenza per il Granducato di Toscana, in cui la Restaura-zione aveva posto ben altri limiti al libero arbitrio delle co-munità locali, e non lo fu per il Lombardo-Veneto, che difatto vide applicate sull’intero territorio nazionale parte delleproprie tradizioni amministrative. 43 Fra i sostenitori dellatesi di una maggiore centralizzazione a cui le comunità delLombardo-Veneto furono costrette ad adeguarsi si è spessoportato l’esempio del convocato generale. Se è vero che taletradizione poteva essere conservata, difficilmente si può ar-gomentare che un collegio che raccoglieva tutti i possidentifosse più rappresentativo di un consiglio eletto dagli stessipossidenti come prevedeva nei fatti la legge del 1865. Le re-gioni per le quali la legge del 1865 rappresentò un profondomomento di rottura furono soprattutto quelle appartenential Regno delle Due Sicilie, dove il livello di decentramentoamministrativo era quasi nullo (basti pensare che sia il consi-glio allargato, il decurionato, sia il sindaco erano di nominaregia). A questo si aggiunga l’assoluta vaghezza che caratte-rizzava il versante delle competenze comunali.

Fatte queste precisazioni, vale la pena ricordare alcunedelle ragioni che spinsero la classe dirigente unitaria all’ado-zione di un sistema amministrativo locale non federale. Inprimo luogo la consapevolezza che il sistema elettorale italia-no, unito al basso tasso di alfabetizzazione, non rendessepossibile un controllo sull’operato degli amministratori localida parte degli amministrati. Da qui l’esigenza di affidare adorganismi statali le funzioni di sorveglianza economica sul-l’operato dei comuni e delle province così come la necessitàdi introdurre vincoli alla libertà impositiva dei municipi. Sesi leggono le relazioni delle commissioni che proposero lafissazione di un maximum delle tariffe daziarie comunali ol’eguale proporzione dei centesimi addizionali sulle tre im-poste erariali (terreni, ricchezza mobile e fabbricati) o, infi-

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352 Patrizia Battilani

ne, un limite massimo sulla sovrimposizione fondiaria, quel-lo che emerge è la preoccupazione che la fascia di popola-zione avente diritto al voto si arrogasse il privilegio di farpagare le imposte locali solamente a coloro che non godeva-no dell’elettorato attivo e passivo.

L’altra ragione risiedeva nella volontà di promuovere losviluppo economico del paese. Nonostante gran parte dellaclasse dirigente si professasse liberista, ben pochi cercaronodi tenere unito il concetto dello stato minimo con quello delcontenimento dell’apparato burocratico. 44 Fra le moltepliciragioni fu sicuramente determinante la convinzione cheun’azione amministrativa corretta fosse una premessa indi-spensabile per il funzionamento delle leggi economiche, maquesto rendeva necessaria la costruzione di un solido appa-rato burocratico e il controllo dello stato centrale sugli entiterritoriali. In tale senso si può leggere «l’ossessione» dei di-rigenti postunitari per l’uniformità dell’apparato amministra-tivo e la razionalizzazione delle strutture poste in essere neisecoli precedenti. 45

Ma proprio qui si consuma la maggiore sconfitta del pro-getto politico della destra storica. Infatti l’avversione ad unmodello di tipo federalista e regionalista aveva origine dauna mancanza di fiducia nella classe dirigente meridionale,nonché nella consapevolezza della maggiore arretratezza diqueste regioni. Al contrario un modello unitario che unifor-masse normativa e apparati burocratici, ma decentrato, cherendesse responsabili gli enti territoriali, veniva ritenuto ingrado di favorire il processo di sviluppo. Quello che nonvenne percepito fu che sia in un sistema federale che in unodecentrato occorrono dei sistemi di perequazione per evitarel’ulteriore abbrutimento delle aree meno sviluppate. Ma suquesto la consapevolezza era ridotta. A tal proposito vale lapena di ricordare il progetto di riforma dell’amministrazionecomunale e provinciale che nel 1852 presentò l’allora mini-stro dell’interno del Regno sabaudo, Gustavo Ponza di SanMartino. Uno degli articoli del progetto più criticati dalconsiglio di stato fu quello relativo alla creazione di un fon-do comune stabile destinato ad essere ripartito secondo i bi-sogni delle province, e alimentato con un’addizionale alla so-vrimposta provinciale. L’aspetto inaccettabile di tale soluzio-ne, secondo i canoni del consiglio di stato piemontese, erache essa non rispettava un principio di base di tutta la leggepiemontese, cioè che «ogni provincia è tenuta a finanziaresolo le proprie opere o quelle che in qualche modo le giova-

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353Decentramento o accentramento

no», 46 mentre attraverso il fondo comune le province piùricche avrebbero finito con il finanziare parte delle opere darealizzare nelle povere. L’idea di Ponza di San Martino, cheper riequilibrare la dotazione di infrastrutture fra le diversearee territoriali fosse opportuno inserire strumenti perequati-vi già nell’ordinamento locale, non venne più ripresa. Lostesso Minghetti, in occasione della presentazione del suoprogetto sulle regioni, rimarcò che tale compito dovesse es-sere svolto attraverso interventi discrezionali dello stato cen-trale. «Come vi sono alcune province nelle quali la ricchezzaè grandemente inferiore ai bisogni e alle difficoltà da vincer-si, e in questi casi la regione o lo stato può sovvenirle, cosìvi hanno regioni le quali per natura e postura, o malignitàdei passati governi, o per vicissitudini di avversa fortuna, sitrovano sprovvedute ancora di quegli istituti, di quelle vie dicomunicazione, di quei lavori idraulici che altrove sono dagran tempo ordinati e compiuti. Ragion vuole pertanto chela nazione venga in soccorso ad esse [...]». 47 Nemmeno ipersistenti squilibri territoriali scalfirono la fiducia nei con-fronti di tale soluzione, tanto che alla fine degli anni Ottan-ta, quando si palesò l’esigenza di interventi differenziati perle diverse regioni, governo e parlamento scelsero la via pri-ma delle leggi speciali, poi degli organismi straordinari, cioèdi strumenti per definizione temporanei. Nel periodo giolit-tiano si verificò un costante sviluppo di commissioni, di or-gani consultivi e tecnici attorno al prefetto, allo scopo di fa-cilitare il collegamento istituzionale fra di esso e le varie for-ze della vita locale. 48 Tale svolta è stata interpretata daglistorici in termini di abbandono della ricerca di uniformitàche aveva caratterizzato i primi quarant’anni di vita postuni-taria. Forse sarebbe più corretto valutarla come la presad’atto del fallimento di un ordinamento amministrativo com-pletamente decentrato per quanto riguardava le entrate. Aquesto punto le possibilità erano solamente due: l’introdu-zione di strumenti perequativi automatici che aumentasserole disponibilità finanziarie delle aree povere, oppure l’inter-vento statale diretto. L’istituzione delle commissioni stataliandò chiaramente in questa seconda direzione, che in assen-za di una riforma della finanza locale diveniva di fatto unascelta obbligata.

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354 Patrizia Battilani

1 Sull’ampliamento dei divari regionali si veda V. Zamagni, «Cuestion meridionalo cuestion nacional? Algunas consideraciones sobre el desequilibrio regional enItalia», in Revista de historia, 1987, n. 1.

2 G. Volpe, Le finanze dei comuni e delle province nel Regno d’Italia, Torino,1962, pp. 5-9.

3 R. Ruffilli, Istituzioni, società, stato, vol. I, Bologna, 1989.4 Ibidem, p. 297.5 C. Schupfter, I precedenti storici del diritto amministrativo vigente in Italia, vol.

I del Trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando,Milano, 1933.

6 G. Brosio, Equilibri instabili. Politica ed economia nell’evoluzione dei sistemi fe-derali, Torino, 1994 e dello stesso autore l’intervento Federalismo politico e fede-ralismo fiscale presentato alla Riunione scientifica tenutasi a Pavia il 7-8 ottobre1994, su Federalismo, sussidiarietà, convergenza.

7 W.O. Oates, Studies in Fiscal Federalism, London, 1991, p. 22.8 Le citazioni sono tratte dal volume di A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento

comunale e provinciale italiano, vol. 3, Venezia, 1962, capp. 2-3.9 Le parole usate dal Rattazzi sono: «Così mentre la legge più contrasta ad ogni

tendenza federativa, assicura maggiormente le libertà locali». Relazione sul nuo-vo ordinamento comunale e provinciale fatta a S.M. dal ministro dell’interno il 23ottobre 1859, pubblicata in Petracchi, Le origini, vol. 3, cit.

10 Volendo indicare i principali sostenitori della tesi dell’accentramento non vi èche l’imbarazzo della scelta. Ne citiamo solamente alcuni: C. Pavone, Ammini-strazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli, Milano,1964; Ruffilli, Istituzioni, cit.; N. Raponi, Dagli stati preunitari di antico regimeall’unificazione, Bologna, 1981; I. Zanni Rosiello (a cura di ), Gli apparati statalidall’unità al fascismo, Bologna, 1976.

11 M.S. Giannini, «Autonomie comunali e controlli statali», in Zanni Rosiello, Gliapparati statali, cit., p. 112-113.

12 Volpe, Le finanze dei comuni, cit., p. 6.13 P. Frascani, «Finanza locale e sviluppo economico: appunti sulla dinamica della

spesa pubblica in età liberale (1875-1913)», in Storia urbana, 5, 1981, 14. Anchei lavori di C. Mozzarelli (a cura di), Il governo delle città nell’Italia giolittiana.Proposte dell’amministrazione locale, Trento, 1992 e di P. Battilani, «Le attivitàdi promozione economica del comune dall’unità al secondo dopoguerra», in V.Zamagni e S. Zaninelli (a cura di), Storia economica e sociale di Bergamo. Lo svi-luppo dei servizi, Bergamo, 1997, mettono in luce il grande impegno delle am-ministrazioni locali per la realizzazione di più moderne infrastrutture, con forteaumento della pubblica locale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecen-to. Tra l’altro un’altra serie di lavori sottolineava come i livelli di spesa pro capi-te dei comuni delle regioni meridionali fosse più basso. Cfr. A. Repaci, Le fi-nanze dei comuni, delle province e degli enti corporativi, Torino, 1936; F. Tene-relli, La riforma delle finanze locali, Milano, 1913; I. Bonomi, La finanza locale ei suoi problemi, Palermo, 1903.

14 F. Cavazzuti, «Ricerca sulla dinamica della finanza locale in Italia», in Studi difinanza pubblica. Studi sulla finanza locale, Milano, 1967.

15 G. Brosio, C. Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pub-blica dall’unificazione ad oggi, Bologna, 1986.

16 Citazione tratta da A. Scialoja, I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi,Torino, 1857, pp. 114-116.

17 Correnti e Maestri, nell’Annuario statistico del 1857-58 da loro curato, sottolinea-vano a p. 408 che «Le statistiche della pubblica amministrazione paiono alcunevolte manchevoli e inconcludenti, perché vi si tace delle spese e dei carichi co-munali, ultima goccia che spesso fa traboccare il vaso già pieno e colmo [...]. Iriassunti poi e i quadri comparativi di tutta l’amministrazione comunale s’avreb-

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bero a compilare direttamente e a pubblicare dai governi; come già s’era comin-ciato a Napoli» (Ministero e real segreteria dell’interno, Resoconto della civileamministrazione per gli anni 1851-1852) e in Piemonte (Prospettive generali dellasituazione finanziaria dei comuni di terraferma negli anni 1822-1847), senza cheil buon esempio avesse avuto imitatori e continuatori.

18 Relativamente alle perplessità generate da tali dati si vedano le osservazioni allatabella 1.

19 In Sicilia esisteva solamente una piccolissima sovrimposta provinciale sui capita-li dati a prestito.

20 G. Parravicini, «La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia 1860-1890», Archivio storico dell’unificazione italiana, Torino, 1858; Volpe, Le finanzedei comuni, cit.

21 Ricordiamo che il governo provvisorio assegnò allo stato la riscossione, ma aicomuni tutti i proventi, proprio nel marzo 1860.

22 In tale anno il Rattazzi aveva presentato un primo progetto di legge sull’ammi-nistrazione comunale e provinciale che aveva incontrato l’opposizione del parla-mento subalpino. Le idee di base di tale progetto, maggior ruolo economico deicomuni e riduzione dell’attività di sorveglianza da parte del governo centrale,verranno poi riproposte nel decreto del 1859.

23 Petracchi, Le origini dell’ordinamento, cit., pt. II, cap. II.24 Si deve precisare che il miglior confronto è quello con il 1868, vale a dire dopo

la promulgazione della legge sull’amministrazione comunale e provinciale del1865, in quanto nei primi anni postunitari, nonostante l’applicazione del decre-to Rattazzi ai comuni, venne lasciata facoltà di continuare ad imporre i tributioriginari.

25 Questo paragrafo richiede una lunga nota introduttiva per quanto riguarda lefonti. Infatti, sino al 1863 le fonti disponibili sui bilanci comunali sono del tuttodisomogenee. Dopo tale anno, invece, comincia la statistica dei bilanci di previ-sione dei comuni, ad opera del Ministero dell’agricoltura dell’industria e delcommercio. Si tratta delle prima raccolta sistematica di bilanci comunali. I di-fetti principali di tale fonte sono presto detti: 1) i dati si riferiscono ai bilancipreventivi ed è noto da studi fatti su singole città come preventivi e consuntivispesso si differenziassero per valori non trascurabili; 2) i dati venivano raccoltidai prefetti, che classificavano in modo arbitrario, anche se si spera comunqueguidati dal buon senso, le voci di spesa e di entrata dei bilanci municipali inclassi più generali. Per quanto riguarda il primo problema, non vi è soluzionesino agli anni Trenta del Novecento, quando cominciano le rilevazioni sui bilan-ci consuntivi. Relativamente al secondo, invece, un notevole cambiamento venneintrodotto nel 1875, quando il Ministero dell’interno fece adottare ai comuni ununico modello nella formulazione dei bilanci. Divenne così più facile la revisio-ne dei dati da parte della ragioneria delle prefetture, e la statistica acquisì unamaggiore omogeneità. Questi problemi legati alla fonte utilizzata come si riper-cuotono sull’attendibilità dell’analisi da noi svolta? Prima di rispondere vorreiricordare due aspetti di questa ricerca. In primo luogo il fatto che essa si giocaquasi esclusivamente sul lato delle entrate comunali e secondariamente chel’obiettivo è soprattutto di identificare i gradi di libertà di cui godevano i gover-ni locali. In altri termini, da un lato si tratta di limitare l’analisi a voci di bilan-cio che anche prima del 1875 non presentavano grosse differenze fra le diversecittà (vale a dire imposte tasse e sovrimposte), dall’altro, poiché in questa fasetutta l’attenzione è posta sulla possibilità dei comuni di autofinanziare i propriinvestimenti, piuttosto che sugli investimenti effettivamente attivati, se ne con-clude che tali dati sono in grado di fornire le risposte che cerchiamo con ungrado sufficiente di attendibilità. A ulteriore conferma possiamo citare il con-fronto, presentato dalla pubblicazione del Maic per il 1884, fra le sovrimpostecomunali iscritte nei bilanci preventivi e quelle poste in riscossione: la differen-za è di circa 200 mila lire su un preventivo di 118 milioni. Maggiore attenzioneoccorre prestare alle voce aggregata entrate ordinarie o straordinarie. Infatti nel-le prime rilevazioni tali voci aggregate includevano le contabilità speciali, il rim-

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borso dei capitali e i mutui passivi. Perciò quando si considerano le entratecomplessive occorre fare attenzione alle voci incluse nei diversi anni e renderleomogenee.

26 In realtà nel Regno delle Due Sicilie esisteva una sovrimposta provinciale (i gra-na addizionali), che però veniva iscritta nel bilancio dello stato centrale, inquanto i proventi erano a disposizione del ministro dei lavori pubblici. Scialoja,I bilanci del Regno di Napoli e degli stati sardi, cit.

27 Legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, art. 118.28 Decreto legislativo 28 giugno 1866, n. 3022 e n. 3023.29 Si tratta della legge 26 luglio 1868, n. 4513.30 Legge 11 agosto 1870, n. 5784.31 Legge 14 giugno 1874 n. 1961.32 Legge 1° marzo 1886, n. 3682.33 Circa due anni dopo con la legge del 25 marzo 1888, n. 5308, fu stabilito che

per essere necessario il provvedimento di una legge speciale dovesse esservi ec-cedenza sia nel numero dei centesimi addizionali che nelle cifre assolute dellasovrimposta.

34 Legge 23 luglio 1894, n. 340.35 L’autorizzazione a eccedere i limiti legali doveva essere concessa dalle giunte

provinciali amministrative, e quindi dal prefetto, sino al 1885; con legge specialenel periodo 1885-1894; di nuovo dalle giunte provinciali amministrative, a capodelle quali non si trovava più il prefetto, nel periodo successivo.

36 Le entrate daziarie di tali comuni rappresentavano il 58% di quelle di tutto ilRegno.

37 Non vogliamo qui riproporre il grande dibattito Nitti-Gini sulla sperequazioneNord-Sud, in quanto oggetto del contendere era in quel caso il carico fiscale so-stenuto e i servizi pubblici goduti dalle diverse regioni italiane. Quello che cipreme invece sottolineare in questo paragrafo era l’inadeguatezza del sistema difinanziamento della spesa locale, basato su un decentramento puro. Un sistema,come vedremo, che richiedeva l’inserimento di correttivi da parte dello stato,con una progressiva riduzione del livello di decentramento stesso. Per quantoriguarda il dibattito sulla sperequazione fiscale si veda F.S. Nitti, Il bilancio del-lo stato dal 1862 al 1896-7, e C. Gini, L’ammontare e la composizione della ric-chezza delle nazioni, Torino, 1962.

38 P. Frascani, Finanza locale e sviluppo economico: appunti sulla dinamica dellaspesa pubblica in età liberale (1875-1913), 1981, anno V. L’autore, dopo avermesso in luce una certa presenza dei comuni in settori chiave della spesa pub-blica come l’istruzione, l’igiene, la rete stradale, e aver sottolineato che «nell’ar-co di tempo considerato i comuni italiani furono impegnati in un notevole sfor-zo di adeguamento ad una domanda di servizi indotta dai processi di crescitaeconomica del paese», suggeriva alcuni temi di approfondimento: le interdi-pendenze esistenti tra la gestione della finanza locale e i processi di trasforma-zione economica in atto nelle campagne del Mezzogiorno, gli effetti della co-stante espansione dei deficit comunali sul sistema creditizio, la diffusione di po-litiche di «protezionismo municipale».

39 Tali sussidi erano iscritti a bilancio delle amministrazioni locali nella categoriaentrate straordinarie. Si trattava di sussidi specifici, in quanto erano concessiper interventi nel campo delle opere pubbliche o dell’istruzione.

40 In pratica abbiamo regredito i sussidi pro capite governativi ai comuni sullespese comunali pro capite in opere pubbliche e istruzione e sulle entrate procapite. I dati che abbiamo utilizzato erano su base provinciale, quindi le osser-vazioni di cui disponevamo erano 69.

41 Alcuni autori individuano quale causa della mancata perequazione attraverso isussidi il fatto che le leggi per i lavori pubblici prevedevano un cofinanziamentodello stato a risorse locali e quindi penalizzavano per definizione le regioni eco-

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nomicamente più deboli, incapaci di mobilitare tali risorse. Si potrebbe peròobiettare che, come dimostrano i dati sulla sovrimposta comunale, molte regionimeridionali non cercarono nemmeno di forzare gli strumenti di prelievo fiscaleloro disponibili. Inoltre se tali sussidi fossero stati concepiti come strumenti diperequazione sarebbero stati riservati alle aree più arretrate (e in questo caso ilcofinanziamento, che pure avrebbe richiesto un grave impegno ai comuni piùpoveri, non avrebbe annullato gli effetti perequativi), mentre essi furono quasisempre rivolti a tutto il territorio nazionale.

42 G. Melis, «Amministrazioni speciali e mezzogiorno nell’esperienza dello stato li-berale», in Studi Storici, 34/2-3, 1993, pp. 463-527.

43 A questo proposito si veda Ruffilli, «Governo, Parlamento e correnti politichenella genesi della legge 20 marzo 1865», in Istituzioni, cit. Per quanto riguardal’analisi dell’amministrazione locale negli stati preunitari si veda L. Toth, Gli or-dinamenti territoriali e l’organizzazione periferica dello stato pontificio, Milano,1970; E. Tonetti, «L’amministrazione comunale a Treviso nell’età della Restaura-zione (1816-1848)», in Studi storici, 28/1, 1987; G. Pansini, «Gli ordinamenticomunali in Toscana dal 1849 al 1853», in Rassegna storica toscana, 1956; B.Casini, «L’amministrazione locale del Granducato di Toscana (1814-1860)», inBollettino storico pisano, 1953-54; E. Lodolini, «L’amministrazione periferica elocale nello stato pontificio dopo la Restaurazione», in Ferrara viva, 1, 1959; E.Rotelli, «Gli ordinamenti locali dell’Emilia-Romagna preunitaria», in L’alternati-va delle autonomie, Milano, 1979; G. Astuti, L’unificazione amministrativa delRegno d’Italia, Napoli, 1966; A. Sandonà, Il regno lombardoveneto 1814-1853,Milano, 1912.

44 Si veda V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna, 1996.45 Ruffilli, «Esigenze della borghesia», cit.46 Petracchi, Le origini dell’ordinamento, cit.47 M. Minghetti, Progetto di legge presentato alla Camera il 13 marzo 1861.48 Ruffilli, «Esigenze della borghesia», cit.