Cultura Commestibile 101

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N° 10 1 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Per noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano Jovanottismo malattia infantile del renzismo

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N° 101

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Per noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela,

Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi

Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano

Jovanottismo malattia infantile del renzismo

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Da nonsaltare

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Matteo Meschiari, antropo-logo e scrittore. Scrittore militante per la difesa

dell’ambiente, traduttore e divul-gatore culturale, autore di poesia e narrativa, ha insegnato nelle Università di Lione, Avignone e Lille in Francia e dal 2008 insegna Antropologia culturale e Antropologia del paesaggio all’U-niversità di Palermo. Dal 1990 svolge ricerche sul paesaggio in arte, letteratura, etnologia e geo-grafia. Ha contribuito allo studio del concetto di paesaggio nella storia delle idee, nell’antropologia culturale, nelle scienze cognitive e in filosofia. E’ in particolare impegnato nella divulgazione in Italia della Landscape Anthropolo-gy anglosassone. Caro professore lei ha tenuto recen-temente una conferenza sul lavoro di Dino Campana. La conferenza si è svolta nell’ambito delle inizia-tive organizzate da Teatro Studio Krypton di Scandicci per il cente-nario della pubblicazione dei Canti Orfici. Il titolo della sua conferen-za, che si è tenuta alla chiesa di Santa Verdiana in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, era Una nuova melodia selvaggia con il sot-totitolo Geografie Campaniane. Lei ha scritto, alcuni anni fa, per i tipi di Liguori un libro importante su Dino Campana: Dino Campana. Formazione del paesaggio. La tesi di fondo del libro è che il paesaggio e la sua descrizione sono la struttura portante del libro unico di Campa-na, i Canti Orfici appunto. Nella sua premessa lei scrive: «Pochi libri sono così vasti, così geograficamente vasti nello spazio e nel movimento da essere una dichiarazione non poetica, ma di paesaggio». In questa frase c’è credo il senso del libro. Si parla di spazio, di movimento, di vastità. Quale è stato l’avvio di questa sua riflessione su Campana?Da vari anni riflettevo sul pae-saggio ed ero attratto in modo particolare da quegli autori che non si limitano a inserire fram-menti di paesaggio nei loro testi, un po’ come intarsi contemplativi distribuiti qua e là nell’opera, ma che, come diceva Calvino, cercano di “tradurre il paesaggio

in ragionamento”. Presto mi sono reso conto che esistono testi con paesaggio, testi di paesaggio e “testi-paesaggio”. Gli ultimi sono quelli che m’interessano, perché usano il paesaggio come matrice strutturante, come funzione let-teraria. Nella mia interpretazione i Canti Orfici sono uno di quei testi, paesaggistico a tutti i livelli, nella struttura, negli enunciati, perfino nella sintassi che, secondo me, riproduce una fenomenologia dello sguardo, un modo di vedere che è proprio di chi i paesaggi li ha frequentati veramente. Non panorami estatici collocati sullo sfondo, in secondo piano, ma spazi complessi, attraversati con il corpo, vissuti in prima persona.Campana è un viaggiatore, anzi, un camminatore. Lui parla del paesaggio che vede chi cammina. C’è un rapporto diretto fra il movi-

mento del cammino e quello dello sguardo? Fra il piede e l’occhio? Un modo di percezione diverso? È questa la singolarità del testo di Campana e del suo racconto del paesaggio?Il problema fondamentale nella nostra percezione del paesaggio è che siamo portatori di una tem-poralità troppo umana, se messa a confronto con i tempi geolo-gici della Terra. In altre parole, vediamo immobile ciò che di fatto si muove: i ghiacciai in lenta discesa, le migrazioni vegetali, l’o-rogenesi. Un po’ come nel dilem-ma geografico che accompagna la storia culturale dell’Occidente, pensare una terra rotonda che invece ci sembra piatta, allo stesso modo percepiamo e rappresen-tiamo i paesaggi come immobili quando invece si muovono. Ora, un uomo che cammina, che vede

le cose in movimento perché sta camminando, è come se prestasse al paesaggio un supplemento di vita, gli trasmette un impulso, imprime ad alberi rocce terreni il proprio dinamismo. Molti autori descrivono paesaggi statici, cristallizzati, imbalsamati, altri cercano di rendere la complessità dinamica della percezione propria di uno sguardo in movimento, e questo muove dall’interno i luoghi scritti. Campana è uno di questi autori-camminanti.Chi cammina condivide necessaria-mente il paesaggio. Lo condivide nel senso che lo attraversa anche. Non è lo sguardo da altrove. È lo sguar-do da dentro. Condividere e non contemplare. Anche uno sguardo al di dentro del proprio io. C’è in Campana una lettura del paesaggio interno oltre che di quello esterno? Passeggiare per costruire paesaggi interiori? Il concetto di “paesaggio dell’a-nima” accompagna la riflessione sul paesaggio dal tempo in cui i pittori del Quattro e Cinquecen-to hanno cominciato a usare e a diffondere la parola (landskip, landscape, paysage, paesaggio) in un’accezione puramente estetica. Già allora il paesaggio non era più un terreno sotto i piedi ma una mera immagine, e le immagini, lo sappiamo bene, sono conteni-tori che possiamo riempire come ci pare. La mente dell’uomo è fatta così: ipotizza sempre un messaggio nascosto, interroga le cose senza sosta, cerca la polpa dietro la buccia. Ma non sempre la polpa c’è, e non tutti sono interessati a portarla in luce. Dino Campana, ad esempio, è attratto dal mistero, ma non vuole espli-citarlo, vuole che agisca nella vita dell’uomo con la sua forza not-

Campanail paesaggioe

di Gianni BiaGig,[email protected]

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turna, prelogica, prelinguistica. Se Campana costruisce paesaggi interiori è forse in questo senso: non paesaggi che aiutano a chia-rire una visione del mondo, non paesaggi-risposta, ma paesaggi che approfondiscono le domande, che le rendono più oscure e risonanti. Quello che mi ha sempre stupito di Campana è che è uno dei pochissimi autori italiani, forse l’unico, che ha abbozzato una riflessione intuitiva sulla selvati-chezza, quella che gli Americani chiamano wilderness: luoghi dove il senso non si svela, dove l’uomo culturale è messo in crisi, e dove l’accesso è consentito solo a chi è disposto a perdersi, a spogliarsi di una natura troppo umana. Nella presentazione del film su Dino Campana, girato in “super8” nel 1974 da Marco Moretti, l’auto-re ha detto che Campana introduce «i colori nella poesia». Nel senso, credo, che Campana racconta un paesaggio totale, fatto di sensazioni, di emozioni e non solo d’immagini. È anche una sua sensazione?Certo. Si potrebbe parlare in que-sto senso di paesaggio dinamico, multisensoriale, sinestesico. La lingua di Campana non si accon-tenta di registrare il fenomeno, vuole riprodurlo, e la visione è un elemento portante ma non esclusivo. Pensiamo al lavoro fonostilistico, alla parola-suono, o alla sintassi, che con riprese, salti, vuoti, tagli, ellissi, avvicinamenti asintotici, montaggi bruschi o morbidi tenta di ricreare un’e-sperienza cognitiva, diventa una strategia per fare entrare il lettore

in un flusso dinamico, narrativo. Campana conosceva il cinema. Certamente introduce «i colori nella poesia», ma io direi anche che ci ha messo movimento, tensione muscolare, rumore, e l’universo tattile, la grana sotto le dita.I percorsi di Campana per l’Appen-nino, verso la Verna ad esempio, sono oggetto di attenzione da parte delle amministrazioni pubbli-

che quasi a voler ipotizzare un “Appenino campaniano”. Percorsi che portano a ripercorrere la strada di Campana con gli occhi di oggi, con occhi diversi, per comprendere anche l’opera. Sarà utile?I parchi letterari, i percorsi reperiti e ridisegnati nei luoghi reali fissati dallo sguardo di un autore, dalle pagine di un libro, sono un’esperienza suggestiva e al tempo stesso fragile, in balìa di

Intervista a Matteo Meschiari

Una mostra per i 100 annidei Canti Orfici

interpretazioni dall’alto, di com-mercializzazioni turistiche e, forse peggio, di traduzioni museali en plein air che riducono la poesia a un prodotto-spettacolo. Ma ci sono anche esempi virtuosi, come quello su Jean Giono in Francia o quello che si sta progettando su Francesco Biamonti in Liguria. Personalmente sento di entrare in connessione con un autore visitando i suoi luoghi da solo, senza itinerari predisposti, car-telli o scritte che mi dicano cosa guardare e cosa pensare. Ma se il paesaggio non viene sovrascritto, se viene rispettato al massimo, se tutto questo può avvicinare alla poesia del corpo e della terra, allora mi trova d’accordo.Il paesaggio è oggi un bene colletti-vo. La stessa Costituzione lo tutela come matrice fondamentale della identità nazionale. In Campana il paesaggio è intimo, personale. C’è quindi la possibilità di condividere il paesaggio? Di avere una visione collettiva del paesaggio? C’è un paesaggio condiviso? Oppure ci sono infiniti paesaggi personali la cui sommatoria è un immaginario paesaggio collettivo? Credo entrambe le cose. La Convenzione Europea del paesaggio ha chiarito e sancito una cosa importante, che un paesaggio non è soltanto un territorio condi-viso, inscritto in una memoria collettiva, non è solo un ambiente di qualche pregio, pieno di storia con la maiuscola o universalmen-te bello come le Dolomiti o certi tratti d’Appennino. Il paesaggio è anche il modo in cui un luogo concreto viene percepito dalle comunità locali e, aggiungerei io, dai singoli individui. In questa prospettiva anche un paesaggio “brutto” ha senso, ha un valo-re identitario per chi lo vive: è “casa”, è l’“aperto”, è una storia minore inscritta nelle cose. Il paesaggio è un luogo reale da tu-telare, ma è anche un bene cultu-rale immateriale depositato nella mente di chi lo abita da sempre o di chi lo sta attraversando per la prima volta. I paesaggi sono de-positi d’immaginario. Quando li si tocca, li si altera o li si riorienta, è la capacità di immaginare della gente che si sta ineluttabilmente modificando.

Attorno al manoscritto proto-or-fico “Il più lungo giorno”, si è inaugurata, giovedì 27 novem-bre, la mostra “Dino Campana. Canti Orfici 1914-2014”, nella più campaniano delle biblioteche fiorentine, la Marucelliuana. Manoscritti, documenti, libri (tutti quelli di Dino e alcune, preziosissime, copie dell’edizio-ne del 1914, come quella che Dino regalò a Sibilla Aleramo nel 1916), immagini curata con

maestria da Francesca Castellano. La parte editoriale è senz’altro quella più completa e interessante: appunto, le edizioni dei Canti Orfici dal 1914 ad oggi, gli scritti su Campana e le monografie suil poeta marradese. E il manoscritto “Il più lunghi giorno”, con la sua storia di spargimenti, ritrovamen-ti, dolore, rabbia, è il “pezzo” più emozionante. Il catalogo della mo-stra è stato curato e realizzato dal Comune di Firenze ed è disponi-

bile in rete. Franco Contorbia ha introdotto e presentato la mostra.La mostra, ad ingresso libero, è vi-sitabile dal lunedì al giovedì 9-13 e il venerdì 8,30-13,30, fino al 31 dicembre. Sempre all’interno del centenario della pubblicazio-ne dei Canti Orfici, va in scena presso il Teatro Studio Krypton di Scandicci oggi sabato 29 novem-bre alle ore 16, la piece teatrale “Sibilla Aleramo. Così bella come un sogno” di Lorenzo Bertolani.

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riunione

difamiglia

Nicoletta Mantovani, presentata assessore al Comune di Firenze in quanto vedova Pavarotti e grazie alle mille miglia Alitalia acqui-site negli anni, non è scomparsa. Questo intanto ci fa fare un sospiro di sollievo. Dalle elezioni infatti se ne erano perse completamente le tracce, il suo ruolo di ambascia-trice per portare a giro il nome di Firenze doveva averla spinta in ogni angolo del mondo. Ecco quindi che quando l’abbiamo vista spuntare sul palco del candidato del PD alla presidenza dell’Emilia Romagna, Bonaccini, la scorsa settimana che l’ha presentata come ambasciatrice dell’Emilia Roma-gna nel mondo (si parla anche di un possibile posto in giunta per Lei) ci siamo sentite tradite. Ma non doveva farlo per Firenze? Per cui, quando il sindaco Nardella ha twittato del suo incontro con l’am-basciatore del Kuwait propiziato proprio dalla Mantovani, ci siamo sentite riavere. Ora che il Kuwait conosce Firenze, la città è a posto. Ci rimane solo un dubbio, l’amba-sciatrice mica avrà detto al collega che la cultura è il nostro petrolio?

Dopo aver cantato l’ira funesta della acidula Acidini contro la riforma del Ministero dei Beni Culturali, che è stata causa delle sue dimissioni dalla direzione del Polo Museale Fiorentino, di tutto ci immaginavamo meno che di dover registrare i peana acidi-niani sulla medesima riforma. Ricordate il 23 settembre? Alla domanda sulle motivazioni delle sue dimissioni, con la compo-stezza di sempre, ma con una certa punta di acidità, l’Acidini rispondeva: “Proprio in previsio-ne degli esiti della riforma, del futuro assetto dei musei, fioren-tini e non solo, che la riforma configurerà, e del nuovo impianto dell’organizzazione dirigenziale, all’interno del quale io non credo che una condizione come la mia attuale si possa più identificare”. Ma dopo meno di 2 mesi ecco la signora dei musei che se ne esce con questa frase, nel suo discorso di congedo: “Vedo nella riforma

che si annuncia un effetto posi-tivo. Accanto a quello, ovvio, di conferire maggiore autonomia e visibilità ai musei individuati, c’è altro – che forse percepisco meglio di chiunque altro – di suddivi-dere questo smisurato carico di responsabilità tra posizioni apica-li diverse, rendendolo per ognuno umanamente sostenibile”. Ora, il parla come mangia tradur-rebbe così la frase: “Solo io, che sono sovrumana, potevo sostenere tutto quel potere concentrato su di una sola persona; siccome non c’è nessuno come me, sminuzzino pure il potere e se ne vadano al diavolo tutti!”. Ce la immagi-niamo l’Acidini, spettinata come Francesca Neri nella pubblicità di Salvini, mentre cerca l’abito adat-to da indossare per andare alla sua ultima uscita pubblica da So-vrintentende, che prova davanti allo specchio il discorso, sconvolta, furiosa, con i capelli indomabili nonostante l’estintore di lacca, che come l’attrice esclama: “Odio le donne che piangono. Ma non porto rancore... Niente è per sempre. Odio i trucchi. Non voglio più legami. Odio farmi notare....Ho cambiato idea”

Le SoreLLe Marx

i CuGini enGeLS

BoBo

Un’amba-sciatrice per due giunte

Cambiareidea

La Geopolitica di Eugenio

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Classico, anticlassicoe il senso della geometria di Nardi

Uno dei capitoli del libro di Bruno Zevi “Il linguaggio moderno dell’architettu-

ra” (Einaudi 1973) si intitola “Sintassi della scomposizione quadridimensionale”. Il libro di Zevi era la risposta ad un altro libro, edito nel 1964 da John Summerson, dal titolo “The classical language of Architectu-re”, dopo che lo stesso Zevi, come racconta nella premes-sa al suo libro, aveva invano atteso la pubblicazione di un libro di Summerson riguardo all’ “Anti-classical language of Architecture”. Il capitolo è preceduto da altri con titoli ugualmente espliciti come “Asimmetria e dissonanze” e “Tridimensionalità antipro-spettica”. Il libro di fatto si configura come un insieme di regole, di idee, di suggerimenti per la costruzione di un’archi-tettura contemporanea., e anti – classica. Regole anti - classiche in contrapposizione alle regole del classicismo invocate da Summerson.Queste riflessioni vengono in mente guardando il nuovo lavo-ro di Claudio Nardi a Novoli. Nardi ha progettato un edificio, anzi due edifici collegati fra loro da un ponte aereo e una quinta, in due lotti del Piano di Recu-pero redatto da Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola, sulla base del piano guida di Leon Krier. Edifici per residenze che si collocano a fianco, e di lato, a opere di Isola, e a lato dell’e-dificio che ospita la biblioteca universitaria di Scienze Sociali di Adolfo Natalini. Edifici “classici” tutti questi ultimi, anche se con licenze stilistiche e formali importanti, licenze che si manifestano in particolare nel grande edificio per attività commerciali e sale cinematografiche di Isola. Gli edifici di Nardi parlano un linguaggio architettonico, sia nella sintassi sia nella gramma-tica, sostanzialmente diverso da

quelli contermini. Il progetto è pensato con due diverse tipolo-gie edilizie per i due edifici che sono uniti dalla piazza, carat-terizzata dalla ricercata man-canza di omogeneità delle due facciate che si fronteggiano, e dalla quinta che la separa dalla strada di scorrimento esterna al lotto. Un linguaggio moderno che utilizza parole classiche in un contesto contemporaneo. Parole classiche come copertura e parete qui sono rappresentate da un unica struttura, che rac-coglie tre dei cinque lati esterni dell’edificio più grande, e forma un grandissimo trilite che, come un grande foglio rigido, sembra appoggiato su di esso.Parole classiche come loggia e finestra qui sono declinate in modi e forme diverse a seconda degli usi e delle esigenze degli spazi interni, e costituiscono un abaco da utilizzare in modi di-versi nei due edifici, contribuen-do a differenziarli anche ad una vista esteriore, e non solo per le due diverse tipologie utilizzate (edificio in linea quello più piccolo e edificio a corte quello più grande).Il risultato è un unico grande edificio, complesso e articolato, che offre diverse modalità di lettura, che utilizza colori scuri delle terre delle crete e finiture delle facciate dei piani terra che ricordano il grassello. Un edificio costruito secondo le regole del risparmio energetico (l’edificio rispetta i parametri della classe A) attraverso la realizzazione di un rivestimen-to isolante a “cappotto”, che rimane invisibile all’esterno, e con materiali innovativi,come il “legno tecnico”, per le finiture esterne delle pareti rivolte verso la strada principale.Un edificio che dimostra come le regole del piano di recupero dell’area ex Fiat a Novoli siano capaci di essere lette, interpre-tate ed agite, sia per la realizza-zione di edifici di impianto e caratteristiche “classiche” come quelli adiacenti, sia per edifici di impianto “anti-classico” come

di John StaMMer

quello di Nardi, contribuendo a garantire quella diversità forma-le e funzionale che è la condi-zione del buon funzionamento urbano; a maggior ragione in un nuovo pezzo di città come quello in via di realizzazione nell’area di Novoli.L’edificio ospita 51 apparta-menti di piccola dimensione, in linea con le esigenze del mercato attuale, e 6 negozi al piano terra, ed è stato realizzato in due anni dalla fine 2012 alla fine del 2014, dopo che sullo stesso lotto lo stesso progettista aveva redatto altri progetti per funzioni universitarie.

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Heidsieck, arte da sentireIl mondo dell’Arte Contempo-ranea saluta con stima e affetto uno dei creatori della Poesia

Sonora e della Poesia Azione: un uomo che ha creato, con la passione per la poesia, l’Arte e la performan-ce, un’energia espressiva, teatrale ed esaustiva in grado di abbracciare suono e visualità in un’estetica del Totale priva di limiti e di limitazioni; un artista che ha lasciato un segno indelebile nello sperimentalismo poetico.Nelle sue opere la scrittura incontra la visualità, ponendosi su un unico piano di azione e comunicazione, connettendosi con i linguaggi in-terdisciplinari e intermediali propri della sperimentazione neoavanguar-dista. A partire dagli anni Sessanta e Settanta le forme visive, gestuali e musicali hanno operato all’insegna dell’intersezione, della contamina-zione e della percezione multisenso-riale, sino a giungere alla dimensione profonda e aperta della performance. Bernard Heidsieck ha agito, in tal senso, nello spazio acustico e figurale dell’Arte Contemporanea, attuando un progetto poetico complesso e articolato, nella consapevolezza che la poesia poteva e doveva uscire dallo spazio privato e passivo della lettura per divenire attiva, aprendosi allo spazio pubblico e coinvolgendo il fruitore nell’Azione poetica, stimo-landolo sensorialmente, senza però perdere la poeticità e la letterarietà insita nella parola. La Poesia Sonora dell’artista è un genere al limite tra arte e spettacolo che unisce saperi, tecniche e tecnologie innovatrici, al fine di rivoluzionare l’idea di poesia e far rivivere la scrittura poetica e la visualità del verso. Un neoumani-smo inedito, capace di cavalcare le spinte del moderno, compiendo una parabola storica sull’idea di Arte e Scrittura; un modo e un tentativo di interpretare la parola poetica, attraverso l’azione, il gesto artistico e la spinta espressiva che ha distinto l’artista nel vasto panorama della Neoavanguardia, con la sua doppia vita di banchiere di stato e artista: due vite apparentemente inconci-liabili, ma che gli hanno permesso un’immersione assoluta e passionale nell’attualità. Quella di Bernard Heidsieck è stata una totalità estetica che ha abbracciato tecniche e discipline tendendo alla presa di coscienza e alla messa in luce che tutto è Arte che la parola ha ancora molto da donare sotto ogni punto di vista.

Dall’alo in senso orario Leonardo a bien dû inventer quelques couleurs … ! Créditons-le, en tous cas, de celles-çi … !, 1997Scrittura e collage su cartoncino, cm. 32x24, Leonardo a certainement inventé le boogie woogie, 1997, Scrittura e collage su cartoncino, cm. 32x24, Leonardo a certainement inventé le champ de Basf professional, 1997, Scrittura e collage su cartoncino cm. 24x32, Leonardo a certainement inventé le vert espérance, 1997, Scrittura e collage su cartoncino, cm. 24x32, Leonardo a certainement inventé le tissus écossais, 1997, Scrittura e collage su cartoncino, cm. 32x24Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di Laura [email protected]

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La Babeledella musica

A Parigi, nel immenso parco della Villette progettato nel 1983 dall’architet-

to svizzero Bernard Tschumi sui 35 ettari dell’ex mattatoio della città, è sorta nel corso degli anni una sorta di Babele della musica, una città nella città dalle mille lingue dove però le note sono al posto delle parole. E’ composta da Zenith, una grande arena coperta, che ospita manifestazioni di musica di vario genere con 700.000 spettatori all’anno, e da due bellissimi edifici, la Citè de la Musique, progettata dal archi-tetto Christian de Portzamparc (ideatore anche della Cidade da Musica a Rio de Janeiro), e la Philarmonie de Paris. del più famoso archistar francese, Jean Nouvel.La Citè de la Musique, è un grande museo “sonoro”, inaugurato nel 1995. Fu pen-sato come un luogo dedicato esclusivamente alla musica, un progetto innovativo, ripreso in seguito in molte altre parti del mondo, con sale di altissima qualità acustica. Nei suoi 2000 mq. espone i 4500 strumenti, alcuni appartenuti a musicisti importanti come il pianoforte di Chopin, collezionati dal Con-servatorio Nazionale di Musica fin dal XVIII secolo. Un piacere per gli occhi e una delizia per gli orecchi. La visita a suon di musica con l’audioguida, che via via fa sentire i più bei brani realizzati con lo strumento che si sta guardando, si snoda in due percorsi, uno di musica occidentale dal 1600 ai giorni d’oggi e l’altro etnico con le tradizioni dell’Asia, dell’Africa, dell’Oceania e del mondo arabo. Completano questa immersione totale nel mondo delle note i concerti gratuiti organizzati tutti i giorni nella sala di 1200 posti, la libreria Harmonia Mundi, la medioteca con un vastissimo catalogo sonoro, una bibliote-ca, un laboratorio di restauro e conservazione degli strumenti e un centro di studio della danza e della musica moderna collega-to al Conservatorio Nazionale Superiore che incoraggia giovani artisti con premi e coproduzio-ni.Nel 2007, vicino alla Citè de la

di SiMonetta [email protected] progetto e poi la realizzazione

della Philharmonie sono sogget-ti a critiche sempre più feroci da parte dell’opinione pubblica e della stampa. Il suo costo è lievitato dai 177 milioni di euro previsti ai 386 finora spesi. L’ar-chitetto più amato dai francesi è ora criticato per la sua ambizio-ne che lo porta a “disprezzare il denaro pubblico per il suo ideale di estetica”. Il governo e la città di Parigi che finanziano in parti uguali vengono accusati di aver voluto un progetto fara-onico in un periodo di crisi. Le 2 sale prova per 140 musicisti e 200 spettatori, la biblioteca per gli spartiti, la sala conferenza con 200 posti, le 12 sale studio per gli allievi del conservatorio e il ristorante con vista mozza-fiato vengono giudicati come un’inutile ripetizione degli spazi già a disposizione nella Citè de la Musique. Ma Parigi è una metropoli globale e nonostante che i frettolosi turisti si fermino a rimirare la sua immagine più stereotipata, attraverso le opere dei più famosi architetti, alcune delle quali brevemente descritte in questa rubrica, è una città che negli ultimi decenni si sta com-pletamente reinventando. Per rispondere alle critiche al gover-no Hollande è stato costretto a prendere in prestito lo slogan di Sarkozy quando era alle prese con lo stesso problema: chi può sostenere che in questo momen-to di crisi non abbiamo bisogno di una nuova musica?La Philharmonie dovrebbe aprire, con 2 anni di ritardo, il prossimo 14 gennaio 2015.

Musique, come sua integrazione iniziarono i lavori della Philhar-monie de Paris progettata da Jean Nouvel, uno dei protagoni-sti della nuova Parigi (suoi sono l’Istituto del Mondo Arabo, il museo Quai Branly e la Fonda-tion Cartier), premiato con il Pritzker, il nobel dell’architet-tura. Nouvel ritiene il progetto il suo capolavoro e in effetti è

magnifico: i 2400 posti della sala grande, con un acustica tra le migliori del mondo, “avvol-gono” letteralmente la scena. Gli spettatori seduti attorno all’orchestra ne hanno un con-tatto diretto e ravvicinato. Un arco alto 52 metri che sormonta l’intera struttura consentirà di proiettare all’esterno in tempo reale i filmati. Da anni però il

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Sul pubblicar poesie

Scavezzacollo

Ho visto le migliori penne di questa degenerazione distrutte dalla smania,

morir di fame impoverite, mute, trascinarsi per i corridoi freddi dei festival cercando una dose affamata di fan ed acquirenti, poeti sconosciuti veder bruciare copie su copie della loro invisi-bile pubblicazione nell’infinito macero di un’editoria fatta moloch divoratore, digerente libri - evacuante soldi.

Chi inizia un’alta conversazione con gli ormai pochi interessati alla poesia per poi finire affib-biando ai malcapitati l’ennesima silloge come se essa fosse la mas-sima espressione e conclusione di ogni ragionamento sull’arte.Chi intasa i cataloghi on line di copertine e descrizioni telegrafi-che credendo ancora ai prezzo-lati tentatori che gli promisero massima esposizione nel mondo della cultura.Chi, finiti parenti ed amici ai quali regalare copie per ogni occasione e festività, termina-ta la lista di critici e poeti dai quali aspettarsi non spontanei commenti, usa gli scatoloni di libri in propria dotazione per contratto per stipare librerie e aggiustare gambe di mobili.Chi sfoggia una bibliografia da

di Matteo [email protected]

di MaSSiMo [email protected]

ché è il suo animo a imporglielo ma solo per vederla poi ingialli-re sull’ennesima mensola.Chi, non sapendo a chi chiedere se è o non è un vero poeta, si ritrova a credere che sarà un libro a incensarlo infine.Chi ti riempie di poesia, di gioia e di speranza in una qualche sala semivuota ed alla fine ti indiriz-za verso il banchino là in fondo per lasciare qualche obolo.Chi non andrebbe mai a leggere davanti ad un pubblico senza conoscere i numeri del suo

conto in banca.Chi non crede alla diffusione libera, svincolata, della poesia come forma di comunicazione o manifestazione, di comunione tra esseri senzienti e predisposti ma riconduce il tutto a quel prezzo in quarta di copertina.Chi non indietreggerebbe di un sol passo di fronte anche alla critica più accorta ed empatica perché tanto il numero delle co-pie vendute vale più di qualsiasi spontaneo apprezzamento.Non mi si è visto ancora su pubblicazioni a mio nome, ma aleggiare tra strade e byte in cerca di inchiostro, andando incontro alle persone prima che ai poeti, comunque in attesa, fremente ed ingenua, di finire in una qualsiasi delle categorie summenzionate.

far paura, titoli improponibili o finto-aulici uno dietro l’altro come coppe polverose sugli scaffali, confondendo uscite con passi evolutivi.Chi va in giro dicendo che come il proprio editore non ce n’è e poi finisce ammettendo che è giorni che cerca di parlarci ma il telefono squilla a vuoto.Chi, come ad un appuntamen-to al buio, si ritrova alla presen-tazione della propria fatica al fianco di un qualunque critico (o, forse, sempre lo stesso), chiamato dall’editore, il quale trova nei suoi scritti analogie alle quali non aveva mai pensa-to! (Magari perché non esistono affatto...)Chi neanche ti conosce e pro-rompe sulla rete con un “Ciao! Vuoi acquistare il mio libro?” e

se gli chiedi perché invece non organizza letture in bar o piazze ti risponde perché così fa i soldi, ignorando che l’unico modo per far soldi per noi sconosciuti è lavorare.Chi pubblica per la propria soddisfazione consapevole di non apportare niente di nuovo ma ben deciso a piazzarsi là in mezzo a prendersi gli applausi.Chi scambia raccolte eterogenee di scritti risalenti a periodi an-che molto diversi tra loro per un lavoro compiuto fregandosene se il libro che tanto brama poi sembrerà un’accozzaglia senza capo né coda.Chi vince i concorsi per opere edite indetti, nascosti tra gli altri, dai suoi stessi editori non cogliendone affatto il paradosso.Chi non ultima una poesia per-

IndimenticabileDiurno e notturno. sempre gestirsi.Farsi orologio.e lancettarsi.E disconoscersi.E andare avanti. Non tutto spingersi.Non appassirsi.Si, coltivarsi.Provare estasi.Un po’ esaltarsi.Poi un segnaposto. Dove sedersi.Pellegrinare.Ginnasticarsi.

Mettere ordine.Bibliografarsi.Provare il suono.E poi accordarsi.Trovare un bilicoDove appoggiarsiE declinareUn po’ sfogarsiAvere un dubbioPer rinnovarsiE poi ogni tantosottolinearsiun po’e un pòper romanticarsi

Né prima né dopoPer sognarsiEssere paghiMa non pagarsiFarsi rugiadaUn po’ bagnarsiEssere uvaavvinazzarsiNel chiaroscuroInginocchiarsiFare l’acrobataQuasi cascarsiCosì indimenticabileda non ricordarsi.

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nelle arti figurative lo sguardo assume da sempre una importanza notevole, tale da

condizionare la fruizione dell’o-pera, e questo è tanto più vero in fotografia, dove lo sguardo del fotografo, incarnato nello sguardo registrato e reso indelebile dalla fotocamera, poi replicato nello sguardo dell’osservatore dell’im-magine, si incrocia fatalmente con lo sguardo della persona o delle persone raffigurate nell’immagine stessa. Roland Barthes, osser-vando una fotografia del fratello minore di Napoleone, esclamava con una certa meraviglia “Os-servo gli occhi che hanno visto l’Imperatore!”. Sicuramente non avrebbe mai esclamato qualcosa del genere davanti ad un sem-plice ritratto dipinto, perché lo sguardo fotografato ha una forza ed un impatto che sono impensa-bili nella pittura. In fotografia lo sguardo, al pari della luce, assume infatti la valenza di un vettore, e si caratterizza per la direzione, l’in-tensità ed il verso. Lo sguardo dei personaggi raffigurati può essere rivolto verso il fotografo, ovvero verso l’osservatore dell’immagine, ed incrociare così lo sguardo di chi guarda. Mentre lo sguardo del fo-tografo è di solito caratterizzato da una curiosità più o meno intensa (quando non patologica), quello dell’osservatore dell’immagine oscilla fra i diversi gradini che se-parano l’interesse dal disinteresse, l’approfondimento dalla superfi-cialità. Lo sguardo del personaggio raffigurato si articola invece in un numero di possibilità molto più esteso, può essere complice o infastidito, interrogativo o irritato, stupito o compiaciuto, umile o altezzoso, secondo una gradazione di emozioni che comprende tutte le sfumature dell’animo umano. Lo stesso sguardo può essere dritto e deciso, oppure può essere lanciato di sghembo, ruotando leggermente la testa, ma non gli occhi, o indirizzato dal basso verso l’alto abbassando la fronte. Talvolta lo sguardo rivolto verso il fotografo sembra attraversarlo senza vederlo, senza percepirne la presenza, concentrato su qualcosa che si trova alle sue spalle, verso qualche punto dell’orizzonte o dell’infinito. Ma lo sguardo del personaggio raffigurato può essere rivolto anche altrove, verso oggetti

o persone posti al di fuori dell’in-quadratura, e di cui l’osservatore intuisce la presenza, immaginan-dola ma senza poterla verificare. Talvolta invece lo sguardo è rivolto verso qualcosa o qualcuno posto all’interno dell’inquadra-tura, con un effetto di corto circuito visivo, in cui l’osservatore dell’immagine vede il personaggio che guarda qualcosa che anche lui riesce a vedere. Se i personaggi raffigurati sono più di uno, nasce fra di essi un rapporto di sguardi che può essere semplice (nessuno dei personaggi guarda nessun altro personaggio) o variamente com-plesso. Tutti i personaggi possono guardare nella stessa direzione, diventando una cosa sola in base alle leggi della Gestalt, oppure guardano in direzioni diverse, dividendosi in due o più gruppi di cui uno generalmente prevale nu-mericamente sugli altri, a meno di una perfetta simmetria di sguardi

opposti. Se i personaggi incrocia-no gli sguardi si realizzano situa-zioni estremamente variabili, uno guarda l’altro essendo riguardato, oppure senza essere riguardato, oppure ambedue guardano uno terzo personaggio che guarda al-trove, e lo fanno da punti di vista simili o diametralmente opposti, mentre il personaggio che guarda altrove può rivolgere, direttamente o indirettamente, lo sguardo verso uno solo degli altri, innescando dei rapporti complicati e tessendo una vera e propria rete di sguardi che l’osservatore dell’immagine sarà chiamato a decifrare e ad interpretare. Spesso lo sguardo è accompagnato da un gesto della mano che lo rende ancora più esplicito, ma vi sono anche degli sguardi nascosti. Come quello di chi indossa degli occhiali scuri, che rendono lo sguardo impene-trabile, alimentando così l’ambi-guità della visione.

di daniLo [email protected] Fenomenologia dello sguardo

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Parlare delle origini di Pra-to e della Val di Bisenzio significa anche parlare del-

la famiglia Forti. È stato questo il tema portante dell’incontro – curato dalla Fondazione CDSE – che si è tenuto sabato 15 novembre alla villa del Muli-naccio dal titolo “La storia della famiglia ebrea Forti e il tesoro della Sinagoga”. A parlarne sono stati studiosi e eredi della fami-glia, soffermandosi sugli aspetti principali che hanno legato i Forti a questo territorio a Nord di Prato. Silvia Sorri, storica dell’età contemporanea, ha pre-sentato la storia della famiglia a partire dalle origini. Nel 1882 i Forti, di origine ebrea, si trasfe-rirono da Prato nella bassa Val di Bisenzio, e, da commercianti di tessuti, divennero proprietari di un lanificio a ciclo completo. Fu Beniamino Forti in partico-lare il creatore di uno stabili-mento moderno che contava centinaia di operai provenienti da tutta la vallata. Intorno al 1890 nacque quella che si può definire una città-fabbrica: furo-no costruiti palazzi abitativi per gli operai, un asilo, una scuola, una biblioteca e altre strutture a carattere ricreativo e solidaristi-co. Promosse inoltre numerose attività formative per i suoi operai. La figura di Beniamino Forti e dei suoi successori si lega anche all’intensa attività politica e culturale della prima parte del ‘900. Nel 1912 infatti il lanificio Forti partecipò alla formazione dell’Unio-ne Industriali; Beniamino Forti inoltre fu assessore alle finanze del Comune di Prato. Ma il ruolo che forse conosciamo meno della fa-miglia è quello di mecena-te, una passione che vide i Forti stringere una profon-da amicizia con Giorgio De Chirico. Come ci racconta Attilio Tori, è nella figura di Giorgio Castelfranco, marito di Matilde Forti, storico, critico dell’arte e anch’egli da parte di madre appartenente alla famiglia Forti, a cui si deve la cosiddetta collezione Forti – Castelfranco. Prima degli anni ’30 Castelfranco aveva raccolto più di 30

La famiglia Fortitra mecenatismoe solidarietà

di LetiZia [email protected]

opere del padre della metafisi-ca. Come si evince da alcune corrispondenze De Chirico chiamava Castelfranco proprio mecenate. Il pittore era molto affezionato al critico d’arte (dal 1936 direttore di Palazzo Pitti) e non disdegnava di chiedere molto spesso dritte lavorative, quando gli affari andavano male. La presenza in archivio di numerosi dattiloscritti testimo-nia lo stretto rapporto tra i due e l’interesse che Castelfranco nutriva per la pittura metafisi-ca già dal 1918. È l’opera “Le muse inquietanti”, proprio del ’17-’18, senz’altro il dipinto

più importante della collezione. Si tratta di uno spazio aperto sul quale sono situate in primo piano due statue classiche con la testa di un manichino da sartoria e circondate da diver-si oggetti. Il critico Eugenio Borgna definisce le figure come intrise di angoscia e dispera-zione per l’anonimità dei volti, quasi a dare l’impressione di “un silenzio stupefatto e lacerante”. La forte relazione instaurata con i Forti è inoltre testimoniata da un dipinto, “Ritratto di Matilde Forti”. È un quadro del 1921, che dimostra l’interesse che De Chirico nutrì per l’arte Rinasci-

mentale. Il volto ovale e l’espres-sione nostalgica della signora ricordano l’arte di Raffaello, che il pittore metafisico ammirava moltissimo. Il ritratto fu rega-lato da Matide Forti a Rodolfo Siviero, agente segreto e storico dell’arte, noto per la sua impor-tante attività di recupero delle opere d’arte trafugate dall’Italia nel corso della seconda guerra mondiale. Altro dipinto facente parte della collezione Forti-Ca-stefranco che però il pittore volle disconoscere, è “Autori-tratto con colonna”. È con ogni probabilità il ritratto del 1919 che Siviero cita in un dattilo-

scritto dei primi anni ’40, ma che da De Chirico fu dichiarato come un falso. Siviero rispose prontamen-te, difendendo l’autenticità dell’opera. Anche questo dipinto fu donato a Siviero da parte di Matilde Forti nel 1943. Studi recenti hanno dimostrato che il dipinto è stato più volte ri-maneggiato, con particola-re riferimento alla colonna, al volto e alla capigliatura dell’artista. Queste e altre opere d’arte furono, come già detto, tutte vendute dopo il 1939. Castelfranco fu infatti licenziato da Pa-lazzo Pitti per effetto delle leggi razziali e costretto a vendere le opere d’arte che servirono a pagare il viag-gio in America dei figli.

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Fra il 1833 e il 1846 il geografo carrarese Emanuele Repetti pub-blicò un’opera di grande interesse, il monumentale “Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana”. In quel testo fonda-mentale, a proposito del termine “Affrico” scriveva: “Nome comune a molti rivi probabilmente deri-vato dal loro andamento verso la direzione del vento Affrico. Tali sono i piccoli torrenti (fra i quali) Affrico nel subborgo orientale di Firenze”Ora, con tutto il rispetto dovuto al Repetti, occorre dire che, almeno nel caso dell’Affrico “fiorentino”, ha preso un clamoroso abbaglio: l’origine del nome ce la spiega infatti nel “Ninfale fiesolano”, con dovizia di particolari e quindi senza tema di smentite, Giovanni Boccaccio, che si preoccupa an-che, una volta per tutte, di chiarire l’etimologia degli altri principali corsi d’acqua fiorentini (fatta eccezione per l’Arno).

Andiamo con ordine: Mugnone, nel poema citato, è un cacciatore che, vagando nei boschi della valle Faentina, “ad una bella fonte trovò una ninfa star tutta solet-ta”; neanche fosse re Carlo che tornava dalla guerra comincia ad inseguirla, e, quando la agguanta, lei gli cede senza troppo resistenza. Grave errore, perché Diana, signo-ra delle ninfe, “di sul soprastante monte abbracciati li vide fronte a fronte” e, mentre scaglia un’unica freccia che inchioda insieme i due amanti, grida: “i vostri nomi faranno dimora nel fiume dove siete in sempiterno!”.Mugnone aveva un figlio, Girafo-ne, a sua volta padre del pastore Africo (fra l’altro ai fiorentini suonava male la “f” singola, così la raddoppiarono senza tanti compli-

menti), che evidentemente aveva ereditato i cromosomi del nonno: infatti, non appena raggiunta l’età della ragione, pensò bene di insi-diare una bella ninfa fino a farla capitolare con l’aiuto di Venere che, come noto, aveva in uggia Diana e non perdeva occasione per farle qualche sgarbo; dall’amo-re con la ninfa (il cui nome è a sua volta tutto un programma: Men-sola) nasce un figlio che, infrattato fra i cespugli per sfuggire alla vigilanza di Diana, viene chiamato Pruneo (da “prunaio”). La tragedia incombe: credendosi abbandonato dalla ninfa, Africo si taglia le vene

lungo un fiume che, arrossato dal suo sangue, prende il suo nome; l’oc-chiuta Diana non perdona Mensola e la trasforma in un corso d’acqua. Anni dopo, su consiglio di Apollo, capita da quelle parti Atlante che fonda una città

che, con grande modestia, chiama “Tu fies sola” e, non si sa bene in forza di quale autorità, dona a Pruneo tutta la fascia di territo-rio compresa fra la Mensola e il Mugnone, con l’Affrico al centro: così Pruneo diventa signore di una terra delimitata da nonno e madre e attraversata dal padre.Il Comune di Firenze, nel 1956, confermò implicitamente l’etimo-logia del nome, contrassegnando la confluenza fra l’Affrico e l’Arno con una colonna, la cui iscrizione recita: “Il torrente Affrico, cantato da Giovanni Boccaccio, dalla sor-giva Fiesole qui si getta nell’Arno”.

La repubblica turca che Kemal Atatürk fonda nel 1923 nasce con l’intento

di cancellare il retaggio multiet-nico dell’impero ottomano per creare un paese con un solo po-polo, una sola lingua, una sola cultura. Naturalmente questa omogeneizzazione spietata col-pisce anche la musica. La furia giacobina del nuovo regime non vieta soltanto le espressioni musicali delle minoranze, ma anche le esibizioni pubbliche dei dervisci rotanti, manifesta-zione plurisecolare del sufismo islamico. Viene bandita dalla radio la musica classica ottoma-na, che secondo Atatürk “non riflette i veri valori della cultura musicale turca”. Ma una volta che la musica ottomana è stata “depurata” dalle influenze arabe, bizantine e persiane non rimane molto. Per sopravvivere, quindi, questa entità mutilata si ispira alla musica europea: il fondatore della Turchia è convinto che sia possibile costruire un paese moderno soltanto attraverso l’europeizzazione. In realtà si tratta di un etnocidio.Negli ultimi 15-20 anni molti artisti hanno lavorato intensa-mente per ricomporre questo

di aLeSSandro [email protected]

di faBriZio [email protected]

a cornice), kanun (cetra su tavola), ney (il flauto suonato da Erguner), percussioni, tanbûr (liuto a manico lungo), ‘ûd (liu-to a manico corto) e viella. Buona parte dei ventuno brani è stata scritta da compositori armeni attivi alla corte ottoma-na. La perizia tecnica e l’attenta scelta del materiale fanno del CD un’opera indispensabile per chiunque voglia conoscere la ricchezza musicale dell’impero ottomano. Le ampie note del libretto, scritte da Erguner, forniscono un complemento indispensabile all’ascolto. Bella e curata come sempre la confe-zione, che conferma la validità dell’etichetta udinese. Sarebbe bello se tutti facessero i dischi così. Analogamente a quanto fa la valenciana Mara Aranda con la musica sefardita, questi artisti ci danno la possibilità di cono-scere un patrimonio musicale che rischiava di andare perduto. Lo stesso che Atatürk voleva cancellare. Col tempo, fortuna-tamente, l’effetto di questa poli-tica sciagurata è diminuito fino a scomparire: oggi la Turchia ri-suona di mille musiche diverse, antiche e moderne, accogliendo le influenze straniere ma senza rinnegare il ricco patrimonio dei secoli passati.

mosaico infranto. Uno dei più attivi è stato Kudsi Erguner, musicista e musicologo turco.Nato a Diyarbakır nel 1952, Erguner ha studiato la tradizio-ne sufie si è imposto come uno dei massimi esperti di musica clas-sica ottomana. Nessuno meglio di lui, quindi, potrebbe dirigere i seminari che la Fondazione Giorgio Cini di Venezia sta dedicando a questo patrimonio. In questa importante inizia-

tiva lo affianca da Giovanni De Zorzi, ricercatore di Etno-musicologia all’Uni-versità “Ca’ Foscari” della città lagunare. De Zorzi è il più autorevole esperto italiano della ma-teria, alla quale ha dedicato un bel libro intitolato Musiche di Turchia (EDT, Torino 2010). Cia-scun seminario viene documentato da un disco. Il primo, Composito-ri alla corte ottomana

(2013), proponeva opere di compositori provenienti dalle numerose comunità linguistiche e religiose dell’impero ottoma-no: armeni, greci, ebrei, turchi. Il secondo, Compositori armeni nella musica classica ottoma-na (2014), si concentra sul patrimonio musicale di questa minoranza. Se si eccettuano Er-guner e De Zorzi la formazione dell’Ensemble Bîrûn è diversa, ma gli strumenti sono in gran parte gli stessi: def (tamburo

Suoni redenti

Via Lungo l’AffricoFra la Mensolae il Mugnone

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Può un libro metterti una gran voglia di finirlo e contempo-raneamente metterti una gran fame di ciccia? Può senz’altro se a scriverlo, insieme ad Alessan-dro Rossi già nostro direttore ai tempi del Nuovo Corriere, è Dario Cecchini, macellaio in Panzano, ristoratore, declama-tore di versi, istrione. Il libro di cui parliamo è Aprilante, pensato, scritto e pubblicato dallo stesso Cecchini in quella che promette essere una collana da nome Nero di Ciccia, ça va sans dire. Aprilante è un giallo, un noir, una storia ingarbugliata che ha per protagonisti gli stessi autori, un bel po’ di abitanti di Panzano e dintorni (veri e verosimili) e che ruota su alcune morti misteriose e sulla bottega

del cecchini, calamita di affama-ti di ciccia e verità. Così sempre in bilico tra la storia di paese, l’autocelebrazione e l’intreccio misterioso il libro scorre facile e avvincente tra un sushi del chianti, una caccia al cinghiale, un po’ di morti ammazzati e se alla fine rimani con un po’ dubbi e una sensazione di una troppa fretta nel chiudere la vicenda, ti sei intanto appas-sionato ai personaggi coloriti e colorati e chiudi il libro con la voglia di ritrovarli presto ad indagare. Il libro non è di facile reperibilità, lo trovate natural-

mente a bottega dal Cecchini, all’edicola di Panzano, alla via dei Libri in via Martelli a Firen-ze oppure scrivendo una mail a [email protected]

Simulare ciò che non si è, dis-simulare ciò che si è: voglio cominciare da qui a parlare

di “Ars est celare artem” del filo-sofo Paolo D’Angelo (Quodlibet, pp. 176, € 13,50), un libro che ho letto tutto d’un fiato, poiché semplice ed elegante nel linguag-gio ma prima di tutto accattivante nella ricostruzione storica dello sviluppo dell’argomento: dalla filosofia greca, dall’ars oratoria di Cicerone fino all’orinatoio, ai ready-made di Marcel Duchamp.Se l’argomento è il “nasconder l’arte”, l’Autore rievoca all’uo-po il concetto di “sprezzatura”, neologismo coniato da Baldassarre Castiglione nel suo “Il Corte-giano”: “per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”. E’ gustoso, il Castiglio-ne, quando ‘applica’ la sprezza-tura, per esempio, all’impiego di cosmetici: “Non vi accorgete voi, quanto più di grazia tegna una donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa così parcamente e così poco, che chi la vede sta in dubbio s’ella è concia o no, che un’altra, empia-strata tanto, che paia aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare?”“Pars est eloquentiae eloquentiam abscondere” - diceva Seneca. Anche nell’oratoria forense è essenziale la capacità di nasconder l’arte, di occultare le capacità re-toriche, facendo credere di parlare in modo semplice e non studiato. Ha scritto Flavio Filostrato nella “Vita di Apollonio di Tiana”: “nei giudizi l’eccesso di abilità, quando è palese, rischia di riuscire danno-so, quasi che congiurasse ai danni di chi dovrà emettere il verdetto; e solo se si dissimula può ottenere il successo, giacché l’autentica abilità sta nel nascondere ai giudici che si è abili”. Del resto, chi proverebbe mai compassione per le disgrazie di chi, in un momento di peri-colo, vedesse enfatico, tronfio e intrigante venditore di eloquenza?Si dice “sprezzatura” ma anche, con qualche variazione semantica, “grazia”, “nonchalance” e quel certo “non-so-che” che inclu-de un’aura di mistero, di non spiegabile: il tutto però, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la spontaneità, con la natura

di MiCheLe MorroCChitwitter @michemorr

nasce certo da sé. Non di assenza, dunque, bensì di dissimulazione dell’ornamento, dell’artificio, si tratta. Perché, come dice il Tao: “la più grande perfezione deve sembrare imperfetta, e allora sarà infinita nel suo effetto; la più grande abbondanza deve sembrare vuota, e allora sarà inesauribile nel suo effetto”.Nasconder l’arte, anche nella moda. Di un dandy del Novecen-to, Drieu La Rochelle, François Mauriac soleva dire: “Era più che ben vestito: era ben malvestito”. La perfezione del vestire – così ha detto Baudelaire del dandy – consiste nella semplicità assoluta, che è poi il modo migliore per distinguersi.Ecco, volendo inverare e non già - come potrebbesi pensare – banalizzare quanto fin qui detto, voglio citare - fuori dal testo – il personaggio del Tenente Colom-bo; si, proprio lui, quello della felicissima serie televisiva che mol-ti (me incluso) da sempre amano; quel suo mescolare una bonomia reverenziale, talora adulatoria, con una straordinaria trasandatezza, quante volte è servito a rassicurare, quante volte ha spinto il sospetto assassino a sottovalutare chi aveva di fronte ed ha, con ciò, spianato la strada al disvelamento dei fatti realmente accaduti? Quale impres-sionante capacità di interpretarli è riuscito a nascondere, il ‘povero’ tenente? Non è un fulgido, popo-larissimo esempio di nascondere l’arte?

così-come-è: l’arte deve comun-que supplire all’insufficienza della natura, senza l’aiuto dell’arte raramente essa è tollerabile. Così, uno dei più bei capitoli del libro è dedicato alla contrapposi-zione tra giardino all’italiana – con le aiuole dai contorni lineari, i parterres fioriti, i viali di ghiaia, le piante scolpite dall’arte topiaria e le fontane - e giardino all’inglese - con le libere ondulazioni del ter-reno, i prati verdi, gli alberi casual-mente raggruppati, i liberi corsi d’acqua e i laghetti - nato come reazione, sì, “alle forme geometri-che, regolari, architettonicamente pianificate, proprie del giardino all’italiana o alla francese”, ma questo giardino informale non

La piùgrandeperfezione deve sembrare imperfetta

I delitti del Chiantimetton fame

di PaoLo [email protected]

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Cartello pubblicitario in latta se-rigrafata risalente alla prima metà del 1900. Vi si legge il nome del sapone ADRIA e della ditta che lo fabbricava, Pollitzer, Trieste.Augusto Pollitzer divenne pro-prietario dell’omonima fabbrica di sapone nel 1860, essa per molto tempo aveva prodotto solo il clas-sico sapone bianco di olio di oliva, oggi detto di Marsiglia, e Augusto fu il primo ad impiegare la soda al posto della consueta cenere e ad ampliare e variare la produzione. Dopo un inizio difficile la fabbrica si espanse molto arrivando ad esportare i suoi saponi prima in tutto l’Impero Austro Ungarico e poi, con Alfred in tutto il mondo. Nel corso della prima guerra mon-diale gli austriaci impiantarono a Lubjana una propria fabbrica di sapone usando materie prime e macchinari trafugati alla fab-brica Pollitzer. Rimessa in piedi alla fine del conflitto, raggiun-se velocemente il successo di

prima. Nel 1938 si costituì come “Antiche Ditte Riunite Industrie Adriatiche”, ADRIA appunto, come si legge nella nostra placca pubblicitaria, che risale quindi a questo periodo. Le guerre, come tutti sanno o dovrebbero sapere, portano distruzione e morte, nel 1943, Direttore e maestranze della ADRIA furono imprigionati e materiali, prodotti e macchinari, di nuovo trafugati e confiscati con il beneplacito di un Commissario nominato dal Comando Tedesco e che, a guerra finita, fuggì impu-nito e, ritiratosi a Klagenfurt, suo paese natale, visse felice e contento dei suoi illegali proventi. Inden-nizzi di guerra non ve ne furono mai. Ultimo erede e capo di questa meritoria Ditta fu Andrea, personaggio poliedrico e cosmo-

polita, organizzatore di spedizioni nel Caucaso, in Marocco e in Islanda e grande fotografo, fu proprio lui che nel 1962, visto il decadere dell’uso di saponi e il dif-fondersi delle lavatrici, ne decise con dolore, prima la chiusura e poi l’ abbattimento. Ed è proprio a lui che Trieste ha intitolato una strada e un Concorso Fotografico Internazionale.

4 minuti e 45 secondi. È il tempo necessario per leggere questo pezzo. Se non disponi

di questo tempo non cominciarlo neanche. Perderesti tempo e il tempo è denaro, il tempo è tiran-no, c’è tempo per ogni cosa e chi ha tempo non aspetti tempo.No, non sto collezionando frasi sul tempo per puro esercizio di stile, è solo che oggi come ieri, e come il resto della settimana, mentre scen-do da un vagone e vengo spinta a pressione per entrare nel succes-sivo, mi domando dove andiamo tutti così di fretta e perché. Dove, non sono fatti miei, ma il perché è lo stesso per tutti: non abbiamo tempo e quindi corriamo. A Madrid, Bogotà, Londra, Ca-tania, Honk Kong o Teheran non abbiamo tempo e lo ripetiamo in tutte le lingue possibili, continua-mente, come fosse un mantra. E allora mentre probabilmente a Nuova Delhi in metro si fa yoga o si levita – il che, a pensarci bene, sarebbe molto utile per ridistribu-ire in maniera più ottimale ogni metro quadro del vagone – e a Tokyo si sfogliano fumetti – evviva gli stereotipi – a Madrid, per non perdere neanche un minuto di tempo, in metro ci si trucca, si leggono 4 righe tra una fermata e l’altra fin quando qualcuno non ci costringe a mettere il libro elet-tronico o cartaceo sotto il mento, stile bavaglino, e poi si fa la maglia – eh sì, anche quello, visto che riscoprire gli antichi mestieri è cosi di moda ultimamente – si ripassa la lezione di storia o di musica e poi naturalmente si prendono ap-puntamenti o si flirta su whatsapp, digitando alla velocità della luce, si aggiorna l’agenda e si mandano milioni di email. Perché la Metro di Madrid non è solo colorata, moderna, veloce, pulita, grande, semplice, ma anche iperconnes-sa. Su qualche linea, nonostante la lenta discesa agli inferi sulle chilometriche scale mobili ci faccia sentire paurosamente vicini al nu-cleo della terra e la temperatura sia da foresta equatoriale, si continua a tenere la testa bassa e a digitare quasi ossessivamente PERCHÈ NON C’È TEMPO DA PERDE-RE! Certo, tutto ciò con il rischio di infilarsi in un vagone che va nella direzione opposta (la sotto-scritta ha un master in questo tipo di perdite di tempo) o di saltare la

di vaLentina [email protected]

a Cura di CriStina [email protected]

tutte le cose che potrei fare se lo assumessi per i prossimi mesi: potrei andare a yoga 2 volte a settimana, iscrivermi al corso di photoshop, riprendere le lezioni di chitarra, recuperare la vecchia e sana abitudine dell’aperitivo il giovedì sera, il mercoledì andare al cinema in bianco e nero, andare in piscina in pausa pranzo... Ma con questa nuova agenda quando troverei il tempo di scrivere il pezzo della prossima settimana per CUCO, andare dall’allergologo, provare il menù per la cena di fine anno con i colleghi, fare la lista dei regali di Natale, andare a vedere il Re Leone a teatro e finire gli esercizi di portoghese che il mio prof ancora ottimista si ostina a darmi per casa?Ecco, siamo punto e daccapo. Così facendo non avrei più tem-po, dovrei correre da un punto all’altro della città, dalla palestra al teatro, dalla piscina all’ufficio... Ma non sarà che il tempo di cui disponiamo in fondo è troppo e lo riempiamo come una valigia pensando che sia come quella di Mary Poppins?“Senta, mi scusi se la interrompo, la sua idea di comprare il tempo mi piace, è geniale, ma io non ho tempo di starla a sentire, per cor-tesia mi mandi un email e quando ho un po’ tempo la leggo”.

propria fermata nonostante la voce metallica de doña MetroMadrid abbia dato l’avviso a tempo debito e ripetutamente.È tutto inutile, il tempo ci insegue e non c’è modo di fermarlo o di sdoppiarsi per fare più cose allo stesso tempo. Il tempo non si può prestare, scambiare né comprare, mmm, forse questo però si può fare... In effetti qualcuno ci ha già pensato e con il business del tem-po ha creato un piccolo impero. Il motto dell’azienda madrilena di vendita del tempo è “Déjamelo a mi” che suona come un rassicuran-te invito ad affidarsi. Mi sembra quasi di vederlo il virile Direttore Marketing che fa l’occhiolino mentre dice “Niña, lascia fare a me, ci penso io”. È proprio questo quello che mi dice quando lo chia-mo e inizio a spiegargli svoglia-tamente gli impegni dei prossimi giorni che prevedo di non riuscire

a portare a termine per ragioni di… guess what? Tempo!E così mi va sciorinando tutti gli obblighi e le commissioni di cui la sua azienda si farà carico al posto mio alleggerendo la mia to do list, nonché la coscienza. Potranno prenotarmi il volo per tornare in Italia a Natale cercando prima la migliore combinazione di prezzi e orari, assoldare una nuova donna delle pulizie che non mi inseguirà perché le ricompri i prodotti per la pulizia finiti da tempo, andran-no in Ambasciata per recuperare il passaporto che ho rinnovato e abbandonato lì da settimane, ritireranno il cappotto in tintoria prima che arrivi l’estate e sulla base di precise indicazioni mi riempi-ranno il frigorifero ogni 3 giorni, cambieranno in profumeria un regalo non proprio gradito ecc. ecc…Mentre lo ascolto fantastico su

Tempus Fugit

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

rebusspagnolo

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Tanti auguriil Portolano

Periodico trimestrale di lettera-tura Fondato da Piergiovanni Permoli, Arnaldo Pini, France-sco GurrieriDirezione: Francesco Gurrieri (Responsabile), Maria Fancelli, Ernestina Pellegrini Si pubblica a Firenze con l’Editore “Polistampa” “il Portolano” vede la luce a Firenze nel dicembre 1994 / gennaio 1995 .Nacque dalla convergenza di amicizia, amore per la scrittura e la critica letteraria, maturata inizialmente con Alessandro Bonsanti (in anni preceden-ti) da parte di Arnaldo Pini, Ferruccio Masini, Piergiovanni Permoli, Francesco Gurrieri; quest’ultimo coagulò, con impegno pragmatico, quelle potenzialità, facendovi conver-gere gran parte della cultura fiorentina, attivando la rivista.Fra i collaboratori vi sono stati o vi sono Sergio Givone, Giuseppe Bevilacqua, Clau-dio Magris, Ferruccio Masini, Enzo Siciliano, Alessandro Parronchi, Sandro Veronesi, Giorgio Luti, Mario Luzi, Sauro Albisani, Luigi Baldacci, Enrico Ghidetti, Marco Mar-chi, Maria Fancelli, Ernestina Pellegrini, Giuseppe Nicoletti, Anna Dolfi, Renzo Gherardini, Marco Fagioli, Mario Materas-si, Stefano Lanuzza, Giovanna Mochi, Gloria Manghetti ed altri. “il Portolano” ha curato nume-ri monografici su Gadda, Vit-torini, Hemingway, Malaparte, Saba, Pound, Betocchi, Luzi, Quasimodo, Baldacci, Parron-chi, Quinto Martini, Bonsanti,

Sartre, Strati, Cases , Magris.Numerose sono le presentazio-ni e le incursioni critiche sulla letteratura in Europa. Sono stati dedicati interi numeri agli scrittori della “giovane Germa-nia” e a quelli della “Globish Literature” inglese. Due numeri monografici (2008) sono stati dedicati alla poesia in Italia. Nel 2010 si sono raccolti contributi sulla “narrativa sociale” nel secondo Novecento, con particolare attenzione a Pasolini.

Vi è particolarmente curata an-che la redazione grafica, bandi-te le fotografie e ammessi solo il disegno e l’incisione , così da farne, a giudizio di molti, “una delle riviste più raffinate degli ultimi decenni”. “il Portolano” si è progressiva-mente consolidato nel tempo, come periodico di letteratura di area fiorentina, toscana e del centro Italia ed è giunto oggi al suo ventesimo anno di vita, col n. 76-77. Può ormai essere considerata

come la rivista erede di quelle novecentesche , quali “La Voce”, “Campo di Marte”, “Il Frontespizio”; pertinace testi-monianza letteraria cartacea a fronte dell’irreversibile avan-zare informatico della “pagina on line”. Del “Portolano” c’è la con-solidata consuetudine della presentazione alla sua uscita, effettuata in luoghi pubblici come i palazzi comunali, il Gabinetto Vieusseux, le grandi librerie.

di lettereletterati

20 annie

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Presentazione di Teoria, 1976, Mancamenti, 1978, Timparmo-nico, 1971: tre opere presentate a Villa Romana - dove Renato Ranaldi nel 1984 ha già esposto una serie di disegni raccolti nel volume Angherie - sono nuclei cellulari di un atteggiamento artistico che si realizza in un ricco dispiegamento di concetti e lin-guaggi adottati nell’arco di tempo di oltre cinquanta anni.Sabato 29 novembre ore 18.00

Immagini del Vietnam, realizzate nel 2007: persone, mercati, cibi, stili di vita di un paese esotico provato negli anni sessanta e settanta da una guerra lunga e devastante. Tutto può essere reso interessante dall’oc-chio fotografico, il più banale oggetto quotidiano, ogni forma persino inconsisten-te come quella di un’ombra o di una piega può rivelare aspetti inconsueti e misteriosi ignoti allo sguardo comune. Con un proce-dimento inverso la fotografia rende familia-re l’esotico e nessuno tra i fotografi si sottrae all’attrazione di testimoniare le realtà osser-vate durante un viaggio. Cartier-Bresson dalla Cina riporta foto di cinesi, un’ovvietà all’apparenza, in realtà l’immagine fotogra-fica constata, ferma cioè il momento che è destinato a essere velocemente sostituito dal

tempo che tutto trasforma. Nelle realtà os-servate in Vietnam da Catherine de Zagon è escluso ogni elemento turistico o puramente estetico come quello degli antichi edifici. Catherine de Zagon, nata a New York, è cresciuta a Firenze dove ha frequentato l’Istituto d’Arte. Ha vissuto in seguito a Parigi, Los Angeles, New York, Bruxelles. Di formazione internazionale è restata molto legata all’ambiente e alla cultura fiorentina e toscana. Tra i suoi interessi oltre alla fotografia ci sono la cucina e la moda. Attualmente vive in Abruzzo dove lavora nella modaCatherine de Zagon dal Vietnam al Caffè Letterario Gallery Le Murate Firenze 1- 29 dicembre 2014 Foto&Foto a cura di Elda Torres

The quick brown fox jumps over the lazy dog non è un ambi-gramma, non è un anagramma, non è un cronogramma,non è un lipogramma, non è un metanagramma, non è un para-gramma, non è un tautogram-ma; non è una mostra in cui i media tracciano forme in grado di dialogare a livello estetico e metaforico; non è una mostra che comprende dodici disegni a carboncino di celebri dipinti dell’espressionismo astratto; non è una mostra su una lettura occulta del post strutturalismo, legata principalmente agli ultimi scritti di Ro-land Barthes; non è il nostro primo solo show istituzionale in Svizzera; non è una critica rigo-rosa al capitalismo contemporaneo; non è una mostra che mette in luce le connessioni tra una cosa e un’altra; non è una mostra che rivaluta la figura di un artista non famosissimo; non è una mostra collettiva che dovrebbe invece essere in-tesa come una “situazione” collettiva; the quick brown fox jumps over the lazy dog non è una nuova retrospettiva sull’arte povera; non ha a che fare con la new media art; non è una mo-stra di Art Brut; non è una soluzione plausibile

al senso di solitudine cosmica della specie umana; non è una speculazione aprioristica sulle falle e sui favoritismi del sistema arte; non è il final show degli studenti de la Ecole Cantonale d’art de Lausanne; non è il desideratissimo sequel di Final Fantasy VII; non è un nuovo film di Cristopher Nolan; non è un’antologica di pittura, the quick brown fox jumps over the lazy dog non è l’evento colla-terale di “Shit and Die”; non include statement di Ludwig Wittgenstein, Gilles Deleuze o

Giorgio Agamben; non è un percorso proces-suale per superare l’ansia da prestazione.Fino al 20 dicembre 2014 Galleria Pananti, viale del Poggio Imperiale 32, Firenzeorari apertura: da lunedì al sabato 15.00 - 19.00 e su appuntamento ([email protected])

Dopo il successo della prima edizione, il Teatro Solare presenta la seconda edizio-ne de Il Sole d’Inverno, la breve stagione teatrale presso il Tea-tro di Caldi-ne. In questa occa-sione verrà presentato Cinquanta! Epopea di un faticoso entusiasmo. Lo spettacolo (come già Farruscad e Cherestanì nel 2013) è stato realizzato in collaborazione con la compa-gnia fiorentina Teatro dell’Elce e nasce dalla raccolta di interviste a uomini e donne nati tra il ‘30 e il ‘40, che formano la base della drammaturgia.Cinquanta!  Epopea di un faticoso entusia-smo*Cinquanta! Epopea di un faticoso entu-siasmo è stato realizzato dalla Compagnia Teatro dell’Elce nel 2008 ed è presentato ora con un cast rinnovato di giovani attori. Lo spettacolo, selezionato per il Premio Scenario 2007, è stato distribuito sul territorio nazionale ed ha rappresentato l’Italia al Festival de Teatro por la Paz 2011 a Barrancabermeja (Colombia).Spettacolo non verbale, Cinquanta! narra l’epopea di un vivere quotidiano allo stesso tempo difficile e luminoso, l’avventura di quattro personaggi negli anni in cui la fatica necessaria a guadagnarsi da vivere era accompagnata dall’entusiasmo di un’epoca ricca di speranze. Il lavoro è il risultato di un processo di improvvisazione e scrittura scenica basato su fonti storiche, letterarie e cinematografiche, sulla consultazione degli archivi RAI e su interviste a donne e uomi-ni nati tra gli anni ‘30 e gli anni ‘40.1-2-3-4-5 dicembre 2014 ore 20:45Teatro di Caldine

Renato Ranaldi

Catherine de Zagon

in

giro

The Quick Brown Fox Jumps Over the Lazy Dog

Teatro solare

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Non meravigliatevi, i mostri che vedete,

e vedrete nel futuro, sono immagini al

microscopio: la realtà è molto, molto più

piccola. Eliminate la meraviglia e comin-ciate ad essere forte-mente preoccupati.

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L’arte del ricicloScottex

Dopo la fortunosa serie di ben 100 Finzionari, recensioni di libri inesistenti, che a dire il vero, eran venute a noia anche a chi li faceva, inizia, con Culturacomme-stibile 101, l’analisi critica delle originali sculture in Scottex di Paolo della Bella noto artista polie-drico, polimorfico e polimaterico. Egli, da un po’ di tempo, si sta cimentando nella “scultura leggera”. L’opera “Raffreddore invernale” composta da centinaia di Klee-nex usati è stata bat-tuta alla recente asta d’arte varia di Baku in Azerbaigian per 152 Manat. Le recenti sculture, plasmate in purissimo Scottex, occupano tutta l’ala nord della Cartoteca di Romagnano Sesia. Nel catalogo del museo (che abbia-mo curato insieme) spicca un lavoro, che la spirituale mani-polazione dell’artista, richiama il linguaggio del primo Michelan-giolo, o, se vogliamo, anche grazie ai pochi tratti di spiegazzatura espressionista, riesce a produrre un pathos paragonabile all’Urlo di Edvard Munch.

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www.davidevirdis.it www.confotografia.net

La cittàinterrotta

Frammentidi una ricerca dinormalità

L’Aquila5 anni dopo

di Davide Virdis per confotografia

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L

Il massacro di My Lai rimarrà per sempre nella storia dell’umanità come una delle stragi più assurde e orrende della guerra del Vietnam. A fine autunno del 1969, un numero imprecisato di civili vietnamiti disarmati, una cifra compresa fra le 350 e le 500 persone, uomini donne e bambini, furono sterminati a sangue freddo dalla compagnia C del primo Battaglione di Fanteria dell’esercito americano agli ordini del luogotenente Wil-

liam Calley Jr. Condannato in un primo momento all’ergastolo fu rilasciato solo dopo tre anni e mezzo di arresti domiciliari! Questo episodio è rimasto nella memoria collettiva mondiale come un insulto alle persone ragionevoli di ogni paese civile. In questo caso l’accostamento tra La Posada (la fattoria per cui stavano lavorando a cottimo questi raccoglitori, principalmente messicani, ma non solo) e My Lai vuole identificare nel capitalismo violento a stelle e strisce, i nemici giurati della classe operaia in genere e, in questo caso, dei lavoranti agricoli stagionali. Erano quasi tutti poveri migranti messi-cani, costretti a vivere con le loro famiglie in modo molto precario ai bordi di strade come queste, in attesa di essere chiamati per una giornata di lavoro da qualche altro “caporale” di turno.

Gilroy, California, 1972

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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